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Che ruolo per i media nella transizione alla normalità post-pandemia?

Durante la pandemia i media si sono rivelati la cinghia di trasmissione che ha permesso la diffusione e l’adozione di scelte individuali di protezione in linea con le politiche sanitarie, dalle istituzioni alla popolazione generale. Che ruolo avranno nel ‘ritorno alla normalità’?

 

 A novembre del 2021 saranno ormai passati due anni dall’inizio di questa pandemia e, si spera, saremo già ritornati ad abitudini non particolarmente diverse da quelle che avevamo prima che questo evento mettesse in crisi il nostro stile di vita.

I canali di informazione, in tutto questo tempo, ci hanno informato costantemente circa le ipotesi, le ricerche e le considerazioni passeggere sulle possibili conseguenze future a livello individuale (per la salute fisica e mentale), politico, economico e sociale, di questa pandemia.

In base alle ricerche effettuate su pandemie precedenti, era ragionevole, infatti, aspettarsi importanti conseguenze per il benessere di tutta la popolazione. Accanto all’aumento del tasso di mortalità dovuto alla malattia, si prevedeva anche un aumento generale dell’incidenza di tutto lo spettro delle risposte da stress, dei disturbi dell’adattamento, del disturbo da stress post-traumatico, di quadri ansiosi, depressivi o misti, dell’abuso di sostanze e, infine, un aumentato rischio suicidario, solo per citarne alcune (Gruber et al., 2020).

Alla luce di ciò, le ragioni della martellante copertura mediatica sulla pandemia e gli aspetti ad essa connessi sono comprensibili. Senza andare troppo a fondo, era necessario che la popolazione generale comprendesse la pericolosità del virus; era necessario diffondere informazioni sulle misure preventive da adottare per evitare il contagio; era necessario giustificare le ampie restrizioni che avrebbero impattato il nostro quotidiano per lungo tempo.

Da questo punto di vista i media si sono rivelati la cinghia di trasmissione che ha permesso la diffusione e l’adozione di scelte individuali di protezione in linea con le politiche sanitarie, dalle istituzioni alla popolazione generale. Le notizie diffuse quotidianamente hanno fornito alle persone i termini con i quali costruirsi un’adeguata rappresentazione mentale del rischio connesso alla situazione contingente (Kasperson et al., 1988) e un quadro per la sua interpretazione e il suo fronteggiamento. Ne sono la prova la diffusione dell’uso delle mascherine, dell’igienizzazione delle mani e delle superfici, della disinfezione degli ambienti, tutte misure di prevenzione ancora oggi presenti.

Il ruolo positivo dei media in tale frangente è fuori discussione e la ricerca fornisce sostegno a questa considerazione. La copertura mediatica di una malattia si associa positivamente, infatti, alla percezione della sua gravità e della sua rappresentatività (Young, Norman & Humpreys, 2008), innescando una risposta da stress che si associa alla ricerca ulteriore di informazioni (Thompson, Jones, Holman & Silver, 2019) e all’adozione di comportamenti preventivi (Melki et al., 2020).

 Come mai il messaggio è stato così efficace? La ricerca rileva che parte dell’efficacia dei media in periodi come quello che stiamo vivendo è dovuta all’impatto dei cosiddetti ‘appelli alla paura’, ovvero messaggi che sfruttano l’attivazione di stati emotivi di qualità edonica negativa e, preferibilmente, di media o elevata intensità, per stimolare l’adozione di comportamenti, atteggiamenti, emozioni, motivazioni, pensieri, in linea con il contenuto del messaggio (Tannenbaum et al., 2015). Si aggiunge, tra le altre variabili che ne sanciscono l’efficacia, anche l’effetto dell’elevata frequenza con la quale il pubblico è stato esposto a questi messaggi sui principali canali di comunicazione (principio della mera esposizione: Zajonc, 1968).

In conclusione, vedere e sentire ogni giorno il bollettino dei contagi, la situazione critica negli ospedali, le opinioni degli esperti, e ricevere continuamente istruzioni sul cosa fare per prevenire il contagio avrebbe così stimolato le persone ad essere caute e ad assumere comportamenti protettivi. Ciò a sua volta avrebbe permesso di contenere il numero dei contagi e dei morti, di per sé già elevato.

Ad oggi la situazione è cambiata. Con la politica vaccinale attuale è possibile che entro la fine dell’estate tutta la popolazione sia stata vaccinata, e il numero giornaliero dei contagi e dei morti sia sceso in maniera significativa.

Ciò che rimarrà saranno le conseguenze psicologiche, economiche e sociali, di quel che abbiamo vissuto fino adesso. Sono aumentate l’incidenza del disagio e dei disturbi mentali (Webb, McManus & O’Connor, 2021), cresce l’isolamento sociale, i cui effetti negativi per il benessere fisico e mentale sono noti da tempo (Holt-Lunstad, Smith, Baker, Harry & Stephenson, 2015), e sono esponenzialmente aumentate l’incertezza lavorativa ed economica, altrettanto pericolose (Mimoun, Ben Ar & Margalit, 2020).

Utilizzando gli stessi principi che rendono efficace la comunicazione del rischio, i messaggi diffusi alla popolazione potrebbero essere confezionati secondo modalità che sostengano il recupero psicologico verso adeguati livelli di benessere in questa fase di transizione, mentre ci incamminiamo lentamente verso una nuova normalità. I media potrebbero adoperare la propria influenza per sostenere le persone nella costruzione di una rappresentazione del futuro fiduciosa, proattiva e che faccia leva su note risorse di resilienza individuali e collettive, come il senso di autoefficacia, la percezione di controllo, l’hardiness e l’ottimismo, per citarne alcune (i lettori che ne fossero interessati, potranno cercare nel sito molti articoli che ne trattano).

In merito a ciò la psicologia avrebbe molto da proporre.

 

Competizione ed effetti nelle abilità metacognitive

Affrontare una prestazione competitiva, richiede consapevolezza circa le proprie esperienze interiori, come il timore di perdere, l’importanza soggettiva del compito o la sua irrilevanza. Allo stesso modo, è necessario comprendere in modo accurato e realistico ciò che passa nella mente dell’avversario, al fine di regolare le proprie azioni e massimizzare le possibilità di successo. 

 

 La pressione della competizione ed il timore di fallire possono restringere la capacità di attribuire un senso ai propri stati mentali e limitare la prestazione, svalutando difensivamente sé stessi o gli altri (Gergely & Unoka, 2013; Liotti & Gilbert, 2011)

Inoltre, la vergogna che emerge dal sentirsi inferiori, facilmente porta a dimenticare i momenti di riuscita, scartando quelli che erano gli altri fini legati alla prestazione, come il relax, la ricerca della condivisione sociale e il gioco.

La mentalizzazione o metacognizione, genericamente chiamata lettura del pensiero, è la capacità di riconoscere e riflettere sui propri ed altrui stati mentali (Bateman & Fonagy, 2004; Semerari et al., 2003) e comprende diversi domini di consapevolezza. Tra questi, la capacità di nominare e distinguere le sensazioni interiori, descrivere la complessità dei propri pensieri, la consapevolezza che le proprie idee non siano la realtà, la capacità di comprendere pensiero e sensazioni, oltre che le motivazioni alla base del comportamento (Semerari et al., 2003).

Gli individui affetti da psicopatologia formano rappresentazioni negative e rigide sulle intenzioni, pensieri e sentimenti altrui (Choi-Kain & Gunderson, 2008; Semerari et al., 2005, 2015), instaurando interazioni  problematiche e ricche di tensione, conflitto e abbandono (American Psychiatric Association, 2013). Tra loro, la lettura del pensiero è compromessa proprio quando più necessaria, ovvero durante le interazioni guidate da bisogni sociali primari, come l’attaccamento.

Anche il rango sociale sembra essere un fattore chiave alla base dei momentanei fallimenti delle abilità metacognitive. Affrontare contesti competitivi e guidati da antagonismo rende coloro con bassa autostima ipersensibili alla minaccia esterna (Gilbert et al., 2002). Gli individui altamente perfezionisti, sono sensibili al rango nella misura in cui la prestazione definisce il loro valore personale e temono le critiche (Hewitt & Flett, 1991). Anche i soggetti narcisisti sono ipersensibili alle minacce di status (Mahadevan et al., 2019), ed inclini a disturbi metacognitivi quando affrontano esperienze di sconfitta o fallimento.

In relazione alla tipologia di scambio sociale, cooperativo o competitivo, la lettura pensiero può variare. Infatti, oltre a determinare prestazioni migliori (Lee et al., 2018), le attività cooperative attivano maggiormente aree cerebrali legate alla metacognizione, mentre quelle competitive la interrompono, peggiorando la prestazione. Infatti, la cooperazione coinvolge l’attenzione condivisa e la comprensione reciproca degli stati mentali, massimizzando la possibilità di accesso alle risorse da parte di un gruppo.

Diversi autori hanno individuato un legame tra attivazione del rango sociale e scarse capacità metacognitive (Dimaggio et al., 2015; Popolo et al., 2019), soprattutto tra i pazienti che seguivano una psicoterapia (Monticelli et al., 2018).

Monticelli e collaboratori (2018), hanno indagato se durante una situazione competitiva, individui convinti di aver fallito mostravano scarse capacità di comprensione dei propri ed altrui stati emotivi.

È stata valutata la situazione in cui i partecipanti erano direttamente coinvolti in un gioco online (induzione competitiva; gruppo sperimentale) ed un’altra in cui veniva chiesto loro di descrivere gli stati mentali durante una passata esperienza di competizione (gruppo di controllo). Nel primo gruppo, poiché i partecipanti non avrebbero vinto, l’induzione del senso di fallimento avrebbe influito sulle abilità di lettura del pensiero maggiormente rispetto al semplice ricordo di esperienze passate di fallimento.

In seguito alla somministrazione di un’intervista semi strutturata (Metacognition Assessment Interview, MAI; Semerari et al., 2012) per valutare la capacità complessiva di attribuire stati mentali a sé e agli altri; è stato valutato se autostima, perfezionismo e narcisismo potevano influenzare la propensione all’effetto del rango sociale, agendo sulle capacità metacognitive.

I risultati confermavano che l’induzione del senso di fallimento comprometteva maggiormente la capacità di descrivere i propri ed altrui stati mentali, soprattutto per quanto concerne le abilità di autoriflessione. Coerentemente con indagini precedenti, le capacità metacognitive diminuivano durante le interazioni competitive (Lee et al., 2018) e con la percezione vivida del rango sociale.

Nei partecipanti che fallivano sistematicamente contro l’avversario, si riduceva la capacità di formare una comprensione più ampia e sfumata sia della propria mente che di quella altrui. Fallire focalizza l’attenzione sui difetti personali o sul pensiero di venir giudicati nella propria prestazione, trascurando altri aspetti della propria esperienza soggettiva. L’agire in modo difensivo comporta il valutare l’altro esclusivamente nei termini di superiore, dispettoso, critico o rifiutante.

 Per quanto concerne le disposizioni di personalità sulle quali può influire il rango sociale, solo il narcisismo grandioso ha mostrato una sensibilità maggiore verso le esperienze di fallimento. La grandiosità è una difesa verso la percezione di uno scarso valore personale, che porta a soffrire di fronte a una sconfitta e pensare a come proteggersi da sentimenti e idee emergenti di vergogna e inferiorità. Come conseguenza di questo atteggiamento, si riduce la capacità di esplorare la gamma di esperienze psicologiche nei partecipanti durante le interazioni sociali.

Grazie al contributo di questa indagine, è possibile comprendere come la valutazione della metacognizione non possa prescindere dalla comprensione del contesto interpersonale, che al di là dei problemi nel dominio dell’attaccamento, dipende anche dall’attivazione di motivazioni legate al rango sociale (Colle et al., 2017; Popolo et al., 2019)

In campo clinico, sarebbe opportuno rendere i pazienti consapevoli di come la loro capacità di riflettere sugli stati mentali possa essere compromessa durante le esperienze di fallimento, critica o rifiuto. In particolare con i pazienti psichiatrici, è essenziale una valutazione continua dello stato emotivo durante le interazioni cliniche, soprattutto qualora stia attivando uno stato mentale competitivo, che potrebbe condurli alla disregolazione emotiva.

Dunque, in psicoterapia si rivela essenziale mantenere un atteggiamento cooperativo, per preservare le capacità di lettura del pensiero e massimizzare le possibilità di efficacia del trattamento.

 

Autorizzazione a svolgere attività psicologiche nei poliambulatori – La sentenza del TAR

Nei poliambulatori possono essere svolte diverse attività sanitarie, incluse psicologia e psicoterapia.

 

Questa la conclusione cui è giunto il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) per il Lazio dopo il ricorso dell’Ordine degli Psicologi del Lazio a seguito del divieto imposto dalla Regione all’esercizio di attività psicologiche presso un poliambulatorio.

L’episodio scatenante era stata proprio la decisione della Regione Lazio nel gennaio 2019 di vietare l’esercizio della professione psicologica in un poliambulatorio medico, affermando la non appartenenza della psicologia alla medicina.

La sentenza del 21 giugno 2021 ha fortunatamente fatto chiarezza a riguardo, affermando come la disciplina dei poliambulatori si fondi sulla multidisciplinarietà nell’ambito delle professioni sanitarie complessivamente intese, e non solo nell’ambito della professione medica in senso stretto. 

Per attività professionali sanitarie non si intendono infatti solo quelle mediche in senso stretto, lo Stato Italiano riconosce attualmente 30 professioni sanitarie per l’esercizio delle quali è obbligatoria l’iscrizione ai rispettivi Ordini professionali, tra i quali Medici chirurghi e Odontoiatri, Veterinari, Farmacisti, Psicologi, Chimici e Fisici, Biologi, Professioni infermieristiche, Ostetriche, Tecnici sanitari di Radiologia medica e delle Professioni Sanitarie Tecniche, della Riabilitazione e della Prevenzione, per un totale di circa 1.200.000 professionisti che operano in strutture pubbliche e private (Ministero della Salute). La negazione dell’autorizzazione è quindi da considerarsi illegittima.

Federico Conte, Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, ha così commentato la vicenda:

la sentenza segna un importante traguardo in termini di tutela della professione, uno degli orizzonti d’azione in cui il Consiglio dell’Ordine ha investito molte delle sue risorse negli ultimi anni, con ottimi risultati. Ancor più, però, occorre essere soddisfatti per la sua capacità di incoraggiare, promuovere e sostenere la capillare diffusione di servizi psicologici sul territorio, a beneficio di tutta la popolazione laziale, che da anni intravede nello psicologo una figura di riferimento per il proprio benessere.

 

SerenamenteMamma, l’app che promuove il benessere psicologico in gravidanza – Psicologia Digitale

L’app per la gravidanza SerenaMente Mamma propone un intervento suddiviso in 5 moduli basato sulla psicologia positiva e la mindfulness per sostenere il benessere psicologico nelle donne in attesa.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 22) SerenamenteMamma, l’app che promuove il benessere psicologico in gravidanza

 

La gravidanza rappresenta un periodo di profondi cambiamenti per la vita di ogni donna, cambiamenti che portano con sé potenziali vulnerabilità sia dal punto di vista fisico che psicologico; cambiamento di status sociale, ridefinizione dei ruoli e dei compiti in ambito familiare possono comportare stress, sintomi di ansia e depressione, difficoltà nella regolazione delle emozioni, con possibili conseguenze negative sulla gestione della gravidanza, sullo sviluppo del bambino e sull’adattamento neonatale. È indispensabile intervenire già dalle prime settimane ed essere accompagnate e supportate in questo delicato momento di transizione in cui, accanto ad importanti trasformazioni fisiche, i vissuti emotivi della donna possono essere in alcun casi difficili da fronteggiare.

Le app per il benessere in gravidanza

In un periodo impegnativo e delicato come quello prenatale, la promozione del benessere è sicuramente uno dei fattori protettivi. La ricerca psicologica in questo ambito si è occupata principalmente dei disturbi legati a questo periodo anche se un crescente interesse si sta sviluppando proprio sugli aspetti positivi e di crescita. In particolare supporto sociale, meditazione e attitudine positiva possono influenzare positivamente il decorso della gravidanza e, a seguire, la fase perinatale e il parto.

Per aumentare la consapevolezza, accrescere la fiducia nelle proprie capacità e sostenere così le future mamme, sono state sviluppate delle app per la gravidanza, nate per aumentare il benessere in questo importante periodo di vita. Le app hanno il vantaggio di essere semplici da usare, garantiscono la privacy e sono disponibili ovunque e nel momento del bisogno. Come ci ricordano Carissoli e colleghi (2019), hanno anche una funzione educativa e responsabilizzano le donne, aumentando la loro autoefficacia circa il proprio benessere.

Per migliorare lo stile di vita e creare e mantenere abitudini sane durante la gravidanza, Sandborg e colleghi (2019; 2021) hanno creato l’app per la gravidanza HealthyMoms. A partire da una problematica specifica, l’eccessivo aumento di peso gestazionale (comunemente associato a esiti negativi per la salute di madre e bambino), gli autori hanno sviluppato questa app che aiuta a gestire un aumento di peso sano, la dieta e l’attività fisica durante la gravidanza, con esiti positivi grazie ad un approccio integrato (quindi sia con app che controlli periodici) e l’acquisizione di comportamenti salutari durante la gravidanza.

Un’altra app per la gravidanza sviluppata da Doherty e colleghi (2018), BrightSelf, consente il monitoraggio del benessere grazie a un sistema di autovalutazione: le utenti possono fornire attraverso l’app informazioni su come si sentono, raccontare le proprie ansie e preoccupazioni, fornendo ai sanitari indizi fondamentali per comprendere lo stato psicologico durante la gestazione.

A questi contributi si affianca SerenaMente Mamma, sviluppata da un team di ricercatrici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (Prof.ssa Daniela Villani e Dott.ssa Giulia Corno): l’app propone un intervento suddiviso in 5 moduli basato sulla psicologia positiva e la mindfulness (MPPMI: multi-component positive psychology and mindfulness-based intervention). Questi interventi hanno dato ampia prova di essere efficaci nel sostenere il benessere psicologico anche in gravidanza.

Serenamente Mamma: come funziona

L’app è disponibile gratuitamente su Android (al momento è in lavorazione per iOS) ed è compatibile con qualsiasi smartphone e tablet. Al primo utilizzo e prima di avere accesso ai contenuti si deve rispondere ad un test di pre-valutazione finalizzato a valutare lo stato attuale psicofisico relativamente alla gravidanza e all’umore.

Il contenuto dell’app si basa su un protocollo di auto-aiuto composto da 5 moduli per un totale di 15 esercizi che è possibile eseguire da sole quando si vuole: complessivamente, si tratta di un intervento di 35 giorni e 3 esercizi per settimana. 6 esercizi sono basati sulla psicologia positiva, mentre gli altri sono meditazioni guidate basate sulla mindfulness che mirano a sviluppare le capacità di consapevolezza.

Alla termine di ogni settimana le utenti sono invitate a valutare le attività svolte per sbloccare i contenuti della settimana successiva; da quel momento tutti i contenuti sono sbloccati e liberamente riutilizzabili, permettendo quindi di estendere la durata dell’intervento o di rifare dei moduli.

Alla fine dei 35 giorni viene richiesto di rispondere ad un test per una valutazione finale; viene proposta anche una valutazione dell’esperienza in merito ad utilità, facilità e piacevolezza d’uso percepite rispetto all’app.

I cinque moduli di SerenaMente Mamma

Ogni modulo si apre con suggerimenti e consigli corredati da testo, immagini o audio che spiegano come ottenere il massimo dagli esercizi e qual è la loro funzione.

Il primo modulo, “Assaporare la vita”, aiuta a focalizzarsi sulle esperienze piacevoli per trarre il massimo dal momento presente. Il secondo modulo, “Ascoltiamo il corpo”, propone esercizi per aumentare la consapevolezza e l’accettazione interocettiva e gestire i mutamenti del corpo. In particolare l’esercizio “tu e il tuo bambino” ha lo scopo di creare uno stato di connessione diretta per rafforzare la relazione tra madre e bambino e per prepararsi al parto.

Il terzo modulo è dedicato al sostegno sociale, fattore protettivo durante la gravidanza: “Le persone intorno a te” incoraggia a connettersi e migliorare le relazioni coi propri cari, in primis col partner. “Ottimismo, una risorsa positiva” è il quarto modulo dedicato allo sviluppo di un atteggiamento positivo verso il futuro.

Infine, il quinto e ultimo modulo, “Rilassare mente e corpo”, si concentra su tecniche di rilassamento, decentramento e immaginazione guidata, per insegnare ad essere più consapevoli, distanziarsi dai pensieri e considerarli ed osservarli come “eventi” della mente.

Prospettive future

SerenaMente Mamma è la prima app italiana sviluppata per promuovere e migliorare il benessere delle donne durante la gravidanza. Il team di Carissoli e colleghi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha creato uno strumento facile da usare basato su interventi di auto-aiuto di psicologia positiva e mindfulness.
I test inclusi nell’app saranno utili anche per capire quali sono i feedback delle donne che hanno utilizzato l’app, le eventuali barriere o difficoltà riscontrate e in generale l’esperienza rispetto al programma, oltre a valutare l’efficacia di questo intervento nel lungo termine.

Quello che è certo per ora è che SerenaMente Mamma è un’app per la gravidanza che sviluppa un progetto ambizioso e utile: fornire alle donne incinte uno strumento che le aiuti in un periodo molto delicato, quando gli aspetti di vulnerabilità si moltiplicano ed avere a portata di smartphone un aiuto è senz’altro fondamentale.

 

Indice di massa corporea (IMC): un acronimo controverso

L’IMC, acronimo di Indice di Massa Corporea, è il principale parametro utilizzato oggigiorno per valutare lo stato nutrizionale e di salute di una persona. Ne sentiamo parlare in ambito medico, ha contagiato il mondo dello sport e funge da dittatore quando si parla di peso e forma del corpo. Ma questo parametro è totalmente affidabile?

 

 Non è trascorso molto tempo da quando le persone più robuste erano di comune accordo considerate “sane”. I medici erano molto più preoccupati per tutti coloro il cui peso risultasse insufficiente, scarso, persone spesso troppo povere per permettersi un adeguato introito calorico. Ma non appena il processo di industrializzazione prese avvio ed il cibo divenne più accessibile, la situazione cambiò inesorabilmente. Poco dopo la Seconda guerra mondiale, divenne chiaro che un surplus alimentare era in grado di causare tanti problemi quanto il non mangiare abbastanza. Così, le compagnie assicurative si accorsero che i loro clienti con un peso superiore alla media manifestavano una probabilità significativamente maggiore di morire prematuramente rispetto a coloro di peso inferiore. Cercarono quindi un modo rapido ed economico per misurare l’adipe in eccesso e trovarono una semplice formula che ancora oggi conosciamo con il termine di IMC.

L’IMC, acronimo di Indice di Massa Corporea, è il principale parametro utilizzato oggigiorno per valutare lo stato nutrizionale e di salute di una persona. Ne sentiamo parlare in ambito medico, ha contagiato il mondo dello sport e funge da dittatore quando si parla di peso e forma del corpo. Addirittura, rientra nei prerequisiti valutati per stabilire l’idoneità per il vaccino Covid.

Seppur spopolino applicazioni in grado di calcolarlo mediante pochi click, la formula alla base è molto semplice: si tratta di una regola matematica che divide il peso di un soggetto, in chilogrammi, per il quadrato della sua altezza, espressa in metri. Il risultato ottenuto colloca la persona all’interno di quattro categorie principali, descrivendone la corporatura: sottopeso (IMC inferiore a 18.5), normopeso (da 18.5 a 24.9), sovrappeso (da 25.0 a 29.9) ed obeso (30 o superiore).

Nonostante la sua popolarità, però, è realmente opportuno considerare questo parametro come totalmente affidabile?

Di seguito, proviamo a comprendere i motivi per cui molti esperti appaiano reticenti nel definire totalmente appropriato questo acronimo. Al contrario, viene spesso dipinto come responsabile di stigma e obsolete stereotipie.

Indice standard nella maggior parte delle strutture sanitarie, fu introdotto negli anni 30 dell’Ottocento dal ricercatore belga Lambert Adolphe Jacques Quetelet, padre fondatore degli studi epidemiologici su base statistica. L’Indice di Massa Corporea prese poi piede negli anni Settanta grazie agli studi del fisiologo Ancel Keys: utilizzando un campione non clinico composto da 7.000 uomini sani, per lo più di mezza età, Keys e colleghi dimostrarono che tale acronimo appariva un efficace predittore del grasso corporeo individuale, per di più di semplice elaborazione (Keys et al., 1972).

La praticità di calcolo e l’apparente efficienza nel catalogare le fattezze corporee, lo rendono ancor oggi molto utilizzato soprattutto nella branca negli studi epidemiologici su larga scala. Qui, Dai e colleghi (2020) hanno evidenziato che un Indice di Massa Corporea superiore a 30 si associa tendenzialmente ad una maggiore predisposizione a malattie cardiache, diabete di tipo 2, cancro, difficoltà respiratore, steatosi epatica non alcolica e problemi di mobilità. Inoltre, è stata dimostrata una relazione tra l’indice in questione e mortalità, rapporto che pare seguire una distintiva curva a forma di “J”. Nello specifico, un Indice di Massa Corporea eccessivamente basso o elevato sembra correlare, nella maggior parte dei casi, al decesso precoce; una diminuita mortalità, al contrario, si rileva nell’intervallo tra i due estremi (Bhaskaran et al., 2018).

Nonostante la sua praticità quale strumento di ricerca e sebbene vi siano numerose evidenze che collegano indici alti e bassi ad aumentati rischi per la salute, la sua applicazione presenta indubbiamente numerose lacune, apparendo poco utile in rapporto all’unicità individuale. Difatti, benché fornisca un’istantanea sulla corporeità di un individuo, ne ignora totalmente altre componenti (Nuttall, 2015).

In primo luogo, l’IMC presume che il peso sia tutto uguale, prescindendo dal considerare il differente impatto esercitato dal grasso corporeo, muscolatura, viscere e struttura scheletrica su di esso. A parità di peso tra muscoli e grasso, i primi, poiché più densi, occupano decisamente meno spazio. Conseguentemente, due persone con eguale peso ed altezza, potrebbero apparire estremamente differenti in base alla percentuale di adipe e muscoli che li compongono (Willoughby et al., 2018). Ad esempio, la prima potrebbe essere un allenato bodybuilder con un’elevata componente di massa magra mentre, la seconda, sedentaria e con più adipe.

Anche la posizione occupata dal tessuto adiposo può fare la differenza: il cosiddetto grasso viscerale, ossia quello localizzato all’interno della cavità addominale e distribuito tra gli organi interni ed il tronco, è più problematico rispetto a quello sottocutaneo ripartito su fianchi, glutei e parte inferiore del corpo. È per tale motivo che oggigiorno, oltre al calcolo dell’indice di massa corporea, è prassi rilevare anche la circonferenza addominale. La vita degli uomini dovrebbe essere inferiore a 102 cm mentre, per le donne, il cut off è 88 cm (Bosello & Vanzo, 2021).

L’avanzare dell’età rappresenta un anch’essa un altro snodo fondamentale, poco considerato dal parametro in analisi. Con l’invecchiamento, è assai frequente perdere una percentuale di massa ossea e muscolare acquisendo, di contro, grasso viscerale. Si tratta di un cambiamento sostanziale nella composizione corporea e preoccupante per la salute, ma potenzialmente capace di passare inosservato in caso di un mancato cambiamento dell’IMC della persona.

Ulteriore falla è l’incapacità nel prevedere la salute metabolica generale della popolazione: comunemente, una persona etichettata come “obesa o sovrappeso” è considerata come cagionevole, a rischio. Rientrare invece nel range associato al normopeso viene con più probabilità reso sinonimo di salute e prestanza fisica. In realtà, i dati empirici smentiscono ancora una volta questa sommaria generalizzazione. Una ricerca pubblicata nel 2016, che ha valutato una serie di misure cardio metaboliche (pressione sanguigna, trigliceridi, colesterolo, insulino resistenza ecc.) in un campione di 75 milioni di americani, ha evidenziato che fra questi, i 54 milioni definiti sovrappeso o obesi godevano di un perfetto stato di salute. Il restante, “normopeso”, non poteva considerarsi metabolicamente sano (Tomiyama et al., 2016). In definitiva, etichettare una persona unicamente sulla base del proprio peso senza ulteriori approfondimenti, risulta senza dubbio poco corretto.

 Nonostante l’uso su ampia scala, tale strumento potrebbe inoltre non riflettere adeguatamene il benessere di particolari popolazioni, in quanto non considera il variare della composizione corporea e il suo rapporto con la salute in base al sesso, razza ed etnia. Sviluppato e convalidato principalmente su un campione di uomini di origine caucasica, appare chiaro quanto la generalizzazione dell’Indice di Massa Corporea a livello globale possa considerarsi inappropriata. Ad esempio, numerosi studi hanno dimostrato che le persone di origine asiatica siano esposte ad un maggiore rischio di malattie cardiovascolari a tassi di IMC più bassi rispetto ai caucasici. Ulteriormente, alcune popolazioni africane tendono ad essere erroneamente classificate come sovrappeso seppur la loro corporatura sia composta da una massa grassa inferiore rispetto alla componente muscolare, pertanto meno esposti a complicanze cardiache (Seo & Torabi, 2006), aspetto ancor più marcato nelle donne.

Sulla base di queste considerazioni, l’indice di massa corporea apparirebbe utile unicamente se usato a scopi epidemiologici e per ricerche su ampia scala, per scandagliare la popolazione e descriverla in linea generale. Al contrario, se considerato come unico strumento per determinare in maniera arbitraria gli standard relativi alla fisicità, può addirittura rivelarsi una lama a doppio taglio.

In alcuni casi, utilizzare l’Indice di Massa Corporea come unico parametro è infatti una scorciatoia pericolosa. Per prima cosa, può rendere ciechi medici e professionisti innanzi alle effettive condizioni di salute di un paziente. Molti maschi con prodromi di anoressia nervosa, ad esempio, non ricevono adeguata attenzione clinica poiché tecnicamente inclusi nella categoria “normopeso”(Strother et al., 2012). La stessa cosa accade a coloro che presentano un peso più elevato, spesso non sottoposti a screening per disturbi alimentari sebbene sia ravvisabile un recente perdita di peso significativa, un evidente peso soppresso (differenza fra peso massimo e quello attuale) (Calugi et. al., 2018).

Può altresì essere dannosa la generica propensione nel presumere che una persona normopeso sia automaticamente “sana” prescindendo dalla valutazione di abitudini, invece, potenzialmente malsane: seguire un’alimentazione povera, sbilanciata, non svolgere alcuna forma di attività fisica o al contrario impegnarsi in allenamenti estenuanti, ne sono solo alcuni esempi.

Un altro aspetto che si associa negativamente alla popolarità dell’IMC come dittatore in ambito di peso, forma del corpo e salute è decisamente lo stigma. Con questo termine si fa riferimento alle convinzioni ed attitudini prevalentemente negative rivolte ad una persona in base al proprio peso, considerazioni che si concretizzano in stereotipi e pregiudizi. Queste, marcatamente evidenti quando si parla di peso in eccesso ed obesità, vengono poi interiorizzate dai destinatari stessi diventando motivo di autocritica e giudizi negativi ego riferiti (Calugi & Dalle Grave, 2020). La discriminazione nei confronti di queste persone si articola quindi in una serie di etichette dispregiative che conducono a marginalizzazione e disuguaglianza. Lo stigma basato sul peso, di natura relazionale, verbale o fisica, impregna molteplici aree quali quella scolastica, lavorativa, interpersonale e perfino sanitaria (Puhl & Brownell, 2001).

La ricerca ha dimostrato che il luogo comune “grasso = malasanità” influenzerebbe addirittura l’atteggiamento del clinico con i pazienti, risultando più intransigenti, giudicanti e perentori. In linea con queste evidenze, i risultati dell’indagine di Puhl e Bownell (2006): circa il 69% delle donne, riferiva di aver ricevuto almeno una volta un commento discriminatorio da parte di un medico, ed il  52% più di una volta (R. M. Puhl & Brownell, 2006).

Da qui, le persone che si sono sentite discriminate a causa del proprio peso hanno mostrato una probabilità di circa 2,5 superiore di manifestare disturbi d’ansia o dell’umore, così come successivi incrementi ponderali ed un’aspettativa di vita più breve (R. M. Puhl et al., 2016). Un calo in termini di frequenza di controlli medici, minore fiducia nell’istituzione sanitaria e scarsa aderenza al trattamento sono fra le principali conseguenze di tale approccio.

Al netto di quanto detto, l’indice di massa corporea potrebbe dunque essere definito come un utile strumento se usato con scopi di screening, per identificare problematiche su larga scala ed aspetti trasversali a varie popolazioni. Il suo impiego, invece, come misura univoca relativa alla composizione corporea di una persona viene considerato, da clinici e ricercatori, come “inappropriato” (Maalin et al., 2020).

Di qui, la decisione di molti esperti di non fermarsi unicamente a questo dato per stimare il benessere soggettivo; si pensi ad esempio alla già sopracitata misurazione della circonferenza vita, efficace nel quantificare il grasso viscerale. Ancora, cresce il consenso relativo ad una raccolta più ricca e indicativa della complessità corporale: oltre all’Indice di Massa Corporea, inciderebbero sullo status di salute anche il background culturale, livelli di stress, accessibilità alle risorse, abitudini alimentari, pregresse problematiche e propensione all’esercizio fisico (Hoffmann et al., 2020). Una pratica decisamente più lunga e dispendiosa, ma sicuramente più centrata sull’unicità individuale.

Altri metodi, sicuramente meno utilizzati in quanto apparecchiature sofisticate e non sempre accessibili, sono la densitometria a doppio raggio X (DXA), la diluizione isotopica e l’impedenzometria (Evans et al., 2017).

In definitiva, è sicuramente un bene prestare attenzione al numero che compare sulla bilancia, senza però dimenticare l’importanza del metro, degli esami strumentali ma soprattutto dei vissuti individuali. Essere in sovrappeso, oppure sottopeso, interessa indubbiamente l’ambito estetico, funzionale e salutare di una persona. Una valutazione approfondita da parte di professionisti come medici, psicologi e nutrizionisti è fondamentale in questi casi. Il suggerimento? Tenere a mente che un numero non rappresenterà mai la complessità che ci contraddistingue.

 

Invidia del pancione. Una guida per riconoscere le proprie emozioni e affrontare la ricerca di un figlio (2021) di Beatrice Corsale

Invidia del pancione affronta le tematiche legate al percorso della PMA in modo empatico e professionale e fornisce diversi strumenti per gestire i turbamenti emotivi suscitati da ogni fase del percorso.

 

 La ricerca di un figlio non sempre si realizza nell’immediato e il momento dell’attesa del concepimento può essere vissuto come stressante, doloroso, spesso tanto difficile da gestire.

Nell’introduzione del libro l’autrice illustra come negli ultimi anni sempre più donne si sottopongono a procedure di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) o hanno ricevuto diagnosi di una condizione di infertilità. Ogni anno, infatti, molte coppie si rivolgono ai centri di PMA: il Ministero della Salute riporta che nel solo 2017, ad esempio, oltre 78.000 coppie si sono sottoposte a procedure di fecondazione artificiale.

Di fronte a questi dati le pagine del libro ripercorrono le varie tappe e le emozioni vissute dalla donna dai primi momenti di sconforto di fronte alla sensazione di impossibilità di poter diventare madre, alla tensione che precede e accompagna il prelievo ovocitario, ai più̀ frequenti malintesi nella coppia che si sottopone a PMA, al delicato momento dell’attesa dell’esito del trattamento e il doloroso confronto con gli insuccessi, fino alla realizzazione del desiderio di maternità.

Ogni tematica viene affrontata in modo empatico e professionale e fornisce alla lettrice diversi strumenti per gestire i turbamenti emotivi suscitati da ogni fase del percorso: ogni capitolo, di fatti, viene accompagnato da schede pratiche di auto osservazione e dalla proposta di esercizi mirati a gestire il momento che si sta affrontando. Sebbene la sequenza dei capitoli segua l’ordine con cui emergono le varie problematiche psicologiche durante un tipico percorso di PMA, la lettrice può scegliere di consultarli secondo la successione che preferisce, in base alle proprie esigenze o alla fase di PMA che sta affrontando.

 L’autrice, fin dalle prime pagine riesce a stabilire un contatto emotivo con chi legge attraverso un linguaggio non giudicante e promuovendo un atteggiamento di reale accettazione degli stati d’animo che si affrontano in questo percorso. Allo stesso tempo, propone una guida pratica con esercizi mirati ad aumentare la consapevolezza di sé e tecniche di gestione dei propri vissuti.

Un libro rivolto non solo a chi sta iniziando un percorso di PMA ma anche a tutte le donne che si sentono scoraggiate di fronte ai diversi tentativi che precedono lo scoprirsi in dolce attesa.

 

Resilienza e Salute Mentale: una prospettiva multisitemica

I professionisti della salute mentale della Seconda guerra mondiale sono stati i pionieri della ricerca inerente alla capacità umana di adattarsi con competenza a circostanze o eventi avversi della vita: la resilienza (Masten & Cicchetti, 2016).

 

Piuttosto che concentrarsi strettamente sulle caratteristiche proprie dell’individuo che contribuiscono al processo di resilienza, le spiegazioni socio-ecologiche definiscono la resilienza come un processo co-facilitato dagli individui e dagli ambienti all’interno dei quali essi nascono e si sviluppano (Ungar, 2011).

L’attenzione sulle complessità della resilienza ha elicitato nuove domande di ricerca e nuove implicazioni per la pratica clinica, come: “Quali fattori o processi promozionali e protettivi sono rilevanti? Per quali persone, in quali contesti?” (Ungar, 2019).

In effetti, appare necessaria una maggiore comprensione di ciò che potrebbe proteggere le persone dalla malattia mentale, in un mondo in cui almeno un adulto su cinque manifesta un disturbo mentale (Steel et al., 2014) e in cui un numero considerevole di bambini viene colpito in maniera affine (Polanczyk et al., 2015)

Purtroppo, i fattori e i processi promozionali e protettivi (Promotive and Protective Factors and Processes -PPFP), tipicamente associati a risultati positivi, vengono troppo spesso circoscritti a variabili psicologiche, come l’autoregolazione o le strategie di coping ma, in realtà, i PPFP possono essere distinti in interni o esterni all’individuo.

Al giorno d’oggi, i ricercatori concordano sul fatto che le influenze sistemiche contano almeno quanto i fattori individuali. A dimostrazione di ciò, Masten e Cicchetti (2016) hanno suggerito che “la resilienza di un bambino dipenda dal funzionamento e dall’interazione di molti altri sistemi, sia interni al bambino (sistema immunitario, sistema di risposta allo stress, ecc.), sia nelle relazioni o nella resilienza familiare, sia nei più ampi sistemi socioculturali ed ecologici in cui la vita e lo sviluppo di quel bambino avvengono” (Masten & Cicchetti, 2016). La resilienza in età adulta e in età avanzata dipende in egual misura da questi molteplici sistemi (Infurna & Luthar, 2018). In altre parole, le influenze sistemiche sono importanti per la resilienza durante l’intero corso della vita.

L’obiettivo della revisione sistematica presa in esame è stato quello di ampliare la comprensione dei sistemi interagenti che facilitano la salute mentale degli individui sottoposti a stress atipico.

La resilienza umana dipende da una serie di sistemi biologici, psicologici, sociali ed ecologici interagenti tra loro, come sottolineato dalle varie definizioni di resilienza emerse negli ultimi dieci anni.

A sostegno di questa prospettiva, in una revisione sistematica inerente i fattori moderatori della resilienza, che sono stati associati ad effetti positivi per la salute mentale dei bambini nonostante la loro esposizione a condizioni di abuso, differenti fattori individuali ed ecologici si sono dimostrati egualmente importanti (Fritz et al., 2018). A livello individuale, l’evidenza suggerisce che la rivalutazione cognitiva, un’alta tolleranza allo stress, una bassa soppressione delle emozioni e un attaccamento sicuro sono da considerarsi fattori di resilienza per un bambino vittima di abusi. A livello sociale, il supporto della famiglia allargata e le pratiche genitoriali positive potrebbero influenzare la resilienza. Inoltre, a livello comunitario, un elevato sostegno sociale determinerà dei risultati psicosociali e comportamentali.

La resilienza è stata associata anche ad influenze genetiche. In una delle poche revisioni sistematiche inerenti alle varianti genetiche che contribuiscono alla capacità biologica della resilienza psicologica, Niitsu e colleghi (2019) hanno individuato sei geni che sembrerebbero avere un ruolo nello sviluppo della resilienza.

Ulteriori studi hanno mostrato come l’ambiente urbano, naturale e dei servizi è fondamentale per la resilienza umana. Per esempio, uno studio condotto su soggetti anziani, residenti a Pechino, ha scoperto che la qualità del quartiere era significativamente legata al benessere psicologico. I fattori rilevanti includevano lo spazio pubblico e il numero di servizi disponibili (Zhang et al., 2018). Anche il preservare gli spazi naturali, all’interno di un ambiente urbano, può avere un effetto sulla resilienza individuale e collettiva, riducendo l’ansia e fornendo uno spazio per la riflessione e l’attività fisica (Van den Bosch & Ode Sang, 2017).

A dimostrazione degli effetti esercitati dal contesto e dalla cultura, gli studi hanno dimostrato che le comunità che si preoccupano di promuovere narrazioni culturali di forza e di leadership femminile, a seguito di episodi di violenza politica, contribuiscono allo sviluppo della resilienza a livello comunitario (Somasundaram & Sivayokan, 2013).

Altre ricerche hanno mostrato come anche altri fattori contestuali possono predire l’adattamento in condizioni di avversità, ma è importante che queste combinazioni vengano concettualizzate in modo differente per i giovani e per gli adulti (Theron, 2020).

Una descrizione della resilienza psicologica dovrebbe anche includere le variabili inerenti all’esposizione al rischio di un individuo, compresa la qualità delle esperienze avverse, la loro gravità e la rilevanza culturale delle sfide affrontate.

Sarebbe bene, dunque, considerare la resilienza non come l’obiettivo, ma come il mezzo per raggiungere risultati funzionali come la salute mentale.

Secondo gli autori, per sviluppare la resilienza, come primo passo, i clinici dovrebbero valutare l’esposizione al rischio e la disponibilità di PPFP.

Indipendentemente dal percorso di intervento, i clinici dovrebbero considerare le dinamiche contestuali, culturali del corso della vita. Difatti, gli interventi che si propongono di modificare solo un sistema – come un programma per migliorare il senso di autostima di un bambino a scuola – mostrano pochi effetti a lungo termine (Fenwick-Smith et al., 2018).

Quando all’interno dell’ambiente sociale di un paziente il cambiamento viene facilitato, i risultati sono migliori, rispetto agli interventi focalizzati esclusivamente su trattamenti psicofarmacologici o cognitivi.

Così facendo, la ricerca sulla resilienza sarà in grado di spostare il lavoro clinico dalla costruzione di un robusto individualismo verso interventi che creino una situazione di salute mentale positiva per gli individui provenienti da diverse condizioni sociali e che consentano ai soggetti di possedere risorse adeguate e supporti necessari al gestire le avversità nel migliore dei modi.

A tal fine, i professionisti della salute mentale avranno bisogno di lavorare in team multidisciplinari che includano professionisti che facilitino l’accesso ai supporti socio-ecologici protettivi, mentre si occupano dei disturbi. Così facendo, sarà più probabile costruire la capacità psicologica di cui gli individui necessitano per affrontare l’esposizione alle avversità ora e in futuro.

 

Eleanor Oliphant sta benissimo – La LIBET nelle narrazioni

Dalla lettura del romanzo bestseller Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman edito nel 2018, si ipotizza la concettualizzazione in termini LIBET della protagonista Eleanor.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 17) Eleanor Oliphant

Attenzione: l’articolo contiene spoiler (ndr)

 

 Eleanor sta bene, anzi: benissimo. O almeno, questo è quello che si ripete da anni. In realtà, Eleanor non sta bene con la sua grossa cicatrice sul volto, con la sola compagnia della sua piantina Polly e costretta nei suoi rigidissimi piani semi-adattivi.

Il personaggio principale è Eleanor Oliphant, una ragazza di quasi trent’anni che vive da sola in un piccolo appartamento a Glasgow assegnatole da tempo dal servizio sociale; ha una laurea triennale in lettere classiche, ma lavora da nove anni come impiegata contabile in uno studio di graphic design della stessa città.

La vita della protagonista, come ci racconta lei stessa sin dall’inizio del romanzo, è scandita da una imperturbabile routine che si ripete nel suo quotidiano: dal lunedì al venerdì arriva in ufficio alle 8.30; durante la pausa pranzo di un’ora si siede nella saletta per i dipendenti dove, mangiando il suo solito sandwich, legge “da cima a fondo” il Daily Telegraph che compra però esclusivamente per fare le parole crociate crittografate riportate alla fine del giornale; lavora ancora fino alle 17.30 e poi prende l’autobus per tornare diretta a casa, tranne il venerdì, “la serata della pizza” giorno in cui Eleanor si ferma al “Tesco” per comprarsi “una pizza margherita, del Chianti e due bottiglie grandi di vodka Glen’s” che poi berrà durante il fine settimana aspettando l’arrivo del lunedì.

La vita routinaria di Eleanor è caratterizzata da pochissime interazioni con i suoi colleghi, con i quali sente di non aver quasi niente in comune se non il fatto di appartenere alla stessa specie: i meccanismi sociali convenzionali non le appartengono e fatica a comprenderli, preferendo la compagnia della sua pianta Polly. Eleanor va fiera della sua capacità di sapersela cavare da sola e ritiene di non aver bisogno di nessun altro, di essere totalmente completa e autosufficiente. Ogni mercoledì, però, la madre chiama dalla prigione in cui è detenuta per ricordarle quanto sia miserabile la sua esistenza.

Già dalle prime righe del libro possiamo iniziare a ipotizzare i piani semi-adattivi della protagonista: di tipo prescrittivo per la tendenza a controllare ogni aspetto della sua vita, dalle relazioni sociali alla routine giornaliera, dall’abbigliamento al taglio di capelli sempre uguali per arrivare al controllo emotivo; infatti lei, dice: “sta benissimo”. Il fine settimana, invece, quando rimane sola con i suoi pensieri e le sue emozioni impossibili da tollerare, emerge il piano immunizzante: Eleanor passa quei due giorni bevendo vodka in modo da sentirsi costantemente stordita e assopita.

 Una serie di eventi arrivano a turbare l’equilibrio di Eleanor: una sera, in un pub, assiste al concerto di un gruppo emergente e s’innamora a prima vista del frontman della band. Cominciando a fantasticare sull’idea di passare il resto della sua vita con lui, Eleanor programma con cura il giorno in cui si sarebbero nuovamente incontrati, certa che lui si sarebbe reso conto di non poter fare a meno di stare insieme a lei. Decide così di acquistare un computer, crearsi un account Twitter e aggiungerlo tra gli amici in modo da essere sempre aggiornata sulle date e i luoghi di esibizione della band. La lunga programmazione prevede, inoltre, il sopralluogo nel locale in cui avrebbe suonato il gruppo, un nuovo taglio di capelli, dei nuovi abiti e un pomeriggio in un centro estetico. Emergono ancora una volta i piani semi-adattivi della protagonista: il bisogno di idealizzare e fantasticare su una storia d’amore perfetta (piano immunizzante) e lo sforzo di agire in sicurezza controllando tutte le variabili (piano prescrittivo).

Un altro uomo entra nella vita di Eleanor, il collega di lavoro Raymond. I due si trovano casualmente a soccorrere un uomo anziano svenuto per strada e questo li porta ad approfondire il loro rapporto. Raymond, con i suoi modi di relazionarsi semplici ma gentili, nel tempo diventa un punto di riferimento per la protagonista e le offrirà diverse occasioni che, in chiave psicoterapeutica, possono essere viste come esperienze emotive correttive.

Dopo settimane di preparativi, finalmente Eleanor si sente pronta per incontrare il frontman, ma la serata non va come sperato e diventa lo sfondo del processo di invalidazione dei suoi piani semi-adattivi: resasi conto di aver solamente idealizzato il cantante e di aver visto in lui una persona completamente diversa da come l’aveva costruita nel suo immaginario, entra in contatto con il suo tema di indegnità e mette in atto una strategia immunizzante per allontanarsi dal dolore. Per giorni rimane chiusa in casa a bere alcolici. In quei momenti Eleanor si sente così come la mamma le ha sempre ricordato di essere: una persona senza un briciolo di valore, sbagliata, incapace di occuparsi di se stessa e degli altri, inetta, meschina e non meritevole di essere amata.

Da questa spirale di disperazione viene tirata fuori da Raymond, che entra dalla porta e comincia a prendersi cura di lei: le prepara dei pasti freschi, l’aiuta a lavarsi e a riordinare casa. È questo il momento in cui Eleanor si rende conto quanto sia necessario e piacevole affidarsi a qualcuno: dopo molti ripensamenti decide di intraprendere un percorso psicoterapeutico. Durante la terapia Eleanor prende consapevolezza di alcuni eventi traumatici del suo passato e riuscirà a dire addio a sua madre, questa volta per sempre. Circa diciannove anni prima, dopo ripetuti abusi psicologici e fisici, la madre aveva dato fuoco alla loro casa uccidendo se stessa e la figlia minore. Solo Eleanor era sopravvissuta e con lei i giudizi forti e fondanti della madre che avevano preso la forma delle chiamate del mercoledì.

 

Paura degli aghi: definizioni e trattamenti

Gli individui che soffrono di agofobia sono generalmente consapevoli dell’impatto negativo della loro risposta emotiva. L’ansia e l’agitazione possono essere estreme e chi ne soffre non riesce a controllare tali risposte.

 

La puntura venosa è spesso accompagnata da dolore e/o disagio e l’anticipazione di tale atto può provocare apprensione o ansia prima dell’evento. Per una parte della popolazione, tuttavia, la mera visione di un ago rappresenta una vera e propria fobia (Cook, 2016).

Una fobia è una paura persistente e irrazionale di un oggetto, un’attività o una situazione specifica che porta a un desiderio irresistibile di evitarla (American Psychiatric Association, 2013), tuttavia, la paura non è stata classificata come fobia fino al 1994 (Cook, 2016).

Con la possibilità di effettuare una diagnosi fu finalmente possibile offrire opzioni di trattamento. All’oggi, vengono utilizzati vari termini per descrivere la paura delle iniezioni, degli oggetti appuntiti o del dolore. La terminologia applicabile include l’aicofobia, una paura intensa o morbosa degli oggetti appuntiti o taglienti; l’enetofobia, una paura degli spilli e dei vaccini; la tripanofobia, una paura delle iniezioni e, l’algofobia, una paura intensa o morbosa del dolore (Cook, 2016).

La fobia degli aghi può essere vista da diverse prospettive: quella del paziente, del professionista e della società.

Gli individui che soffrono di agofobia sono generalmente consapevoli dell’impatto negativo della loro risposta emotiva.

L’ansia e l’agitazione possono essere estreme e chi ne soffre non riesce a controllare tali risposte. Questi individui possono provare un senso di fallimento e/o imbarazzo perché sanno che le loro reazioni non sono socialmente accettabili. La fobia può impedire loro di cercare l’attenzione medica, sia per la paura della procedura vera e propria, sia per l’imbarazzo, o per entrambe.

Il medico che prende in cura questa tipologia di pazienti si trova di fronte ad individui che potrebbero comportarsi in modo bizzarro. La loro risposta è considerata irrazionale e il professionista può essere giudicante e vederla con disgusto. Esasperato da una situazione che sta impattando su un’agenda fitta di impegni, il professionista può avere difficoltà nel fornire un’assistenza compassionevole. Il modo etico di affrontare la situazione è quello di trovare e attuare una soluzione che aiuti a ridurre la paura e l’ansia, nonostante il fatto che possa volerci più tempo. La preoccupazione sociale associata è correlata alle tendenze di evitamento dei pazienti. È improbabile che i malati si sottopongano a vaccini volontari, come il vaccino antinfluenzale, e possono anche rifiutare i vaccini obbligatori, fenomeno che, attualmente, si sta verificando.

Durante i suoi studi, Hamilton ha riconosciuto 5 sottogruppi di agofobia con eziologia differente, che verranno illustrati di seguito (Hamilton, 1995).

Il 50% degli agofobici vengono classificati come “aventi una risposta negativa ereditaria” rispetto agli aghi (Cook, 2016). Queste persone possono negare la paura degli aghi ma, al contempo, sperimentano cambiamenti nella frequenza cardiaca e nella pressione sanguigna e, nei casi più estremi, possono perdere i sensi. Hamilton (1995) ha teorizzato che la risposta sia stimolata da un gene che si è evoluto nel corso di anni; difatti, quattro milioni di anni fa, la maggior parte delle ferite erano determinate da oggetti appuntiti e, secondo l’autore, ciò ha contribuito allo sviluppo di un gene che è stato incorporato all’interno del nostro DNA. Egli riteneva che il gene fosse presente in tutti, ma che fosse generalmente represso. Tuttavia, il gene è dominante in un sottogruppo e la risposta è stimolata non appena viene percepito il potenziale di danno. Sono stati identificati altri quattro possibili meccanismi alla base delle intense risposte di paura alla vista di un ago.

Paura associativa

I soggetti in questo caso hanno una risposta appresa associata agli aghi che di solito include l’ansia anticipatoria. È probabile che queste persone abbiano vissuto un evento traumatico o che abbiano un parente che ha trasmesso loro la paura, a causa della propria esperienza negativa. L’ansia può essere estrema, tanto da portare in alcuni casi a sperimentare degli attacchi di panico.

Paura resistiva

In questo caso l’ago è solo una parte della paura. La risposta emotiva deriva per lo più dalla possibilità di essere controllati o trattenuti durante la procedura. La paura probabilmente è causata dall’aver vissuto un’esperienza traumatica associata agli aghi, incluso l’uso precedente di costrizioni, inganni o minacce. Al momento dell’atto, è probabile che i pazienti diventino persino violenti.

Iperalgesia

L’ago non è temuto in sé per sé, bensì è il tocco ad essere temuto. Questo fenomeno è secondario ad una sensibilità ereditata al dolore. In questo caso per i pazienti il dolore è insopportabile e non comprendono come qualcuno possa tollerare tali procedure. I livelli di ansia sono più alti e l’aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna più forti al momento della penetrazione dell’ago.

Vicario

Il sottogruppo della fobia vicaria dell’ago è considerato raro e, coloro che ne soffrono, possono sperimentare una risposta che viene provocata unicamente dal guardare un’altra persona che viene iniettata (Hamilton, 1995).

Rispetto alle terapie necessarie al trattamento delle suddette fobie, sarà bene considerare che l’intensità dell’intervento dovrà dipendere dalla gravità della paura del paziente. L’intervento psichiatrico è solitamente raccomandato se la paura determina una minaccia per la sicurezza del paziente, di chi se ne prende cura o del pubblico.

Ad ogni modo, ogni trattamento dovrà avere l’obiettivo di aiutare il paziente ad affrontare la situazione, motivo per cui gli interventi psicoterapeutici risultano essere il trattamento di elezione (Sokolowski, Giovannitti & Boynes, 2010), tra cui rientra il processo di desensibilizzazione, che talvolta prevede l’utilizzo di immagini, al fine di introdurre la procedura o, ancora, le terapie incentrate sulla percezione, che verificano il procedimento pianificato e riesaminano l’attrezzatura necessaria.

È bene tener presente che la percezione della paura di un paziente è simile alla percezione del dolore: entrambi suscitano una risposta personale basata su ciò che è reale per il paziente. Rendere una procedura spaventosa meno intimidatoria dovrebbe essere un obbligo professionale. La sfida più grande sarà riconoscere i pazienti la cui paura è pervasiva e sarebbe dunque necessario prevedere un piano di cura che si focalizzi sulla prevenzione e sul trattamento e che coinvolga l’intero team sanitario, affinché tale fobia non incida sul trattamento medico di questi pazienti.

 

I Disturbi del calcolo e del numero: modelli neuropsicologici, diagnosi, trattamento (2017) a cura di A. Biancardi, E. Mariani e M. Pieretti – Recensione del libro 

Il libro I disturbi del calcolo e del numero: modelli neuropsicologici, diagnosi, trattamento è stato pensato e realizzato per tutte quelle figure professionali che si accingono allo studio o a un aggiornamento professionale riguardo alle tematiche dello sviluppo e dell’apprendimento delle abilità matematiche in età evolutiva.

 

Il volume è stato curato da Andrea Biancardi (psicologo, psicoterapeuta e coordinatore del “Centro per l’Apprendimento Tassinari), Enrica Mariani (logopedista, pedagogista, dedita ad attività di clinica e di ricerca) e Manuela Pieretti (Logopedista, pedagogista e docente presso l’Università La Sapienza e Tor Vergata), edito da Erickson nel 2017.

Il libro è composto da sei capitoli ognuno creato grazie al contributo di professionisti specializzati e dediti da tempo nello studio, nella diagnosi e nell’abilitazione delle abilità matematiche. Tra gli autori troviamo: Luisa Girelli, Marco Zorzi, Franco Sella, Sara Caviola, Denes Szucs, Andrea Biancardi, Alice Ara, Enrica Mariani, Manuela Pieretti e Cristina Caciolo.

Questo testo presenta una buona suddivisione perché permette al lettore di approfondire le tematiche in modo graduale o di scegliere liberamente quale aspetto attenzionare rispetto al proprio livello di conoscenza dell’oggetto di studio.

Come si è provato a suggerire precedentemente, il testo presenta una disamina esaustiva dei disturbi del calcolo e del numero: dalle ricerche a modelli teorici ben fondati su evidenze scientifiche, da riferimenti diagnostici sul panorama italiano e internazionale come le due Consensus Conference Italiane (2007, 2011) e il DSM-5 a principi cardine di abilitazione e potenziamento delle abilità matematiche.

Inoltre, il volume è ricco di raccomandazioni e indicazioni sul come destreggiarsi e districarsi in un campo dove la ricerca scientifica è ancora nel pieno del suo sviluppo.

Ogni autore, quindi, non si limita a presentare dati e teorie ma mira a supportare ed evidenziare quali sono i modelli teorici validi, i riferimenti e gli oggetti di indagine di un clinico e, ancora, gli strumenti e gli approcci che può avere a disposizione un professionista che si accinge a fare abilitazione.

Nell’intraprendere la lettura del volume, il percorso inizia con un’introduzione storica della ricerca sulle abilità matematiche e sui disturbi correlati che avvia i primi passi negli anni ’80 del secolo scorso e che fin dall’inizio si imbatte nelle problematiche metodologiche dello studio delle abilità numeriche e nella difficoltà di una definizione terminologica, di individuazione dell’eziopatogenesi e dei correlati neuro-funzionali, la loro affermazione come evidenza scientifica e la conseguente applicazione clinica.

Successivamente, da una contestualizzazione e presentazione dello stato dell’arte della ricerca, il volume si concentra a esaminare i sistemi alla base delle abilità numeriche e i meccanismi cognitivi coinvolti in traiettorie di sviluppo tipico e atipico, così da evidenziare quali potrebbero essere le componenti cognitive deficitarie che un bambino con difficoltà nell’ambito della matematica può presentare.

Questo volume, inoltre, non tralascia argomentazioni che potrebbero sembrare marginali ma si occupa di esaminare l’impatto che possono avere le componenti emotive e le differenze di genere sulle abilità numeriche. Anche in questo caso ci districheremo tra ipotesi ed evidenze scientifiche che solleciteranno l’emergere di ulteriori spunti di riflessione sull’approccio culturale e scolastico alla matematica.

Particolarmente apprezzabile è la trattazione accurata degli aspetti inerenti le linee guida individuate ed emesse dalle due Conferenze di Consenso (2007, 2011) a cui un clinico dovrebbe fare riferimento e che Andrea Biancardi e Alice Ara definiscono come

documenti che rappresentano lo sforzo dei clinici e dei ricercatori italiani di concretizzare quanto la ricerca internazionale ha prodotto sui disturbi specifici di apprendimento per orientare verso una corretta e aggiornata pratica clinica. 

Se cercate un testo che racchiude chiarezza, esaustività e novità nel campo della cognizione, abilità e apprendimento numerico potreste includere la lettura di questo testo che, anche successivamente, potrebbe ricoprire il ruolo di bussola tra aspetti teorici e pratici.

Lipstick

Il rossetto non è che una parte del trucco del viso e, come tale, può assumere significato in base al contesto, rappresentando uno specchio dell’emotività della persona cosicché, se portato all’eccesso, può fungere da vera e propria maschera.

 

 ‘Rossetto o lucidalabbra?’ Quante volte noi uomini ci siamo fatti questa domanda mentre, in quella classica situazione di stupor in cui ti possono dire veramente di tutto, tanto non capiresti, osservavamo le labbra inumettate delle nostre compagne. Eh sì, rientra tra quelle situazioni che dire ipnotiche è veramente poco!

Ma perché gli attribuiamo così tanto valore? Cosa rende così magico il tutto?

L’utilizzo del rossetto nasce in Mesopotamia (Schaffer, 2006) ma è presente in molte culture, dall’India (Valdesolo, 2006) all’antico Egitto (Mackay, 1937), raggiungendo popolarità nell’Inghilterra della regina Elisabetta I per divenire fenomeno di costume dopo la seconda guerra mondiale grazie alla sua promozione attraverso l’industria cinematografica.

A darne una spiegazione erudita circa il suo utilizzo è Desmond Morris, noto etologo britannico, che ne argomenta nel suo famoso libro La scimmia nuda (1967) partendo, come suo solito, da concetti legati all’evoluzione. L’acquisizione della stazione eretta avrebbe fatto sì che il richiamo erotico dai genitali si sia spostato sulla bocca cosicché le labbra non sarebbero altro che un richiamo delle piccole labbra genitali, un ‘eco genitale’ reso ancora più vivo dal colore rosso.

Il trucco, esaltando la coloritura, la carnosità e l’umettatura delle labbra fungerebbe nient’altro che da amplificatore di questo segnale erotogeno.

Questo comportamento trova conferma nella cultura aborigena australiana in cui il color ocra della labbra è riservato ai riti d’iniziazione durante il periodo della pubertà. (Richards, 1994) Anche nella nostra cultura, spesso di fatto, l’uso del rossetto inizia quando una donna raggiunge l’adolescenza o l’età adulta.

Nel tempo, alla sua natura intrinsecamente legata all’evoluzione, il rossetto ha acquisito un valore simbolico fortemente mediato dalla cultura.

Ad oggi è in uso il rossetto dei più svariati colori ed il suo utilizzo è esteso anche al pubblico maschile (manstick) in vari ambiti che vanno dalla moda al teatro fino a divenire tendenza culturale.

A partire dall’antica Grecia (Harvard Law School, 2006), passando per la ben nota cultura puritana inglese del diciannovesimo secolo (Greil, 1989) fino ai tempi più recenti dell’America anni ’40 (Mitchell & Reid-Walsh, 2001), l’uso del rossetto è stato demonizzato perché associato alla prostituzione sconsigliandone l’uso a favore di un look più sobrio: simile presidio avrebbe ridotto la popolarità delle giovani donne fino a comprometterne le possibilità di carriera.

 Contropolare è la visione, promossa dalla cinematografia americana, a partire dagli anni ’50, grazie ad attrici come Marylin Monroe ed Elisabeth Taylor, fino ad arrivare agli anni ’60, in cui l’uso del rossetto viene associato alla femminilità a tal punto che chi non lo usa diviene sospetta di malattia mentale o di essere lesbica (Mitchell & Reid-Walsh, 2007).

Da ricordare è indubbiamente l’uso del rossetto nero che ebbe un discreto successo negli anni ’70-’90 trovando largo impiego grazie alla filmografia horror e alle subculture gotiche e punk.

Negli anni ’80 a San Francisco nasce il termine gergale ‘Lipstick Lesbian’ ad indicare una donna lesbica o bisessuale che mostra maggior quantità di attributi femminili come truccarsi, vestiti, gonne o altre caratteristiche associate alla femminilità. Definizione, poi, rivista e corretta da alcuni autori che hanno reinterpretato l’uso del ‘Rossetto lesbico’ non solo esclusivamente delle femmine bisessuali ma anche di donne eterosessuali che temporaneamente mostrano interesse romantico o sessuale verso altre donne al fine di impressionare gli uomini (Faderman et al., 2006)

Il rossetto, non è che una parte del trucco del viso, e come tale può assumere significato in base al contesto rappresentando uno specchio dell’emotività della persona cosicché, se portato all’eccesso, può fungere da vera e propria maschera, modalità attraverso la quale si crea una mimesi del proprio essere che spesso ha una genesi depressiva.

D’altro canto un utilizzo sapientemente strategico del rossetto è considerato indice di una buona valutazione di sé ed il colore rosso è storicamente associato a una donna che fa della seduzione un’arma

A sottolineare la natura fortemente sensuale del rossetto è il suo ben noto collegamento con il tema del tradimento: un tempo la macchia del rosso del rossetto lasciata sul colletto della camicia dell’amante era prova indiscussa di presunta infedeltà.

Nelle scienze forensi il rossetto, lasciato come traccia su abiti, sigarette e bicchieri può divenire oggetto di analisi in qualità di prova fisica all’interno di indagini: è attraverso l’analisi salivare contenente DNA che si riesce a collegare un sospetto alla sua presenza sulla scena del crimine. (11)

Infine, certo è che molti, dopo aver venerato le labbra della partner, non possono che passare alla fase successiva, quella del bacio, ma questo è un altro capitolo e come tale necessita di diverse e più approfondite argomentazioni!

 

Intelligenza artificiale e disturbi specifici dell’apprendimento

L’IA progettata per i disturbi dell’apprendimento occupa prevalentemente due aspetti: identificare le cause e migliorare le metodologie di apprendimento.

 

Non chiedete dati e fatti a bruciapelo,
ma piuttosto interpellate i vostri alunni
affinché esprimano una loro opinione
su determinati fatti e argomenti
(M. Levine)

Da tempo immemore, da quando nacque e si sviluppò la tecnologia e, più di recente, l’intelligenza artificiale, ci si accosta con sospetto a queste realtà, attribuendo loro connotazioni potenzialmente negative per l’essere umano. In campo educativo, si assiste alle stesse manifestazioni creando falsi miti come, per esempio, quello per cui sarebbe la tecnologia stessa la causa dei disturbi dell’apprendimento.

Forse ciò avviene perché, come esseri umani, abbiamo un atavico istinto di diffidenza verso le novità in quanto sempre potenzialmente veicolo di inattese fonti di pericolo. Indubbiamente il progresso e le trasformazioni che poi vengono a prodursi sono fenomeni che si verificano in modo naturale, ma una fetta significativa della società non è pronta ad accogliere i cambiamenti e li vede tutti, indiscriminatamente, con sospetto.

Le difficoltà di apprendimento sono state comprese solo di recente; è esperienza comune, infatti, per chi ha almeno una trentina di anni, ricordare di come un compagno che mostrasse difficoltà di apprendimento venisse spesso bullizzato dall’intera classe e mal tollerato dagli stessi professori che, non comprendendo i motivi delle sue difficoltà, finivano solo per considerarlo come “un rallentamento” per il resto del gruppo. Questi ragazzini venivano visti come elementi disturbanti e “stupidi”, di conseguenza emarginati e poco compresi.

Questo ha sempre prodotto ulteriori effetti negativi su di loro che non potevano che sentirsi inadatti e inadeguati, maturando sempre più la credenza di essere incapaci a scuola e non solo.

Le famiglie stesse venivano influenzate da questi giudizi frettolosi, finendo a loro volta col promuovere questi casi di incomprensione, trasformando bambini e bambine anche molto dotati in adulti nemmeno in grado di esprimersi.

Mentre internet, nella sua interezza, in campo educativo, è stato visto, nella sua prima diffusione, come “ente” potenzialmente positivo, data l’enorme quantità di informazioni che poteva diffondere (e gli effetti negativi di questa caratteristica sono stati individuati e analizzati solo molti anni dopo), non lo stesso si può dire dei videogiochi. Questi ultimi sono stati quasi sempre considerati mero intrattenimento oppure causa di problematiche importanti, fino a ritenerli potenzialmente dannosi per la stessa materia cerebrale, capaci di rendere i ragazzi poco inclini allo studio, alla socializzazione ed esasperando in loro atteggiamenti violenti.

Nella seconda metà del XX secolo fu finalmente trovato un nuovo demone!

Ma, come si accennava poco sopra, con il passare del tempo, anche internet stesso non è stato poi esentato da presentare connotazioni profondamente negative, che si sono rese visibili man mano che ha iniziato a diffondersi presso le masse. Basti pensare ai fenomeni legati al negazionismo, alle manipolazioni elettorali, e, in generale, a tutto il proliferare incontrollato delle più disparate e assurde teorie del complotto, come ad esempio quelle relative ai vaccini o all’introduzione della cosiddetta “5G” (siccome sta per “quinta generazione”), che non fanno altro che spingerci a vedere il presente come una distopia, frutto maturo di una delle peggiori possibili cacotopie. Ma la rivoluzione digitale continua, nonostante tutto! Come in ogni aspetto che riguardi l’umanità dobbiamo sempre accettare che nessuna realtà possa presentare unicamente un lato, nemmeno quello positivo. Saper ricordare gli errori di giudizio aiuta ad avere una visione consapevole, come dimenticare di quando i genitori urlavano ai propri figli cose come: “stando tutto il giorno davanti a quel computer diventerai stupido“, “lo schermo ti brucerà il cervello“, “quei videogiochi ti stanno rincoglionendo, ti stanno rendendo violento“, “stai diventando sempre più menefreghista grazie a questi aggeggi“, “ecco perché non studi“, eccetera.

L’innovazione digitale si prestava ad essere il nuovo serpente dell’Eden, che avrebbe allontanato l’umanità dalla retta via rappresentata dalla tradizione e dalla sicurezza dello schema precedente.

DSA dopo la Quarta Rivoluzione

Intelligenza Artificiale, Machine Learning, Connessione, Interfacce e Ibridazione rappresentano il design di un ambiente rinnovato e totalmente digitalizzato, risultato di ciò che Floridi definisce “Quarta Rivoluzione” (Floridi, 2017), la quale necessita di una nuova forma mentis, che possa tener conto delle sfide e delle opportunità che questi nuovi mezzi propongono ogni giorno, tratteggiando in primo luogo, un quadro etico che possa applicarsi al loro utilizzo pratico e, in secondo luogo, definendo un insieme di principi che sia in grado di indagare e dare risposte al nuovo rapporto uomo-macchina e uomo-macchina-uomo. L’intelligenza artificiale, ramo dell’informatica, si ispira all’intelligenza, soprattutto a quella umana, per fornire strumenti che ne esaltino le potenzialità (e che ci semplifichino la vita).

Le reti neurali artificiali sono in grado di effettuare operazioni specifiche con tale potenza e precisione al punto di dare l’impressione di riprodurre le attività cognitive umane, facendo leva su strutture come memoria e apprendimento proprio tipiche della nostra specie.

La tecnologia migliora il benessere sociale, offrendo numerosi vantaggi in molti settori.

L’interazione human-machines, grazie ai sistemi intelligenti, rende l’esperienza unica e altamente performante. Prendendo in esame lo smartphone, è possibile interagire con esso e consideralo una seconda pelle (Benasayag, 2015): l’interfaccia e il display divengono impercettibili e comunichiamo con assistenti virtuali sempre più efficienti.

Le ricerche orientate e applicate al campo dell’IA si prefiggono l’obiettivo di aiutare l’uomo e migliorarne la qualità della vita, sviluppando, eminentemente in ambito medico, sistemi volti a diagnosticare – monitorare – correggere problematiche psico-fisiche.

A tal proposito, recenti studi dimostrano e affermano come l’Intelligenza artificiale sia anche a sostegno del trattamento per i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

Il DSA è un gruppo di disturbi dell’apprendimento che influiscono in particolar modo sulla lettura.

L’intelligenza artificiale entra in scena anche in questo contesto, al fine offrire un valido strumento di supporto alla diagnosi del DSA, problematico da individuare.

L’IA progettata segnatamente per i disturbi dell’apprendimento occupa prevalentemente due aspetti: il primo, incentrato sull’identificazione delle cause, il secondo, invece, direzionato al miglioramento delle metodologie di apprendimento.

Lifem. Il Machine Learning al servizio del DSA

Il progetto Lifem sfrutta l’intelligenza artificiale per individuare il DSA attraverso un sistema di Machine Learning, con il quale è possibile prevedere la gravità del disturbo e la relativa terapia.

Le reti neurali presenti in questo modello consentono di verificare, attraverso un’attenta analisi statistica, il livello di dislessia presente nel bambino.

Con questo modello il focus verte sulle “cause”, ponendo maggiore attenzione alla fase di identificazione del disturbo, in quanto essa rappresenta un momento cruciale per chi incontra il DSA: riconoscere il disturbo permette di intervenire con strumenti personalizzati che favoriscano un miglioramento delle attività di lettura.

Come afferma l’ideatore dell’applicazione, Roberto Arduino, «un’applicazione in grado di risolvere il ritardo nella diagnosi di disturbi e disabilità, sia nell’apprendimento sia nell’ambito relazionale. È questo lo scopo di Lifem». Il vantaggio di dimezzare le tempistiche diagnostiche, e della conseguente certificazione, potranno altresì agevolare istituti scolastici e aziende sanitarie.

L’intelligenza artificiale, ancora una volta se sfruttata con finalità benevole, aiuta l’essere umano.

L’applicazione Lifem è finanziata da Digital Tree di Genova ed è in fase di sviluppo.

La classificazione dei Disturbi dell’Apprendimento e le App & software come strumenti per l’apprendimento

Il termine “disturbi specifici dell’apprendimento” viene utilizzato per individuare un insieme eterogeneo di disturbi che sono connessi al processo di apprendimento. Come noto, questo processo è molto importante per tutti gli animali in quanto permette loro di acquisire un’adeguata capacità di adattamento all’ambiente. L’apprendimento non va pensato come mera acquisizione di nozioni ma come un fenomeno complesso in cui si imparano e si rafforzano fondamentali capacità che permettono l’interazione con l’ambiente, che è oggi particolarmente complesso. Per questo motivo anche i disturbi legati a questi processi non vanno visti come semplice insorgenza di difficoltà di tipo scolastico ma in una visione di ampio respiro che abbia sufficiente comprensione della complessità di fattori che possono essere coinvolti.

Tradizionalmente vi sono inclusi disturbi che coinvolgono non solo la lettura e la scrittura o di comprensione e uso della matematica ma anche la conseguente difficoltà di comprensione del linguaggio orale che può portare a difficoltà nel formulare ragionamenti. Questi disturbi non coinvolgono solo l’età evolutiva, ma possono essere presenti per l’intero arco della vita. La loro valutazione richiede una competenza specialistica in questo campo, necessaria anche per costruire un adeguato percorso di trattamento.

La dislessia è un disturbo che origina dalla difficoltà a decifrare i segni associati alle parole. Si manifesta quindi come una difficoltà nella lettura che influisce sulla correttezza e sulla velocità della stessa. Ne esistono diverse forme di gravità differenti fino all’incapacità totale di lettura. Le diverse forme hanno in comune che il desiderio di apprendimento non risulta compromesso così come le capacità cognitive generali. Il dislessico non è meno intelligente, il disturbo é circoscritto, non è originato da patologie neurologiche, ma potrebbe avere origine neurobiologica e può essere curato con interventi mirati di vario tipo.

La disgrafia è un disturbo che riguarda la riproduzione dei segni che compongono le parole sul foglio. Chi ne è affetto ha una eccessiva lentezza nello scrivere. Si manifesta con incapacità a seguire il rigo, tratti incerti e spesso ripassati, parole fluttuanti, distanza tra parole variabile. È un disturbo che coinvolge capacità di tipo motorio. Come per gli altri disturbi dell’apprendimento richiede un professionista per essere valutato e non coinvolge capacità intellettive e legate al contenuto.

La disortografia differisce dalla disgrafia in quanto coinvolge processi linguistici di transcodifica, mentre la disgrafia è legata ad abilità motorie. Si manifesta come incapacità di usare correttamente tutti i caratteri e collocarli in modo corretto. Coinvolge anche i segni di interpunzione e gli accenti che indicano un rafforzamento del tono di voce. Può coinvolgere anche la capacità di usare correttamente i tempi verbali.

La discalculia è legata alla difficoltà nelle capacità di calcolo e nella trascrizione dei numeri. É una condizione permanente ma il corretto trattamento può migliorare di molto questa condizione. Chi ne è affetto ha difficoltà a capire concetti che sottendono la matematica e applica le sue regole in modo automatico senza capire il perché.

Dopo aver spiegato brevemente cosa sono i disturbi dell’apprendimento e cosa rientra in questi disturbi andremo ad analizzare come la tecnologia può venirci incontro, grazie a software e app che vengono utilizzate per migliorare l’esperienza dell’apprendimento ai ragazzi con disturbo specifico dell’apprendimento. Sono software e app utili per potenziare e organizzare lo studio. Questi vengono utilizzati come strumenti compensativi per i disturbi dell’apprendimento, ma cosa sono i suddetti strumenti e come si suddividono:

  1. La lettura: può essere migliorata grazie ad una sintesi vocale che trasforma un testo scritto in un compito di ascolto;
  2. La scrittura: in questo caso ci viene in aiuto il registratore che consente all’allievo di non scrivere e non prendere appunti durante la lezione, programmi di videoscrittura e computer che includono un correttore ortografico, altri programmi che riconoscendo la voce la trasformano in testo scritto e l’utilizzo di penne che registrano quello che si scrive e traducono i testi in un lingua straniera.
  3. Il calcolo: associato allo studio della matematica. Uno degli strumenti più conosciuti che viene in aiuto ai ragazzi con disturbi dell’apprendimento è la calcolatrice, che tutti conosciamo nella sua forma tradizionale che serve a facilitare le varie operazioni di calcolo. Oggi si è evoluta. Adesso esiste anche quella parlante. Nello studio della matematica ci vengono in aiuto anche strumenti di bassa ed alta tecnologia. Negli strumenti di bassa tecnologia rientrano le tavole pitagoriche le linee guida per i calcoli a colonna e le tabelle e i formulari. Negli strumenti ad alta tecnologia rientrano software e fogli di calcolo che servono per la scrittura delle operazioni e delle strutture matematiche.

Quali sono le app che possono venirci in aiuto?

Le App sono strumenti di aiuto verso gli alunni o gli studenti con DSA dalla prestazione resa difficoltosa dal disturbo senza ovviamente facilitare il compito. L’utilizzo di simili strumenti non è immediato anzi servono analisi e diagnosi precise per valutare gli strumenti giusti anche sulla base delle indicazioni del referente d’istituto. Possiamo dire che nell’ultimo decennio la tecnologia abbia aiutato nell’arricchimento di strumenti che anni fa erano impensabili. Queste app son d’aiuto in primis, disponibili e utilizzabili su numerosi dispositivi tra smartphone e tablet, in poche parole sono accessibili. Il prezzo è basso o addirittura sono gratuite e facilmente utilizzabili in base al disturbo dell’apprendimento supportando e favorendo la soluzione di alcuni problemi legati ad uno o più disturbi; non solo, sono disponibili per ogni area, facili da usare, capire, condividere e intuitive.

Queste applicazioni si raggruppano per area di apprendimento e tipologia di disturbo.

  • app per la lettura che servono per la decodifica del testo
  • app per le lingue straniere
  • app per la matematica
  • app multifunzionali per competenze trasversali
  • altre app come dizionari e mappe

Alcune app di esempio

Haiku Deck è un’app utile per chi ha difficoltà nella comprensione del testo. Il suo punto forte è quello di creare sintesi di concetti. Composta da presentazioni semplici ma di grande impatto anche perché sfrutta la capacità comunicativa delle immagini. Inoltre mette alla prova la creatività, soprattutto quella degli alunni.

KidEWords è un’applicazione utile per esercitarsi nella scrittura e migliorare nell’ortografia, per le difficoltà metafonologiche e per imparare parole nuove. Si presenta con diversi livelli di difficoltà e con una grafica bella colorata che aiuta i bambini ad esercitarsi tramite cruciverba.

Math and Tap è nata grazie ad una collaborazione tra De Agostini e Centro Leonardo ed è stata sviluppata creando un percorso educativo narrativo e ludico per esercitarsi in matematica. L’interfaccia è stata sviluppata da una cooperazione tra pedagogisti e psicologi, per rendere la scambievolezza facile ed intuitiva anche grazie ad una grafica molto curata. Il bambino viene aiutato a concentrarsi nel gioco anche su temi complessi, mentre si diverte grazie alla combinazione con la narrazione, le musiche e vari effetti sonori, realizzati ad hoc. Infatti è composta da giochi che servono a rinforzare concetti matematici, linguistici e logico- spaziale.

Quick Math Jr. Pack è composta da giochi per allenarsi a calcolare, contare, calcolo mentale, time-telling. Inoltre include anche un innovativo propulsore di scrittura a mano, che permette ai giocatori di scrivere le risposte direttamente sullo schermo, magnifico in questo caso anche per esercitarsi a scrivere a mano.

DSA è un’app destinata a famiglie e bambini, insegnanti, logopedisti e specialisti che operano nel mondo dell’istruzione e delle attività di recupero per i Disturbi Specifici dell’ Apprendimento. Sviluppata con la collaborazione di psicologi, insegnanti e logopedisti, offre informazioni e strumenti utili a divulgare la conoscenza sui DSA. All’interno vi sono quattro sezioni e le famiglie possono utilizzare l’app per riconoscere segnali utili ad una diagnosi precoce, per conoscere i sostegni economici messi a disposizione dalla previdenza sociale e altro ancora. Agli insegnanti e ai professionisti viene offerta una classificazione dei vari DSA da parte di specialisti del settore. Viene inclusa anche la possibilità di consultare in modo diretto le normative nazionali. Nei giochi sono presenti attività ideate da team specializzati, con il fine di migliorare, divertendosi, le abilità di lettura e di calcolo.

GimmeFive è un’applicazione che ha l’obbiettivo migliorare o sviluppare l’abilità degli studenti per eseguire calcoli a mente. Pur non essendo sviluppata specificatamente per i soggetti affetti da DSA o da disturbi dello spettro autistico, è un buon esempio di come la tecnologia in campo educativo possa essere di aiuto a tutti. Aiuta a portare a termine il compito in due modi: scomponendo la competenza in una serie di abilità che ne costituiscono dei requisiti e cercando poi di farle acquisire una alla volta. La caratteristica di un approccio lontano dagli schemi scolastici la rende particolarmente adatta per i bambini con DSA o con disturbi dello spettro autistico.

Le Calcolatrici parlanti sono utili strumenti per i disturbi dell’apprendimento. Grazie all’ampiezza dei tasti e alla chiarezza vocale, unita alla semplicità d’uso, sono l’ideale per tutti coloro che hanno difficoltà nel riconoscere le lettere e i numeri.

Geometria facile 1 è un software che rende divertente l’apprendimento delle competenze matematiche e geometriche di base. Si sviluppa in 5 sezioni navigabili in libertà che comprendono oltre 200 attività differenti, con difficoltà crescente, fra cui: localizzazione di oggetti nello spazio, creazione di percorsi, uso del piano cartesiano, fondamenti su figure geometriche, fra cui linee, segmenti, rette, studi sugli angoli, eccetera. Il gioco prende spunto dalla fiaba animata “I vestiti nuovi dell’imperatore” di H.C. Andersen e dispone di una modalità storia in grado di alleggerire l’apprendimento trasformandolo in gioco. Dal lato degli insegnanti il gioco offre strumenti per prendere nota della progressione degli alunni. In circolazione esistono quindi diverse applicazioni e software che vengono in aiuto ai ragazzi per studiare lingue straniere o per migliorare la propria lingua imparando divertendosi.

Ad esempio Valeria Cagnina fondatrice di OFpassiON insieme a Francesco Baldassarre, in un suo post su Linkedin, sottolinea l’importanza cruciale delle studio delle lingue. Riferendosi all’inglese dice la sua opinione in merito e ciò che fa attraverso la sua organizzazione di robotica educativa con i ragazzi: “Conoscere perfettamente l’inglese non significa farlo a sfavore dell’italiano, significa aggiungere e non togliere. I ragazz* non dovranno sapere un po’ di inglese, ma dovranno sapere l’inglese come l’italiano. Quindi ben venga qualsiasi forma che fin da piccolissimi lo trasmetta in qualche modo. Noi cerchiamo di farlo valorizzando la sperimentazione e le esperienze all’estero nelle nostre sessioni di mentoring, cercando di utilizzare qualsiasi testo in inglese durante le ricerche nei nostri laboratori, invogliando ad andare a cercare l’origine di ogni fonte (che sono quasi sempre in inglese), utilizzando software in inglese, con i TED, con semplici parole durante i laboratori con i piccolissimi… Solo così avranno davanti un mondo infinitamente più vasto ed enormi possibilità.”

Ma perché mettere in relazione il bilinguismo con la dislessia (e possibilmente altri DSA)?

Dislessia e bi (o pluri) linguismo potrebbero essere rappresentati come due poli opposti e complementari.

A livello terapeutico ha senso chiedersi, siccome si ha a che fare con disturbi espressi all’interno della sfera del linguaggio (e vale la pena sottolineare come linguaggio scritto e parlato rispondano alle stesse aree della corteccia cerebrale) se e come l’insegnamento di una seconda lingua madre possa eventualmente portare benefici o ridurre il rischio di manifestare Disturbi dell’Apprendimento Specifici come la dislessia.

Anche solo “a prima vista”, armati unicamente del “sentire comune” e del buon senso, probabilmente sarebbe semplice notare come, per forza di cose, quelle qualità e quegli aspetti cognitivi che stanno alla base dall’apprendimento delle lingue siano in un qualche modo contrapposti a quelle tipiche di un disturbo che invece impedisce (almeno nella forma scritta) l’apprendimento anche di un unico linguaggio. In poche parole: i punti deboli di un soggetto dislessico paiono coincidere pienamente con i punti di forza espressi invece da soggetti bilingue o plurilingue.

In questo caso le recenti scoperte fatte nell’ambito delle neuroscienze paiono accordarsi con ciò che poteva sembrare unicamente frutto dell’intuito; non solo il bilinguismo (se portato avanti, con un equilibrio per quanto riguarda le competenze in tutti i linguaggi appresi) porta vantaggi in tutte quelle competenze associabili allo sviluppo del linguaggio, come capacità migliori nel riconoscere le strutture linguistiche, da quelle semantiche a quelle grammaticali e morfosintattiche e migliori capacità meta-linguistiche in generale, ma anche incredibili benefici per quanto concerne le aree di sviluppo sociale/interpersonale e quelle della sfera cognitiva. In particolare sono stati evidenziati miglioramenti della memoria episodica e semantica e una propensione alla costruzione di una identità personale molto più complessa e sfaccettata, senza contare i benefici relativi alla Working Memory e, in un’ottica più ampia, a tutte le Funzioni Esecutive (FE).

Auto-apprendere la dislessia

Le ultime evidenze scientifiche, grazie agli studi condotti dal prof. Marco Zorzi dell’Università di Padova, sottolineano come la progettazione di un sistema di IA finalizzato alla diagnosi dei DSA sia ad oggi uno degli strumenti più preziosi a nostra disposizione.

La ricerca, pubblicata sul Psychological Science (2019), mette in luce come, con l’aiuto delle reti neurali artificiali, sia molto più semplice determinare i fattori che influiscono e alimentano i deficit di apprendimento. Lo studio si basa sull’analisi di dati provenienti da interazioni di neuroni artificiali che simulano la lettura (Le Scienze, 2019). L’elemento che contraddistingue questo modello consiste nell’apprendere le diverse strategie di decodifica del testo adottate da bambini con DSA; seguendo questo sentiero sarà possibile creare un IA capace di auto-apprendere le difficoltà di lettura (Le Scienze,2019).

La rete neurale inizialmente acquisisce abilità rudimentali nella decodifica delle parole scritte, imparando le associazioni più frequenti tra lettere e suoni (ad esempio la lettera B è sempre associata al suono /b/). Successivamente, ad ogni tentativo di decodifica, la rete genera una parola in forma orale e cerca la migliore corrispondenza con quelle che ha in memoria, che rappresentano il lessico parlato del bambino. In caso di corrispondenza viene creata una memoria visiva della parola scritta, che servirà nel futuro a riconoscerla in modo più rapido ed efficiente, e contemporaneamente vengono rinforzate le associazioni tra le lettere ed i suoni che formano la parola stessa.

L’apporto che tale metodologia presenta è straordinario poiché, grazie all’uso di questo potente programma, sarà possibile identificare in tempi brevi, e con una discreta accuratezza matematica, il DSA. Inoltre, tale progetto consente di salvaguardare la prospettiva multifattoriale e personalizzata del disturbo: ogni persona affetta da DSA manifesta un profilo “personale”, il quale necessita di una diagnosi soggettiva. Nonostante questi disturbi siano “universali”, presentano una dimensione “particolare”, e cioè unica per ogni individuo.

Predisporre di sistemi neurali così precisi implica la possibilità di indicare una terapia e un percorso di riabilitazione funzionale, in cui si ha l’opportunità di intervenire efficacemente sul problema e potenziare concretamente le capacità di apprendimento.

 

Schizofrenia e attività fisica

Lo scopo del presente articolo è l’esplorazione di una modalità di potenziamento, a basso costo, dell’attività cognitiva delle persone con schizofrenia che agisce sul volume ippocampale, cioè l’attività fisica.

 

 La schizofrenia è una patologia grave e cronica che compromette il funzionamento della persona in ambito lavorativo, delle relazioni interpersonali e della cura del sé.

È caratterizzata da sintomi positivi quali i deliri, le allucinazioni, la disorganizzazione del pensiero ed il comportamento bizzarro o disorganizzato. I sintomi negativi compaiono nella fase prodromica della malattia e sono: l’apatia, l’appiattimento affettivo, il deficit nella produttività e fluidità dell’eloquio, la perdita d’iniziativa, la povertà ideativa, la difficoltà a mantenere l’attenzione e la compromissione dei rapporti interpersonali, del funzionamento sociale e lavorativo.

La schizofrenia ha un CoI (Cost of Illness – costo della malattia) elevato, costituito dai costi indiretti, inerenti alla perdita di produttività dei pazienti e delle loro famiglie, e dai costi diretti di trattamento. Questi comprendono la residenzialità, cioè l’ospedalizzazione nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), in strutture pubbliche (comunità terapeutiche, appartamenti protetti) o private. Inoltre le persone con schizofrenia vengono assistite dai Centri di Salute Mentale e possono afferire ai Centri Diurni. I costi diretti di trattamento riguardano anche la farmacoterapia, trattamento d’elezione la cui efficacia aumenta se combinata ad altri tipi di trattamento.

In termini di recovery è importante utilizzare ogni risorsa disponibile per arginare le limitazioni dovute alla schizofrenia.

La psicoeducazione, consiste nel fornire al paziente informazioni relative al disturbo (come i sintomi, il decorso, l’utilizzo della farmacoterapia) in modo da aiutarlo a gestire la sintomatologia.

Il trattamento cognitivo comportamentale è focalizzato sui sintomi positivi della schizofrenia, ed ha come obiettivi il loro riconoscimento mediante psicoeducazione, il distanziamento critico e la gestione dei sintomi, attraverso la formulazione di ipotesi alternative, l’utilizzo di strategie che consentono di padroneggiare i sintomi e l’incremento delle abilità sociali attraverso social skills training.

Inoltre la Cognitive Remediation Therapy (CRT) è finalizzata a implementare le funzioni esecutive, l’attenzione e la memoria mediante un programma di training cognitivo.

Scopo del presente articolo è l’esplorazione di una modalità di potenziamento, a basso costo, dell’attività cognitiva delle persone con schizofrenia aumentando il volume ippocampale, cioè l’attività fisica.

La conoscenza delle basi biologiche che determinano i sintomi consentono anche di conoscere le risposte ai trattamenti e le modalità da impiegare per il potenziamento della cognizione.

I terminali sinaptici sono diversi: è stata utilizzata l’immunocitochimica per studiare le proteine ​​presinaptiche complexin II – complexin I, le quali sono risultate inferiori nell’ippocampo di persone con schizofrenia (Sawada, Barr et al., 2005).

Un altro studio sull’attività ippocampale (Tregellas, Smucny, Harris, et al., 2014) ha indagato la diminuzione della memoria, delle funzioni linguistiche, della velocità di elaborazione e dell’attenzione, mediante MATRICS Consensus Cognitive Battery (MCCB), in un gruppo di 28 pazienti schizofrenici confrontati con un gruppo di controllo. È stato utilizzato lo scanner per la risonanza magnetica con campo elevato (3T) e l’attività dell’ippocampo destro è risultata essere due volte più elevata nei pazienti schizofrenici rispetto al gruppo di controllo.

Infatti è stato dimostrato che la neurogenesi, cioè la capacità del cervello di produrre nuovi neuroni, può avvenire anche in età adulta (Fernández, Pedraza & Gallo, 2013) e determinare miglioramenti delle funzioni cognitive anche se compromesse, pertanto è necessario comprendere come aumentare la neurogenesi e di conseguenza le prestazioni cognitive.

 La neurogenesi e le prestazioni cognitive sono correlate ad un aumento di BDNF, che è il fattore di crescita più abbondante nel cervello umano e viene stimolato dall’esercizio aerobico. Il fatto che la concentrazione di BDNF in pazienti schizofrenici sia risultata ridotta in diverse aree cerebrali, quali la corteccia dorsolaterale e frontale (Weickert, Hyde, Lipska et all., 2003; Toyooka, Asama, Watanabe et al.,2002) sta portando i ricercatori ad indagare i benefici neurocognitivi dell’esercizio fisico, dato che vi sono studi secondo cui il BDNF risulta essere un mediatore dei miglioramenti cognitivi dovuti all’esercizio fisico in pazienti con schizofrenia.

A tal proposito è stata condotta una meta-analisi (Firth, Stubbs, Rosenbaum, et al., 2017), su dieci studi con 385 partecipanti, per rilevare gli effetti dello sforzo fisico sul funzionamento cognitivo nelle persone con schizofrenia. Di questi la maggioranza ha utilizzato interventi che prevedevano esercizio aerobico.

I risultati evinti suggeriscono che l’esercizio migliora notevolmente la cognizione globale delle persone con schizofrenia rispetto al gruppo di controllo, (p = 0.065) soprattutto se associato ad una maggiore durata settimanale dell’esercizio; nello specifico i cambiamenti riguardano la cognizione sociale (g = 0.71), la memoria di lavoro (g = 0.39) e l’attenzione (g = 0.66).

Inoltre la supervisione da parte di professionisti dell’attività fisica e livelli più alti di esercizio settimanale promuoverebbero i benefici cognitivi dell’esercizio.

Un RCT (Cassilhas, Attux, Cordeiro, et al., 2015) ha indagato gli effetti di un protocollo di allenamento di 20 settimane sui sintomi della schizofrenia. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale ad uno dei tre gruppi differenziati per il carico degli esercizi: il gruppo di controllo (CTRL n. 13) svolgeva esercizi con un carico minimo (es. bassa velocità di tapis roulant, 4km/h, due serie di 15 ripetizioni con un minuto di riposo); il gruppo di resistenza (RESEX n. 12) seguiva un programma di allenamento di resistenza progressiva rivolto alle diverse fasce muscolari; mentre i pazienti del gruppo CONCEX (n. 9) praticavano sia esercizi di resistenza che di forza.

Sono state rilevate differenze significative a 10 settimane dall’inizio dell’intervento e post- (20 settimane) alla scala PANSS (usata per valutare la gravità dei sintomi positivi e negativi). Nello specifico nei gruppi RESEX e CONCEX, i sintomi della malattia sono migliorati dopo 10 settimane (RESEX; p = 0.002; CONCEX; p = 0.026) e 20 settimane (RESEX; p <0.001; CONCEX: p = 0.003), mentre nel gruppo CTRL, sono rimasti stabili. Inoltre nel gruppo RESEX i sintomi negativi sono migliorati dopo 10 settimane (p = 0.001) e dopo 20 settimane (p = 0.002).

Altri cambiamenti significativi concernono il punteggio al questionario SF-36 sulla qualità della vita, il quale esamina il funzionamento fisico e le limitazioni dovute allo stato di salute. Dopo 20 settimane di intervento, il gruppo RESEX  e il gruppo CONCEX  sono migliorati rispetto all’inizio dell’intervento (rispettivamente p = 0.011 e p = 0.014).

Questi risultati confermano diversi studi, tra cui un RCT (Scheewe, Backx, Takken, et al., 2013) in cui sessantatré pazienti con schizofrenia sono stati assegnati in modo casuale ad un protocollo di allenamento (n. = 31) o ad una terapia occupazionale (n. = 32). Il protocollo di allenamento era costituito da esercizi di resistenza rivolti a diversi gruppi muscolari a settimana, le sessioni avevano la durata di 1 ora e si sono svolte due volte a settimana per 6 mesi. Al termine si è evinto che la terapia fisica ha ridotto i sintomi di schizofrenia (p = 0.001) misurati dalla scala PANSS, la depressione (p = 0.012), misurata mediante la scala di valutazione della depressione di Montgomery e Åsberg, il bisogno di cure (p = 0.050), individuato attraverso la valutazione dei bisogni di Camberwell, e l’aumento della forma cardiovascolare (p <0.001), misurato mediante l’indice di massa corporea, la percentuale di grasso corporeo e la sindrome metabolica (MetS), rispetto alla terapia occupazionale.

In un RCT (Pajonk, Wobrock, Gruber, et al., 2010) sono stati confrontati pazienti maschi che hanno fatto allenamento aerobico, ciclismo, (n. 8) o calcio balilla (n. 8) con un gruppo di controllo che ha svolto esercizio aerobico (n. 8) per un periodo di 3 mesi.

Dalla risonanza magnetica è risultato che il volume dell’ippocampo è aumentato in modo significativo sia nei pazienti attivi (12%) che nel gruppo di controllo (16%), invece il gruppo di pazienti che ha praticato calcio balilla non ha subito variazioni. Benché la gravità dei sintomi totali della schizofrenia, misurata dalla scala PANSS, si sia ridotta nel gruppo che ha svolto esercizi, e sia aumentata nell’altro, non sono emerse correlazioni tra il cambiamento dei punteggi e le variazioni del volume dell’ippocampo, che invece sono correlate con il miglioramento dei punteggi ai test per la memoria a breve termine (test di Corsi e test di Rey).

Questi risultati indicano che sia nei soggetti parte del campione di controllo, sia nelle persone con schizofrenia, il volume dell’ippocampo cambia in risposta all’esercizio aerobico svolto.

 

Adolescenti con emozioni intense: come gestire con la DBT le sfide emotive e comportamentali di tuo figlio (2021) di Britt H. Rathbone – Recensione del libro

Il libro Adolescenti con emozioni intense vuol essere una guida concreta, in grado di fornire indicazioni utili e proporre strategie efficaci e comprovate per supportare una valida genitorialità, con il fine ultimo di migliorare la vita dei genitori e dei loro figli, adolescenti e giovani adulti, con una sfera emozionale in subbuglio.

 

 Le strategie e indicazioni proposte sono fornite dalla Terapia Dialettico-Comportamentale (Dialectical Behavior Therapy, DBT), sviluppata dalla psicologa Marsha Linehan (1993) e fondata su un assunto essenziale: l’accettazione è la base del cambiamento, per cui è indispensabile riconoscere che le persone – adolescenti e giovani adulti compresi – fanno il meglio che possono, date le circostanze e le difficoltà della loro vita, e pertanto devono essere accettate, comprese e supportate nell’avviare processi di cambiamento.

Accettare significa riconoscere con il corpo e con lo spirito che non hai scelta e che la realtà “è quel che è”, e quindi passare a trovare il modo di trarre il massimo da una realtà difficile e dolorosa. (Linehan, 1993)

La Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) è un trattamento cognitivo-comportamentale complesso, originariamente sviluppato per soggetti a grave rischio suicidario e con disturbo borderline di personalità, poi esteso ad altre condizioni psicopatologiche in cui la disregolazione emotiva gioca un ruolo essenziale, quali la dipendenza da sostanze e da alcool, i disturbi del comportamento alimentare e la suicidarietà in adolescenza. Da oltre 15 anni, è stata adattata da Alec Miller e i suoi colleghi al trattamento di adolescenti con comportamenti suicidari e disregolati e alle loro famiglie.

Gli autori del testo, Britt Rathbone e Pat Harvey, sono due esperti psicoterapeuti dell’adolescenza, che, per oltre un decennio, hanno lavorato con i ragazzi e le loro famiglie attraverso la terapia DBT insegnando loro le abilità e le strategie essenziali, attraverso cui sostituire i comportamenti pericolosi e distruttivi con altri più sani e adattivi, adottando un atteggiamento di accettazione e comprensione empatica, in base al quale riconoscere quanto sia difficile cambiare. Accogliendo questi importanti presupposti, i genitori possono diventare meno emotivamente reattivi e giudicanti e più efficaci nel comprendere i loro figli (Miller, Rathus e Linehan, 2007).

La prima parte del libro (capitoli 1-4) descrive la fase adolescenziale, definendola “un momento di sfida, cambiamento e imprevedibilità”, e propone una serie di strategie e abilità basilari per comprendere gli adolescenti e rispondere efficacemente al loro sconvolgimento emotivo. Queste utili indicazioni sono accompagnate da brevi vignette cliniche, che illustrano in modo esemplificativo il rapporto genitori-figli, e schemi riassuntivi che propongono pratici esercizi, rivolti ai genitori.

Le strategie genitoriali proposte sono diverse. Per esempio, i genitori sono invitati a considerare i pro e i contro nell’adottare una determinata risposta al comportamento del proprio figlio, valutando i vantaggi a breve e a lungo termine. Risulta altrettanto utile stabilire una scala di priorità in base alla quale decidere quali problemi risultano maggiormente impellenti; per esempio, rispondere in modo deciso e immediato al rischio di comportamenti pericolosi (per es. l’uso di sostanze stupefacenti) ha la precedenza rispetto alla gestione di dinamiche familiari e problemi scolastici.

È essenziale migliorare la comunicazione con il proprio figlio, che sia un adolescente o un giovane adulto, ponendosi come obiettivo la possibilità di chiedere qualcosa o di negare una richiesta, pur mantenendo la relazione e il rispetto di sé. A questo proposito, viene indicato un esercizio concreto da praticare per pianificare una buona interazione genitore-figlio:

Adolescenti con emozioni intense - Recensione IMM2

Un’altra strategia genitoriale, proposta nel testo, consiste nel ripercorrere la “storia delle proprie emozioni”, intesa come esito dell’interrelazione tra fattori di vulnerabilità, eventi scatenanti, pensieri sull’evento, sensazioni corporee, denominazione dell’emozione e, infine, risposta comportamentale.

Come chiariscono gli autori stessi,

la storia dell’emozione fornisce uno schema per interpretare lo sviluppo delle emozioni, nonché la guida su come cambiare il risultato della storia e il modo in cui tu o tuo figlio potreste sentirvi dopo che l’emozione è stata espressa a livello comportamentale. (p. 37)

È importante ricostruire la storia dell’emozione in quanto consente al genitore di essere pienamente consapevole delle vulnerabilità, degli eventi scatenanti, dei pensieri, delle sensazioni corporee e delle azioni del proprio figlio adolescente e anche di se stesso.

 Da leggere con attenzione il quarto capitolo, che propone un approccio equilibrato alla genitorialità, nonostante le intrinseche difficoltà di un ruolo complesso quale quello di genitore di un adolescente che ha emozioni intense. Percorrere il sentiero di mezzo è la strada migliore per raggiungere una genitorialità equilibrata; ciò implica abbandonare posizioni rigide, assolute e polarizzate, per abbracciare un pensiero dialettico e accogliere l’esistenza di molteplici prospettive. Infatti, accettare che ci possano essere più prospettive e cercare ciò che è valido, ossia quella dose di verità inclusa in ciascun punto di vista, consente di minimizzare le lotte di potere intrafamiliari.

Gli autori propongono alcuni accorgimenti linguistici, specifici e pratici, per migliore le modalità comunicative e insegnare l’uso del pensiero dialettico all’interno del rapporto genitori-figli; per esempio, evitare l’uso dell’avverbio avversativo “ma” da sostituire con la congiunzione “e” che offre valore a entrambe le frasi e prospettive; ridurre al minimo l’uso di termini assoluti come “sempre”, “mai”, “tutti” e “nessuno”; adottare un pensiero “sia/e” invece di “oppure/o”, due congiunzioni disgiuntive che pongono una distinzione netta tra due alternative autoescludentisi. L’obiettivo finale consiste nell’abbandonare progressivamente l’uso di affermazioni non dialettiche, le quali riflettono il pensiero in bianco e nero, tipico degli adolescenti con emozioni intense, per esprimersi mediante affermazioni dialettiche che contemplino l’esistenza di prospettive alternative e più equilibrate, senza assolutismi e presunte verità assolute.

Criterio necessario per offrire risposte più equilibrate e meno estreme consiste nel conoscere i compiti evolutivi dell’adolescenza e saper distinguere i comportamenti tipici da quelli atipici.

Per decidere se un determinato comportamento sia o meno problematico, e quindi meritevole di particolare attenzione, bisogna considerare il comportamento stesso, l’intensità della sua manifestazione, il rischio che comporta e i modi in cui questo domina o interferisce con la vita complessiva del ragazzo. Gli autori presentano alcuni esempi di comportamenti tipici e problematici in una pratica tabella qui riportata:

Adolescenti con emozioni intense - Recensione IMM1

Spesso, i genitori oscillano tra uno stile genitoriale molto rigoroso, esigente e punitivo, e una modalità indulgente, che tende a minimizzare regole, aspettative e richieste.

A questo proposito, gli autori chiariscono che l’obiettivo da porsi è trovare un equilibrio “tra clemenza e rigore”. Come? Bilanciando il supporto e la guida, quando è necessario o i ragazzi lo richiedono, donando al contempo margini di libertà per aiutare il ragazzo a diventare indipendente; ponendo dei limiti ma offrendo possibilità di scelta, in un mix di fermezza e gentilezza, per cui scegliere le priorità non negoziabili nel rapporto genitori-figli; fornendo le radici dell’appartenenza e le ali per esplorare e conoscere la vita da sé.

La seconda parte del testo (capitoli 5-8) risulta particolarmente interessante in quanto fornisce informazioni su come rispondere a specifici problemi comportamentali, tipici della fase adolescenziale, che scaturiscono da una forte e ingestibile emotività: dai comportamenti suicidari e autolesivi ai comportamenti dirompenti e rischiosi come l’aggressività, la promiscuità sessuale e il furto, sino all’abuso di sostanze; dalle problematiche ansiose ( difficoltà scolastiche, comportamenti ossessivi o compulsivi, rigidità e perfezionismo, ansia da separazione, ritiro sociale, attacchi di panico), ai disturbi del comportamento alimentare.

Ciascuna problematica viene esaminata nel dettaglio, a partire da una comprensione del comportamento allarmante e dalla proposta di una vignetta clinica, per poi soffermarsi sulla risposta genitoriale, attraverso la presentazione di una guida concreta su come rispondere nel modo più sicuro ed efficace a questi comportamenti, usando le abilità e strategie indicate nella prima parte.

Per esempio, nel caso dell’autolesività, 

un comportamento deliberato e guidato dalle emozioni che si traduce in un danno fisico esterno o interno. (p.115),

vengono selezionate le possibili motivazioni alla sua base: il tentativo di gestire un dolore emotivo molto forte; la volontà di punirsi; il bisogno di provare qualcosa di diverso dall’intorpidimento emotivo; il desiderio di ridurre l’isolamento sociale e aumentare l’identificazione con il gruppo dei pari. Di fronte alla minaccia di farsi del male di un figlio adolescente o giovane adulto, è necessario porre in sicurezza il ragazzo adottando una serie di accorgimenti, come assicurarsi che non abbia accesso immediato a coltelli, pillole e altri mezzi che potrebbe usare per ferirsi, essere pronti a violarne la privacy in nome della sua incolumità, e richiedere un immediato aiuto esterno e professionale.

Infine, la terza parte (capitoli 9-10) è dedicata alla cura di sé, in quanto genitore, e del sistema famiglia, mediante la proposta di una serie di indicazioni finalizzate a migliorare la gestione dello stress genitoriale, adottare una voce interiore clemente e non giudicante verso se stessi, e trovare un equilibrio tra richieste e desideri cioè tra le aspettative e i desideri altrui e i propri.

Come gli autori sottolineano, l’unico modo per avere energie e risorse sufficienti a prendersi cura del proprio figlio adolescente è prendersi cura di se stessi. Insegnare a se stessi come calmarsi, distrarsi e consolarsi in circostanze difficili e dolorose è fondamentale per ridurre l’intensità delle emozioni e superare il momento di crisi senza peggiorare le cose (Linehan, 1993)

Gli autori rivolgono uno sguardo anche al “sistema famiglia”, discutendo dell’effetto che il figlio adolescente con un’emotività intensa esercita sugli altri membri del nucleo familiare, come i fratelli e le sorelle. Infatti, risulta importante trascorrere del tempo con gli altri figli, assicurandosi che i loro bisogni emotivi siano altrettanto soddisfatti, in quanto spesso questi si sentono invisibili e trascurati. Inoltre, è bene distinguere, nella cerchia parentale, coloro che riescono ad essere supportivi, comprensivi e validanti, dando un concreto supporto e conforto, e quanti invece saranno giudicanti e offriranno consigli indesiderati e poco utili.

Il manuale termina con la proposta di una serie di risorse web e consigli letterari per i genitori, insieme alla presentazione di una guida rapida per una “genitorialità equilibrata ed efficace”, che ripropone concetti e abilità precedentemente esposti nel corso dei capitoli, come l’importanza dell’accettazione, della flessibilità e dell’equilibrio, del pensiero dialettico e della negoziazione, nel rapporto con il proprio figlio adolescente.

La lettura del libro risulta chiara e scorrevole, pur offrendo una visione articolata e completa dell’universo adolescenziale e una descrizione realistica delle montagne russe emotive tipiche di questo periodo; inoltre, dona un contributo concreto alle figure genitoriali in quanto propone risposte pratiche agli innumerevoli interrogativi che frequentemente sorgono di fronte alle sfide dell’adolescenza, soprattutto se attraversata da intensi sconvolgimenti emotivi.

 

Perdonare un torto subìto ci fa stare meglio?

 Effetti del perdono sulla salute fisica

Lee ed Enright hanno recentemente condotto una meta-analisi per analizzare l’associazione tra benessere corporeo e perdono.

 

Il perdono libera l’anima, rimuove la paura. È per questo che il perdono è un’arma potente.

Queste le parole di Nelson Mandela in merito agli effetti che tale processo può avere sulle nostre emozioni. Ma leggendo questa frase la domanda che sorge spontanea è: quando si perdona qualcuno anche il nostro corpo può trarne beneficio?

Sono state pubblicate ben quattordici meta-analisi su perdono e salute mentale, mentre fino a poco tempo fa non esisteva alcuna meta-analisi completa che descrivesse la relazione tra perdono e salute fisica. Proprio da queste necessità è nata l’indagine di Lee ed Enright, in grado di evidenziare un’associazione finora trascurata (2019).

Lee ed Enright hanno infatti recentemente condotto una meta-analisi di studi empirici per analizzare l’associazione tra benessere corporeo e perdono in persone con e senza problemi di salute. Per studiare al meglio la relazione tra questi due concetti, è bene conoscerne il significato.

Enright (2012) ha definito l’atto di perdonare qualcuno come una diminuzione della motivazione a vendicarsi, accompagnata dalla volontà di rinunciare al risentimento nel contesto dell’ingiustizia e di offrire amore morale e benevolenza a un offensore.

Da questa definizione si può assumere che il perdono nasca da un’offesa percepita come intenzionale da parte della vittima, che inizialmente reagisce con un atteggiamento di rivalsa. Ad essa segue poi una riflessione, che può verificarsi anche sotto forma di ruminazione cognitiva, attraverso la quale la prima reazione emotiva viene ad affievolirsi per fare spazio ad un atto intenzionale di rinuncia alla vendetta. Le emozioni che precedono questo processo hanno una natura negativa. Tra le più diffuse troviamo rabbia e risentimento. Perdonare qualcuno, invece, può permettere di sperimentare emozioni positive, che possono favorire leggerezza e benessere fisico.

Il concetto di salute è stato descritto in molti modi diversi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente l’assenza di malattie o infermità (Grad, 2002, p. 984)”. Eppure, Huber e colleghi (2011) hanno criticato la definizione di salute dell’OMS per aver trascurato l’aumento delle malattie croniche, giudicandola, per tale motivo, non completa. Il team di Huber (2011) ha quindi concettualizzato la salute come “la capacità di adattarsi e di autogestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive (p. 1)” ed ha affermato che il termine salute fa riferimento alla condizione di un organismo che è “capace di “allostasi”, vale a dire mantenimento dell’omeostasi fisiologica attraverso il cambiamento delle circostanze. Alla luce di questa definizione, un organismo sano che sta fronteggiando uno stress fisiologico è in grado di attivare una risposta protettiva, ridurre il potenziale danno e ripristinare un equilibrio, adattandosi”. È proprio al mantenimento di questo tipo di equilibrio che si fa riferimento quando si analizzano le conseguenze che il perdono ha sulla salute corporea.

Gli autori dell’indagine hanno recuperato centoventotto studi nei quali era mostrata una significativa relazione positiva tra il perdono degli altri e la salute fisica. Le variabili di salute fisica osservate hanno incluso: biomarcatori, caratteristiche misurate che indicano normali processi biologici, patogeni o risposte farmacologiche a un intervento terapeutico (ad esempio un elevato tasso di glicemia); endpoint clinici, come infarto al miocardio o frattura ossea; salute fisica auto-riferita (Biomarkers Definitions Working Group, 2001, p. 91).

Come precedentemente descritto, l’ipotesi nucleare dei ricercatori riguardava l’associazione positiva tra il perdono degli altri e la salute fisica. Tale ipotesi è stata supportata dal fatto che la meta-analisi ha mostrato un’associazione significativa e positiva tra salute e perdono. Ciò significa che perdonare qualcuno può permettere di migliorare la propria salute fisica, arginando le patologie.

Ulteriori analisi svolte dagli autori hanno inoltre evidenziato come la relazione tra perdono di qualcuno e salute sia universale, e in quanto tale indipendente dalle differenze individuali di genere, etnia o età (Lee & Enright, 2019).

Alla luce dei risultati individuati, aprirsi al perdono non solo può rappresentare una saggia scelta, ma può contribuire a tutelare e preservare il nostro benessere corporeo. Sperimentando emozioni positive e sensazioni di sollievo e leggerezza che caratterizzano il perdono, il nostro corpo trae giovamento, presentando, come riportato nella meta-analisi, una miglior qualità di salute fisica.

 

Cosa dice un complottista

Il complottismo può essere pensato come un delirio a bassa intensità, caratteristica che lo rende socialmente condivisibile e piuttosto contagioso. Come tutti i deliri contiene dei dati di realtà che tutti accettiamo, le informazioni vengono, però, accorpate e riorganizzate attraverso una sorta di salto quantico del pensiero.

 

 Leggendo l’articolo Cosa dire a un complottista di Alessandro Carrera per Doppiozero (Carrera, 2020) dello scorso dicembre, ho provato un misto di affascinato interesse e inquieto divertimento. Carrera racconta di quando, nel suo studio di professore universitario durante l’orario di ricevimento dedicato agli studenti, si trovò di fronte un uomo che gli chiedeva un colloquio. Avendolo scambiato per uno studente attempato, Carrera lo accontentò. Dal monologo dell’uomo divenne però ben presto evidente che si trattava di un autodidatta appassionato della Divina Commedia convinto di averne svelato i profondi significati nascosti. Riteneva di esserci arrivato utilizzando come chiave interpretativa il disegno di Leonardo intitolato Arcieri saettano un’erma. Carrera, da accademico, si trovò spiazzato di fronte alla granitica certezza del suo interlocutore circa l’adeguatezza e la genialità della propria scoperta ma, al contempo si rendeva conto dell’impossibilità di confutare, o semplicemente mettere in dubbio, la tesi che gli veniva esposta. Attuò allora un arguto cambio di piano nel discorso ricordandosi di un’intervista in cui un esperto affermava che l’unica mossa valida con un complottista consisterebbe nel farlo parlare di quello di cui ha veramente paura. Così, sfruttando il proprio intuito, che spesso per essere efficace deve abbinarsi a un po’ di fortuna, chiese al suo interlocutore come stesse la madre. Quasi magicamente la foga dell’interpretatore di enigmi danteschi scomparve per lasciare spazio a commenti poco lusinghieri sulla propria madre soprannominata “Arsenico”. Evidentemente non a caso.

Cos’ha colto Carrera del modo di funzionare del suo interlocutore? E più in generale, cosa possiamo dedurne rispetto a chi viene inesorabilmente catturato dal pensiero complottista?

Esistono due concetti psicoanalitici che possono contribuire alla comprensione, almeno parziale, di questo fenomeno. Primo: quelle che comunemente vengono considerate normalità e patologia sono semplicemente gli opposti di un continuum. Ciò significa che nella psicopatologia vediamo all’opera dei processi psichici estremizzati che possiamo trovare in misura attenuata negli individui considerati sani (Winnicott, 1983). Secondo: il delirio psicotico, per quanto incomprensibile e bizzarro possa apparire, ha un senso e una coerenza per chi lo sviluppa. Ciò significa che esso non è solamente l’esito del disturbo psichico in forma di sintomo bensì contiene in sé un tentativo di guarigione: la frattura psichica sperimentata viene in qualche modo ricomposta attraverso una narrazione che è meno angosciante della frammentazione senza significato (Freud, 1910, Bion, 2009).

 Il complottismo nel quale incappiamo ormai piuttosto frequentemente nelle normali conversazioni non è propriamente classificabile nella categoria dei classici deliri psicotici. Potremmo piuttosto pensarlo come un delirio a bassa intensità, caratteristica che lo rende socialmente condivisibile e piuttosto contagioso. Come tutti i deliri contiene dei dati di realtà che tutti accettiamo: l’esistenza del 5G, dei chips che possono essere impiantati nel corpo umano, il potere delle lobby o la diffusione dei virus pandemici, solo per elencarne alcuni molto attuali. Le informazioni vengono però accorpate e riorganizzate attraverso una sorta di salto quantico del pensiero. Il passo così diventa breve nel dare corpo a narrazioni come quella in cui la pandemia sarebbe stata creata ad hoc per inoculare dei microchip negli individui con il vaccino così da poterli poi controllare attraverso le frequenze del 5G. Narrazione che può essere presa nel suo complesso oppure spezzettata in sotto-racconti, a dipendenza di chi ne farà uso (Brotherton, 2017).

Elemento centrale e ricorrente nell’architettura dei deliri a bassa intensità è la presenza di un’entità esterna superiore, generalmente spietata e controllante, il cui fine ultimo sarebbe quello di soggiogare individui, gruppi o nazioni intere, così da averne il dominio assoluto per un proprio vantaggio.

Perché alcune persone sono così attratte da questo tipo di racconto? Quale beneficio ne traggono? Apparentemente nessuno poiché la realtà che queste teorie generano è angosciante e altamente distopica. Seguendo l’intuizione di Carrera diventa allora necessario spostare il piano del discorso, ipotizzando contemporaneamente che il complottista stia già parlando di quello che teme realmente. Semplicemente non corrisponde al suo discorso manifesto. Chi è allora veramente il suo nemico? Quasi immancabilmente, di fronte a persone complottiste, mi trovo a immaginare i bambini che sono stati, i genitori che hanno avuto o le esperienze che hanno vissuto con le figure di riferimento incontrate nella loro vita. Inevitabilmente mi immagino abbiano vissuto situazioni che li hanno fatti sentire inermi e impotenti dentro qualcosa che stava loro accadendo senza che avessero gli strumenti per comprenderlo né tantomeno per poterlo modificare. Condizione del resto inevitabile quando per una questione anagrafica e di ruoli, per molti anni della propria vita si è realmente dipendenti dal contesto nel quale si vive e dalle proprie figure di riferimento. E non è nemmeno così rilevante che questo vissuto sia formato su un’esperienza reale o che invece sia conseguenza di una rilettura a posteriori degli eventi (Laplanche, 1989-1990). Quello che fa la differenza è ciò che rimane depositato nella mente. Si potrebbe obiettare che ognuno di noi ha sperimentato qualcosa di simile nel corso della propria vita riuscendo a superarlo senza per questo diventare complottista. Evidentemente solo per alcune persone con vulnerabilità specifiche queste esperienze diventano punti di fissazione nei quali sarà inevitabile tornare continuamente nel tentativo di sperimentarsi diversamente da come ci si è sentiti in passato.

Pensiamo ora per un attimo agli elementi che ritroviamo in teorie del complotto come quella degli aderenti al gruppo Qanon (Wuming 1, 2021). La loro idea è che il mondo sia dominato da una setta di pedofili bevitori di sangue umano che solamente Trump sarebbe in grado di sconfiggere. Non ho difficoltà a pensare che nel mondo esista un numero di pedofili superiore a quanto vorremmo credere. Mi chiedo però quanti di loro realisticamente si dissetano con sangue di bambino, oltre a essere membri di una setta per il dominio del mondo. Anche solo per una questione statistica, l’eventualità appare per lo meno trascurabile. Tuttavia, quale fantasia meglio incarna l’angoscia di trovarsi inermi sotto il controllo di un’entità spietata e misteriosa che sfrutta la propria posizione di potere se non quella di un adulto pedofilo, potente e malvagio che per il proprio interesse e piacere sessuale sfrutta i bambini fino a cannibalizzarli?

Come i deliri veri e propri, anche i deliri a bassa intensità sono dei tentativi di guarigione volti a placare l’angoscia generata da un mondo altrimenti vissuto come tiranneggiante e imprevedibile. L’organizzazione di una narrazione complottista dove tutti gli elementi trovano un posto, per quanto spaventosa possa sembrare, è meno angosciante di un sistema privo di senso e incontrollabile. L’illusione che crea il complotto è di poterlo combattere, smascherandolo e denunciandolo in primis e lottando poi per salvarsi sconfiggendolo. I guerrieri anti-complotto non sono più così dei bambini ingenui in balia di un potere esterno al quale non possono reagire.  Ora fanno parte di una famiglia estesa, persone come loro al fianco delle quali combattono il grande nemico occulto.

È dunque inutile discutere con un complottista dell’infondatezza del suo racconto poiché egli in realtà fa riferimento ad un discorso invisibile. È proprio lo strabismo tra discorso manifesto e discorso inconscio a rendere questi deliri a bassa intensità compatti e inattaccabili. I complottisti sostanzialmente combattono la propria guerra nel campo sbagliato senza averne percezione, convinti di avere di fronte quello che considerano il proprio nemico mentre in realtà esso si trova alle loro spalle.

 

 

L’impatto del Covid-19 sul Disturbo Ossessivo-Compulsivo In Bambini, Adolescenti e Adulti: Una Review Narrativa

Una recente review, pubblicata nella rivista Journal Frontiers in Psychiatry, di Zaccari V., D’arienzo M.C., Caiazzo T., Magno A., Amico G. e Mancini F., 2021, dal titolo: Narrative Review of COVID-19 Impact on Obsessive-Compulsive Disorder in Child, Adolescent and Adult Clinical Populations, analizza e sintetizza gli effetti della pandemia da COVID-19 nei pazienti affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), attraverso un’analisi della letteratura relativa ai contributi empirici pubblicati durante il periodo di emergenza da COVID-19.

 

 Ad oggi, in letteratura è documentato come la pandemia da COVID-19 e la conseguente quarantena, abbiano avuto un impatto significativo non solo sulla salute fisica, ma anche su quella psicologica.

Diversi studi infatti, hanno documentato come l’emergenza da COVID-19 abbia generato disagio psicologico nella popolazione generale (Cullen et al., 2020; Giallonardo et al,2020; Luo et al., 2020; Qiu et al., 2020; Serafini et al., 2020; Sugaya et al., 2020; Xiong et al., 2020; Yamamoto et al., 2020), nella popolazione clinica adulta (Hao et al., 2020; Vindegaard & Benros, 2020) così come in bambini e adolescenti (Clemens et al., 2020; Gindt et al., 2020; Golberstein, Wen & Miller, 2020; Lee, 2020; Liu, 2020), causando un peggioramento di diversi quadri clinici e un aumento delle difficoltà psicologiche. Alla luce di questi dati, che documentano l’impatto sulla salute mentale, è apparso importante analizzare in modo dettagliato l’impatto pandemico sul DOC, un quadro clinico, in alcuni casi, caratterizzato da stati mentali inclini al timore e alla probabilità di contaminazione o dalla percezione di una maggiore responsabilità nel contagiarsi o contagiare gli altri che richiamano la necessità di neutralizzare una minaccia o rischio di contaminazione esperito attraverso comportamenti compulsivi, protettivi, questi ultimi molto attenzionati nel periodo di emergenza da COVID-19 al fine di proteggersi da un possibile contagio.

La letteratura, infatti, documenta come alcuni sintomi Ossessivo-Compulsivi (OC) abbiano subito un’influenza a causa della situazione attuale, sia nella popolazione clinica adulta che in età evolutiva. Tuttavia, dall’analisi della letteratura fino a Gennaio 2021 non era disponibile un lavoro di revisione della letteratura che analizzasse in modo puntale l’impatto del COVID-19 nel DOC. A tal riguardo, l’obiettivo principale del lavoro di Zaccari et al. (2021) è stato quello di passare in rassegna gli studi empirici che hanno affrontato tale topic con lo scopo di analizzare e verificare l’impatto del COVID-19 sulla sintomatologia OC sia in termini di peggioramento clinico che di miglioramento in campioni clinici con diagnosi di DOC di adulti, adolescenti e bambini mettendo in luce anche le limitazioni.

La ricerca in letteratura è stata condotta utilizzando i principali database scientifici: PsycINFO, PsycARTICLES, MEDLINE, Scopus, Web of Science, PubMed e Google Scholar. Questa revisione ha analizzato tutti gli studi pubblicati da Gennaio 2020 a Gennaio 2021, concentrandosi sulle popolazioni cliniche di bambini, adolescenti e adulti con DOC. È stato esaminato un pool di articoli, da quali sono stati selezionati 14 studi ovvero gli studi che rispettavano tutti i criteri di eleggibilità.

Effetti del COVID-19 sui bambini, adolescenti e adulti con DOC

Dall’esame effettuato sui 14 studi, 8 studi su campioni adulti con DOC hanno messo in evidenza un peggioramento dei sintomi OC in termini di gravità mentre 2 studi hanno documentato un impatto minimo del COVID-19. Solo 1 studio, nel campione di adulti, ha rilevato un peggioramento bensì un lieve miglioramento dei sintomi OC (Pan et al. 2020). Dall’analisi di 3 studi selezionati per l’età evolutiva solo 2 hanno mostrato un peggioramento dei sintomi OC anche in presenza di un trattamento in corso (Tanir et al., 2020)

In particolare, negli adulti, è stato rilevato un peggioramento clinico dei sintomi OC (Storch et al., 2021; Benatti et al., 2020; Kuckertz et al., 2020), un aumento delle ossessioni di contaminazione e compulsioni di lavaggio (Matsunaga et al. ., 2020; Jelinek et al., 2021; Prestia et al., 2020), un aumento dei comportamenti di evitamento (Jelinek et al., 2020) e una maggiore richiesta di emergenza o consultazione psichiatrica durante il lockdown rispetto all’anno precedente (Capuzzi et al., 2020). Due studi (Plunkett et al., 2020; Chakraborty e Karmakar, 2020) hanno riscontrato una minima esacerbazione della sintomatologia OC.

Relativamente all’età evolutiva, due studi che riguardano bambini e adolescenti, documentano un peggioramento del DOC (Nissen, et al., 2020) e un aumento significativo della frequenza delle ossessioni da contaminazione, delle compulsioni di pulizia e/o lavaggio durante la pandemia, anche in presenza di un trattamento psicologico o CBT in atto (Tanir et al., 2020). Di contro, nel terzo studio incluso che riguardava l’età evolutiva (Schwartz-Lifshitz, et al., 2021), in un campione in trattamento, non è stata rilevata alcuna esacerbazione dei sintomi OC durante la prima ondata di COVID -19.

Tipologia dei sintomi ossessivo-compulsivi

Gran parte della letteratura analizzata si è focalizzata sui sintomi OC in generale senza analizzare in modo puntuale le differenze tra i sottotipi (contaminazione/lavaggio; controllo; simmetria e ordine; pensieri proibiti). Dei 14 studi esaminati, 10 di essi si sono occupati dei sottotipi di DOC (7 in pazienti adulti e 3 riguardanti bambini ed adolescenti); ad ogni modo 4 studi non hanno analizzato la relazione tra domini OCD e COVID-19 (Storch et al., 2021; Capuzzi et al., 2019; Plunkett et al., 2020; Pan et al., 2021). Alcuni autori (Jelinek et al. 2021; Matsunaga et al., 2020) hanno riscontrato un aumento della gravità dei sintomi OC, in particolare del sottotipo washer. Matsunaga et al. (2020) inoltre, in pazienti con ossessioni di tipo aggressivo, di simmetria e ordine hanno rilevato l’insorgenza di ossessioni anche di contaminazione. Similarmente, Prestia et al. (2020) hanno riportato un peggioramento significativo nella gravità del DOC durante la quarantena, Khosravani et al. (2021) hanno rilevato nello specifico: timori di contaminazione, comportamenti compulsivi di controllo e ricerca di rassicurazioni. Nello studio di Kuckertz et al. (2020) invece, l’impatto in termini di incremento di sintomi e domini specifici resta poco chiaro.

Per quanto concerne bambini e adolescenti, Tanir et al. (2020) hanno evidenziato un incremento della frequenza di ossessioni di contaminazione e compulsioni di lavaggio in un campione di bambini e adolescenti. Al contrario, Nissen et al. (2020) non hanno rilevato alcuna relazione tra COVID-19 e compulsioni di lavaggio, evidenziando, invece, che la presenza di pensieri aggressivi e rituali hanno aumentato il rischio di esperire un peggioramento dei sintomi OC.

Caratteristiche degli studi

Gli studi sottoposti a revisione presentvano tre diversi disegni di ricerca: 8 cross sectional, 5 studi longitudinali e 1 studio preliminare naturalistico. Essi riportavano i risultati dei dati raccolti durante il primo lockdown, da gennaio a Maggio 2020, in diversi paesi. Soltanto due studi hanno riportato i dati raccolti nel periodo di Giugno-Agosto 2020 (Storch, et al., 2020; Khosravani, et al., 2020) mentre lo studio di Capuzzi e colleghi (2020) ha confrontato i risultati i dati del 2019 con quelli raccolti da Gennaio-Maggio 2020. In generale, gli studi analizzati sono stati condotti su campioni con caratteristiche eterogenee. In alcuni, variabili come il sesso, l’età o la presenza di eventuali comorbidità psichiatriche non erano specificate, rendendo ancora più difficile l’interpretazione dei risultati ottenuti. Altri presentavano un ampio range di età (ad esempio, 4 -77 anni; Storch, et al., 2020). Alcuni studi sono stati condotti su un piccolo campione (N = 8; Kuckertz et al., 2020; n= 29; Schwartz- Lifshitz et al., 2021) altri su un campione più ampio (e.g., N =394 Jelinek et al., 2020; N=300 Khosravani et al., 2020).

Misure

Per il campione clinico di adulti, quasi il 60% degli articoli selezionati ha utilizzato la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS, Goodman et al., 1989). Diversi studi hanno optato per misure self-report, come l’Obsessive-Compulsive Inventory-Revised (OCI-R; Foa et al., 2002) utilizzato in Jelinek et al. (2021) e Khosravani et al. (2021). Due studi (Capuzzi et al., 2020; Benatti et al., 2020) hanno utilizzato solo strumenti qualitativi per valutare il peggioramento del DOC, come un colloquio psichiatrico generale e domande per identificare i principali fenotipi di ossessioni e compulsioni (Benatti et al., 2020). Altri ricercatori hanno supportato i dati quantitativi con quelli qualitativi, adottando questionari ad hoc con lo scopo di identificare la gravità del DOC, i cambiamenti nei sintomi dall’inizio del COVID-19 (Jelinek et al., 2021) e la qualità della vita durante la quarantena (Prestia et al., 2020).

Per quanto riguarda le ricerche su soggetti giovani, oltre alla Children’s Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (CY-BOCS, Scahill et al., 1997), sono stati adottati diversi strumenti, come la Clinical Global Impression (CGI, Busner e Targum, 2007), l’Obsessive-Compulsive Inventory-child version (OCI-CV, Foa et al., 2010), o questionari di autovalutazione qualitativi.

La metà degli studi analizzati ha optato per somministrazioni online, interviste telefoniche e sondaggi, al fine di essere in linea con le politiche governative e sanitarie.

Tipi di trattamento

I campioni hanno ricevuto diversi tipi di trattamento: trattamento farmacologico, Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), Acceptance and Commitment Therapy (ACT), o supporto psicologico us usual. Solo due studi documentano che i pazienti hanno ricevuto un trattamento di Esposizione e Prevenzione della Risposta (ERP) durante il periodo della pandemia (Storch et al., 2020 ; Kuckertz et al., 2020). In generale, la maggior parte degli studi non ha offerto un panorama chiaro del tipo di trattamento utilizzato su tutto il campione, non specificando il tipo di intervento e la durata dello stesso, o esplicitandolo soltanto per una parte del campione.

Discussione dei risultati

I risultati della rassegna hanno documentato come i contributi empirici rispetto all’impatto del COVID-19 sulla popolazione clinica DOC siano esigui e caratterizzati da risultati controversi. Un maggior numero di studi ha indagato l’impatto sulla popolazione clinica adulta, mentre meno attenzione è stata posta in maniera specifica agli effetti su bambini e adolescenti; infatti, soltanto tre studi, si sono occupati di questo specifico target (Nissen et al., 2020; Tanir et al.,2020; Schwartz-Lifshitz et al., 2021). L’analisi della letteratura ha rivelato che il COVID-19 ha avuto un’influenza sul DOC sia in campioni clinici di adulti che in età evolutiva mettendo in luce un peggioramento o esacerbazione dei sintomi afferenti al sottotipo DOC contaminazione/lavaggio (Sulaimani & Bagadood, 2021). È plausibile che l’esacerbazione del timore ossessivo di contaminazione sia stato rinforzato dalla preoccupazione costante circa il virus e le incessanti raccomandazioni nel mantenere elevati livelli di igiene (Chaurasiya et al., 2020).

In sintesi, la rassegna documenta un impatto negativo del COVID-19 su campioni clinici con diagnosi di DOC. Tuttavia, sebbene il lavoro documenti un impatto negativo sia nei campioni clinici di adulti che in età evolutiva, il numero di studi passati in rassegna appare esiguo e sbilanciato: sono disponibili più studi su campioni di adulti che su popolazioni di bambini e adolescenti.

Inoltre, l’analisi dei dati ha fatto emergere diverse limitazioni degli studi considerati, le quali sono rilevanti al fine di porre un’adeguata riflessione sui risultati. In particolare è importante sottolineare che solo  pochi studi hanno esaminato i sottotipi di DOC. Inoltre, nella maggior parte degli studi il tipo di trattamento non era ben definito. I campioni spesso erano eterogenei e caratterizzati da un’ampio range di età. Infine, non sempre è stato utilizzato lo stesso periodo di monitoraggio o misurazioni standardizzate, il che rende difficile confrontare o fare affidamento sui risultati.

I risultati indicano il bisogno di arricchire questo campo di studio riducendone le limitazioni evidenziate e sottolinea ai clinici l’importanza dell’influenza delle variabili contestuali odierne.

 

Pensieri quasi quotidiani di una psicologa sulla famiglia (2021) di Barbara Calcinai e Linda Savelli – Recensione del libro

Scritto in un linguaggio semplice e chiaro, privo di inutili tecnicismi, ma sempre basato su una letteratura scientifica solida, Pensieri quasi quotidiani di una psicologa sulla famiglia fa riferimento all’intero ciclo vitale della famiglia, intesa in termini transgenerazionali.

 

 Siamo stati letteralmente sommersi da una Pandemia che ha completamente stravolto le vite di ognuno di noi. L’uomo, essere sociale, nato e predisposto alle relazioni ed ai i contatti, si è ritrovato improvvisamente rinchiuso in quattro mura, con la sensazione, a volte, di non respirare. Ecco, però, che in un momento così difficoltoso, sono arrivati paradossalmente in soccorso i social, piattaforme di legami virtuali. E sono stati proprio quest’ultimi ad aiutare persone veramente in difficoltà, con milioni di dubbi, paure e angosce, incapaci di dare una risposta ad un evento così straordinario e così potente da essere in grado di sconvolgere e di mettere a repentaglio la stabilità di intere famiglie.

La pagina Facebook della Dr.ssa Barbara Calcinai, psicologa, psicoterapeuta, iscritta all’albo degli Psicologi della Toscana, è diventato un importante mezzo di comunicazione, attraverso il quale trattare tematiche psicologiche legate alla famiglia. Il successo riscontrato ha permesso a Barbara, insieme alla sua collega, Dr.ssa Linda Savelli, di raccogliere materiale e di sistematizzarlo, per dare la possibilità a tutte le persone interessate, di comprendere tematiche rilevanti della vita e di suggerire consigli per affrontare difficoltà, a volte ritenute insormontabili, a volte addirittura negate.

 Fulcro di tutto il testo è l’autostima e la capacità di credere fermamente in sé stessi, che vengono citate dalle autrici come motore propulsore, fondamentale per affrontare ogni difficoltà, ancora prima del supporto psicoterapeutico. Scritto in un linguaggio semplice e chiaro, privo di inutili tecnicismi, ma sempre basato su una letteratura scientifica solida, il testo fa riferimento all’intero ciclo vitale della famiglia, intesa in termini transgenerazionali, ciclo che si ritrova in situazioni definite critiche a dovere evolvere la propria struttura per superare l’ostacolo. Crisi non significa necessariamente qualcosa di negativo, ma induce ad una trasformazione interna dell’assetto per acquisire un nuovo equilibrio più funzionale. Si approccia ad un intervento psicoterapeutico definito sistemico famigliare, in cui il sintomo è l’espressione primaria di una richiesta di aiuto, manifestazione di un disagio che coinvolge l’intero ordine del sistema. È il corpo che parla e cerca supporto. È necessario solo cercare di imparare a leggere il suo modo di comunicare, perché in questa forma di intervento, come ben spiegano le autrici,

la soluzione deve essere co-costruita insieme agli attori coinvolti.

Una visione sicuramente molto ottimista che coinvolge anche la volontà e la motivazione dei componenti al cambiamento; una terapia sicuramente attiva. Da questo importante punto di partenza si snoda l’intero contenuto del testo, a partire dai primi pensieri dell’infanzia, fino a giungere alle emozioni della terza età, mettendo in risalto tutti gli aspetti vantaggiosi ed utili di un buon percorso psicologico o psicoterapeutico. Il pubblico è vasto, in quanto l’intento è proprio quello divulgativo: aiutare persone in difficoltà a comprendere il giusto modo di vedere le cose, ma aiutare anche quelle già in grado di farlo, per un’ulteriore acquisizione di informazioni, utili per il presente e per il futuro. Un intento nobile e autentico, conditio sine qua non una professione come quella di uno psicologo non potrebbe sussistere. E le autrici lo dimostrano pienamente.

 

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