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Beck e l’uso clinico del Sé dalla psicoanalisi alla terapia cognitiva – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 6

L’esplorazione di Beck è più rapida poiché il fattore decisivo è il pensiero immediato e cosciente, ciò che passa per la testa al paziente in quel momento

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 29 Lug. 2021

Il racconto di come Beck accertava e trattava in seduta le credenze distorte sul Sé

 

Beck e gli psicoanalisti dopo il 1975: una collaborazione

C’è una considerazione da fare su Beck. Ed è quella dei suoi persistenti rapporti con gli psicoanalisti, anche dopo la definitiva svolta cognitiva del 1975. Una svolta molto più spostata nel tempo rispetto a ciò che si sapeva e ancora una volta non davvero definitiva. Con una significativa differenza, però. Mentre fino a poco prima Beck aveva mantenuto i rapporti con psicoanalisti ortodossi provenienti dall’ambito della psicologia dell’Io, la psicoanalisi più ortodossa e freudiana, ora interagiva con psicoanalisti interessati alla ricerca e alle variabili interpersonali, come Lester Luborsky o Hans Strupp o psichiatri interessati a forme di psicoanalisi interpersonale, come Klerman. Come abbiamo scritto, non si trattò di una collaborazione superficiale, ma di un vero e forte scambio reciproco sui contenuti clinici e sulla stesura dei manuali, da parte di tutti. Beck aiutò Luborsky a stendere il suo manuale psicodinamico e Luborsky aiutò Beck per il suo modello cognitivo. Non è affatto un caso che in quegli anni Beck fu anche presidente della Society for Psychotherapy Research, che era l’ambiente in cui avvenivano questi scambi.

Questo modifica ancora una volta la visione di Beck come cognitivista non interessato agli aspetti interpersonali e cambia la visione della psicoanalisi disinteressata alla ricerca. Al contrario, mentre i cognitivisti puri provenienti dal comportamentismo come Mahoney proponevano un costruttivismo tutto teorico, non formalizzavano i loro modelli e non si preparavano alla ricerca in psicoterapia, nella psicoanalisi questo avveniva e lo facevano i freudiani Luborsky e Strupp in collaborazione con l’interpersonalista Klerman e il cognitivista (psicoanalista) Beck. E inoltre si conferma l’interesse di Beck per la psicoanalisi interpersonale di Karen Horney e Stack Sullivan.

Cosa cercavano in Beck non tanto i comportamentisti americani Mahoney, Maichenbaum e Lazarus -che si limitarono a uno scambio molto astratto sul ruolo teorico del mediatore cognitivo- ma con ben maggiore interesse i comportamentisti britannici Clark e Salkovskis? Trovarono qualcosa di clinico che non avevano potuto trovare nella loro radice comportamentista britannica e ancor meno avrebbero trovato in Mahoney. Poiché il modello misto cognitivo-comportamentale in realtà nasce nel Regno Unito dapprima quando Clark, come abbiamo già raccontato, acquistò dieci copie ciclostilate del manuale di Beck, e poi quando Beck trascorse un intero anno sabbatico a Oxford negli anni ’80 e diventò visiting professor -sempre a Oxford- nel 1986. Quel modello cognitivo comportamentale non si limitava a postulare astrattamente il mediatore cognitivo, come aveva fatto (benemeritamente) Mahoney, ma sviluppò concretamente una procedura clinica che era iniziata con il manuale di Beck per la depressione e che poi si sarebbe sviluppata con i protocolli per il disturbo di panico (Clark, 1986), ansia sociale (Clark & Wells, 1995), disturbo da stress post-traumatico (Elhers & Clark, 2000), disturbi alimentari (Fairburn, Shafran, & Cooper, 1999) e disturbo ossessivo-compulsivo (Salkovskis, 1985).

Insomma, Clark, Salkovskis e compagnia erano già tutti comportamentisti. Cosa mancava che diede loro lo psicoanalista (perché lo era ancora) Beck? Non certo il fattore mentale come dice la vulgata, che è presente anche nel modello comportamentale di Skinner (1957) come comportamento e dove può essere un antecedente ambientale, un comportamento o una conseguenza. Esso però, a differenza che nel seguente cognitivismo, non è mai sovraordinato, non è considerato mai il fattore chiave che controlla tutti gli altri. Può essere un mediatore, ma uno tra i tanti. In questa veste, la concezione comportamentale del fattore mentale è in realtà avanzatissima, poiché consente di abbattere concettualmente una serie di barriere che ormai sono considerate obsolete, tra le quali ad esempio quella tra mente e corpo. Tuttavia, l’estrema flessibilità del modello comportamentale aveva un difetto, quella di lasciare il clinico troppo libero di scegliere quale fosse il comportamento bersaglio. Questa flessibilità finiva per impedire lo sviluppo di procedure di trattamento definite.

Nell’idea di Beck il mediatore cognitivo non è un concetto generico in cui può entrarci di tutto come nello Skinner di Verbal Behavior (1957). Il segreto è invece che Beck, quando parla di distorsioni cognitive, considera in questo mediatore un contenuto estremamente specifico e delimitato in una maniera che, in termini scientifici, può essere considerata semplicistica e rozzamente razionalista ma che poi è provvista di una grande efficacia ordinatrice nel definire la procedura. Questo contenuto sono le credenze sul sé, ovvero quello che il paziente pensa di sé stesso.

In seduta con Beck: la procedura sul Sé

Nella procedura di Beck, come sappiamo, egli parte da una situazione problematica tendenzialmente ambientale. Apparentemente agisce come un comportamentista che esplora gli antecedenti, ma a differenza di costoro egli semplifica la procedura, limitando l’esplorazione dell’ambiente alla definizione dell’aspetto problematico, ad esempio il giudizio degli altri nell’ansia sociale. Mentre un comportamentista, quindi, avrebbe esplorato l’ambiente in maniera dettagliata, cercando l’aspetto chiave e modificabile, l’esplorazione di Beck è più rapida poiché il fattore decisivo è il pensiero immediato e cosciente, quello che passa per la testa al paziente in quel momento. È vero che questa attenzione al solo aspetto problematico semplificato dall’ambiente e poi immediatamente a quel che passa per la testa del paziente in quel momento Beck lo abbia ricavato da fonti cognitiviste come ad esempio Albert Ellis. È noto che Beck, lettore onnivoro, avesse consultato anche Ellis. Tuttavia, Ellis era un altro transfuga della psicoanalisi sia pure interpersonale e non freudiana dell’Io! Si rafforza ancora l’idea di un cognitivismo elaborato teoricamente dai comportamentisti Mahoney, Meichenbaum e Lazarus e clinicamente dagli psicoanalisti: Beck ed Ellis.

Seguendo Ellis, Beck limita l’esplorazione dell’ambiente e si focalizza sulle piccole frasi che passano per la testa del paziente. E a pensarci bene, ancora una volta anche questa è una tecnica di provenienza psicodinamica, essendo la domanda di Ellis e Beck:

mi dica cosa le è passato per la testa in quel momento

una vicina parente della domanda freudiana:

mi dica cosa le passa per la testa senza filtri

Insomma, la tecnica di accertamento cognitivo è un derivato della tecnica delle associazioni libere che sono alla base dell’indagine psicoanalitica in cui si invita il paziente a dire ciò che gli passa per la testa. Derivata ma non uguale: Ellis ebbe l’idea di esplorare ciò che passa per la testa del paziente non in seduta, ma nel momento della situazione problematica e del sintomo. Ripetiamolo: è significativo che dunque, attraverso Ellis, Beck abbia potuto ancora una volta ereditare dalla psicoanalisi una tecnica specifica. È vero, tuttavia, che una tecnica simile la troviamo in George Kelly, il cosiddetto laddering, tecnica che anch’essa procede per associazioni spontanee invitando il paziente a rispondere alla domanda:

che cosa le piace in questo?

Domanda che in questa veste positiva tradisce la sua provenienza dalle tecniche di marketing, per le quali era inizialmente pensata. Nella sua forma clinica, invece, essa suona così:

che cosa non le piace in questo?

Tuttavia, c’è da dire che lo stesso Kelly non si definiva comportamentista e nemmeno cognitivista, del resto, termine che sarebbe arrivato in seguito.

Una volta indagato il pensiero immediato, il, cosiddetto pensiero automatico, Beck prosegue con la down arrow, ovvero incoraggiando il paziente, ancora una volta con una tecnica che è simile alle associazioni libere dinamiche, a dire qual è il significato personale emotivo di quel pensiero che gli è passato per la testa. Perché derivata dalle associazioni libere? Perché questo significato è un’associazione non logica ma libera, immediata, senza filtri. La domanda specifica infatti può essere sia puramente associativa:

cosa significa questo per lei?

Oppure può essere predittiva

cosa potrebbe accadere?

Ma comunque verrà intesa dal paziente nei suoi termini associativi ed emotivo. Naturalmente, essa va declinata nei suoi termini negativi:

cosa significa di male per lei questo?

Ora, a queste domande il paziente può rispondere con previsioni negative di eventi: potrei essere bocciato a un esame, potrei essere escluso da un gruppo, potrei essere respinto da una persona che mi piace, potrei avere dei danni; o anche deviando verso un’emozione negativa, potrei avere ansia, o infine su giudizi su se stessi e gli altri. L’intuizione di Beck fu che, qualunque fosse la risposta del paziente, essa andava infine convogliata su un giudizio negativo su se stessi, giudizio che poi in seguito è stato da Judith Back classificato in una ben nota tabella che riproduciamo qui:

Credenze centrali sul sé nella CT standard (Beck J., 2011, pag. 233)

Sé indifeso (helpless)

Difettoso; Fallito; Impotente; Indifeso; Incompetente; Inefficace; Perdente; Bisognoso; Non abbastanza buono; Fuori controllo; Impotente; Intrappolato; Vittima; Vulnerabile; Debole.

Sé non amabile (unlovable)

Cattivo; Destinato ad essere abbandonato; Destinato ad essere solo; Destinato ad essere rifiutato; Difettoso; Diverso; Non attraente; Non curato; Non desiderabile; Diverso; Non amabile; Non desiderato.

Sé inutile (worthless)

Uno spreco; Pericoloso; Non meritano di vivere; Malvagio; Immorale; Tossico; Inaccettabile; Inaccettabile; Inutile

Non basta. I debiti psicodinamici di Beck continuano, perché egli arrivava a una valutazione negativa su sé stessi come concetto clinico ordinatore che proveniva non solo dalla psicologia dell’Io ma che inoltre presentava analogie anche con il successivo modello di Kohut del Sé. Si tratta naturalmente di una semplificazione, perché la psicologia dell’Io aveva parlato di funzioni dell’Io, in una maniera che somiglia -tanto per imbrogliare ancor di più le carte- più al funzionalismo comportamentale, che di specifici contenuti dell’Io, ovvero della coscienza, come avrebbe fatto Beck. Non basta. A incrementare la confusione nello stesso modello di Beck questa semplificazione non è chiara, dato che esiste anche una prima fase di Beck cognitiva sì ma di tipo processuale, come ad esempio quando Beck parla non di credenze del Sé ma di ragionamento emozionale o di generalizzazione. E da dove veniva questo processualismo iniziale di Beck? Dal funzionalismo comportamentista o dalla psicologia dell’Io freudiana? Insomma, questa psicoanalisi continua a intrufolarsi nel modello di Beck.

Tuttavia, a questo aspetto processualista poi si unirono dei contenuti cognitivi che sembrano quasi provenire dal Sé di Kohut (psicoanalista anche lui) ma anche da Winnicot (psicoanalista anche lui). Infatti nel diagramma di concettualizzazione cognitiva (CD) si vede che questi processi distorti sono indagati da Beck come specifici contenuti cognitivi su ste stessi: sono fragile, sono debole, sono incompetente e così via, e che poi sono stati modellizzati nella tabella di Judith Beck. Eppure in tutta visione fragile e tremebonda del sé malato intravediamo il bambino fragile e trascurato che fu prima di Winnicot e poi di Kohut. Ma non di Freud: come molti di quel periodo, Beck è uno psicoanalista che si distacca da Freud.

Ora però andiamo sulla concretezza clinica in seduta. Come avviene questo accertamento finale delle credenze del sé in chi rimase psicoanalista e in chi inventò il cognitivismo, come Beck? Anche lo psicoanalista in fondo arriva sempre lì, sia pure in maniera diversa. Anche nella procedura per libere associazioni della psicoanalisi il traguardo conclusivo è:

E lei, come si vede in quella situazione (problematica)?

Tuttavia, lo psicoanalista ottiene questo con una tecnica paradossale, limitandosi a reagire alle parole del paziente tacendo e creando con effetto straniante, mentre il terapista cognitivo alla Beck incoraggia attivamente e guida il paziente a trovare associazioni su sé stesso. Tuttavia, anche il silenzio dell’analista porta a risposte sul sé (e sugli altri), ovvero il paziente spontaneamente tende a concettualizzare il suo problema nei termini di un giudizio che dà di sé stesso o dell’altro. È la ragione per la quale Luborsky ha concettualizzato il suo modello formalizzato del transfert, ovvero il core conflictual relational theme in maniera stupefacentemente simile all’ABC di Beck, ovvero in termini di risposte (ovvero credenze e comportamenti) dell’altro e del sé.

La vera differenza tra Beck e i suoi colleghi psicoanalisti sta in quel che accade dopo. Arrivati a un giudizio su di sé (o gli altri), di tipo negativo, Beck inizia la risalita verso l’alto, invitando il paziente a metter in discussione questo punto di arrivo. Si tratta del famoso questioning razionalista, la cui esecuzione assume la forma:

Siamo sicuri così che sia proprio così? È proprio così? Lei sarebbe davvero così? Così inadeguato, così fragile? 

Fino al famigerato:

Che prove ci sono?

Questo intervento è stato tacciato di essere relazionalmente difficile per il paziente e freddo. In realtà, nella esecuzione di Beck, esso è estremamente validante e accogliente, poiché il paziente è invitato a rielaborare la visione negativa e autopunitiva di sé stesso, visione appena accertata dettagliatamente e in maniera accogliente e non in quella straniante del silenzio psicoanalitico. Certo, molto fa anche lo stesso stile personale di Beck di conduzione della seduta, una capacità di accoglimento coinvolgente e rispettosissima e che permette questa coloratura positiva del questioning. Ma non sono solo i modi e la prosodia calma di Beck, è la procedura in sé che, lungi da essere un freddo calcolo, si rivela essere un caldo e incoraggiante invito al paziente ad avere una visione di sé positiva e non punitiva. Beck ribalta Melanie Klein.

Beck e Clark: dalla psicoanalisi al comportamentismo britannico

Rimane la domanda sul perché alcuni comportamentisti, soprattutto britannici, accettarono così pienamente il contributo di Beck. Sembra che sia stato soprattutto il gruppo di Oxford, capitanato da Clark e Salkvoskis, a metter da parte tutte le remore comportamentali che oggettivamente sono incompatibili con la posizione sovraordinata delle credenze sul sé. Stabilito che Beck non condivideva il retroterra comportamentista e che anzi ne era particolarmente lontano, ora che ne abbiamo illuminato le persistenti radici psicodinamiche, questa adesione piena di Clark e Salkovoskis alla CT rimane in parte inspiegabile a meno che non immaginiamo che nel fondo del comportamentismo britannico agisse una base cognitiva, che forse era forse dovuta alla grande influenza della psicoanalisi in Inghilterra, paese in cui a un certo punto avevano vissuto e operato a lungo sia Anna Freud e i suoi seguaci, che poi negli Usa avrebbero dato origine alla psicologia dell’Io, sia Melanie Klein e poi gli indipendenti di Fairbairn e Winnicot, che con le relazioni oggettuali collegarono le pulsioni alle rappresentazioni mentali. Tutto questo significa che la psicoanalisi britannica poteva avere un forte interesse per l’assetto cognitivo che ipoteticamente, almeno nell’ambiente accademico, può avere influito su Clark e Salkovskis.

Insomma, Clark e Salkovskis trovarono nelle credenze sul sé di Beck un modo efficiente ed economico per standardizzare le loro analisi funzionali comportamentiste senza perdere di flessibilità. Indirizzando grazie a Beck l’analisi funzionale comportamentale su alcuni aspetti invarianti, l’aspetto problematico delle situazioni, il pensiero automatico e poi, con la tecnica della down arrow, il significato personale e infine la credenza centrale sul sé, la procedura diventò più formalizzata, controllabile e ripetibile, ma al tempo stesso conservava una flessibilità soggettiva che permetteva di personalizzare la valutazione sul paziente singolo con la soggettività delle credenze sul sé. Infine, queste credenze permettevano una corrispondenza con le diagnosi psichiatriche del manuale diagnostico DSM di disturbo d’ansia generalizzato, depressione e disturbo ossessivo, non a caso proprio le diagnosi bersaglio della terapia cognitiva. Fu l’inizio di una fruttuosa amicizia, in cui Beck e Clark misero a punto il definitivo modello congiunto cognitivo comportamentale e lo diffusero nel mondo (Clark, Beck, Alford, 1999).

Il Sé nella seduta analitica freudiana

La componente positiva diventa ancora più chiara se confrontata all’esito che invece prospettava la tecnica analitica della neutralità adottata dai colleghi di Beck nel gruppo di Rapaport. Infatti, nella tecnica analitica il paziente, arrivato a una visione di sé o degli altri negativa, vien messo a confronto con una interpretazione profonda, che può essere una rivelazione delle difese e/o delle pulsioni nascoste. In entrambi i casi, al paziente veniva comunicato che in realtà quella visione di sé, in apparenza onesta e perfino coraggiosa nella sua natura autopunitiva e auto-flaggelatoria (in fondo si tratta di un giudizio negativo su sé stessi) è solo apparentemente sincera e severa con sè stessa. In realtà, come rivela la mannaia dell’interpretazione analitica, quella visione negativa di Sé è una difesa, un modo per giustificarsi, e nasconde qualcosa di molto più negativo e inconfessabile: una pulsione. Una vergognosa pulsione che il paziente non confesserà mai spontaneamente.

Pulsione che per lo più, nei modelli psicodinamici, non può che essere freudianamente un desiderio di tipo affettivo, dalla eccitazione esplicitamente sessuale di Freud al bisogno più umanamente tenero e relazionale di Winnicot, essere amati, oppure una cupa e sanguinaria pulsione aggressiva o rabbiosa alla Melanie Klein. In ogni caso l’analista oppone la sua implacabile e irrespingibile rivelazione al paziente (se respinta è un’altra difesa, una resistenza) che è poi un inquisitoriale invito ad andare più a fondo, a confessare, a essere sincero, invito che finisce per essere espresso in termini giudicanti, un po’ perché pronunciato nella cornice straniante della maniera neutrale psicoanalitica, ma anche esplicitamente giudicante a causa della teoria dell’inconscio per cui il vero contenuto sarebbe comunque nascosto e ciò che è espresso esplicitamente dal paziente è comunque sospetto e in qualche modo falso.

Nulla di tutto questo in Beck. Al contrario, come già detto, l’intervento risulta validante e confortante per il paziente, non solo per i toni dolci di Beck, ma soprattutto come contenuto: il paziente è oggettivante incoraggiato a costruire una migliore opinione di sé stesso. C’è da dire, inoltre, che la procedura di Beck, lungi dall’essere isolata come troppo spesso è stato fatto, una sorta di unicum separato dal resto della storia della psicoterapia, va invece a inserirsi in quel cambiamento storico che avveniva in quegli anni, per cui in psicoanalisi si passava da un atteggiamento di interpretazioni dall’alto non collaborativa con il paziente, con il quale era negata qualunque possibile interazione paritaria, a una crescente attenzione per gli aspetti relazionali sia nel modello britannico delle relazioni oggettuali che in quello americano della psicoanalisi interpersonale di Stack Sullivan e che sarebbe sfociato poi nel modello della psicologia del sè di Kohut, teso a rafforzare la stima di sè e la valutazione positiva di sè del paziente, il suo cosiddetto narcisismo, sano.

Allo stesso modo il modello di Beck al tempo stesso promuoveva un atteggiamento paritario definito di empirismo collaborativo, una concezione della psicopatologia più fiduciosa verso il paziente, in cui si dava credito alla sincerità e alla genuinità delle sue credenze negative e, infine, l’intervento, lungi dall’essere freddamente razionale, era invece caldamente validante. Il paziente era compreso nelle sue dinamiche negative e poi incoraggiato a sviluppare una migliore opinione di sé. Un altro parallelo è con il modello di Carl Rogers, anch’esso validante. Del resto a sua volta l’intervento di Rogers lo si può considerare sottilmente cognitivo, in quanto va a mettere in crisi l’opinione del paziente che i suoi stati mentali siano anormali e intollerabili, mentre Rogers glieli ristruttura normalizzandoli.

Il Sé nel costruttivismo

Anche in relazione al rapporto con lo sviluppo parallelo del costruttivismo possiamo rielaborare la nostra concezione di Beck. Sappiamo che in genere il confronto tra Beck e il costruttivismo, sia quello americano di Mahoney che quello di Guidano e Liotti, consisterebbe nell’opporre il razionalismo di Beck che in seduta si limiterebbe a condannare razionalmente la natura distorta ed errata delle credenze cognitive sul sé, mentre il costruttivismo di Mahoney e Guidano valorizzerebbe e normalizzerebbe i contenuti cognitivi negativi dando loro un significato personale nella vita del paziente, dotato di senso e che solo un irrigidimento successivo avrebbe poi indirizzato verso la disfunzionalità. Il problema è che i costruttivisti hanno sempre attribuito questa etichetta di razionalista a Beck con eccessiva facilità, non comprendendo il suo retroterra psicodinamico che invece contributiva a fargli assumere una posizione molto più complessa. Era proprio il retroterra psicodinamico che consentiva a Beck di concepire il sintomo allo stesso modo dei costruttivisti, come un irrigidimento di un vissuto che aveva le sue radici nel passato del paziente e che quindi aveva un significato personale nello sviluppo evolutivo del paziente. Dando un’occhiata alla tavola delle organizzazioni di personalità di Guidano e Liotti non può non saltare agli occhi il parallelismo con quelle di Beck. La contrapposizione tra modello cognitivo standard e costruttivista traballa e finisce per rivelarsi una rivalità più immaginaria che reale, se pensiamo che nel modello di Mahoney e Guidano i termini diagnostici sono addirittura più chiaramente dichiarati nei nomi delle organizzazioni di personalità: fobica, ossessiva, depressiva, dappica (da disturbo alimentare psicogeno).

Organizzazioni di personalità costruttiviste (Guidano e Liotti, 1983, pp. 171-306; Mahoney et al., 1995; Mahoney, 2003)

Organizzazione fobica della personalità

Essere disprezzato; Essere deriso; Essere ridicolizzato; Necessità di protezione; Non amabile; Non in controllo; Incapace di affrontare; Debole.

Organizzazione della personalità depressa

Abbandonato; Sbagliato; Deluso; Fallito; Impotente; Isolato; Scomparso (perdita); Bisognoso di approvazione; Non amato; Rifiutato; Separato; Inutile.

Organizzazione della personalità ossessiva

Controllato; Distaccato; Dubbioso; Colpevole; Giudicante; In cerca di certezze; Morale; Perfezionista; Responsabile; Trattenuto; Emotivo.

Organizzazione della personalità da disturbo alimentare psicogeno

Aderire al giudizio degli altri; Desiderio di contatto emotivo; Dipendente; Autocritico; Autoironico; Indefinito.

La vera differenza era che Beck, diversamente da Mahoney e Guidano, aveva un procedura determinata che era quella down arrow la quale derivava -come abbiamo visto- sia da una rielaborazione della tecnica psicodinamica delle associazioni libere, in cui al silenzio dell’analista era sostituito un amichevole e incoraggiante (e non freddo e razionale come in certe caricature della terapia cognitiva nè tantomeno accusatorio e penitenziale come in certe derive psicodinamiche) invito a definire in termini di intollerabile e disfunzionale giudizio su di sé quello che era un segnale emotivo funzionale, sia da altre tecniche di provenienza non comportamentale, ma derivate dalla psicologia del lavoro e del marketing, come ad esempio la già citata tecnica del laddering elaborata nell’ambiente della psicologia dei costrutti personali di Kelly.

Questa qualità ordinatrice della procedura di Beck è così pervasiva e potente che la si può vedere in azione anche nel modo di operare in professionisti che hanno subito la sua influenza indirettamente e che in teoria a livello esplicito la rifiutano, almeno parzialmente. Leggiamo ad esempio questo scambio clinico tra un terapeuta e il suo paziente. Il terapeuta usa delle tecniche di accertamento in parte paradossali o, come si dice oggi, corporee, inducendo un “enactment” terapeutico per attivare una reazione aggressiva nel paziente che poi sarà accertata. Lo fa parlando del cellulare del paziente, poggiato sulla scrivania. Gli dice che immagina che per il paziente il cellulare sia importante e poi lo invita a prenderlo e, mentre il paziente lo fa, il terapeuta gli blocca improvvisamente e con decisione il polso. Il paziente (il cui nome è Francesco, apprendiamo) è sorpreso, ma il terapeuta lo invita a tentare di afferrare di nuovo il cellulare e di nuovo il terapeuta gli blocca il polso. Poi gli chiede:

T.: Francesco, vedo la sua reazione rabbiosa. Mi può dire come si è sentito mentre le bloccavo la mano?
P.: Mi sentivo un idiota…
T.: Che sentimento è?
P.: Degradato, disonorato, sottomesso
T.: Uhm, sottomesso … Dunque, qualcosa come umiliato?
P.: Si umiliato
T.: Dunque quando lei subisce una prepotenza, le scatta una immagine di sé come sottomesso e umiliato. Subito dopo, ma solo dopo, parte la reazione protettiva di tipo rabbioso (Dimaggio, Ottavi, Popolo, Salvatore, 2019 p. 108-109).

Ci sarebbe molto da riflettere su questo scambio e in generale sulla tecnica esposta nel libro dei colleghi e non è questa la sede adatta. Lo faremo dettagliatamente altrove. Qui basti notare che questo scambio consente di comprendere qual è stato il vero contributo di Beck, di cui anche i colleghi, che non sempre lo apprezzano, usufruiscono. Un contributo molto più clinico, concreto e soprattutto incarnato che astrattamente teorico: l’accorgimento che l’indagine degli stati mentali di sofferenza può essere condivisa con il paziente e da lui compresa in termini accessibili formulandola mediante convinzioni, pensieri su sé stesso. La vera intuizione di Beck non è stata l’astratta e disincarnata teoria sul pensiero che governa l’emozione o viceversa, ma il fatto reale e incarnato che la sofferenza emotiva, in sé confusa e apparentemente incontrollabile, sia formulabile in seduta e resa più chiara e comunicabile a sé stessi e al terapeuta, e infine gestibile in seduta e nella vita quotidiana, traducendola in giudizi personali su sé stessi, che rendono bene la natura del deterioramento disfunzionale di questi stati mentali, il fatto che il paziente invece di utilizzare le emozioni come segnale di stato le usa come mezzi per definire sé stesso in termini negativi e paralizzanti.

Questa intuizione clinica, come abbiamo visto, non proveniva affatto dalla disincarnata rivoluzione cognitiva di Miller, Gallanter e Pribram ma dalla incarnata formazione psicodinamica di Beck, da lui semplificata e purificata immettendo in essa la necessaria dose di buon senso, che poi significa fidarsi del paziente, ed eliminando le controintuitive interpretazioni che andavano oltre le credenze negative espresse dal paziente: il genio della semplicità di Beck consisté nel capire che quelle credenze apparentemente banali perché spontaneamente e coscientemente espresse dal paziente già da sole bastavano a spiegare la disfunzionalità. Il secondo contributo pratico di Beck è stato aver proposto che fosse possibile incoraggiare il paziente a distaccarsi da questi contenuti dolorosi semplicemente incitandolo a sottoporre a esame critico gli aspetti disfunzionali. La capacità critica, lungi dall’essere una funzione esterna al vissuto mentale come talvolta e criticamente suggerito da Liotti, una sorta di prodotto culturale la cui funzione sarebbe solo storica e tecnologica mentre non avrebbe alcun ruolo nella vita emotiva e soggettiva, ha proprio questa funzione auto-riflessiva di fornire al soggetto una visione alternativa rispetto a quella automatica, sia nella valutazione della minaccia che nella pianificazione di comportamenti utili.

Che Beck abbia poi legato la sua intuizione al modello cognitivo è stato un bene ancora una volta più clinico e incarnato che teorico e disincarnato, in quanto ha aiutato i comportamentisti a focalizzare su un bersaglio determinato l’analisi funzionale e comportamentale, che prima rischiava di essere poco specifica per i vari disturbi per eccesso di flessibilità. L’accorgimento di Beck permise di rendere l’analisi comportamentale specifica per le diagnosi psichiatriche, che poi è stato il vero salto di qualità della psicoterapia cognitiva, determinando alcuni svantaggi, ma anche l’indubbio vantaggio di poter finalmente dimostrare l’efficacia medica della psicoterapia, risultato che poi è andato a vantaggio di tutte le psicoterapie.

In questo senso è vero che la riduzione dell’attività cognitiva ai pensieri espliciti è debole dal punto di vista teorico ed è una semplificazione del modello cognitivo, tanto che è stata criticata dagli studiosi processualisti della terza onda che correttamente hanno definito il mediatore cognitivo come:

rather as a retroactive executive agent providing control feedbacks on mental states, a function which is more metacognitive than properly cognitive, being a second-order regulation -within the mind itself- of mental states by mental processes and not a first-order cognitive evaluation of an object to know (Wells & Mathews, 2015, p. 31).

Questa debolezza è tuttavia solo teorica e non clinica e questo dimostra proprio lo scambio dei colleghi, in cui è chiarissimo come sia il terapeuta che il paziente effettuino un down arrow alla Beck, pur non rendendosene pienamente conto. Che non se ne rendano conto è comprensibile dato che il terapeuta pare non abbia seguito una formazione cognitiva standard con Beck, ma un’altrettanto ottima formazione costruttivista. E tuttavia tale è la forza clinica del concetto beckiano di credenza sul sé che entrambi, terapeuta e paziente, usano delle credenze su sé alla Beck per formulare in termini maneggevoli e condivisi la disfunzionalità degli stati mentali del paziente stesso. Rileggiamo il passo critico:

T.: Che sentimento è?
P.: Degradato, disonorato, sottomesso
T.: Uhm, sottomesso … Dunque, qualcosa come umiliato?
P.: Si umiliato

Notiamo come il terapeuta usi il termine “sentimento” per incoraggiare il paziente a esprimere la credenza su di sé, un pensiero quindi alla Beck. Interessante che il paziente non riporti un’emozione alla richiesta di descrivere un “sentimento”. Nel seguito del trattamento il terapeuta usa la credenza di Beck non per attuare un questioning cognitivo ma per condividere col paziente il razionale di un repertorio di interventi di vario tipo, che oscillano dal corporeo esperienziale al relazionale e perfino con qualche ristrutturazione cognitiva. Questa ecletticità del collega va anch’essa a merito -almeno in parte- della formulazione alla Beck, dimostrandone la compatibilità con interventi di vario tipo. In un altro testo dedicato alle tecniche cognitive specifiche approfondiremo definitivamente questo aspetto.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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