expand_lessAPRI WIDGET

Sport e salute mentale in adolescenza

La partecipazione allo sport di squadra, ma non allo sport individuale, predice prospetticamente un minor numero di sintomi depressivi, ansiosi ed emotivi.

 

Il 10-20% degli adolescenti è vittima di un disturbo mentale, (Kieling et al., 2011), prevalentemente depressivo e ansioso (Rehm & Shield, 2019), che se non trattato può impattare notevolmente sullo sviluppo personale, sui risultati scolastici e sulla qualità della vita (Slominski et al., 2011).

Gli sforzi attuali nella prevenzione dei disturbi mentali sono spesso inadeguati anche nei paesi altamente sviluppati. Un’indagine australiana ha stimato che solo l’11,6% dei giovani affetti da psicopatologia ha ricevuto dagli operatori un trattamento minimo adeguato (Sawyer et al., 2019). Infatti, oltre ad essere dispendioso, capita sovente che le cure vengano destinate a giovani con disabilità più gravi.

Lo sport ricreativo organizzato, è tra le attività più popolari tra i giovani adolescenti (Aubert et al., 2018) e può giocare un ruolo rilevante nella tutela della loro salute mentale (Panza et al., 2020).

Fattori empiricamente legati all’aumento del benessere e della salute nello sport, rimandano ad aspetti intrinseci all’attività fisica, alle relazioni sociali ed amicizie positive che si strutturano in questo ambiente, oltre al senso di identità derivante dalla partecipazione allo sport (Ahn & Fedewa, 2011; Graupensperger et al., 2020).

Tuttavia, se le relazioni instaurate nell’ambiente sono inadeguate e lesive (MacDonald et al., 2012), lo sport può favorire il deterioramento della salute mentale in adolescenza. Anche una partecipazione sportiva eccessivamente intensa in termini di ore o laboriosa, può portare a percezioni di sovrallenamento e diminuzione del benessere (Merglen et al., 2014).

La letteratura si è concentrata sugli esiti dello sport sulla salute mentale, relativi all’ansia e alla depressione; l’elevata prevalenza di difficoltà emotive e comportamentali in adolescenza rende utile uno spostamento del focus su questi aspetti (Costello et al., 2005).

Ad esempio, Vella et al., (2017), hanno riscontrato che le difficoltà comportamentali e attentive, in particolare problemi esternalizzanti all’età di 12 anni, predicono scarsa partecipazione allo sport all’età di 14 anni, aspetto preoccupante se si considera che gli adolescenti altamente iperattivi potrebbero trarre beneficio dall’attività fisica, che può limitare la distrazione e l’impulsività (Putukian et al., 2011). Infatti, se iscritti ad uno sport di gruppo, i ragazzi iperattivi sperimentavano ridotte problematiche affettive e meno sintomi depressivi e ansiosi (Kiluk et al., 2009).

La letteratura che ha approfondito le differenze di genere nel legame tra sport e salute mentale, riporta che mentre tra le ragazze, le esperienze sociali sperimentate in contesto sportivo erano più negative (come, prese in giro, vergogna del corpo) con esito di peggioramento della salute mentale (Slater & Tiggemann, 2011), tra i maschi emerge una riduzione maggiore dei sintomi di ansia all’aumentare del coinvolgimento sportivo (Panza et al., 2020).

Nonostante le associazioni evidenti tra sport organizzato e salute mentale, non è ancora chiaro se il coinvolgimento nello sport migliori la salute mentale degli adolescenti o se siano gli adolescenti con una salute mentale migliore a dedicarsi maggiormente allo sport.

Data questa lacuna di comprensione, lo scopo delle indagini longitudinali di Graupensperger et al. (2021) era verificare le associazioni in adolescenza tra partecipazione allo sport (individuale e di squadra) e diversi indici di salute mentale.

Un secondo obiettivo, consisteva nel testare se le associazioni tra la partecipazione allo sport e salute mentale, differivano tra ragazzi e ragazze adolescenti.

Sono state valutate la partecipazione regolare a sport di squadra e individuali nell’ultimo anno, l’ansia e i sintomi depressivi, questi ultimi con la Spence Children’s Anxiety Scale (SCAS-C8; Reardon et al., 2018; Spence et al., 2003) e lo Short Mood and Feelings Questionnaire (SMFQ; Angold et al., 1996). Le difficoltà emotive e comportamentali sono state misurate con il Strength and Difficulties Questionnaire (SDQ; Goodman et al., 2000).

I risultati indicavano che la partecipazione allo sport di squadra, ma non allo sport individuale, prediceva prospetticamente un minor numero di sintomi depressivi, ansiosi ed emotivi ed una maggiore percezione soggettiva di benessere su questi aspetti.

Inoltre, nonostante una maggiore sintomatologia emotiva inducesse un minore coinvolgimento sportivo sia per gli sport di squadra che individuali, praticare più sport di squadra potrebbe agire positivamente sulla sintomatologia emotiva, influendo positivamente sulla salute sociale e psicologica dei giovani (Eime et al., 2013).

La partecipazione allo sport di squadra apporta benefici sulla salute mentale della maggior parte dei giovani, ma non per tutti (Panza et al., 2020). Alcuni, per esperienze sociali negative come il bullismo nei contesti gruppali, potrebbero preferire gli sport individuali (Evans et al., 2016).

Il legame tra partecipazione sportiva e salute mentale differiva significativamente per ragazzi e ragazze adolescenti.

Mentre i ragazzi che praticavano sport di squadra o individuali tendevano a manifestare meno sintomi depressivi, le ragazze che praticavano sport di squadra riportavano maggiori benefici psicosociali oltre che nei sintomi depressivi.

I ragazzi che praticavano sport individuali riportavano nel lungo periodo un aumento della sintomatologia depressiva, probabilmente ricondotta alla motivazione dell’atleta, finalizzata all’obiettivo piuttosto che al divertimento.

Nelle ragazze adolescenti, maggiori sintomi depressivi predicevano prospetticamente un minore coinvolgimento successivo nello sport individuale. Infatti, mentre quest’ultimo espone ad una maggiore valutazione sociale e preoccupazione per la presentazione di sé, gli sport di squadra consentono di strutturare una maggiore sicurezza percepita tra le atlete (Haase, 2009).

In conclusione, lo sport, oltre ad essere ampiamente accessibile tra i giovani, ha un forte impatto nella protezione della salute mentale in questa fascia della popolazione.

Studi futuri potrebbero indagare meglio se questa tendenza di miglioramento della salute mentale, persiste fino alla prima età adulta (Jewett et al., 2014).

Inoltre, comprendere il legame tra coinvolgimento sportivo e salute mentale, consente alle parti in gioco di implementare opportunità di partecipazione sportiva su misura, affinché tutti coloro che ne hanno bisogno possano beneficarne.

 

Malattie croniche e pandemia, ricerca Psicologi Lazio: per 1 paziente su 3 terapie a rischio – Comunicato Stampa

L’emergenza Covid-19 ha avuto un impatto su pazienti con malattie croniche attraverso una molteplicità di fattori: le difficoltà di accesso alle visite e alle cure, il sovraccarico degli operatori, la mancanza di continuità assistenziale e il minore supporto relazionale percepito.

Comunicato Stampa

 

Roma, 7 luglio 2021. Durante la pandemia da Covid circa un terzo dei pazienti con malattie croniche ha faticato a comunicare con il proprio medico curante, mentre quasi uno su dieci ha addirittura smesso di contattarlo, mettendo seriamente a rischio la propria aderenza alle terapie. A rivelarlo è un’indagine realizzata dall’Osservatorio di Psicologia in cronicità in collaborazione con la Regione Lazio, presentata in occasione dell’evento “Emozioni in Cronicità ai tempi del Covid-19 – Ricerche e prospettive future”, organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.

La ricerca, che ha interessato 114 soggetti con una età compresa tra 20 e 86 anni affetti da diverse patologie – tra le quali diabete, artrite, tumori, cardiopatie – ha evidenziato con chiarezza il peggioramento dello stato di salute e della condizione psicologica dei pazienti cronici durante il periodo connesso all’emergenza sanitaria. A pesare, una molteplicità di fattori: le difficoltà di accesso alle visite e alle cure, il sovraccarico degli operatori, la mancanza di continuità assistenziale e il minore supporto relazionale percepito. In questo pur difficile scenario, l’11.4% dei pazienti ha invece riferito un miglioramento nella gestione della malattia, grazie anche alla riorganizzazione dei servizi a valle dell’emergenza.

Le delicate implicazioni di tipo psicologico prodotte dalla pandemia hanno indotto circa il 40% degli intervistati a ricercare un supporto specialistico. Tra coloro che vi hanno fatto ricorso, il 30% ha riferito un sentimento di angoscia e fragilità legato al timore di un peggioramento della propria condizione a seguito di una possibile trasmissione del virus; il 32% ha lamentato la scarsa attenzione alle misure anti-contagio nel proprio contesto sociale e lavorativo; il 32% ha faticato a vivere con rassegnazione i cambiamenti imposti dall’emergenza; il 5% ha manifestato preoccupazione rispetto alle proprie capacità di autoregolazione.

I risultati dell’indagine – ha spiegato Mara Lastretti, Coordinatrice dell’Osservatorio di Psicologia in cronicità dell’Ordine Psicologi Lazio – hanno evidenziato come la Psicologia, attraverso la lettura dei vissuti e dei processi che regolano la vita di persone con cronicità e dei loro team, si sia dimostrata in grado di agevolare in modo significativo l’adozione di condotte virtuose. A tale riguardo, sul sito Osservatorio Psicologia in Cronicità è disponibile il primo ebook sui casi di buone prassi adottate durante la pandemia da team integrati dalla funzione psicologica.

I dati completi dell’indagine “Emozioni in Cronicità ai tempi del Covid 19 – Ricerche e prospettive future” sono disponibili sul sito dell’Osservatorio di Psicologia in cronicità e sulle sue pagine Social Facebook, Instagram e Linkedin.

 

Blended-care e demenza: supporto al caregiver nell’era digitale

La demenza è una malattia caratterizzata da una varietà di sintomi e un declino progressivo nelle funzioni cognitive. Per tale motivo, la costruzione di interventi integrati in modalità online e offline può aiutare il caregiver informale nella gestione delle diverse fasi di malattia della persona con demenza.

Noemi Boschetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha descritto la demenza come una delle principali cause di disabilità e dipendenza tra le persone anziane (WHO, 2020).

Mentre si assiste ad un aumento delle patologie cronico-degenerative, si prefigura un incremento della domanda di figure assistenziali formali e informali nella cura della popolazione anziana. Tale condizione determina di fatto un incremento della richiesta di supporto nello svolgimento delle diverse attività quotidiane (Bressan, Visintini, & Palese, 2020).

In ragione delle limitazioni funzionali e della perdita di autonomia, emergono nuovi bisogni sanitari e assistenziali con un forte impatto sull’intero sistema familiare. L’aumento del carico assistenziale nella cura della persona con demenza può quindi avere significative ripercussioni sul benessere delle figure di supporto, in termini di aumento della percezione del burden, stress, disagio fisico e psicologico (Hopwood, Walker, McDonagh, Rait, Walters & Illiffe, 2018).

Il burdern del caregiver

Diverse ricerche finalizzate a studiare questo fenomeno hanno portato a una definizione muldimensionale del burden del caregiver, sottolinenando l’importanza della percezione di sé come figura di cura (Zarit,Todd, & Zarit, 1986). L’esperienza di caregiving può comprendere circostanze che causano un aumento dello stress e del carico assistenziale. D’altro canto, è noto che esistono differenti soglie di percezione del burden psicologico, fisico e socio-assistenziale. Il processo di cura presenta un carattere complesso ed è in grado di generare esperienze tra loro idiosincratiche.

Il careginving, pur presentando un rischio intrinseco di stress fisico e psicologico, può quindi suscitare una percezione di gratificazione nella costruzione di legami intrafamiliari (Tarlow,  Wisniewski, Belle, Rubert,  Ory, & Gallagher-Thompson, 2004).

Gli aspetti positivi del caregiving possono emergere in una condizione di equilibrio tra le richieste assistenziali e le capacità per farvi fronte. Tale equilibrio riduce il rischio di stress ed incrementa la percezione di un senso di auto-efficacia nel prendersi cura dei propri cari.

Per poter favorire la percezione di maggior gratificazione nel processo di cura e limitare l’insorgenza di difficoltà nella presa in carico, la proposta di interventi che facilitino la transizione al ruolo di cura rappresenta un elemento fondamentale. I familiari assistono infatti ad un cambiamento sostanziale del loro ruolo sociale in seguito alla diagnosi di demenza del paziente (Bruinsma, Peetooma, Bakker, Boots, Millenaar, Verhey, & Vugt,2021). Perciò, l’accesso a modalità di supporto personalizzate e adeguate alle coesistenti attività del caregiver può agevolare l’adattamento al ruolo.

L’avvento della e-Health nel supporto al caregiver

Nonostante sia stata dimostrata l’efficacia degli interventi di supporto “face-to-face”, il crescente gap tra i servizi di cura e la domanda fa emergere una richiesta di metodi alternativi per fornire un supporto e un’educazione ai caregivers informali (Boots, De Vugt, Withagen,  Kempen, & Verhey, 2016). Questo divario può essere colmato attraverso l’implementazione di programmi di intervento integrati, che beneficiano dell’impiego di dispositivi internet e percorsi di supporto eHealth.

L’impiego della tecnologia nei percorsi di supporto al caregiver hanno mostrato risultati promettenti in termini di outcome. Interventi e-learning si sono rivelati utili strumenti per il caregiver informale, in quanto i destinatari del programma hanno apprezzato la veicolazione di contenuti multimediali, favorendo l’apprendimento e rendendo il materiale più interessante. In generale, emerge una significativa soddisfazione rispetto ad una comunicazione rapida ed efficace con gli operatori sanitari, o altri caregivers tramite l’impiego di piattaforme virtuali. Inoltre, l’opportunità di personalizzare l’utilizzo dei dispositivi elettronici favorisce il monitoraggio e la comunicazione in differenti setting che coinvolgono varie figure di cura (Nai-Ching,C. & Demiris, G., 2015).

Ad oggi, diverse ricerche hanno dimostrato l’efficacia di programmi eHealth personalizzati nell’incrementare il senso di auto-efficacia e ridurre la percezione di stress e depressione (Boots De Vugt, Smeets, Kempen, & Verhey, 2017). L’utilizzo della eHealth permette infatti di agevolare processi di decision making condivisi, facilitando l’assunzione di un ruolo attivo e partecipativo nel percorso assistenziale.

L’accesso a modalità di trattamento online può costituire un vantaggio per i caregivers che presentano difficoltà nell’accesso alla rete di servizi tradizionali. L’aderenza a programmi da remoto determina, inoltre, un significativo risparmio in termini economici e temporali. Gli interventi online presentano perciò una maggiore fruibilità, soprattutto per i caregiver che necessitano di maggiore flessibilità nell’espletare ai propri compiti di cura, portando direttamente l’intervento nelle loro case e riducendo la percezione di isolamento sociale (Hopwood et al., 2018).

La combinazione di trattamenti online e offline ha mostrato risultati positivi (Wentzel., J., Van der Vaart, R., Bohlmeijer, E.T. & Van Gemert-Pijnen, J.E.W.C., 2016). In particolare, caregivers di persone con demenza ad esordio precoce hanno mostrato maggiore partecipazione a interventi web-base, poiché le generazioni più giovani presentano una maggiore propensione per contenuti online (Boots et al., 2018). Tuttavia, gli studi sull’efficacia degli interventi erogati via web hanno permesso di inviare alcuni limiti nella loro applicazione. Uno degli aspetti più sensibili è relativo all’aderenza al trattamento e all’alto rischio di drop out dei caregiver che beneficiano soltanto del trattamento online (Cox,  Schepers, Ketelaar,Van Heugten, & Visser-Meily, 2018).

Si può quindi dedurre che l’integrazione di programmi web-based debba svilupparsi sulla base di una personalizzazione dell’intervento rispetto alle caratteristiche dell’utenza e ai bisogni espressi.

Blended-care: i vantaggi del modello integrato online-offline

Nonostante tali programmi si muovano nella direzione di interventi auto-gestiti, dai risultati emerge l’importanza attribuita alla presenza di una figura di supporto, quali psicologi o altri operatori formati. Il contatto diretto con i professionisti della cura consente infatti la condivisione di dubbi o domande e la personalizzazione di suggerimenti pratici. Allo stesso modo, è possibile fornire un supporto psicologico, al fine di ridurre il senso di isolamento e favorire la comprensione dei vissuti individuali inerenti all’esperienza di caregiving.

In quest’ottica, fornire ai partecipanti un contatto con un terapeuta come supporto durante il periodo di trattamento consente di incrementare l’aderenza al trattamento stesso (Johansson, Michel, Andersson, & Paxling, 2015). Una comunicazione chiara ed adeguata alle capacità del partecipante è infatti essenziale per favorire la comprensione delle finalità e veicolare le istruzioni necessarie ad avviare il progetto.

Il programma d’intervento via web non si propone dunque come sostituzione di un percorso di supporto emotivo, pratico e psicoeducativo, ma come modalità integrata a fianco dell’intervento face-to-face. La componente online si configura come un aspetto flessibile, le cui proporzioni sono adeguate e adattate al trattamento, sulla base dei contenuti e della fase di malattia con cui deve confrontarsi il caregiver. L’aggettivo “blended” descrive infatti un modello interconnesso e non a sé stante rispetto all’intero processo di trattamento, contribuendo in modo equo all’intervento insieme agli incontri face-to-face.

Studi condotti su partners di pazienti con lesioni cerebrali acquisite (Cox et al., 2018) hanno rilevato l’importanza di costruire percorsi di trattamento personalizzati, sulla base delle specifiche problematiche riportare dai caregivers durante i colloqui con il professionista.

Un altro aspetto fondamentale riguarda la valutazione dell’adeguatezza stessa della proposta di un intervento blended. La proposta di inserire un percorso online non può infatti prescindere da una valutazione complessa del caso, analizzando i benefici potenziali ed eventuali limitazioni. Per tale motivo, occorre individuare possibili ostacoli, quali per esempio l’accesso a internet o a dispositivi elettronici, la familiarità con le modalità proposte e eventuali preferenze dell’assistito.

Studi recenti hanno sottoposto a valutazione di efficacia programmi di intervento con queste caratteristiche anche all’interno di percorsi dedicati ai caregivers di pazienti con demenza.

In particolare, il programma blended care “Partner in Balance” per i caregiver di pazienti in stadi precoci di demenza ha promosso un’attività di integrazione tra percorsi di apprendimento e supporto online e sessioni di valutazione in presenza con un professionista della salute (Boots et al., 2016; Boots et al. 2017). L’intervento si basa principalmente su principi di self-management per aiutare i caregivers a trovare un equilibrio tra l’attività di cura e la loro vita quotidiana. I partecipanti a questi interventi esprimono infatti una buona fruibilità dell’impostazione goal-setting, che consente loro di tradurre i contenuti del programma nella vita quotidiana. Tuttavia, emergono spesso difficoltà nella formulazione di obiettivi. L’aiuto di un professionista è dunque importante nella fase di individuazione di scopi specifici e misurabili. Il programma “Partner in Balance” prevede infatti un iniziale incontro con un coach personale allo scopo di far familiarizzare i partecipanti con il programma, stabilendo gli obiettivi e i moduli da condurre.

In questo modo si procede alla costruzione di moduli online tailored-made, che includono aspetti psicoeducativi, modeling comportamentale, piani di cambiamento, feedback via mail dal tutor in un periodo di 8 settimane. Inoltre, i partecipanti possono interagire tra di loro tramite un forum di discussione.

Partendo da questi modelli di intervento, è possibile creare contenuti nuovi, basandosi sull’emergenza di bisogni specifici di partner o altri familiari nel ruolo di caregiver (Bruinsma et al., 2021). Dalla valutazione di outcome emerge l’importanza attribuita alle sessioni face-to-face, come elemento fondamentale per la costruzione di una relazione con il singolo partecipante.

La presenza di coach familiare, con cui si è stabilito un contatto diretto, ha facilitato l’impegno nel completamento dei moduli e ha consentito una maggiore libertà di espressione e condivisione nei contesti online. Inoltre, questo elemento in presenza offre possibilità di riconoscimento per i partecipanti, incrementando la consapevolezza rispetto ai propri comportamenti ed emozioni.

L’analisi dei bisogni del caregiver: un modello personalizzato

La costruzione di un intervento personalizzato in base ai bisogni del caregiver promuove l’acquisizione di un maggior senso di competenza nella gestione della persona con demenza. Di conseguenza, è possibile favorire una percezione positiva del proprio ruolo di cura, focalizzandosi sull’apprendimento di competenze e l’esplorazione di risorse individuali e di comunità.

Alcuni studi si sono focalizzati sull’individuazione degli elementi maggiormente significativi per i caregivers  di pazienti con demenza che hanno partecipato a programmi di supporto online (Hopwood et al., 2018). Dai risultati è emerso che il supporto dei pari fornito dai partecipanti online ha rappresentato uno dei temi maggiormente condivisi. Alcuni programmi, per esempio, offrono l’opportunità di sviluppare un network informale di supporto online, attraverso il quale condividere contatti e informazioni pratiche riguardo alla cura dell’individuo in uno contesto di mutuo-aiuto. Un approccio simile, impiegando modalità di videoconferenza, ha permesso di facilitare incontri di gruppo online una volta a settimana. I gruppi di incontro virtuale sono stati diretti da un professionista psicologo, consentendo lo scambio comunicativo tra i partecipanti e la veicolazione di informazioni sulla demenza.

Questi studi (ibidem) suggeriscono che programmi che comprendono l’interazione di gruppo e possibilità di contatto visivo tra i partecipanti hanno una maggiore efficacia rispetto all’impiego di chat, forum o semplice messaggistica nell’incrementare lo stato di benessere e percezione di efficacia dell’intervento. L’analisi qualitativa dei dati ha infatti messo in luce diversi benefici, tra cui un senso di comprensione attraverso l’esperienza condivisa, gratificazione nell’aiutare gli altri, riduzione dell’isolamento sociale.

Un altro aspetto significativo degli interventi online include la veicolazione di informazioni, che appare essere maggiormente efficace se calibrata sulla base dei bisogni informativi individuali.

All’interno dei programmi di supporto è importante includere moduli di sviluppo di abilità intrinseche al ruolo di cura. Tra queste le abilità di decision making sembrano avere una particolare importanza e spesso risultano carenti o non efficaci nella gestione complessa del paziente con demenza. Alcuni interventi hanno proposto strumenti a supporto di questa funzione, favorendo modalità di identificazione delle priorità nel processo decisionale (Hopwood et al., 2018).

Il carattere cronico e progressivo della demenza determina tuttavia l’emergere di bisogni e competenze differenti in base ai vari stadi della malattia. Per tale ragione, programmi d’intervento integrati efficaci devono essere individualizzati e coerenti con le problematiche relative a una determinata fase del processo di cura.

Gli interventi negli stadi precoci di malattia possono preparare i caregivers ai loro compiti futuri, in una fase in cui lo stress e il carico assistenziale sono relativamente bassi (Boots et al., 2017). Questi programmi si sono dimostrati efficaci nel ridurre lo stress, incrementare il senso di auto-efficacia e ritardare l’istituzionalizzazione del paziente. L’individuazione dei bisogni del caregiver basati sulle situazioni individuali e la facilitazione nel processo di adattamento favoriscono dunque una gestione positiva del processo di cura (Boots et al, 2016; Boots et al., 2017; Cox et al, 2017).

La rivoluzione digitale consente di promuovere un’azione proattiva da parte dei familiari, facilitando la condivisione dei processi decisionali e l’accesso a fonti di informazione personalizzate (Nai-Ching & Demiris, 2015). Pertanto, si può concludere che l’uso integrato della eHealth si prefigura come un’opportunità di offrire continuità nelle cure e di sviluppo di una rete di intervento interconnessa a supporto del ruolo del caregiver.

 

L’importanza della figura dello Psicologo nei percorsi di inclusione sociale e lavorativa di giovani adulti con disabilità

L’importanza di offrire un sostegno psicologico alla persona con disabilità permetterà di accettare la propria disabilità e trovare dentro sé stessi il proprio talento, ovvero tutti quegli aspetti legati alla propria disabilità che potranno così iniziare ad essere considerati come dei punti di forza e non delle limitazioni.

 

 Prima di cimentarmi nella descrizione di come un servizio di sostegno psicologico possa offrire benefici all’interno di tutti quei servizi che promuovono l’integrazione sociale e lavorativa dei ragazzi con disabilità, è opportuno soffermarsi su chi è lo Psicologo poiché, ancora oggi, ruotano moltissimi pregiudizi intorno a questa figura professionale.

Lo Psicologo è colui che dopo 5 anni di studi universitari ha svolto un tirocinio di un anno e, successivamente ad un esame, si è abilitato per poter esercitare la professione. Egli interviene all’interno di diversi ambiti specifici per conoscere, migliorare e tutelare il benessere psicologico e la salute mentale di diverse tipologie di persone (bambini, adulti, anziani).

La professione stessa di Psicologo è ordinata dalla Legge n.56 del 18/02/1989 ed è disciplinata dal Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. Alcuni ambiti professionali ricoperti dallo Psicologo sono oggi molto noti, come ad esempio il disagio mentale ed emotivo, la tutela dei minori, le varie forme di dipendenza, la selezione del personale all’interno delle aziende… Altri, come quello dell’inclusione socio-lavorativa, sono meno conosciuti.

Il bagaglio di conoscenze, competenze e capacità formali che lo Psicologo clinico acquisisce, unitamente alle molteplici esperienze non formali, come può essere quella del volontariato o del Servizio Civile, offrono la possibilità di diventare una risorsa fondamentale per tutti quei giovani che, in difficoltà e con difficoltà, si trovano in una fase delicata e di passaggio dal mondo della scuola a quello del lavoro.

Con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 13/12/2006, tali diritti vengono collocati per la prima volta all’interno dei diritti umani e come tali, vengono considerati dalla collettività. La Convenzione ONU ci aiuta a guardare la disabilità da un punto di vista bio-psico-sociale (Engel, 1977) come paradigma di riferimento della classificazione internazionale della disabilità, introdotta nel 2002 con ICF (il documento sulla Classificazione Internazionale del Funzionamento). L’intervento è stato così rivolto non alla singola persona ma alla persona nel suo ambiente di vita. Sulla spinta della normativa internazionale ed europea in materia di disabilità, anche l’ordinamento italiano istituì la Legge 68/99 riguardante le Norme sul diritto al lavoro dei disabili che promuove l’inserimento e l’integrazione delle persone con disabilità nel mondo del lavoro attraverso il collocamento mirato. Questa Legge prevede il reale incontro tra capacità lavorative della persona con disabilità e le esigenze delle imprese. Lo strumento ICF ha rappresentato, dunque, una rivoluzione in tal senso poiché prendeva per la prima volta in considerazione i fattori contestuali e ambientali in cui la persona si trovava a vivere, ponendo sullo stesso piano sia gli aspetti riguardanti la loro salute, come proposto dal modello medico, sia gli aspetti di partecipazione sociale, il tutto in relazione con i fattori ambientali.

All’interno di questo ventaglio, lo Psicologo interviene con uno scopo comune: fornire una visione globale della persona e non della malattia, focalizzandosi sullo sviluppo delle sue abilità in un contesto ambientale favorevole.

 Lo Psicologo ha il mandato di mettere al centro di questi ragazzi la loro soggettività, la loro complessità in un’ottica dinamica ed aperta alla vita adulta. Deve ascoltare e dare spazio alla loro storia, tutelare il diritto a raccontarsi ed esprimersi, cercando di comprendere il modo in cui è stata ed è vissuta da loro la disabilità e cosa questo ha rappresentato nel contesto sociale e culturale nel quale ci troviamo. Questo è vero sia per il ragazzo, sia per la sua famiglia (genitori, fratelli) ai quali deve essere offerta la possibilità di essere ascoltati, compresi e accompagnati nei momenti di vita dell’intero sistema familiare, soprattutto quelli legati alla transizione e allo svincolo. Avere uno spazio di contenimento permetterà loro di parlare delle difficoltà che stanno incontrando all’interno di un setting protetto, privo di giudizio, che potrebbe avere tra gli obiettivi quello di accompagnare i familiari verso una consapevolezza di assunzioni di responsabilità. Un aspetto importante e funzionale anche secondo l’ottica di una crescita personale del giovane adulto.

Condivido il pensiero di Alain Goussot, rispetto a quanto riportato nel suo libro Il disabile adulto. Anche i disabili diventano adulti e invecchiano (2009):

La costruzione del progetto di vita non può ridursi né a compilare delle schede, né a diagnosticare dall’esterno, né a dettare all’altro quello che è bene per lui o per lei. Il progetto di vita esiste se vi è effettivamente vita; se vi è contatto vitale tra la persona disabile e gli operatori che lo seguono, se vi è contatto vitale tra la persona disabile e il suo contesto di vita; se la persona disabile stessa è trattata come soggetto della propria storia e non come oggetto di una storia scritta da esperti.

L’importanza di offrire un sostegno psicologico alla persona con disabilità permetterà di accettare la propria disabilità e trovare dentro sé stessi il proprio talento, ovvero tutti quegli aspetti legati alla propria disabilità che potranno così iniziare ad essere considerati come dei punti di forza e non delle limitazioni. Essere affiancati da uno Psicologo permetterà al giovane adulto di sperimentare e lavorare su di sé, crescere e sviluppare un’autonomia personale.

Per concludere, lo Psicologo ha un importante ruolo sia nel lavoro di rete con gli altri servizi territoriali, sia nel campo della disabilità, oltre che nella cura e nel prendersi cura: aspetto fondamentale, se non indispensabile, per provare ad ottenere dei risultati quanto meno soddisfacenti in termini di integrazione sociale e lavorativa del giovane adulto e consapevolezza delle proprie potenzialità.

 

Le variazioni degli stati cognitivi ed affettivi nel Disturbo Disforico Premestruale

Il Disturbo Disforico Premestruale (Premenstrual Dysphoric Disorder; PMDD) determina un distress clinicamente significativo e una marcata compromissione del funzionamento psicosociale (Lanza di Scalea & Pearlstein, 2019).

 

Il Disturbo Disforico Premestruale (PMDD) è definito dalla presenza di almeno cinque sintomi durante la tarda fase luteale del ciclo mestruale, di cui almeno uno dei seguenti quattro sintomi affettivi: labilità emotiva, irritabilità, umore depresso o ansia (American Psychiatric Association, 2013).

Alla luce dell’elevata comorbilità e della sovrapposizione dei sintomi del Disturbo Disforico Premestruale con la depressione maggiore e i disturbi d’ansia, è stato ipotizzato che vi fossero dei fattori di vulnerabilità condivisi. Uno di questi potrebbe essere la ruminazione, definita come la tendenza ad analizzare passivamente e ripetutamente i propri problemi e le proprie preoccupazioni, senza intraprendere azioni (Nolen-Hoeksema & Watkins, 2011). Ricerche precedenti hanno mostrato che l’impiego di un pensiero ruminativo, in risposta all’umore negativo, rappresenta un fattore di rischio stabile per i disturbi mentali, specialmente per la depressione (Lyubomirsky et al., 2015).

Seguendo una prospettiva transdiagnostica, dunque, anche i processi cognitivi disadattivi come la ruminazione potrebbero giocare un ruolo nell’eziologia e nel mantenimento del Disturbo Disforico Premestruale, ma ciò non è ancora stato verificato.

Precedenti studi hanno trovato che le donne con disturbi premestruali tendono a utilizzare strategie di coping disadattive come la ruminazione (Craner et al., 2014), l’impulsività comportamentale (Petersen et al., 2016), la mancanza di accettazione delle risposte emotive (Reuveni et al., 2016) e la catastrofizzazione (Eggert et al., 2016).

Uno studio di Craner et al. (2015) ha mostrato che in risposta al decremento del tono dell’umore (Negative Affect; NA), indotto sperimentalmente, le donne con disturbi premestruali reagivano mostrando una maggior attenzione su di sé e alti livelli di ruminazione, rispetto ai controlli. Gli autori hanno ipotizzato che la tendenza ad utilizzare uno stile di coping focalizzato sulle emozioni non faccia altro che aumentare i sintomi emotivi. In accordo con quanto appena esposto, un recente studio ha mostrato come l’utilizzo di strategie di coping attivo fosse associato a un sollievo dei sintomi nel Disturbo Disforico Premestruale (Weise et al., 2019).

Attualmente, però, non sono state indagate le relazioni, momento per momento, tra le cognizioni e l’umore durante la vita quotidiana nelle donne con Disturbo Disforico Premestruale. Al fine di indagare tali fenomeni, l’inquadramento ecologico istantaneo (Ecological Momentary Assessment; EMA) potrebbe essere il metodo più appropriato. Difatti, le valutazioni in tempo reale consentirebbero di indagare la variabilità dell’umore e delle cognizioni momentanee e la loro relazione temporale (Trull & Ebner- Priemer, 2013).

È bene sottolineare che esiste una crescente letteratura sull’EMA che esamina gli effetti dei processi cognitivi momentanei sull’umore e viceversa, in altre popolazioni cliniche. Per esempio, la ruminazione momentanea ha predetto i successivi livelli di NA (Negative Affect) in campioni clinici (Kircanski et al., 2018). La NA è stata a sua volta seguita da un aumento dei livelli di ruminazione, suggerendo una relazione reciproca tra queste due variabili. Inoltre, gli effetti dei processi cognitivi momentanei sulle emozioni positive sono stati documentati nel contesto della mindfulness. Un recente studio di Timm e colleghi (2018) ha dimostrato che il training di mindfulness ha portato a un miglioramento dell’umore positivo (Positive Affect; PA) e dell’accettazione di sé in pazienti depressi.

A seguito di queste scoperte, ruminazione e NA, così come auto-accettazione e PA, sembrano essere strettamente legati nella vita quotidiana. Data la forte componente affettiva presente nel Disturbo Disforico Premestruale, appare rilevante indagare l’influenza dei processi cognitivi sull’umore. Basandosi sulla letteratura esistente, Beddig e colleghi (2020) hanno reclutato 122 donne, proponendosi di esplorare le variazioni degli stati affettivi e cognitivi, legate al ciclo mestruale, durante la vita quotidiana e di esaminare le associazioni temporali tra questi stati in donne con PMDD e controlli sani.

I dati EMA hanno mostrato che le donne con PMDD manifestano un considerevole deterioramento dell’umore durante la fase luteale del ciclo mestruale. Inoltre, esse hanno al contempo riportato i più alti livelli di ruminazione e i più bassi livelli di auto-accettazione durante la suddetta fase mestruale. Al contrario, i controlli non hanno mostrato alcuna variazione ciclo-dipendente né a livello dell’umore e né delle cognizioni.

Inoltre, si è visto come nella tarda fase luteale le donne con Disturbo Disforico Premestruale hanno reagito agli alti livelli di ruminazione con un aumento dei livelli di NA. Pertanto, la ruminazione sembra avere un particolare effetto sull’umore verso la fine del ciclo in queste donne. Concentrandosi sulle cognizioni di stato, il presente studio ha mostrato che, in risposta a stati negativi, le donne con Disturbo Disforico Premestruale tendono a ruminare più frequentemente dei controlli sani.

Inoltre, i livelli momentanei di bassa auto-accettazione hanno portato a una maggiore diminuzione della PA (Positive Affect) e viceversa nelle donne con Disturbo Disforico Premestruale rispetto ai controlli. Queste osservazioni indicano inoltre una maggiore sensibilità delle donne affette da Disturbo Disforico Premestruale agli effetti dei pensieri negativi o della mancanza di pensieri positivi di auto-accettazione.

In generale, i risultati rafforzano le ricerche precedenti che evidenziano il ruolo dei fattori psicologici nei disturbi premestruali (Craner, Sigmon, & Young, 2016; Weise et al., 2019).

I risultati dello studio potrebbero essere rilevanti per le prospettive terapeutiche del Disturbo Disforico Premestruale. Difatti, lo studio ha rivelato che le donne con PMDD sembrano essere più inclini a utilizzare la ruminazione come una strategia di regolazione emotiva, durante le fasi del ciclo ma, al contempo, alti livelli di ruminazione sembrano innescare il deterioramento dell’umore, in particolare nella tarda fase luteale. Va da sé che la ruminazione potrebbe rappresentare un potenziale obiettivo terapeutico per ridurre il peso del PMDD.

A tal proposito, gli interventi basati sulla mindfulness sembrano essere promettenti (Petersen et al., 2016). Difatti, studi effettuati su differenti campioni clinici (Timm et al., 2018) hanno mostrato che il training mindfulness riduceva i pensieri negativi e migliorava quelli positivi, nonché l’umore.

In parallelo, uno studio ha esaminato gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale online per il Disturbo Disforico Premestruale ed ha dimostrato che l’utilizzo di strategie di coping attivo, nella gestione dei sintomi premestruali, mostrava migliori risultati, sottolineando così l’importanza di intervenire sulle suddette strategie nel trattamento delle donne affette da Disturbo Disforico Premestruale (Weise et al., 2019), affinché la qualità di vita di queste pazienti possa essere migliorata.

 

Il trasloco felice. Manuale di sopravvivenza (2021) di Ludovica Amat – Recensione del libro

Ludovica Amat, con alle spalle tredici traslochi di casa e quindici di ufficio, ci descrive nel libro Il trasloco felice l’approccio che ha sviluppato e che le permette di attraversare questa esperienza senza esserne sopraffatta, bensì sentendosi alla fine dotata di maggiori strumenti.

 

Eppure, se la vita porta a spostarsi, perché non
dovrei cercare senso e bellezza anche nella fatica di quel
viaggio che mi tocca in sorte? Io li ho trovati.

 Il trasloco è uno degli eventi stressanti a cui si va più frequentemente incontro per molteplici ragioni. Cambiare casa e, in particolare, cambiare città implica uno sforzo di adattamento, che può portare a senso di affaticamento, ansia e disorientamento. Tuttavia ogni cambiamento porta in sé anche la possibilità di rinnovamento e di dare il via a una nuova fase della propria vita.

Come poter gestire lo stress da trasloco e sfruttare al meglio le potenzialità di questo evento?

Ludovica Amat, con alle spalle tredici traslochi di casa e quindici di ufficio, ci descrive in questo libro l’approccio che ha sviluppato e che le permette di attraversare questa esperienza senza esserne sopraffatta, bensì sentendosi alla fine dotata di maggiori strumenti.

Durante gli ultimi, ho capito una cosa importante: se proprio non sei felice di traslocare, in quel luogo, in quella casa, in quel quartiere o per quel motivo, puoi fare in modo che sia il trasloco in sé a essere un’esperienza felice.

Attraverso la sua esperienza e la testimonianza di altre persone che ci raccontano la storia dei loro traslochi, Ludovica Amat ci offre il suo metodo del trasloco felice, ossia una serie di utili indicazioni e strategie per fare in modo che non venga solo percepito come uno spostamento da un luogo ad un altro, ma come un vero viaggio anche all’interno di sé stessi. Le istruzioni offerte non hanno la pretesa di essere regole rigide da seguire, ma l’intento è quello di fornire spunti per costruire un modo condivisibile di guardare al trasloco.

Come prima cosa ho imparato che tutto comincia da me: anziché farmi schiacciare dall’idea di un trasloco-gigante, devo abbracciarlo, anzi, arrampicarmi sulle sue spalle, per dirigerlo.

I passi da seguire e gli strumenti di cui dotarsi vengono descritti in ordine cronologico nel rispetto dei tempi idonei ad ogni fase e, oltre a consigli su come organizzare al meglio tutti gli aspetti pratici legati al trasloco, ampio spazio viene dato anche a suggerimenti su come affrontare le implicazioni psicologiche di questo cambiamento, in particolare su come potersi separare con affetto e gratitudine dalla vecchia casa e poter abbracciare il nuovo ambiente che ci attende.

 Non a caso la condivisione del metodo inizia con un “esercizio-gioco che rafforza l’animo di fronte al trasloco”, capace di dare la giusta dose di leggerezza e coinvolgimento. La prima tra le azioni preliminari di ogni trasloco è, infatti, quella di discernimento e scelta, che implica il guardare con orgoglio alla strada percorsa e con fiducia al nuovo che si dispiega davanti, scegliendo quali oggetti portare con sé (“i compagni di viaggio”), quali lasciare andare perché hanno fatto il loro tempo nel nostro cuore (preferibilmente potendoli regalare) e quali zavorre buttare. La scelta dei “compagni di viaggio” diventa quindi come una caccia al tesoro, alla scoperta/ricerca dei “testimoni della nostra identità”, che possano essere degli alleati in questa fase di passaggio, capace di attivare creatività artistica e organizzativa “dimostrando che, pur con un altro vestito, si resta noi stessi, come prima, spesso più di prima”.

Per chi invece non ha possibilità di spostarsi, ma vuole godere dei benefici che un tale cambiamento comporta, esiste anche “il trasloco del colibrì”, che consiste nel variare la disposizione di mobili e/o la destinazione di stanze, dando un nuovo aspetto al proprio ambiente di vita.

Il trasloco felice. Manuale di sopravvivenza, oltre ad essere un utile e pratico vademecum, è anche un libro che parla del trasloco come evento umano in tutte le sue sfaccettature: un cambiamento che “è un po’ come nascere”.

 

Il pregiudizio di conferma

Ci illudiamo di essere persone che utilizzano sempre la ragione, ma la realtà dei fatti è che molti pregiudizi guidano, spesso inconsapevolmente, le nostre azioni; uno di questi è sicuramente il “pregiudizio di conferma” (in inglese “confirmation bias”).

 

Definizione

Ma cos’è questo “pregiudizio di conferma”?

In generale, possiamo definire come tale la “tendenza a cercare evidenze che confermano le nostre precedenti conoscenze e credenze, piuttosto che cercare prove che negano tali conoscenze e credenze” (Martin Jones, Robert Sugden, 2001; Julie A. Nelson, 2014; Jonathan D. Nelson, Craig R.M. McKenzie).

Ciò significa che tendiamo più a cercare elementi che convalidano quanto sappiamo, piuttosto che a cercare prove che negano le nostre cognizioni; questo sia nella fase di ricerca delle evidenze, che nella fase di valutazione delle medesime.

Ad esempio, se io sono convinto che una certa dieta dimagrante sia efficace, nel momento in cui andrò a cercare maggiori informazioni, tenderò a selezionare solo gli elementi confermativi della mia opinione; però, se per ipotesi vengo a contatto con un qualcosa che va contro la validità di quella dieta (ad esempio il parere di un esperto), di sicuro tenderò a minimizzare tale evidenza.

I perché del pregiudizio di conferma

Ma perché la nostra mente ci porta ad agire in questo modo? Siamo così irrazionali da non riuscire a capire i limiti della nostra conoscenza?

Innanzitutto, è da dire che la nostra mente ci porta maggiormente a ricordare quello che è coerente con le nostre conoscenze precedenti (Jon S. Byrd, 2006).

In ogni caso, un meccanismo del genere non è sempre negativo. Ciò in quanto se io ho delle conoscenze corrette (magari su un qualcosa di oggettivo), è giusto che io difenda il mio punto di vista.

Peraltro, può anche accadere che io abbia dei punti di vista totalmente irrazionali od oggettivamente non sostenibili, ed insista nel sostenere le mie posizioni, anche contro ogni prova. In questo caso, quindi, il pregiudizio di conferma diventa una patologia e non un semplice “meccanismo di difesa” della nostra mente (Maria Lewicka, 1998).

La (non) correlazione con l’intelligenza

Ma possiamo dire che chi è guidato da questo pregiudizio sia una persona stupida o poco ragionevole?

I vari studi effettuati hanno messo in luce come il pregiudizio di conferma non abbia nulla a che fare con l’intelligenza (Uwe Peters, 2020). Se quindi ci sorprendiamo a ragionare con questo pregiudizio non siamo irrazionali, ma semplicemente siamo poco attenti agli inganni della nostra mente (ma il fatto di diventarne consapevoli è già un passo avanti!)

Possibili “lati buoni” del pregiudizio

Quindi possiamo dire che il pregiudizio di conferma è sempre negativo? La domanda non ha una risposta valida per ogni situazione.

Se pensiamo ad alcune pagine della storia dell’umanità possiamo tranquillamente affermare che esso sia assolutamente deleterio e pericoloso.

Si pensi ad esempio alla caccia alle streghe che ebbe luogo nell’Europa occidentale tra il 15° ed il 17° secolo (Raymond Nickerson, 1998). Durante quel periodo furono uccise migliaia di presunte streghe, in generale a seguito di processi sommari.

Nei predetti processi, il pregiudizio di conferma si manifestava nel senso che qualunque risultanza veniva interpretata come confermativa della natura di strega dell’accusata.

Altre volte, invece, il pregiudizio di conferma ha addirittura portato a progressi nella conoscenza dell’umanità. Vi era quindi uno scienziato con la “testa dura” che, sfidando i paradigmi dell’epoca, dimostrava qualcosa di totalmente nuovo ed oggettivo (Raymond Nickerson, 1998).

Si pensi a Galileo Galilei, il quali aderì al modello eliocentrico di Copernico con la Terra che gira intorno al Sole, dimostrando il modello medesimo e gettando le basi del metodo scientifico.

Talvolta il pregiudizio di conferma può portare anche a conseguenze positive, come per esempio nel caso di un professore che creda (falsamente) che un suo allievo sia particolarmente dotato e quindi lo incoraggia in continuazione. Tali continui incoraggiamenti possono quindi portare ad un effettivo miglioramento dello studente nella specifica materia (Stephanie Madon, Lee Jussim, Jacquelynne S. Eccles, 1997)

Il pregiudizio di conferma nelle decisioni di gruppo

In linea generale, i vari studi condotti hanno visto che “uscire” dal pregiudizio di conferma è veramente difficile (Uwe Peters, 2020; Jon S. Byrd, 2006).

Quanto detto innanzitutto per i meccanismi della nostra mente.

Ulteriori situazioni in cui le persone possono essere “intrappolate” (senza rendersene conto) in propri pregiudizi, è quando frequentano persone con le loro stesse credenze ed opinioni (Uwe Peters, 2020; Jon S. Byrd, 2006). In questo modo non c’è confronto sulle opinioni dei singoli, in quanto specifiche credenze e valori sono ampiamente condivisi.

Ma cosa accade nel momento in cui un gruppo di persone si trova a condividere opinioni diverse e contrastanti? È stato visto che, se vi è un vero confronto e vi è la (vera) volontà comune di “raggiungere la verità”, il risultato sarà sicuramente positivo (Hugo Mercier, Dan Sperber, 2011).

Rimedi possibili?

Ma come possiamo rimediare a queste nostre insufficienze? Come possiamo ragionare in maniera efficace ed indipendente e fare in modo che il pregiudizio di conferma non ci condizioni? (Johan E. Kortelling, Anne-Marie Brouwer, Alexander Toet, 2018).

Ovviamente non c’è una formula magica.

Quando stiamo per prendere decisioni importanti dobbiamo chiederci: perché sto pensando di agire in questo modo? Sto valutando sulla base di elementi oggettivi o sto valutando tutto in base alle mie credenze? E quanto sono corrette le mie credenze?

Il cammino verso l’autocritica è sicuramente lungo, ma come diceva il filosofo cinese Lao Tzu, “Un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo”.

 

Il ritiro sociale negli adolescenti (2019) a cura di Matteo Lancini – Recensione del libro

Il libro Il ritiro sociale negli adolescenti ci propone una lettura in chiave psicodinamica dell’utilizzo in età adolescenziale della rete, suggerendoci come riconoscere ed affrontare sintomi di malessere o disagio.

 

Grazie alla loro esperienza di oltre un decennio in ricerca, formazione e clinica in ambito adolescenziale, gli autori ci forniscono una prospettiva sui più recenti – noti e meno noti – fenomeni cui vanno incontro i giovani in rete: cyberbullismo, sexting, gaming, relazioni virtuali, cybersuicidio e ritiro sociale. Senza però mettere da parte gli usi adattivi di Internet e le funzioni e i bisogni cui può rispondere efficacemente, ci propongono approfondimenti e spunti per intercettare eventuali criticità e ci suggeriscono possibili linee di intervento.

Lancini e colleghi affiancano il lavoro di ricerca a quello clinico presso l’Istituto Minotauro di Milano, dove hanno sviluppato modelli di intervento, in parte esposti in questo libro, in particolare, linee guida per il trattamento di ragazzi che manifestano un ritiro sociale.

La solitudine di una generazione iperconnessa

Con questa frase gli autori ci invitano ad una prima riflessione. Siamo sicuri che essere perennemente connessi voglia dire essere veramente con gli altri?

Social network, chat, servizi di streaming, videogiochi e tanti altri: gli ambienti virtuali sono tantissimi ed in tutti si può avere un proprio spazio personale così come la condivisione di esperienze. Pensiamo per esempio ad Amazon Party che consente di vedere una serie tv o un film insieme ad altri nello stesso momento, ognuno dalla propria casa.

Siamo veramente con loro o siamo soli con qualcun altro?

La parola iperconnessione porta alla mente anche la quantità. Ragionare solo contando il numero di ore online poteva aver senso fino a qualche anno fa, quando un parametro quantitativo – il numero di ore appunto – era già un buon indizio per definire patologico l’uso di Internet.

Adesso che essere connessi è parte integrante delle nostre vite e – soprattutto a seguito della pandemia – il processo di digitalizzazione ha subito una notevole accelerazione, la questione è definitivamente passata dal quanto al come, dalla quantità alla qualità.

Come siamo online? E, soprattutto, come sono online gli adolescenti? Che funzione hanno le esperienze virtuali per loro? Come sostengono la realizzazione dei compiti di sviluppo? Che significato hanno?

Adolescenti in rete, non solo ritiro sociale

Da circa quindici anni, con attività di formazione, ricerca e pratica clinica, l’équipe dell’Istituto Minotauro si interessa di adolescenti, Internet e dell’impatto che le nuove tecnologie possono avere sullo sviluppo.

Il libro di Lancini e del gruppo di lavoro fa tesoro di questa esperienza e ci porta attraverso quattro sezioni ad approfondire la definizione clinica di disturbo da dipendenza da Internet, a conoscere i principali ambienti virtuali, le caratteristiche e le particolarità del ritiro sociale e, infine, ci porta a riflettere su cosa possiamo fare per prevenire ed agire in queste circostanze.

La prima parte si apre con la descrizione più recente dell’Internet addiction disorder in modo da chiarire al lettore cosa a livello nosografico distingue l’utilizzo patologico da quello che non lo è; a seguire, gli autori illustrano una carrellata dei principali ambienti della vita virtuale, dai videogiochi ai social network. Il testo è ricco di dati aggiornati con le più recenti statistiche riguardo tutti i fenomeni trattati.

La seconda sezione del libro approfondisce il significato evolutivo della sovraesposizione digitale per lo sviluppo identitario, con particolare attenzione a fenomeni quali sexting, cyberbullismo e selfie death.

Il ritiro sociale occupa la terza parte del libro. Qui viene presentato il modello di inquadramento e trattamento del ritiro sociale in adolescenza, corroborato da casi clinici come esemplificazione della pratica clinica.

Infine, l’ultima parte chiude il libro con spunti di riflessione sulla responsabilità delle figure adulte nel riconoscere e prendere in carico situazioni di solitudini iperconnesse: l’invito è quello di essere più consapevoli di come l’educazione e la formazione dei più piccoli passi anche dagli adulti a loro più vicini, in famiglia come a scuola, adulti che fungono da modelli di identificazione anche per quanto riguarda l’utilizzo dei mezzi digitali.

D’altra parte, come non si può attribuire solo agli adulti di riferimento la funzione educativa, così non si può delegare solo ad Internet ed alle tecnologie la formazione: si tratta di molteplici elementi che concorrono insieme nel co-creare il contesto emotivo ed educativo.

In questa sezione sono riportati anche alcuni interventi realizzati dal gruppo di lavoro dell’Istituto Minotauro negli ultimi anni e vengono mostrate alcune esperienze in ambito scolastico.

Una responsabilità condivisa

Non si tratta quindi di demonizzare un singolo agente o attività; l’obiettivo è incrementare la consapevolezza delle nuove opportunità che offre la tecnologia, individuare e valorizzare le risorse, ridurre i rischi per aiutare i più giovani nell’uso adattivo degli ambienti virtuali.

Cambiano le epoche e i mezzi a disposizione ma non mutano i compiti evolutivi che ogni adolescente si trova a dover affrontare: sta agli adulti accompagnarli nel percorso di crescita. Spetta alle figure adulte di riferimento guidare i giovani nel processo di rielaborazione delle esperienze virtuali, individuare segnali di crisi o dipendenza, dare un senso coerente ai loro vissuti.

Il legame tra genetica, attaccamento, relazioni in età adulta e comportamento sociale online – Report dall’European Conference on Digital Psychology – ECDP 2021

Il Dott. Bonassi e il suo gruppo di ricerca hanno analizzato l’interazione tra fattori genetici e fattori ambientali sullo sviluppo sociale, pensando a un modello più complesso, aggiungendo lo studio dei comportamenti sociali online prendendo in considerazione i social network.

 

Sappiamo quanto l’intreccio tra genetica e ambiente abbia un ruolo fondamentale nel determinare il nostro comportamento. Geni, cure genitoriali, esperienze di vita più o meno precoci ci possono dire molto su come agiamo verso noi stessi e gli altri. Ma in un mondo in continua evoluzione, con i rapporti che si trasformano a ritmi rapidissimi, parallelamente all’avvento dei nuovi media e dei social network in particolare, quale ruolo ricoprirà l’interazione genitica-ambiente nel determinare i rapporti interpersonali?

Durante la prima conferenza europea di Psicologia Digitale, il dott. Andrea Bonassi (Fig. 1) ha esposto un’interessante ricerca sul tema, in particolare su come la predisposizione genetica, le cure precoci e relazioni in età adulta possano essere associate al comportamento sociale online, nello specifico su Instagram.

Social network effetti dell interazione tra fattori genetici e attaccamento Fig 1

Fig. 1: Dott. Andrea Bonassi

Il relatore inizia il suo intervento ricordando ai presenti la centralità dei polimorfismi a singolo nucleotide dei geni recettori dell’Ossitocina e della Serotonina nei processi di socializzazione, per poi illustrare le più importanti ricerche sul rapporto geni-cure genitoriali e conseguenze sul comportamento sociale, non limitandosi soltanto alle cure genitoriali ma estendendo la disamina delle precedenti ricerche anche sugli effetti dell’attaccamento adulto sulla socialità. Eppure, come anticipato, il comportamento sociale si sta trasformando e le interazioni online si fanno sempre più frequenti nella vita di tutti noi; la genetica e l’ambiente che ruolo giocano in tutto ciò?

Il Dott. Bonassi e il suo gruppo di ricerca hanno così analizzato l’interazione fattori genetici e fattori ambientali (nello specifico legami genitoriali e attaccamento adulto) sullo sviluppo sociale, pensando a un modello più complesso, aggiungendo lo studio dei comportamenti sociali online. Quindi l’interazione tra i fattori genetici e il legame genitoriale potrebbe avere un impatto sul comportamento sociale adulto della persona sia online che offline.

Le misure utilizzate per indagare la qualità dell’attaccamento genitore-figlio e dell’attaccamento adulto sono state rispettivamente il Parental Bonding Instrument (che valuta la cura materna, l’iperprotezione materna, la cura paterna e l’iperprotezione paterna) e il Questionario sullo stile di attaccamento (che valuta i livelli di fiducia, disagio per la vicinanza, relazioni secondarie, bisogno di approvazione, preoccupazione per le relazioni). I fattori genetici presi in esame sono stati i polimorfismi all’interno delle regioni rs2254298 (omozigoti G / G, portatori A), rs53576 (omozigoti A / A, portatori G) del gene del recettore dell’ossitocina e della regione rs25531 (omozigoti T / T , portatore C) del gene trasportatore della serotonina. Secondo l’ipotesi della sensibilità, una componente genetica può essere un fattore di rischio o di protezione del disagio sociale nelle relazioni, come mostrato dall’immagine:

Per studiare il comportamento sociale online i ricercatori si sono concentrati sul numero di following, sul numero di post pubblicati e sul numero di followers. È stato inoltre misurato l’indice di desiderabilità sociale (DS), dato dal rapporto tra follower e following, che fornisce un’indicazione della rete dei contatti su IG e la presenza di una maggiore ricerca di approvazione sociale.

I ricercatori hanno trovato un’interazione gene-ambiente per rs2254298 nel numero di post di Instagram. In linea con le aspettative iniziali, i partecipanti con un fattore di rischio genetico (portatori A) e un passato di scarsa cura paterna hanno prodotto meno post su Instagram rispetto a quelli senza questo fattore di rischio (genotipo G / G). Tali comportamenti online sono considerati meno adattivi in quanto mossi dall’evitamento del giudizio degli altri o dallo scarso interesse ad autopromuoversi o a ricercare legami sociali.

Anche per l’indice di Desiderabilità Sociale è emersa un’interazione significativa tra iperprotezione materna e rs2254298. È interessante notare che lo stesso modello è emerso tra l’assistenza materna e rs25531 sull’indice di Desiderabilità Sociale. In particolare, gli utenti genotipicamente più sensibili alle influenze ambientali hanno mostrato una tendenza in aumento nella DS se in infanzia hanno sperimentato un’assistenza materna positiva. Al contrario, è stato osservato un trend decrescente dello stesso indice per coloro che hanno ricordato una relazione negativa con la madre.

Ecco che si aggiunge così un’ulteriore domanda di ricerca: esiste un’interazione gene ambiente nel caso delle relazioni coi pari in età adulta e che effetto avrebbe sul comportamento online? L’ipotesi di partenza è che gli utenti con rischio genetico, ma che hanno vissuto relazioni positive con i pari potrebbero manifestare una maggiore attività sociale su IG. Per quanto riguarda l’ossitocina, i dati preliminari farebbero pensare a una leggera influenza di questa sull’indice di DS, mentre per quanto riguarda la serotonina, si è visto che gli omozigoti T / T che hanno segnalato un alto livello di fiducia nei confronti dei pari in età adulta, avrebbero un numero maggiore di followings su Instagram rispetto ai portatori C.

Sebbene la ricerca sul tema continui, si può da questi dati trarre delle prime conclusioni interessanti: una relazione positiva con i genitori, così come un alto livello di fiducia nei confronti dei coetanei, potrebbe influire sul modo in cui gli utenti di Instagram geneticamente vulnerabili pubblicano, cercano altri utenti e tentano di aumentare la loro desiderabilità sociale.

 

 

CLASH: il modello che spiega perché 10 gradi fa eravamo più tranquilli e pacifici

Il team di scienziati di Van Lange ha concepito il modello CLimate, Aggression, and Self-control in Humans (CLASH), con il quale affermano che l’aggressività e la violenza aumentano man mano che i climi diventano più caldi e che le variazioni stagionali si riducono, influenzando l’orientamento temporale e l’autocontrollo degli individui.

 

 Nell’ultimo decennio, il clima è stato riconosciuto sempre più come un importante fattore che plasma il comportamento umano (Carleton & Hsiang, 2016). Proprio per questo motivo, la relazione empirica tra clima e violenza è stata dimostrata in molti contesti: dalla violenza domestica in India e in Australia, ad aggressioni e omicidi negli Stati Uniti e in Tanzania, alla violenza etnica in Europa, fino ai conflitti civili diffusi in tutto il mondo (Sekhri & Storeygard, 2013; Auliciems & DiBartolo, 1995; Ranson, 2014; Miguel, 2005; Andreson et al., 2013; Bergholt & Lujala, 2012). Osservando questi fenomeni, è possibile affermare che la violenza aumenti man mano che il clima diventa più caldo (Burke et al., 2015); è importante sottolineare che gli effetti sulle brutalità siano maggiormente causati dalla temperatura piuttosto che da altre variabili climatiche, e che siano più forti per i conflitti tra gruppi che per i conflitti interpersonali.

Proprio sulla base di tali osservazioni, il team di scienziati di Van Lange ha concepito il modello CLimate, Aggression, and Self-control in Humans (CLASH; ita. Clima, Aggressione, e Autocontrollo negli Umani), il quale afferma che l’aggressività e la violenza aumentano man mano che i climi, per l’appunto, diventano più caldi e che le variazioni stagionali si riducono, influenzando l’orientamento temporale e l’autocontrollo degli individui (Van Lange, Rinderu & Bushman, 2017). Nell’articolo di Rinderu, Bushman e Van Lange (2017) sull’argomento vengono esaminate le prove empiriche emergenti a sostegno di tale approccio.

La maggior parte delle teorie psicologiche si concentra sul clima caldo come stimolo principalmente avversivo che innesca l’aggressività (Anderson & Bushman, 2002). Il calore è una caratteristica del clima che è rimasta stagionalmente stabile e prevedibile per migliaia di anni, fornendo una panoramica annuale di ciò che ci si può aspettare, meteorologicamente parlando, in ciascuna stagione. È stato dimostrato che le caratteristiche del clima lo rendono in grado di incidere psicologicamente e sociologicamente sugli individui nel lungo periodo, e che le variabili climatiche chiave che influenzano l’aggressività e la violenza sono il calore medio e, soprattutto, la variazione stagionale del calore (Van De Vliert, 2009).

Ad ogni clima corrisponde una determinata cultura, in questo senso, si può affermare che un particolare clima possa creare una specifica cultura. Un presupposto chiave di CLASH consiste nel fatto che le persone a latitudini più elevate, vicine alle calotte polari, si adattano a temperature più fredde, e soprattutto a maggiori variazioni stagionali, sviluppando costumi culturali caratterizzati da un maggiore orientamento al futuro e da un maggiore autocontrollo. Il modello CLASH sottolinea inoltre che queste ultime due variabili sono importanti per inibire l’aggressività e la violenza, e che sono quindi possibili mediatori dell’aggressività data da sbalzi di temperatura. Molte prove, infatti, mostrano che atti violenti hanno inizio quando cessa l’autocontrollo, e che la mancanza di autocontrollo sia uno dei più forti correlati noti del crimine violento (Evans et al., 1997; Gottfredson & Hirschi, 1990). Allo stesso modo, un’abbondanza di ricerche ha dimostrato le relazioni tra un maggiore orientamento al futuro e minori aggressività e violenza (Zimbardo & Boyd, 1999).

Proprio per questo, CLASH traccia un percorso concettuale segnato dalla latitudine che afferma l’influenza dei climi sulle conseguenze dell’aggressività, evidenziando come orientamento al futuro ed autocontrollo possano mediare tale relazione.

 Quali sono le prove empiriche a sostegno di questo modello? In primo luogo, i risultati della ricerca non solo si esprimono a favore di CLASH, ma anche a favore delle estensioni del modello ad altre variabili socioeconomiche, come la ricchezza. Le ricerche mostrano che la stabilità termica, in particolare il calore, e la povertà economica sono correlate positivamente all’aggressività della popolazione. Questi i risultati validi in 124 paesi dell’emisfero settentrionale ed in 43 paesi dell’emisfero meridionale che suggeriscono sia la generalizzabilità dei risultati tra gli emisferi, sia l’importanza dell’equatore come divisione biogeografica (Van De Vliert & Dann, 2017).

In secondo luogo, la ricerca mostra che la latitudine di uno stato prevede tassi di omicidi più elevati in paesi con una maggiore vicinanza all’equatore; tuttavia, la relazione non regge nell’emisfero australe (Fuentes et al., 2017). Sono necessarie ulteriori ricerche per vedere perché CLASH sarebbe vero solo per alcune parti del mondo, poiché esistono anche alcune prove che il modello non sia supportato in Russia (Prudko & Rodina, 2017). È possibile attribuire il motivo di tale incongruenza alla densità di popolazione, poiché la grande maggioranza della popolazione mondiale vive nell’emisfero settentrionale. Infatti, gli studi mostrano che livelli più elevati di densità ed affollamento sono stati associati a livelli più elevati di aggressività (Lawrence et al., 2004).

Terzo, CLASH ha ricevuto un certo sostegno dalla ricerca sul bullismo, definito come

comportamento aggressivo finalizzato a un obiettivo che danneggia un altro individuo nel contesto di uno squilibrio di potere.

In 40 paesi europei e nordamericani, infatti, la ricerca mostra che la prevalenza del bullismo tra gli adolescenti aumenta con la maggiore vicinanza all’equatore (Volk, 2017).

Nel complesso, le prove riportate forniscono un supporto preliminare per CLASH, che dovrebbe essere ulteriormente studiato e posto come presupposto per comprendere i tassi di violenza e crimine mondiali. Comprendere le radici dell’aggressività e della violenza è uno dei passi più importanti per ridurre conflitti e ostilità, e per promuovere la fiducia e la cooperazione in un mondo che sta diventando sempre più piccolo e sempre più caldo.

 

Riflessioni sulla Didattica a Distanza (DAD): intervista alle esperte – VIDEO

L’acronimo DAD, Didattica a Distanza, è ormai diventato un termine d’uso quotidiano, ma sono davvero ben noti i risvolti psicologici di questa profonda trasformazione?

 

Uno dei settori più colpiti dal diffondersi del Coronavirus e dalla conseguente attuazione dello stato d’emergenza è stato senza alcun dubbio quello scolastico. Nel corso degli ultimi due anni, infatti, gli insegnanti, il personale scolastico, i genitori ma soprattutto gli alunni hanno vissuto ed anche “subìto” tutto ciò che lo spostamento delle attività didattiche in modalità online ha comportato. L’acronimo DAD, Didattica a Distanza, è ormai diventato un termine d’uso quotidiano, ma sono davvero ben noti i risvolti psicologici di questa profonda trasformazione? A poche settimane dalla conclusione dell’anno scolastico, sappiamo realmente cosa ha significato per i più piccoli questo cambiamento? In che modo bambini e ragazzi ne hanno risentito e/o si sono adattati a questa inaspettata realtà?

Per riflettere sulle implicazioni della DAD, abbiamo intervistato tre esperte in Psicoterapia dell’Età Evolutiva:

Dopo aver pubblicato, nei giorni precedenti, la prima parte dell’intervista sulle problematiche della DAD, pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video dell’intervista su alcune riflessioni derivanti dalla Didattica a Distanza.

 

DIDATTICA A DISTANZA (DAD) – ALCUNE RIFLESSIONI

Guarda il video:

 

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da State of Mind (@stateofmind_psicologia)


 

Il danno neurologico e psichiatrico da CoViD-19; uno studio italiano mostra il percorso del virus dal polmone al cervello attraverso il nervo vago

Uno studio italiano ha dimostrato la presenza del virus Sars-CoV-2 nel nervo vago e questo potrebbe spiegare il percorso tra polmone e cervello (Bulfamante G. 2021).

Introduzione

L’evoluzione della pandemia da CoViD-19 ha mostrato che oltre il 37% dei pazienti colpiti da Coronavirus anche dopo la guarigione manifesta reazioni neurologiche come stato confusionale, vertigini, mal di testa, perdita dell’olfatto e del gusto. C’è addirittura chi ha conseguenze più complesse come afasia e perdita della vista (Istituto Auxologico Italiano 2021).

Oltre ai disturbi neurologici, nei pazienti con la CoViD-19 sono stati riscontrati anche disturbi psichiatrici. Questi ultimi si possono presentare durante le diverse fasi della malattia.

Insonnia (41,9%), ansia (35,7%), disturbi della memoria (34,1%), depressione (32,6%) e stato confusionale (27,9%) sono stati osservati durante lo stato acuto dell’infezione. Durante la remissione, invece, sono stati riscontrati disturbi del sonno, soprattutto insonnia (100%), presenza di ricordi traumatici (30,4%), compromissione della memoria (18,9%), irritabilità (12,8%), ansia (12,3%) e depressione (10,5%) (Rogers JP et al. 2020).

Alcuni sintomi neurologici sono assai meno gravi ma appaiono persino più sconcertanti. Un sintomo – o un insieme di sintomi – che esemplifica questo sconcerto, e che sta ottenendo sempre più attenzione, rientra nell’approssimativa categoria diagnostica di “annebbiamento cerebrale” (Stephani Sutherland 2020).

La presenza del CoViD-19 nei vari distretti

La presenza del virus SARS CoV 2 era già stata riscontrata nei distretti polmonari e nelle aree bulbo pontine cerebrali (Guadarrama-Ortiz et al. 2020).

Il virus è in grado di danneggiare il cervello in vari modi tra i quali i più importanti sono rappresentati dall’infezione diretta delle cellule neurali con SARS-CoV-2, e l’infiammazione sistemica grave che porta al cervello agenti proinfiammatori danneggiando così le cellule nervose. Il virus SARS-CoV-2 utilizza l’ACE2 come principale recettore di attacco della “proteina spike” per l’ingresso cellulare. La proteina ACE2 è stata osservata nel sistema vascolare, ma in minor misura nel rivestimento dei vasi cerebrali. Tuttavia, il sequenziamento dell’RNA ne ha dimostrato la presenza, anche se modesta, nel cervello umano (Marshall M. 2020).

Recentemente uno studio italiano pubblicato sul Journal of Neurology ha dimostrato la presenza del virus Sars-CoV-2 nel nervo vago e questo potrebbe spiegare il percorso tra polmone e cervello (Bulfamante G. 2021).

Lo studio

Sono state effettuate due autopsie su pazienti deceduti per COVID-19 e in due pazienti COVID-19 negativi come controlli. Danno neuronale e numero di corpi amilacei (CA) /mm2 sono stati valutati istopatologicamente. Altre caratteristiche studiate erano l’espressione immunoistochimica della nucleoproteina SARS-CoV-2 (NP) e dell’antigene Iba-1 per l’attivazione gliale.

Le autopsie hanno mostrato una normale anatomia macroscopica del tronco cerebrale. L’esame istopatologico ha dimostrato un aumento del danno neuronale e la presenza di corpi amilacei nel midollo allungato dei pazienti Covid-19. L’immunoistochimica ha rivelato SARS-CoV-2 NP nei neuroni del tronco cerebrale e nelle cellule gliali e nei nervi cranici. Gli elementi gliali hanno anche mostrato un diffuso aumento dell’espressione di Iba-1. Sars-Co-V2 è stato rilevato immunoistochimicamente nelle fibre del nervo vago.

Conclusioni

Il riscontro della presenza di SARS-CoV-2 nel tronco cerebrale e danno midollare nell’area dei centri respiratori suggeriscono che la fisiopatologia dell’insufficienza respiratoria correlata a COVID-19 include una componente neurogena. La rilevazione della presenza del virus Sars-Co-V2 nel nervo vago suggerisce il passaggio di questo dal polmone verso il tronco cerebrale.

 

Cosa chiede un figlio? 

Le televisioni ne parlano, i giornali ne scrivono, i genitori lo ripetono negli ambulatori degli psicologi: i bambini di oggi stanno male, soffrono. Depressione, ansia, disordini alimentari, per non parlare delle condotte autolesive e autodistruttive.

 

 Fiumi d’inchiostro spesi sui perché del malessere emotivo che tanto attanaglia i giovani: da chi lo attribuisce alla società – persa e distratta dal consumismo -, a chi, mediante apparecchiature sempre più performanti, ricerca misteriosi geni responsabili. Il comun denominatore sembra però il medesimo: la responsabilità è dell’altro, si trova riposta al di fuori da me. Ma siamo certi che le cose stiano realmente così?

Gran parte dei problemi che bambini e adolescenti manifestano oggigiorno poggiano su fondamenta specifiche: genitori incapaci di porre la loro attenzione sulla vita emotiva del figlio. Proviamo a capire meglio. Ad oggi, le energie dei genitori risultano indirizzate per gran parte ai bisogni, dimenticando la dimensione dell’affetto. E, questa cecità rispetto alla dimensione dell’affettività, alla profondità del desiderio, circonda anche l’individualità del genitore stesso. In fondo, non lo scopriamo oggi: il bambino portatore del sintomo ripropone tenacemente il fantasma irrisolto dei genitori.

 Addentrandoci poi in uno dei temi tanto cari ai genitori, ovvero “mio figlio non mi ascolta” può essere utile riflettere sul fatto che la crescita e lo sviluppo del bambino porta per forza di cose alla necessità di una soluzione dell’Edipo (tanto caro a Freud). La soluzione edipica richiede che la rivalità col genitore venga superata proprio attraverso il riconoscimento della dialettica tra amore e odio. Un genitore non può pretendere che un figlio possa provare per lui esclusivamente sentimenti positivi, soltanto amore. Un genitore non può pretendere che un figlio gli ubbidisca continuamente. Un genitore dovrebbe riuscire ad accettare che un figlio abbia bisogno di affermarsi, di costruire la sua identità, contrastando – spesso – i valori della famiglia d’origine. Il fallimento di questo processo riconoscitivo da parte del genitore trasborda nel soffocamento del bambino, in una cura ipertrofica, acefala, nella quale troviamo non solo l’assenza di riconoscimento della soggettivazione del bambino – ovvero il riconoscergli lo statuto di soggetto desiderante ma -, captiamo anche la paura della morte (simbolica) del genitore, della chiusura, dello spegnersi del suo ruolo.

Il processo di riconoscimento da parte del genitore verso il diritto del figlio di trovare la sua dimensione desiderante, comporta la necessità dell’adulto di riscrivere il suo ruolo nel sociale, trovare per se stessi un nuovo desiderio, una nuova spinta alla vita. Il fallimento della dimensione del riconoscimento la troviamo in quelle mamme o quei papà che annullano la propria vita per farsi completamente carico dei bisogni dei figli (non del loro desiderio). Qui, in questa postura educativa, troviamo genitori che scandiscono le giornate dei figli secondo le lancette dell’orologio, attraverso corse spasmodiche tra piscina, lezione di pianoforte, ripetizioni di greco e latino. Qui troviamo la dimensione del “ti guardo” ma, in fondo, “non ci sono per davvero nella tua vita”. In fondo, un figlio chiede solo di essere riconosciuto nel suo desiderare.

 

Narcisismo patologico: le conseguenze avverse sulle figure significative

Il narcisismo patologico (NP) è una condizione caratterizzata da un funzionamento interpersonale alterato, frequentemente studiato in letteratura, mentre pochi studi hanno esaminato gli effetti avversi del disturbo sulle figure significative che circondano l’individuo in questione.

 

 A tal proposito, il seguente estratto focalizza l’attenzione proprio sulle conseguenze esercitate sugli altri significativi (Day, Bourke, Townsend & Grenyer, 2020). Il disturbo narcisistico di personalità (DNP), come definito dalla quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), comporta un modello pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), bisogno di ammirazione e carenza di empatia (APA, 2013). Questa definizione di DNP è stata pesantemente criticata per il suo focus attentivo incentrato unicamente sugli aspetti grandiosi del disturbo, ad esclusione delle caratteristiche vulnerabili (Skodol, Bender e Morey, 2014), che possono notevolmente impattare sul relativo trattamento (Pincus et al., 2014). Lo psichiatra e psicanalista Otto Kernberg, fautore di teorie rivoluzionarie sul tema, ritiene che il narcisista, al fine di difendersi da una mancata integrazione delle rappresentazioni positive e negative di sé e degli altri, sviluppa un sé grandioso fondato su rappresentazioni idealizzate; quelle negative vengono, invece, proiettate all’esterno. Tale quadro personologico impatta e limita inevitabilmente l’instaurarsi di relazioni interpersonali equilibrate e appaganti (Kernberg, 1978), in quanto l’altro significativo viene continuamente svalutato (Kernberg, Furlan, & Stefani, 2011); a seguito di una credenza di onnipotenza intrinseca al narcisista, da cui trae una percezione fallace di autosufficienza. Tali meccanismi difensivi sono spiegati da una costante e invalidante percezione di minaccia; in quanto l’illusoria immagine di sé, fondata su grandiosità e onnipotenza, potrebbe essere inficiata da fattori esterni o addirittura essere distrutta da un momento all’altro. Le conseguenze di tale assetto personologico si traducono in sentimenti di autosvalutazione, bassa autostima e sensi di colpa negli altri significativi che circondano l’individuo. Il senso di colpa deriva in particolar modo da una tendenza pervasiva del narcisista ad affermare e infondere nell’altro un dogmatismo comportamentale secondo cui il partner e/o familiare dovrebbe comportarsi come il NP ritiene più opportuno, negando completamente l’attenzione verso le opinioni e le sensazioni dell’altro. Questa modalità tende a rendere le figure significative vittime di un circolo vizioso di autocritica, che in maniera subdola e silente va a impattare sull’autostima; rendendole estremamente focalizzate sulle loro mancanze e sulle possibili soluzioni correttive, necessarie al fine di raggiungere lo standard ideale inculcato dal partner/familiare narcisista. (Day, Bourke, Townsend & Grenyer, 2020). Risulta, inoltre, necessario definire un criterio di demarcazione tra le seguenti concettualizzazioni del costrutto: narcisismo ‘sano’ e narcisismo ‘patologico’ (Day, Bourke, Townsend & Grenyer, 2020). Il narcisismo ‘sano’ contempla la capacità di regolare l’autostima utilizzando metodi di gratificazione appropriati all’età e al contesto (Kernberg, 2008; Pincus & Lukowitsky, 2010).

 Il narcisismo ‘patologico’ concerne, invece, un’autostima estremamente labile, compensata con metodi di gratificazione disadattativi come l’aggressività, la manipolazione e le difese narcisistiche (Kernberg, 2008); causando disagio significativo intra e interpersonale (Miller, Lynam, et al., 2017). Tuttavia, non risulta ancora chiara l’utilità clinica e teorica di tale concettualizzazione categoriale, che potrebbe essere sostituita da una dimensionale, che porrebbe tali sotto-categorie lungo un continuum di gravità e pervasività (Pincus & Lukowitsky, 2010). Dalle stime di prevalenza del DNP emerge un’elevata eterogeneità del dato, che oscilla dallo 0% al 6,2% (Lenzenweger, Lane, Loranger, & Kessler, 2007; Stinson et al., 2008); probabilmente riflettendo la confusione concettuale del costrutto (Cain et al., 2008). La ricerca suggerisce che, all’interno di una relazione romantica/familiare, le persone con tratti narcisistici tendono ad attuare comportamenti egocentrici, materialistici, ingannevoli e di controllo (Campbell, Foster e Finkel, 2002); al fine di mantenere un ‘bilancio emotivo’ nei confronti degli altri significativi (Brunell & Campbell, 2011). La letteratura sul tema suggerisce quali potrebbero essere questi tratti: invadenza, dominio, vendetta, freddezza, evitamento e sfruttamento (Kealy & Ogrodniczuk, 2011; Ogrodniczuk & Kealy, 2013).

In conclusione, il punto focale di tale estratto riguarda la necessità di riportare all’attenzione clinica non soltanto la fenomenologia del disturbo narcisistico in sé, ma anche le relative conseguenze avverse subite dagli altri significativi.

 

ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento (2021) – Recensione del libro 

Il libro ADHD nell’adulto. Dalla diagnosi al trattamento si pone l’obiettivo di fornire un quadro di riferimento in termini nozionistici per quanto riguarda le caratteristiche, la diagnosi e la cura, intesa in senso farmacologico e non, di questo disturbo in età adulta.

 

 L’ADHD, sigla di Attention Deficit and Hyperactivity Disorder in inglese (Deficit di Attenzione e Iperattività in italiano) è un disturbo caratterizzato dalla presenza di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività che influenzano il normale funzionamento di vita. Il disturbo è catalogato a livello diagnostico all’interno dei Disturbi nel Neurosviluppo questo perché presenta un esordio durante l’infanzia con sintomi che possono durare in tutte le fasi di vita. Le caratteristiche nell’arco del tempo mutano e si manifestano a diversi livelli anche a seconda di fattori ambientali; il disturbo compromette la sfera personale e sociale e, a seconda del momento di vita dell’individuo, scolastica o lavorativa. Fino a poco tempo fa, ma non ci stupiremmo se in parte ancora oggi, l’ADHD era considerato un disturbo proprio dell’età evolutiva, le diverse ricerche sviluppate nel corso degli anni però mostrano come il deficit non sia così raro nella popolazione adulta.

Ciò che accadde è che nell’adulto i sintomi principali divengono meno evidenti e si assiste all’insorgenza di disturbi secondari in comorbilità. Tutto ciò rende l’individuazione, la diagnosi e il trattamento del disturbo complesso, ne consegue pertanto la necessità di figure professionali specializzate e formate così come la presenza sul territorio di servizi dedicati a questa popolazione clinica.

Il libro ADHD nell’adulto dalla diagnosi al trattamento a cura di Claudio Mencacci e Giovanni Migliarese, si pone proprio l’obiettivo di fornire un quadro di riferimento in termini nozionistici per quanto riguarda le caratteristiche, la diagnosi e la cura intesa in senso farmacologico e non di questo disturbo in età adulta. Le diverse professioni della lunga lista degli autori che hanno preso parte alla realizzazione anticipano lo stampo sanitario con cui è scritto il libro. Quest’ultimo è dedicato ai professionisti sanitari che a diversi livelli, a seconda della loro professione, si potrebbero relazionare con questa popolazione clinica.

Il volume corposo espone con un linguaggio specifico ma allo stesso tempo chiaro le diverse aree tematiche importanti per l’inquadramento di questo disturbo.

 Suddiviso in 5 parti e in 29 capitoli il libro si apre presentando l’epidemiologia, l’eziologia e i sintomi tipici che si possono osservare. In apertura della sezione viene proposto un capitolo introduttivo in cui vengono esposte le caratteristiche del disturbo in età evolutiva per arrivare poi nel successivo capitolo a esporre la trasformazione e la manifestazione di queste caratteristiche negli adulti. La seconda parte è dedicata completamente all’iter diagnostico e valutativo, vengono infatti presentati i diversi criteri richiesti dai manuali di classificazione e i vari strumenti per una possibile valutazione testistica neurocognitiva. In questo parte si trova una specifica riguardante la valutazione testistica dei possibili disturbi in comorbilità, tematica che verrà poi ripresa più avanti nel manuale. Comprese le caratteristiche e la questione diagnostica, la parte dedicata al possibile intervento si apre esplicitando le modalità con cui impostare il trattamento e la valutazione dei futuri esiti. Capitoli successivi sono dedicati alla distinzione e alla caratteristiche dei trattamenti farmacologici e non farmacologici e alle possibili implementazioni delle terapie digitali. Come accennato prima, la parte quarta presenta i diversi disturbi in comorbilità maggiormente riscontrabili nella popolazione clinica in esame, per ogni disturbo analizzato a cui è dedicato un capitolo, vengono presentate le caratteristiche, la modalità di valutazione della presenza e dell’influenza reciproca dei diversi disturbi e il possibile piano di trattamento. L’ultima sezione chiamata “approfondimenti” racchiude le possibili condizioni che possono insorgere in presenza di ADHD nel soggetto adulto come la dipendenza da internet o da gaming, i disturbi biologici o del metabolismo e i disturbi somatici.

ADHD nell’adulto è un volume sicuramente interessante dedicato ai professionisti di settore per i temi affrontati (che necessitano di nozioni preacquisite per la comprensione) e per lo stile espositivo che presenta. Le aree in cui è suddiviso il libro sono organizzate per essere lette in sequenza ma possono essere fruibili e utili anche consultate singolarmente.

Il contributo del volume appare significativo alla luce delle conoscenze ad oggi presenti nel panorama clinico italiano poiché, come si diceva in apertura, l’ADHD è stato considerato per molto tempo un disturbo quasi esclusivo della fascia infantile. Il volume si chiude auspicando una partecipazione sempre maggiore di tutte le figure professionali che si occupano di ADHD in età adulta, sia dal punto di vista clinico che di ricerca, per permettere una maggior conoscenza del disturbo in questa fascia di età e per la creazione di una rete professionale a livello nazionale.

 

L’effetto Dunning Kruger

David Dunning incominciò alcune sperimentazioni insieme a Justin Kruger e pubblicarono insieme il lavoro “Unskilled and Unaware of It: How Difficulties In Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments” (1999): era nato l’Effetto Dunning Kruger.

 

Il 6 gennaio 1995 (Errol Morris, 2010) Wheeler McArthur rapinò due banche di Pittsburgh, la Fidelity Savings Bank e la Mellon Bank. Lo fece in pieno giorno ed a volto scoperto. Il video venne trasmesso nel Pittsburgh Crime Stoppers. Meno di un’ora dopo, McArthur, con sua grande sorpresa, fu catturato dalla polizia. Dopo essere stato arrestato disse: “ma io indossavo il succo”. Ma perché McArthur aveva compiuto le rapine senza nemmeno cercare di nascondere il volto?

McArthur si era cosparso di succo di limone, convinto che la “geniale” mossa lo avrebbe reso invisibile alle telecamere di sorveglianza. Per testare la sua teoria prima delle rapine, si era finanche scattato una foto con una Polaroid. Non vedendosi nella foto, si era convinto ancora di più della bontà della sua teoria. Evidentemente, con il succo di limone negli occhi, aveva puntato la macchina fotografica in maniera errata.

Lo strano avvenimento suscitò l’interesse di David Dunning, professore di psicologia sociale alla Cornell University, il quale pensò: “se Wheeler era troppo stupido per essere un rapinatore di banche, forse era anche troppo stupido per sapere che era troppo stupido per essere un rapinatore di banche – ciò significa che la sua stupidità lo ha reso inconsapevole della sua stessa stupidità”.

David Dunning incominciò quindi alcune sperimentazioni insieme a Justin Kruger, suo allievo alla Cornell University. Nel 1999 pubblicarono insieme il lavoro “Unskilled and Unaware of It: How Difficulties In Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments” (Justin Kruger, David Dunning, 1999): era nato “L’Effetto Dunning Kruger”.

I due ricercatori avevano testato le capacità dei partecipanti alla sperimentazione (studenti della Cornell University) in tre campi: humour, grammatica e ragionamento logico. Era poi stato richiesto ai partecipanti di effettuare una auto-valutazione sui risultati dei test effettuati. L’autovalutazione era quindi stata messa a confronto con i risultati effettivi. Ne era emerso, in una scala da 1 a 100, che coloro che erano nel primo quartile (da 1 a 25) si valutavano in maniera molto superiore ai risultati reali. Ad esempio, nello humor, alcuni che si erano piazzati al 12° percentile, ritenevano di essere nel 58°, quindi anche ad un livello superiore alla media.

Di contro, coloro che si piazzavano nel quartile top (da 75 a 100) sottostimavano le proprie capacità. Nel ragionamento logico, ad esempio, alcuni studenti che si erano piazzati all’86° percentile ritenevano di essere nel 68°.

I risultati, quindi, mostrano che gli incompetenti (c.d. “bottom performers”), valutano in maniera erronea le proprie capacità. I competenti (c.d. “top performers”), di contro, valutano in maniera errata le capacità degli altri. I top performers, non avendo avuto grosse difficoltà a compiere un determinato compito, ritengono che gli altri si siano trovati nella stessa situazione.

Quindi, mentre i bottom performers rientrano nella casistica della “illusione della superiorità” (David Lacko)  i top performers sono affetti dalla c.d. “teoria del falso consenso” in quanto ritengono che gli altri abbiano le loro stesse capacità.

I bottom performers, in particolare, sono così inesperti in un determinato campo che sono incapaci nel riconoscere la loro incapacità. Sono quindi affetti da quella che è chiamata “metaignoranza” (David Dunning, 2011), nel senso che la loro ignoranza rende impossibile per loro comprendere che sono ignoranti.

Ciò significa che i bottom performers non solo ritengono di essere al di sopra della media, ma che la loro incompetenza li rende incapaci di vedere la loro stessa ignoranza. In pratica le capacità (Jan Feld, Jan Sauerman, Andries De Grip, 2017) che permetterebbero di agire in maniera corretta sono le stesse che permetterebbero di valutare l’adeguatezza della propria azione.

I bottom performers, inoltre, non solo si valutano in maniera molto lusinghiera ma non hanno idea dell’ampiezza del settore in cui ritengono di essere esperti. È quindi la non conoscenza della propria non conoscenza che risulta dannosa.

In un famoso discorso sulla situazione dell’intelligence americana, tenuto quando era Segretario di Stato alla Difesa, Donald Rumsfeld (Michael Shermer, 2005) disse “ci sono cose che sappiamo di sapere, ci sono cose che sappiamo di non sapere e ci sono cose che non sappiamo di non sapere”.

Questo discorso suscitò molte polemiche, ma successivamente si comprese meglio il senso della sue parole. Sono le cose che non sappiamo di non sapere che sono le più pericolose. Si pensi ad esempio ad un medico generico che non “passa” il paziente allo specialista ed insiste nel cercare di risolvere un problema di salute dell’assistito. È evidente che il medico generico potrebbe non essere a conoscenza di uno strumento diagnostico o di una cura che invece lo specialista conosce. In questo caso la non conoscenza della propria non conoscenza (o si potrebbe anche dire dei propri limiti) risulta dannosa (per il paziente).

Ma come si può risolvere il problema? È possibile fare in modo che i bottom performers si avvedano della propria incompetenza? Qui, come evidenziato più volte (David Dunning, Kerri Johnson, Joyce Ehrlinger, Justin Kruger, 2003) si ha un paradosso: per fare in modo che i bottom performers si avvedano della propria incompetenza devono essere resi più competenti. Il fatto di essere (anche leggermente) più competenti permette loro di comprendere l’ampiezza del settore in cui ritengono (o, a questo punto, ritenevano) di essere esperti.

Quindi, anche se in alcuni settori (Oliver j. Sheldon, David Dunning, Daniel R. Ames, 2013) risulta difficile fare in modo che i bottom performers intraprendano azioni di auto-miglioramento, è attraverso una azione di consapevolezza, autocritica e volontà di miglioramento che i bottom performers potranno comprendere i loro limiti e smettere di avere una grossa fiducia nelle loro capacità.

Ma i bottom performers si ritengono sempre più bravi di quanto non siano veramente? È stato visto che in linea generale dipende dal settore di indagine, anche se non vi sono significative differenze tra persone più istruite e meno istruite. Ad esempio, in un’indagine in un’azienda americana, il 42% dei manager riteneva di essere nel 5% dei manager più bravi, cosa matematicamente impossibile (David Dunning, 2011).

Non sono poi state osservate grosse differenze collegate al genere. In taluni campi, come la matematica, peraltro, le donne sono meno fiduciose delle proprie capacità rispetto agli uomini, anche se, in realtà non si riscontrano grosse differenze nelle performance (David Dunning, 2011).

In ogni caso, come evidenziato dagli stessi autori nello studio originario (Justin Kruger, David Dunning, 1999) i risultati emersi “non stanno a significare che le persone sono sempre inconsapevoli della propria incompetenza. Dubitiamo che qualcuno dei nostri lettori oserebbe sfidare Michael Jordan in un ‘uno contro uno’, Eric Clapton in una sessione di chitarra o Tiger Woods in una sfida sul green”.

Certo, qualcuno può anche pensare di essere un grande cantante, ed essere così negato da essere invitato a cantare allo stadio di fronte ad un grande pubblico, come è successo tempo fa a Warren Wald.

 

Disturbi alimentari e falsi miti da sfatare: (Non) Solo ragazze! – Report dall’evento del CIPda di Milano

Report di (Non) Solo ragazze!, il secondo webinar appartenente al ciclo divulgativo dedicato a sfatare tre falsi miti che ruotano attorno ai Disturbi dell’Alimentazione, trasmesso in diretta streaming dall’equipe del Centro Disturbi dell’Alimentazione (CIPda) di Milano il 31 maggio 2021

 

 Spesso si è indotti a pensare che i Disturbi dell’Alimentazione (DA) siano prerogativa unica del genere femminile, prevalentemente adolescenti o giovani adulte. Contrariamente a questo luogo comune, recenti evidenze epidemiologiche dimostrano una significativa incidenza di questi quadri psicopatologici durante la preadolescenza e nei soggetti di sesso maschile. A soli 10 anni, può già instaurarsi una valutazione di sé basata sul peso e sulla forma del corpo e anche gli uomini possono manifestare evidenti preoccupazioni incentrate su questi parametri.

Si apre così il secondo webinar del ciclo Falsi miti da sfatare, un dibattito moderato dalla Direttrice Operativa del CIPda (Cliniche Italiane di Psicoterapia – Disturbi Alimentari), la Dott.ssa Rosaria Nocita, volto ad illustrare le più attuali espressioni dei DA, secondo una visione multidisciplinare.

L’intervento delle differenti figure professionali, stimolato da domande specifiche inerenti alla macro-tematica affrontata, ha scandito la prima parte di questo webinar divulgativo. Al termine, si è dedicato spazio alle domande dei partecipanti.

1. Evidenze epidemiologiche: prevalenza e incidenza dei DA in merito all’età di esordio e alle differenze di genere – Dott.ssa Riboldi, medico psichiatra.

In merito alla prevalenza e all’incidenza dei Disturbi Alimentari, non vi sono stime condivise e totalmente sovrapponibili a causa di evidenti differenze metodologiche negli studi volti ad indagare queste due dimensioni. Sommariamente, l’anoressia (AN) ha una prevalenza compresa tra lo 0,5 ed il 3,7%, la bulimia (BN) tra l’1,1 ed il 4,1% ed infine il disturbo da binge eating (BED) conta una percentuale del 0,8-1,9%, tassi sovrapponibili alla realtà italiana. Relativamente all’età d’esordio, vi è concordanza nell’attribuire alla fascia 13 – 18 il frame temporale di maggior vulnerabilità per l’anoressia, sposandosi attorno ai 16 – 18 per la BN e circa 20 anni per il BED.

Altro elemento di concordanza è la spiccata prevalenza di questi quadri psicopatologici nel sesso femminile, con un rapporto di 10:1.

Le sopracitate categorie diagnostiche però, al pari di altri disturbi, si sono pian piano evolute e modificate nel tempo, interessando anche la popolazione maschile: un recente studio, evidenzia una prevalenza del 19 – 20 % di DA nel sesso maschile, piuttosto spiccata nella fascia adolescenziale. Altro dato importante e in controtendenza rispetto al luogo comune, è l’aumento di casi di disturbi alimentari in età preadolescenziale. Oltre a patologie quali la pica e ruminazione, manifestazioni cliniche tipiche nei bambini, sono state identificati esordi precoci di anoressia e bulimia. Pertanto, prerogativa per una buona pratica clinica, risulta essere un’attenta valutazione di questi elementi, quindi prestare attenzione sia ai soggetti di sesso maschile che alla fascia preadolescenziale.

2. Le peculiarità dei DA nei preadolescenti – Dott.ssa Colantonio, psicologa

Proseguendo, si è entrati nel vivo delle caratteristiche cliniche dei pazienti che manifestano un qualsivoglia disturbo alimentare in età preadolescenziale. Indipendentemente dalla variabile età, uno dei primari fattori che facilita l’instillarsi della patologia è il contesto culturale entro cui siamo inequivocabilmente inseriti. L’ideale di magrezza, divulgato dai social media e dai principali canali di comunicazione, viene introiettato dai ragazzi, sin dalla più tenera età. Non stupisce quindi la possibilità sempre più frequente di incappare in preadolescenti fortemente focalizzati sul peso e forma del corpo, giovani spesso ingaggiati nel perseguire una dieta. La dieta, dalla letteratura riconosciuta come fattore capace di aumentare di ben 8 volte l’esacerbazione di un DA, è considerata dai ragazzi come desiderabile e conseguentemente seguita per numerosi fattori:

  • Favorisce il raggiungimento dell’ideale di magrezza promosso dai coetanei, aspetto che porta ad una migliore autovalutazione di sé grazie a ripetuti rinforzi positivi sociali.
  • Facilitando la perdita di peso, permette di mitigare i cambiamenti corporei dettati dalla maturazione puberale, modificazioni corporee tipiche del processo di crescita.
  • Inibisce il senso di mancato controllo esperito spesso durante le fasi di transizione, come quella adolescenziale; in tal senso la dieta, forma esplicita di controllo della propria alimentazione, mitiga la sensazione di inadeguatezza tipica di questo target d’età.

Inoltre, indizi che possono fungere da campanelli nei preadolescenti sono:

  • Modificazione nelle modalità di assunzione dei cibi, come sminuzzare la pietanza in piccoli pezzi, contare il numero di masticazioni del boccone, aumentato consumo di acqua, the e caffè ecc.
  • Incremento dell’attività fisica per frequenza ed intensità.
  • Uso frequente del bagno dopo i pasti, possibile indizio di condotte di eliminazione (vomito autoindotto, uso improprio di lassativi e diuretici).
  • Pensiero polarizzato sul cibo e costante bisogno di rassicurazioni relative alla propria forma del corpo.

In ultimo, come sottolineato dall’esperta, risulta di vitale importanza riconoscere precocemente la sintomatologia in quanto le complicanze conseguenti al disturbo alimentare, se protratte, possono comportare alterazioni e compromissioni della traiettoria di crescita.

3. Le peculiarità dei DA nei soggetti di sesso maschile – Dott.ssa Zagarese, psicologa

Come detto, è di comune tendenza pensare che problematiche alimentari affliggano unicamente soggetti di sesso femminile, asimmetria che sembrerebbe giustificare la carenza di studi scientifici relativi al genere maschile. Ciononostante, le poche evidenze empiriche in merito, sono particolarmente utili per inquadrare le differenze nella manifestazione clinica, aspetto che spesso determina una sottostima dei casi. Fra queste emergono:

  • Diminuzione del testosterone e calo della libido, equivalenti all’amenorrea nelle donne.
  • Poca utilità del valore del BMI come parametro esclusivo per la diagnosi; non sempre ne è unico indice di gravità.
  • L’eccessiva valutazione per il peso e la forma del corpo conduce al perseguimento di diete iperproteiche e restrittive così come ad esercizio fisico eccessivo e compulsivo.

L’aspetto che più contraddistingue il disturbo alimentare maschile è la presenza di quella che in letteratura viene definita come “drive for muscolarity”. L’interiorizzazione dell’ideale di magrezza e perfezione fisica si articola negli uomini come un persistente desiderio di raggiungere una corporatura scultorea, muscolosa, definita. Se per le donne la perfezione fisica corrisponde ad un corpo snello e longilineo, per i ragazzi i muscoli, tonicità di braccia, spalle e dorsali rappresentano l’obiettivo primario. Da qui, dunque, la tendenza di questa popolazione a praticare estenuanti sessioni di allenamento in palestra, assumere integratori per incrementare la massa muscolare ed il perseguimento di diete iperproteiche.

4. Le peculiarità del trattamento nei preadolescenti – Dott.ssa Tramontano, psicoterapeuta

 Le evidenze teoriche relative ai DA in fascia preadolescenziale permettono di giungere ad una serie di accorgimenti necessari per un’efficace pratica clinica, procedure che prendono in considerazione la tendenza dei giovanissimi a determinare il proprio valore in termini di peso e forma corporea. Seppur siano limitate le ricerche inerenti alle risposte al trattamento di questo target di popolazione, l’obiettivo generale del percorso terapeutico è indubbiamente la rimozione della psicopatologia del disturbo alimentare, dunque i processi che la mantengono. Gli aspetti da tenere in considerazione sono così riassumibili:

  • Approccio multidisciplinare (pediatra, neuropsichiatra infantile, dietista, psicoterapeuta), al fine di garantire la tutela dei potenziali danni indotti dal disturbo.
  • Definire soglie più basse per procedere verso un’intensificazione del trattamento, optando per monitoraggi più serrati.
    Trattandosi spesso di un disturbo egosintonico, quindi non esperito dal paziente come un problema, è necessario implementare con cura e dedizione l’ingaggio e la motivazione della persona per tutta la durata del trattamento.
  • Favorire un adeguato coinvolgimento delle figure genitoriali nel protocollo terapeutico, in modo da enfatizzare l’importanza della famiglia come risorsa, guida, supporto costante.

5. Le peculiarità del trattamento nei soggetti di sesso maschile – Dott.ssa Ranzini, psicoterapeuta

Poiché il protocollo della CBT – E (Cognitive Behavioural Therapy – Enhanced) è per sua natura personalizzato e cucito in base alle peculiarità della persona, non si riscontrano differenze significative e specifiche rispetto al trattamento per i soggetti di sesso femminile.

Lavorando sui meccanismi di mantenimento, il protocollo prevedrà l’individuazione di tali fattori anche per i ragazzi. Come precedentemente ribadito, il volume muscolare e la definizione corporea rappresentano le principali manifestazioni del disturbo nei soggetti di sesso maschile, preoccupazioni che in termini clinici prendono il nome di vigoressia. Questa eccessiva valutazione per il peso e forma del corpo induce quindi alla messa in atto di comportamenti quali una dieta ferrea ed esercizio fisico eccessivo e compulsivo.

Uno dei principali aspetti da tenere in considerazione nella pratica clinica quando si lavora con un paziente di sesso maschile, è la spiccata tendenza della società odierna a non considerare l’ossessione per la forma scultorea del corpo come un vero e proprio problema. Al contrario, la definizione muscolare è nella maggior parte dei casi rinforzata e incentivata. Pertanto, sarà compito del terapeuta problematizzare questi comportamenti evidenziandone i danni che possono conseguire, procedendo poi con l’analisi dei fattori che mantengono la problematica; tra questi si evidenziano i frequenti check del corpo allo specchio, il confronto con altri uomini, la focalizzazione dell’attenzione su specifiche aree corporee come le spalle, addome, bicipiti e muscolatura dorsale.

6. Stile alimentare e prevenzione: cosa fare con preadolescenti e soggetti di sesso maschile – Dott.ssa Ramponi, dietista

Individuare delle traiettorie protettive, anche parlando di preadolescenti e soggetti di sesso maschile, è fondamentale al fine di tutelare la popolazione dall’insorgenza di un qualsivoglia disturbo alimentare. Alcuni spunti da seguire possono essere così riassunti:

  • Promuovere una corretta alimentazione sin dalla più tenera età: dati provenienti dall’ultimo monitoraggio ISTAT evidenziano che solo il 12 % di bambini e adolescenti consuma le adeguate porzioni giornaliere di frutta e verdura, contro l’elevato uso di bevande gassate, snack salati e merendine. Proseguendo, circa il 50% fra loro non assume la colazione. Alla luce di tali evidenze, risulta fondamentale garantire sin dall’infanzia un’educazione alimentare tale da favorire l’assunzione degli alimenti adeguati in termini di quantità e qualità.
  • Consumare maggior numero di pasti in famiglia: i genitori, nonni, ed insegnanti possono diventare promotori di un’alimentazione salutare, senza vietare cibi o favorire il consumo selettivo di altri.
  • Mantenere un peso salutare durante l’infanzia ed evitare sovrappeso: sempre dalle indagini ISTAT, si rileva che il 25% degli adolescenti è in eccesso ponderale, soprattutto i maschi. Alla luce del fatto che uno fra i molteplici fattori prognostici predittivi dei DA è proprio l’obesità infantile, è quanto mai importante mantenere un peso salutare durante l’infanzia.
  • Scoraggiare diete drastiche e comportamenti volti al controllo del peso o ridistribuzione corporea: prestando attenzione a tutti i campanelli d’allarme che rimandano a queste due pratiche.

Al termine di questa parte prettamente teorica, si è proceduto rispondendo alle domande dei partecipanti. Grazie agli spunti forniti dal pubblico online, i professionisti hanno potuto spiegare in primo luogo il percorso di formazione che hanno eseguito per specializzarsi nella pratica della CBT- E. Tale abilitazione è frutto di un master ad alta formazione, della durata di un anno, intitolato Terapia e prevenzione dei disturbi dell’alimentazione e dell’obesità. Oltre a questo, sono comunque disponibili protocolli di formazione più brevi. Altra tematica affrontata grazie agli interventi esterni, è l’importanza dell’ingaggio. Favorire un clima di empatia, stimolare la comprensione, ragionare congiuntamente sui costi e benefici del trattamento e del disturbo, sono complessivamente dimensioni da valutare e implementare per garantire un clima di ingaggio e collaborazione per tutto il percorso terapeutico. Difatti, il ruolo attivo del paziente appare uno degli aspetti fondamentali per un esito positivo del trattamento.

Ultimato il dibattito, l’incontro si è concluso con i ringraziamenti da parte della Dott.ssa Nocita, e l’invito a presenziare al terzo ed ultimo webinar, intitolato (Non) basta la forza di volontà.

 

GUARDA IL VIDEO DEL WEBINAR:

Disturbi Alimentari e falsi miti: (non) solo ragazze! – Video del webinar

 

SCOPRI I PROSSIMI EVENTI IN PROGRAMMA >> CLICCA QUI

CIP Milano >> SCOPRI DI PIU

 

 

Mindful eating. Per riscoprire una sana e gioiosa relazione con il cibo (2021) di Jan Chozen Bays – Recensione dell’edizione aggiornata

Negli ultimi anni abbiamo sentito parlare sempre più spesso di mindful eating, ovvero di alimentazione consapevole. L’interesse per il tema è cresciuto anche a livello di ricerca: si contano, infatti, centinaia di articoli scientifici per indagare l’efficacia di questo approccio.

 

Ci vuole solo un po’ di coraggio e la volontà
di imbarcarci in una deliziosa avventura
in cui si guarda, si annusa, si assaggia e si sente.

 Jan Chozen Bays è medico pediatra e lavora presso la Stress Reduction Clinic (Clinica per la riduzione dello stress) presso l’Università del Massachusetts dove guida il programma clinico di otto settimane per la riduzione dello stress tramite la mindfulness.

Negli ultimi anni abbiamo sentito parlare sempre più spesso di mindful eating, ovvero di alimentazione consapevole. L’interesse per il tema è cresciuto anche a livello di ricerca: si contano, infatti, centinaia di articoli scientifici per indagare l’efficacia di questo approccio.

La pratica della mindfulness è una pratica della tradizione buddhista che si fonda sulla capacità di dirigere l’attenzione e di prendere consapevolezza rispetto al qui ed ora. Mindfulness significa prestare attenzione in maniera totale e priva di giudizio allo svolgersi della vita momento per momento.

Lo scopo dell’autrice è manifesto fin dal sottotitolo: “riscoprire una gioiosa e sana relazione con il cibo”. Alla base dell’approccio vi è l’idea che il corpo sa cosa, quanto e quando mangiare perché lo sente e non perché lo pensa. Nutrirsi è in stretta relazione sul modo che abbiamo di vivere. Se mangiamo in maniera più consapevole, staremo al mondo in maniera più consapevole.

La prima edizione dell’opera risale al 2009, visto il suo successo, nel frattempo il libro è stato tradotto in più di dieci lingue e venduto in tutto il mondo. Al testo originale Bays aggiunge altri tipi di fame oltre le 7 che aveva proposto inizialmente.

Il libro mira a far conoscere la pratica del mindful eating a tutti, perché non nasce come una semplice terapia per chi ha problemi di peso, un disturbo alimentare o comunque una relazione complessa con l’alimentazione, il corpo o il peso, o magari per le persone con problemi di salute derivanti da uno stile alimentare poco funzionale.

Mangiare in modo consapevole è solo un aspetto che si inserisce in un approccio alla vita più consapevole alla ricerca di un costante equilibrio sempre dinamico nella strada verso il benessere.

Come si compone l’opera

 Mindful eating è composto da diversi capitoli in cui si esplora la pratica da un punto di vista teorico, ma anche pratico. Il testo contiene, infatti, diversi esercizi presentati nel corso degli ultimi 20 anni durante i seminari, nei ritiri e nei laboratori condotti sul mindful eating da Jan Chozen Bays.

Si comincia esplorando e poi sperimentando in prima persona con le pratiche guidate, tutti i diversi tipi di fame: degli occhi, del tatto, delle orecchie, del naso, della bocca, dello stomaco, delle cellule, della mente e del cuore. Mangiare, afferma la dr.ssa Bays, è un’esperienza che coinvolge organi, sensi, bisogni, emozioni e quando ci alimentiamo è importante essere consapevoli e notare i diversi aspetti che possono gratificarci o lasciarci insoddisfatti.

Il testo prosegue offrendo le linee guida per aumentare la consapevolezza nel modo di mangiare e come è possibile trasmetterle anche ai più piccoli.

È un libro appassionante, pieno di informazioni utili per capire qual è il nostro approccio al cibo, come si sono sviluppate le nostre abitudini alimentari, anche in una prospettiva sociale, e quali sono i vantaggi nel modificare eventuali comportamenti scorretti per godere pienamente di ciò che viene introdotto nel corpo. Il pregio di questo manuale è che Jan Chozen Bays non cade mai nel dogmatico e prescrittivo. Al contrario per ogni conquista personale, l’autrice spesso racconta un aneddoto personale che rispecchia le sue difficoltà nel percorso o come inizialmente viveva il rapporto con gli alimenti, specie quelli legati al desiderio.

Alla fine dell’opera, per chi volesse, si trova il link per ascoltare le note audio, tradotte in italiano, delle meditazioni guidate, citate durante la narrazione.

A chi si rivolge Mindful Eating: ai professionisti che a vario titolo si interessano di nutrizione, alle persone che amano il cibo, a tutti quelli che vogliono riflettere sulle loro scelte alimentari per capire da cosa sono guidate e per chi ha bisogno di imparare (o ricordare nuovamente) che “se vogliamo godere del cibo, bisogna invitare anche la mente”.

 

cancel