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I grandi pensieri vengono dal Cuore. Educare all’ascolto (2021) di Eugenio Borgna – Recensione

“Nulla si comprende di una sofferenza psichica nelle sue diverse forme di espressione, se non si conoscono gli intrecci emozionali ardenti e complessi che sono in essa”, avverte l’autore del libro I grandi pensieri vengono dal Cuore.

 

Il cuore è la pietra angolare dell’intera rassegna di opere di Eugenio Borgna, del suo modo di leggere la cura, di incontrare la sofferenza. Nel suo libro I grandi pensieri vengono dal cuore. Educare all’ascolto, Borgna ci invita ancora una volta a cogliere la testimonianza della possibilità di una “psichiatria dell’interiorità”, attenta a tutte le sfumature dell’umana sofferenza, tragiche e pure incredibilmente feconde di bellezza e di vita.

Dico ancora una volta perché nel trasferire il suo personale modo di intrattenere un dialogo con la sofferenza, Borgna riserva parole che non nascondono mai la necessità di calarsi nella profondità di se stessi per non lasciarsi accecare dalla crosta spessa e impenetrabile della malattia. È in questo contatto con “la fragilità che è in noi” che riconosce la strada maestra per non perdere di vista quelle emozioni umane che uno strumento tanto sensibile quanto multiforme come l’arte è capace di cogliere e raccontare.

Un tributo generoso e appassionato alla sua ardente capacità di pronunciarsi sull’invisibilità dell’esistenza è, di fatto, la trama di cui è intessuto anche questo libro, che non può fare a meno di mettere in evidenza l’incompatibilità con uno sguardo fugace, con un orecchio disattento, incapace di accostarsi alla straordinaria e caduca dimensione di ogni cosa.

Da qui sembra partire il suo tentativo di avvicinare la dimensione artistica di ogni disciplina all’uomo, per metterlo in contatto con le sue molteplici modalità di stare al mondo, le sue domande impossibili, la sua infinita ricerca di senso.

È all’incunearsi del mistero nelle pieghe dell’esistenza e al loro meraviglioso rivelarsi che Borgna orienta il suo sguardo e lo traduce con parole che spera possano ampliare la conoscenza della sofferenza, restituire speranza e bellezza alla fragilità umiliata, negata, occultata dell’uomo.

Nell’accorato discorso che rivolge a chi vive il mestiere della cura, si muove nella sua direzione, o che può incontrare la sofferenza predisponendosi con un atteggiamento frettoloso, indifferente, lontano dalla sua essenza, esorta al contatto e all’educazione permanente di quella particolare sensibilità che è disposta a mantenere un dialogo costante con le proprie ferite, indispensabile per non perdere di vista quelle dell’altro. È, infatti, in quella che lui definisce, “comunità di ascolto e di dialogo fra chi cura e chi è curato”, che i silenzi diventano preziosi e non terribilmente oscuri, le parole delicate e piene di speranza di fronte alle ombre più nere della sofferenza.

Il suo desiderio di presentarci una psichiatria “gentile”, “umana”, fa riecheggiare il corpo-soggetto e la danza in cui siamo coinvolti nel tentativo di metterci a contatto con esso, su una melodia sconosciuta e imprevedibile che segue il ritmo scandito dalle emozioni.

“Nulla si comprende di una sofferenza psichica nelle sue diverse forme di espressione, se non si conoscono gli intrecci emozionali ardenti e complessi che sono in essa”, avverte (Borgna, 2021, p. 87). Appurate le loro forme a volte limpide, a volte più opache, ardenti, appiattite, cangianti o cristallizzate, Borgna sottolinea l’importanza di non confonderle, di non utilizzarle impropriamente nel linguaggio quotidiano e nella cura. Non solo, ma cogliere il loro imprevedibile e viceversa presumibile associarsi alla malinconia, alla disperazione, alla speranza, alla creatività, alla morte e il nostro riconoscerci in esse, anche nelle loro forme più dolorose, come possono non renderle più decifrabili, più umane?

Una strada praticabile, certo, ma che richiede di essere attraversata nel silenzio perché, “Solo nel silenzio si colgono fino in fondo gli abissi di fragilità che sono in noi, e negli altri da noi, e si impara ad accoglierli nelle loro luci e nelle loro ombre” (Borgna, 2014, p.17).

È alle relazioni umane, dunque, ai loro confini lassi o estremamente rigidi, alle derive troppo spesso poco umane, in cui le dimensioni del tempo e dello spazio vissuto sono invase o annullate, che Borgna vuole condurre l’attenzione del lettore, portandolo a scorgere l’interdipendenza tra vicinanza e lontananza e l’equilibrio funambolico da conservare nella cura e nella vita.

Un processo di maturazione che non considera solo appannaggio di chi sceglie una professione di cura, ma che si estende in orizzonti vastissimi, pensiamo alla scuola e alla famiglia che non dovrebbero esimersi dall’utilizzo di quella che lui definisce la “saggezza del cuore” nel loro quotidiano operare.

Allora eccolo arrivare dritto al destino delle parole, messo a fuoco sotto la sua lente più nitida, da cui non può che scaturire un appello a non dimenticarlo dopo averle pronunciate. È, infatti, al loro scivolare via senza responsabilità, senza prestare attenzione alle attese e ai bisogni dell’interlocutore, al nostro perdere di vista la loro composizione superficiale e profonda, visibile e invisibile che richiama la nostra attenzione. Ci invita a fermarci dinanzi al rapporto indissolubile che lega le parole al silenzio, a imparare a riconoscerlo nelle sue molteplici forme.

“Sono molti i modi in cui la parola e il silenzio si intrecciano: c’è il silenzio che rende palpitante e viva la parola, dilatandone le emozioni; c’è il silenzio che si sostituisce alla parola nel dire la gioia e il dolore, la speranza e la disperazione; c’è il silenzio del cuore che nasce dagli abissi della interiorità; ma c’è anche il silenzio che si chiude in se stesso, e non ridesta risonanze emozionali” (Borgna, 2021, p. 29).

Si tratta di tonalità emozionali che nel contatto con le interiorità profondamente ferite delle sue pazienti non possono essergli sfuggite e averlo condotto lontano dal rispettare la loro dignità, dal riservarle una doverosa importanza.

“Cosa fare al fine di evitare ferite alla dignità delle persone? Lo dico ancora una volta: ascoltare, essere gentili, e miti, dire parole che nascano dal cuore (avete cuore, fratelli, avete coraggio?), non dimenticando mai l’importanza degli sguardi, e del sorriso, evitando noncuranze, e indifferenza. La gentilezza non costa nulla, e non costano nulla la mitezza e la tenerezza, che nella loro fragile fragranza e nelle loro umbratili forme di espressione cambiano la climax delle relazioni di cura” (Ivi, p.90).

Infatti, nelle pagine di vita vissuta assieme alle sue pazienti, di cui ci fa generosamente dono, a parlare di comunione e conforto nell’intimità dell’incontro sono: lo sguardo, la parola appena accennata, la silenziosa vicinanza, la presenza mite e gentile.

Non è difficile comprendere come quelle speranze timide, fuggevoli, che nascevano come rapidi bagliori per poi spegnarsi altrettanto rapidamente nelle pazienti del manicomio di Novara possano aver destato sin dai primissimi anni della sua esperienza clinica un interesse particolare per la speranza, tanto da indurlo a dedicarle pagine bellissime sulle sue relazioni con la disperazione, l’attesa, il tempo vissuto.

Nel suo cammino di formazione, che ha tutte le caratteristiche per presentarci come si trasformi la persona a contatto con i suoi pazienti, sembra non abbandonarlo mai il suo appassionato interagire con le opere di incredibili protagonisti della filosofia, della letteratura, della poesia e la possibilità di attingere ad esse come fonte inesauribile di conoscenza sulla vita.

“Non c’è cura senza cuore” è l’altisonante messaggio di cui le sue pagine sono intrise e che ha destato anche nei cuori più assopiti quella saggezza necessaria per sopravvivere ad un tempo di pandemia come quello che stiamo attraversando, dominato dalla paura, dall’ombra della morte, dal silenzio e dalla solitudine. L’ascolto di se stessi e il riconoscimento del giusto valore della vicinanza, della compassione, della solidarietà, come pure l’attenzione verso l’esacerbarsi delle condizioni di sofferenza preesistenti, il loro precario equilibrio, la dimensione sociale della psichiatria non potevano non diventare per Borgna e per noi, motivo di riflessione e di costruzione di un nuovo orizzonte di senso e di cura.

In conclusione, educare a rivolgere uno sguardo alla sofferenza che non la banalizzi, ne riduca la complessità e il mistero, ma sappia apprezzarne le emozioni, la creatività, la libertà è la capacità raffinatissima che Borgna possiede e che non possiamo fare a meno di esaltare. Una qualità, la sua, che si nutre di speranza e mai interrompe un rapporto speciale con essa, che costituisce uno “slancio verso il futuro, si presenta «come apertura nel tempo: come un tempo aperto che vive del futuro (dell’avvenire) e che non si arena nel passato[…], che tende alla riconciliazione e alla riunificazione; e, in questo senso, essa è come una memoria del futuro” (Borgna, 2018, p. 91).

 

“Mi piaccio così come sono”. Quali fattori favoriscono la concezione Body Positive?

Il body positive è un movimento sociale che porta alla luce modelli corporei non corrispondenti agli iconici ideali di magrezza, snellezza, perfezione proporzionale o cutanea.

 

Solitamente, è difficile trovare immagini di cosiddetti “corpi normali” in riviste, trasmissioni televisive e social networks, anche se negli ultimi tempi si sta creando una vera e propria inversione di tendenza. Questo movimento si sta infatti diffondendo sempre di più, generando consapevolezza, accettazione e positività in molte persone, in particolar modo in quelle giovani, limitando l’insorgenza di insoddisfazione corporea e problematiche correlate.

Le ricerche esistenti sulla body positivity hanno fornito informazioni fondamentali sull’importanza dell’immagine corporea positiva nelle vite delle giovani ragazze (Frisén & Holmqvist, 2010; Maor & Cwikel, 2016; McHugh et al., 2014; Wood-Barcalow et al., 2010). Ciononostante, la ricerca tende a trascurare la studio di quelli che vanno a costituire i fattori sottostanti un’immagine corporea positiva. Per questo motivo, Poulter & Treharne hanno scelto di svolgere uno studio il cui scopo era proprio quello di esplorare le prospettive di studentesse universitarie con un’immagine corporea positiva, al fine di identificare i fattori che sostengono questa concezione (Poulter & Treharne, 2020).

Facilitare un’immagine corporea positiva può aiutare a ridurre i tassi di suicidio e migliorare la salute mentale e il benessere dei giovani adulti. Proprio da questo presupposto nasce un particolare bisogno di una comprensione approfondita di come l’immagine corporea positiva sia vissuta dai giovani durante i loro primi anni universitari, nei quali molti di essi possono sperimentare nuove pressioni relative all’immagine corporea a cui può conseguire un modifica delle abitudini alimentari (Gilbert & Meyer, 2004).

Nell’esperimento di Poulter & Treharne, il campione era costituito da un gruppo di giovani donne neozelandesi aventi un’auto-dichiarata body positivity (Poulter & Treharne, 2020). Le ragazze, oggetto di ricerca, hanno quindi partecipato a cinque focus group, metodologia di ricerca qualitativa, ognuno dei quali era composto da cinque soggetti. Le attività sono state svolte in un laboratorio di ricerca all’interno del campus neozelandese, e sono durate dai 54 ai 90 minuti. L’analisi tematica svolta sugli argomenti trattati nei focus group ha prodotto quattro temi principali a supporto della visione body positive.

Il primo tema era rappresentato dal cambiamento positivo nell’immagine corporea verificato tra l’adolescenza e la prima età adulta. Le ragazze avevano infatti attribuito la loro maggiore body positivity alla modifica del gruppo dei pari, dapprima composto da membri acerbi e di strette vedute, e successivamente sostituito con uno più aperto all’autenticità e all’individualità. L’allontanamento dalla pressione e dalla conformità dei pari, caratteristiche maggiormente attribuibili ad adolescenti che frequentano le scuole superiori, ha permesso alle ragazze di sviluppare una percezione di un’immagine più positiva del proprio corpo. Ciò è coerente con l’idea secondo la quale una rete sociale di supporto possa influenzare l’immagine del corporea, teoria precedentemente confermata da Frisén e Holmqvist (2010), i quali hanno riferito che l’accettazione e il sostegno da parte di amici e familiari giocano un ruolo chiave nel contribuire ad un’immagine corporea positiva nei giovani.

Il secondo tema individuato nei focus group era rappresentato dall’occhio critico sviluppato dalle ragazze nei confronti dei messaggi sul corpo femminile letti all’interno dei social media. Parallelamente alle abilità critiche, le giovani hanno sostenuto di aver sviluppato consapevolezza, nonché svolto azioni consapevoli nelle piattaforme con cui hanno interagito.

Questi risultati sono coerenti con la ricerca precedente, che ha dimostrato che i giovani con un’immagine corporea positiva tendono ad elaborare i contenuti multimediali in modo critico (Holmqvist & Frisén, 2012; Wood-Barcalow et al., 2010). Nel presente studio, le partecipanti hanno descritto un processo attivo di selezione di canali mediatici che promuovevano dinamicità e accettazione, scegliendo ad esempio programmi TV con personaggi femminili responsabilizzanti e non convenzionali, così come piattaforme di social media che ritenevano consentissero un approccio attivo e critico al materiale, primo tra tutti, Tumblr.

Per ciò che concerne il terzo tema, è stata individuata nelle argomentazioni emerse una concettualizzazione funzionale del corpo. Le giovani donne nello studio hanno infatti descritto i loro corpi come mezzi per compiere azioni fisiche, piuttosto che in termini estetici. Ciò è coerente con altri studi sull’immagine corporea positiva in cui gli adolescenti avevano evidenziato le proprie capacità atletiche (Frisén & Holmqvist, 2010) e di svolgimento di compiti e attività quotidiane (Wood-Barcalow et al., 2010). Alleva e colleghi avevano inoltre scoperto che osservare la salienza della funzionalità del corpo piuttosto che l’estetica può ridurre l’impatto negativo della visione di immagini multimediali rappresentanti irrealistici ideali di magrezza (Alleva et al., 2016).

Il quarto tema riguardava l’identità religiosa e culturale, in quanto aspetti determinanti nella visione body positive per alcune delle partecipanti. Le giovani religiose o con etnie non occidentali si sono spesso riferite al modo in cui queste identità hanno modellato la loro immagine corporea. Questa scoperta dimostra come la religione e la cultura possano influenzare il rapporto che le ragazze hanno con il proprio corpo. Le partecipanti cresciute in paesi orientali, infatti, consideravano la mancanza di media occidentali come vantaggiosa, in quanto limitava la sovraesposizione all’ideale di perfezione. Allo stesso modo, alcune ragazze hanno riportato che la religione aveva contribuito a plasmare la propria immagine corporea positiva. Questo assunto è confermato da altri studi, i quali hanno suggerito che il concreto ruolo della religione è dovuto alla convinzione che le persone siano state appositamente create con certe fattezze, ed in quanto tali, risultino giuste così come sono (Wood-Barcalow et al., 2010). È stato inoltre dimostrato che la sola esposizione a stimoli religiosi possa rafforzare efficacemente sentimenti positivi relativi al proprio corpo (Boyatzis et al., 2007).

In conclusione, questo insieme di risultati evidenzia la natura evolutiva dell’immagine corporea positiva e il nucleare ruolo della presa di consapevolezza critica quando si interagisce con i media. Inoltre, le radici cultural-religiose e il contesto sociale possono contribuire ad instaurare credenze favorevoli al body positive.

 

Pandemia e ritiro sociale in adolescenza: hikikomori – VIDEO dal webinar di Studi Cognitivi L’Aquila

Le misure contenitive messe in atto per la pandemia possono aver rinforzato delle credenze positive sulla possibilità di iniziare a condurre uno stile di vita tipico degli Hikikomori, anche in società culturalmente diverse da quella che ha dato vita a questo fenomeno. Studi Cognitivi L’Aquila ha organizzato un incontro sull’argomento.

 

 I modi di agire e reagire di un individuo non sono casuali, sono acquisiti per imitazione, culturalmente o anche sperimentati casualmente. Anche i comportamenti protettivi rispetto ai dolori della psiche agiscono allo stesso modo, vengono appresi e messi in atto per evitare le situazioni valutate come pericolose, per prevedere e prevenire ciò che si teme o per non sentire il peso dei fallimenti.

In Giappone, le condizioni socio-economiche e determinati aspetti culturali hanno fatto sì che si generasse un fenomeno comportamentale chiamato Hikikomori, un ritiro sociale estremo che viene vissuto esclusivamente nella propria stanza, con le ore notturne solitamente dedicate a componenti tipiche della cultura popolare giapponese (es. visione di “anime”) e il rifiuto per i rapporti interpersonali che avvengono esclusivamente tramite la rete.

 Le nuove abitudini che ci sono state imposte dalla quarantena come l’accesso costante alle piattaforme di streaming, l’uso di PC e consolle, il conseguente distanziamento dalle pressioni lavorative e scolastiche possono aver fatto sperimentare una piacevole sensazione di tranquillità che è terminata con la fine del lockdown. Tutto questo può aver portato a delle credenze positive sulla possibilità di iniziare a condurre uno stile di vita tipico degli Hikikomori anche in società culturalmente diverse da quella che ha dato vita a questo fenomeno.

Ha condotto l’incontro il Dottor Luca Innocenzi – Psicologo Psicoterapeuta. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

PANDEMIA E RITIRO SOCIALE IN ADOLESCENZA: HIKIKOMORI

Guarda il video integrale del webinar:

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Positivo

Se in passato il termine positivo rimandava a qualcosa di piacevole, oggi invece suscita nei più un senso di allarme e pericolo. 

 

L’abituazione rappresenta un processo di apprendimento, il più semplice e il meno dispendioso, in quanto avviene in maniera del tutto inconscia. Attraverso gli studi di Kandel sulla lumaca gigante di mare Aplysia si è scoperta la semplicità di alcune acquisizioni, nonostante, paradossalmente, il nostro sistema nervoso sia complesso. Grazie a questi meccanismi è possibile rispettare quel principio di economia cognitiva, fondamentale per la nostra massa gelatinosa, in quanto impossibilitata a creare una banca dati infinita, per incapacità di spazio e di risorse. Quel principio che garantisce alla specie la sopravvivenza. Anche rispetto a quelli che sono i processi consapevoli vale la stessa identica regola: dopo un primo periodo di prove, guidare diventa un’abitudine, come l’andare in bicicletta o il giocare a tennis. Non solo. Pensiamo alla capacità di crearsi degli schemi mentali che ci permettono ad esempio di studiare più velocemente, di partire da una base sicura per poi ampliare i nostri discorsi, quegli schemi mentali che, se funzionali, migliorano l’efficienza e la performance.

Anche le stesse formule matematiche cercano di rispettare quel principio di semplicità che permette loro di spiegare i meccanismi più arcani e complessi. Dunque una base sicura, che ci dà equilibrio, che ci permette di riposare, che previene e preserva il nostro cervello da possibili blackout. Lo stesso vale per le abitudini e per le associazioni.  Ma cosa accade se ad una abitudine o ad una semplice associazione si impone un cambiamento improvviso? Fino ad un anno e mezzo fa pronunciare l’aggettivo positivo portava il più delle volte ad una rapida e diretta connessione con beneficio, fortuna, vedere il bicchiere mezzo pieno, c’è chi addirittura così scrive in una sua canzone: “Io penso positivo, perché son vivo, perché son vivo”, e, dunque, positivo come fonte primaria di vita. Anche nei tentativi di supporto e sostegno altrui quella parola risuona spesso come incentivo a non mollare, a non arrendersi, a non rinunciare.

Tutto questo fino al giungere di un evento straordinario, la cui particolarità sta nel suo protrarsi nel tempo. Un evento che riesce a bloccare la frenesia del quotidiano, proprio come un freno che fa inchiodare, all’improvviso, e paralizza. Quel Male arriva interrompendo il vortice incessantemente irrequieto della nostra società liquida, quel Male arriva solidificando la qualunque, rendendo più pesanti e lenti perfino quei processi cognitivi più veloci della luce, interrompendo la noiosa, ma stabile routine, la nostra familiare quotidianità. Proviamo in questo momento a pronunciare l’aggettivo positivo, chiedendo alle persone quale meccanismo innesca, sia esso mentale che comportamentale, quale immagine evoca. Io stessa ho partecipato al gioco ed è successo questo: ho pensato immediatamente alle malattie sessualmente trasmissibili, alle droghe, all’alcol, io che ho sempre visto la vita in “maniera positiva”, io che ho sempre visualizzato il mondo con ottimismo e con fiducia. Ho fatto lo stesso inserendo l’aggettivo su Google ed ecco cosa ho visualizzato tra le prime posizioni: positivo al covid, positivo dopo 21 giorni, positivo asintomatico. Questo Male ha modificato e messo in discussione le nostre certezze, ha modificato la prospettiva di visione del mondo. Pronunci positivo e ti dicono di cambiare parola, sorridendo, ma, pensandoci, c’è davvero poco da sorridere: questo Mostro ha stravolto i nostri assetti, agendo anche sui nostri gruppi neuronali che oggi, a quella parola, rispondono allarmati. Cambiano i sistemi delle nostre cellule nervose, cambiano i nostri pensieri, le nostre associazioni, le nostre abitudini. Cambiamo noi. La plasticità cerebrale presenta due facce: una rivolta all’innovazione, all’efficienza, al cambiamento funzionale, l’altra però va dalla parte opposta. Ci condiziona. Ci limita. Ci altera. Lei stessa condizionata, limitata, alterata dal sintomo virale.

 

Benessere e resilienza nella longevità all’epoca del Covid-19 – Report dal XIV Convegno Nazionale di Psicologia dell’Invecchiamento

Il 29 Maggio si è tenuto il Convegno Nazionale organizzato dalla Società Italiana di Psicologia dell’Invecchiamento (SIPI).

 

Anche quest’anno, come il precedente, è stata utilizzata la modalità a distanza tramite la piattaforma Zoom, con la possibilità di scegliere le sessioni tematiche di interesse attraverso la predisposizione di stanze parallele.

La giornata è stata un’occasione di confronto per i professionisti coinvolti a pieno titolo nella gestione pandemica nei servizi per anziani, attraverso la condivisione delle strategie adottate in questo anno faticoso, sia emotivamente che professionalmente. Una condizione, quella pandemica, che ci ha permesso sicuramente di riscoprire la resilienza dei nostri anziani, di valorizzare l’importante contributo degli operatori sanitari nel processo di cura ma anche, e soprattutto, di rivedere e riprogettare l’organizzazione delle residenze.

L’evento si è aperto con i saluti delle autorità tra cui quelli di David Lazzari, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, il quale ha sottolineato la necessità e l’urgenza di una maggiore presenza e rilevanza dello psicologo nell’area dell’invecchiamento.

Interessante è stato indubbiamente l’approccio multidisciplinare adottato, infatti oltre all’intervento di psicologi e psicoterapeuti si è potuto assistere anche a interessanti spunti di riflessione da parte di ingegneri e coach del lavoro. Infine, è stato possibile partecipare a una lectio magistralis tenuta da Alain Koskas, geropsicologo e Presidente della Federazione Internazionale delle Associazioni delle Persone Anziane (FIAPA), con sede a Parigi. Di seguito alcuni dei temi trattati.

Una squadra per la Psicologia dell’Invecchiamento

All’incontro sono intervenuti alcuni dei membri della Consulta di Coordinamento degli Enti di Psicologia dell’Invecchiamento dell’Ordine degli Psicologi del Veneto.

Una prima importante riflessione è stata quella della dott.ssa Cristina Ruaro, psicologa e psicoterapeuta presso il CRIC di Padova. La dottoressa, infatti, ha sottolineato come, nonostante vi sia un drammatico aumento dei casi di diagnosi di demenza giovanile, i servizi per questa tipologia di pazienti sono ancora carenti, con una tendenza a intervenire sul singolo.

La dott.ssa Federica Sandi, psicologa-psicoterapeuta e Consigliera Segretario presso l’Ordine degli Psicologi del Veneto, si è invece soffermata sulla mancata preparazione alla disabilità nei servizi per la terza età.

Impatto della longevità nel mondo del lavoro e passaggio generazionale nelle aziende familiari

Numerosi relatori si sono concentrati sull’importante ruolo ricoperto dagli operatori socio-sanitari durante l’emergenza pandemica, categoria spesso poco considerata e riconosciuta ma che, forse, per la prima volta si è sentita parte indispensabile di un gruppo di lavoro, riscoprendo la necessità di una solida partnership all’interno delle organizzazioni sanitarie. A tal proposito, è stato sottolineato più volte il compito dello psicologo di prendersi cura della triade, ovvero dell’anziano, dei familiari e del personale, gestendo e affrontando gli stress multipli a cui sono stati sottoposti anche questi ultimi.

Ampio spazio, nel corso del Convegno, è stato dato all’impatto della longevità nel mondo del lavoro, sempre più caratterizzato da una densità di over 50 e fenomeni di intergenerazionalità. Questo scenario mette in luce la necessità di interventi strutturati quali strategie di Age Management e attività di mentoring.

Infine, l’ingegnere Claudio Manca, mentore e senior advisor presso Futuro Desiderato s.r.l., si è concentrato sul fenomeno del passaggio generazionale, ovvero quel momento delicato della vita di un’azienda familiare in cui l’imprenditore lascia il posto all’erede, spesso impreparato. Emergono da una parte l’utilità di un allontanamento graduale dell’imprenditore dalle attività aziendali e dall’altra un percorso precostituito di accompagnamento delle nuove leve in azienda.

La reazione emotiva e cognitiva degli anziani nella situazione di stress legata al Covid-19

Nel corso dell’ultimo anno sono state condotte numerose ricerche volte a indagare l’impatto dello stress causato dall’emergenza sanitaria sugli aspetti emotivi e cognitivi degli anziani, sia sani che con decadimento cognitivo.

Dagli studi presentati al Convegno emerge negli anziani sani un maggiore benessere emotivo rispetto ai giovani, confermando ancora una volta la Teoria della Selettività Socio-Emotiva di Carstensen e colleghi (2003).

Nei servizi residenziali, la cessazione delle tipiche attività riabilitative di tipo educativo, fisioterapico e cognitivo ha avuto una forte influenza sulla qualità di vita e sullo stato di salute psico-fisica dei residenti anziani. All’interno delle RSA, infatti, al fine di contenere i contagi e preservare la vita degli ospiti sono state adottate misure di isolamento. I risultati mostrano un peggioramento dello stato cognitivo, della motricità e dell’autonomia degli anziani, sottolineando l’importante contributo delle attività di stimolazione e riabilitazione normalmente proposte.

Discriminazioni e abusi legati all’età

Alain Koskas, geropsicologo e Presidente della FIAPA, ha delineato i principali obiettivi della Federazione e analizzato in particolare gli abusi finanziari, presi solitamente poco in considerazione.

Lo scopo principale della FIAPA è la difesa dei diritti degli anziani attraverso la lotta contro l’ageismo e la prevenzione degli abusi.

Per quanto riguarda le truffe finanziarie, esse costituiscono il 25% del totale dei maltrattamenti verso gli over 65 e il 13% dei casi denunciati in istituto (Koskas et al., 2011).

Risulta quindi indispensabile affrontare il fenomeno attraverso la condivisione di un vocabolario comune e la predisposizione di una formazione specifica per professioni sanitarie, avvocati, forze dell’ordine e cittadinanza stessa, al fine di sensibilizzarli al problema.

 

Un modo lo trovo (2020) di Paola Napoleone – L’esperienza del cancro in chiave narrativa e psicologica

“La vera tenerezza non si confonde con nulla. È silenziosa” (Achmatova, 2020). Titola così, uno dei primi capitoli, l’autrice del libro Un modo lo trovo.

 

Paola Napoleone, psicologa e scrittrice, scrive un romanzo che nasce da un incontro, da una storia vera (solo i nomi sono stati cambiati), e che sembra raccontato sul filo di dimensioni opposte: silenzi e parole, somiglianze e differenze, incertezze e decisioni. La stessa autrice, voce narrante, si reca ad una festa privata in una casa della campagna toscana. Si muove nella festa fra l’allegria e la piacevolezza degli invitati, colpita dal gusto con cui la casa è stata arredata e dal fascino della sua proprietaria, Futura. Anche lei psicologa ma dedita alla gestione di un negozio. Dopo le presentazioni iniziali, la protagonista capisce da una conversazione fra amiche che Futura ha dovuto affrontare il cancro. Pensa, immagina, intuisce che la storia della donna possa diventare romanzo, si rivolge quindi a lei per chiederle di raccontargliela. Crede che a quell’esperienza Futura possa dare una forma attraverso le parole, grazie ad una narrazione degli stati d’animo, della difficoltà delle scelte, delle relazioni che cambiano. Dopo un iniziale rifiuto, la donna le consegna un nutrito numero di fogli sui quali ha scritto come ha vissuto i giorni della malattia. Prima di salutarla lancia in aria i fogli, lasciandoli cadere a terra, in modo scomposto, caotico, disordinato. Senza voler anticipare quella che è la parte successiva del romanzo, la storia si legge d’un fiato, per la nitidezza delle immagini, per la puntualità con cui viene raccontato il crescendo di emozioni che ha caratterizzato alcuni anni di Futura e che caratterizza le giornate della psicologa dal momento in cui sceglie di compiere questa impresa. Sono vicine e lontane, simili e diverse. Se per Futura lo scompiglio è arrivato in seguito alla shock procurato dalla diagnosi, per la scrittrice protagonista del romanzo lo scompiglio è generato dal gesto della donna che sceglie di lanciare in aria i fogli, invitandola così a trovare un senso, un ordine, una forma. Senso che non è solo un susseguirsi di fatti ma anche una trasformazione emotiva e relazionale. “Un modo lo trovo” è un’espressione che sembra aver assunto valore per tutte e due. “Un modo lo trovo” non è solo un bel romanzo ma anche un testo che allude a quelle che sono alcune fra le tematiche più significative per chi si occupa di psiconcologia: la reazione dei familiari alla diagnosi, le strategie di coping, la qualità della comunicazione medico-paziente.

La reazione dei familiari alla diagnosi. La diagnosi di cancro ha una ricaduta significativa su tutti i componenti del nucleo familiare. Se è lecito parlare di “shock” in riferimento ai vissuti della persona che riceve la diagnosi, anche lo stato d’animo dei familiari non si colloca molto lontano. Il padre, la madre, il fratello, il figlio del paziente immagina un periodo di cura, oltre che una fase della vita in cui si ha più difficoltà ad anticipare e a controllare gli eventi. Spesso cambia il modo di comportarsi all’interno del nucleo familiare. Si assiste ad un intreccio e ad un riaggiustamento delle relazioni che ha come protagonisti: le emozioni, l’espressione delle stesse attraverso azioni o parole, la scelta di comunicare o meno e a chi i propri pensieri e i propri stati d’animo, talvolta una ridefinizione dei ruoli (alcuni familiari potrebbero diventare ad esempio, molto protettivi). L’ascolto della propria esperienza interiore rispetto ad un susseguirsi di eventi spesso rapido e imprevedibile, la scelta di condividere le proprie preoccupazioni all’interno di relazioni accoglienti e poco minacciose, e la possibilità di conservare delle attività che permettano una piena concentrazione nell’attività stessa fuori da dimensioni legate alla preoccupazione, sembrano soluzioni in grado di offrire una buona percorribilità nella gestione dell’evento, per i familiari del paziente. Futura rivolge le sue riflessioni all’esperienza del figlio. Non sa e non riesce a capire cosa stia provando. Lo osserva, immagina in che modo la propria malattia possa metterlo in difficoltà, si chiede se il ragazzo, futuro medico, potrà in qualche modo fare tesoro nella sua professione, del racconto della madre.

Le strategie di coping costituiscono delle modalità messe in atto da una persona per affrontare un evento. Si tratta di strategie che permettono di far fronte ai problemi, come una malattia, conflitti e altre tipologie di difficoltà. Considerato che l’elaborazione della malattia nel susseguirsi degli eventi e rispetto alle trasformazioni fisiche e relazionali, è un processo di lunga durata, talvolta osserviamo fasi diverse anche in relazione ad uno stesso individuo ed è difficile individuare sempre un unico stile di coping. Per questo preferisco parlare di dimensioni coinvolte nel processo di elaborazione e gestione dell’evento malattia che possono essere più o meno presenti e intrecciarsi in modo diverso:

  • Cercare di non pensare al problema, di non ascoltare le emozioni ad esso collegate
  • Impegnarsi nel lavoro
  • Coltivare passioni
  • Condividere/non condividere con gli altri l’esperienza
  • Esprimere/non esprimere le emozioni
  • Ricercare soluzioni per gestire la malattia e le conseguenze della malattia
  • Fiducia/sfiducia nelle proprie capacità di gestione
  • Senso di impotenza
  • Ascoltare i propri vissuti
  • Nutrire un buon livello di speranza
  • Cercare nella difficoltà una nuova opportunità
  • Chiedere aiuto

Le dimensioni coinvolte e la strategia di coping cambiano sulla base del livello di minaccia percepito, dell’età, del momento di vita, delle caratteristiche di personalità, della situazione occupazionale, della qualità del sistema di relazioni in cui si vive. La strategia di coping, la modalità di elaborazione della malattia narrata nel romanzo è descritta in modo così puntuale, articolato, sfumato che è difficile da definire in poche frasi. Futura frequenta familiari e amici, talvolta invece si affida alla solitudine della casa e all’ascolto di alcune canzoni. Dai Queen a Malika Ayane, da Elton John a Battiato, l’elenco delle canzoni ascoltate sembra tratteggiare con ulteriore chiarezza il passaggio da uno stato d’animo all’altro dentro un’esperienza difficile da vivere e da raccontare, ma che assume anche  un valore di trasformazione del proprio modo di percepire sé e il mondo.

La qualità della comunicazione medico – paziente. Futura descrive l’oncologo come una donna solare e accogliente, chiara nelle comunicazioni, combattiva e determinata nella cura del cancro. Si sente protetta e rassicurata dalle modalità di cura del medico. L’oncologo ha un ruolo complesso non solo sul piano medico. Negli ultimi decenni la letteratura (Biondi M., Costantini A., Wise T.N., 2014), ma anche la formazione e la pratica medica, si sono concentrate molto sulla qualità della relazione medico-paziente. L’oncologo ha due obiettivi  sul piano relazionale: favorire quella che viene definita la “compliance” al trattamento, creare e mantenere un buon rapporto con il suo assistito. Anche se la traduzione letterale di “compliance” corrisponde al significato di “conformità”, “aderenza” al trattamento, il ruolo del paziente nella medicina moderna è sempre più vicino a quello di un soggetto attivo, consapevole e partecipe. Al medico sono richieste capacità di empatia, chiarezza e disponibilità di tempo rispetto ai processi di comunicazione ma anche la capacità di leggere alcune transizioni psicologiche che accompagnano gli stati d’animo del paziente nei vari passaggi della terapia. La corretta interpretazione dei processi psichici del paziente non lo porterà necessariamente a parlarne in modo esplicito ma guiderà l’aspetto relazionale della cura. Nel caso in cui il medico riscontri stati d’ansia, potrà spiegare con maggiore chiarezza quali sono gli step che il paziente deve affrontare e favorire l’emergere di dubbi, domande, motivi che spiegano l’ansia. Molto spesso i pazienti a cui viene fatta una diagnosi di cancro provano forti sentimenti di minaccia rispetto all’esperienza futura, perché immaginano cambiamenti significativi sul piano della percezione del corpo, del tempo, dal punto di vista relazionale, lavorativo e sociale. Se l’oncologo avverte significativi stati di minaccia, può canalizzare la comunicazione verso tutti gli aspetti di continuità della vita del paziente e sottolineare, laddove sia possibile, quali sono i tempi previsti o ipotizzati circa il superamento dei vari passaggi (test diagnostici, interventi, terapie, possibili effetti collaterali) necessari alla cura. La diagnosi iniziale comporta in alcuni pazienti atteggiamenti di difesa e di negazione rispetto alla portata dell’evento. Come se ci fosse una costrizione sull’esperienza. In questo caso il medico dovrà cercare una non facile ortogonalità fra la possibilità di favorire una compliance al trattamento e quella di mostrarsi empatico nei confronti dei tentativi di difesa del paziente, dando però la priorità alla necessità che il paziente si confronti con tutti i passaggi necessari al trattamento. In ogni caso l’oncologo cercherà di stringere un’alleanza con il paziente e con la sua capacità di esercitare uno spirito combattivo nei confronti della malattia, ancorandosi al senso di autoefficacia, alle capacità di collaborazione e di risoluzione dei problemi del suo cliente, validando e supportando nel corso degli incontri tutti quegli aspetti  della conversazione volti in questa direzione.

 

Meta-analisi dei trattamenti psicologici: possibili implicazioni metodologiche e conseguenze sull’attendibilità del dato

Nonostante l’obiettivo per cui la meta-analisi nasce sia proprio superare i limiti di ciascun studio singolo, spesso si verifica un effetto iatrogeno secondo cui alcuni limiti metodologici non solo non vengono superati, ma addirittura esacerbati: se ne aggiungono ulteriori e spesso ancora più ostici.

 

 La meta-analisi è una tecnica clinico-statistica finalizzata a integrare i risultati generati da molteplici studi clinici, con l’obiettivo di ottenere un indice quantitativo attendibile, che possa trascendere i limiti intrinseci degli studi singoli. Tale ‘studio degli studi’ combina i risultati generati da differenti studi singoli, al fine di incrementare la numerosità campionaria complessiva e la relativa potenza statistica; per poter auspicare a conclusioni teoricamente più attendibili rispetto a quelle raggiunte da uno studio singolo (Dalle Grave & Calugi, 2019). Nonostante l’obiettivo per cui la meta-analisi nasce sia proprio superare i limiti di ciascun studio singolo, spesso si verifica un effetto iatrogeno secondo cui alcuni limiti metodologici non solo non vengono superati, ma addirittura esacerbati: se ne aggiungono ulteriori e spesso ancora più ostici.

Le meta-analisi possono, infatti, essere considerate attendibili e aderenti al dato soltanto quando includono studi di alta qualità con omogeneità campionaria e metodi di studi analoghi; sono, invece, frequenti casi di eclettismo metodologico che conducono a conclusioni clinicamente non significative, specialmente in ambito psicologico e psicoterapico (Barnard, Willett, & Ding, 2017). Nonostante ciò, le meta-analisi continuano a essere considerate come la tecnica di ricerca più autorevole e d’elezione per l’analisi della letteratura concernente la psicologia e la psicoterapia, al punto tale da influenzare le linee guida sanitarie internazionali (Dalle Grave & Calugi, 2019).

Generalmente la problematica più ostica si verifica nel momento in cui all’interno di una meta-analisi si presenta un’eccessiva varietà d’inclusione degli studi: estrema eterogeneità nei metodi, inclusione di campioni eterogenei, somministrazione di trattamenti disomogenei, ma raggruppati nella medesima categoria. Nell’ambito dei disturbi alimentari, ad esempio, una meta-analisi ha inglobato studi fortemente sottodimensionati per poter rilevare una significatività clinica e ha raggruppato format eterogenei di terapia cognitivo-comportamentale (Kraemer & Blasey, 2015). Un’altra, invece, ha incluso in un’unica categoria trattamenti eterogenei per l’anoressia nervosa, combinando campioni con target d’età adulto e adolescenziale; nonostante sia ormai noto in letteratura che gli adolescenti tendenzialmente manifestano una migliore risposta al trattamento rispetto agli adulti (Calugi, Dalle Grave, Sartirana & Fairburn, 2015), adoperando differenti misure di outcome e tempi di esito non omogenei (Murray, Quintana, Loeb, Grifths, & Le Grange, 2019). La diretta conseguenza è che entrambe le meta-analisi non hanno rilevato differenze significative nell’esito dei diversi trattamenti (van den Berg et al., 2019). Vengono di seguito riportati alcuni dei limiti metodologici più frequentemente riscontrati nelle meta-analisi: bassa potenza statistica (Byrne et al., 2017), scarsa validità interna e implementazione del trattamento psicologico non accurata (Zipfel et al., 2014), misure di outcome e tempi di misurazione eterogenei (Lock, Kraemer, Jo, & Couturier, 2018) e infine poca chiarezza sulla definizione di drop-out, come ad esempio l’inclusione di pazienti ospedalizzati durante la psicoterapia (Lock et al., 2010; Zipfel et al., 2014). In tali casistiche l’esito comporta spesso risultati inattendibili, come ad esempio riscontrare la medesima efficacia in tutti i trattamenti analizzati (Grenon et al., 2018); senza alcun criterio evidence-based per poterlo affermare.

 Le meta-analisi imprecise, che affermano ugual efficacia delle terapie psicologiche oggetto d’analisi, conducono a due conseguenze potenzialmente iatrogene: 1) la credenza erronea secondo cui non sarebbe poi così vantaggioso ricercare e intraprendere trattamenti evidence-based 2) la riduzione del desiderio dei clinici di apprendere e implementare modelli teorici e clinici evidence-based (Lock, Kraemer, Jo & Couturier, 2018). Le meta-analisi possono, dunque, continuare a essere uno strumento di ricerca autorevole, al fine di far progredire la ricerca sui trattamenti psicologici e psicoterapici; a patto che venga garantita una certa precisione metodologica e aderenza al dato effettivo.

Spesso alcune meta-analisi combinano studi con campioni e metodi estremamente eterogenei, perdendo così i reali effetti dei singoli studi; per la semplice spiegazione teorica secondo cui una maggiore numerosità di studi assemblati implicherebbe una popolazione più ampia e un conseguente maggior potere statistico. In questo modo il rischio sarebbe quello di inficiare la differenziazione dei reali gradi di efficacia di ciascun trattamento analizzato: trattamenti non realmente superiori (o inferiori) figurerebbero come tali (Dalle Grave & Calugi, 2019). Considerato il potere intrinseco delle meta-analisi di poter influenzare la politica sanitaria e l’attività clinica, viene di seguito presentano un vademecum di suggerimenti per poter garantire una certa solidità metodologica (Barnard et al., 2017):

  • 1) implementare una revisione da parte di esperti sul tema e sulla progettazione di una meta-analisi
  • 2) richiedere agli autori della meta-analisi di confrontarsi con gli autori dei singoli studi per garantire una corretta rappresentazione dei dati
  • 3) chiedere agli autori della meta-analisi di condividere i metodi e la sintesi dei dati
  • 4) includere i dati originali dello studio, non soltanto il dato di sintesi pubblicato
  • 5) creare un sistema di monitoraggio dei conflitti d’interesse tra i ricercatori coinvolti nelle meta-analisi, al fine di arginarli.

In sintesi, alla luce di quanto riportato, risulta necessario e doveroso aggiornare le linee guida esistenti (Moher, Liberati, Tetzlaff, & Altman, 2009), con l’obiettivo di trascendere i limiti emersi nelle revisioni di meta-analisi riguardanti i trattamenti psicologici; infine, potrebbe risultare utile avviare corsi di formazione ad hoc per ricercatori e giornalisti scientifici, affinché possa avvenire una divulgazione accurata delle revisioni dei trattamenti psicologici (Dalle Grave & Calugi, 2019).

 

Programma di prevenzione primaria e secondaria dei Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione: attività conoscitive e di sensibilizzazione in tempo di COVID-19 – Comunicato stampa

Comunicato stampa

Al via il Progetto annuale promosso dall’Associazione Voci dell’Anima e finanziato con il contributo della Fondazione di Sardegna

 

 L’Istituto Superiore di Sanità ha recentemente evidenziato come l’emergenza da COVID-19 abbia determinato un aumentato rischio di ricaduta e peggioramento dei Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione (DCA), un maggiore rischio di infezione da COVID-19 nelle persone con DCA e l’aumento della mortalità e della diffusione del disturbo (nuovi casi).

Nell’ottica di promuovere azioni efficaci di promozione del benessere e di prevenzione primaria e secondaria, che contribuiscano a contenere la diffusione del disturbo, l’Associazione Voci dell’Anima in partenariato con Consult@noi, Food For Mind, Ordine degli Psicologi della Sardegna, Casa Emmaus, Ananke, Acli di Cagliari, SIRIDAP, Canne al Vento, Il Gesto Interiore e Cittadinanza Attiva avvia il progetto Programma di prevenzione primaria e secondaria dei Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione: attività conoscitive e di sensibilizzazione in tempo di COVID-19, che sarà realizzato con il contributo della Fondazione di Sardegna e sponsorizzato da Assiprofessioni di Roberto Pisano e UnipolSai di Carlo Putzolu.

Il progetto prevede le seguenti azioni:

  • Attivazione di uno sportello d’ascolto gratuito psicologico e nutrizionale, aperto a tutta la popolazione sarda, con finalità di ascolto, prevenzione e promozione del benessere psico-fisico.
  • Realizzazione di Seminari pubblici di natura informativa, divulgativa e di prevenzione primaria e secondaria sui DCA, gratuiti e aperti a tutta la popolazione, che saranno realizzati in modalità webinar.
  • Avvio di una indagine anonima rivolta ad un campione della popolazione regionale tra i 18 e i 60 anni, finalizzata ad esplorare in che modo l’emergenza da Covid-19 (e le conseguenti misure restrittive e di isolamento previste dalle disposizioni ministeriali e regionali) abbia e stia tutt’ora influenzando le abitudini alimentari, il rapporto con il cibo, il corpo e la propria immagine, gli stili di vita e i livelli di stress della popolazione sarda.

 Il progetto permetterà di sensibilizzare la popolazione sul tema dei DCA, contrastando gli stereotipi e diffondendo conoscenze puntuali e aggiornate sulla complessità del disturbo e sulle modalità di gestione e trattamento dello stesso. L’indagine anonima consentirà di raccogliere dati utili al fine di strutturare programmi di prevenzione e cura che rispondano con maggiore efficienza ai bisogni della popolazione.

Per ricevere maggiori informazioni sul progetto, per accedere allo sportello d’ascolto e per partecipare ai seminari tematici e all’indagine anonima è possibile rivolgersi ai seguenti contatti:

Associazione Voci dell’Anima:

La ‘ricerca’ del lavoro passa da se stessi

Il contesto lavorativo odierno è sempre più complesso, risulta quindi sempre più vantaggioso individuare le variabili personali coinvolte nelle varie fasi dell’esperienza di lavoro. Infatti, oggi più che mai, occorre fare affidamento sulle qualità e potenzialità di ciascuno, cercando di sviluppare le capacità resilienti laddove sono carenti.

 

Introduzione

 Com’è noto il lavoro ha una funzione fondamentale nella vita delle persone e generalmente non è finalizzato soltanto al guadagno. Alla domanda su cosa farebbero se vincessero alla lotteria una somma sufficiente per vivere (lottery question), due persone su tre hanno risposto che continuerebbero a lavorare (Sarchelli G. e Fraccaroli F. 2010).

Alcuni autori parlano di un ‘Sé professionale’ per spiegare come l’attività lavorativa svolga un ruolo centrale nella vita dell’individuo e contribuisca a una maggiore definizione dal punto di vista sociale e personale (Fabbri e Rossi, 2001).

Tuttavia, seppure il lavoro ha la centralità descritta, ormai sempre più spesso può essere anche fonte di preoccupazione e stress. Per molte persone, infatti, il lavoro rappresenta qualcosa di incerto, di provvisorio, di discontinuo; anche quando è presente può terminare da un momento all’altro sia per il tipo di contratto, sia per le possibili crisi o cambiamenti che possono investire le organizzazioni dove si lavora. Inoltre, tutte le forme atipiche e flessibili di lavoro possono influire sullo stato emotivo del lavoratore creando instabilità e incertezza per il futuro, difficoltà a fare progetti di vita (per esempio matrimonio, figli, investimenti nell’acquisto della casa).

In relazione al quadro descritto possiamo dire che nella nostra Società è diventato sempre più difficile costruire un’identità professionale abbastanza stabile; infatti di frequente è richiesto alle persone di essere ‘flessibili’ per potersi adattare a ruoli e mansioni che vengono ‘imposte’ dalle logiche economiche del mercato del lavoro. A ulteriore conferma del nesso tra lavoro e aspetti emotivi, diversi studi hanno messo in luce come l’insicurezza lavorativa influisce negativamente sulla salute psicologica e fisica, pesando sul livello di soddisfazione e sul coinvolgimento lavorativo (Cheng e Chan, 2008).

A tutte le criticità citate va necessariamente aggiunto un richiamo all’emergenza coronavirus che ha generato allarme non solo a livello sanitario ma anche economico e sociale; la pandemia inevitabilmente sta avendo un forte impatto sul mercato del lavoro e complica ulteriormente il quadro già da tempo in grande crisi, specialmente in alcuni settori.

Considerando la complessità del contesto del lavoro si ritiene possa risultare vantaggioso individuare le variabili personali coinvolte nelle varie fasi dell’esperienza lavorativa. Infatti, oggi più che mai, occorre fare affidamento sulle qualità e potenzialità di ciascuno, cercando di sviluppare le capacità resilienti laddove sono carenti.

Nel presente articolo, come evidenzia già il titolo, viene messo al centro l’individuo. Per farlo si cercherà di parlare di alcuni aspetti che possono facilitare o ostacolare la messa in campo delle risorse personali. La parola ricerca nel titolo fa riferimento a varie accezioni: ricerca di crescita professionale, ricerca di un inserimento del mondo del lavoro e/o di una ricollocazione, o riqualificazione. Ma principalmente si farà riferimento a una ricerca che parte da sé, dalla possibilità di riflettere sul proprio modo di affrontare la ‘questione lavorativa’, anche a livello emotivo.

Attribuzione interna e esterna

É osservazione comune che non tutti reagiscono allo stesso modo nelle situazioni critiche. C’è chi tende più facilmente a scoraggiarsi e a temere il fallimento e chi invece, pur consapevole delle difficoltà, riesce a mantenere un impegno costante e proattivo senza farsi fermare quando le cose non vanno bene. È evidente che questi due stili descritti nascono da modi diversi di sentire e valutare le situazioni e portano a modi di agire differenti.

Il Locus of control (Rotter, 1996) fa riferimento al diverso grado di controllo che i soggetti sentono di avere sulle situazioni. Quindi potremmo dire che nel locus of control esterno  le motivazioni identificate per spiegare la mancanza del lavoro, o una situazione lavorativa insoddisfacente, sono molto orientate all’individuazione di fattori ostacolanti esterni: ingiustizie, la fortuna o il caso, mancanza di offerte, crisi economica, eccetera; mentre nel locus of control interno l’attenzione è prima di tutto orientata a capire quali azioni si potrebbero mettere in atto per far fronte alle difficoltà incontrate. Nel primo caso, pertanto, il soggetto potrà più facilmente farsi l’idea che la soluzione deve venire dall’esterno; e questa convinzione può portare a un atteggiamento più orientato in modo passivo. Mentre nel secondo caso, senza necessariamente escludere il peso dei fattori esterni, è come se il soggetto si sentisse in grado di poter modificare la situazione, come se la soluzione dipendesse anche da lui, da quello che fa o non fa. E questo atteggiamento, generalmente, permette alla persona di sentirsi più attiva, di percepire un maggior controllo, appunto, sulla situazione.

Mindset statico e mindset dinamico

Per articolare la riflessione sull’argomento può essere di aiuto la teoria sul mindset statico e dinamico elaborata da Carol Dweck, docente di psicologia presso la Stanford University.

Per la Dweck le credenze che adottiamo riguardo a noi stessi influenzano profondamente il modo in cui gestiamo la nostra vita. Da queste dipende la possibilità di diventare la persona che si vorrebbe essere e di ottenere le cose a cui si attribuisce importanza. Non è solo questione di DNA e di predisposizioni individuali perché grazie alla forma mentis è possibile influire sulle proprie capacità attuali e future.

Questa posizione non vuol dire che tutti possono realizzare tutto, e che chiunque impegnandosi possa diventare Einstein o Beethoven, ma, spiega la studiosa:

[…] sono convinta che il vero potenziale di una persona sia sconosciuto (e non conoscibile), che sia impossibile prevedere quali potranno essere i risultati ottenibili con anni di passione, fatica e formazione. (Dweck, 2017)

Le osservazioni della ricercatrice hanno portato a rilevare come coloro che sono caratterizzati dal mindset statico più facilmente cercheranno nelle diverse situazioni la conferma delle proprie capacità ponendosi domande del tipo: ce la farò o fallirò? Farò la figura di quello intelligente o del mediocre? Verrò accettato o rifiutato? Pertanto, l’attenzione è molto focalizzata sull’importanza di dimostrare di essere capaci e apprezzabili e dal timore di non riuscire nell’intento; in sostanza possiamo dire che questi soggetti sentono di dover dimostrare sempre qualcosa e che qualora non avessero successo temono di andare incontro a un giudizio negativo da parte degli altri o di se stessi.

Il mindset dinamico si fonda invece sulla convinzione che le qualità di base possano essere coltivate ed accresciute con l’impegno. Un punto importante che caratterizza chi ha l’atteggiamento descritto è la ricerca di nuove strategie quando quelle utilizzate non si rivelano adeguate. Chi possiede questa forma mentis è meno preoccupato di dimostrare di essere capace ed è maggiormente orientato ad apprendere. Più facilmente, se anche non riesce in un’attività, penserà di poter migliorare impegnandosi di più.

I soggetti che hanno un mindset dinamico riescono ad affrontare meglio le sfide e riconoscono la gradualità del processo di apprendimento; questo diverso atteggiamento permette di non entrare in ansia se non si riesce a risolvere con facilità un compito e di non sentire un eventuale errore come una minaccia alla propria autostima.

Mentre chi possiede una forma mentis statica si aspetta che le capacità verranno fuori da sole, prima che abbia luogo un vero processo di apprendimento e questo accade proprio perché in qualche modo queste vengono considerate come innate e non come un potenziale da sviluppare.

La studiosa racconta come lei stessa fosse stata educata al mindset statico fin dall’infanzia e come già da bambina cercasse sempre di dimostrare di essere brillante. In un secondo momento anche una sua insegnante contribuì a rinforzare la modalità appresa; in effetti i docenti possono favorire tale atteggiamento se sollecitano gli studenti a mostrarsi intelligenti e capaci piuttosto che a provare piacere nell’apprendere.

Un ruolo ugualmente importante, per la Dweck, viene svolto dall’atteggiamento dei genitori che attraverso il modo con cui incoraggiano i bambini finiscono per influire sullo sviluppo del tipo di forma mentis. Per esempio, rassicurare i bambini sulla loro intelligenza e sul loro talento può essere controproducente perché non mette l’attenzione sul processo di apprendimento ma sul risultato. Quando vengono lodati spesso i figli possono entrare in ansia, in occasione di esami o altre prove, perché temono la valutazione e sono preoccupati di dover mantenere un livello alto nei voi e giudizi; inoltre se si sentono ripetere di frequente che sono bravi e capaci, possono aver paura di deludere le aspettative dei familiari (Dweck, 2008).

Per la studiosa

Sebbene le persone differiscano tra loro in mille modi – talenti e attitudini iniziali, interessi, temperamento – ognuna di esse ha la possibilità di cambiare e di crescere attraverso l’applicazione e l’esperienza. (Dweck, 2017)

Per dimostrare come insuccessi nella carriera non siano necessariamente indicativi di mancanza di talento e non vadano considerati predittivi per il proprio futuro cita alcuni noti personaggi appartenenti a diversi ambiti: Ben Hagan noto golfista, che da bambino era totalmente scoordinato, la fotografa Cindy Sherman, che era stata bocciata al suo primo corso di fotografia e l’attrice Geraldine Page, a cui fu sconsigliato di intraprendere la carriera cinematografica perché non aveva la stoffa.

Molte delle ricerche sull’argomento sono state condotte a partire dall’osservazione del modo diverso in cui gli studenti reagiscono a compiti difficili. È stato inoltre notato che il mindset statico e dinamico si formano fin da piccoli e tendono a perdurare se non intervengono fattori nuovi in grado di modificare la convinzione maturata. Secondo la Dweck i mindset possono influenzare non solo il percorso scolastico, ma anche gli altri ambiti della vita come quello professionale, sociale e anche affettivo.

In merito a quanto detto è importante segnalare che i soggetti che hanno un mindset statico tenderebbero a scoraggiarsi in particolare quando non riescono in qualche attività, se per esempio vanno incontro a un fallimento o a un insuccesso; mentre possono sentirsi stimabili e apprezzati, mostrando quindi una buona autostima, quando ottengono dei successi. La differenza con coloro che hanno un mindset dinamico si manifesta proprio quando si incontrano degli ostacoli perché più facilmente questi saranno in grado, nonostante tutto, di impegnarsi nell’affrontare i problemi incontrati senza avere importanti ripercussioni sull’autostima; riescono, pertanto, a mantenere una fiducia nella possibilità di riuscire a risolvere le difficoltà che di volta in volta si presentano.

Mindset e lavoro

 Un breve esempio può essere utile ad esemplificare: un manager cinquantenne con una brillante carriera, fino a quando vengono concordate le sue dimissioni perché l’azienda deve mettere in atto una riorganizzazione. Inizialmente l’uscita dall’azienda viene vissuta bene perché rappresenta un’opportunità di cambiamento. Ma quando incontra difficoltà nel trovare una ricollocazione, sembrano emergere atteggiamenti e sentimenti riconducibili al mindset di tipo statico. Nonostante il curriculum ricco di esperienze significative comincia a prendere forma un senso di vergogna e sfiducia che porta il manager a ridurre il suo impegno nella ricerca.

L’intervento focalizzato sul problema lavorativo ha permesso al dirigente di comprendere come la sua lettura dell’esperienza non gli aveva creato problemi finché era andato tutto bene e aveva ricevuto apprezzamenti circa le sue capacità; invece, nel momento in cui le conferme a cui era abituato sono venute a mancare, e anzi bisognava fare i conti con la delusione prodotta dalle risposte negative alla sua candidatura, o addirittura dall’effetto che gli faceva non ricevere nessuna risposta, il suo senso di sé ne ha risentito portandolo a un atteggiamento di ‘ritiro’ e di tipo depressivo. In pratica il manager non riusciva a fare una valutazione obiettiva delle sue esperienze professionali e quindi del valore che avrebbero potuto avere ancora per le Aziende; la sua valutazione ormai era influenzata dal suo stato emotivo. Si trattava quindi di cambiare prospettiva sia su di sé che sul contesto aziendale. Una volta messo a fuoco come si sentiva nella nuova fase della sua vita, il manager è riuscito a riprendere la ricerca di un’attività con maggiore fiducia, senza leggere ogni contrarietà come prova dell’impossibilità di ricollocarsi.

Un altro esempio altrettanto utile ad esemplificare può essere rappresentato da una giovane insegnante della scuola primaria che non sentendosi in grado di lavorare ha dovuto prendere lunghi periodi di malattia. La ragazza aveva uno stile di personalità per cui già in altre occasioni stressanti aveva reagito con una flessione dell’umore; ma in questo frangente è stato possibile ricostruire gli eventi che le avevano creato il forte disagio, con conseguente demotivazione: le era stata assegnata una classe frequentata da diversi alunni impegnativi dal punto di vista relazionale e lei non si sentiva assolutamente in grado di gestirla. Inoltre, l’insegnante si aspettava che le sarebbero state assegnate delle classi più tranquille, e quindi ha vissuto l’incarico come una mancanza di considerazione e rispetto nei suoi confronti. Una volta messi a fuoco i diversi passaggi la ragazza ha capito che insegnare in una classe più impegnativa poteva rivelarsi una sfida interessante e che tutto sommato si sentiva in grado di affrontare la sfida. Inoltre, la decisione della direttrice che inizialmente era stata percepita come una mancanza di considerazione, come se questa avesse voluto favorire altri colleghi, in un secondo momento è stata letta come possibile espressione di un atto di fiducia. Anche in questo esempio sembrano emergere delle convinzioni riconducibili al mindset statico, che possono aver contribuito a uno stato di scoraggiamento e sfiducia.

Poiché il focus è posto sul modo con cui ciascuno si spiega le difficoltà che incontra a vario titolo nell’interfacciarsi con il contesto lavorativo, e non sulle criticità che presenta quest’ultimo, tale approccio può essere vantaggioso in qualsiasi settore del lavoro. L’intento, infatti, è quello di individuare il ruolo svolto dalle variabili emotive.

E tuttavia, le diverse sfaccettature della personalità di un individuo sono un tema molto complesso e difficilmente riconducibile alla teoria del mindset. Ma quest’ultima può essere utile per individuare in modo abbastanza rapido i meccanismi che portano a risposte di sfiducia e scoraggiamento nel contesto lavorativo.

Infatti, possiamo immaginare che coloro che hanno una concezione riconducibile a un mindset statico potrebbero sentirsi più facilmente preoccupati trovandosi nella necessità di cercare lavoro, in particolare se questo dovesse accadere in seguito a un licenziamento. Ma anche chi si trovasse alla prima esperienza lavorativa potrebbe scoraggiarsi nel dover affrontare le frequenti delusioni che si verificano nella fase di ricerca delle offerte. I soggetti con un mindset statico, quando si verifica una situazione percepita come fallimento, possono avere maggiori ripercussioni a livello dell’autostima e più facilmente possono andare incontro a stati depressivi.

La Dweck precisa che le persone con una forma mentis statica non hanno necessariamente poca fiducia in se stessi,

[…] almeno prima dell’irrompere di un determinato evento nella loro vita. (Dweck, 2017)

Tuttavia, la loro fiducia di fronte a delle sconfitte è più fragile e in seguito riescono più difficilmente a mettere in campo l’impegno necessario per raggiungere un obiettivo.

La studiosa cita una ricerca svolta da Joseph Martocchio che riguarda i dipendenti di un’azienda che dovevano seguire un corso di formazione di informatica per il quale era stato spiegato che si trattava di apprendere alcune abilità con il computer che si sarebbero potute sviluppare ulteriormente con la pratica.

Alcuni degli impiegati presentavano un mindset statico e altri dinamico, ma tutti avevano analoghe competenze dal punto di vista informatico.

I partecipanti con mindset dinamico mostravano tuttavia di credere sempre più nelle proprie capacità via via che imparavano, malgrado i numerosi errori che inevitabilmente commettevano. Al contrario, proprio a causa di quegli errori, coloro che avevano un mindset statico di fatto perdevano fiducia nelle proprie capacità via via che imparavano! (Dweck, 2017)

La diversa risposta al corso di formazione esemplifica bene come alcune credenze su come andrebbe affrontato un compito nuovo, per esempio imparando subito, possano condizionare il comportamento e influire sul modo in cui si cerca di raggiungere un obiettivo.

Rimane però aperta la domanda circa le condizioni che portano a sviluppare un mindset piuttosto che l’altro e che incidono sulle eventuali modifiche successive.

Stili di attaccamento e mindset

Un contributo per comprendere quali esperienze possono condurre a sviluppare un determinato mindset potrebbe fornirlo la teoria dell’attaccamento nella sua concettualizzazione classica di Bowlby e Ainsworth e il successivo contributo fornito dall’inquadramento postrazionalista elaborato da Vittorio F. Guidano. Per quest’ultimo le dimensioni sicuro/insicuro sono trasversali ai diversi stili di attaccamento che si articolano lungo un continuum che va dall’attaccamento sicuro al disorganizzato e pertanto non costituiscono una categoria a sé (Guidano 2007).

Alla luce di questa teoria potremmo ipotizzare che coloro che hanno sviluppato uno stile di attaccamento sul versante sicuro, avranno maggiori possibilità di sviluppare un mindset dinamico. Infatti i bambini che fanno l’esperienza di una base sicura sentono di poter esplorare l’ambiente con maggiore tranquillità e di conseguenza faranno una gamma di esperienze più ricca. Connesso alle presenza di una base sicura l’acquisizione di un’adeguata capacità di riconoscere le emozioni e di regolare gli stati emotivi. Aspetti che sembrano correlabili alle caratteristiche descritte dalla Dweeck per il mindset dinamico.

Plausibilmente le caratteristiche descritte, se saranno confermate nelle successive fasi della crescita, una volta adulti permetteranno di muoversi in modo sicuro anche nel contesto lavorativo, e di poter affrontare i momenti critici che di volta dovessero presentarsi, con una maggiore fiducia nella possibilità di superarli.

Com’è noto lo stile di attaccamento può essere suscettibile di una sorta di riorganizzazione nel corso delle diverse fasi della vita, grazie a sollecitazioni prodotte da nuove relazioni e da nuove esperienze.

Poiché il lavoro ricopre un ruolo di rilievo nell’equilibrio personale, anche gli eventi che si verificano in questo ambito potrebbero in qualche modo contribuire a modificare alcune componenti dello stile di attaccamento e viceversa.

Cambiamenti importanti nell’esperienza immediata e nella coerenza del significato personale si susseguono […]. Nessun momento specifico del ciclo di vita individuale può, pertanto, essere identificato come quello in cui si sia acquisita una comprensione ultima ed esaustiva, così come non è possibile individuare […] l’esistenza di un equilibrio “giusto” o “ottimale”, o di qualsiasi altra cosa che possa suggerire il raggiungimento di uno stadio definitivo di “maturità. (Guidano 1992)

L’individuo quindi è potenzialmente in grado di andare incontro ad evoluzioni dinamiche e a trasformazioni. Ma talvolta se un grave contrattempo (come per esempio la perdita del lavoro) viene vissuto come espressione di una propria carenza, può portare a una sorta di blocco e demotivazione. Tanto più il soggetto sentirà che le difficoltà sono dovute, per esempio, a una sua inadeguatezza e tanto più se ne potrebbe sentire condizionato a causa dei vissuti emotivi negativi che ne derivano. In questa evenienza si può creare un sovraccarico di stress, determinato da preoccupazioni economiche, difficoltà a cercare lavoro e sfiducia. L’insieme di questi elementi può portare a un malessere psicologico e rischia di generare un circolo vizioso che, se non interrotto, può anche portare a stati depressivi.

Sia la teoria del mindset della Dweck, che la teoria dell’attaccamento possono aiutare a individuare delle modalità per supportare processi di evoluzione e crescita delle persone, pur operando a un livello diverso. Considerare lo stile di attaccamento implicherebbe agire anche sulle esperienze emotive che portano a determinate spiegazioni su di sé, mentre intervenendo sul mindset si agirebbe a livello delle credenze per cercare di modificarle.

Conclusioni

In un momento di grave difficoltà come quello attuale, con la pandemia che ha inevitabili e gravi ripercussioni sul contesto lavorativo, diventa ancora più importante provare ad investire al massimo sulle potenzialità e risorse delle persone. Talvolta un atteggiamento demoralizzato, sebbene assolutamente comprensibile e giustificato, non aiuta a intravedere possibili opportunità e scenari alternativi che eppure potrebbero esserci.

Pertanto spiegazioni prevalentemente orientate a evidenziare le criticità esterne, tra cui quelle del mondo del lavoro, non sempre aiutano a trovare nuove strategie e soluzioni. Mentre focalizzare l’attenzione sul soggetto può aprire la possibilità di trovare soluzioni e idee nuove e creative.

 

Lessico psicologico in età prescolare, scolare e adolescenziale: vantaggi e svantaggi

Le emozioni nelle organizzazioni: un possibile sguardo psicodinamico

Quando nelle organizzazioni viene a mancare la capacità di mentalizzazione, si determina un’impossibilità di elaborare le emozioni, di attribuire senso all’esperienza e, probabilmente, la sua rappresentazione mentale del contesto organizzativo avrà come oggetto un luogo di frustrazione, incertezza, minaccia.

 

Nonostante il vecchio cliché sull’ambiente lavorativo come luogo privo di emozioni, la ricerca negli ultimi 30 anni ha dimostrato il ruolo fondamentale che esse rivestono in questo particolare contesto.

Inizialmente l’interesse si è focalizzato sul modo in cui si sentono le persone rispetto al proprio lavoro, in un’ottica dunque individuale; con il tempo, comprendendo la portata del contributo che le emozioni apportano all’efficacia organizzativa, la ricerca si è ampliata alle varie modalità di utilizzo esplicito delle emozioni (Pugh & Groth, 2020).

L’intelligenza emotiva avrebbe infatti un impatto positivo sull’engagement, sulla soddisfazione e sul benessere lavorativo e gli effetti sarebbero tangibili, come nel caso della diminuzione del turnover, problematica che spesso intacca le organizzazioni (Brunetto et al., 2012).

Riprendendo la definizione di Franco Avallone (2005, p.65), il concetto di benessere organizzativo è da intendersi come

l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative.

In tale concettualizzazione è dunque importante l’accento posto non solo sull’individuo, ma sull’aspetto di convivenza, che richiama la componente relazionale. È in questo connubio tra la dimensione individuale e collettiva, tra il mondo intrapsichico e quello intersoggettivo, che diviene possibile inserire il concetto di mentalizzazione. Esso è da intendersi come un processo mentale in cui le azioni proprie ed altrui vengono interpretate in maniera implicita ed esplicita; tale dinamica permette all’individuo di dotare di senso il comportamento, i desideri, i bisogni, i sentimenti, le emozioni altrui a partire dalla comprensione degli stati mentali (Fonagy, Bateman & Luyten, 2012).

Gli inglesi rendono questo complesso concetto in maniera molto semplice ed efficace con la frase “mind the mind”, ovvero tieni a mente la mente, restituendo l’idea di un processo attivo, non passivo, statico ed immutabile (Baldoni, 2014). Questo tassello va ad inserirsi nel complesso mosaico che costituisce la competenza relazionale di ciascuno, una competenza fondamentale per vivere una vita sociale “sana” e che viene sempre più richiesta all’interno delle organizzazioni. In altri termini, nel modo in cui creiamo, manteniamo ed alimentiamo le relazioni vi è un fondamentale passaggio legato alla comprensione del senso dei comportamenti altrui; durante la pratica del proprio lavoro l’individuo mette in atto continuamente attribuzioni di senso e di intenzionalità al comportamento dell’altro con l’obiettivo di comprendere e mantenere la relazione.

Per tale ragione è possibile pensare che, come ogni altra competenza che va a delineare un ruolo organizzativo, la mentalizzazione costituisca una capacità che è possibile apprendere, implementare ed allenare.

Nell’organizzazione “mentalizzante” coloro che vi partecipano hanno raggiunto la competenza di rappresentarsi mentalmente non solo l’intenzionalità propria ed altrui, ma anche le emozioni, le sensazioni, i significati elicitati dal luogo di lavoro e che guidano i comportamenti del lavoratore (Di Stefano, 2017).

Come sostenuto dalle teorie psicodinamiche, coloro i quali non hanno capacità di mentalizzazione non riescono ad utilizzare i propri stati interni per comunicare e collaborare con gli altri in vari ambiti di vita, che vanno dalla sfera intima a quella lavorativa (Fonagy & Target, 2001); una difficoltà temporanea di mentalizzazione è spesso correlata a difficoltà nella regolazione degli affetti e del controllo dei processi attentivi, oltre che all’aumento di distress (Fonagy & Allison, 2012; Fonagy, Bateman & Luyten, 2012).

Quando nell’organizzazione viene a mancare la capacità di mentalizzazione, si determina un’impossibilità per il professionista di elaborare le emozioni, di attribuire senso all’esperienza e, probabilmente, la sua rappresentazione mentale del contesto organizzativo avrà come oggetto un luogo, non più di crescita personale, ma di frustrazione, incertezza, minaccia. Sarebbe possibile, infatti, imputare all’incapacità o al difetto di mentalizzazione la moltiplicazione dei fattori di rischio che espongono il lavoratore – e di conseguenza l’organizzazione di cui fa parte – a patologie come distress, burnout, mobbing (Di Stefano, 2017).

Al contrario, se il soggetto è collocato all’interno di un contesto lavorativo che promuove la mentalizzazione, ponendosi come contenitore riflessivo, gli effetti positivi investono il campo della fiducia reciproca tra i membri che lo abitano, dell’empatia e della resilienza collettiva (Kahn, 2001).

In che modo possono le organizzazioni costruire un ambiente di lavoro siffatto?

Come spesso accade, coloro i quali possono realmente apportare un cambiamento nelle pratiche di lavoro sono i professionisti che hanno accesso alle posizioni manageriali: chi occupa un ruolo di potere e di responsabilità all’interno delle aziende può decidere di investire sulla promozione di “pratiche riflessive”, che si radichino nella routine quotidiana della realtà organizzativa e mirino alla condivisione delle esperienze di lavoro, nonché di spazi di pensiero. Bisognerebbe dunque partire dall’esperienza individuale, valorizzando lo scambio di prospettiva tra i lavoratori e promuovendo la messa in atto di comportamenti attivi all’interno del contesto lavorativo (Fonagy, 2012; Di Stefano, 2017).

L’acquisizione di una simile competenza avrebbe effetti profondamente positivi che, partendo dal singolo, si espandono all’intero sistema lavorativo. Esempi sono l’attivazione di legami di attaccamento e affiliazione tra i colleghi e tra i lavoratori e l’organizzazione stessa, incrementando i livelli di coinvolgimento e di impegno (Fonagy & Target, 2001; Ammaniti & Gallese, 2014; Scrima, Di Stefano, Guarnaccia & Lorito, 2015).

Le origini della creatività (2018) di Edward O. Wilson – Recensione del libro

The Origin of Creativity  pubblicato in Italia da Raffallo Cortina per la prima volta nel 2017, nella traduzione curata da Allegra Panini, è un saggio  di Edward O. Wilson, professore di biologia presso la Harvard University, fondatore della sociobiologia e vincitore di due premi Pulizer.

 

 Quest’opera di Wilson, che giunge dopo la pubblicazione di La conquista sociale della Terra (2013) e Lettere a un giovane scienziato (2013), si sviluppa intorno al concetto che

La creatività è il carattere distintivo della nostra specie ed ha come fine ultimo la comprensione di noi stessi.

Le definizioni di creatività si sono succedute nel tempo, nel 1929 il matematico francese Hanri Poincarè affermava che:

creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili

Un concetto assai simile a quello espresso da Steve Jobs che ha detto:

la creatività è mettere in connessione le cose.

Secondo Wilson:

la creatività è la ricerca innata dell’originalità. La sua forza trainante è l’amore istintivo che il genere umano prova per la novità.

Il saggio illustra l’importanza che la creatività ha avuto nell’evoluzione umana e l’interrelazione esistente tra il sapere umanistico e quello scientifico.

L’esposizione di Wilson non è, data la natura dell’opera, di tipo narrativo ma risulta chiara e di facile comprensione. L’autore, grande naturalista, partendo dalle origini dell’uomo ripercorre la sua evoluzione sia in senso biologico che culturale. Mostra come il sapere umanistico e il sapere scientifico trovano fondamento nell’istinto creativo dell’uomo. Wilson ritiene che l’uomo abbia potuto sviluppare il linguaggio grazie alla creatività e che quest’invenzione abbia determinato lo sviluppo delle discipline umanistiche. La creatività è, del resto, fondamentale anche per la nascita e la progressione della scienza. Non può esistere alcuna intuizione scientifica in assenza di creatività. Secondo Wilson le discipline scientifiche e quelle umanistiche condividono

l’origine e i processi cerebrali creativi. Possono dunque essere affiancate l’un l’altra e fuse in ampia misura.

Per l’autore:

i due grandi rami della conoscenza l’ambito scientifico e quello umanistico, sono complementari nel nostro esercizio della creatività. 

 Il saggista inglese illustra, portando in esempio come è possibile descrivere e studiare l’isola Sala y Gomez, una piccola isola del Pacifico, ciò che permette di fare l’unione della creatività scientifica con quella umanistica. Nello stesso capitolo Wilson sottolinea come ogni fatto creativo può essere tale solo grazie alla presenza dell’uomo: che cosa si potrebbe dire dell’isola di Sala y Gomez se nessun essere umano l’avesse mai trovata? Per chiarire meglio questo concetto, Wilson, riporta un passo di Così parlò Zaratustra di Nietzsche in cui Zaratustra si rivolge al Sole:

Oh grande astro, che cosa sarebbe la tua felicità se tu non avessi coloro a cui risplendi? 

Wilson esplora le numerose esperienze creative dell’uomo che si sono succedute durante la sua evoluzione ed hanno trovato massima espressione nei periodi “illuministici” conducendo l’umanità dalle origini fino all’era dell’intelligenza artificiale. Oggi l’uomo si trova a fare i conti con diversi problemi dalla cui soluzione dipende la sua stessa sopravvivenza: il cambiamento climatico, il depauperamento degli ecosistemi, le diseguaglianze e le migrazioni. Il saggio di Edward O. Wilson indica la strada per la risoluzione dei problemi che oggi l’umanità deve fronteggiare: è necessario che si realizzi un nuovo illuminismo che permetta di fondere le discipline umanistiche con quelle scientifiche attraverso la creatività:

I due grandi rami della conoscenza condividono le stesse radici dell’impresa innovativa. Le discipline scientifiche si occupano di tutto ciò che può accadere nell’universo; le discipline umanistiche di tutto ciò che è concepibile nella mente umana.

Attingendo alle conoscenze combinate della nostra specie, ognuno di noi può andare ovunque nell’universo, catturare qualsiasi forza, raggiungere qualsiasi meta, cercare l’infinito nello spazio e nel tempo.

 

Concerti che danno alla testa! Musica live e registrata fanno muovere il nostro corpo in modi differenti?

Un concerto di musica dal vivo è un piacevole evento sociale che si colloca tra le forme più memorabili e viscerali di rappresentazione musicale.

 

Ma cosa spinge gli ascoltatori ad assistere ai concerti, a volte con considerevoli spese, quando potrebbero ascoltare le registrazioni delle stesse canzoni direttamente da casa? Un aspetto iconico che caratterizza i live show è il coinvolgimento che lo spettatore ha con gli altri membri del pubblico. I componenti della platea, infatti, si possono spesso considerare tutt’altro che “spettatori”, in quanto in realtà sono essi stessi parte dello spettacolo, attraverso emozioni e relativi movimenti corporei suscitati dalla musica dal vivo. La musica ci spinge a muoverci, e questo è un probabile risultato delle connessioni tra le aree uditive e motorie del cervello, la cui comunicazione durante la previsione del ritmo e del battito può essere misurata in oscillazioni neurali (Sakai et al., 1999; Janata e Grafton, 2003; Grahn e Brett, 2007; Zatorre et al., 2007; Grahn e Rowe, 2009; Fujioka et al., 2012). I movimenti della testa, in particolare, riflettono le emozioni esperite in quel momento di coinvolgimento, e possono favorire il legame con le persone circostanti (Swarbrick et al., 2019). Recenti studi hanno esplorato il coinvolgimento sociale affiliativo sperimentato tra le persone che si muovono all’unisono al ritmo di musica, ma i concerti dal vivo hanno anche altre caratteristiche che potrebbero essere importanti, come il fatto che durante una performance live la musica prodotta sia unica e non prevedibile, né predeterminata. Ciò aumenta l’attesa e i sentimenti di coinvolgimento del pubblico che vi assiste. Sarà per questo motivo che la maggior parte del pubblico riferisce che il costo del biglietto non influenza la scelta di assistere o meno ai concerti (Brown e Knox, 2017)?

Nello studio di Swarbrick, gli sperimentatori hanno osservato l’esperienza del concerto live, testando l’ipotesi secondo cui il semplice fatto di far parte di un pubblico di un concerto dal vivo possa contribuire positivamente all’esperienza dell’ascoltare musica. Il team di scienziati ha utilizzato il motion capture, un sistema di più telecamere emittenti luce e di marcatori di materiale riflettente in grado di rilevare movimenti con estrema precisione. È stata utilizzata questa tecnologia al fine di confrontare le risposte del movimento della testa del pubblico in termini di vigore e di coinvolgimento durante un concerto live della rock star canadese Ian Fletcher Thornley, con quelle di un concerto registrato senza gli esecutori, in cui sono state riprodotte le stesse canzoni (Toiviainen et al., 2010; Burger et al., 2013). I ricercatori hanno anche preso nota di chi del pubblico fosse fan dell’artista e di chi invece fosse ascoltatore neutrale. L’essere fan avrebbe implicato una precedente conoscenza della band e della relativa musica, fattore più che rilevante nell’emotività espressa durante il live.

Con questa sperimentazione, è stato scoperto che sia nei fan, sia negli ascoltatori neutrali, i movimenti della testa erano più vigorosi nel concerto dal vivo che nella condizione di riproduzione dell’album registrato. D’altra parte, in entrambe le condizioni sperimentali, i fan hanno mosso la testa più vigorosamente e con maggiore coinvolgimento al ritmo rispetto agli ascoltatori neutrali. Il maggior grado di coinvolgimento generale nei fan rifletteva probabilmente la loro maggiore familiarità con lo stile musicale dell’artista. Il maggior vigore dei movimenti della testa tra i gruppi rappresentava probabilmente una maggiore eccitazione, un maggiore riscontro fisiologico dell’imprevedibilità del live, e una maggiore connessione con gli artisti e con la loro musica durante il concerto dal vivo (Mazzoni et al., 2007; Leow et al., 2014).

Tra i membri del pubblico, non c’erano differenze tra musicisti e non musicisti nel vigore del movimento o nella sincronizzazione al ritmo. Allo stesso modo, Bernardi e colleghi (2017) hanno riferito che la formazione musicale non influenza il grado di sincronizzazione delle risposte autonomiche al ritmo della musica sperimentata in un ambiente di gruppo. Entrambi questi risultati suggeriscono che le risposte di coinvolgimento del pubblico sono indipendenti dalla formazione musicale.

Lo studio di Swarbrick dimostra quindi che, oltre alle caratteristiche acustiche della musica, anche i fattori ambientali e personali influenzano il movimento in relazione ad essa. In particolare, la familiarità con l’esecutore e lo stile musicale ha portato a un aumento del movimento e del coinvolgimento, mentre la performance dal vivo in sé ha portato a un aumento significativo del vigore delle movenze del capo, generando il movimento sincrono tra il pubblico, e dunque la prosocialità.

In conclusione, questi risultati confermano che la musica dal vivo ha coinvolto gli ascoltatori in misura maggiore rispetto alla musica preregistrata. In aggiunta a ciò, una preesistente ammirazione per gli artisti può portare ad un maggiore coinvolgimento psicofisico.

 

L’essere e il vivere la coppia – Video dell’evento di Studi Cognitivi Modena

Il Centro Clinico Studi Cognitivi Modena ha organizzato un incontro informativo gratuito rivolto al pubblico sul tema delle relazioni di coppia. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video dell’evento

 

  Si è trattato di un incontro partecipato in cui è stato definito che cosa significa essere coppia oggi. Sono state inoltre trattate quelle che possono considerarsi le più comuni conflittualità e che, con il tempo, possono andare a incidere con l’intesa di coppia.

Hanno condotto l’incontro la Dott.ssa Daniela Rebecchi e la Dott.ssa Arianna Ferretti.

Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

GUARDA IL VIDEO DELL’EVENTO:

L’essere e il vivere la coppia

 

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Hikikomori: il ritiro sociale degli adolescenti e l’impatto pandemico

Hikikomori è un termine giapponese che significa letteralmente “ritirarsi” (Zielenziger, 2008) e che rimanda ad una particolare condizione riscontrata nei giovani adolescenti, i quali si ritirano letteralmente dalla vita sociale, passando gran parte del loro tempo nella propria stanza, guardando la tv o giocando ai videogiochi.

 

 Si riduce volontariamente lo spazio dedicato alle relazioni compensandolo con la partecipazione alla vita virtuale, tramite i social (Ohashi, 2008).

Viene invertito il ritmo sonno-veglia e si riscontra nel tempo una compromissione del percorso di studi o della ricerca di lavoro (Aguglia et al., 2010). Ci sono diversi dibattiti in merito, alcuni dei quali sottolineano come uno dei fattori che spinge al ritiro sociale sia dovuto ad una inadeguatezza rispetto agli standard troppo alti di apparenza e successo, propri della nostra società.

Periodi prolungati di solitudine contribuiscono alla perdita delle competenze sociali e abilità comunicative indispensabili per interagire con il mondo esterno (Aguglia et al., 2010).

Come ha contribuito la pandemia da COVID-19 al fenomeno hikikomori?

Questa pandemia ha messo tutti con le spalle al muro, ognuno dentro il proprio ruolo costretto a dover rivedere il modo di vivere, adattandolo alle svariate indicazioni da seguire atte a contenere i contagi. Se c’è una categoria che però ne sta risentendo particolarmente è quella adolescenziale.

L’adolescenza è un periodo della vita molto delicato, una fase di transizione, dallo stato infantile a quello adulto, che pone le basi per lo svincolo dalla famiglia di appartenenza.

L’adolescente rivendica la propria autonomia e individualità, rispecchiandosi nel gruppo dei pari, piuttosto che nella propria famiglia (Marcelli & Braconnier,1994). In questo periodo infatti sono prevalenti le relazioni di amicizia (Bonino,2018). Tuttavia questa situazione di restrizioni e distanziamento sociale sta trattenendo i giovani dentro le mura della propria casa, disabituandoli ai rapporti sociali. Per contro, cresce sempre più il bisogno di confrontarsi non con i genitori, ma con il proprio smartphone, dal quale è possibile ricevere tutte le risposte desiderate.

 Ciò che viene a mancare però, all’interno di questa cornice, è lo sviluppo dell’affettività, dei sentimenti, delle relazioni sociali vere. Per cui il mondo esterno viene sostituito con la propria stanza che diventa invece un mondo interno, nel quale i ragazzi mettono le fondamenta per la propria zona di comfort, rischiando così di perdere la completamente la voglia di uscirne, poiché metterebbero a nudo la propria vulnerabilità.

Come prevenire questo fenomeno?

Educare alla genitorialità resta sicuramente l’antidoto principe. Educare ai sentimenti, ai valori.

Bisognerebbe far prendere coscienza ai genitori delle risorse sulle quali costruire un lavoro insieme. Una risorsa riguarda proprio la vicinanza del figlio in casa, che pur sfuggendo al loro controllo resta sempre nella porta accanto, ed in punta di piedi i genitori potrebbero farsi accogliere e instaurare una forma nuova di dialogo, più costruttiva, che funga da esempio per le relazioni col mondo esterno. È bene non sottovalutare i bisogni fisiologici e gli stati emotivi della persona, aiutarlo nella ricerca della sua identità e progetto di vita, ma soprattutto far comprendere ai propri figli di essere un porto sicuro dal quale partire e tornare ogni qualvolta se ne abbia bisogno.

 

Troppo controllo fa perdere il controllo: una forma di disregolazione emotiva poco considerata – REPORT dall’evento

Il controllo, in particolare l’iper controllo, spesso viene considerato in termini positivi, un sinonimo di perfezione, funzionale al raggiungimento dei propri obiettivi; ma quando questo diventa eccessivo porta ad una estrema sofferenza e a perdere il controllo dei propri stati emotivi.

 

Il 24 Marzo si è svolto il webinar gratuito organizzato dal centro specialistico di Studi Cognitivi per il trattamento dei Disturbi della Personalità. Il Centro ha sede a Modena e propone un percorso innovativo per il trattamento delle problematiche della disregolazione emotiva. Il percorso di cura è strutturato quotidianamente, dal lunedì al venerdì, ed è rivolto a un numero massimo di 12 partecipanti e si struttura sulla base di modelli evidence base per il trattamento dei disturbi della personalità. I nostri modelli di riferimento sono: la Terapia Dialettica Comportamentale di M. M. Linehan (2015), il Multiple Family Program di J. G. Gunderson (2009), il modello LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment) per la concettualizzazione del caso e il Modello Metacognitivo per gruppi di A. Wells (2018).

La Dr. Alessia Offredi psicologa psicoterapeuta lavora anche presso il Centro per i Disturbi della personalità e ha tenuto il webinar allo scopo di analizzare i vantaggi e gli svantaggi del controllo nella regolazione delle Emozioni.

Il controllo, in particolare l’iper controllo, spesso viene considerato in termini positivi, un sinonimo di perfezione, funzionale al raggiungimento dei propri obiettivi; ma quando questo diventa eccessivo porta ad una estrema sofferenza e a perdere il controllo dei propri stati emotivi.

Il controllo non è da considerare una caratteristica patologica dell’essere umano, tutti hanno un livello di controllo più o meno elevato che oscilla tra il polo del discontrollo e il polo dell’iper controllo, ciò che risulta importante è muoversi tra la mediana di questo continuum ed agire in modo più o meno controllato a seconda delle necessità.

A questo proposito esiste un continuum valido per tutti dove da un lato vi è la polarità del discontrollo ossia persone impulsive, tendenti alla drammatizzazione che corrono rischi e vivono emozioni soverchianti, mentre al polo opposto la polarità dell’iper-controllo è caratterizzata da persone timide, inibite, pianificatrici che controllano l’espressione delle proprie emozioni.

E’ importante considerare il controllo anche in termini positivi, in particolare uno dei principali vantaggi è la sua funzione prosociale: permette all’uomo di vivere in relazione con gli altri, di aggregarsi in clan e in tribù. Rilevare e controllare le proprie emozioni e intenzioni è stato essenziale per creare il legame sociale che è la chiave della sopravvivenza umana.

Inoltre il controllo consente all’uomo di inibire la propria spinta all’azione ovvero di non seguire ogni impulso e vivere in prossimità degli altri; gli permette di perseverare e pianificare per il futuro, piuttosto che rilassarsi e aspettare di ricevere risorse dalla natura, la perseveranza induce a procacciare risorse mentre la capacità di pianificazione permette di conservare risorse per quando non si potranno reperire assicurando la sopravvivenza del gruppo.

Infine il controllo consente di regolare i segnali comunicativi e le idee sul mondo, permette di segnalare le intenzioni da lontano attraverso le espressioni facciali. Questo consente di conservare energia, risolvere conflitti o iniziare collaborazioni senza un grande impegno iniziale in modo sicuro.

La teoria biosociale analizza l’ipercontrollo come l’esito di un’interazione tra tre componenti: la componente nurture riguardante le influenze socio-biografiche, una componente nature che riguarda il temperamento biosociale e le influenze genetiche ed infine la componente coping ossia le strategie di fronteggiamento visibile.

Per quanto riguarda la componente nature, ogni essere umano nasce con un cervello differente, e la risposta neuronale delle varie aree cerebrali a certi stimoli è rapida e differente per ognuno di noi.

Le persone con iper-controllo, a questo proposito, sono caratterizzate da: scarsa sensibilità alla gratificazione, alta sensibilità a possibili minacce, alto controllo inibitorio e alta attenzione ai dettagli; questa persona, inoltre, cresce in un ambiente che sostiene il bisogno di essere performante, controllato e serio.

Ogni individuo vive poi in ambienti diversi (culturale, famigliare, tra pari..) che possono influenzare eventi di iper controllo e sostenere alcuni punti come: l’autocontrollo imperativo, errori imperdonabili, essere sempre pronti, vincere è essenziale, mai mostrare debolezze.

Infine con il tessuto temperamentale innato e con gli apprendimenti dell’ambiente la persona impara a muoversi nel mondo con determinate strategie, apprende che se si muove nel mondo evitando rischi non pianificati, mascherando i propri sentimenti e rimanendo distaccata dagli altri può ridurre la possibilità di fare degli errori e apparire vulnerabile o fuori controllo.

Quando, però, l’iper controllo diventa maladattivo porta ad una serie di conseguenze negative per l’uomo; tra queste è possibile citare la scarsa ricettività e apertura alla novità ossia la persona ipercontrollata tenderà ad evitare una situazione di incertezza o rischi non pianificati e tenderà a non cogliere critiche. Porta poi a scarsa flessibilità nel controllo, il soggetto avrà bisogno di struttura e ordine, iperperfezionismo, pianificazione compulsiva, e alte regole morali.

Un ulteriore conseguenza è l’espressione emotiva pervasivamente inibita e scarsa consapevolezza emotiva, le emozioni infatti vengono espresse in modo non sincero o incongruente con il reale sentimento. Infine vi è scarsa connessione sociale e intimità con gli altri caratterizzata da relazioni distanti e distaccate, la sensazione di essere diversi dagli altri e ridotta capacità di provare empatia.

Tutti questi aspetti possono comportare dei pregiudizi nell’atteggiamento assunto verso persone con iper controllo, in particolare è facile presumere che il comportamento pubblico sia uguale a quello privato oppure che sia tutto come sembra.

Esiste un trattamento fondato e ritagliato su queste problematiche di iper controllo che prende il nome di Radically Open Dialectical Behaviour Therapy (RO-DBT).

Il suo ideatore fu Lynch secondo il quale il benessere psicologico comprendeva la ricettività e l’apertura a nuove esperienze e feedback disconfermanti per favorire l’apprendimento, il controllo flessibile per l’adattamento alle condizioni ambientali e l’intimità e la connessione con almeno una persona, sulla base del fatto che la nostra sopravvivenza dipende dalla capacità di costruire legami duraturi e operare all’interno di un gruppo.

L’intervento dopo una prima fase di orientamento e impegno inizia ad essere svolto in parallelo in un setting individuale e di gruppo: gli obiettivi raggiunti nel trattamento individuale sono comportamenti a rischio per l’incolumità, le rotture dell’alleanza viste come momenti di apprendimenti e gli aspetti comportamentali che allontanano il paziente con iper controllo dagli altri; mentre gli obiettivi del trattamento gruppale invece includono l’apertura radicale per riuscire ad essere aperti agli apprendimenti di nuove informazioni, si lavora sui segnali sociali e maladattivi e infine sugli aspetti comportamentali

In conclusione è importante sottolineare come le persone con ipercontrollo non devono imparare a impegnarsi di piu o sforzarsi di più.. ma di meno.

 

TROPPO CONTROLLO FA PERDERE IL CONTROLLO – VIDEO:

 

Attaccamento e relazioni adulte: posso fidarmi di te?

Le relazioni sentimentali rappresentano uno dei legami sociali più complessi e significativi. Le interazioni ripetute con le nostre figure di attaccamento durante l’infanzia sembrano giocare un ruolo molto importante nella scelta e nella percezione di affidabilità del partner sentimentale.

 

Il termine attaccamento è stato proposto per la prima volta dallo psichiatra inglese John Bowlby, secondo cui ‘‘l’essere umano manifesta una predisposizione innata a sviluppare relazioni di attaccamento con figure genitoriali primarie’’. Bowlby descrive l’attaccamento come un “sistema” a due polarità opposte: da una parte l’esigenza di vicinanza con le figure di attaccamento primarie, dall’altra i bisogni di esplorare l’ambiente circostante. La funzione principale dell’attaccamento è quella di garantire il massimo livello di sicurezza all’interno di specifiche situazioni relazionali ed esistenziali soddisfacendo entrambe le polarità, proteggendo dai pericoli e favorendo l’esplorazione. La figura di attaccamento primaria (generalmente la madre) assume il ruolo di base sicura da cui tornare dopo aver esplorato, se la situazione si fa pericolosa o angosciante. Perché si parli di attaccamento devono essere presenti tre condizioni di base.

  • effetto base sicura: si fa riferimento a quell’atmosfera di fiducia creata dalla figura d’attaccamento, legata alle aspettative di comportamento.
  • comportamenti di ricerca della vicinanza: ricerca di contatto fisico nei bambini (come essere presi in braccio, vedere, ascoltare o essere toccato dalla madre) per mantenere la vicinanza e favorire il contatto con la figura di attaccamento.
  • proteste di separazione: per richiamare l’attenzione e la vicinanza della figura di attaccamento (piangere, strillare, colpevolizzare, accusare o mettersi in pericolo) quando la vicinanza è pregiudicata.

Con la teoria dell’attaccamento Bowlby suggerisce che le interazioni con le figure di attaccamento primarie durante l’infanzia modellano il modo in cui gli individui percepiscono se stessi, gli altri e le relazioni. Le ripetute prime interazioni con le figure di attaccamento primarie generano quelli che Bowlby chiama Modelli Operativi Interni (M.O.I.), cioè rappresentazioni interne di sé stessi, delle figure di attaccamento, delle relazioni e del mondo. I M.O.I. si formano nel corso delle prime esperienze di attaccamento e persistono in maniera relativamente stabile con l’avanzare dell’età. I M.O.I. influenzano infatti il rapporto fra l’individuo e l’ambiente anche in età adulta, determinando il tipo di percezione della realtà e il tipo di aspettative relazionali. Il concetto dei modelli operativi interni potrebbe spiegare come le nostre esperienze di vita influenzino i nostri comportamenti futuri, compresi quelli relativi alle relazioni di coppia.

Sono stati individuati tre principali stili di attaccamento:

  • sicuro o di Tipo B: la figura di attaccamento primaria viene percepita come base sicura, da cui potersi allontanare senza timore per esplorare l’ambiente e da cui ritornare quando il mondo risulta troppo pericoloso. È il risultato di una figura di attaccamento primaria responsiva e disponibile, che fa sperimentare al figlio un senso di sicurezza e fiducia.
  • insicuro evitante o di Tipo A (detto anche distanziante): nei momenti di pericolo si verifica nel bambino una disattivazione del sistema di attaccamento e iperattivazione dei comportamenti di esplorazione, come risultato di una figura di attaccamento primaria rifiutante verso le richieste di aiuto del figlio.
  • insicuro ambivalente o di Tipo C (detto anche resistente): il bambino manifesta vissuti ambivalenti nei confronti sia della figura di attaccamento primaria sia dell’esplorazione. Risultato di una figura di attaccamento primaria incoerente e imprevedibile, che oscilla tra gli estremi rifiutante-invadente rispetto ai bisogni del figlio. Si assiste a un’iper-attivazione del sistema di attaccamento del figlio al fine di vigilare costantemente sulla presenza della figura di attaccamento di cui non si ha fiducia e certezza.

Bowlby crede che il formarsi di una coppia amorosa non sia casuale, ma che la scelta del partner sia particolarmente influenzata dalle nostre esperienze di attaccamento con le figure di attaccamento primarie. Saremo dunque più inclini a scegliere un partner che possa confermare le rappresentazioni relazionali che ci hanno accompagnato fin dalla prima infanzia.

Quando in una relazione di coppia in età adulta il sistema di attaccamento è attivato da eventi stressanti reali o immaginari, gli individui con un attaccamento di tipo C tendono a usare strategie iperattivanti per cercare la vicinanza e ottenere attenzione dai loro partner, mentre gli individui con un attaccamento distanziante tipicamente si impegnano in strategie di de-attivazione che inibiscono la ricerca di supporto dei loro partner.

La fiducia, oltre ad essere una componente fondamentale del sistema di attaccamento, rappresenta una delle caratteristiche più importanti in una relazione romantica sana e stabile. In una relazione romantica la fiducia è relativa alle percezioni dell’affidabilità dei propri partner e le convinzioni riguardo al futuro della relazione:

  • livelli più elevati di fiducia tra partner indicano la certezza che un partner si comporterà in modo pro-relazionale in futuro;
  • livelli medi di fiducia riflettono una maggiore incertezza riguardo ai comportamenti futuri del loro partner;
  • livelli inferiori di fiducia indicano la certezza che un partner non si comporterà in un modo pro-relazione in futuro.

Lo sviluppo di orientamenti di attaccamento sul versante insicuro (ambivalente o evitante), derivanti dalle interazioni con i caregiver primari, rende gli individui poco sicuri della disponibilità e accettazione dei propri partner, andando a minare la percezione di fiducia di coppia.

La letteratura ad oggi sostiene che a maggiori livelli di attaccamento insicuro (ambivalente ed evitante), sono associati minori livelli di fiducia percepita di coppia.

Individui che riferiscono livelli più elevati di attaccamento insicuro (ansioso ed evitante) rispetto all’attaccamento sicuro mostrano anche una maggiore accessibilità ai ricordi negativi legati alla fiducia, minori episodi positivi di fiducia e una minore capacità di gestire efficacemente situazioni in cui la fiducia reciproca viene violata.

 

Le origini traumatiche della tossicodipendenza (2021) di Antimo Navarra – Recensione del libro

Le origini traumatiche della tossicodipendenza, dopo un’iniziale panoramica delle più diffuse sostanze d’abuso e dei meccanismi che favoriscono l’insorgenza ed il mantenimento dei comportamenti di dipendenza, si concentra sulle cause del Disturbo da Uso di Sostanze (SUD).

 

I Disturbi da Dipendenza da Sostanze, definiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come una “malattia ad andamento cronico e recidivante che spinge l’individuo […] ad assumere sostanze […], per avere temporanei effetti benefici […]”, espongono coloro che ne sono affetti ad un maggior rischio di stigmatizzazione, rispetto ai pazienti con differenti diagnosi psichiche: i soggetti dipendenti da sostanze, infatti, essendo percepiti dalla società come responsabili per la propria condizione, sono particolarmente esposti a fenomeni di discriminazione sociale (Schomerus et al., 2011).

Tale stigmatizzazione ha effetti estremamente dannosi sulla vita degli individui tossicodipendenti, che frequentemente arrivano ad interiorizzare il giudizio discriminante, con conseguente diminuzione dell’autoefficacia relativa ai tentativi di disintossicazione (Schomerus, Corrigan et al., 2011; Matthews et al., 2017). Ai fini dello sviluppo di misure di contrasto ai pregiudizi, potrebbe risultare utile il favorire una maggior comprensione dei meccanismi, biologici e psicologici, sottostanti i comportamenti di dipendenza (Sattler et al., 2017); una buona risposta a tale necessità è fornita dal saggio di Antimo Navarra, dal titolo Le origini traumatiche della tossicodipendenza (Navarra, 2021).

Il trattato, dopo un’iniziale panoramica delle più diffuse sostanze d’abuso e dei meccanismi che favoriscono l’insorgenza ed il mantenimento dei comportamenti di dipendenza, si concentra sulle cause del Disturbo da Uso di Sostanze (SUD). In tale sezione Navarra offre un ritratto della tossicodipendenza da un punto di vista insolito ed interessante, a livello sia clinico che umano: dalla trattazione dell’argomento, accompagnata ed avvalorata da teorie e dati scientifici, emerge alle spalle dei soggetti con SUD la frequente presenza di una storia di vissuti travagliati, implicabili nello sviluppo di caratteristiche individuali, quali deficit nella regolazione emotiva e difficoltà nella gestione dello stress, che costituiscono dei fattori di rischio per lo sviluppo dei comportamenti di dipendenza. La terza parte del saggio si concentra sull’evoluzione, in un’ottica sistemico-relazionale, del rapporto tra l’individuo e l’assunzione di stupefacenti: dalla trattazione emerge un quadro caratterizzato da una problematicità pervasiva, stratificata a livello individuale, relazionale e sociale, da affrontare con un intervento focalizzato su più aspetti; l’ultima parte dell’opera è perciò dedicata all’analisi di alcuni trattamenti clinici, la cui applicazione risulta particolarmente efficace nel caso di diagnosi di Disturbi da Dipendenza.

In conclusione l’opera di Navarra costituisce uno strumento capace di fornire non solo una conoscenza globale sulle dinamiche sottostanti il SUD, ma anche stimolanti spunti di riflessione sull’argomento, pur mantenendo uno stile scorrevole che ne rende la lettura piacevole, oltre che formativa.

 

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