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Psicodinamica e letteratura: Rosso Malpelo (1880) di Giovanni Verga

Rosso Malpelo tratta la storia di un ragazzo destinato a lavorare nelle cave, dove si sporca di terra e di polvere, ingoiate insieme alla tristezza, alla rabbia e al pane secco che addenta, proprio come una bestia, durante le poche interruzioni dal lavoro. 

 

Scrivendo di Rosso Malpelo il Verga deve aver pensato ad uno di quei figli di nessuno che popolavano le cave di rena rossa della Sicilia, lavorando dalla mattina alla sera per guadagnarsi un tozzo di pane. E così vuole presentarlo ai lettori, forse peggiore di quello che era in realtà: sporco, violento e riottoso, cattivo persino nell’aspetto, con quel suo sguardo maligno, gli occhiacci biechi sotto la smorfia delle labbra tese in un ghigno balordo. Ma l’intenzione è ben diversa: più che deprecare il Malpelo e i suoi capelli rossi, Verga vuole denunciare la condizione di estremo disagio, che oggi definiremmo di sfruttamento, riservata ai giovani siciliani destinati al lavoro nelle cave. Vessati da condizioni di estrema povertà essi venivano costretti, spesso dagli stessi genitori, a sgobbare notte e giorno nelle miniere, dove imparavano a diventare grandi troppo presto, così come troppo presto apprendevano il dolore, la sofferenza, il senso amaro della vita.

Sono bambini strappati all’infanzia: gli “adulti d’emergenza”, di cui la Sicilia di fine ‘800 era tristemente colma.

È proprio il caso di Rosso Malpelo, destinato a lavorare anche lui nelle cave, dove si sporca di terra e di polvere, ingoiate insieme alla tristezza, alla rabbia e al pane secco che addenta, proprio come una bestia, durante le poche interruzioni dal lavoro.

Malpelo è uno di quei frutti maturati anzitempo e senza sole, se è vero che i bambini maltrattati possiedono una sofferenza che li porta a crescere prima degli altri (Ferenczi, 1929). Della vita ha conosciuto gli aspetti più duri: la fame, la sporcizia, la violenza e la solitudine. Ma soprattutto la crudezza del lavoro.

Tutti lo sfuggono e lo disprezzano. La sua stessa madre non lo può soffrire: lo considera un ragazzaccio ingrato, inutile e ladro, visto che lo accusa di rubare i pochi denari che riesce a guadagnare col lavoro.

Solo il padre gli vuol bene, ma muore presto, in quella maledetta cava dove lavora anche lui, sepolto da un grosso pilastro che cercava di estrarre nel tentativo di riportare più soldi a casa. Nonostante i disperati tentativi il ragazzo non riesce a salvarlo, e questo fallimento semina in lui un vissuto colpevolizzante persecutorio.

Malpelo si sente in colpa per aver lasciato morire l’unica persona che gli abbia mai dimostrato un po’ d’affetto, ma come al solito non riesce ad esternare questa profonda sofferenza. Il suo dolore, “agito” più che vissuto, è frutto di un’ analfabetizzazione emotiva, un deficit simbolico generato a sua volta da legami affettivi inattendibili, che lo hanno spinto a far fronte solo su stesso per superare problemi e difficoltà.

Nel mondo di questo ragazzaccio non c’è astrazione né pensiero. Ma soprattutto non esistono parole. Tutto è concretezza e azione: lo stesso dolore diventa un pugno, la lacrima si trasforma in un ghigno, l’angoscia si fa tracotanza, la voglia d’affetto finisce sepolta sotto una pala di rena, gettata giù nella cava dove il sole non sorge e non tramonta, e tutto è sempre uguale a se stesso.

I suoi lutti si tramutano così in voragini psichiche, vuoti incolmabili cui li Malpelo non avrà mai il coraggio di avvicinarsi, non del tutto e non come vorrebbe, nel terrore di venirne inghiottito.

Un “forte” amico dei deboli

Malpelo è un duro, uno che ha imparato a dare botte alla vita e a riceverne altrettante, senza lagnarsi, tanto alla fine è sempre il più forte che vince, e il debole deve rassegnarsi a subire in silenzio il dolore.

In un mare di sopraffazione e arroganza la forza-intesa come vigore fisico- gli appare l’unico mezzo di sopravvivenza.

Solo a sapersi difendere dai duri si riesce a sopravvivere

è solito dire. La violenza rappresenta un’esperienza appresa, uno stile di vita che si impara da piccoli e che si finisce con l’interiorizzare, consapevoli che si tratta dell’unica possibilità di restare a galla.

In questa concezione di forza prettamente fisica e prevaricatrice anche i sentimenti rivestono un ruolo inutile, se non dannoso, poiché impediscono il raggiungimento di ben più salienti obiettivi. Ma pur rifuggendo la debolezza e la vulnerabilità come fossero sciagure, Malpelo si imbatte in un autentico paradosso: gli unici soggetti con cui riesce ad in instaurare un seppur minimo legame sono proprio due deboli, figure di cui il Verga enfatizza la condizione di estrema inferiorità, rispetto alla gerarchia della cava e del mondo. Uno è un asino grigio, una povera bestia che trasporta pesanti sacchi di rena avanti e indietro per la cava, e l’altro è un compagno di lavoro piccolo e malaticcio, la cui andatura zoppicante gli è valsa il soprannome di Ranocchio. Due nullità cui Malpelo non risparmia un trattamento violento e livoroso, del quale si compiace persino: l’asino va picchiato perché non vale niente, e perché tanto non può picchiar lui, mentre Ranocchio deve imparare a difendersi in un vita in cui a vincere è sempre chi mena più forte, e il debole è destinato a soccombere.

È su questi deboli che il ragazzo può proiettare tutta la sua aggressività, la frustrazione, la rabbia abbandonica, e mentre scaglia contro di loro la violenza delle mani e del cuore riesce ad identificarsi con gli aggressori che prima hanno colpito lui, e si sente forte al loro pari. Picchiare gli restituisce un breve sollievo interiore, disegna una tregua nella vessazione di quell’oggetto abbandonico che ha perduto da piccolo- la madre- e che continua a cercare con pulsioni d’affetto e rivalsa (Bion, 1958). Al contempo queste vittime opportune costituiscono la rappresentazione concreta di quella debolezza che odia in se stesso e che cerca di punire evacuandola all’esterno, nel disperato tentativo di controllarla, e dunque di liberarsene.

Ma la violenza è anche il solo stile relazionale che gli sia mai stato insegnato, in famiglia e nella cava; così non è insensato credere che dietro tanta aggressività sia sotteso il tentativo di costruire una vicinanza affettiva, magari con quello stesso asino che tanto rimbrotta e con quel ragazzino malaticcio che non sa sostenere i pesi della cava come quelli della vita, e che deve imparare a difendersi prima che il mondo se lo inghiottisca.

Gli opposti di Malpelo: La “moralità immorale” e la forza vulnerabile

In apparenza Malpelo ci appare un ragazzaccio senza morale, uno di quelli che se ne va in giro a menar le mani contro i più deboli per sopraffarli ed appagare pulsioni narcisistiche frustrate. Lo si direbbe privo di un Super-Io, tanto si mostra lontano dall’ etica, dall’ empatia e dal rispetto per l’altro.

E tuttavia non si tratterebbe di un’affermazione veritiera, poiché è pur visibile in lui il residuo di una dimensione superegoica. Certo non si tratta del Super-Io moralizzante creatosi al termine di una triangolazione funzionale, non è certo l’erede di un’evoluzione edipica (Freud, 1905) ma è piuttosto il frutto di un oggetto persecutorio interiorizzato, che gli impone il sopruso quasi fosse un dovere. È il Super-Io crudele tipico della depressione introiettiva, nella quale l’Io, non sopportando la separazione dall’oggetto abbandonico, decide di introiettarlo per mantenere con esso una simbioticità avida e maligna che lo perseguita, svuotandolo di ogni risorsa (Spitz, 1945). Diventando una compagine indistinta con l’oggetto cattivo l’Io si rende cattivo a sua volta, e nel tentativo di dominare un vissuto carico di distruttività (Klein, 1935) si anima di una malvagità persecutoria che rivolge ora verso se stesso ora verso l’altro, svuotandosi di ogni potenzialità evolutiva.

Ma quello di Malpelo non è il vuoto emotivo tipico dei narcisisti; non è neppure la freddezza utilitaristica degli antisociali, né l’aggressività invidiosa dei paranoidi. È piuttosto l’operato di un Sé alieno e sabotante (Fonagy e Target, 2001; Gazzillo, 2012) che gli ricorda l’affetto di cui è stato privato e di cui va costantemente alla ricerca, pur illudendosi di non averne bisogno (Winnicott, 1970).

E dopo tanto dibattersi, alla fine questo ragazzaccio si arrende: rimasto solo al mondo dopo la morte del padre e degli unici amici che abbia mai avuto- Ranocchio è morto di una malattia buscata alla cava e l’asino ha ceduto sotto il giogo delle botte e della fame- decide di raccogliere l’ultima sfida che gli lancia il destino, e si avventura nel ventre tetro della caverna per esplorare una vecchia galleria che raggiunge un pozzo.

È un compito rischioso, che richiede di addentrarsi all’interno di cunicoli stretti e bui. E nessun cavatore accetta il pericolo. Perlomeno nessuno che ha famiglia, o che lascerebbe qualcuno a piangerlo, laddove morisse. Ma non è il caso di Malpelo: la sorella si è sposata, così come la madre, che ha un nuovo marito, ed entrambe si ricordano appena di lui. Può anzi immaginare il loro sollievo al pensiero di liberarsi di quel ragazzaccio dai capelli rossi che tira calci e ruba il pane, e non conclude nulla di buono. Nessuno piangerebbe la sua scomparsa, perché nessuno può amare chi non è mai esistito.

E Malpelo, che una sfida con la morte l’ha da sempre cercata, alla fine decide di darsi in pasto al proprio istinto di autodistruzione, urlando quel grido di disperazione che per troppo tempo gli è rimasto in gola, chiuso in un silenzio ringhioso: con i suoi attrezzi, un tozzo di pane e i calzoni sdruciti si avventura nel pancione della cava, profondo e minaccioso come il ventre materno che non ha mai conosciuto.

Egli ne ha paura, ma al contempo lo desidera profondamente, così come teme e desidera la madre. Quella miniera che lo nutre e lo affama, che gli dà vita mentre lo uccide, è alla fine la simbolizzazione del seno buono e del seno cattivo, quell’oggetto materno -ora presente ora abbandonico- da cui Malpelo si lascia distruggere (Klein, 1928). Forse nel tentativo di abbracciarlo.

Una storia senza lieto fine: il vuoto psicotico e la disgregazione del Sé

Malpelo non è riuscito a superare il dolore per la perdita dell’oggetto primario, e a questo stesso oggetto è rimasto inconsapevolmente legato, in un rapporto maligno e captativo da cui si è lasciato sabotare, dando vita ad un’aggressività dai connotati psicotici che finisce col sopraffarlo (Freud, 1917; Gazzillo, 2012).

La sconfitta di questo vinto è anche la disfatta del suo tempo; è il grido letterario che Verga concede ad una realtà sotterranea e sepolta che portare alla luce è doloroso, per certi aspetti inutile, e che quindi si preferisce ignorare, rimuovere o negare, proprio come si fa con un trauma.

I protagonisti di questa storia non sono dei veri personaggi. Nessuno riconosce loro un’identità, perché non si meritano neppure quella, laggiù nel buio della cava dove tutto si confonde con tutto e il niente regna sovrano. Così, se persino l’asino è grigio come il colore del vuoto e del nulla, il vero nome di Malpelo non se lo ricorda più nessuno. Neppure la sua stessa madre che glielo ha imposto, e che preferisce chiamarlo, anche lei, con quell’appellativo tanto bieco e dispregiativo.

Sembra un’esposizione cronachistica, nuda e senza cuore. Ma la storia di questo aggressore impotente che a modo suo vince la battaglia contro la solitudine e il dolore lascia un po’ di amaro in bocca. Il suo è un pessimismo cosmico: non c’è speranza di redenzione perché non c’è bontà nel cuore degli uomini, ma solo intento di reciproca sopraffazione.

Se non picchi vieni picchiato, il debole è destinato a soccombere, vince chi picchia più forte.

Per lui gli uomini sono uguali alla terra, traditori pronti a schiacciarti quando meno te lo aspetti.

Può sembrare un pensiero paranoide, quasi delirante, un’invettiva contro il genere umano in toto. Ma dietro questa convinzione si nasconde la muta speranza di imbattersi prima o poi in una smentita; qualcosa in grado di dimostrargli che merita qualcosa di diverso dalla polvere della cava, che gli affetti esistono e che anche lui è degno di riceverli.

Lo attenderà l’ennesima delusione, perché Malpelo non troverà mai l’amore. La sua storia finisce inghiottita dal ventre senza luce di una grotta, posta a metafora di una dimensione psichica inesplorata, fatta di oggetti scissi, spezzati, frammenti mnestici e  vuoti affettivi (Klein, 1928; 1935), in cui la realtà perde ogni valore oggettivo e l’imperante dominio della scissione provoca la polarizzazione degli estremi, la dicotomia inesplorabile degli opposti.

Lo scenario evocativo della lotta tra Eros e Tanatos costituisce il filo conduttore di tutta l’esistenza del ragazzo, ponendosi a vessillo della lotta infinita che gli si agita nel petto: quella tra il rosso dei suoi capelli e il buio della caverna, tra la luce della passione e il nero dell’inerzia, e dunque tra vita e morte, due dimensioni che, non potendo conciliare in un tutto sintetico e armonioso, Malpelo scinde sincreticamente nel disperato tentativo di salvarsi dal pericolo che percepisce in entrambi.

La sua stessa scomparsa nella caverna appare il sofferto compromesso tra l’angoscia di fusione e di separazione verso quegli affetti che per tutta la vita ha rifuggito, pur andandone disperatamente alla ricerca.

Non sappiamo neppure cosa abbia trovato al termine del suo viaggio, né se lo abbia mai concluso davvero. La novella non lo racconta, né l’autore fa menzione della sua morte, limitandosi piuttosto a lasciarla intuire, nemmeno fosse una verità troppo paurosa da pronunciare.

Ciò che alla fine ci resta di lui sono i suoi capelli rossi e quegli occhiacci grigi che i lavoratori della cava, pur tanto tempo dopo la sua scomparsa, hanno ancora paura di incontrare, esattamente come si teme di imbattersi in un fantasma, in un’angoscia senza nome, in un pensiero mortifero che di tanto in tanto attraversa la mente, rendendola ora onnipotente, ora vulnerabile.

La verità è che Malpelo non può morire perché non è mai vissuto. Questo antieroe dai capelli rossi è piuttosto un’angoscia rabbiosa costruita su abbracci negati, su speranze fallite, su sogni traditi. È un’esistenza al margine che, prigioniera di un dolore grezzo e troppo ruvido per le parole, trova in un silenzio psicotico l’unica redenzione possibile. E per sempre lascia il dubbio di come avrebbe potuto essere, se così non fosse stato.

Freud aveva ragione? Le Neuroscienze alla ricerca dell’origine e significato del sogno

L’interpretazione dei sogni ha una storia millenaria, ce ne parla già Artemidoro di Daldi nel II secolo dopo Cristo come di una pratica antica di secoli (Prada, 2015).

 

Il padre della psicoanalisi però fu il primo, o comunque tra i primi, a considerare scientificamente il sogno come un’attività originale della nostra mente e non un’infusione divina, un messaggio di una qualche entità superiore.

Tutti noi, almeno una volta abbiamo sognato, o più correttamente: abbiamo ricordato il sogno che abbiamo fatto. È infatti ormai condiviso da tutta la comunità scientifica che mentre dormiamo, prevalentemente nelle fasi REM (Rapid Eyes Movement), il nostro cervello svolge, fra le varie attività, anche quella onirica. C’è da precisare che la frequenza del richiamo dei sogni, ossia del loro ricordo, diminuisce rapidamente a mano a mano che i risvegli sono ritardati oltre la fine di un periodo REM (Goodenough et al., 1965; Wolpert &  Trosman, 1958).

Abbiamo detto che il sogno avviene prevalentemente nelle fasi REM poiché risultati di laboratorio (ad esempio: Dement, 1990; Dement & Kleitman, 1957) dimostrano che l’80-90% dei soggetti risvegliati durante periodi REM di sonno ha riportato memorie di sogno. Tuttavia altri studi hanno trovato ricordi di sogno anche nelle prime tre fasi del processo del sonno, in fasi Non REM. Da ciò si può desumere che “il sogno si verifica quindi [anche] in assenza di REM” (Foulkes & Vogel, 1965 p. 239 cit. in Domhoff & Fox, 2015 p. 353). Vale la pena ricordare poi che è tuttora aperto il dibattito sulle eventuali differenze qualitative del sogno durante i periodi REM rispetto a quelli in periodi NonREM (Hobson, 2000).

Ma che cos’è un sogno?

Diciamo subito che non c’è consenso in letteratura sulla definizione di sogno. A volte il sognare è stato considerato un’attività mentale che produce, durante il sonno, pensieri o immagini isolate oppure esperienze più articolate, vere e proprie storie, che vengono richiamate al risveglio (Domhoff & Fox, 2015).

Foulkes (1985), definisce il sogno sempre un’attività mentale, specifica che è involontaria ma organizzata e che genera simulazioni credibili del mondo reale; mi permetto di dissentire soltanto sul termine “credibili” in quanto è esperienza di ciascuno di noi quanto i sogni a volte abbiano dei passaggi, delle situazioni, completamente avulse dalla logica formale (razionale) e anzi abbiano caratteristiche di “impossibilità” e illogicità. Infatti, a seconda dei criteri di punteggio utilizzati è stato stimato che tra il 32% (Schredl, 2010) e il 71% (Stenstrom, 2006) dei sogni abbia contenuti di illogicità. A questo proposito è forse utile ricordare che alcuni ricercatori adottano il parametro della “bizzarria” (situazioni fisicamente impossibili o socialmente improbabili, luoghi e personaggi fantasiosi, grandi discontinuità di tempo e/o spazio e così via) per distinguere il sogno da altre esperienze mentali esperite durante l’insorgenza del sonno o immediatamente prima del risveglio oppure attività quali il cosiddetto “vagabondaggio mentale” (mind wandering), argomento su cui si tornerà oltre nel testo e che sarà oggetto di un successivo articolo.

La definizione di Foulkes (1985) tuttavia ci conduce a un’ulteriore considerazione fatta da studi più recenti: le immagini mentali prodotte nel sogno possono essere considerate “simulazioni incarnate” (Domhoff & Fox, 2015), concetto che, anche questo, verrà ripreso più avanti.

Al di là delle molteplici definizioni che sono state date nel tempo all’esperienza onirica, Nir e Tonioni (2010) considerano i sogni “un interessante e unico esperimento in psicologia e neuroscienze, condotto ogni notte da qualsiasi persona che dorme” (Nir & Tonioni, 2010, p. 20).

Gli autori qui focalizzano l’attenzione sulla “capacità del cervello [loro si riferiscono espressamente a quello umano, ma chiunque conviva con un cane potrà probabilmente dissentire da tale limitazione di specie], scollegato dall’ambiente, di generare da solo un intero mondo di esperienze coscienti” (Nir & Tonioni, 2010, ibidem p. 20).

Per concludere questo necessariamente rapido excursus sulle varie definizioni di sogno occorre ricordare che esso è stato talvolta considerato un tipo di allucinazione, nell’accezione di percezione senza oggetto. In questo caso, osservano Domhoff & Fox. (2015), la definizione porta all’idea che il sogno sia una forma di psicosi, così come affermato dallo psichiatra J. Allan Hobson: “[sognare è] uno stato psicotico come abbiamo mai provato mentre siamo svegli” (2002, p. 99).

Allo stesso modo, i teorici freudiani Mark Solms e Oliver Turnbull (2002, p. 213) sostengono che “l’anatomia funzionale del sogno è quasi identica a quella della psicosi schizofrenica”, che è caratterizzata da frequenti attività allucinatorie.

Ma la posizione di questi ultimi due autori appare non condivisibile, se non in minima parte, soprattutto alla luce degli studi del neurologo Oliver Sacks (2013, pp. xiii, 26-27, 80, 209, 214), al quale si rimanda per una specifica trattazione, e che, in estrema sintesi, sottolinea come le allucinazioni di soggetti psichiatrici sono molto spesso udibili, con figure persecutorie che irrompono e bloccano i loro pensieri e frequentemente  impartiscono ordini; aspetti e caratteristiche ben diverse dalle simulazioni incarnate dell’esperienza onirica che include spesso personaggi coinvolti in attività e interazioni di vita ed esperienza quotidiana del soggetto che sta sognando.

Qual è il substrato e il correlato neurale del sogno?

Esiste una vasta ricerca scientifica che attraverso diverse strumentazioni quali protocolli elettroencefalografici (EEG) e polisonnografici (PSG), registrazioni video-PSG con risvegli provocati, neuroimaging funzionale, come la tomografia a emissione di positroni (PET), la risonanza magnetica funzionale (fMRI); la stimolazione magnetica transcranica, ha studiato le basi neurali del sogno, sia in soggetti sani (tra i molti: Takeuchi, et al., 2003; Esposito, et al., 2004; Chellappa, et al., 2011; De Gennaro, et al., 2011; Scarpelli, et al., 2017;  Zhang & Wamsley, 2019;  Siclari, et al., 2017) o campioni clinici (De Gennaro, et al.,  2016; D’Atri, et al.,  2019).

Nel complesso questi lavori, seppur con alcune differenze che in questa sede non possono essere affrontate, suggeriscono che prevalentemente ci sono due reti corticali impegnate nei processi onirici: un sistema posteriore e uno anteriore. Più in dettaglio, questi due sistemi riguardano: le aree parieto-occipitali (Siclari, et al., 2017), le aree temporo-parietali (Scarpelli, et al., 2017), la corteccia prefrontale ventromediale (mPFC), in particolare quella sinistra (Scarpelli, et al., 2017 ibidem), il lobo temporale mediale, la giunzione lobulare/temporo-parietale inferiore bilaterale, la corteccia cingolata posteriore (Domhoff & Fox, 2015) e anche la giunzione temporo-parietale (TPJ) (Scarpelli, et al., 2021). Quest’ultima struttura sappiamo essere responsabile delle immagini visive durante lo stato di veglia ma, come ha potuto verificare Solms (2000), una lesione bilaterale anteriore di questa provoca la cessazione del sogno, e la cosiddetta “anoneria” ossia l’incapacità di ricordare il sogno (Scarpelli, et al., 2021).

Altri studi hanno evidenziato che il processo onirico coinvolge anche una rete subcorticale: le strutture limbiche e paralimbiche, il talamo, il proencefalo basale e il tegmento pontino che sono significativamente attivati durante il sonno REM (Braun, et al., 1997; Maquet, et al., 1996; Nofzinger, et al., 1997).

Inoltre, come messo in luce dal lavoro Domhoff e Fox (2015), durante il sogno il nostro cervello attiva un insieme di strutture collegate che è sostanzialmente sovrapponibile con la rete neurale DMN (Default Mode Network) attiva durante il vagabondaggio mentale in stato di veglia (Fox,  2013,  pp. 6,  11-12).

Sogno come simulazione incarnata

L’ipotesi/definizione che le immagini mentali prodotte nel sogno possano essere considerate simulazioni incarnate, ossia incorporazioni di stimoli (vedremo più avanti se “soltanto” interni, “soltanto” esterni o di entrambe le modalità), è sostenuta da molteplici studi basati su prove sperimentali. Questi hanno rivelato che le aree cerebrali implicate nell’elaborazione visiva e sensorimotoria durante la veglia, vengono attivate anche quando, durante il sogno, si producono immagini o si vivono esperienze di movimento, in questo caso quindi in assenza di input percettivi esterni.

Inoltre, le immagini coinvolte nell’esperienza onirica sono soggettivamente sentite (vissute) dall’organismo nella sua interezza, e maggiormente dalle strutture neurali preposte, come esperienze concrete (ad esempio, Bergen, 2012, pp. 13-17; Gibbs, 2006, pp. 27 – 28; Niedenthal,  et al.,  2009).

A conferma della fondatezza di tale ipotesi Voss, Holzmann, Hobson et al. (2014) hanno indagato la possibilità di influire sui sogni attraverso stimoli esterni.

Incorporazione di stimoli esterni nel sogno

Una parte della ricerca psicologica sull’attività onirica si è rivolta all’incorporazione di stimoli esterni nel sogno non soltanto per verificare, come si è accennato, la fondatezza dell’ipotesi/definizione del sogno come “simulazioni incarnata” ma ha anche cercato conferme alla “Ipotesi di continuità”. Questa ipotesi, proposta da Bell & Hall (1971), suggerisce che le preoccupazioni e le convinzioni personali presenti durante la veglia si riverberino, abbiano la loro continuità, nel sonno e quindi anche nel sogno. Da allora sono state apportate diverse reinterpretazioni e modifiche alla teoria originale; tuttavia tale ipotesi è stata sostanzialmente confermata dal relativamente recente lavoro di Domhoff (2017).

Uno dei primi tentativi di influenzare il sogno con stimoli esterni prima del sonno è stato prodotto da Dement e Wolpert (1958). Gli autori hanno privato i soggetti di liquidi un giorno prima di dormire e hanno ottenuto 5 sogni REM su 15, con contenuti correlati alla sete. Successivamente Goodenough, et al. (1975) hanno utilizzato film stressanti durante un periodo pre-sonno, dimostrando che lo stimolo visivo può aumentare i sogni caratterizzati da un tono emotivo negativo.

In effetti, molti ricercatori hanno concluso che i sogni riflettono la vita da svegli e hanno affermato che i contenuti dei sogni potrebbero rappresentare l’incorporazione dell’esperienza quotidiana. E in quest’ottica verrebbero interessate, come realmente lo sono, anche le strutture limbiche, in particolare l’ippocampo, così come dimostrato da Moroni, et al. (2007).

Ma allora il sogno è semplicemente il riflesso degli stimoli ricevuti?

Non proprio, anzi, ma le cose sono un po’ più complesse.

Massimini, et al. (2005), hanno usato la stimolazione magnetica transcranica insieme all’elettroencefalografia ad alta densità per studiare come l’attivazione di un’area corticale (nell’esperimento l’area premotoria) viene trasmessa al resto del cervello. Durante la veglia una risposta iniziale (circa 15 millisecondi) nel sito di stimolazione è stata seguita da una sequenza di onde che si sono spostate verso aree corticali collegate, a diversi centimetri di distanza. Durante il sonno con movimenti oculari non rapidi, specificatamente in fase NREM3, la risposta iniziale ha avuto un’intensità maggiore ma si è rapidamente estinta e non si è propagata oltre il sito di stimolazione. Quindi Massimini, et al. (2005) hanno concluso che durante in sonno NREM3 le aree cerebrali sono funzionalmente disconnesse tra loro, diversamente da ciò che accade durante la veglia e, come vedremo, durante gli episodi di sogno.

Dal lavoro di Siclari, et al. (2017) sappiamo che possiamo sognare sia in NREM1 che NREM2, sia in periodi REM; ma l’aspetto rilevante che ha messo in luce il loro studio è che durante il sogno in N1 e N2 abbiamo una desincronizzazione dell’attività neuronale (rilevata dai tracciati elettroencefalografici) nelle regioni parietali/posteriori del cervello così come durante il sogno in periodo REM, mentre di regola, per le altre strutture neurali non c’è una tale corrispondenza. Questa analisi quantitativa è stata calcolata per mezzo dell’algoritmo che calcola la trasformata di Fourier veloce.

In sintesi, per chiarezza: durante il sonno NonREM l’attività registrata dall’elettroencefalogramma, per le varie componenti coinvolte nell’attività neuronale, è (prevalentemente) sincronizzata in tutte le strutture encefaliche, sebbene, come abbiamo visto grazie al lavoro di Massimini e colleghi (2005), tali strutture in fase NREM3 siano funzionalmente disconnesse; mentre durante il sonno REM è (prevalentemente) desincronizzata in tutte le strutture encefaliche, così come lo è durante lo stato di veglia. Lo studio di Siclari, et al. (2017) ha invece appurato che durante il sogno: in periodi NREM1 o NREM2 l’attività neuronale (rilevata dai tracciati elettroencefalografici) nelle regioni parietali/posteriori del cervello (corteccia perietale/posteriore visiva) è desincronizzata; in periodo REM l’attività neuronale (sempre rilevata dai tracciati elettroencefalografici) nelle regioni parietali/posteriori del cervello (corteccia perietale/posteriore visiva) è ugualmente desincronizzata, con una intensità maggiore di desincronizzazione rispetto a momenti nei quali non si sogna e ad altre regioni encefaliche (Siclari et al.,  2017).

Per tentare di semplificare in maniera opportuna per questa sede possiamo dire che un tracciato elettroencefalografico sincronizzato dei neuroni di una particolare struttura rappresenta l’equivalente neurofisiologico di un’attività semplice in quella stessa struttura; un tracciato elettroencefalografico desincronizzato dei neuroni di una particolare struttura rappresenta l’equivalente neurofisiologico di un’attività complessa in quella stessa struttura (Imeri & Mancia, 2006), “I risultati di questo esperimento ci riportano all’isomorfismo Mente-cervello, Psiche-struttura organica: “sogno” uguale desincronizzazione delle regioni cerebrali posteriori, “non sogno” uguale sincronizzazione delle regioni cerebrali posteriori” (cit. prof. Luca Imeri, Dip. Di Scienze della Salute – Università degli studi di Milano, lezione Neurofisiologia del sonno, del 21 marzo 2021).

Un’ulteriore e forse più chiara risposta alla nostra domanda ce la fornisce lo studio ormai storico di Hobson (1989).

Dove si originano i sogni

Hobson (1989) propose un’ipotesi/modello di attivazione del sogno in sonno REM, successivamente revisionato e dettagliato (Hobson et al., 2000), attraverso l’integrazione di dati neurofisiologici, neuropsicologici e di neuroimaging. Semplificando molto la trattazione e il complesso di interazioni fra le diverse strutture coinvolte, possiamo dire che per questi autori l’attivazione del sogno origina dai nuclei del Ponte, nel tronco encefalico, dove i neuroni che sono attorno al penduncolo cerebellare superiore proiettano (ossia trasmettono potenziali d’azione), a seconda dei tipo di stimoli (uditivi, olfattivi, sensomotori, etc), ai nuclei talamici intralaminari, ai gangli basali, ai nuclei talamici ventromediali e, per gli stimoli visivi, proiettano onde ponto-genico-occipitali (PGO) al corpo genicolato laterale (NGL) del talamo (struttura, l’NGL, che durante la veglia raccoglie l’informazione visiva direttamente dalla retina e le invia alla corteccia visiva primaria V1) e da qui alla corteccia parieto-occipitale, ossia le aree visive V3, V3a e V4 ma non V1, V5 o V6 (Solms, 1997). L’attenuazione dell’attività della corteccia visiva primaria è confermata anche da Braun et al., (1998). Possiamo quindi osservare che: a) gli imput alla corteccia visiva non provengono dalla retina, così come durante la veglia, e d’altronde sarebbe inutile, considerato che mentre si dorme si hanno le palpebre abbassate; b) le aree della corteccia visiva che vengono attivate sono quelle deputate all’elaborazione superiore (associative) delle immagini, aree di Brodmann 37 e 19 (Hobson et al., 2000).

Contemporaneamente all’attivazione di questa rete ascendente, prima gli studi di Braun et al. (1998) e poi quelli di Hobson, (2000), hanno trovato che durante il sonno REM sono inibite le afferenze sensoriali al livello del tronco encefalico.

Conclusioni

Tutti questi studi e altri che qui per brevità sono stati omessi, dimostrano l’assoluta specificità del sogno, un’attività organica che si origina da una ben definita struttura del cervello e coinvolge numerose sue aree per costruire una realtà personale costituita da contenuti, inconsci e/o variamente indotti (in questo caso successivamente rielaborati e filtrati attraverso la memoria di esperienze passate).

Il sogno è perciò, anche per l’indagine scientifica, una elaborazione personale, originale ed unica. Un elemento quindi, una produzione, del nostro essere nella sua interezza biopsicosociale, imprescidibile per conoscere e conoscersi. E come il sogno, medesimo valore e stessa attenzione merita anche il mind wandering, il “vagabondaggio mentale” o il sogno ad occhi aperti, in determinate e controllate situazioni. Ma di questo parleremo in un’altra occasione.

Naturalmente è d’obbligo ricordare che tutte le teorie/ipotesi/modelli fin qui riportati, si basano sull’osservazione e lo studio del cervello, un insieme di strutture connesse del nostro organismo, che Leonard E. White all’inizio di ogni sua lezione di Neuroanatomia alla Duke University definisce: “l’elemento più complesso che esista nell’universo conosciuto” e del quale, finora, conosciamo, secondo Helene Marie, una delle ricercatrici di punta dell’Ebri, l’European Brain Research Institute, forse soltanto il 20-25% (Marie, 2010) o ancor meno, intorno al 15%, secondo Aniello Iacomino, docente di Neuropsicologia all’università Guglielmo Marconi di Roma.

Tali teorie, inoltre, a differenti livelli, sono appunto teorie, e come tali, citando Popper (1963), attendono soltanto di essere confutate.

 

Esiste una correlazione tra il nevroticismo e il morbo di Parkinson?

Un recente studio dell’Università della Florida, realizzato in collaborazione con due istituti italiani del CNR, ha stabilito l’esistenza di una correlazione tra un aumento del rischio di sviluppare il morbo di Parkinson ed il tratto di personalità detto “nevroticismo”.

 

Il morbo di Parkinson appartiene al gruppo di patologie definite disturbi del movimento ed è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da disturbi motori progressivi, tremori a riposo e disturbi dell’equilibrio a cui si possono associare decadimento delle funzioni cognitive e sintomi ansiosodepressivi (Jacob E, Gatto N, Thompson A, Bordelon Y, Ritz B.2010). Si tratta di una sindrome extrapiramidale dovuta alla depauperazione di dopamina a livello di specifici neuroni che vanno incontro a degenerazione cellulare. Il Parkinson è presente in tutti i paesi del mondo, il suo esordio è generalmente intorno ai 60 anni, ma esistono anche casi giovanili con esordio tra i 20 ed i 40 anni.

L’incidenza nella popolazione generale è dell’1%-2% (Buchaman A.S., Leurgans S.E., Yu L. et al. 2016).

Le cause di questo morbo non sono del tutto conosciute, tuttavia si ritiene che possa essere considerato una patologia a genesi multifattoriale, al cui sviluppo concorrono fattori genetici ed ambientali (Bush K, Rannikmae K, Wilkinson T, Schnier C, Sudlow C,  Group UBOA.  2018).

Un recente studio multicentrico che ha coinvolto circa mezzo milione di persone, realizzato dall’Università della Florida in collaborazione con il CNR-IRIB di Cosenza e il CNR-IBFM di Milano, ha evidenziato l’esistenza di una correlazione tra l’aumento del rischio di sviluppare il morbo di Parkinson e la presenza del tratto di personalità definito “nevroticismo” (Terracciano A., Aschwanden D., yannick S. et al.  2021).

Esistono numerose teorie che propongono modelli in grado di spiegare la personalità e il suo sviluppo. Attualmente si ritiene che la teoria dei tratti sia quella che meglio illustra le differenze interindividuali di personalità (Sutin AR, Stephan Y, Luchetti M, Artese A, Oshio A, Terracciano A.2016).

Il termine “tratti” indica delle caratteristiche di personalità di origine genetica che influenzano il comportamento, le emozioni e i pensieri dell’individuo.

Il nevroticismo è uno delle cinque categorie utilizzate per descrivere la personalità, secondo la teoria dei “big five”, che rappresenta una classificazione sistematica dei tratti di personalità. Secondo questa teoria il nevroticismo spazia tra due punti opposti: da un lato, questo fattore corrisponde all’instabilità emotiva, dal lato opposto, alla sicurezza e stabilità emotiva.

Questo, e gli altri tratti di personalità, si acquisiscono fin dalla nascita e possono essere modificati nella loro espressione quantitativa nel corso della vita.

Il nevroticismo è stato collegato allo sviluppo di varie patologie quali la depressione, i disturbi d’ansia ed il morbo di Alzheimer. (Terracciano A, Sutin AR.2019)

I ricercatori dell’Università della Florida grazie ai dati raccolti dalla UK Bio-bank hanno potuto monitorare, per 12 anni, circa mezzo milione di individui di cui 1142 affetti da Parkinson. Lo studio longitudinale ha evidenziato che i soggetti con livelli elevati di “nevroticismo” manifestavano un rischio dell’80% in più, rispetto a chi possiede bassi livelli  di questo stesso tratto, di sviluppare il  morbo di Parkinson.

Questa ricerca ha permesso di rilevare che ansia e depressione non sono semplicemente legate allo sviluppo del morbo di Parkinson, ma che esiste una vulnerabilità emotiva, caratteristica del “nevroticismo”, che precede di anni la comparsa del Parkinson (Terracciano A., Aschwanden D., yannick S. et al.  2021).

Studi precedenti a quello pubblicato recentemente da Moviment Disorders hanno portato inizialmente a ritenere che la connessione tra “nevroticismo” e Parkinson fosse legata a un eccesso di attività dopaminergica con conseguente esaurimento dei neuroni che producono questo neurotrasmettitore (Sieurin J, Gustavsson P, Weibull CE, et al. 2016). Successivamente è stata avanzata l’ipotesi che, nei soggetti nevrotici, si realizzi una compromissione del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene responsabile della comparsa di stress ossidativo e susseguente danno cellulare a livello neuronale (Biondi M., Accini T., FojanesiM., Papadogiannis G. 2016 ; Carver C.S., Connor-Smith J. 2010).

 

Falsi abusi e conflittualità familiare

Da un punto di vista relazionale, il sospetto abuso, che sia esso confermato, presunto o “architettato”, tende sempre a recidere i legami, provocando conseguenze dannose tanto quanto un vero abuso. La convinzione che una cosa sia accaduta la rende psicologicamente reale e vissuta come tale.

 

 Sempre più spesso accade che l’accusa di abuso sessuale intrafamiliare emerga durante o subito dopo una separazione. Vittima ed unico testimone del fatto è il minore, che oltre ad essere risucchiato all’interno di un turbinio di situazioni a lui nuove, vede anche mutare la frequentazione tra il minore stesso e il presunto abusante (Cialdella M., 2018). Esiste sul tema degli abusi sessuali sui minori in casi di separazione conflittuale un’ipersensibilità evidente. All’interno di una così elevata attenzione finiscono spesso per nascondersi quei genitori che, resi ciechi dal conflitto relazionale, scatenano ogni arma a disposizione e inseriscono nel contenzioso della coppia in separazione ogni elemento che ai loro occhi possa essere dannoso per l’altro (Rosoni I., 2011).

Da un punto di vista relazionale, il sospetto abuso, che sia esso confermato, presunto o “architettato”, tende sempre a recidere i legami, provocando conseguenze dannose tanto quanto un vero abuso. La convinzione che una cosa sia accaduta la rende psicologicamente reale e vissuta come tale. Sono minori abusati se l’abuso sessuale c’è stato; ma non va dimenticato che sono comunque abusati se, nella convinzione che l’abuso ci sia stato, sono stati privati di una delle figure genitoriali (Cialdella M., 2018).

È necessario ricordare che le denunce possono essere anche le proiezioni e le attribuzioni fatte da uno dei due coniugi sull’altro, delle proprie fantasie o paure, in alcuni casi percepite come reali, in altri finalizzate a danneggiare ed allontanare l’altro (Montecchi F., 2016). In questi casi, infatti, il conflitto può essere alimentato dal bisogno di vendicarsi dell’altro, penalizzandolo come genitore, oppure da un’intenzionalità nel mantenere il legame nel tempo, seppur in una forma disfunzionale: in questo caso possiamo parlare di “legame disperante” (Cingoli V., Galimberti C., Mombelli M., 1988).

 All’interno di un sistema familiare così conflittuale può strutturarsi una tipologia di triade molto rigida, la coalizione. Essa viene definita come l’unione tra due persone a danno di un terzo. Uno dei genitori si allea con un figlio in una coalizione rigidamente definita e di tipo transgenerazionale contro l’altro genitore. L’unico o prevalente interesse comune tra i due membri coalizzati è il tentativo di produrre un danno ad un terzo (Minuchin S., 1976). Il minore coinvolto nelle coalizioni di questo tipo sperimenta forti conflitti di lealtà, dovuti alla sensazione di essere conteso e, secondo molti ricercatori, sarebbe proprio questa condizione a mediare l’effetto del conflitto sull’adattamento del minore stesso (Buchanan C.M., Maccoby E.E., Dornbusch S.M., 1996). Spesso il figlio accetta di allearsi con un genitore perché lo vede più potente o perché si sente rifiutato dall’altro, o ancora perché teme di essere abbandonato. Tali scelte comportano, sul piano psichico, costi molto elevati che si manifestano attraverso sensi di colpa o di abbandono per la perdita del genitore rifiutato, adultizzazione precoce, vissuti depressivi e difficoltà di svincolo durante l’adolescenza (Dell’Antonio A., 1993).

Inoltre, si può verificare anche una inversione di ruoli, per cui il figlio si assume il compito di consolare la madre, soprattutto se depressa. Tale ruolo costituisce un serio fattore di rischio per il proprio sviluppo psico-emotivo, in quanto ne deriva un forte senso di inadeguatezza, dovuto al fatto che il figlio non riesce a soddisfare pienamente i bisogni del genitore e soffre di ansia da prestazione, ovvero si sente incapace di raggiungere gli obiettivi che si è prefissato (Ritucci A., Grattagliano I., Orsi V., 2009).

I falsi abusi collegati ai minori in una coppia, il più delle volte, vengono strumentalizzati dalla madre. Quasi sempre è proprio la madre, nell’86% dei casi, a denunciare i falsi abusi, condizionando il bambino, facilmente suggestionabile. Nel 90% dei casi, queste denunce risultano infondate, ma purtroppo quasi mai la procura dà avvio al procedimento penale per il reato di calunnia (Colantuono C., Berenato C., 2019).

 

Gioco d’azzardo in adolescenza: tra narcisismo, ipercompetizione ed impiego di strategie di coping disadattive

Da hobby innocuo e divertente, il gioco d’azzardo può divenire una dipendenza problematica e provocare esiti negativi.

 

Il disturbo da gioco d’azzardo è classificato dal DSM-5 come un comportamento di dipendenza non correlato alle sostanze (American Psychiatric Association, 2013) che, sebbene principalmente limitato agli adulti, coinvolge sempre di più giovani ed adolescenti, con una variabilità di tassi dal 21 al 90% nel mondo (Volberg et al., 2010).

In particolare, i ragazzi sembrerebbero più coinvolti nelle attività di gioco delle loro controparti di sesso femminile (Calado et al., 2017), anche se il divario di genere diminuisce con l’insorgenza dell’età adulta.

Le vaste opportunità di gioco attuali rendono vulnerabile la generazione degli adolescenti e giovani adulti di oggi (Gupta & Derevensky, 2000). Da hobby innocuo e divertente, può divenire una dipendenza problematica e provocare esiti negativi (Calado et al., 2017), come scarso rendimento scolastico, lesioni e incremento della violenza nella relazione con il partner (Afifi et al., 2010).

Dati i costi sociali e la gravità del gioco d’azzardo, la ricerca ha indagato i meccanismi psicologici sottostanti negli adolescenti e adulti, inclusi i domini di personalità (Passanisi et al., 2019; Tackett et al., 2014), gli atteggiamenti relazionali (Pace et al., 2013), l’impulsività (Grant et al., 2016) e le distorsioni cognitive emergenti (Johansson et al., 2009).

Tra i tratti di personalità negli adolescenti, il narcisismo e la tendenza alla competizione influenzano la propensione al gioco d’azzardo. In particolare, i tratti di grandiosità narcisistica sono emersi in associazione a comportamenti esternalizzanti, come il crimine e il gioco problematico (Miller et al., 2010).

Per comprendere come le caratteristiche personologiche possano influire nell’insorgenza di una dipendenza comportamentale, è stato proposto il ruolo di variabili mediatrici, come la tendenza all’eccessiva competizione tra pari, ovvero l’esigenza di ricercare continue prove della propria grandezza, e l’adozione di modalità di coping autoreferenziali.

Oltre all’estrema competizione, che sostiene il gioco d’azzardo poiché motiva a vincere per mantenere o incrementare i livelli di autostima (Ryckman et al., 1997), tale comportamento viene reiterato come meccanismo di coping disfunzionale (Kardefelt-Winther et al., 2017). Infatti, in risposta ad eventi o circostanze stressanti, aiuterebbe i giocatori stessi a regolare le emozioni, il comportamento e gli stati di attivazione fisiologica, distraendo dai problemi e dalle emozioni spiacevoli (Nower et al., 2004). Come supportato dalla ricerca, gli adolescenti giocatori d’azzardo adottano maggiormente strategie di coping orientate all’evitamento, rispetto ai loro coetanei sani (Bergevin et al., 2006).

Lo studio di Pace e colleghi (2020) ha esplorato in un gruppo di 273 adolescenti giocatori tra i 15 e 19 anni, un modello esplicativo del rischio, verificando se l’ipercompetitività ed uno stile di coping evitante agissero come mediatori nella relazione tra narcisismo e gioco d’azzardo.

Il 40% del campione era costituito da giocatori problematici, per la maggioranza di sesso maschile, confermando il tasso di incidenza significativo e la disparità di genere evidenziata dalla letteratura.

I risultati supportano la validità di un quadro teorico che comprende le caratteristiche di personalità disadattive (ovvero presenza di rivalità narcisistica), nella predizione del gioco problematico. Inoltre, la presenza di strategie di coping disadattive (cioè evitamento) e l’ipercompetitività, assumevano un ruolo rilevante nella relazione, come fattori di mediazione.

Nel dettaglio, i soggetti che presentavano alti livelli di strategie di coping disadattive, narcisismo grandioso ed estrema tendenza alla competizione, avevano un rischio maggiore di insorgenza della dipendenza comportamentale.

Gli elevati livelli di narcisismo rimandano ad una motivazione intrinseca legata al gioco tra i maschi adolescenti, ovvero affermare la propria superiorità rispetto ai coetanei.

Anche in letteratura sono emerse associazioni tra costrutti simili alla rivalità narcisistica, come bassa stabilità emotiva, impulsività, machiavellismo, psicopatia e i comportamenti di gioco (Vecchione et al., 2018)

Infatti, il gioco d’azzardo aiuta a respingere stati affettivi negativi (Blaszczynski & Nower, 2002) consentendo il soddisfacimento impulsivo dei bisogni (Passanisi & Pace, 2017).

Nel contesto della rivalità narcisistica, gli individui estremamente competitivi giocano per il piacere intrinseco della sfida agonistica, che li coinvolge maggiormente a livello emotivo rispetto ai giocatori motivati ​​dalla semplice vincita di una somma di denaro (Burger et al., 2006).

Inoltre, tra questi soggetti, il gioco diviene occasione per evitare di affrontare alcune problematiche. Oltre ad essere una strategia di coping per gestire le difficoltà personologiche che hanno incentivato tale condotta (ovvero il desiderio di aumentare la propria autostima e senso di padronanza), consente l’evitamento delle conseguenze spiacevoli e negative emerse a seguito dell’insorgenza del comportamento di dipendenza, come una difficoltà nelle relazioni sociali e problemi economici.

In conclusione, è importante andare ad indagare il significato del comportamento di gioco problematico nel contesto dello sviluppo adolescenziale, fase di vita nella quale ogni condotta ha una valenza comunicativa ed esprime significati e lo sviluppo dell’identità individuale viene regolato in particolar modo dal confronto continuo con l’altro. In questo senso, il gioco d’azzardo problematico potrebbe essere legato ad uno scarso sviluppo di strategie adattive per fronteggiare i problemi, che rimandano a loro volta ad un elevato narcisismo, sentimenti di superiorità e tendenza alla competizione estrema tra pari.

 

Cibo ed emozioni: quando l’alimentazione diventa un problema – VIDEO dal webinar di Studi Cognitivi L’Aquila

Studi Cognitivi L’Aquila, lo scorso 20 Maggio, ha tenuto un interessante webinar dal titolo: “Cibo ed emozioni: quando l’alimentazione diventa un problema. Il parere dello Psicoterapeuta e del Nutrizionista”. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

Il cibo ha una funzione biologica essenziale per l’organismo e viene spesso utilizzato come uno strumento di gestione delle difficoltà emotive. Esistono infatti due tipi di fame: una corporea, che si innesca quando l’organismo ha bisogno di nutrienti, e una fame emotiva, che si prova in presenza di emozioni reputate sgradevoli (rabbia, ansia o depressione). Si può quindi parlare di una relazione tra alimentazione ed emozioni. Queste ultime hanno un effetto sui pensieri, comportamenti e azioni: può succedere quindi di mangiare per ragioni emotive o in relazione a stati emotivi provocando così una relazione conflittuale con il cibo, che può sfociare perfino nei disturbi dell’alimentazione.

I disturbi alimentari (quali anoressia nervosa e bulimia nervosa) consistono in disfunzioni del comportamento alimentare e/o in comportamenti finalizzati al controllo del peso corporeo, che danneggiano in modo significativo la salute fisica o il funzionamento psicologico della persona.

Il webinar, attraverso l’intervento di esperti in materia, ha fatto luce sull’intricato rapporto tra il cibo e le emozioni da un punto di vista psicologico e nutrizionale, sottolineando l’importanza di un’adeguata consapevolezza emotiva e di un’alimentazione più sana, consapevole e flessibile.

L’incontro è stato condotto dalle Dott.sse: Alessandra Curtacci, Psicologa, Psicoterapeuta, Esperta in Psicologia dell’Emergenza; Federica Aloisio, Psicologa, Psicoterapeuta; Lavinia Trombatore, Biologa Nutrizionista.

Pubblichiamo per i nostri lettori il video del webinar.

 

CIBO ED EMOZIONI: QUANDO L’ALIMENTAZIONE DIVENTA UN PROBLEMA
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Il maltrattamento degli anziani: una giornata per sensibilizzare sul fenomeno – 15 Giugno

Il maltrattamento degli anziani ha maggiore probabilità di verificarsi nelle strutture in cui gli standard assistenziali sono inadeguati, vi è scarsa formazione del personale, la retribuzione è bassa e il carico di lavoro è eccessivo.

 

Nel 2006 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha istituito il 15 Giugno la Giornata Mondiale contro l’abuso verso gli anziani, un’iniziativa per sensibilizzare la popolazione su questo drammatico fenomeno sempre più crescente e spesso largamente sottostimato a causa del frequente isolamento delle vittime e della generale resistenza delle persone a segnalare le situazioni a rischio (Tatara, 1994).

L’OMS definisce l’abuso verso gli anziani “un’azione singola o ripetuta, oppure l’assenza di un’azione adeguata, che causa danni o sofferenza a una persona anziana, nell’ambito di una relazione in cui c’è un’aspettativa di fiducia” (2014). Esso costituisce una vera e propria violazione dei diritti umani e può essere di natura fisica, sessuale, psicologica, emotiva, economica e materiale, includendo anche i casi di incuria, trascuratezza e abbandono.

Si stima, infatti, che il 16% delle persone over 60 siano state oggetto di abuso, in particolare abusi psicologici (11,6%), abusi finanziari (6,8%), trascuratezza (4,2%), abusi fisici (2,6%) e abusi sessuali (0,9%) (Yon et al., 2017).

Gli anziani possono essere maltrattati in ambiente domestico da parte dei caregivers, nelle strutture e nei servizi sociosanitari da parte del personale e da persone esterne alla famiglia per mezzo di raggiri e truffe.

L’informativa dell’OMS mette in luce anche i possibili fattori di rischio, tra cui le particolari condizioni fisiche e mentali di abusante e abusato, situazioni di coabitazione, il sesso della vittima, basso reddito dell’abusante, relazioni conflittuali, isolamento, scarso supporto, ageismo e la frattura intergenerazionale.

L’abuso sugli anziani è difficile da rilevare poiché spesso la vittima è poco propensa o incapace di dichiarare il maltrattamento. Le vittime, infatti, possono nascondere l’abuso per vergogna, per il desiderio di proteggere l’aggressore nel caso in cui sia un familiare o per paura di ritorsioni. A ciò si aggiunge uno scarso ascolto da parte delle persone a cui si rivolgono, che possono attribuire tali segnalazioni a stati di confusione o ai sintomi psicotici tipici del deterioramento cognitivo (Kaplan & Berkman, 2019).

Maltrattamenti nel contesto domiciliare e caregiver burden

La maggior parte degli abusi sugli anziani avviene all’interno delle mura domestiche. L’assistenza di un anziano, specie se con deterioramento cognitivo, impegna il familiare sia sul piano pratico-organizzativo che su quello emotivo, portando spesso a un vero e proprio “cortocircuito relazionale” (Baronchelli et al., 2008). L’onere del carico assistenziale si ripercuote su molteplici aspetti della vita del caregiver, il quale percepisce la care come un impegno particolarmente complesso che determina spesso comportamenti disfunzionali (Fasanelli et al., 2005) e, nel peggiore dei casi, una vera e propria sindrome: il caregiver burden. Tale condizione influisce negativamente sulla salute psico-fisica del caregiver, comportando disturbi del sonno, disturbi dell’attenzione e difficoltà mnestiche, irritabilità, somatizzazione, labilità emotiva, agitazione e abbassamento delle difese immunitarie. A questo si aggiungono anche conseguenze sociali, quali solitudine e isolamento, ed economiche come la perdita della propria occupazione per dedicarsi a 360 gradi al proprio anziano (De Beni & Borella, 2015).

Si ritiene che sia proprio lo stress derivante dal carico assistenziale a determinare una riduzione della qualità assistenziale e relazionale e, nel peggiore dei casi, situazioni di abuso (Bergeron, 2001). Indubbiamente vi sono una serie di fattori che, se sommati, portano a una vera e propria crisi nella relazione di cura, ad esempio i lunghi anni di affiancamento alla fragilità, l’intensità dell’accudimento fornito, l’alto coinvolgimento emotivo nella relazione e la gravità di alcune patologie (Perucci, 2015).

Tra i servizi offerti a livello territoriale vi sono spesso gruppi di sostegno e di auto-mutuo aiuto pensati proprio per i caregiver, al fine di creare un ambiente di supporto e condivisione che permetta loro di evitare condizioni di isolamento e di ridurre o quantomeno prevenire livelli critici di stress.

Maltrattamenti nei servizi sociosanitari

La cronaca riporta sempre più spesso casi di incuria e maltrattamento degli anziani nelle strutture residenziali sociosanitarie. L’informativa dell’OMS (2014) riporta un’indagine condotta negli Stati Uniti sul personale delle case di riposo secondo cui:

  • il 36% di esso ha assistito ad almeno un episodio di maltrattamento fisico ai danni di un paziente anziano nel corso dell’anno precedente;
  • il 10% di esso ha commesso almeno un atto di abuso fisico ai danni di un paziente anziano;
  • il 40% di esso ha ammesso di abusare psicologicamente dei pazienti.

Sempre secondo l’OMS, i maltrattamenti hanno maggiore probabilità di verificarsi nelle strutture in cui gli standard assistenziali sono inadeguati, vi è scarsa formazione del personale, la retribuzione è bassa e il carico di lavoro è eccessivo, ovvero in quelle situazioni lavorative in cui vi è un’alta probabilità per il personale di incorrere nella sindrome di Burnout (Maslach et al., 1986). Come è noto, tale sindrome, oltre ad avere effetti negativi sullo stato psico-fisico del dipendente, porta a un graduale disinteresse per il lavoro e a una perdita delle capacità empatiche, deteriorando così la relazione col paziente e dando luogo a episodi di maltrattamento.

Tra gli atti di abuso in ambito istituzionale vanno considerati anche l’abuso farmacologico e l’utilizzo delle contenzioni fisiche in assenza di situazioni di pericolo per il paziente o per terzi che le richiedano ma per rispondere a esigenze puramente organizzative. È bene ricordare che l’utilizzo di dispositivi di contenzione è legittimo solo qualora vi sia una situazione di pericolo attuale altrimenti si incorre a ipotesi di reato per violenza privata, maltrattamento e abuso dei mezzi di correzione (Codice Penale, artt. 610, 571, 572).

Emerge, dunque, la necessità di interventi volti a prevenire la comparsa del burnout nel personale sanitario e di percorsi di formazione sugli aspetti relazionali.

Maltrattamento finanziario

La “Carta Europea dei Diritti e delle Responsabilità delle persone anziane bisognose di cura e assistenza a lungo termine” (2010) afferma nell’articolo 1 il diritto dell’anziano alla dignità, al benessere fisico e mentale, alla libertà e sicurezza e, in particolare, a “essere protetto da ogni forma di abuso finanziario e materiale”.

Alain Koskas, geropsicologo e Presidente della Federazione Internazionale delle Associazioni delle Persone Anziane (FIAPA), è recentemente intervenuto al Convegno Nazionale di Psicologia dell’Invecchiamento tenutosi il 29 Maggio, con una lectio magistralis sull’argomento.

Koskas afferma che “le truffe finanziarie costituiscono ormai il 25% del totale dei maltrattamenti verso gli over 65, percentuale che ormai eguaglia quella relativa alle violenze psichiche e fisiche. Le persone più fragili sono donne (75%), generalmente anziane (in media 79 anni), incapaci di difendersi” (2021).

Risulta, quindi, necessario affrontare il fenomeno a livello europeo, attraverso attività di informazione e formazione sulla problematica in questione rivolte ad avvocati, forze dell’ordine, personale sanitario e soprattutto a caregiver e anziani stessi, al fine di prepararli e renderli consapevoli. A tal proposito, in Italia l’Associazione Nazionale Anziani e Pensionati (ANAP), in collaborazione con le forze dell’ordine, organizza annualmente la campagna informativa “Più Sicuri Insieme” contro le truffe rivolte agli anziani.

 

La Depressione e la Psicoterapia Funzionale

Nell’articolo analizzeremo il disturbo della Depressione in tutti i suoi aspetti psichici e corporei, andando ai Funzionamenti alterati che ne sono alla base.

Una nota generale

La Depressione è una delle patologie più diffuse nelle nostre società ipertecnologiche, e ne scopriremo a breve il perché.

Depressione, l’allarme dell’Oms: “In 10 anni aumentata quasi del 20%”. Ne soffrono 322 milioni di persone. Nessun paese escluso. “Parliamo di depressione”: è questo il titolo della nuova campagna lanciata dall’Oms.

Nel 2021 anche la giornata mondiale della Salute, il 7 aprile, è stata dedicata a questa patologia.

Negli USA

Secondo l’APA, in statistiche recenti si rileva che negli USA ben il 17% della popolazione soffre di Depressione maggiore, e il 50-70% di chi ha un primo attacco può averne altri. E l’età media di chi ne viene colpito si sta notevolmente abbassando.

Nei soli cinque anni tra il 2010 e il 2015, il numero di adolescenti negli Usa che si sentivano inutili e infelici, sintomi classici da depressione, rilevato dai maggiori sondaggi a livello nazionale è aumentato del 33%. I tentati suicidi tra gli adolescenti sono cresciuti del 23%. Ancora più preoccupante, la percentuale di popolazione tra i 13 e i 18 anni che si è suicidata è balzata al 31%.

Jean Twenge, docente di Psicologia alla San Diego University, dopo aver indagato molte tra le maggiori ricerche sull’adolescenza, ritiene che le cause possano essere riconducibili a un grande cambiamento nelle vite degli adolescenti: la diffusione improvvisa degli smartphone. E ha scoperto che anche il tempo trascorso online era collegato a problemi di salute mentale.

Una visione Funzionale

Indubbiamente scoperte di questo tipo hanno una notevole importanza nel ricercare le cause di questo aumento della patologia depressiva. Ma noi sappiamo che ci sono altre condizioni che incidono. Innanzitutto, una società sempre più frenetica, che richiede un controllo molto elevato sin da piccoli, nella quale è necessario uno sforzo molto intenso per poter trovare un posto (il più possibile adeguato) nella società e nel lavoro. La società attuale spinge già da piccoli a guardare solo e sempre fuori di sé finendo per rendere difficile percepire le sensazioni che arrivano dal di dentro, dal proprio corpo, che sono indispensabili, una guida necessaria, per una vita sana e portata nelle giuste direzioni: più diminuiscono le sensazioni corporee reali più aumentano le fantasie e le preoccupazioni che, tra l’altro, molto spesso, non corrispondono alla situazione reale.

Chi scrive si è occupato a lungo di infanzia e adolescenza, analizzando in particolare quali sono su di loro gli effetti dovuti alle condizioni della società attuale, una società che vede una prevalenza del visuale, con un uso enormemente aumentato di cellulare, computer, videogiochi, e una diminuzione di attività di movimento ampio e intenso, di giochi creativi, di calma e tranquillità. Nei nostri giovani ritroviamo così problemi di irrequietezza, i movimenti prevalenti sono piccoli e veloci nell’agire sugli strumenti elettronici. Si genera anche una visione più ristretta e puntuale perché lo sguardo è catturato dal piccolo schermo. Osserviamo, come conseguenza, una diminuzione della calma e di una attenzione che sia morbida e non ossessiva, una difficoltà nel poter restare tranquillamente e a lungo in un’attività, in un gioco senza distrarsi o passare ad altro.

Nella figura seguente è possibile notare le alterazioni sul funzionamento del Sé (rappresentato come cerchio grande interno) dovute alle condizioni che sono al contorno della vita dei bambini e dei ragazzi (rappresentate dai cerchi piccoli all’esterno). Questa rappresentazione è caratteristica della psicologia Funzionale (Neo-Funzionalismo) che permette di vedere il Sé in tutte le sue componenti psico-corporee (cognitive, emotive, ma anche sensoriali, motorie e fisiologiche) rappresentate dai cerchi piccoli all’interno (Fig. 1)

Depressione meccanismi alla base e psicoterapia funzionale Fig 1
Fig. 1 Effetti delle condizioni al contorno del Sé dei giovani

Chiariamo subito che la soluzione non è certo nel tornare al passato colpevolizzando le innovazioni tecnologiche; non avrebbe senso, anche perché l’enorme avanzamento del digitale è insostituibile nella vita di oggi. Piuttosto, se comprendiamo quali sono gli scompensi che questo avanzamento produce nel Sé, è possibile pensare ad attività che possono riequilibrarlo in tutte le sue componenti. Ad esempio, dedicare tempo a movimenti ampi che portano il giovane a sentirsi sazio e soddisfatto, allargare la visione a 360° guardando tutto un mondo che è di fuori, far praticare metodi che recuperano la calma e che riaprono sensazioni interne corporee che altrimenti rimarrebbero intrappolate.

L’integrazione mente-corpo e le patologie

Da quanto detto finora già si intravede l’importanza di una concezione (più avanzata e attuale) che guarda alla unitarietà corpo-mente senza più scissioni e separazioni, e senza più configurazioni “piramidali” che vedono una mente che controlla tutto dall’alto.

L’integrazione mente-corpo è ormai ampiamente accettata dalla scienza, e numerosi sono gli studiosi che l’hanno sostenuta e dimostrata, in un cammino lungo e interessante. Le neuroscienze, in particolare, hanno dato notevoli e significativi contributi, fornendo continue verifiche alla teoria della psicologia Funzionale alla quale ho lavorato già a partire dagli anni ’80.

Alla base della teoria di Daniel Siegel vi è il concetto di integrazione, integrazione della coscienza e delle diverse parti del Sé. Questo senso di sé è radicato nel cervello così come nelle sue interazioni con l’ambiente e in relazione al funzionamento altrui; ecco perché l’autore parla di una mente che non esiste solo in se stessa ma in relazione agli altri.

Daniel Goleman introduce, come evoluzione delle precedenti teorie, l’idea di Intelligenza emotiva, una intelligenza che non è solo cognitiva, ma che è connessa all’ambiente emotivo e sociale nel quale si cresce e si viene educati. Tutti dovremmo essere capaci di creare un contesto valido e significativo in termini di intelligenza emotiva, che è, in definitiva, la via d’accesso a un successo personale fatto di armonia, gratificazione e realizzazione.

Per Edgar Morin non esiste un solo piano Funzionale al vertice di tutto, ma “macroconcetti” «in cui le interrelazioni fra i termini sono circolari» (Morin, 1982, p. 139), proprio come afferma la teoria Funzionale del Sé. La sfida alla complessità è indispensabile in una scienza moderna, dove deve prevalere una visione finalmente olistica rispetto ai precedenti riduzionismi. Possiamo dire con Morin che «il paradigma della complessità aiuta a concepire l’unità/molteplicità di ogni entità invece di eterogeneizzarla in categorie separate o di omogeneizzarla in una totalità indistinta» (Morin, 1985, p. 202).

Il Neo-Funzionalismo, scoprendo le Funzioni del Sé, ognuna delle quali non è una parte ma l’organismo intero, permette di arrivare ad un olismo concreto e non generico, nel quale è possibile guardare all’interezza ma anche scendere profondamente nei dettagli. E questo Sé – in linea di quanto sostiene Morin – è un’organizzazione di Funzioni, caratteristica di un organismo vivente.

Damasio è uno dei neuroscenziati che maggiormente sostiene il concetto di integrazione mente-corpo. Per Damasio, i processi fisiologici e corporei sono pienamente presenti nell’organizzazione del Sé e della coscienza.

Rizzolatti, infine, con la sua teoria dei neuroni bimodali (dell’area premotoria) ci ha dimostrato che i movimenti non sono l’attuazione di un comando cognitivo che è al di sopra, ma sono vere e proprie “azioni” con una specifica intenzionalità. Il movimento è una vera e propria conoscenza, una conoscenza implicita che non passa per le zone corticali del cervello.

In Italia

Secondo i dati ISTAT, la depressione è il disturbo mentale più diffuso nel nostro paese: si stima che in Italia superino i 2,8 milioni coloro che ne hanno sofferto nel corso del 2015.

Anche per l’ANSACOM, nel 2019 in Italia 3 milioni di persone soffrono di depressione, di cui oltre 2 milioni sono donne. Una malattia spesso non trattata adeguatamente: un milione, infatti, ce l’ha in forma maggiore (grave). Il cosiddetto male di vivere è una malattia in aumento, come dimostrano i dati presentati. Tra il 2005 e 2015 infatti il numero di casi è cresciuto del 20%. E inoltre, nei pazienti con disturbi dell’umore, uno su tre arriva a cercare di togliersi la vita almeno una volta.

L’età più colpita è tra i 30 e i 50 anni. E più colpite sono le donne, specie le casalinghe che non hanno altre occupazioni se non i figli. Ma poi i figli crescono, e queste donne si ritrovano senza una funzione sociale e lavorativa significativa. Risentono, inoltre, del calo di attrattiva sui maschi: con un ulteriore caduta di consistenza e di autostima, in una condizione stereotipata, rassegnata e passiva.

La Psicoterapia Funzionale

Nell’articolo analizzeremo il disturbo della Depressione in tutti i suoi aspetti psichici e corporei, andando ai Funzionamenti alterati che ne sono alla base.

Ed è proprio per tale motivo che la Psicoterapia Funzionale permette di affrontare la Depressione fin nelle sue radici, raggiungendo perciò una percentuale di successi veramente molto elevata.

La Depressione

La Depressione è un disturbo che presenta una evidente alterazione dell’umore. Può essere di tipo unipolare quando l’umore si mantiene costantemente basso, ma vi è una tipologia definita bipolare quando ci sono sbalzi continui e molto forti.

I sintomi evidenziati nel DSM-5 sono:

  • umore: triste, indifferente, senza sensazioni
  • pensiero: apatia, inibizione, scarsa attenzione, idee di morte o rovina, senso di colpa, svalutazione
  • comportamento: rallentamento, pianto, isolamento sociale
  • sintomi fisici: disturbi del sonno, astenia, vertigini, ipotensione, stipsi, colite, inappetenza, freddo, dolori diffusi, palpitazioni

a) Si parla di Depressione Maggiore se ci sono almeno 5 dei seguenti sintomi presenti per 2 settimane (non dovuti a sostanze o altre patologie o lutto):

  • umore depresso,
  • marcata perdita di interesse o piacere,
  • perdita o aumento di peso (o appetito),
  • insonnia centrale o iniziale,
  • rallentamento o agitazione motoria,
  • stanchezza continua,
  • sensi di colpa o svalutazione eccessivi,
  • diminuita capacità di riflettere e concentrarsi,
  • pensieri ricorrenti di morte.

Tutto ciò deve verificarsi quasi ogni giorno o per gran parte del giorno.

b) Si parla di Depressione Reattiva quando è legata strettamente a un avvenimento doloroso, ma con reazione sproporzionata.

c) Si parla di Depressione Bipolare quando c’è alternanza di euforia e depressione di grande intensità.

d) Invece la Depressione Organica è causata da farmaci o patologie organiche (diabete, tiroide, malattie infettive…).

Esperienze di Base nella Depressione

Se vogliamo affrontare la Depressione con la metodologia della psicoterapia, e in particolare la psicoterapia Funzionale (Neo-Funzionalismo), è necessario comprendere le modalità che caratterizzano questa patologia, le alterazioni dei funzionamenti psicofisici dei soggetti che ne sono affetti. Solo dopo la comprensione profonda della base su cui la Depressione si fonda, sarà possibile progettare un intervento terapeutico particolarmente efficace.

Andiamo a guardare, dunque, le Esperienze di Base, vale a dire le modalità fondamentali con cui il Sé si muove nel mondo, nella vita, sin dai primissimi momenti di esistenza.

Le Esperienze di Base collegate maggiormente alla Depressione sono le seguenti.

Contatto, vicinanza. È fondamentale sin dalle prime fasi di vita. Il Contatto dà tranquillità, fa sentire al neonato il calore della vicinanza, gli fa sentire che l’altro è là, con lui, quasi in una fusione, in una condizione di calma e tranquillità.

Se manca un sufficiente Contatto il neonato comincia a sentire che non c’è piena attenzione a lui, e finisce per sentirsi isolato. Inizia così, già a quell’età, a scivolare in una certa rassegnazione con una altrettanta relativa immobilità. Ancora una volta si conferma che la Depressione è sostanzialmente, al fondo, una carenza di azione, di attivazione.

Essere Tenuti, Contenuti. Essere Protetti. Essere avvolti dal genitore, essere tenuti dalla persona che lo ama, permette al bambino di riprendere energie, di ricaricarsi, per poi poter riacquistare pienamente l’agire, il muoversi. E l’agire è il contrario del chiudersi e dell’immobilizzarsi. Anche essere protetti dalle paure rappresenta una barriera precoce dal rischio dell’irrigidirsi e dell’immobilizzarsi. La protezione rassicura e dà possibilità di andare nel mondo con slancio e coraggio, allontanando il pericolo di cadere nella Depressione. La Depressione – a ulteriore verifica di quanto stiamo asserendo – si accompagna molto spesso alle paure.

Essere nutriti, ricevere, assorbire. II nutrimento, sia quello strettamente alimentare (sempre che non ci sia un disturbo dell’alimentazione) sia quello che riguarda l’animo umano e il mondo della conoscenza, dà energia alla persona. E possiamo dire con profonda certezza che energia e vitalità sbarrano la strada alla Depressione.

Inoltre, Essere nutriti vuol dire essere riempiti, e da qui un antidoto importante al vuoto che costituisce la Depressione. Essere Nutriti significa infatti, più in generale, sentirsi soddisfatti nei propri bisogni, e dunque riempiti, sazi, e vitali.

Essere Amati. Ovviamente Essere amati è una delle principali fonti di tranquillità, una fondamentale condizione che fa stare bene il bambino. Gli dà la sicurezza di non essere solo, di avere chi si occupa amorevolmente di lui. Lo riempie anche più dell’Essere nutrito.

Chiedere per ricevere. Se il bambino non riceve risposta alla richiesta che esprime, se non ottiene quello di cui ha bisogno, prima o poi, in una ripetuta mancanza di attenzione e di soddisfacimento della richiesta, rinuncia a chiedere ancora. Il bambino può cercare di muovere l’adulto ad agire in suo favore, attraverso vari modi. Il più comune, quando c’è il bisogno che non si può procrastinare è il pianto, ma ci possono essere anche altri modi come gesti con le braccine, espressioni del viso, sorrisi.

Troppo spesso si dice che un neonato, dopo aver richiamato senza risposta l’adulto a lungo (quando, per esempio, non vuole rimanere solo nella culla o vuole essere preso in braccio) alla fine smette di piangere perché finisce di fare il capriccio. Ma non è assolutamente vero che si calmi: al contrario, esaurisce la spinta a chiedere, si deve arrendere e si deprime. È questa una delle radici più profonde e gravi della Depressione.

Realizzazione soddisfazione. L’Insoddisfazione nella vita attuale, a lungo andare, ferma ogni slancio, ogni voglia di agire e realizzare i propri obiettivi e i propri sogni. Delusioni delle proprie aspettative, frustrazioni, creano un senso profondo di scontentezza.

Nella vita non si dovrebbe mai smettere di desiderare, di puntare a nuovi traguardi. Il fermarsi è l’immobilità, è la tristezza legata a un senso di inutilità. Gli esseri umani hanno bisogno di Realizzarsi ad ogni età (compatibilmente con l’età); hanno il bisogno di “espandersi”, di crescere di importanza, di far aumentare la propria influenza sul sociale anche in età avanzata.

Rinunciare vuol dire perdere la scintilla vitale. La scontentezza che ne deriva arresta lo slancio alla vita, fa ripiegare su se stessi. La Depressione è esattamente questo.

Molte persone, quando vanno in pensione dal proprio lavoro, senza altri interessi e attività da svolgere, cadono nella Depressione.

Progettare per concretizzare sogni. I giochi che si fanno da bambini quasi sempre preparano a un ruolo, un lavoro, un’attività da svolgere da adulti. Da quel momento, ciascuno deve percorrere la propria strada per mettere in atto le proprie capacità: nel lavoro, nelle relazioni, nella vita affettiva. Se i sogni, le proprie capacità, i propri progetti, vengono disattesi, lentamente, anche dopo molto tempo ma inesorabilmente, nell’animo umano si insinua il senso di fallimento, la sensazione del vuoto: un essere risucchiati dal male della Depressione.

Prendere sedurre portarsi l’altro. Cambiare l’altro, muovere, trasformare. Ogni volta che la persona non agisce, non modifica la situazione, non cambia e non trasforma (anche solo in parte) ciò che non va bene intorno a lui, si innesca sempre più un meccanismo di involuzione verso la piattezza, l’aridità, la scontentezza. L’organismo intero reagisce con una condizione alterata di funzionamento, che contribuisce alla sindrome della depressione. Depressione è fondamentalmente una rinuncia all’agire, rinunciare ad azioni che si vorrebbero o si dovrebbero svolgere.

Gioia, slancio, guizzi. Vitalità, energia, passione. Giocare, umorismo. Quando queste Esperienze di Base sono carenti, il germe della Depressione mette radici. Gli esseri umani hanno bisogno di questi funzionamenti, hanno bisogno di Giocare, di essere Gioiosi e Vitali. E non solo quando si è bambini; anzi, molto proprio quando si è adulti e appesantiti da responsabilità e fatiche. La vita senza Gioia, Gioco e Vitalità diventa piatta, si rattrappisce.

Senza slanci, movimenti veloci e guizzanti, si produce uno squilibrio emotivo, ma anche neuroendocrino. In particolare, un impoverimento dei neurotrasmettitori legati alla gioia e alla contentezza (in particolare dopamina e serotonina).

Piacere, eccitazione, godersi le cose. Depressione è quando mancano i piccoli gesti quotidiani che danno piacere, che gratificano. La mancanza delle sensazioni piacevoli, ma anche di momenti intensi di eccitazione, non possono che essere forieri di Depressione.

Neurotrasmettitori e Ormoni

Il funzionamento dell’essere umano è costituito da un insieme strettamente integrato di mente e corpo, anzi – come sostengo da sempre – di Funzioni psico-corporee. Tutte le Esperienze di Base che sono state descritte precedentemente non sono costituite solo da pensieri ed emozioni ma anche, in maniera inestricabile, da elementi fisiologici (come il respiro, e le modalità di funzionamento degli organi interni), da condizioni del sistema neurovegetativo, da movimenti e posture, dalle sensazioni percettive; ma anche (e in modo molto significativo) dalla maggiore o minore presenza di neurotrasmettitori e ormoni.

Nella farmacologia psichiatrica vengono adoperate sostanze che modificano il funzionamento di alcuni neurotrasmettitori. Dal punto di vista del Neo-Funzionalismo l’agire dall’esterno immettendo sostanze che intervengono sul livello endocrino può essere certamente utile, ma non è sufficiente, perché ad ammalarsi è la persona intera su tutti i livelli del Sé, mente-corpo. Inoltre, è l’organismo stesso che dovrebbe essere in grado di produrre le sostanze indispensabili al suo benessere.

Esaminiamo di seguito le sostanze coinvolte nella sindrome della Depressione:

GABA

L’Acido Gamma Amino Butirrico è noto per avere un effetto utile per la calma e la tranquillità, in quanto nutre e alimenta la guaina che circonda il neurone. Lo rende dunque più refrattario agli stimoli eccitatori e inibisce una trasmissione nervosa troppo intensa, diminuendo di conseguenza una eccessiva agitazione, l’eccessivo attivarsi, compresi i pensieri negativi e parassiti tipici della Depressione.

Dopamina

È sintetizzata a partire dall’aminoacido triptofano, precursore anche della serotonina, che – come vedremo – è uno dei principali neurotrasmettitori implicati nella patologia Depressiva.

Il triptofano deve essere assunto dall’esterno, da alimenti quali cioccolato, avena, banane, datteri, latte e latticini.

La Dopamina è l’elemento centrale implicato in tanti processi vitali:

  • Processi emozionali del piacere e della ricompensa
  • Gratificazioni conseguenti al mangiare, al bere, al riprodursi, al successo nella lotta e nella competizione
  • Euforia connessa allo scampato pericolo.

E proprio per questo che è il neurotrasmettitore centrale nella fisiologia del rinforzo psicologico: quando si provano gli effetti positivi della dopamina si è spinti a voler ritrovare tali effetti, e si ricercano nuovamente quelle esperienze e quelle situazioni che li hanno generati.

Serotonina

La Serotonina è un neurotrasmettitore molto importante nel meccanismo della Depressione.

È implicata in molti processi centrali per la vita delle persone:

  • Regolazione di sonno, umore, appetito, sessualità
  • Regolazione del nostro orologio interno
  • Regolazione della temperatura corporea
  • Contrazione della muscolatura liscia dei vasi dell’intestino, dei bronchi, dell’utero, della vescica
  • Regolazione intestinale
  • Neutralizzare l’azione del cortisolo, che riduce la capacità dell’organismo di produrre il testosterone
  • Modificazione e regolazione della pressione arteriosa.

Testosterone

È l’ormone maschile per eccellenza; è presente anche nella donna ma come prodotto intermedio nella sintesi degli estrogeni.

Rientra in quegli ormoni che sono legati a una condizione di stress momentaneo, aiutando l’organismo a superare gli ostacoli, ad esprimere la propria forza. In particolare, nel maschio aiuta a prepararsi alla “conquista” della partner.

CATECOLAMINE

Adrenalina (caratterizzante l’ansia e la paura)

È il mediatore principale della trasmissione nervosa del sistema simpatico. Mette in atto le modificazioni dell’organismo che permettono di affrontare con efficacia ed energia uno stressor, uno stimolo da superare con efficacia e rapidità. Vengono messe in atto tutte le proprie energie e capacità.

Se, a causa di uno stress cronico e negativo, non è pienamente presente, si comprende bene come non possa facilitare l’agire e contrastare, così, la carenza di azione tipica della Depressione.

Noradrenalina

Quando è carente caratterizza problemi di umore, in specie relativamente alla rabbia ed ostilità.

Soprassiede alle seguenti funzioni vitali:

  • Controllo dell’attenzione e delle reazioni
  • Rilasciare energia sotto forma di glucosio dal glicogeno, e aumentare il tono muscolare
  • La noradrenalina “setta” i livelli di energia del nostro corpo. Senza noradrenalina nel cervello, ci si sentirà sempre stanchi (Fig. 2)

Depressione meccanismi alla base e psicoterapia funzionale Fig 2

Fig. 2 Diagramma Funzionale della Depressione

Ogni persona è caratterizzata da un insieme specifico e caratteristico di Funzioni psico-corporee che compongono il Sé (più o meno sane, più o meno alterate), che è possibile raffigurare in un Diagramma. Le Funzioni sono rappresentate da cerchi: spessi se sono alterate, sottili se sono mobili e funzionanti, grandi se occupano molto spazio nella vita delle persone. Ma nonostante ogni persona sia caratterizzata da un Diagramma specifico, si può pensare a una configurazione delle Funzioni che è comune a varie persone, che è dunque “di base” in questa patologia.

Dalla figura 2 possiamo notare un razionale che rimane “imprigionato” dalle fantasie negative che prendono molto spazio.

I ricordi tendono ad essere tutti negativi. Il tempo è collassato come se non ci fosse più futuro, e anche la progettualità si rattrappisce.

I depressi soffrono molto di tristezza perché non percepiscono, se non in minima parte, le realtà positive della propria vita, e tendono a lamentarsi delle cose che non vanno.

Gioia e vitalità sono molto ridotte, se non inesistenti, ma è presente la paura.

In compenso c’è ancora una discreta tenerezza, che però si perde tra tanti aspetti negativi.

Le posture tendono a essere rigide e immobili e i movimenti sono rallentati. Tutto è un po’ come congelato, anche l’espressione del viso.

La forza si è dovuta arroccare in una modalità fondamentalmente di resistenza adatta a “sopportare”.

Le sensazioni malauguratamente sono rarefatte e il respiro mantiene una condizione di vita al lumicino.

La voce è chiusa, il tono muscolare contratto, e le soglie del dolore si sono abbassate rendendo la persona più vulnerabile (Fig. 3)

Depressione meccanismi alla base e psicoterapia funzionale Fig 3Fig. 3 I Sistemi Integrati

Sistemi Integrati e psicoterapia

Tutte le concezioni e le analisi sin qui esposte sui Funzionamenti di fondo (o Esperienze di Base in età evolutiva) e sulle Funzioni psicocorporee che costituiscono il Sé, ci consentono di avere un quadro veramente completo e complessivo della condizione delle persone depresse. Infatti, la visione Funzionale ci pone in grado di conoscere in modo molto accurato le modalità con cui sono interconnessi i vari Sistemi fondamentali dell’essere umano, come si evidenzia dalla figura 3.

Grazie a questo quadro complesso e dettagliato è possibile progettare un intervento terapeutico nei confronti di questa patologia che non sia limitato ai soli aspetti comportamentali, cognitivi, emotivi, ma che sia rivolto (in modo il più possibile sinergico) sui molteplici livelli psico-corporei, in modo tale da affrontare la malattia su tutti gli aspetti alterati che la caratterizzano, con una maggiore efficacia, profondità e durata nel tempo dei miglioramenti.

La psicoterapia Funzionale agisce sul complesso di tutti i funzionamenti, in una modalità olistica e dettagliata allo stesso momento: si tratta di agire non sui livelli esterni e superficiali, ma alla radice della malattia, sul profondo, sulle alterazioni delle Esperienze di Base che l’hanno generata e la continuano ad alimentare.

Viene innanzitutto compilato un quadro diagnostico che va al di sotto di sintomi e comportamenti, calibrato sui funzionamenti alterati e carenti della persona specifica. E viene poi messo in atto un processo terapeutico specifico che mira a recuperare la persona nella sua interezza, riaprendo esattamente le Esperienze di Base che sono emerse dalla fase iniziale di diagnosi, attraverso metodologie e tecniche che agiscono sulle varie Funzioni psico-corporee del Sé.

Conclusioni

Tutto questo ci permette di essere ottimisti e di avere una visione positiva per il futuro, perché abbiamo rafforzato e raffinato metodologie di diagnosi ed intervento più complessive e approfondite, che tra l’altro aprono anche alle possibilità di una prevenzione reale ed efficace.

La frontiera del futuro non sarà curare solo con i farmaci, con elementi chimici immessi dall’esterno, ma utilizzare le cure mediche in un agire sul sistema-uomo in tutta la sua interezza e complessità, modificandone i Funzionamenti di fondo alterati (le Esperienze di Base) attraverso tutte le Funzioni che costituiscono il Sé.

 

Neuroscienze per i clinici (2021) di Louis Cozolino – Recensione del libro

Lo scopo del libro Neuroscienze per i clinici di Cozolino è ampliare e approfondire la prospettiva dei clinici attraverso la comprensione delle neuroscienze, dello sviluppo del cervello, dell’epigenetica e del ruolo dell’attaccamento nello sviluppo encefalico.

 

 Ogni paziente presenta problemi, stili cognitivi ed emotivi e difese modellati attraverso l’interazione di genetica, temperamento ed esperienze personali.

Conoscere quale ruolo svolge l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il sistema nervoso autonomo, (suddiviso in due branche, denominate sistema nervoso simpatico e parasimpatico) con il terzo sistema, denominato sistema vagale; o come si è evoluto il sistema nervoso, suddiviso in sistema nervoso centrale e sistema nervoso periferico; e perché alcune parti, ad esempio l’amigdala, sono rimaste sostanzialmente inalterate durante l’evoluzione; conoscere queste e tante altre informazioni sul cervello e la mente che si sono cumulate negli ultimi anni può essere molto utile, sostiene l’autore, come collante concettuale per organizzare l’intervento terapeutico e scegliere le tattiche e le tecniche in un insieme coerente e mirato a ottenere un cambiamento adattivo e funzionale del paziente.

La prima parte del volume riguarda il cervello, la mente, il sé e parte dalla comparsa del cervello sociale.

Più siamo arrivati a capire come funziona il nostro cervello, più ci siamo resi conto che sue porzioni significative sono dedicate a connetterci con gli altri.

Nei vari capitoli di questa parte del libro sono illustrati i processi biochimici e neuroanatomici correlati alle esperienze di attaccamento. La tesi principale, sostenuta da evidenti dati di ricerca, è che le esperienze sociali si traducono, nel bene e nel male, nella struttura neurobiologica del cervello e tendono a stabilizzarsi nel tempo. Il modo in cui siamo stati trattati dagli altri influisce sulla trasmissione sinaptica e influenza l’ambiente interno dei neuroni e i processi epigenetici che costruiscono il nostro cervello.

Ne deriva, pertanto, che una relazione terapeutica positiva può modulare l’arousal, attivare la biochimica del legame, migliorare i processi neuroplastici e sostenere l’integrazione delle reti neurali.

I neuroni che non sono in grado di connettersi e di sviluppare una relazione funzionale con altri neuroni muoiono. Quelli sopravvissuti lavorano insieme per creare le reti neurali funzionali da cui dipendiamo per ogni cosa.

Non sappiamo in che modo il nostro cervello formi la coscienza, la migliore ipotesi è che l’esperienza cosciente emerga attraverso una combinazione di funzioni come la memoria di lavoro, i comportamenti appresi, le interazioni sociali, il linguaggio e la cultura.

Per lo psicologo newyorkese i processi epigenetici convertono le nostre interazioni nella neuroanatomia e nella neurochimica del cervello.

Possediamo tre reti esecutive, ognuna con la propria storia evolutiva, il proprio percorso evolutivo e le proprie specializzazioni funzionali. Il funzionamento esecutivo ottimale richiede l’integrazione e l’equilibrio tra i tre sistemi esecutivi.

 Nel sesto capitolo Cozolino presenta idee che ampliano l’encomiabile modello biopsicosociale per includere le prospettive di sviluppo e l’esperienza esistenziale di sé. Per l’autore i processi psicologici, il senso di sé e l’identità emergono e dipendono dalla qualità dello sviluppo neurale e sociale e dall’integrazione delle reti neurali e delle relazioni sociali che lo precedono. L’integrazione neurale e quella sociale sono processi paralleli e interconnessi che si basano l’uno sull’altro per il loro reciproco sviluppo.

In linea con le attuali conoscenze neuroscientifiche, l’esperienza del sé è una costruzione della mente in interazione con i nostri processi somatici, i sensi e il mondo fisico e sociale.

Nella seconda parte del volume sono illustrate le modalità di applicazione delle neuroscienze alla pratica clinica.

Riportiamo alcuni principi, tra gli altri, che l’autore ritiene fondamentali.

Innanzitutto tutte le forme di psicoterapia, per avere successo, si basano sulla stimolazione della neuroplasticità e un principio fondamentale della psicoterapia è che la libertà di compiere delle scelte dipende dalla consapevolezza dei condizionamenti presenti nella nostra programmazione implicita.

Nei clienti, il livello di base dell’arousal e la capacità di modulare le emozioni costituiscono una finestra sul loro patrimonio genetico e sulle loro prime esperienze evolutive, e sono essenziali per ottenere una connessione ottimale, la sintonizzazione, la plasticità neurale e il cambiamento positivo.

In tutte le forme di psicoterapia è, quindi, fondamentale valutare e comprendere il livello di arousal dei clienti e la loro capacità di modularla.

La capacità di raggiungere e conservare un moderato livello di arousal è necessaria per la neuroplasticità, l’apprendimento e il cambiamento terapeutico positivo.

Inoltre, la capacità di creare, visitare e rivisitare un mondo interiore sicuro e tranquillo può essere fonte di regolazione, identità, immaginazione, capacità di risolvere i problemi e creatività. La psicoterapia è lavoro di memoria: ricordare, disimparare e riapprendere. Esploriamo ciò che è venuto prima, come viene ricordato nel cuore, nella mente e nel corpo, e come questi sentimenti, pensieri e comportamenti influiscono sulla nostra vita quotidiana.

Sintetizzare la ricchezza di spunti interessanti contenuti nel libro è impresa impossibile. La lettura risulta affascinante perché l’autore rende semplici e comprensibili concetti molto complessi. Un testo che si legge tutto d’un fiato e che assolutamente non bisogna perdersi.

 

Effetto dream-lag: gli eventi di vita riemergono nei sogni?

È stato riscontrato che l’incorporazione dei dettagli degli eventi vissuti durante la veglia, nei sogni, è più alto nelle 2 notti successive all’evento e dopo 5-7 notti. Le incorporazioni più tardive, costituiscono il cosiddetto effetto dream-lag

 

È stato riscontrato che l’incorporazione dei dettagli degli eventi vissuti durante la veglia, nei sogni, è più alto nelle 2 notti successive all’evento e dopo 5-7 notti (Blagrove, Henley-Einion, et al., 2011; T. A. Nielsen & Powell, 1989; Tore A. Nielsen et al., 2004).

Le incorporazioni più tardive, costituiscono il cosiddetto effetto dream-lag, ovvero l’insinuarsi delle esperienze di vita quotidiana nei sogni tra le 5 e le 7 notti dopo l’episodio, al fine di una migliore integrazione dei propri vissuti.

Effetto dream-lag e ricordi emotivi

Tale effetto è stato rilevato sia in studi basati su eventi quotidiani dei partecipanti, in contesti naturalistici (Blagrove, Fouquet, et al., 2011; Tore A. Nielsen et al., 2004), che in situazioni ricreate ad hoc con stimoli standardizzati, come la visione di una videocassetta emotivamente attivante (Powell et al., 1995).

L’effetto dream-lag emerge specificatamente nei sogni che si verificano durante la fase di sonno REM, fondamentale per l’elaborazione dei ricordi emotivi.

In queste circostanze, avviene un processo di circa 7 giorni di consolidamento della memoria (Blagrove, Fouquet, et al., 2011), che riflette un trasferimento graduale di nuove rappresentazioni dall’ippocampo e la loro integrazione nella neocorteccia (Nielsen & Stenstrom, 2005).

Inoltre, questo processo dipendente dal sonno (Stickgold & Walker, 2013), avviene in modo differente in base all’importanza dei ricordi, del coinvolgimento emotivo individuale e della rilevanza per il futuro.

Secondo la letteratura, le esperienze di vita che contribuiscono all’effetto dream-lag durante il sonno REM sono principalmente gli eventi personalmente significativi e non le attività quotidiane o le preoccupazioni individuali (van Rijn et al., 2015).

Effetto dream-lag ed eventi significativi: lo studio

Per verificare il grado di incorporazione degli eventi di vita nei sogni, diversi studi hanno utilizzato un diario giornaliero, nel quale i partecipanti segnalavano la corrispondenza tra episodi quotidiani e contenuti emergenti nei sogni. Tra gli studi più recenti, Eichenlaub e colleghi (2019) hanno testato se l’effetto dream-lag si verificasse per eventi percepiti come personalmente significativi, ed in particolare solo nei partecipanti che riportavano un numero basso di incorporazioni (o inferiore alla mediana del gruppo di appartenenza).

I 38 partecipanti selezionati, dovevano riferire di ricordare abitualmente i sogni, dormire almeno 7 ore a notte e non assumere droghe o eccessivo alcol. I soggetti hanno compilato per 14 giorni consecutivi un diario, registrando dettagliatamente sia i sogni che gli eventi quotidiani e l’emozione associata ad entrambi, valutandone l’intensità. Inoltre, è stata fornita loro una psicoeducazione accurata, per identificare al meglio la corrispondenza tra sogni ed eventi di vita quotidiana.

Questi ultimi, sono stati riportati in tre categorie rilevanti. Mentre le principali attività quotidiane occupavano la maggior parte del tempo, (come andare al lavoro o all’università, mangiare e fare la spesa), gli eventi personalmente significativi rimandavano a situazioni emotivamente salienti o importanti. Le principali preoccupazioni, includevano pensieri che, pur non occupando gran parte della giornata, avevano comunque una rilevanza tale da essere influenti per i soggetti (come problemi di denaro o stress da esame).

Come ipotizzato, l’effetto dream-lag, è stato riscontrato esclusivamente per le esperienze personalmente significative e solo nel gruppo che esperiva poche incorporazioni giornaliere. In particolare, le incorporazioni ritardate degli eventi di vita nei sogni erano emerse 5-7 giorni dopo l’avvenimento (Blagrove, Henley-Einion, et al., 2011; van Rijn et al., 2015), mentre dopo i 12 giorni, gli eventi riaffioravano in maniera significativamente ridotta.

Probabilmente, le principali attività quotidiane e le principali preoccupazioni, non sono emerse ad effetto ritardato nei sogni poiché, a differenza delle esperienze personalmente significative, queste non sono esattamente localizzabili temporalmente o abbastanza salienti.

Inoltre, sembrerebbe che il riemergere degli eventi durante la fase REM per consentire il consolidamento della memoria, riguardi solamente le esperienze personalmente significative.

Nonostante i resoconti dei sogni siano stati raccolti in ambiente domestico, quindi in assenza di controllo della fase del sonno al risveglio, è possibile ipotizzare che i soggetti si trovassero proprio nella fase di sonno REM mentre esperivano l’effetto dream-lag, poiché questa tende ad emergere nelle ultime ore della notte.

Sebbene i risultati attuali evidenziano l’effetto dream-lag, la ricerca futura dovrà esplorare la variabilità intersoggettiva nella tendenza ad identificare connessioni tra la vita quotidiana e i resoconti dei sogni. Inoltre, è necessario esaminare se il ritardo delle incorporazioni nei sogni rappresenti la riattivazione e il consolidamento effettivo della memoria (Wang & Morris, 2010).

 

La Mantide Penitente

Quanto gli effetti della comunicazione persuasiva possono essere pervasivi nella vita personale di ogni individuo, tanto da condizionarne le scelte più intime e decisive per la propria esistenza?

 

 Da quando nel 1929 Edward Louis Bernays ha pubblicato la sua celebre opera Propaganda, lo studio della comunicazione persuasiva ha subito una sempre maggiore importanza in diversi campi della vita socio-politica ed economica del nostro tempo.

Bernays fu uno dei primi a sviluppare metodi per utilizzare la psicologia del subconscio al fine di orientare l’opinione pubblica. Alle sue intuizioni seguono importanti pubblicazioni sull’argomento tra le quali I Persuasori Occulti del 1957 di Vance Packard; Le Armi della Persuasione del 1984 di Robert Cialdini, proseguendo con l’enorme produzione sperimentale ad opera della Scuola di Palo Alto fino a giungere alle più moderne pubblicazioni a carattere scientifico rese possibili dallo sviluppo delle Neuroscienze.

Il potenziale della comunicazione persuasiva è enorme, lo si evince dagli investimenti sempre crescenti in campo politico, nel marketing e nello sport, per citare solo alcune macro-aree.

L’osservazione di questo fenomeno invita ad una riflessione: quanto gli effetti della comunicazione persuasiva possono essere pervasivi nella vita personale di ogni individuo, tanto da condizionarne le scelte più intime e decisive per la propria esistenza?

Nello studio pubblicato su PNAS, condotto con l’Università della California e la Cornell, si definisce il cosiddetto “contagio emotivo“ nell’era dei social media, ossia quel processo con cui è possibile “indurre le persone a provare emozioni a loro insaputa”, scrivono gli autori (Experimental Evidence of Massive-Scale Emotional Contagion Through Social Networks; Adam D. I. Kramer, Jamie E. Guillory, and Jeffrey T. Hancock; 2014; PNAS).

Lo studio è avvenuto tramite la manipolazione dell’algoritmo del News Feed di Facebook, coinvolgendo i profili di 689 mila persone. Lo studio ha dimostrato che è possibile influenzare l’umore dell’utente in senso positivo o negativo, per esempio è possibile indurre in un gruppo di persone target una emozione di tristezza diffusa.

 Gli effetti delle alterazioni del tono dell’umore in psicologia sono note: le variazione verso il cattivo umore possono interessare e influenzare negativamente molteplici aspetti della vita di un individuo, portando alla comparsa di un senso di malessere generalizzato.

Quando il cattivo umore perdura per diverso tempo, la vita sentimentale, sociale e quella lavorativa possono risentirne, al punto che la persona può sviluppare stati ansiosi o fenomeni depressivi.

Questo esempio (non è l’unico possibile) dimostra come una comunicazione persuasiva che sia stata attivata con un determinato obiettivo possa ripercuotersi (fuori da ogni previsione) su dimensioni intime e private della persona (target del messaggio) condizionandone le scelte e compromettendone il grado di libertà.

Numerosi hanno sollevato dubbi di tipo etico rispetto all’esperimento citato, io sono dell’avviso che tali dubbi andrebbero estesi all’intero sistema di comunicazione persuasiva di cui stiamo trattando.

Dico questo perché tale sistema si basa su una asimmetria di conoscenza nel campo della comunicazione che vede da un lato i «tecnici» del settore e dall’altro il grande pubblico destinatario del messaggio.

Tale asimmetria riduce in modo consistente la capacità critica della persona destinataria, che non dispone degli strumenti tecnici ed esperienziali necessari sia per valutare le reali intenzioni di chi produce il messaggio, sia per codificare correttamente il contenuto.

Viste le precedenti considerazioni, emerge un ennesimo interrogativo: Come ridurre l’impatto pervasivo che la comunicazione persuasiva comporta sul grande pubblico?

A mio avviso occorre puntare su processi formativi che riducano quella asimmetria di conoscenza citata. Pertanto mi chiedo se sia giunto il tempo di aprire una discussione sulla possibilità che la comunicazione (nella sua accezione più completa) diventi materia di studio non integrativa ma fondamentale nei cicli di istruzione primari, al fine di

sviluppare le dimensioni cognitive, emotive, affettive, sociali, corporee, etiche e religiose e di acquisire i saperi irrinunciabili

così come recitano le guida del Ministero dell’Istruzione (Indicazioni nazionali e nuovi scenari. 2018):

l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base nella prospettiva del pieno sviluppo della persona. La scuola primaria mira all’acquisizione degli apprendimenti di base come primo esercizio dei diritti costituzionali. Alle bambine e ai bambini che la frequentano offre l’opportunità di sviluppare le dimensioni cognitive, emotive, affettive, sociali, corporee, etiche e religiose e di acquisire i saperi irrinunciabili. Attraverso le conoscenze e i linguaggi caratteristici di ciascuna disciplina, la scuola primaria pone le premesse per lo sviluppo del pensiero riflessivo e critico necessario per diventare cittadini consapevoli e responsabili.

 

L’epigenetica e il mondo prenatale

L’eredità genetica e quella epigenetica sembrano partorite dalle rispettive esperienze dei caregiver, i quali mostrano durante l’epoca prenatale una gamma di modificazioni chimico-fisiologiche, capaci di incidere sui vari livelli di cura nei confronti di chi si porta in grembo.

 

Il ruolo dell’epigenetica nelle prime fasi di vita

La programmazione del genoma nelle prime epoche di vita rappresenta una chiave di svolta capace di offrire nuove interpretazioni e nondimeno nuove chiavi di lettura, tra queste quella di Barker (Barker, D, J., 1998).

L’autore infatti, sul finire degli anni 90, postula l’esistenza di un processo definito “fetal programming” caratterizzato dalla plasticità del feto nell’interagire e nel reagire a seguito degli stimoli ambientali, capaci – come detto in precedenza – di indurre modifiche più o meno durature.

Procedendo sotto il profilo olistico, che vede in stretto rapporto DNA, feto, figura materna e ambiente circostante in un continuo scambio reciproco di informazioni, si può assistere allo sviluppo della vita già a partire dagli eventi che avvengono all’interno dell’utero.

In questa prima fase infatti tali eventi correlati alla dimensione genetica e cioè geneticamente determinanti, possono essere modulati da condizioni ambientali materne. Tale fase iniziale quindi non solo è caratterizzata da un primo imprinting ma rispecchia altresì il primo stadio dello sviluppo cerebrale.

Viceversa la seconda fase – rispetto alla quale convergono sia quella prenatale che post natale, come sottolineato da Kolb – risulta caratterizzata da un ampio sviluppo delle connessioni sinaptiche sensibili all’esperienza materna esterna.

Inoltre in concomitanza con il programma genetico serve a riepilogare e a confermare quanto l’imprevedibilità delle interazioni con l’ambiente e i fattori stressanti possa essere un fattore predominante (Kolb, B., 2011).

Nondimeno quello che colpisce è riscontrare come i genitori, in base alla propria capacità autoregolatrice ed omeostatica, depositino il loro stesso bagaglio biologico/esperienziale nel genoma della prole, proprio a partire da quello genitoriale/materno. I contenuti delle rispettive esperienze riflettono quindi una responsabilità nel sapersi prendere cura di sé stessi al fine di lasciare una traccia positiva nel genoma di chi si affaccerà al mondo.

In pratica l’eredità genetica e quella epigenetica sembrano partorite dalle rispettive esperienze dei caregiver, i quali mostrano durante l’epoca prenatale una gamma di modificazioni chimico-fisiologiche, capaci di incidere sui vari livelli di cura nei confronti di chi si porta in grembo.

Grazie a questa visione emerge una mappatura delle aree cerebrali interessate e coinvolte che si riflette durante il periodo di gravidanza nella figura materna; ma al contempo un’altra relativa alle modifiche biomolecolari a carico o a discapito del genotipo. Sotto questo aspetto il periodo della gravidanza va percepito come un insieme di fattori in relazione reciproca e al contempo come un’evoluzione sinergica, tra la madre e il futuro bambino, capace di evidenziare la maturità o meno genitoriale.

A sostegno di quanto evidenziato sinora, in relazione alla compresenza di numerosi fattori presenti durante la fase dello sviluppo embrionale, Crews ha posto l’accento sull’azione svolta dagli influssi ambientali che sono determinanti per la salute dell’individuo nel corso e nello sviluppo della sua esistenza (Crews, D., 2014).

Rapporto tra epigenetica, ambiente e stress

Come si è visto sin qui, l’epigenetica sembra rappresentare il tratto di unione tra la dimensione genetica e quella ambientale (Champagne F, A., Curley, J, P., 2009), una sorta di ponte che mette in comunicazione le modificazioni epigenetiche come veri e propri mediatori con i numerosi stimoli ambientali circostanti.

Quanto ci circonda infatti determina cambiamenti entro il nostro organismo dei quali è possibile al contempo evidenziare e riscontrarne i risultati attraverso le modificazioni epigenetiche. Grazie al termine epigenoma si indica l’insieme e l’assetto delle modificazioni epigenetiche che coinvolgono il genoma stesso.

A questo punto è importante sottolineare come l’interazione non si limita esclusivamente a fattori fisici o facilmente visibili, ma si estende oltre quello che non vediamo e che spesso e volentieri sentiamo a livello corporeo.

Le sensazioni da noi provate infatti, spesso, possono essere restrittive e altre volte invece promotrici di grandi cambiamenti.

Nel primo caso tuttavia qualora si raggiungano elevate condizioni psicofisiologiche che frenano la nostra espressività allora lo stress rischia di inficiare la nostra vita e le varie fasi che ci troviamo a vivere (McGowan, P, O., 2009).

Quest’ultimo, infatti, se circoscritto al periodo di gravidanza può rappresentare un forte fattore di rischio, se non comunicato, sentito e condiviso; proprio perché è un fattore potentissimo in grado di produrre profonde modificazioni epigenetiche (Gassen, N, C., 2016).

Entrando in questa ottica, risulta affascinante vedere come il nostro genoma sembra sapersi adattare a qualcosa di “invisibile” e cioè ad elementi non fisici. Questo inoltre mette in luce una strutturazione ben precisa ed organizzata di quei fattori che giocano un ruolo fondamentale e, come accennato prima, nel loro insieme producono meccanismi molecolari coinvolti direttamente negli effetti epigenetici indotti da cure parentali dopo la nascita (Galimberti, D., 2018).

A seguito di quanto descritto è possibile quindi ipotizzare che gli stessi meccanismi molecolari possono indurre modificazioni epigenetiche anche prima della nascita, cioè in fase prenatale, dove il background genetico parentale una volta trasmesso risulta caratterizzato ed arricchito dalle rispettive capacità omeostatiche genitoriali, che sotto il profilo biologico ed ormonale influenzano direttamente il feto (Barker, D., 1995).

I meccanismi di metilazione, di trascrizione e la capacità di creare i siti di legame a livello molecolare sembrano quindi rispecchiare solo un primo livello (Jiang, R., 2014).

Tuttavia se si dispongono sullo stesso piano molti fattori, compreso quello genetico, non vuol dire che quanto trasmesso debba necessariamente seguire una determinata strada, non vuol dire quindi che quanto acquisito per trasmissione non possa subire ulteriori trasformazioni in positivo.

Se la metilazione del DNA è fondamentale, lo è ancor di più a partire dallo sviluppo embrionale. In questa fase prende vita, gradualmente, un organismo con centinaia di tipi cellulari diversi la cui graduale differenziazione dipende dalle modifiche che incidono e si verificano durante l’espressione dei geni riscontrabile durante lo sviluppo.

Se dunque il punto di partenza è dato dalla stessa sequenza genomica, parallelamente – grazie al lavoro e al controllo svolti da sub unità – la differenziazione è promossa attraverso la selezione dei geni che verranno sottoposti o meno a metilazione e a de-metilazione, al fine di promuovere un processo di rimozione e creazione di marker epigenetici o etichette chimiche (Hajkova, P., 2011).

Questa sequenza rispecchia dunque lo sviluppo dello zigote le cui caratteristiche epigenetiche rifletteranno la presenza o la mancanza che porterà ad una differenziazione e ancor di più ad un destino cellulare nelle future generazioni di cellule.

L’identità cellulare sembra quindi dipendere pienamente dalla metilazione del DNA, la cui importanza si riscontra proprio durante l’embriogenesi in cui eventuali mutazioni possono raggiungere elevati livelli di incidenza.

Nelle prime fasi di sviluppo fetale, in definitiva, l’epigenoma non tende a stabilizzarsi, ma al contrario riflette solo il trampolino di lancio.

Le esperienze vissute in età prenatale sono quindi in grado di modificare la struttura della cromatina o il livello di metilazione di un gene, confermando così come un pattern epigenetico possa innescare ulteriori cambiamenti (Li, E., 1992).

Programmazione fetale ed epigenetica transgenerazionale

Una logica (invisibile) interna all’organismo

Con tale termine ci si riferisce alle capacità e anche alle necessità delle cellule embrio-fetali di definire il proprio assetto epigenetico in risposta alle informazioni provenienti dalla madre e, attraverso di essa, dal mondo esterno.

In accordo dunque con il concetto di ontogenesi fetale, risulta che il programma genetico specifico di un individuo è il risultato di 9 mesi di interazione epigenetica tra miliardi di cellule e l’ambiente circostante.

Fattori non trascurabili in questo periodo, pertanto, risultano essere prima di tutto lo stress materno fetale, gli errori nutrizionali trasmissibili attraverso l’allattamento e, come sopra accennato, i fattori ambientali (Heijmans, B, T., 2008).

Quanto detto sinora avvalora ancor di più non solo la presenza o meno di una corrispondenza e una sintonia tra questi numerosi tasselli, ma ancor di più il loro disquilibrio, che in una fase delicata come quella prenatale, può ripercuotersi nel periodo successivo, ossia postnatale.

Pembrey e Byrgen hanno infatti posto l’accento sugli effetti transgenerazionali che le modifiche epigenetiche possono comportare mettendo in risalto il concetto di epigenetica transgenerazionale (Brygen, L, O., 2011).

Il GUT, definito dalla comunità scientifica come cervello addominale, oggi viene inoltre definito secondo cervello, con una propria organizzazione ed un insieme di funzioni dedite ad ottimizzare il nostro rapporto con il nostro mondo interno e con quanto ci circonda (Galimberti, D., 2018, Sudo, N., 2016).

Secondo la medicina orientale il gut, situato al centro dell’addome, viene definito manipura chakra, ossia centro energetico attorno al quale e in più direzioni ruotano energie nuove, promotrici di un cambiamento.

Risulta dunque un punto fondamentale dove convergono assimilazione dell’informazione, memoria, riconoscimento o rifiuto e, non ultimo, luogo dove convergono le emozioni.

Se questi fattori risultano quindi in interazione reciproca a più livelli, esiste un ulteriore equilibrio ad un livello ancora più profondo che non solo gioca un ruolo importante, ma che in maniera dinamica influenza lo stato di salute umana, confermando ancora come quello che all’apparenza non si veda si concretizzi più di quanto non si creda.

Come detto in precedenza è come se il nostro comportamento in superficie fosse solo la punta dell’iceberg, sotto il quale ciò che è invisibile è in costante movimento.

L’organismo umano infatti risulta popolato da popolazioni microbiotiche con i loro rispettivi DNA e geni, in continuo equilibrio reciproco (Nielsen, D, S., 2014).

Il gut microbiota può essere considerato come un ambiente definito dell’organismo umano o, meglio ancora, come una parte circoscritta di esso. Questo non vuol dire considerare la vita che risiede dentro di noi come spezzettata o peggio ancora divisa, ma al contrario significa prendere consapevolezza circa i vari distretti corporei con le rispettive funzioni che, in sinergia tra loro, hanno un impatto a livello infinitesimale sulla nostra salute (Clemente, J, C., 2012, Mackos, A, R., 2012).

Il gut microbiota è a sua volta costituito da numerosi microrganismi situati nel tratto gastroenterico dell’uomo, mentre il microbioma umano altro non è che il risultato della codifica dei geni dei microrganismi che compongono il microbiota stesso. L’equilibrio mutualistico e trasformativo che si viene a creare è dato dunque dal gruppo più funzionale dei geni che strutturano il microbioma, il quale come si è visto presenta un proprio patrimonio genetico (Peter, J., 2007, Marchesi, J., 2016, Qin, J., 2010).

Quello che dunque ci si chiede è se un’alterazione a questo livello (gut microbiota) possa o meno portare ad una distribuzione atipica degli stessi geni. Quanto viene a dispiegarsi è una vera e propria popolazione circoscritta che prende il nome di popolazione del microbiota, che risente delle modifiche in base all’alimentazione, soprattutto durante l’allattamento, e che oltremodo, a livello microscopico, risulta strettamente correlato alla salute umana; più nello specifico attraverso le interazioni ed i coinvolgimenti sia di natura ormonale che neurotrasmettitoriale (Turnbaugh, P, J., 2007, Moloney, R, D., 2014).

Ciò che risulta affascinante è come una concatenazione di numerose sub unità favorisca e dia vita ad un condizionamento fisico, ripercuotendosi sull’umore, sul comportamento e sulle proprie potenzialità.

 

Body Shaming e New Media

Deridere qualcuno perché “troppo grasso” o “troppo magro”, “troppo muscoloso” o “troppo esile”, “troppo alla moda” o “troppo fuori moda”: è questa una delle tante forme attraverso cui il Body Shaming, letteralmente derisione del corpo, può manifestarsi.

 

 Già durante il IV secolo A.C., all’interno dei versi di poeti antichi, la bellezza fisica veniva dipinta come “amabile, giusta, apprezzabile”, al contrario della bruttezza, definita come “inamabile, ingiusta, disprezzabile” (Teeters; 2018); nel 900 invece, l’idea per la quale un individuo possa essere giudicato sulla base della sua corporeità, è stata divulgata, implicitamente, attraverso gli schermi di Tv e sale cinematografiche.

Si pensi agli stereotipi di personaggio della storia del cinema: di solito, è il tipo “cicciotto” a suscitare la risata del pubblico, ad essere oggetto di scherno, e non il leader  “affascinante”.

E che dire delle riviste popolari negli anni ’80 (vedi Cioè)? Potevano forse non osannare la bellezza esteriore, sinonimo di popolarità?

Nell’era del digitale, la tendenza a sentenziare, criticare, umiliare l’altro per il suo aspetto fisico (peso, altezza, taglia, forma corporea, abbigliamento, capelli, trucco) sembra essere la regola, considerando che l’avvento dei nuovi media ha contribuito alla diffusione di immagini di corpi perfetti come sculture, con i quali quotidianamente ci si confronta.

Il prototipo di bellezza che i social propongono, spinge i più giovani ad imitare gli influencers del momento, e non soltanto nell’abbigliamento o nel trucco, ma anche nei modi di fare, di parlare, diventando talvolta la caricatura di un’altra persona; sembra di assistere ad un processo di “copia-incolla”: si tende a copiare l’immagine più giusta, più popolare, più bella, con più like, ed ad incollarla nella propria mente (Romeo, 2020). Sono i re e le regine dei social a suggerire, quotidianamente, che cosa mangiare, che cosa indossare, come e quanto allenarsi per essere perfetti. Come se la perfezione fosse conformismo, e non originalità.

 A questo punto, è necessario chiedersi cosa possa accadere quando il proprio fisico, o quello altrui, non rispecchia i canoni di bellezza glorificati nel mondo del social.

Davanti alla foto di un corpo imperfetto, il popolo del web non può rimanere in silenzio, in quanto quel corpo è causa di vergogna (Saxena,  Mathur,  Jain; 2020): ed è per questo motivo che deve essere condannato. Quale arma migliore per abbattere l’autostima e la sicurezza di un’altra persona, se non quella di farla vergognare di se stessa e del suo modo di essere?

“Sembri anoressica! Ma ti sei vista? Non sarebbe meglio fare un po’ di dieta? Sei tutta pelle e ossa!”: sono queste le frasi che, quotidianamente, si leggono sotto le foto di visi e corpi imperfetti postati su Instagram e Facebook.

La disperata e pedissequa ricerca di una perfezione corporea irraggiungibile perché inesistente, può portare i soggetti più fragili a vergognarsi della propria fisicità, a perdere fiducia in se stessi e ad essere insoddisfatti del proprio corpo (Gam, Singh, Manar, Kar, Gupta; 2020).

Nelle vittime di Body Shaming, infatti, sono frequenti bassa autostima, rabbia, autolesionismo, sintomatologia depressiva, Disturbo da Dismorfismo Corporeo e Disturbi dell’Alimentazione (Gaffney; 2017); inoltre, la convinzione cronica di non riuscire a diventare ciò che la società ritrae come ideale, può suscitare profondi sentimenti di vergogna e favorire il presentarsi di Disturbi dell’umore (Brewis, Bruening; 2018).

La dilagante predicazione sul modo in cui si dovrebbe apparire, ci si dovrebbe vestire e/o truccare, ha contribuito ad alimentare le insicurezze dei più giovani, che temono il non-consenso, la non-popolarità.

Ed è proprio la paura della non-approvazione che spinge a ritoccare una foto prima di pubblicarla, ad aggiungere filtri, a rimuovere le rughe del viso e a gonfiarsi le labbra.

Perché, nell’era del digitale, è meglio essere photoshoppati che se stessi.

 

Il Potere della Discordia (2021) Il nuovo libro di E. Tronick e C.M. Gold – Recensione

Il potere della discordia, un libro che offre una visione nuova delle nostre capacità di relazionarci con gli altri e noi stessi, mettendo in luce gli elementi fondamentali: i fallimenti e la disorganizzazione, nonché la flessibilità e la resilienza per interagire e crescere.

 

Il libro è il frutto di decenni di ricerche e di esperienze cliniche che hanno cercato di dare delle risposte a dei quesiti fondamentali: perché alcuni traggono piacere da una serie di relazioni sociali intime soddisfacenti mentre altri provano dolorosi sentimenti di distacco e solitudine? Perché alcuni sono tristi, chiusi in se stessi e dotati di scarsa autostima mentre altri sono arrabbiati, distratti e incapaci di farsi valere, e altri ancora sono felici, curiosi, affettuosi e sicuri di sé? In che modo la nostra capacità di avvertire un senso di appartenenza e di attaccamento nei confronti delle altre persone è collegata al processo di sviluppo del nostro senso di noi stessi?

Il senso di noi stessi e la qualità delle nostre relazioni nel corso della vita sono radicati nelle nostre esperienze, nelle nostre interazioni momento-per-momento, a partire dalla nascita, all’interno delle primissime relazioni d’affetto. Il nostro benessere emotivo deriva da un processo che cambia non appena ci immergiamo in una rete di relazioni.

Il cervello cambia continuamente nel corso della vita di una persona secondo il noto processo di neuroplasticità. La formazione di nuove connessioni neurali è flessibile e disorganizzata. Ogni cervello assume una struttura specifica e singolare. Gli studiosi dello sviluppo infantile usano il termine neuroarchitetti per descrivere i caregiver dei bambini piccoli.

Il punto centrale di questo libro è che la discordia all’interno delle relazioni è normale; in effetti, il senso di noi stessi e la nostra capacità di stare vicino agli altri emergono accogliendo la discordia stessa.

Analizzando momento-per-momento l’interazione genitore-bambino, viene ripetutamente osservato che le prime relazioni affettive sono caratterizzate non dalla sincronia, ma dagli errori.

La teoria dei sistemi dinamici aperti descrive come tutti i sistemi biologici, inclusi quelli umani, funzionino incorporando le informazioni in stati sempre più coerenti e complessi. Quando le persone vivono un processo di riorganizzazione insieme a un’altra persona, che sia il caregiver da piccoli o gli amici, i colleghi e i partner quando crescono, co-creano un nuovo modo di stare insieme, di conoscersi l’un l’altro.

Se le persone non permettono alla disorganizzazione, o ai mismatch di verificarsi, non riescono a crescere e cambiare e non hanno la possibilità di conoscere gli altri in profondità.

Il processo di mismatch e riparazione all’interno dell’interazione umana genera l’energia per lo sviluppo, come accade a livello molecolare. Le informazioni che acquisiamo riguardo agli altri e riguardo a noi stessi attraverso questo disordinato processo interattivo forniscono le sostanze nutritive che consentono alle nostre menti di crescere e sviluppare un senso di se stessi nel mondo ancora più complesso, a partire dagli errori.

La funzione di questo libro non è sostituire la cura fornita dai professionisti. Non è pensato come un formulario di consigli medici, genitoriali o psicologici. Partendo dalla considerazione che un consiglio generalizzato senza affrontare la complessità dell’esperienza individuale può ostacolare la crescita e lo sviluppo.

Nel capitolo 1 viene introdotto il concetto secondo il quale la discordia non solo è sana ma è anche essenziale per la crescita e il cambiamento come dimostrano le ricerche basate sul processo di mismatch e di riparazione. Nel capitolo 2 viene evidenziata l’importanza dell’imperfezione, in contrasto con l’aspettativa di perfezione che caratterizza la nostra cultura contemporanea. Il capitolo 3 approfondisce ciò che determina un senso di sicurezza nel mettersi in gioco nella confusione. Nel capitolo 4 viene messo in discussione il mito della biologia rispetto all’ambiente, ossia, natura vs cultura, evidenziando la circolarità di questa interazione che si sviluppa momento per momento all’interno delle primissime relazioni e si sviluppa nel corso di tutta la vita. Nel capitolo 5 viene definita una nuova interpretazione della resilienza suggerendo che non è né un tratto innato né una risposta alle avversità, quanto piuttosto una qualità che si sviluppa superando lo stress generato momento-per-momento dalle situazioni di mismatch e riparazione interattiva. Nel capitolo 6 vengono descritti come i pattern di interazione ripetuti contribuiscano a un senso di appartenenza all’interno delle famiglie, dei luoghi di lavoro, e della cultura in generale. Per imparare a stare con gli altri in base alla cultura di appartenenza Winnicott ha riconosciuto il ruolo fondamentale svolto dal gioco nello sviluppo, e in un saggio scrive:

E’ nel gioco e solo nel gioco che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso della personalità nella sua interezza, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il Sé.

Nel capitolo 7 si osservano i cambiamenti dei pattern di interazione determinati dalla tecnologia che possono essere preoccupanti. Capire la differenza tra il paradigma dello Still Face e l’effetto di un genitore al telefono può offrire un insight rispetto al problema sociale che stiamo affrontando con l’uso crescente della tecnologia. Un genitore che usa il cellulare è distratto, non assente, precisano gli autori. Secondo Sherry Turkle, nel suo famoso libro La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale:

I bambini, privati del contatto visivo e di fronte al volto immobile del genitore, divengono agitati, poi distaccati e in seguito depressi.

Nel capitolo 8 viene proposto un nuovo modo di pensare la sofferenza emotiva nel contesto di relazioni che sono fallite. Capire come le nostre primissime esperienze diventino parte di noi, come chiarito dalle conoscenze derivate dal paradigma della Still Face, ci può guidare in una direzione di cura e crescita a sei mesi, sedici anni o sessant’anni. Facciamo fatica a guarire attraverso le relazioni con gli altri, quando le prime relazioni alterano la nostra capacità di vedere le persone davanti a noi.

Il capitolo 9 mette in luce come le persone guariscano grazie alle opportunità di costruire nuovi significati, non solo sotto forma di parole e pensieri. Le nuove interazioni devono essere inscritte nel corpo così come nella mente. Nel libro Il corpo accusa il colpo, Bessel van der Kolk offre una visione d’insieme di come lo stress viva nel corpo e di come usare il corpo possa aiutare una persona a guarire da uno stress.

Nel capitolo 10 viene messo in luce il pericolo della certezza e l’importanza dell’incertezza nel promuovere la crescita e il cambiamento. Il principio di indeterminazione mostra i limiti della conoscenza assoluta nel mondo fisico in cui viviamo. Applicando il principio al mondo sociale, Critchley nel suo saggio intitolato The dangers of certainty scrive:

Incontriamo altre persone lungo un’area grigia di negoziazione e avvicinamento. Questa è l’attività dell’ascolto e del ‘botta e risposta’ proprio della conversazione e dell’interazione sociale.

L’ultimo capitolo conclude con una riflessione sociale. Se i significati che costruiamo di noi stessi nel mondo hanno origine nelle nostre primissime relazioni, ne consegue che per costruire società sane, faremmo bene a investire nelle relazioni fin dal principio. Nel mondo di oggi molte persone si sentono non viste e non ascoltate. Nel processo di conoscenza dell’altro, dalla nascita fino alla vecchiaia, possiamo costruire una società in cui tutti noi ci sentiamo riconosciuti e in cui avvertiamo il senso di appartenenza.

Il libro coniuga esperienze cliniche ed evidenze scientifiche con un linguaggio chiaro e semplice che consente una immediata comprensione e coinvolgimento, caratteristiche che rispecchiano la levatura degli autori.

 

“Mi sento sporco”: la relazione tra tradimento e psicopatologia

Sebbene le conseguenze psicologiche derivanti dall’aver subito un tradimento siano note all’interno della cultura popolare (Altenberg, 2015), la relazione tra tradimento e psicopatologia è ancor poco esplorata. 

 

Il tradimento è stato definito come “la percezione di essere stati danneggiati dalle azioni intenzionali o dalle omissioni di una persona di fiducia” (Rachman, 2010, p. 304). Rachman e colleghi, grazie agli studi effettuati con pazienti affetti da un disturbo ossessivo compulsivo (DOC) (Rachman, 2010), hanno mostrato come le esperienze di tradimento siano centrali nell’espressione del disagio e nella resistenza al trattamento in questi pazienti.

Ulteriormente, secondo alcuni studi, esiste un legame specifico tra il tradimento e la contaminazione mentale (CM) (Coughtrey et al., 2013; Warnock-Parkes et al., 2012). Per contaminazione mentale si intende quel fenomeno clinico, tipico dei pazienti DOC, caratterizzato dalla percezione di un senso di contaminazione, nonostante l’assenza di un contatto fisico con un altro soggetto. È la mera associazione con una persona fisicamente, moralmente o simbolicamente contaminata che può innescare tale percezione.

In altre parole, per alcune persone, l’essere state trattate come spazzatura le fa sentire sporche. Coughtrey e collaboratori (2012a) hanno scoperto che il 46% dei partecipanti affetti da DOC ha manifestato fenomeni di contaminazione mentale e la gravità di quest’ultima era correlata alla gravità dei sintomi (Coughtrey et al., 2012b).

Secondo le teorie cognitive, la valutazione o l’interpretazione delle esperienze è centrale per lo sviluppo della psicopatologia. Il modello cognitivo-comportamentale del DOC (Salkovskis, 1985) afferma che la valutazione della responsabilità di aver causato un danno o, di non aver potuto impedire che quest’ultimo si verificasse, è la chiave per comprendere lo sviluppo e il mantenimento del disturbo. Si ritiene che la contaminazione mentale nel DOC si verifichi a causa della valutazione di vari pensieri, immagini ed esperienze (Rachman, 2004, 2006) e la ricerca suggerisce che le valutazioni di responsabilità, violazione e immoralità sono predittori della contaminazione mentale (Elliott & Radomsky, 2013).

Dunque, secondo i resoconti clinici, il tradimento sembra essere associato alla contaminazione mentale nei pazienti DOC, ma rimane da indagare sistematicamente la suddetta relazione.

Anche se la contaminazione mentale risulta essere maggiormente associata al disturbo ossessivo-compulsivo, ci sono alcune prove che essa possa verificarsi in tutti i disturbi. Per esempio, uno studio di Coughtrey e collaboratori (2018) ha indicato la prevalenza di contaminazione mentale nei disturbi alimentari, nella depressione e nell’ansia. Altri studi hanno trovato prove di CM nella fobia specifica e nel disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (Rachman, 2006).

La contaminazione mentale è stata osservata anche indipendentemente dalla psicopatologia; difatti, anche le donne vittime di aggressioni sessuali, hanno riportato un aumento dei sentimenti di contaminazione mentale e l’urgenza di lavarsi, quando richiamavano i ricordi dell’esperienza subita (Ishikawa et al, 2015).

È sulla base delle considerazioni appena esposte, che alcuni autori si sono proposti di effettuare due studi. Nel primo studio essi hanno sviluppato un nuovo strumento, la Perception of Betrayal Scale (POBS), con l’obiettivo di definire le proprietà psicometriche della POBS all’interno di un campione non clinico. Il questionario sviluppato constava di 27 item che miravano a valutare l’impatto del tradimento su diverse dimensioni come le relazioni interpersonali, la percezione di sé e il comportamento.

Nel secondo studio, invece, i ricercatori hanno confrontato l’impatto del tradimento in tre gruppi clinici e un gruppo di controllo.

L’ipotesi primaria era che i soggetti clinici avrebbero riportato un maggiore impatto del tradimento, come misurato dalla POBS e, nello specifico, gli autori hanno ipotizzato che i pazienti affetti da DOC, avrebbero mostrato di aver subito un maggior impatto, a causa del tradimento. L’ipotesi secondaria era che gli individui affetti da DOC, con livelli più elevati di contaminazione mentale, avrebbero mostrato anche un maggiore impatto dovuto al tradimento, misurato attraverso la POBS. Una terza ipotesi era che l’impatto del tradimento avrebbe predetto la contaminazione mentale.

Al fine dello sviluppo psicometrico e della validazione della POBS, sono stati reclutati 217 soggetti non clinici. Al secondo studio, invece, hanno preso parte 83 individui, divisi in quattro gruppi: 23 nel gruppo DOC, 21 nel gruppo ansia, 18 nel gruppo depressione e 21 nel gruppo di controllo.

Il primo studio ha mostrato che la POBS aveva un test-retest accettabile ed una buona attendibilità e coerenza interna.

I risultati del secondo studio hanno mostrato che i soggetti con un disturbo ossessivo-compulsivo avevano riportato punteggi dell’impatto del tradimento significativamente più elevati rispetto agli altri gruppi clinici e a quello di controllo, con i gruppi di ansia e depressione che mostravano un punteggio più alto rispetto al gruppo comunitario.

È possibile che il gruppo costituito da soggetti con DOC abbia mostrato maggiori valutazioni disadattive riguardo al tradimento in quanto è probabile che essi siano più preoccupati da eventi interpersonali rispetto ad altri gruppi clinici, o forse presentano un approccio diverso rispetto alle interazioni interpersonali complesse. Ci sono alcune prove che gli individui con una diagnosi di DOC mostrano alcuni deficit nella consapevolezza di sé e nel riconoscere e verbalizzare le emozioni (De Berardis et al., 2005), nonché una maggior tendenza alla sottomissione interpersonale, rispetto ai controlli sani (Solem et al., 2015).

Inoltre, i risultati del secondo studio hanno suggerito che vi è un’associazione tra il tradimento e la contaminazione mentale, ma il meccanismo con cui quest’ultima venga indotta non è ancora chiaro.

Questo è il primo studio che tenta di misurare la percezione del tradimento in gruppi clinici e non clinici e supporta l’ipotesi di una relazione tra valutazioni negative del tradimento e psicopatologia e più specificamente tra tradimento e contaminazione mentale, aggiungendosi ad un piccolo ma crescente corpo di ricerca che studia l’impatto del tradimento sulla psicopatologia.

La presente ricerca solleva ulteriori quesiti e apre nuovi scenari per futuri studi. Naturalmente, tali questioni dovranno essere risolte prima di poter affermare con certezza che le esperienze di tradimento dovrebbero essere al centro degli interventi terapeutici, sia in coloro che sperimentano una forma di contaminazione mentale, che in chi non la esperisce.

Difatti, il tradimento potrebbe essere un fattore rilevante quando si valutano e si forniscono interventi rivolti alla risoluzione della percezione di contaminazione mentale.

 

Gamification: riabilitare i pazienti con disturbi neurocognitivi tramite l’utilizzo di videogiochi

Nel tempo si è sviluppata una branca particolarmente innovativa del training cognitivo che si focalizza sull’applicazione di meccanismi legati a videogiochi per coinvolgere i pazienti e generare benefici motivazionali: la Gamification.

 

 Il training cognitivo è una pratica ampiamente diffusa in ambito neuropsicologico e riabilitativo che si fonda su un vero e proprio esercizio mentale di alcune funzioni cognitive, specialmente la memoria, permettendo di migliorarle, mantenerle e generalizzarne l’effetto alla vita quotidiana. Può essere svolto individualmente, in gruppo, dal paziente stesso, da un caregiver o da uno specialista. Le prove sono basate su carta e penna o supporti informatici (computer, tablet e così via) seguendo un grado crescente di livelli di difficoltà. L’importante è, infatti, creare un set di esercizi che seguano i principi della ripetitività e gradualità, in modo da non scoraggiare il paziente fin da subito e individualizzare il più possibile il trattamento (Clare e Woods, 2003).

Quando si parla di Gamification?

Nel tempo, si è sviluppata una branca particolarmente innovativa del training cognitivo che si focalizza sull’applicazione di meccanismi legati a videogiochi per coinvolgere i pazienti e generare benefici motivazionali. Originatasi nel mondo del business, è stata successivamente applicata alla sanità tramite i cosiddetti ‘serious games’ per intrattenere i pazienti mentre svolgevano l’attività di training o di educazione (Ricciardi e Paolis, 2014). Definita anche Gamification o CCI (Computerized Cognitive Interventions), si presenta al partecipante tramite un video 2D tradizionale oppure tramite tecniche 3D più sofisticate, come la VR immersiva o la realtà aumentata (Garcìa-Betances et al., 2015; Chicchi Giglioli et al., 2015). Per poter parlare di effettiva Gamification, il training deve includere elementi fondamentali tipici dei videogiochi come rinforzi positivi al termine delle prove (punti, medaglie), avatar per potersi rappresentare nel gioco e tutorial per comprenderne le funzioni. Talvolta si cerca di creare competizione e sfide tra i vari partecipanti anche attraverso i social network (Cugelman, 2013). L’obiettivo principale rimane lo stesso: rendere l’attività cognitiva, di per sé potenzialmente demotivante, coinvolgente e incalzante (Turan et al., 2016).

Ambiti di applicazione

Nella revisione della letteratura effettuata da Sardi e collaboratori (2017) viene riportato come la maggioranza dell’utilizzo di gamification nell’ambito sanitario digitale (e-Health) venga indirizzato alla riabilitazione di patologie croniche, all’attività fisica e alla salute mentale. Inoltre, la Gamification viene sempre più spesso applicata al campo dei disturbi neurocognitivi, e nello specifico nel trattamento del Mild Cognitive Impairment. I benefici sono numerosi: un aumento della capacità della memoria di lavoro, lo sviluppo di nuove strategie mnemoniche, un miglioramento della velocità di elaborazione delle informazioni e delle funzioni esecutive. Il meccanismo del videogioco, infatti, stimolerebbe il mantenimento della concentrazione e del problem solving, portando l’individuo a trovare soluzioni innovative per i problemi che si presentano oltre che a sviluppare un senso di orientamento allo scopo (Lumsden et al., 2016; Ruhi, 2015).

Evidenze di efficacia

L’efficacia di un training cognitivo computerizzato per il Mild Cognitive Impairment è stata comprovata da una meta-analisi che ha identificato effetti benefici sia sulla cognizione globale che su singoli domini cognitivi e sul funzionamento psicosociale, sebbene i risultati per i pazienti affetti da demenza risultino ancora scarsi (Hill et al., 2017). La stessa efficacia è stata riscontrata per i pazienti affetti da esordio di Alzheimer (Cavallo et al., 2016) con miglioramenti che sono rimasti stabili per circa un anno, riducendo il progressivo declino cognitivo per quel periodo di tempo (Cavallo e Angilletta, 2019). I miglioramenti riguarderebbero soprattutto l’ambito della memoria visuospaziale: sebbene un certo grado di declino in questa funzione cognitiva durante l’invecchiamento sia la norma (Iaria et al., 2009) le abilità visuospaziali allocentriche ed egocentriche risultano maggiormente compromesse nei pazienti MCI e AD in confronto ad anziani sani (Boccia et al., 2016). Di conseguenza, si può facilmente comprendere come sia importante rinforzare queste strutture attraverso interventi mirati mentre la compromissione è ancora limitata, come appunto nel Mild Cognitive Impairment.

Esercitarsi virtualmente

La tecnica della realtà virtuale (VR) è molto promettente per via di vari vantaggi, come una stimolazione multimodale, un feedback sulla performance e un ambiente controllato (Morganti, 2004). Provvedendo uno “spazio egocentrico” l’individuo può interagire con il mondo virtuale in prima persona oppure formarsi mappe cognitive spaziali grazie allo “spazio allocentrico” (Tolman, 1948). Uno dei primi studi a riguardo è stato un esperimento di caso singolo di Brooks e colleghi (1999) nel quale la realtà virtuale è stata impiegata allo scopo di insegnare al paziente amnestico come orientarsi nell’ospedale in cui si trovava. Egli riuscì, incredibilmente, a imparare le strade e a trasferire questa conoscenza nella realtà vera e propria. È bene specificare che il training svolto semplicemente nella vita reale non aveva dato alcun risultato (Holden, 2005). Gli autori hanno elencato vari motivi per cui la realtà virtuale possa essere stata più efficace: i percorsi potevano essere svolti più spesso; nella realtà virtuale non era limitato da nessun tipo di disabilità fisica o ostacolo ambientale; in ultimo, non erano presenti distrazioni che potevano distoglierlo dall’apprendimento (Brooks et al., 1999).

Piattaforme CCI

Vi sono vari tipi di Computerized Cognitive Interventions (CCI) che possono essere presi ad esempio, descritti nella revisione di Pertíñez e Linares (2015). Essi vengono utilizzati per la riabilitazione di vari disturbi e si avvalgono delle nuove tecnologie, con alcuni modelli di Gamification. Di seguito, una compilazione delle CCI più importanti e dunque di maggior rilievo nelle strutture neuropsicologiche. Questa lista non è da considerarsi esaustiva dato che nuove piattaforme vengono continuamente create a pari passo con lo sviluppo della ricerca scientifica.

  1. Gradior, un sistema multimediale utilizzato nella valutazione e riabilitazione neuropsicologica che promuove un ricovero funzionale in pazienti con compromissioni cognitive, come demenza, schizofrenia, disabilità intellettiva e così via. I singoli esercizi vengono individualizzati e ne possono essere introdotti di nuovi anche in seguito (Franco et al., 2000).
  2. RehaCom, un sistema di terapia computerizzata per pazienti neuropsicologici che consente la stimolazione cognitiva di varie funzioni. Anch’esso è interamente modificabile in base al caso specifico. È interattivo, semplice da usare, dinamico ed è risultato essere efficace nella riabilitazione di traumi cerebrali (Fernàndez et al., 2012).
  3. Smartbrain, un programma internet-based di stimolazione cognitiva che ha diversi obiettivi. Permette l’individualizzazione dell’esercizio delle funzioni cognitive di base attraverso la modificazione della durata, numero e tipo di sessioni e di rinforzi dal professionista. Il livello di difficoltà si aggiusta automaticamente in base al progresso effettuato. L’efficacia terapeutica di Smartbrain, al confronto di strumenti non tecnologici, è stata comprovata in uno studio con pazienti affetti da Alzheimer (Tàrraga et al., 2006).
  4. CogniFit Personal Coach, il quale permette l’esercizio delle funzioni cerebrali e la valutazione delle capacità cognitive negli adulti per implementare il trattamento più adeguato (Smith et al., 2009).
  5. Scientific Brain Training Pro, ad oggi denominata HappyNeuron Pro, offre programmi per disturbi neurotraumatici, neuropsichiatrici e neurodegenerativi con dei giochi interattivi per stimolare le funzioni cognitive.
  6. Lumosity, che combina giochi ed esercizi per varie aree cognitive ed è orientato a bambini e adulti con disabilità o ad individui che desiderano migliorare la propria performance. Uno studio ha mostrato che portava a miglioramenti se veniva effettuato un esercizio continuo ed appropriato (Kesler et al., 2011).
  7. NeuronUP, è una piattaforma web per la riabilitazione delle lesioni cerebrali acquisite e non, e per un mantenimento delle funzioni cognitive nell’invecchiamento normale. Le attività, che variano di livello, possono essere svolte sul computer o anche carta e penna.
  8. Neuro@Home è diretto alla riabilitazione domiciliare e utilizza tecnologie sofisticate per il training e la raccolta dati.

 Il vantaggio comune di queste piattaforme CCI è la potenziale applicazione a diversi gruppi di età, livelli di patologia e di disturbi. Infatti, possono essere utilizzate anche da individui sani e la flessibilità viene evidenziata dalla personalizzazione del numero e frequenza delle sedute, del linguaggio, degli stimoli visivi e sonori e degli esercizi. Permettono inoltre di monitorare e registrare i dati delle performance per compararne i risultati e individuare l’efficacia. Vi sono, però, degli aspetti da migliorare, soprattutto l’accessibilità per persone con deficit sensorimotori e la possibilità di comparare i risultati tra i vari pazienti per poter dedurre le differenze o similarità. In generale sono comunque considerati validi aiuti nel training e nella riabilitazione dai professionisti (Pertíñez e Linares, 2015).

Limitazioni

Un limite della Gamification riguarda l’analisi dei dati: essendo un videogioco di per sé un’attività complessa, distinguerne l’effetto su una sola funzione cognitiva diventa complicato (Lumsden et al., 2016). Inoltre, è stato comprovato come l’esercizio di multipli domini cognitivi risulti essere più efficace a lungo termine (Cheng et al., 2012). Per esempio, in un training che mira a rafforzare l’attenzione, potrebbe essere difficile misurarne l’efficacia basandosi solo sulla variabile attentiva, poiché molte altre variabili potrebbero aver influito. Purtroppo vi sono un numero elevato di potenziali variabili e distrattori che possono inficiare sulla validità del gioco (Lumsden et al., 2016).

Interventi precoci e mirati

La Gamification, in ogni caso, rimane una delle tecniche di training cognitivo che, se applicata in modo corretto e con costanza, promette una valida alternativa ad una riabilitazione tradizionale su carta e penna indicata per pazienti con ridotta compliance e collaborazione che normalmente non sarebbero motivati ad accedere alle sedute. La sua efficacia nel miglioramento delle condizioni dei pazienti con disturbi neurocognitivi maggiori e con MCI fa ben sperare rispetto al futuro di questa branca della neuropsicologia. Non essendoci una cura farmacologica che permette di curare queste patologie, è essenziale ricercare tecniche riabilitative innovative e comprovate che si possano applicare nelle fasi precoci della malattia, in un’ottica di mantenimento delle abilità cognitive residue per migliorare la qualità di vita di questi pazienti e dei loro famigliari.

 

 

Le naturali ragioni del collettivismo

In tempi brevi sembra che l’egoismo paghi, ma la società ha bisogno dell’aiuto vicendevole per evolvere.

 

Le piante hanno un’architettura modulare con funzioni cooperative e un’intelligenza distribuita, senza avere dei centri di comando precisi, e sono in grado di cooperare con altri vegetali per il bene dell’ambiente in comune. L’animale invece ha un centro di comando centrale e ha costruito una società gerarchica e centralizzata, ha devastato la biodiversità e pensa che il mondo debba essere “monospecie”, ha sviluppato l’illusione del controllo di un mondo modellato a sua somiglianza, ma basta un piccolo virus a mettere tutto in discussione e a ricordarci che anche noi siamo parte di un tutto interconnesso.

Le sequoie possono raggiungere altezze elevate e, solo grazie al fatto che intrecciano le loro radici, possono sostenersi a vicenda e superare così le tempeste. I funghi si scambiano le sostanze nutritive tra di loro e fanno da tramite mettendo in comunicazione specie diverse. Alcune piante possiedono memoria, senso del tatto, altre crescono meglio con la musica.

L’illusione di controllare il pianeta a nostro piacimento è stata in gran parte ridimensionata, abbiamo visto che il nostro ritiro e confinamento in casa è servito per migliorare l’ambiente; gli animali, le piante si sono temporaneamente riappropriati di strade, lagune, è migliorata la qualità dell’aria e dell’acqua.

Dovremmo collaborare come piante per il vantaggio reciproco e avremo come risposta al collegamento un’accresciuta fiducia nel prossimo e finalmente una visione ottimistica basata sulla certezza che è possibile sostenersi a vicenda e avere anche dei vantaggi, che non sono quelli del successo individuale ma quelli della condivisione (Tomasello, 2019).

La condivisione ci ha portato lontano nella nostra storia evolutiva, come anche l’organizzazione gerarchica e il meccanismo di dominanza-sottomissione ma, a differenza di questa, crea vicinanza e legami, caratteristiche utili alla coordinazione del gruppo verso grandi obiettivi evolutivi come preservare il nostro habitat.

I comportamenti che perdurano nel tempo sono al servizio della sopravvivenza della specie, quelli che la danneggiano vanno cambiati al più presto.

Negli animali l’aggressività ha una sua funzione come quella di regolare la gerarchia, conquistare o difendere un territorio, in un ambiente aggressivo però prevalgono rabbia e paura mentre i comportamenti altruistici diminuiscono. Fiducia e stima reciproca sono invece gli elementi essenziali per l’agire cooperativo, un agire che genera legami tra le persone e forma una comunità orientata al bene comune (Liotti, Monticelli 2017).

In tempi brevi sembra che l’egoismo paghi, ma la società ha bisogno dell’aiuto vicendevole per evolvere. Inutile esaltare il meccanismo della competizione e l’immagine del vincitore come modello da seguire, perché chi non riuscirà ad arrivare a certi standard, proverà invidia o vergogna, colpa o tristezza. Le continue situazioni di rabbia rivalitaria non sono poi semplici da gestire, lasciano strascichi e astio.

Il numero delle persone che si sentono inadeguate come risposta a questi esagerati stimoli competitivi sta crescendo, molti si chiudono in casa e rinunciano a priori, anche se spesso la colpa dell’insuccesso è dell’ambiente poiché non partiamo tutti dalla stessa linea di partenza, prevale un sentimento di sconfitta.

La pandemia ha creato profonde ferite, ma attraverso queste possiamo guardare meglio al nostro interno, attraverso questi squarci egoici possiamo vedere più adeguatamente chi siamo e cosa è davvero importante. Attraverso le feritoie che si sono create, possiamo vedere parti di noi che sono rimaste nell’ombra e che ora possono spingere verso una nuova strutturazione del nostro essere, verso una nuova comprensione del nostro senso esistenziale. Ascoltiamo le nostre fantasie, diamo spazio all’immaginazione, non ascoltiamo chi ci fa scegliere per forza tra due mondi, immaginiamo noi il terzo.

Se per un periodo ci sentiamo meno forti, accettiamo questa sensazione e cerchiamo di accogliere i nuovi significati che arrivano, anche se sono dolorosi e ci fanno scoprire le nostre fragilità. Accettiamo questi nuovi significati da decifrare, anche se siamo confusi e dubbiosi, potrebbero aprirci a nuove possibilità di pienezza vitale. È meglio avere dei dubbi che possedere una folle normalità che sedimenta e blocca i cambiamenti e ci mura dentro noi stessi. Dobbiamo purtroppo indebolirci, un po’ per aprirci e costruire ponti fatti di fiducia e tolleranza verso le persone che ci sembrano meritevoli e incontrarci sopra di essi a metà strada, dove si vedono bene entrambi i percorsi ma anche l’orizzonte.

Il livello della collaborazione è boicottato ad arte dall’élite e sono incentivati individualismi e competizione, automatismi utili alla polarizzazione del potere; ma non smettiamo di cercare chi crede nel vantaggio della cooperazione e intrecciamo le nostre radici per raggiungere obiettivi comuni.

 

Cinema, metafore e psicoterapia (2021) di Isabel Caro Gabalda – Recensione del libro

In generale il libro Cinema, metafore e psicoterapia, oltre che una piacevole e scorrevole lettura, può essere utile a un terapeuta sia come suggerimento di film che possono essere usati in terapia come metafore terapeutiche, sia come lettura guidata ai diversi livelli di lettura possibili degli stessi film.

 

 Ho deciso di scrivere la recensione a questo libro prima di leggerlo e, forse, l’avrei potuta scrivere senza leggerlo. Avrei potuto iniziare, scrivendo: non c’è esercizio migliore per aumentare la comprensione e l’empatia verso la sofferenza che i pazienti portano in terapia, del cosa regola questa sofferenza, che immergersi in film e romanzi di qualità. Mauppasant e Anna Bronte hanno dato descrizioni chiarissime degli stati mentali che regolano un narcisista e delle loro conseguenze “patogene”, ben prima che si pensasse di creare manuali sui disturbi mentali.

Cinema, in generale fiction, e psicoterapia sono due modi diversi di guardare allo stesso oggetto: storie della varietà di problemi e ostacoli con cui gli esseri umani si confrontano e della varietà di modi che usano per cercare soluzioni. Vedere un buon film o leggere un buon libro è un modo per esplorare e comprendere come funziona la mente, ma con un vantaggio a favore della fiction: raccontare storie è il talento di chi fa cinema o romanzi e quindi lo sa fare molto bene.

Ho letto, però, il libro di Isabel Caro Gabalda per capire che tipo connessioni tra cinema e psicoterapia vengono messe in luce dall’autrice.

Il libro è in effetti interessante, in quanto i film vengono usati come metafore per comprendere aspetti diversi della psicoterapia, sia attinenti al paziente, che al terapeuta che alla relazione e al processo terapeutico. La storia fantastica diventa, per esempio, una metafora della perseveranza come condizione necessaria per ottenere il cambiamento in terapia, un modo per suggerire al paziente che la terapia non è un processo di cambiamento passivo o frutto di insight, quanto piuttosto il risultato di un impegno costante. Il film Forza maggiore è un modo per comprendere e condividere con il paziente come un evento, apparentemente con esito positivo come la valanga mancata del film, possa modificare in modo drammatico il funzionamento psicologico e relazionale di una persona: come si passa da famiglia felice a coppia devastata da rabbia e colpa? E quale via di uscita?

 In generale il libro, oltre che una piacevole e scorrevole lettura, può essere utile a un terapeuta sia come suggerimento di film che possono essere usati in terapia come metafore terapeutiche (cioè portatrici di cambiamento), sia come lettura guidata ai diversi livelli di lettura possibili degli stessi film.

Concludo con un evento di qualche giorno fa. Un allievo mi dice: “Un mio amico ha fatto una terapia durata qualche mese e dice che gli è stata molto utile. Quello che mi lascia perplesso e non mi torna è che quando gli ho chiesto cosa hanno fatto in terapia, lui mi ha raccontato che fondamentalmente in tutte le sedute parlavano di film e libri. Secondo te ha un senso come terapia?”. Questo libro suggerisce che, se fatto con un piano e una strategia, parlare di film e libri non è solo un modo piacevole per il terapeuta per guadagnare e trascorrere un’ora, ma può essere lo strumento attraverso il quale far passare specifici interventi di cambiamento.

 

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