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Linguaggio del corpo ed espressioni facciali: quale dei due stimoli è più rilevante?

Viso e corpo contribuiscono entrambi a trasmettere informazioni di carattere emotivo. Quando per riconoscere uno stato emotivo ci focalizziamo sulle espressioni facciali, il linguaggio del corpo rappresenta uno stimolo ambientale essenziale al fine della comprensione e viceversa.

 

 Sia il viso, sia il corpo umano contribuiscono a trasmettere informazioni di carattere emotivo. Se durante una conversazione, ad esempio, osserviamo il linguaggio del corpo o le espressioni facciali del nostro interlocutore, noteremo che i suoi movimenti (o micromovimenti) contribuiscono a definire ciò di cui si sta parlando apportando una dose massiccia di contenuto emotivo. Molti studi hanno però scoperto che le singole espressioni facciali o corporee non possono descrivere l’interezza dell’emozione provata dalla persona. (Aviezer, Trope e Todorov, 2012a; Aviezer, Ensenberg e Hassin, 2017). Il viso ed il corpo, infatti, sono interdipendenti ed intrinsecamente correlati. Ciò detto, non è difficile intuire che per ottenere il reale significato nel contesto di conversazione, è necessario prendere in considerazione l’espressione emotiva totale che si verifica in quel determinato momento (Barrett, Mesquita e Gendron, 2011).

Quando mettiamo in atto il riconoscimento facciale delle emozioni, il corpo rappresenta uno stimolo ambientale essenziale al fine della comprensione. D’altra parte, se si focalizza l’attenzione sul corpo della persona che si osserva, il viso diventerà un’informazione di sfondo, ma pur sempre rilevante. Questo approccio di interdipendenza tra viso e corpo ha rivelato meccanismi efficaci e unici che differiscono completamente dalle precedenti teorie basate sulla concettualizzazione di volto e corpo come isolati l’uno dall’altro (Zang et al., 2019).

La capacità di estrarre corrette informazioni emotive dalle espressioni facciali e corporee è fondamentale per lo sviluppo delle abilità sociali. Precedenti studi hanno dimostrato che le espressioni corporee influenzano notevolmente il riconoscimento delle espressioni facciali di base. Tuttavia, pochi studi hanno preso in considerazione l’idea che le espressioni facciali possano influenzare il riconoscimento delle espressioni corporee. Lo studio di Zang e colleghi (2019) ha cercato quindi di indagare se le espressioni facciali abbiano un impatto sul riconoscimento delle espressioni corporee in modo asincrono, utilizzando quattro emozioni di base: gioia, tristezza, paura e rabbia.

Gli autori dello studio hanno ipotizzato che la visione di espressioni emotive coerenti tra viso e corpo, come ad esempio di espressioni e movenze esprimenti entrambe paura, avrebbero comportato nell’individuo che osservava una maggiore precisione di risposta e tempi di reazione più rapidi. Per testare la velocità e l’accuratezza di risposta dei soggetti, sono state mostrate sia emozioni congruenti, sia discordanti tra viso e corpo, partendo dal presupposto che la visione di un volto spaventato appena prima di quella di un corpo gioioso avrebbe rallentato i tempi di risposta nel riconoscimento dell’emozione.

 I partecipanti, 59 giovani adulti in salute, hanno quindi eseguito un compito di priming emotivo, ovvero quell’effetto psicologico per il quale l’esposizione ad uno stimolo, in questo caso la visione di emozioni espresse da un viso, va ad influenzare la risposta a successivi stimoli, che in questo esperimento coincidevano con la visione di emozioni espresse mediante il corpo. Nel compito, infatti, gli stimoli di priming includevano la visione di quattro espressioni, mentre gli stimoli target, cioè di oggetti di interesse della sperimentazione, consistevano in espressioni corporee corrispondenti alle stesse emozioni.

I risultati dello studio hanno indicato che la percezione delle emozioni attraverso le espressioni facciali ha influenzato significativamente l’accuratezza e il tempo di reazione per la categorizzazione delle emozioni basata sul corpo, in particolare per l’espressione corporea della felicità. Sulla base dell’analisi del tempo di reazione, infatti, è stato osservato un significativo effetto di congruenza solo per la condizione di espressione corporea felice. A conferma di quanto ipotizzato dagli autori, l’accuratezza del riconoscimento delle espressioni congruenti tra viso e corpo era maggiore, rispetto a quella delle espressioni incongruenti. Inoltre, nelle risposte a stimoli confusi e incongruenti, era probabile che le espressioni corporee fossero etichettate con l’emozione espressa in precedenza con il viso, determinando la superiorità del volto sul corpo nel riconoscimento dell’emozione (Zang et al., 2019).

Il presente studio mirava ad esaminare l’influenza delle espressioni facciali sulle espressioni corporee, in cui viso e corpo fungevano rispettivamente da priming e bersaglio. I risultati hanno fornito prove che indicano che le informazioni emotive estratte dalle espressioni corporee, in particolare quelle che rappresentano la felicità, sono state influenzate dalle espressioni facciali, rivelando il ruolo critico delle espressioni facciali nel riconoscimento delle espressioni corporee.

 

Le problematiche della Didattica a Distanza (DAD): intervista alle esperte – VIDEO

L’acronimo DAD, Didattica a Distanza, è ormai diventato un termine d’uso quotidiano, ma sono davvero ben noti i risvolti psicologici di questa profonda trasformazione?

 

Uno dei settori più colpiti dal diffondersi del Coronavirus e dalla conseguente attuazione dello stato d’emergenza è stato senza alcun dubbio quello scolastico. Nel corso degli ultimi due anni, infatti, gli insegnanti, il personale scolastico, i genitori ma soprattutto gli alunni hanno vissuto ed anche “subìto” tutto ciò che lo spostamento delle attività didattiche in modalità online ha comportato. L’acronimo DAD, Didattica a Distanza, è ormai diventato un termine d’uso quotidiano, ma sono davvero ben noti i risvolti psicologici di questa profonda trasformazione? A poche settimane dalla conclusione dell’anno scolastico, sappiamo realmente cosa ha significato per i più piccoli questo cambiamento? In che modo bambini e ragazzi ne hanno risentito e/o si sono adattati a questa inaspettata realtà?

Per esaminare più da vicino le problematiche della DAD e comprenderne meglio gli effetti su bambini e ragazzi, abbiamo intervistato tre esperte in Psicoterapia dell’Età Evolutiva:

Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’intervista. Nei prossimi giorni pubblicheremo la seconda parte dell’intervista, nella quale verranno riportate alcune riflessioni in merito alla DAD.

DIDATTICA A DISTANZA (DAD) – LE PROBLEMATICHE

Guarda il video:

 

 

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Creatività e adattamento psicosociale in età evolutiva

La creatività è un’attività mentale che fa parte del “pensiero divergente”, cioè quel tipo di pensiero che permette di generare risposte originali ed alternative di fronte a un determinato problema (Gryazeva-Dobshinskaya et al., 2020).

Alessia Molendi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Data la sua relazione con il pensiero flessibile e il problem solving, la creatività riveste un ruolo importante nel funzionamento dei bambini durante il processo di sviluppo. Il pensiero creativo implica la considerazione di termini astratti e l’adozione di più punti di vista su un’attività. Questo decentramento, inteso come la capacità di prestare attenzione a molteplici aspetti di una situazione favorito dall’impegno in compiti creativi, è stato collegato a una maggiore intelligenza emotivo-sociale, definita come una maggiore capacità di comprendere ed esprimere noi stessi, comprendere e relazionarsi agli altri e far fronte alle richieste quotidiane considerando o valutando le conseguenze di azioni immaginate. Impegnarsi in attività creative incoraggia la perseveranza e la capacità di contrastare la noia, il che porta a una maggiore autodisciplina e motivazione. La creatività è anche stata associata ad una maggiore auto-accettazione ed ad una migliore capacità di pianificazione e creazione di regole che i bambini possono poi seguire per regolare il proprio comportamento.

Secondo, la “Teoria della soglia intellettuale” di Torrance (1974) esiste una relazione tra intelligenza cognitiva e creatività per cui quando il QI è inferiore a 115-120, i due costrutti formano un unico fattore; invece, con un QI superiore a 120, essi diventano fattori indipendenti.

Inoltre secondo Torrance (1974), la creatività è caratterizzata da due aspetti chiave, cioè l’originalità e l’elaborazione. La prima si riferisce all’abilità di ideare cose nuove; la seconda, invece, fa riferimento alla capacità di approfondire ed integrare le idee iniziali con nuove informazioni, in modo da renderle più complesse ed ottenere una prestazione migliore. A tal proposito, Tunik (2013) ha rilevato che i bambini originali mostrano una maggior tendenza all’esplorazione e all’indipendenza, mentre i bambini che eccellono nell’elaborazione tendendo ad avere il sopravvento e sono emotivamente insensibili.

Per quanto riguarda l’adattamento psicosociale, cioè il funzionamento efficace in ambito affettivo, relazionale e lavorativo, la recente letteratura scientifica ha evidenziato come la creatività e l’intelligenza, in particolar modo quella emotiva, siano due risorse importanti per l’adattamento, soprattutto durante l’infanzia e il periodo scolastico (Salavera et al., 2014). In particolare, gli studi scientifici hanno approfondito il ruolo dell’intelligenza emotiva, cioè della capacità di saper riconoscere e regolare le proprie emozioni e quelle altrui, sull’adattamento psicosociale. Gli individui con alti livelli di intelligenza emotiva sono più abili nel risolvere i problemi di vita quotidiana e mostrano livelli di adattamento psicosociale e di benessere maggiori.

Per quanto riguarda la relazione tra adattamento e creatività, essa è stata indagata soprattutto nell’ambito della psicologia scolastica, in termini di progresso accademico e metodologia didattica.

A tal proposito, Gryazeva-Dobshinskay e colleghi (2020) hanno condotto uno studio volto ad indagare la creatività, l’intelligenza e le risorse di adattamento personale in bambini in età prescolare per individuare possibili strategie di sviluppo delle stesse. Essi hanno riscontrato che l’intelligenza non è l’unico fattore che favorisce l’adattamento psicosociale del bambino, ma esso è influenzato anche dalla creatività, soprattutto durante l’infanzia e il periodo scolastico. Gryazeva-Dobshinskay e colleghi (2018) hanno evidenziato che i bambini con un QI elevato e capacità creative elevate mostravano un miglior adattamento psicosociale. In particolare, i fattori della creatività che favoriscono maggiormente l’adattamento sono l’originalità e l’elaborazione. L’originalità è intesa come la capacità di creare nuove idee, uscendo dagli standard prestabiliti e adottando un atteggiamento di curiosità ed esplorazione dell’ambiente esterno. L’elaborazione, invece, si riferisce alla capacità di approfondire ed integrare le idee iniziali, attraverso un approccio analitico che permette di produrre soluzioni più dettagliate ed elaborate rispetto a quelle abitudinarie. Tali dimensioni sono però sollecitate anche da variabili ambientali, evidenziate dai risultati della ricerca di Dijk e colleghi (2020). Essi hanno mostrato che la percezione di stimoli ambientali ha un impatto sulla creatività, che si differenzia in base a quali indicatori vengono presi in considerazione, alle capacità di attenzione selettiva e al tipo di processi di pensiero innescati.

Un’altra evidenza proviene dallo studio longitudinale di Fancourt e Steptoe (2019), il quale ha esplorato le associazioni tra la creatività e l’adattamento nei bambini. I ricercatori hanno riscontrato che una maggior creatività misurata all’età di 7 anni era associata a un rischio inferiore di instabilità sociale e comportamentale e disadattamento all’età di 11 anni. In particolare, la creatività costituisce un fattore di protezione per i problemi comportamentali, sia internalizzanti, come ansia e depressione, che esternalizzanti, come aggressività e irrequietezza.

Il ruolo che la creatività ha nell’influenzare l’adattamento psicosociale del bambino, crea la necessità di formare gli studenti ad un futuro che richiederà l’utilizzo di un problem solving non solo strategico ma anche originale, efficace e di valore. Tuttavia, la creatività è un’abilità che viene coltivata poco all’interno della scuola, a causa dei vincoli imposti dal programma didattico, dal tempo e dallo spazio. La creatività, infatti, è un costrutto che viene applicato solo ad alcune discipline, come l’arte, quando, in realtà, è una pratica transdisciplinare che influenza tutti gli aspetti dell’apprendimento (Berghetto et al., 2010). Dunque, sarebbe opportuno fornire agli insegnanti degli strumenti pedagogici e didattici che gli permettano di promuovere la creatività all’interno dell’ambiente scolastico, favorendo un approccio originale ad ogni materia e disciplina insegnata. Un altro aspetto importante da considerare è che la creatività non è influenzata solo da variabili individuali e di personalità che, pur essendo importanti, non sempre offrono strategie pratiche agli insegnanti ed educatori, ma è strettamente connessa anche all’ambiente di apprendimento in cui è inserito il bambino. In particolare, essa è favorita da un ambiente ricco di stimoli diversi tra loro che, in seguito a processi di attenzione, possono essere selezionati ed utilizzati in modo unico per generare risposte nuove ed originali. McCoy e Evans (2002) hanno mostrato come un gruppo di bambini era in grado di produrre un maggior numero di risposte originali ad un compito manuale se inserito in un contesto ricco e con un’ottima qualità estetica, rispetto a quando eseguivano lo stesso compito in contesto più povero e scarno. Tuttavia, l’ambiente non si esaurisce nel mero contesto fisico in cui il bambino lavora, ma comprende anche fattori psicologici e pedagogici. A tal proposito, diversi studi, come quello di Chan e Yue (2014), hanno mostrato come la passione, la collaborazione, l’aiuto reciproco, la valorizzazione delle idee e la visione dell’errore come un processo essenziale per l’apprendimento siano fattori che supportano la creatività. In altre parole, l’adattamento psicosociale del bambino è migliore quando quest’ultimo viene inserito in un contesto che promuove e sostiene il pensiero creativo, poiché esso stimola la capacità di pensiero e di ragionamento, il senso di autoefficacia, la resilienza e la motivazione, spingendo il bambino ad acquisire maggior sicurezza in sé stesso e ad impegnarsi di più nell’affrontare le sfide e le difficoltà.

Alla luce di queste evidenze, lo sviluppo del potenziale creativo degli studenti può essere favorito e sviluppato grazie all’azione degli insegnanti e degli educatori, come anche degli amministratori di livello superiore, come i politici addetti al finanziamento d’iniziative a supporto delle scuole, i quali potrebbero attuare delle politiche d’intervento per la promozione della creatività all’interno dell’ambiente educativo. A tal proposito, Richardson e Mishra (2018) hanno ideato un programma che permette agli insegnanti e agli amministratori di valutare quanto e come un ambiente scolastico e di apprendimento sostenga la creatività degli alunni. Il programma, denominato Support for Creativity in a Learning Environment (SCALE), è costituto da 14 item suddivisi in tre categorie, cioè Physical Environment (ambiente fisico); Learning Climate (clima di apprendimento); e Learner Engagement (impegno dello studente). La categoria Physical Environment valuta gli aspetti fisici dell’ambiente di apprendimento in termini di organizzazione dello spazio. Un ambiente a supporto della creatività dovrebbe essere aperto e contenere mobili flessibili, che permettano di modificare lo spazio in modo diverso in base alle attività e creare anche piccoli gruppi che possano lavorare insieme. Inoltre, questa categoria di item valuta anche la disponibilità di materiale accessibile e facilmente utilizzabile, come libri, carta, pastelli, pennarelli, stampanti, strumenti tecnologici e altre forniture.

La categoria Learning Climate valuta l’atmosfera che si crea all’interno della classe, ed in particolare, le interazioni tra insegnante e studenti e tra studenti e il clima in generale. La creatività è supportata da un clima di cooperazione e condivisione, in cui gli alunni possono esprimere liberamente le proprie idee, senza essere giudicati, e in cui sbagliare è un passo fondamentale per apprendere e crescere. Un ambiente chiuso e con standard rigidi di comportamento limita l’espressione volontaria dello studente, il quale si sente inibito dal rispettare delle regole prestabilite e da un ambiente che promuove un apprendimento lineare e unidirezionale insegnante-alunno. Allo stesso modo, l’insegnante deve riuscire a stimolare il potenziale di ogni studente, accettandone le peculiarità e le differenze di pensiero e integrando ogni punto di vista per creare un contenuto comune, condiviso e diversificato. Infine, la categoria Learner Engagement concerne tutti i compiti e le attività in cui gli studenti vengono coinvolti durante le ore scolastiche. I compiti che supportano la creatività coinvolgono l’apprendimento attivo e l’esplorazione, dove tutti i membri dell’ambiente sono visti come co-docenti e co-insegnanti, con un’enfasi sul processo e non sul risultato. È importante porre attenzione più sui compiti effettivi in cui gli studenti sono impegnati piuttosto che sull’obiettivo o lo scopo dell’insegnante, poiché questo potrebbe differire dal lavoro effettivo che gli studenti stanno facendo.

Sebbene, il programma SCALE sia di recente realizzazione e necessita di ulteriori analisi e valutazioni di efficacia, costituisce un esempio di strumento utile per gli insegnanti e gli amministratori che vogliono favorire lo sviluppo della creatività all’interno della scuola. Inoltre, questo programma è anche uno strumento potenziale nel guidare la ricerca e la pratica futura per migliorare la comprensione di ciò che significa creare tipi di ambienti in cui la creatività viene promossa e valorizzata. Nonostante le evidenze scientifiche sostengano che la creatività sia un fattore essenziale per l’adattamento psicosociale del bambino, sono necessari ulteriori studi per comprendere come si combinano tra loro le caratteristiche ambientali ed individuali e i loro effetti sulla creatività, considerando sia gli aspetti qualitativi del processo creativo, che quelli quantitativi, cioè misurabili attraverso test psicometrici.

Inoltre, sarebbe opportuno ideare un programma di educazione e promozione alla creatività da applicare all’interno delle scuole. Tuttavia, è necessario creare degli strumenti standardizzati e scientificamente validi che permettano di individuare i processi e i comportamenti da sollecitare per promuovere il pensiero creativo, così da rendere omogenee le attività tra le scuole. Infine, resta da intraprendere un ulteriore lavoro per esplorare se la promozione dell’impegno con attività creative possa quindi essere utilizzata come intervento per ridurre i livelli di instabilità e disadattamento, rimuovendo così un fattore di rischio per lo sviluppo di ulteriori condizioni di salute psicologica o fisica o comportamenti dannosi per il benessere degli studenti.

 

Il Passero Pellegrino

Attraverso i risultati di un esperimento l’autore affronta il tema della comunicazione e degli aspetti di consapevolezza e inconsapevolezza che la riguardano.

 

Nelle Confessioni Sant’Agostino interrogandosi sul tempo dice: “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so.” (Agostino d’Ippona, 398)

Allo stesso modo accade in merito alla comunicazione: crediamo di sapere benissimo cos’è fino al momento in cui ci interroghiamo sulla sua natura.

A mio avviso, questo accade poiché comunicare è un processo che ci accompagna dalla nascita e ci circonda da sempre esattamente come il camminare.

Comunicare e camminare sono due attività estremamente complesse eppure le svolgiamo senza bisogno di pensarci e spesso senza alcuna consapevolezza.

Attività dunque che divengono automatiche e sulle quali quindi non occorre interrogarsi.

Questo almeno fino a quando non insorge un problema.

Per esempio, se camminando avvertiamo un dolore al ginocchio ci interrogheremo sulla causa di quel dolore. Ci chiederemo se dipenda da una distorsione, dalle scarpe non adatte, dalla nostra andatura o dalla postura non corretta.

Inizierà così una indagine sul nostro modo di camminare, fino a quel momento dato per scontato, appunto automatico.

Tornando alla comunicazione: come possiamo valutare se il nostro modo di comunicare è funzionale e consapevole o presenta e genera ostacoli?

Se una distorsione al ginocchio ci invita ad una riflessione sul nostro modo di camminare, cosa dovrebbe spingerci ad indagare il nostro modo di comunicare?

Uno dei modi possibili per rispondere a questa domanda, a mio avviso, è focalizzare l’attenzione sulla fase di ricezione del messaggio.

Il messaggio, una volta ricevuto dal destinatario, deve essere decodificato ovvero interpretato per comprenderne le finalità ed assegnargli un significato.

Senza una decodifica non è possibile alcuna comprensione poiché il messaggio risulta illeggibile.

Detto questo, la nostra indagine inizia con una domanda: “Disponiamo degli strumenti, delle conoscenze e delle esperienze necessarie a decodificare/comprendere in modo completo il messaggio che riceviamo?”

Per rispondere a questa domanda mi servirò dei risultati di un esperimento che propongo da anni come momento introduttivo ai miei laboratori di comunicazione e che diviene punto di partenza per indagare l’atteggiamento che assumiamo come destinatari di un messaggio.

Nello specifico i dati che presento sono stati raccolti durante 40 incontri in un periodo di 5 anni (2006-2011) interessando 823 persone.

Esperimento

I partecipanti hanno visionato un video in cui due “esperti” si sono confrontati sostenendo ognuno una tesi opposta a quella dell’altro, relativamente al seguente argomento: “Applicazione del modello keynesiano nella spesa pubblica”.

L’argomento oggetto di discussione non è mai stato illustrato ma solo citato in modo generico in modo da non fornire ai partecipanti alcun elemento o dato relativo al tema del dibattere. Tutta la controversia si è basata unicamente su critiche a favore o contro il modello presentato.

Al termine del filmato è stato chiesto ai partecipanti di rispondere (in modo anonimo) ad una unica domanda: “Considerata la natura del modello keynesiano e viste le posizioni sostenute e presentate, quale delle tesi esposte ritieni corretta?”

Tale domanda prevedeva cinque opzioni di risposta:

  • La tesi dell’esperto n.1;
  • La tesi dell’esperto n.2;
  • Nessuna delle due tesi;
  • Entrambe le tesi;
  • Non saprei.

Questi i risultati:

  • La tesi dell’esperto n.1; 39%
  • La tesi dell’esperto n.2; 37%
  • Nessuna delle due tesi; 11%
  • Entrambe le tesi; 4%
  • Non saprei; 9%

Il 91% dei partecipanti ha effettuato una scelta di merito rispetto all’argomento, esprimendo una valutazione sui contenuti.

Dopo che tutti i partecipanti hanno espresso la propria risposta, è stato chiesto ad ognuno di loro di illustrare cosa prevede il modello keynesiano e per quale motivo l’idea scelta sia stata ritenuta convincente.

Il risultato è assolutamente prevedibile:

il 96% dei partecipanti non ha saputo illustrare, neppure sommariamente, cosa fosse il modello keynesiano;
oltre l’80% a distanza di un’ora dall’esperimento non ricordava la natura del confronto appena visionato e nemmeno le posizioni delle parti.

Si conferma che il contenuto oggettivo del dibattere ha un’influenza trascurabile sulla disponibilità della persona ad accogliere un messaggio e considerarlo credibile.

La preferenza è stata espressa quindi in assenza di significative motivazioni logiche, dunque persuasa da componenti che non interessano la razionalità.

Da quando Aristotele nel 330 a.c. definisce la retorica come «la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto» (La Retorica, 330 a.c. , Aristotele), molto si è scoperto rispetto all’influenza che le componenti emotive, psicologiche, sociali, relazionali, biologiche, istintive, ecc… determinano sulle nostre scelte, agendo su canali al di fuori della consapevolezza logica.

Dai primi studi sperimentali condotti da Carl J. Hovland, che nel corso della seconda guerra mondiale presso l’università di Yale indaga gli effetti dei media sulla mente delle persone (Hovland, Janis & Kelley, 1953), alle attuali ricerche condotte grazie agli strumenti di indagine delle neuroscienze, si continua a registrare quanto trascurabile sia l’intervento della componente logica nel sofisticato processo del comunicare.

Siamo dunque consapevoli della nostra comunicazione?

Siamo dunque consapevoli delle nostre scelte?

 

Le origini traumatiche della tossicodipendenza (2021) A cura di A. Navarra – Recensione

Il libro Le origini traumatiche della tossicodipendenza è un viaggio nel fenomeno della dipendenza: è importante comprendere come questo dipenda da moltissimi fattori, i quali si intrecciano e danno vita a strategie comportamentali e ambienti disfunzionali.

 

La tossicodipendenza è un fenomeno e un problema estremamente diffuso in ogni ambiente socio-culturale e sta colpendo soggetti sempre più giovani. È una problematica che racchiude dentro di sé numerose dinamiche, controverse e difficili, che vanno ben oltre il semplice stereotipo diffuso del “drogato” come una persona inetta che decide di rovinarsi la vita abusando di sostanze diverse.

È necessario sempre interrogarsi su come la persona sia giunta a quel punto, e oggi è fondamentale porsi questa domanda per comprendere come mai la tossicodipendenza sia un fenomeno che si sta sempre più diffondendo tra i giovanissimi.

Antimo Navarra nel suo libro “Le origini traumatiche della tossicodipendenza” accompagna il lettore passo a passo nella comprensione di un fenomeno così complesso, ma così sottovalutato nell’ideologia comune.

Il libro è diviso in quattro capitoli. Nel primo viene presentato un panorama descrittivo delle droghe deprimenti, stimolanti e allucinogene, presentandone le caratteristiche e i meccanismi d’azione, le modalità d’assunzione e i loro effetti; inoltre, vengono presentate la maggior parte delle teorie esplicative che cercano di spiegare come e perché si instaura un disturbo d’abuso di sostanze. Infine vengono introdotti e sviscerati i meccanismi alla base della dipendenza, come il craving.

Il secondo e il terzo capitolo costituiscono il cuore del libro, affrontano gli aspetti più complessi e influenti nel disturbo da uso di sostanze, così come qualsiasi altro disturbo psicologico e psichiatrico: rispettivamente affrontano la teoria dell’attaccamento e la relazione familiare. La Teoria dell’attaccamento di Bowlby viene presentata per evidenziare come la relazione di attaccamento che il bambino sviluppa con le figure genitoriali (nello specifico con la madre) abbia un ruolo importantissimo: funge da modello a tutte le relazioni che il bambino costruirà da adulto, determinando e influenzando le modalità comportamentali e lo sviluppo di strategie funzionali o disfunzionali. Risulterà evidente quindi come ci sia un forte legame tra le esperienze traumatiche legate all’attaccamento e il disturbo da uso di sostanze.

Nel terzo capitolo invece si esamina il ruolo della famiglia, ma non viene semplicemente descritta l’influenza che esercita: Navarra evidenzia che la tossicodipendenza è un sintomo che permette alla famiglia di mantenere una sorta di equilibrio, concentrando l’attenzione sulla dipendenza e non sulle altre problematiche che possono aver contribuito al suo sviluppo; il sintomo permette di mantenere un’organizzazione familiare. Navarra cita e descrive anche i sei ruoli familiari disfunzionali: il tossicodipendente, l’eroe, il capro espiatorio, il custode, la mascotte e il bambino perduto, riportando come ognuno di essi abbia una funzione specifica.

Il libro termina con un focus sulle diverse modalità di intervento: la Terapia Cognitivo-Comportamentale, l’EMDR e la Acceptance and Commitment Therapy (ACT). Ogni modalità di intervento viene descritta e relazionata all’efficacia che può avere in un disturbo da uso di sostanze.

Come detto, il libro è un viaggio nel fenomeno della dipendenza: è importante comprendere come questo dipenda da moltissimi fattori, i quali si intrecciano e danno vita a strategie comportamentali e ambienti disfunzionali.

Le origini traumatiche possono causare comportamenti autodistruttivi e disorganizzati, meritano un’attenzione chirurgica. Smettere di abusare, cambiare vita, non è una decisione che si può prendere basandosi esclusivamente sulla propria volontà: le droghe agiscono e modificano i diversi sistemi cerebrali e creano difficoltà che vanno ben oltre la volontà della persona.

Navarra introduce la tossicodipendenza descrivendone, dettagliatamente e tecnicamente, le diverse cause, ma anche le diverse comorbilità con altre psicopatologie, al fine di rendere consapevoli i lettori di quanto sia un disturbo che cela al suo interno delle complessità notevoli. L’autore lo fa riportando una ricca bibliografia e permettendo a ogni lettore di comprendere concretamente il fenomeno che si sta trattando.

Cercare di staccarsi da uno stereotipo per comprendere meglio qualcosa che non conosciamo, non significa giustificare un comportamento, bensì mettersi in una posizione che ci permette di conoscere e aiutare l’altro adeguatamente.

 

Tra disastri e violenze: l’influenza dei mass media sulla salute psicologica

Gli autori hanno ipotizzato che l’esposizione ai mass media avrebbe determinato un impatto significativo sulla salute psicologica dei soggetti e che differenti variabili avrebbero moderato i risultati degli studi.

 

I progressi della tecnologia hanno incrementato un’esposizione ai disastri e alla violenza su larga scala, senza precedenti (Slone & Shoshani, 2010). Dato il vasto numero di persone che utilizzano i media e la crescente propensione delle testate giornalistiche a servirsi di tecniche volte a dare una rilevanza continua e su larga scala a tali spiacevoli eventi (Jain, 2010), appare sempre più rilevante che i ricercatori si occupino di esplorare il potenziale impatto psicologico dei contenuti mediatici.

C’è stato un lungo dibattito accademico sul fatto che i media con contenuti violenti potessero costituire o meno un’esposizione alla violenza. Alcuni studiosi sostengono che molte delle ricerche che collegano i media violenti ai comportamenti aggressivi hanno tratto inferenze infondate a partire da ricerche in gran parte correlazionali (Grimes & Bergen, 2008). D’altro canto, numerosi studi hanno mostrato prove che suggeriscono che l’esposizione ai media possa agire come un antecedente dei sintomi post-traumatici (Pfefferbaum et al., 2014).

Ulteriormente, queste ricerche hanno rinvenuto forti legami tra il consumo di media legati ai disastri e gli esiti psicologici negativi, compreso l’aumento dell’ansia (Schuster et al., 2001), della paura e della depressione (Lachlan, Spence, & Seeger, 2009), un maggiore senso di minaccia (Maeseele et al., 2008) ed aggressività (Argyrides & Downey, 2004).

Anche se molti ricercatori hanno utilizzato metodi sperimentali per esplorare le reazioni psicologiche individuali determinate dall’esposizione mediatica a disastri e minacce su larga scala, in letteratura non vi è una meta-analisi inerente questi studi. Hopwood e Schutte (2017) si sono proposti di effettuare una meta-analisi sui suddetti, al fine di identificare una dimensione complessiva degli effetti psicologici e di consolidare le informazioni riguardanti i principali tipi di reazioni esperite a seguito dell’esposizione ai media.

Una revisione della letteratura ha indicato che, tra le problematiche più frequenti, rientrano l’ansia e la rabbia (Pfefferbaum et al., 2014). Come sottolineato da Slone e Shoshani (2010), l’esperienza di queste emozioni è descritta dalla teoria della motivazione alla protezione (Rogers, 1983). Questa afferma che quando una persona interpreta una situazione come minacciosa, spesso esperisce ansia che, a sua volta, può promuovere un bisogno di voler difendere sé stessi e gli altri e, talvolta, ciò incrementa la rabbia. Questa teoria fornisce un background utile per comprendere come l’esposizione mediatica ai disastri e alla violenza su larga scala possa determinare un senso di minaccia personale o comunitaria, che a sua volta può provocare reazioni come ansia e rabbia. Un’ulteriore teoria che si aggiunge al quadro concettuale è la teoria della conservazione delle risorse (Hobfoll & Lilly, 1993), che sostiene come la capacità di un singolo di affrontare le sfide dipende dalla percezione che il singolo ha in merito al suo personale inventario di risorse pratiche, sociali ed emotive. Maguen, Papa e Litz (2008) hanno postulato che le minacce su larga scala (come il terrorismo) intensificano le percezioni di perdita in aree come l’autostima, l’autoefficacia e il locus of control interno. La perdita di queste risorse può aumentare i livelli di affetto negativo e diminuire le strategie di coping adattive (Moos & Holahan, 2003).

Nella meta-analisi presa in esame, gli autori hanno ipotizzato che l’esposizione ai media avrebbe determinato un impatto significativo sulla salute psicologica dei soggetti. Inoltre, hanno supposto che differenti variabili avrebbero moderato i risultati degli studi. Tra queste vi era la sensibilizzazione della comunità rispetto ad eventi traumatici. Difatti, numerosi studi hanno indicato che la presenza di una storia traumatica precedente aumenti la suscettibilità dei singoli rispetto ad esiti psicologici avversi, come l’insorgenza del Disturbo da Stress Post Traumatico (Chatard et al., 2012; Shrira et al., 2014). Dunque, nella meta-analisi presa in esame, la regione in cui ogni esperimento è stato condotto è stata codificata come una possibile variabile moderatrice, ed è stata creata la variabile denominata “sensibilizzazione della comunità”, al fine di identificare se la regione in questione avesse o meno sperimentato un disastro, nell’arco dei 5 anni precedenti.

Una considerevole dimensione dell’effetto meta-analitico ha mostrato che, attraverso gli studi sperimentali, l’esposizione mediatica ai disastri e alla violenza su larga scala ha portato ad un aumento degli esiti psicologici negativi.

Ulteriormente, l’analisi della variabile moderatrice della sensibilizzazione della comunità ha mostrato che le dimensioni dell’effetto erano significativamente più grandi per gli studi condotti in una regione recentemente esposta ad un certo tipo di disastro o minaccia ritratta dai media. Questo risultato rafforza ulteriormente la teoria degli effetti avversi cumulativi e la teoria della conservazione delle risorse. Se, come suggeriscono gli attuali risultati, la copertura mediatica di disastri ed eventi traumatici ha il potenziale di causare cambiamenti psicologici negativi transitori negli individui, allora è possibile che un’intensa esposizione prolungata possa determinare esiti negativi peggiori.

Le dimensioni degli effetti variano da una regione all’altra. Gli studi condotti in Medio Oriente hanno mostrato dimensioni degli effetti molto più alte rispetto agli studi condotti in altre regioni. Data l’incidenza storica della guerra e degli attacchi terroristici in questa regione (Solomon, Gelkopf, & Bleich, 2005), questi risultati suggeriscono che gli effetti cumulativi di questo tipo di trauma possono rendere le persone più suscettibili a reazioni negative legate all’esposizione mediatica di disastri e violenza su larga scala.

Gli studi analizzati hanno mostrato la presenza di differenti effetti psicologici, di cui l’ansia di stato si è rivelato essere il più frequente. Questo risultato è coerente con la ricerca correlazionale che riporta un legame tra il consumo dei media di contenuti legati ai disastri e l’ansia (Sugimoto et al., 2013).

Dunque, i risultati della presente meta-analisi suggeriscono che il consumo dei media possa essere una fonte di disagio psicologico. Di conseguenza, secondo gli autori, i clinici potrebbero considerare di discutere del suddetto consumo con i pazienti in difficoltà, al fine di valutare se le tipologie di media consultati possano rappresentare un’ulteriore fonte di sofferenza emotiva. Inoltre, coloro i quali si occupano della trasmissione di contenuti mediatici, potrebbero considerare l’impatto generato dai suddetti sui consumatori, specialmente rispetto a coloro che mostrano una maggior vulnerabilità, come gli spettatori in aree vittime di disastri o violenza.

Data la natura onnipresente delle cattive notizie nel mondo moderno, risulta sempre più importante comprendere gli esiti psicologici associati all’esposizione a questo tipo di media.

 

L’impatto del lockdown su persone con disabilità intellettiva. Strategie utili per contrastare i rischi dell’isolamento sociale

In questo periodo di emergenza sanitaria, la comunità scientifica ha cercato di indagare in che modo la pandemia da Covid-19 ha influito sul benessere e sulla qualità della vita delle persone. (Prati, 2020).

Jessica Trentin – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Soprattutto nei periodi di aumento dei contagi, sono stati adottati provvedimenti restrittivi che, pur essendo stati di estrema importanza per poter ridurre la diffusione del virus, hanno avuto preoccupanti implicazioni sulla salute mentale degli individui.

Questo articolo vuole concentrarsi in particolare sull’impatto che la pandemia ha avuto sulle persone con disabilità intellettiva. Queste ultime, infatti, trovano maggiori difficoltà nel comprendere le comunicazioni relative ai comportamenti da adottare per proteggersi e possono percepire maggiore stress mentale trovandosi davanti alle restrizioni delle loro abituali attività (Courtenay e Perera, 2020).

Secondo i criteri diagnostici del DSM 5 (2013), la disabilità intellettiva è un disturbo del neurosviluppo che comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo a diversi ambienti di vita.

Secondo il paradigma bio-psico-sociale che è alla base dell’ICF (Classificazione del Funzionamento della disabilità e della salute dell’individuo) redatto dall’OMS, la persona disabile possiede delle risorse che rimarrebbero latenti a seconda dell’ambiente in cui vive. Di conseguenza, il contesto nel quale una persona con disabilità si trova a vivere può influenzare profondamente l’espressione delle proprie potenzialità, che necessitano di essere stimolate.

Diversi studi, come quelli di McCallion e McCarron (2004) e Walsh (2005), confermano che le persone disabili hanno un rischio elevato di decadimento sia a livello mentale che fisico. Per queste persone, infatti, lo svolgimento di semplici attività quotidiane e ricreative non rappresenta solo un momento di svago e di divertimento, ma è fondamentale per il mantenimento delle abilità minime e per evitare un decadimento precoce.

Ma com’è possibile affrontare un periodo come questo, caratterizzato da continui cambiamenti e restrizioni dei contatti sociali, quando si ha a che fare con persone con una disabilità intellettiva?

In assenza di protocolli per prendersi cura delle persone con disabilità in quarantena, diverse società e associazioni come la SiDiN (Società Italiana per i Disturbi del Neurosviluppo) e l’Anffas Nazionale (Associazione nazionale per Famiglie di persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) hanno elaborato dei documenti nei quali è possibile trovare alcune indicazioni pratiche su come gestire la situazione quando si ha a che fare con persone con una disabilità intellettiva.

Dalla lettura di questi documenti, tra i vari ostacoli che le persone con disabilità intellettiva hanno incontrato durante questo periodo di pandemia, se ne trovano tre in particolare, che hanno contribuito ad alimentare la loro sofferenza psicologica:

  • Le difficoltà di comprensione delle raccomandazioni sulle norme igieniche da adottare durante la pandemia e delle informazioni riguardo la situazione attuale;
  • Gli improvvisi cambiamenti delle proprie routine quotidiane;
  • L’isolamento forzato e la mancanza di contatti sociali.

Per quanto riguarda il primo aspetto, relativo alla comprensione delle informazioni, occorre ricordare che le persone con disabilità intellettiva, al pari delle altre, hanno il diritto di essere informate sulla situazione che stiamo vivendo. Per poter far comprendere loro le raccomandazioni fornite dalle istituzioni per diminuire i contagi, occorre ricorrere ad un linguaggio il più possibile chiaro e personalizzato sulla base dell’età e delle esigenze della persona con disabilità.

Occorre accompagnare queste persone nel reperire le informazioni facendo affidamento sulle fonti ufficiali, per evitare che vengano sovrastimolate da troppe notizie confuse o per non incorrere nelle sempre più diffuse fake news. Per comunicare loro questo tipo di informazioni, può essere utile ricorrere all’utilizzo della Comunicazione Alternativa Aumentativa (CAA) soprattutto nel caso di persone con bisogni comunicativi complessi.

Le misure di contenimento del Covid-19, tuttavia, oltre a non essere comprese, possono risultare difficili da mettere in atto, in quanto possono costituire un grande disagio per queste persone che da un giorno all’altro si sono trovate a dover cambiare le proprie abitudini. Una strategia efficace per prevenire l’insorgenza di eventuali problematiche dovute al cambiamento di routine potrebbe essere quella di sostituire in modo graduale le attività abituali che non è possibile svolgere, con una nuova routine che preveda la pianificazione di diverse attività nel corso della giornata tenendo conto degli interessi e delle peculiarità della persona. Svegliarsi la mattina alla stessa ora programmando in anticipo una sequenza di attività durante la giornata, ad esempio, può fornire sicurezza e prevedibilità. Un ausilio che potrebbe essere utile a questo scopo è l’agenda visiva, uno strumento che attraverso delle figure permette di visualizzare le attività da svolgere durante la giornata, pianificandole all’inizio e seguendole poi una alla volta.

Tra le varie attività da mettere in programma durante la giornata, non deve mancare del tempo da dedicare alla socializzazione. È importante, infatti, dare a queste persone la possibilità di mettersi in contatto anche tramite videochiamate e messaggi con persone care, amici e familiari.

A questo proposito si sono attivate anche varie associazioni che hanno proposto diverse iniziative volte a mantenere i contatti con i loro utenti anche a distanza. È il caso dell’Associazione AIAS di Bolzano, ad esempio, che a marzo 2020 ha pensato di proporre ogni giorno su diverse piattaforme social delle giornate a tema sulla traccia di quello che veniva proposto giornalmente in sede.

Sebbene non sia possibile sostituire il contatto umano, al giorno d’oggi esistono diverse piattaforme online su cui è possibile incontrarsi e che, se ben utilizzate, con l’aiuto di famigliari e operatori, possono mitigare almeno in parte quel sentimento di solitudine e sconforto presente soprattutto in questo periodo.

Occorre ricordare che nel corso degli anni sono stati compiuti molti passi in avanti per quanto riguarda la valorizzazione delle persone disabili all’interno della società. I meriti di tutto ciò possono essere attribuiti alla tenacia con cui il mondo della disabilità ha saputo stimolare ripensamenti e cambiare il modo di rapportarsi nei confronti della disabilità, riducendo il rischio di stigmatizzazione ed emarginazione. La ricerca in quest’ambito può influenzare positivamente il dibattito politico internazionale su come gestire i servizi sociosanitari e la fruibilità dei supporti necessari a queste persone per favorire la loro inclusione (Soresi, 2007).

 

Recensione del film “Il Divin Codino” – Una riflessione psicoanalitica

Il 26 maggio di quest’anno, dopo un’ampia campagna pubblicitaria, è stato distribuito su Netflix Il Divin Codino, film dedicato al celebre calciatore Roberto Baggio.

 

Interpretato da un attore sorprendentemente identico, Andrea Arcangeli, accompagnato da un’esplosiva colonna sonora cantata da Diodato, presentato al pubblico a valle di un anno calcistico caratterizzato dall’impossibilità di frequentare gli stadi: tutte queste premesse hanno alimentato l’entusiasmo di molti sportivi.

La tanta attesa per la pellicola sembra però essere offuscata dalle precoci e insistenti critiche negative:

“Non ci sono le memorabili giocate di Baggio?”;

“Nessun accenno ai mondiali di Italia 90 e Francia 98!”;

“E il pallone d’oro? E gli anni con le maglie di Juve, Milan, Bologna e Inter?”

“Chi guarda il film osserva un fallito che non dimentica un rigore, piuttosto che uno dei calciatori italiani più forte di tutti i tempi!”

Queste sono solo alcuni dei giudizi condivisi sui social, dalle recensioni dei cinofili e soprattutto degli appassionati di calcio.

Vorrei proporre una visione differente che tiene conto della passione per il cinema e della personale lente di ingrandimento psicoanalitica.

Premessa: a mio avviso, se l’intenzione è ripercorrere la parabola di uno sportivo realmente esistito, difficilmente un film potrà essere d’aiuto. Molto pertinenti sono invece documentari nei quali il racconto del percorso è scandito da filmati d’epoca, interviste e testimonianze, il tutto montato ad arte e arricchito da spezzoni musicali che descrivono l’ordine cronologico degli eventi.

L’auspicio secondo cui assistere alla visione di un film che può tracciare dettagliatamente la storia di un campione è destinato a fallire in partenza. Neanche la formula più attuale della serie-tv può riuscirci: la difficoltà non è legata a questioni connesse alla mera durata, ma alla struttura narrativa.

Nel documentario è narrata una storia che lascia poco spazio alla proiezione. Si è osservatori, si partecipa con suggestione, ma si resta separati dal protagonista perché esistono specifici episodi e specifiche coordinate spazio-temporali da seguire.

Guardare un film invece elicita vissuti diversi: induce fenomeni di identificazione col personaggio. Inoltre il tempo è più condensato: seppur si mantiene l’ordine sequenziale degli eventi, i salti temporali rendono l’esperienza quasi onirica.

Un film, che può piacere o non piacere, si connette direttamente ad alcune parti del nostro Sé. Un documentario può invece destare o non destare il nostro interesse, emozionarci o non emozionarci, ma è un’esperienza psicologica differente.

Molte critiche su Il Divin Codino sono dunque riconducibili all’essere un prodotto cinematografico incapace di soddisfare i desideri degli sportivi/telespettatori in era pandemica, relegati in salotto, in attesa di potersi illuminare di fronte al calcio nostalgico degli anni novanta.

Quindi ritengo che un film su Baggio non possa essere giudicato in base alla consistenza dell’approfondimento della storia calcistica, ma piuttosto sulla sua coerenza narrativa e sulla sua capacità di guidare lo spettatore verso ciò che si prefigge di voler raccontare.

A parer mio il film ruota attorno al tema dell’identità personale e del rapporto padre-figlio. Il giovane Baggio è un bambino che cresce in una famiglia con sette fratelli: la sua necessità di voler “essere visto” dall’austero padre, viene tradotta nel proposito di vincere i Mondiali contro il Brasile, rivincita della finale persa dall’Italia nel 1970 quando lui aveva appena 3 anni. Proposito che è alimentato dalle continue critiche paterne, incapace di mostrare riconoscimento per l’astro nascente neoacquisto di una squadra di serie A negli anni ottanta.

Poi arriva l’infortunio, triste presagio di una carriera stroncata sul nascere. Qui il giovane Roberto deve fare i conti con la paura, l’insicurezza, che stridono col forte desiderio di crescere e giocare in Nazionale. Attraverso l’amore della fidanzata e il percorso personale spirituale, Baggio riesce ad arrivare ai Mondiali nel 1994 (è vero, ha giocato anche quelli del 90: ma serve raccontarlo?) l’anno successivo alla vincita del pallone d’oro, il che ci fa capire quanto la giovane promessa sia diventata il calciatore più rappresentativo del panorama europeo.

Poi la storia la conosciamo: la finale di Pasadena, la conclusione della carriera al Brescia di Mazzone, la mancata convocazione del 2006. Quello che non conosciamo ce lo regala il film, ovvero il tormento dell’uomo e l’amore del padre.

Come non pensare al rigore sbagliato: a quello che rappresenta; a quello che ha determinato. La sua sofferenza è un’esperienza universale che ci guida verso quel tipo di sofferenza indotta dalla nostra cultura di riferimento: quella che ci vuole vincenti, “in questo mondo di eroi, nessuno vuole essere Robin” come canta Cesare Cremonini. Il film ci invita a riflettere sul delicato tema del fallimento, perché più delle vittorie è la via di accesso per la crescita personale.

Nella battuta di caccia tra i due protagonisti e il successivo epilogo avviene la catarsi, ovvero si osservano: l’insight, sulla natura celata fino a quel momento che ha indirizzato il proposito personale; lo svelamento dell’amore del padre “E finalmente posso dirtelo: sei stato bravo” sulle note immortali di “Paradise” di Bruce Springsteen; il riconoscimento, nel successivo sguardo commosso del padre che osserva il figlio acclamato dalla folla pur non essendo convocato ai Mondiali. Scene veramente ben interpretate, ben montate, molto significative anche da un punto di vista simbolico.

Forse sarebbe stato più corretto proporre un titolo come “L’uomo dietro il campione” (titolo della canzone di Diodato) e posticipare la distribuzione a settembre piuttosto che nel finale della stagione calcistica. Ma a parte queste mere questioni di marketing, credo che la pellicola rappresenti un prodotto valido. Certo, alcune considerazioni vanno fatte, due per esempio: la trasposizione del personaggio di Sacchi, gigante del calcio italiano, non rende giustizia; inoltre la figura della moglie appare troppo superficiale. Ma al di là di piccoli dettagli, il film sicuramente non merita la pioggia di critiche che ha ricevuto, che necessitano di essere riposizionate alla struttura narrativa piuttosto che alla pellicola in sé, capace di emozionare il pubblico immedesimato e coinvolto.

 

IL DIVIN CODINO – Guarda il trailer del film:

 

Che ruolo per i media nella transizione alla normalità post-pandemia?

Durante la pandemia i media si sono rivelati la cinghia di trasmissione che ha permesso la diffusione e l’adozione di scelte individuali di protezione in linea con le politiche sanitarie, dalle istituzioni alla popolazione generale. Che ruolo avranno nel ‘ritorno alla normalità’?

 

 A novembre del 2021 saranno ormai passati due anni dall’inizio di questa pandemia e, si spera, saremo già ritornati ad abitudini non particolarmente diverse da quelle che avevamo prima che questo evento mettesse in crisi il nostro stile di vita.

I canali di informazione, in tutto questo tempo, ci hanno informato costantemente circa le ipotesi, le ricerche e le considerazioni passeggere sulle possibili conseguenze future a livello individuale (per la salute fisica e mentale), politico, economico e sociale, di questa pandemia.

In base alle ricerche effettuate su pandemie precedenti, era ragionevole, infatti, aspettarsi importanti conseguenze per il benessere di tutta la popolazione. Accanto all’aumento del tasso di mortalità dovuto alla malattia, si prevedeva anche un aumento generale dell’incidenza di tutto lo spettro delle risposte da stress, dei disturbi dell’adattamento, del disturbo da stress post-traumatico, di quadri ansiosi, depressivi o misti, dell’abuso di sostanze e, infine, un aumentato rischio suicidario, solo per citarne alcune (Gruber et al., 2020).

Alla luce di ciò, le ragioni della martellante copertura mediatica sulla pandemia e gli aspetti ad essa connessi sono comprensibili. Senza andare troppo a fondo, era necessario che la popolazione generale comprendesse la pericolosità del virus; era necessario diffondere informazioni sulle misure preventive da adottare per evitare il contagio; era necessario giustificare le ampie restrizioni che avrebbero impattato il nostro quotidiano per lungo tempo.

Da questo punto di vista i media si sono rivelati la cinghia di trasmissione che ha permesso la diffusione e l’adozione di scelte individuali di protezione in linea con le politiche sanitarie, dalle istituzioni alla popolazione generale. Le notizie diffuse quotidianamente hanno fornito alle persone i termini con i quali costruirsi un’adeguata rappresentazione mentale del rischio connesso alla situazione contingente (Kasperson et al., 1988) e un quadro per la sua interpretazione e il suo fronteggiamento. Ne sono la prova la diffusione dell’uso delle mascherine, dell’igienizzazione delle mani e delle superfici, della disinfezione degli ambienti, tutte misure di prevenzione ancora oggi presenti.

Il ruolo positivo dei media in tale frangente è fuori discussione e la ricerca fornisce sostegno a questa considerazione. La copertura mediatica di una malattia si associa positivamente, infatti, alla percezione della sua gravità e della sua rappresentatività (Young, Norman & Humpreys, 2008), innescando una risposta da stress che si associa alla ricerca ulteriore di informazioni (Thompson, Jones, Holman & Silver, 2019) e all’adozione di comportamenti preventivi (Melki et al., 2020).

 Come mai il messaggio è stato così efficace? La ricerca rileva che parte dell’efficacia dei media in periodi come quello che stiamo vivendo è dovuta all’impatto dei cosiddetti ‘appelli alla paura’, ovvero messaggi che sfruttano l’attivazione di stati emotivi di qualità edonica negativa e, preferibilmente, di media o elevata intensità, per stimolare l’adozione di comportamenti, atteggiamenti, emozioni, motivazioni, pensieri, in linea con il contenuto del messaggio (Tannenbaum et al., 2015). Si aggiunge, tra le altre variabili che ne sanciscono l’efficacia, anche l’effetto dell’elevata frequenza con la quale il pubblico è stato esposto a questi messaggi sui principali canali di comunicazione (principio della mera esposizione: Zajonc, 1968).

In conclusione, vedere e sentire ogni giorno il bollettino dei contagi, la situazione critica negli ospedali, le opinioni degli esperti, e ricevere continuamente istruzioni sul cosa fare per prevenire il contagio avrebbe così stimolato le persone ad essere caute e ad assumere comportamenti protettivi. Ciò a sua volta avrebbe permesso di contenere il numero dei contagi e dei morti, di per sé già elevato.

Ad oggi la situazione è cambiata. Con la politica vaccinale attuale è possibile che entro la fine dell’estate tutta la popolazione sia stata vaccinata, e il numero giornaliero dei contagi e dei morti sia sceso in maniera significativa.

Ciò che rimarrà saranno le conseguenze psicologiche, economiche e sociali, di quel che abbiamo vissuto fino adesso. Sono aumentate l’incidenza del disagio e dei disturbi mentali (Webb, McManus & O’Connor, 2021), cresce l’isolamento sociale, i cui effetti negativi per il benessere fisico e mentale sono noti da tempo (Holt-Lunstad, Smith, Baker, Harry & Stephenson, 2015), e sono esponenzialmente aumentate l’incertezza lavorativa ed economica, altrettanto pericolose (Mimoun, Ben Ar & Margalit, 2020).

Utilizzando gli stessi principi che rendono efficace la comunicazione del rischio, i messaggi diffusi alla popolazione potrebbero essere confezionati secondo modalità che sostengano il recupero psicologico verso adeguati livelli di benessere in questa fase di transizione, mentre ci incamminiamo lentamente verso una nuova normalità. I media potrebbero adoperare la propria influenza per sostenere le persone nella costruzione di una rappresentazione del futuro fiduciosa, proattiva e che faccia leva su note risorse di resilienza individuali e collettive, come il senso di autoefficacia, la percezione di controllo, l’hardiness e l’ottimismo, per citarne alcune (i lettori che ne fossero interessati, potranno cercare nel sito molti articoli che ne trattano).

In merito a ciò la psicologia avrebbe molto da proporre.

 

Competizione ed effetti nelle abilità metacognitive

Affrontare una prestazione competitiva, richiede consapevolezza circa le proprie esperienze interiori, come il timore di perdere, l’importanza soggettiva del compito o la sua irrilevanza. Allo stesso modo, è necessario comprendere in modo accurato e realistico ciò che passa nella mente dell’avversario, al fine di regolare le proprie azioni e massimizzare le possibilità di successo. 

 

 La pressione della competizione ed il timore di fallire possono restringere la capacità di attribuire un senso ai propri stati mentali e limitare la prestazione, svalutando difensivamente sé stessi o gli altri (Gergely & Unoka, 2013; Liotti & Gilbert, 2011)

Inoltre, la vergogna che emerge dal sentirsi inferiori, facilmente porta a dimenticare i momenti di riuscita, scartando quelli che erano gli altri fini legati alla prestazione, come il relax, la ricerca della condivisione sociale e il gioco.

La mentalizzazione o metacognizione, genericamente chiamata lettura del pensiero, è la capacità di riconoscere e riflettere sui propri ed altrui stati mentali (Bateman & Fonagy, 2004; Semerari et al., 2003) e comprende diversi domini di consapevolezza. Tra questi, la capacità di nominare e distinguere le sensazioni interiori, descrivere la complessità dei propri pensieri, la consapevolezza che le proprie idee non siano la realtà, la capacità di comprendere pensiero e sensazioni, oltre che le motivazioni alla base del comportamento (Semerari et al., 2003).

Gli individui affetti da psicopatologia formano rappresentazioni negative e rigide sulle intenzioni, pensieri e sentimenti altrui (Choi-Kain & Gunderson, 2008; Semerari et al., 2005, 2015), instaurando interazioni  problematiche e ricche di tensione, conflitto e abbandono (American Psychiatric Association, 2013). Tra loro, la lettura del pensiero è compromessa proprio quando più necessaria, ovvero durante le interazioni guidate da bisogni sociali primari, come l’attaccamento.

Anche il rango sociale sembra essere un fattore chiave alla base dei momentanei fallimenti delle abilità metacognitive. Affrontare contesti competitivi e guidati da antagonismo rende coloro con bassa autostima ipersensibili alla minaccia esterna (Gilbert et al., 2002). Gli individui altamente perfezionisti, sono sensibili al rango nella misura in cui la prestazione definisce il loro valore personale e temono le critiche (Hewitt & Flett, 1991). Anche i soggetti narcisisti sono ipersensibili alle minacce di status (Mahadevan et al., 2019), ed inclini a disturbi metacognitivi quando affrontano esperienze di sconfitta o fallimento.

In relazione alla tipologia di scambio sociale, cooperativo o competitivo, la lettura pensiero può variare. Infatti, oltre a determinare prestazioni migliori (Lee et al., 2018), le attività cooperative attivano maggiormente aree cerebrali legate alla metacognizione, mentre quelle competitive la interrompono, peggiorando la prestazione. Infatti, la cooperazione coinvolge l’attenzione condivisa e la comprensione reciproca degli stati mentali, massimizzando la possibilità di accesso alle risorse da parte di un gruppo.

Diversi autori hanno individuato un legame tra attivazione del rango sociale e scarse capacità metacognitive (Dimaggio et al., 2015; Popolo et al., 2019), soprattutto tra i pazienti che seguivano una psicoterapia (Monticelli et al., 2018).

Monticelli e collaboratori (2018), hanno indagato se durante una situazione competitiva, individui convinti di aver fallito mostravano scarse capacità di comprensione dei propri ed altrui stati emotivi.

È stata valutata la situazione in cui i partecipanti erano direttamente coinvolti in un gioco online (induzione competitiva; gruppo sperimentale) ed un’altra in cui veniva chiesto loro di descrivere gli stati mentali durante una passata esperienza di competizione (gruppo di controllo). Nel primo gruppo, poiché i partecipanti non avrebbero vinto, l’induzione del senso di fallimento avrebbe influito sulle abilità di lettura del pensiero maggiormente rispetto al semplice ricordo di esperienze passate di fallimento.

In seguito alla somministrazione di un’intervista semi strutturata (Metacognition Assessment Interview, MAI; Semerari et al., 2012) per valutare la capacità complessiva di attribuire stati mentali a sé e agli altri; è stato valutato se autostima, perfezionismo e narcisismo potevano influenzare la propensione all’effetto del rango sociale, agendo sulle capacità metacognitive.

I risultati confermavano che l’induzione del senso di fallimento comprometteva maggiormente la capacità di descrivere i propri ed altrui stati mentali, soprattutto per quanto concerne le abilità di autoriflessione. Coerentemente con indagini precedenti, le capacità metacognitive diminuivano durante le interazioni competitive (Lee et al., 2018) e con la percezione vivida del rango sociale.

Nei partecipanti che fallivano sistematicamente contro l’avversario, si riduceva la capacità di formare una comprensione più ampia e sfumata sia della propria mente che di quella altrui. Fallire focalizza l’attenzione sui difetti personali o sul pensiero di venir giudicati nella propria prestazione, trascurando altri aspetti della propria esperienza soggettiva. L’agire in modo difensivo comporta il valutare l’altro esclusivamente nei termini di superiore, dispettoso, critico o rifiutante.

 Per quanto concerne le disposizioni di personalità sulle quali può influire il rango sociale, solo il narcisismo grandioso ha mostrato una sensibilità maggiore verso le esperienze di fallimento. La grandiosità è una difesa verso la percezione di uno scarso valore personale, che porta a soffrire di fronte a una sconfitta e pensare a come proteggersi da sentimenti e idee emergenti di vergogna e inferiorità. Come conseguenza di questo atteggiamento, si riduce la capacità di esplorare la gamma di esperienze psicologiche nei partecipanti durante le interazioni sociali.

Grazie al contributo di questa indagine, è possibile comprendere come la valutazione della metacognizione non possa prescindere dalla comprensione del contesto interpersonale, che al di là dei problemi nel dominio dell’attaccamento, dipende anche dall’attivazione di motivazioni legate al rango sociale (Colle et al., 2017; Popolo et al., 2019)

In campo clinico, sarebbe opportuno rendere i pazienti consapevoli di come la loro capacità di riflettere sugli stati mentali possa essere compromessa durante le esperienze di fallimento, critica o rifiuto. In particolare con i pazienti psichiatrici, è essenziale una valutazione continua dello stato emotivo durante le interazioni cliniche, soprattutto qualora stia attivando uno stato mentale competitivo, che potrebbe condurli alla disregolazione emotiva.

Dunque, in psicoterapia si rivela essenziale mantenere un atteggiamento cooperativo, per preservare le capacità di lettura del pensiero e massimizzare le possibilità di efficacia del trattamento.

 

Autorizzazione a svolgere attività psicologiche nei poliambulatori – La sentenza del TAR

Nei poliambulatori possono essere svolte diverse attività sanitarie, incluse psicologia e psicoterapia.

 

Questa la conclusione cui è giunto il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) per il Lazio dopo il ricorso dell’Ordine degli Psicologi del Lazio a seguito del divieto imposto dalla Regione all’esercizio di attività psicologiche presso un poliambulatorio.

L’episodio scatenante era stata proprio la decisione della Regione Lazio nel gennaio 2019 di vietare l’esercizio della professione psicologica in un poliambulatorio medico, affermando la non appartenenza della psicologia alla medicina.

La sentenza del 21 giugno 2021 ha fortunatamente fatto chiarezza a riguardo, affermando come la disciplina dei poliambulatori si fondi sulla multidisciplinarietà nell’ambito delle professioni sanitarie complessivamente intese, e non solo nell’ambito della professione medica in senso stretto. 

Per attività professionali sanitarie non si intendono infatti solo quelle mediche in senso stretto, lo Stato Italiano riconosce attualmente 30 professioni sanitarie per l’esercizio delle quali è obbligatoria l’iscrizione ai rispettivi Ordini professionali, tra i quali Medici chirurghi e Odontoiatri, Veterinari, Farmacisti, Psicologi, Chimici e Fisici, Biologi, Professioni infermieristiche, Ostetriche, Tecnici sanitari di Radiologia medica e delle Professioni Sanitarie Tecniche, della Riabilitazione e della Prevenzione, per un totale di circa 1.200.000 professionisti che operano in strutture pubbliche e private (Ministero della Salute). La negazione dell’autorizzazione è quindi da considerarsi illegittima.

Federico Conte, Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, ha così commentato la vicenda:

la sentenza segna un importante traguardo in termini di tutela della professione, uno degli orizzonti d’azione in cui il Consiglio dell’Ordine ha investito molte delle sue risorse negli ultimi anni, con ottimi risultati. Ancor più, però, occorre essere soddisfatti per la sua capacità di incoraggiare, promuovere e sostenere la capillare diffusione di servizi psicologici sul territorio, a beneficio di tutta la popolazione laziale, che da anni intravede nello psicologo una figura di riferimento per il proprio benessere.

 

SerenamenteMamma, l’app che promuove il benessere psicologico in gravidanza – Psicologia Digitale

L’app per la gravidanza SerenaMente Mamma propone un intervento suddiviso in 5 moduli basato sulla psicologia positiva e la mindfulness per sostenere il benessere psicologico nelle donne in attesa.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 22) SerenamenteMamma, l’app che promuove il benessere psicologico in gravidanza

 

La gravidanza rappresenta un periodo di profondi cambiamenti per la vita di ogni donna, cambiamenti che portano con sé potenziali vulnerabilità sia dal punto di vista fisico che psicologico; cambiamento di status sociale, ridefinizione dei ruoli e dei compiti in ambito familiare possono comportare stress, sintomi di ansia e depressione, difficoltà nella regolazione delle emozioni, con possibili conseguenze negative sulla gestione della gravidanza, sullo sviluppo del bambino e sull’adattamento neonatale. È indispensabile intervenire già dalle prime settimane ed essere accompagnate e supportate in questo delicato momento di transizione in cui, accanto ad importanti trasformazioni fisiche, i vissuti emotivi della donna possono essere in alcun casi difficili da fronteggiare.

Le app per il benessere in gravidanza

In un periodo impegnativo e delicato come quello prenatale, la promozione del benessere è sicuramente uno dei fattori protettivi. La ricerca psicologica in questo ambito si è occupata principalmente dei disturbi legati a questo periodo anche se un crescente interesse si sta sviluppando proprio sugli aspetti positivi e di crescita. In particolare supporto sociale, meditazione e attitudine positiva possono influenzare positivamente il decorso della gravidanza e, a seguire, la fase perinatale e il parto.

Per aumentare la consapevolezza, accrescere la fiducia nelle proprie capacità e sostenere così le future mamme, sono state sviluppate delle app per la gravidanza, nate per aumentare il benessere in questo importante periodo di vita. Le app hanno il vantaggio di essere semplici da usare, garantiscono la privacy e sono disponibili ovunque e nel momento del bisogno. Come ci ricordano Carissoli e colleghi (2019), hanno anche una funzione educativa e responsabilizzano le donne, aumentando la loro autoefficacia circa il proprio benessere.

Per migliorare lo stile di vita e creare e mantenere abitudini sane durante la gravidanza, Sandborg e colleghi (2019; 2021) hanno creato l’app per la gravidanza HealthyMoms. A partire da una problematica specifica, l’eccessivo aumento di peso gestazionale (comunemente associato a esiti negativi per la salute di madre e bambino), gli autori hanno sviluppato questa app che aiuta a gestire un aumento di peso sano, la dieta e l’attività fisica durante la gravidanza, con esiti positivi grazie ad un approccio integrato (quindi sia con app che controlli periodici) e l’acquisizione di comportamenti salutari durante la gravidanza.

Un’altra app per la gravidanza sviluppata da Doherty e colleghi (2018), BrightSelf, consente il monitoraggio del benessere grazie a un sistema di autovalutazione: le utenti possono fornire attraverso l’app informazioni su come si sentono, raccontare le proprie ansie e preoccupazioni, fornendo ai sanitari indizi fondamentali per comprendere lo stato psicologico durante la gestazione.

A questi contributi si affianca SerenaMente Mamma, sviluppata da un team di ricercatrici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (Prof.ssa Daniela Villani e Dott.ssa Giulia Corno): l’app propone un intervento suddiviso in 5 moduli basato sulla psicologia positiva e la mindfulness (MPPMI: multi-component positive psychology and mindfulness-based intervention). Questi interventi hanno dato ampia prova di essere efficaci nel sostenere il benessere psicologico anche in gravidanza.

Serenamente Mamma: come funziona

L’app è disponibile gratuitamente su Android (al momento è in lavorazione per iOS) ed è compatibile con qualsiasi smartphone e tablet. Al primo utilizzo e prima di avere accesso ai contenuti si deve rispondere ad un test di pre-valutazione finalizzato a valutare lo stato attuale psicofisico relativamente alla gravidanza e all’umore.

Il contenuto dell’app si basa su un protocollo di auto-aiuto composto da 5 moduli per un totale di 15 esercizi che è possibile eseguire da sole quando si vuole: complessivamente, si tratta di un intervento di 35 giorni e 3 esercizi per settimana. 6 esercizi sono basati sulla psicologia positiva, mentre gli altri sono meditazioni guidate basate sulla mindfulness che mirano a sviluppare le capacità di consapevolezza.

Alla termine di ogni settimana le utenti sono invitate a valutare le attività svolte per sbloccare i contenuti della settimana successiva; da quel momento tutti i contenuti sono sbloccati e liberamente riutilizzabili, permettendo quindi di estendere la durata dell’intervento o di rifare dei moduli.

Alla fine dei 35 giorni viene richiesto di rispondere ad un test per una valutazione finale; viene proposta anche una valutazione dell’esperienza in merito ad utilità, facilità e piacevolezza d’uso percepite rispetto all’app.

I cinque moduli di SerenaMente Mamma

Ogni modulo si apre con suggerimenti e consigli corredati da testo, immagini o audio che spiegano come ottenere il massimo dagli esercizi e qual è la loro funzione.

Il primo modulo, “Assaporare la vita”, aiuta a focalizzarsi sulle esperienze piacevoli per trarre il massimo dal momento presente. Il secondo modulo, “Ascoltiamo il corpo”, propone esercizi per aumentare la consapevolezza e l’accettazione interocettiva e gestire i mutamenti del corpo. In particolare l’esercizio “tu e il tuo bambino” ha lo scopo di creare uno stato di connessione diretta per rafforzare la relazione tra madre e bambino e per prepararsi al parto.

Il terzo modulo è dedicato al sostegno sociale, fattore protettivo durante la gravidanza: “Le persone intorno a te” incoraggia a connettersi e migliorare le relazioni coi propri cari, in primis col partner. “Ottimismo, una risorsa positiva” è il quarto modulo dedicato allo sviluppo di un atteggiamento positivo verso il futuro.

Infine, il quinto e ultimo modulo, “Rilassare mente e corpo”, si concentra su tecniche di rilassamento, decentramento e immaginazione guidata, per insegnare ad essere più consapevoli, distanziarsi dai pensieri e considerarli ed osservarli come “eventi” della mente.

Prospettive future

SerenaMente Mamma è la prima app italiana sviluppata per promuovere e migliorare il benessere delle donne durante la gravidanza. Il team di Carissoli e colleghi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha creato uno strumento facile da usare basato su interventi di auto-aiuto di psicologia positiva e mindfulness.
I test inclusi nell’app saranno utili anche per capire quali sono i feedback delle donne che hanno utilizzato l’app, le eventuali barriere o difficoltà riscontrate e in generale l’esperienza rispetto al programma, oltre a valutare l’efficacia di questo intervento nel lungo termine.

Quello che è certo per ora è che SerenaMente Mamma è un’app per la gravidanza che sviluppa un progetto ambizioso e utile: fornire alle donne incinte uno strumento che le aiuti in un periodo molto delicato, quando gli aspetti di vulnerabilità si moltiplicano ed avere a portata di smartphone un aiuto è senz’altro fondamentale.

 

Indice di massa corporea (IMC): un acronimo controverso

L’IMC, acronimo di Indice di Massa Corporea, è il principale parametro utilizzato oggigiorno per valutare lo stato nutrizionale e di salute di una persona. Ne sentiamo parlare in ambito medico, ha contagiato il mondo dello sport e funge da dittatore quando si parla di peso e forma del corpo. Ma questo parametro è totalmente affidabile?

 

 Non è trascorso molto tempo da quando le persone più robuste erano di comune accordo considerate “sane”. I medici erano molto più preoccupati per tutti coloro il cui peso risultasse insufficiente, scarso, persone spesso troppo povere per permettersi un adeguato introito calorico. Ma non appena il processo di industrializzazione prese avvio ed il cibo divenne più accessibile, la situazione cambiò inesorabilmente. Poco dopo la Seconda guerra mondiale, divenne chiaro che un surplus alimentare era in grado di causare tanti problemi quanto il non mangiare abbastanza. Così, le compagnie assicurative si accorsero che i loro clienti con un peso superiore alla media manifestavano una probabilità significativamente maggiore di morire prematuramente rispetto a coloro di peso inferiore. Cercarono quindi un modo rapido ed economico per misurare l’adipe in eccesso e trovarono una semplice formula che ancora oggi conosciamo con il termine di IMC.

L’IMC, acronimo di Indice di Massa Corporea, è il principale parametro utilizzato oggigiorno per valutare lo stato nutrizionale e di salute di una persona. Ne sentiamo parlare in ambito medico, ha contagiato il mondo dello sport e funge da dittatore quando si parla di peso e forma del corpo. Addirittura, rientra nei prerequisiti valutati per stabilire l’idoneità per il vaccino Covid.

Seppur spopolino applicazioni in grado di calcolarlo mediante pochi click, la formula alla base è molto semplice: si tratta di una regola matematica che divide il peso di un soggetto, in chilogrammi, per il quadrato della sua altezza, espressa in metri. Il risultato ottenuto colloca la persona all’interno di quattro categorie principali, descrivendone la corporatura: sottopeso (IMC inferiore a 18.5), normopeso (da 18.5 a 24.9), sovrappeso (da 25.0 a 29.9) ed obeso (30 o superiore).

Nonostante la sua popolarità, però, è realmente opportuno considerare questo parametro come totalmente affidabile?

Di seguito, proviamo a comprendere i motivi per cui molti esperti appaiano reticenti nel definire totalmente appropriato questo acronimo. Al contrario, viene spesso dipinto come responsabile di stigma e obsolete stereotipie.

Indice standard nella maggior parte delle strutture sanitarie, fu introdotto negli anni 30 dell’Ottocento dal ricercatore belga Lambert Adolphe Jacques Quetelet, padre fondatore degli studi epidemiologici su base statistica. L’Indice di Massa Corporea prese poi piede negli anni Settanta grazie agli studi del fisiologo Ancel Keys: utilizzando un campione non clinico composto da 7.000 uomini sani, per lo più di mezza età, Keys e colleghi dimostrarono che tale acronimo appariva un efficace predittore del grasso corporeo individuale, per di più di semplice elaborazione (Keys et al., 1972).

La praticità di calcolo e l’apparente efficienza nel catalogare le fattezze corporee, lo rendono ancor oggi molto utilizzato soprattutto nella branca negli studi epidemiologici su larga scala. Qui, Dai e colleghi (2020) hanno evidenziato che un Indice di Massa Corporea superiore a 30 si associa tendenzialmente ad una maggiore predisposizione a malattie cardiache, diabete di tipo 2, cancro, difficoltà respiratore, steatosi epatica non alcolica e problemi di mobilità. Inoltre, è stata dimostrata una relazione tra l’indice in questione e mortalità, rapporto che pare seguire una distintiva curva a forma di “J”. Nello specifico, un Indice di Massa Corporea eccessivamente basso o elevato sembra correlare, nella maggior parte dei casi, al decesso precoce; una diminuita mortalità, al contrario, si rileva nell’intervallo tra i due estremi (Bhaskaran et al., 2018).

Nonostante la sua praticità quale strumento di ricerca e sebbene vi siano numerose evidenze che collegano indici alti e bassi ad aumentati rischi per la salute, la sua applicazione presenta indubbiamente numerose lacune, apparendo poco utile in rapporto all’unicità individuale. Difatti, benché fornisca un’istantanea sulla corporeità di un individuo, ne ignora totalmente altre componenti (Nuttall, 2015).

In primo luogo, l’IMC presume che il peso sia tutto uguale, prescindendo dal considerare il differente impatto esercitato dal grasso corporeo, muscolatura, viscere e struttura scheletrica su di esso. A parità di peso tra muscoli e grasso, i primi, poiché più densi, occupano decisamente meno spazio. Conseguentemente, due persone con eguale peso ed altezza, potrebbero apparire estremamente differenti in base alla percentuale di adipe e muscoli che li compongono (Willoughby et al., 2018). Ad esempio, la prima potrebbe essere un allenato bodybuilder con un’elevata componente di massa magra mentre, la seconda, sedentaria e con più adipe.

Anche la posizione occupata dal tessuto adiposo può fare la differenza: il cosiddetto grasso viscerale, ossia quello localizzato all’interno della cavità addominale e distribuito tra gli organi interni ed il tronco, è più problematico rispetto a quello sottocutaneo ripartito su fianchi, glutei e parte inferiore del corpo. È per tale motivo che oggigiorno, oltre al calcolo dell’indice di massa corporea, è prassi rilevare anche la circonferenza addominale. La vita degli uomini dovrebbe essere inferiore a 102 cm mentre, per le donne, il cut off è 88 cm (Bosello & Vanzo, 2021).

L’avanzare dell’età rappresenta un anch’essa un altro snodo fondamentale, poco considerato dal parametro in analisi. Con l’invecchiamento, è assai frequente perdere una percentuale di massa ossea e muscolare acquisendo, di contro, grasso viscerale. Si tratta di un cambiamento sostanziale nella composizione corporea e preoccupante per la salute, ma potenzialmente capace di passare inosservato in caso di un mancato cambiamento dell’IMC della persona.

Ulteriore falla è l’incapacità nel prevedere la salute metabolica generale della popolazione: comunemente, una persona etichettata come “obesa o sovrappeso” è considerata come cagionevole, a rischio. Rientrare invece nel range associato al normopeso viene con più probabilità reso sinonimo di salute e prestanza fisica. In realtà, i dati empirici smentiscono ancora una volta questa sommaria generalizzazione. Una ricerca pubblicata nel 2016, che ha valutato una serie di misure cardio metaboliche (pressione sanguigna, trigliceridi, colesterolo, insulino resistenza ecc.) in un campione di 75 milioni di americani, ha evidenziato che fra questi, i 54 milioni definiti sovrappeso o obesi godevano di un perfetto stato di salute. Il restante, “normopeso”, non poteva considerarsi metabolicamente sano (Tomiyama et al., 2016). In definitiva, etichettare una persona unicamente sulla base del proprio peso senza ulteriori approfondimenti, risulta senza dubbio poco corretto.

 Nonostante l’uso su ampia scala, tale strumento potrebbe inoltre non riflettere adeguatamene il benessere di particolari popolazioni, in quanto non considera il variare della composizione corporea e il suo rapporto con la salute in base al sesso, razza ed etnia. Sviluppato e convalidato principalmente su un campione di uomini di origine caucasica, appare chiaro quanto la generalizzazione dell’Indice di Massa Corporea a livello globale possa considerarsi inappropriata. Ad esempio, numerosi studi hanno dimostrato che le persone di origine asiatica siano esposte ad un maggiore rischio di malattie cardiovascolari a tassi di IMC più bassi rispetto ai caucasici. Ulteriormente, alcune popolazioni africane tendono ad essere erroneamente classificate come sovrappeso seppur la loro corporatura sia composta da una massa grassa inferiore rispetto alla componente muscolare, pertanto meno esposti a complicanze cardiache (Seo & Torabi, 2006), aspetto ancor più marcato nelle donne.

Sulla base di queste considerazioni, l’indice di massa corporea apparirebbe utile unicamente se usato a scopi epidemiologici e per ricerche su ampia scala, per scandagliare la popolazione e descriverla in linea generale. Al contrario, se considerato come unico strumento per determinare in maniera arbitraria gli standard relativi alla fisicità, può addirittura rivelarsi una lama a doppio taglio.

In alcuni casi, utilizzare l’Indice di Massa Corporea come unico parametro è infatti una scorciatoia pericolosa. Per prima cosa, può rendere ciechi medici e professionisti innanzi alle effettive condizioni di salute di un paziente. Molti maschi con prodromi di anoressia nervosa, ad esempio, non ricevono adeguata attenzione clinica poiché tecnicamente inclusi nella categoria “normopeso”(Strother et al., 2012). La stessa cosa accade a coloro che presentano un peso più elevato, spesso non sottoposti a screening per disturbi alimentari sebbene sia ravvisabile un recente perdita di peso significativa, un evidente peso soppresso (differenza fra peso massimo e quello attuale) (Calugi et. al., 2018).

Può altresì essere dannosa la generica propensione nel presumere che una persona normopeso sia automaticamente “sana” prescindendo dalla valutazione di abitudini, invece, potenzialmente malsane: seguire un’alimentazione povera, sbilanciata, non svolgere alcuna forma di attività fisica o al contrario impegnarsi in allenamenti estenuanti, ne sono solo alcuni esempi.

Un altro aspetto che si associa negativamente alla popolarità dell’IMC come dittatore in ambito di peso, forma del corpo e salute è decisamente lo stigma. Con questo termine si fa riferimento alle convinzioni ed attitudini prevalentemente negative rivolte ad una persona in base al proprio peso, considerazioni che si concretizzano in stereotipi e pregiudizi. Queste, marcatamente evidenti quando si parla di peso in eccesso ed obesità, vengono poi interiorizzate dai destinatari stessi diventando motivo di autocritica e giudizi negativi ego riferiti (Calugi & Dalle Grave, 2020). La discriminazione nei confronti di queste persone si articola quindi in una serie di etichette dispregiative che conducono a marginalizzazione e disuguaglianza. Lo stigma basato sul peso, di natura relazionale, verbale o fisica, impregna molteplici aree quali quella scolastica, lavorativa, interpersonale e perfino sanitaria (Puhl & Brownell, 2001).

La ricerca ha dimostrato che il luogo comune “grasso = malasanità” influenzerebbe addirittura l’atteggiamento del clinico con i pazienti, risultando più intransigenti, giudicanti e perentori. In linea con queste evidenze, i risultati dell’indagine di Puhl e Bownell (2006): circa il 69% delle donne, riferiva di aver ricevuto almeno una volta un commento discriminatorio da parte di un medico, ed il  52% più di una volta (R. M. Puhl & Brownell, 2006).

Da qui, le persone che si sono sentite discriminate a causa del proprio peso hanno mostrato una probabilità di circa 2,5 superiore di manifestare disturbi d’ansia o dell’umore, così come successivi incrementi ponderali ed un’aspettativa di vita più breve (R. M. Puhl et al., 2016). Un calo in termini di frequenza di controlli medici, minore fiducia nell’istituzione sanitaria e scarsa aderenza al trattamento sono fra le principali conseguenze di tale approccio.

Al netto di quanto detto, l’indice di massa corporea potrebbe dunque essere definito come un utile strumento se usato con scopi di screening, per identificare problematiche su larga scala ed aspetti trasversali a varie popolazioni. Il suo impiego, invece, come misura univoca relativa alla composizione corporea di una persona viene considerato, da clinici e ricercatori, come “inappropriato” (Maalin et al., 2020).

Di qui, la decisione di molti esperti di non fermarsi unicamente a questo dato per stimare il benessere soggettivo; si pensi ad esempio alla già sopracitata misurazione della circonferenza vita, efficace nel quantificare il grasso viscerale. Ancora, cresce il consenso relativo ad una raccolta più ricca e indicativa della complessità corporale: oltre all’Indice di Massa Corporea, inciderebbero sullo status di salute anche il background culturale, livelli di stress, accessibilità alle risorse, abitudini alimentari, pregresse problematiche e propensione all’esercizio fisico (Hoffmann et al., 2020). Una pratica decisamente più lunga e dispendiosa, ma sicuramente più centrata sull’unicità individuale.

Altri metodi, sicuramente meno utilizzati in quanto apparecchiature sofisticate e non sempre accessibili, sono la densitometria a doppio raggio X (DXA), la diluizione isotopica e l’impedenzometria (Evans et al., 2017).

In definitiva, è sicuramente un bene prestare attenzione al numero che compare sulla bilancia, senza però dimenticare l’importanza del metro, degli esami strumentali ma soprattutto dei vissuti individuali. Essere in sovrappeso, oppure sottopeso, interessa indubbiamente l’ambito estetico, funzionale e salutare di una persona. Una valutazione approfondita da parte di professionisti come medici, psicologi e nutrizionisti è fondamentale in questi casi. Il suggerimento? Tenere a mente che un numero non rappresenterà mai la complessità che ci contraddistingue.

 

Invidia del pancione. Una guida per riconoscere le proprie emozioni e affrontare la ricerca di un figlio (2021) di Beatrice Corsale

Invidia del pancione affronta le tematiche legate al percorso della PMA in modo empatico e professionale e fornisce diversi strumenti per gestire i turbamenti emotivi suscitati da ogni fase del percorso.

 

 La ricerca di un figlio non sempre si realizza nell’immediato e il momento dell’attesa del concepimento può essere vissuto come stressante, doloroso, spesso tanto difficile da gestire.

Nell’introduzione del libro l’autrice illustra come negli ultimi anni sempre più donne si sottopongono a procedure di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) o hanno ricevuto diagnosi di una condizione di infertilità. Ogni anno, infatti, molte coppie si rivolgono ai centri di PMA: il Ministero della Salute riporta che nel solo 2017, ad esempio, oltre 78.000 coppie si sono sottoposte a procedure di fecondazione artificiale.

Di fronte a questi dati le pagine del libro ripercorrono le varie tappe e le emozioni vissute dalla donna dai primi momenti di sconforto di fronte alla sensazione di impossibilità di poter diventare madre, alla tensione che precede e accompagna il prelievo ovocitario, ai più̀ frequenti malintesi nella coppia che si sottopone a PMA, al delicato momento dell’attesa dell’esito del trattamento e il doloroso confronto con gli insuccessi, fino alla realizzazione del desiderio di maternità.

Ogni tematica viene affrontata in modo empatico e professionale e fornisce alla lettrice diversi strumenti per gestire i turbamenti emotivi suscitati da ogni fase del percorso: ogni capitolo, di fatti, viene accompagnato da schede pratiche di auto osservazione e dalla proposta di esercizi mirati a gestire il momento che si sta affrontando. Sebbene la sequenza dei capitoli segua l’ordine con cui emergono le varie problematiche psicologiche durante un tipico percorso di PMA, la lettrice può scegliere di consultarli secondo la successione che preferisce, in base alle proprie esigenze o alla fase di PMA che sta affrontando.

 L’autrice, fin dalle prime pagine riesce a stabilire un contatto emotivo con chi legge attraverso un linguaggio non giudicante e promuovendo un atteggiamento di reale accettazione degli stati d’animo che si affrontano in questo percorso. Allo stesso tempo, propone una guida pratica con esercizi mirati ad aumentare la consapevolezza di sé e tecniche di gestione dei propri vissuti.

Un libro rivolto non solo a chi sta iniziando un percorso di PMA ma anche a tutte le donne che si sentono scoraggiate di fronte ai diversi tentativi che precedono lo scoprirsi in dolce attesa.

 

Resilienza e Salute Mentale: una prospettiva multisitemica

I professionisti della salute mentale della Seconda guerra mondiale sono stati i pionieri della ricerca inerente alla capacità umana di adattarsi con competenza a circostanze o eventi avversi della vita: la resilienza (Masten & Cicchetti, 2016).

 

Piuttosto che concentrarsi strettamente sulle caratteristiche proprie dell’individuo che contribuiscono al processo di resilienza, le spiegazioni socio-ecologiche definiscono la resilienza come un processo co-facilitato dagli individui e dagli ambienti all’interno dei quali essi nascono e si sviluppano (Ungar, 2011).

L’attenzione sulle complessità della resilienza ha elicitato nuove domande di ricerca e nuove implicazioni per la pratica clinica, come: “Quali fattori o processi promozionali e protettivi sono rilevanti? Per quali persone, in quali contesti?” (Ungar, 2019).

In effetti, appare necessaria una maggiore comprensione di ciò che potrebbe proteggere le persone dalla malattia mentale, in un mondo in cui almeno un adulto su cinque manifesta un disturbo mentale (Steel et al., 2014) e in cui un numero considerevole di bambini viene colpito in maniera affine (Polanczyk et al., 2015)

Purtroppo, i fattori e i processi promozionali e protettivi (Promotive and Protective Factors and Processes -PPFP), tipicamente associati a risultati positivi, vengono troppo spesso circoscritti a variabili psicologiche, come l’autoregolazione o le strategie di coping ma, in realtà, i PPFP possono essere distinti in interni o esterni all’individuo.

Al giorno d’oggi, i ricercatori concordano sul fatto che le influenze sistemiche contano almeno quanto i fattori individuali. A dimostrazione di ciò, Masten e Cicchetti (2016) hanno suggerito che “la resilienza di un bambino dipenda dal funzionamento e dall’interazione di molti altri sistemi, sia interni al bambino (sistema immunitario, sistema di risposta allo stress, ecc.), sia nelle relazioni o nella resilienza familiare, sia nei più ampi sistemi socioculturali ed ecologici in cui la vita e lo sviluppo di quel bambino avvengono” (Masten & Cicchetti, 2016). La resilienza in età adulta e in età avanzata dipende in egual misura da questi molteplici sistemi (Infurna & Luthar, 2018). In altre parole, le influenze sistemiche sono importanti per la resilienza durante l’intero corso della vita.

L’obiettivo della revisione sistematica presa in esame è stato quello di ampliare la comprensione dei sistemi interagenti che facilitano la salute mentale degli individui sottoposti a stress atipico.

La resilienza umana dipende da una serie di sistemi biologici, psicologici, sociali ed ecologici interagenti tra loro, come sottolineato dalle varie definizioni di resilienza emerse negli ultimi dieci anni.

A sostegno di questa prospettiva, in una revisione sistematica inerente i fattori moderatori della resilienza, che sono stati associati ad effetti positivi per la salute mentale dei bambini nonostante la loro esposizione a condizioni di abuso, differenti fattori individuali ed ecologici si sono dimostrati egualmente importanti (Fritz et al., 2018). A livello individuale, l’evidenza suggerisce che la rivalutazione cognitiva, un’alta tolleranza allo stress, una bassa soppressione delle emozioni e un attaccamento sicuro sono da considerarsi fattori di resilienza per un bambino vittima di abusi. A livello sociale, il supporto della famiglia allargata e le pratiche genitoriali positive potrebbero influenzare la resilienza. Inoltre, a livello comunitario, un elevato sostegno sociale determinerà dei risultati psicosociali e comportamentali.

La resilienza è stata associata anche ad influenze genetiche. In una delle poche revisioni sistematiche inerenti alle varianti genetiche che contribuiscono alla capacità biologica della resilienza psicologica, Niitsu e colleghi (2019) hanno individuato sei geni che sembrerebbero avere un ruolo nello sviluppo della resilienza.

Ulteriori studi hanno mostrato come l’ambiente urbano, naturale e dei servizi è fondamentale per la resilienza umana. Per esempio, uno studio condotto su soggetti anziani, residenti a Pechino, ha scoperto che la qualità del quartiere era significativamente legata al benessere psicologico. I fattori rilevanti includevano lo spazio pubblico e il numero di servizi disponibili (Zhang et al., 2018). Anche il preservare gli spazi naturali, all’interno di un ambiente urbano, può avere un effetto sulla resilienza individuale e collettiva, riducendo l’ansia e fornendo uno spazio per la riflessione e l’attività fisica (Van den Bosch & Ode Sang, 2017).

A dimostrazione degli effetti esercitati dal contesto e dalla cultura, gli studi hanno dimostrato che le comunità che si preoccupano di promuovere narrazioni culturali di forza e di leadership femminile, a seguito di episodi di violenza politica, contribuiscono allo sviluppo della resilienza a livello comunitario (Somasundaram & Sivayokan, 2013).

Altre ricerche hanno mostrato come anche altri fattori contestuali possono predire l’adattamento in condizioni di avversità, ma è importante che queste combinazioni vengano concettualizzate in modo differente per i giovani e per gli adulti (Theron, 2020).

Una descrizione della resilienza psicologica dovrebbe anche includere le variabili inerenti all’esposizione al rischio di un individuo, compresa la qualità delle esperienze avverse, la loro gravità e la rilevanza culturale delle sfide affrontate.

Sarebbe bene, dunque, considerare la resilienza non come l’obiettivo, ma come il mezzo per raggiungere risultati funzionali come la salute mentale.

Secondo gli autori, per sviluppare la resilienza, come primo passo, i clinici dovrebbero valutare l’esposizione al rischio e la disponibilità di PPFP.

Indipendentemente dal percorso di intervento, i clinici dovrebbero considerare le dinamiche contestuali, culturali del corso della vita. Difatti, gli interventi che si propongono di modificare solo un sistema – come un programma per migliorare il senso di autostima di un bambino a scuola – mostrano pochi effetti a lungo termine (Fenwick-Smith et al., 2018).

Quando all’interno dell’ambiente sociale di un paziente il cambiamento viene facilitato, i risultati sono migliori, rispetto agli interventi focalizzati esclusivamente su trattamenti psicofarmacologici o cognitivi.

Così facendo, la ricerca sulla resilienza sarà in grado di spostare il lavoro clinico dalla costruzione di un robusto individualismo verso interventi che creino una situazione di salute mentale positiva per gli individui provenienti da diverse condizioni sociali e che consentano ai soggetti di possedere risorse adeguate e supporti necessari al gestire le avversità nel migliore dei modi.

A tal fine, i professionisti della salute mentale avranno bisogno di lavorare in team multidisciplinari che includano professionisti che facilitino l’accesso ai supporti socio-ecologici protettivi, mentre si occupano dei disturbi. Così facendo, sarà più probabile costruire la capacità psicologica di cui gli individui necessitano per affrontare l’esposizione alle avversità ora e in futuro.

 

Eleanor Oliphant sta benissimo – La LIBET nelle narrazioni

Dalla lettura del romanzo bestseller Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman edito nel 2018, si ipotizza la concettualizzazione in termini LIBET della protagonista Eleanor.

La LIBET nelle narrazioni – (Nr. 17) Eleanor Oliphant

Attenzione: l’articolo contiene spoiler (ndr)

 

 Eleanor sta bene, anzi: benissimo. O almeno, questo è quello che si ripete da anni. In realtà, Eleanor non sta bene con la sua grossa cicatrice sul volto, con la sola compagnia della sua piantina Polly e costretta nei suoi rigidissimi piani semi-adattivi.

Il personaggio principale è Eleanor Oliphant, una ragazza di quasi trent’anni che vive da sola in un piccolo appartamento a Glasgow assegnatole da tempo dal servizio sociale; ha una laurea triennale in lettere classiche, ma lavora da nove anni come impiegata contabile in uno studio di graphic design della stessa città.

La vita della protagonista, come ci racconta lei stessa sin dall’inizio del romanzo, è scandita da una imperturbabile routine che si ripete nel suo quotidiano: dal lunedì al venerdì arriva in ufficio alle 8.30; durante la pausa pranzo di un’ora si siede nella saletta per i dipendenti dove, mangiando il suo solito sandwich, legge “da cima a fondo” il Daily Telegraph che compra però esclusivamente per fare le parole crociate crittografate riportate alla fine del giornale; lavora ancora fino alle 17.30 e poi prende l’autobus per tornare diretta a casa, tranne il venerdì, “la serata della pizza” giorno in cui Eleanor si ferma al “Tesco” per comprarsi “una pizza margherita, del Chianti e due bottiglie grandi di vodka Glen’s” che poi berrà durante il fine settimana aspettando l’arrivo del lunedì.

La vita routinaria di Eleanor è caratterizzata da pochissime interazioni con i suoi colleghi, con i quali sente di non aver quasi niente in comune se non il fatto di appartenere alla stessa specie: i meccanismi sociali convenzionali non le appartengono e fatica a comprenderli, preferendo la compagnia della sua pianta Polly. Eleanor va fiera della sua capacità di sapersela cavare da sola e ritiene di non aver bisogno di nessun altro, di essere totalmente completa e autosufficiente. Ogni mercoledì, però, la madre chiama dalla prigione in cui è detenuta per ricordarle quanto sia miserabile la sua esistenza.

Già dalle prime righe del libro possiamo iniziare a ipotizzare i piani semi-adattivi della protagonista: di tipo prescrittivo per la tendenza a controllare ogni aspetto della sua vita, dalle relazioni sociali alla routine giornaliera, dall’abbigliamento al taglio di capelli sempre uguali per arrivare al controllo emotivo; infatti lei, dice: “sta benissimo”. Il fine settimana, invece, quando rimane sola con i suoi pensieri e le sue emozioni impossibili da tollerare, emerge il piano immunizzante: Eleanor passa quei due giorni bevendo vodka in modo da sentirsi costantemente stordita e assopita.

 Una serie di eventi arrivano a turbare l’equilibrio di Eleanor: una sera, in un pub, assiste al concerto di un gruppo emergente e s’innamora a prima vista del frontman della band. Cominciando a fantasticare sull’idea di passare il resto della sua vita con lui, Eleanor programma con cura il giorno in cui si sarebbero nuovamente incontrati, certa che lui si sarebbe reso conto di non poter fare a meno di stare insieme a lei. Decide così di acquistare un computer, crearsi un account Twitter e aggiungerlo tra gli amici in modo da essere sempre aggiornata sulle date e i luoghi di esibizione della band. La lunga programmazione prevede, inoltre, il sopralluogo nel locale in cui avrebbe suonato il gruppo, un nuovo taglio di capelli, dei nuovi abiti e un pomeriggio in un centro estetico. Emergono ancora una volta i piani semi-adattivi della protagonista: il bisogno di idealizzare e fantasticare su una storia d’amore perfetta (piano immunizzante) e lo sforzo di agire in sicurezza controllando tutte le variabili (piano prescrittivo).

Un altro uomo entra nella vita di Eleanor, il collega di lavoro Raymond. I due si trovano casualmente a soccorrere un uomo anziano svenuto per strada e questo li porta ad approfondire il loro rapporto. Raymond, con i suoi modi di relazionarsi semplici ma gentili, nel tempo diventa un punto di riferimento per la protagonista e le offrirà diverse occasioni che, in chiave psicoterapeutica, possono essere viste come esperienze emotive correttive.

Dopo settimane di preparativi, finalmente Eleanor si sente pronta per incontrare il frontman, ma la serata non va come sperato e diventa lo sfondo del processo di invalidazione dei suoi piani semi-adattivi: resasi conto di aver solamente idealizzato il cantante e di aver visto in lui una persona completamente diversa da come l’aveva costruita nel suo immaginario, entra in contatto con il suo tema di indegnità e mette in atto una strategia immunizzante per allontanarsi dal dolore. Per giorni rimane chiusa in casa a bere alcolici. In quei momenti Eleanor si sente così come la mamma le ha sempre ricordato di essere: una persona senza un briciolo di valore, sbagliata, incapace di occuparsi di se stessa e degli altri, inetta, meschina e non meritevole di essere amata.

Da questa spirale di disperazione viene tirata fuori da Raymond, che entra dalla porta e comincia a prendersi cura di lei: le prepara dei pasti freschi, l’aiuta a lavarsi e a riordinare casa. È questo il momento in cui Eleanor si rende conto quanto sia necessario e piacevole affidarsi a qualcuno: dopo molti ripensamenti decide di intraprendere un percorso psicoterapeutico. Durante la terapia Eleanor prende consapevolezza di alcuni eventi traumatici del suo passato e riuscirà a dire addio a sua madre, questa volta per sempre. Circa diciannove anni prima, dopo ripetuti abusi psicologici e fisici, la madre aveva dato fuoco alla loro casa uccidendo se stessa e la figlia minore. Solo Eleanor era sopravvissuta e con lei i giudizi forti e fondanti della madre che avevano preso la forma delle chiamate del mercoledì.

 

Paura degli aghi: definizioni e trattamenti

Gli individui che soffrono di agofobia sono generalmente consapevoli dell’impatto negativo della loro risposta emotiva. L’ansia e l’agitazione possono essere estreme e chi ne soffre non riesce a controllare tali risposte.

 

La puntura venosa è spesso accompagnata da dolore e/o disagio e l’anticipazione di tale atto può provocare apprensione o ansia prima dell’evento. Per una parte della popolazione, tuttavia, la mera visione di un ago rappresenta una vera e propria fobia (Cook, 2016).

Una fobia è una paura persistente e irrazionale di un oggetto, un’attività o una situazione specifica che porta a un desiderio irresistibile di evitarla (American Psychiatric Association, 2013), tuttavia, la paura non è stata classificata come fobia fino al 1994 (Cook, 2016).

Con la possibilità di effettuare una diagnosi fu finalmente possibile offrire opzioni di trattamento. All’oggi, vengono utilizzati vari termini per descrivere la paura delle iniezioni, degli oggetti appuntiti o del dolore. La terminologia applicabile include l’aicofobia, una paura intensa o morbosa degli oggetti appuntiti o taglienti; l’enetofobia, una paura degli spilli e dei vaccini; la tripanofobia, una paura delle iniezioni e, l’algofobia, una paura intensa o morbosa del dolore (Cook, 2016).

La fobia degli aghi può essere vista da diverse prospettive: quella del paziente, del professionista e della società.

Gli individui che soffrono di agofobia sono generalmente consapevoli dell’impatto negativo della loro risposta emotiva.

L’ansia e l’agitazione possono essere estreme e chi ne soffre non riesce a controllare tali risposte. Questi individui possono provare un senso di fallimento e/o imbarazzo perché sanno che le loro reazioni non sono socialmente accettabili. La fobia può impedire loro di cercare l’attenzione medica, sia per la paura della procedura vera e propria, sia per l’imbarazzo, o per entrambe.

Il medico che prende in cura questa tipologia di pazienti si trova di fronte ad individui che potrebbero comportarsi in modo bizzarro. La loro risposta è considerata irrazionale e il professionista può essere giudicante e vederla con disgusto. Esasperato da una situazione che sta impattando su un’agenda fitta di impegni, il professionista può avere difficoltà nel fornire un’assistenza compassionevole. Il modo etico di affrontare la situazione è quello di trovare e attuare una soluzione che aiuti a ridurre la paura e l’ansia, nonostante il fatto che possa volerci più tempo. La preoccupazione sociale associata è correlata alle tendenze di evitamento dei pazienti. È improbabile che i malati si sottopongano a vaccini volontari, come il vaccino antinfluenzale, e possono anche rifiutare i vaccini obbligatori, fenomeno che, attualmente, si sta verificando.

Durante i suoi studi, Hamilton ha riconosciuto 5 sottogruppi di agofobia con eziologia differente, che verranno illustrati di seguito (Hamilton, 1995).

Il 50% degli agofobici vengono classificati come “aventi una risposta negativa ereditaria” rispetto agli aghi (Cook, 2016). Queste persone possono negare la paura degli aghi ma, al contempo, sperimentano cambiamenti nella frequenza cardiaca e nella pressione sanguigna e, nei casi più estremi, possono perdere i sensi. Hamilton (1995) ha teorizzato che la risposta sia stimolata da un gene che si è evoluto nel corso di anni; difatti, quattro milioni di anni fa, la maggior parte delle ferite erano determinate da oggetti appuntiti e, secondo l’autore, ciò ha contribuito allo sviluppo di un gene che è stato incorporato all’interno del nostro DNA. Egli riteneva che il gene fosse presente in tutti, ma che fosse generalmente represso. Tuttavia, il gene è dominante in un sottogruppo e la risposta è stimolata non appena viene percepito il potenziale di danno. Sono stati identificati altri quattro possibili meccanismi alla base delle intense risposte di paura alla vista di un ago.

Paura associativa

I soggetti in questo caso hanno una risposta appresa associata agli aghi che di solito include l’ansia anticipatoria. È probabile che queste persone abbiano vissuto un evento traumatico o che abbiano un parente che ha trasmesso loro la paura, a causa della propria esperienza negativa. L’ansia può essere estrema, tanto da portare in alcuni casi a sperimentare degli attacchi di panico.

Paura resistiva

In questo caso l’ago è solo una parte della paura. La risposta emotiva deriva per lo più dalla possibilità di essere controllati o trattenuti durante la procedura. La paura probabilmente è causata dall’aver vissuto un’esperienza traumatica associata agli aghi, incluso l’uso precedente di costrizioni, inganni o minacce. Al momento dell’atto, è probabile che i pazienti diventino persino violenti.

Iperalgesia

L’ago non è temuto in sé per sé, bensì è il tocco ad essere temuto. Questo fenomeno è secondario ad una sensibilità ereditata al dolore. In questo caso per i pazienti il dolore è insopportabile e non comprendono come qualcuno possa tollerare tali procedure. I livelli di ansia sono più alti e l’aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna più forti al momento della penetrazione dell’ago.

Vicario

Il sottogruppo della fobia vicaria dell’ago è considerato raro e, coloro che ne soffrono, possono sperimentare una risposta che viene provocata unicamente dal guardare un’altra persona che viene iniettata (Hamilton, 1995).

Rispetto alle terapie necessarie al trattamento delle suddette fobie, sarà bene considerare che l’intensità dell’intervento dovrà dipendere dalla gravità della paura del paziente. L’intervento psichiatrico è solitamente raccomandato se la paura determina una minaccia per la sicurezza del paziente, di chi se ne prende cura o del pubblico.

Ad ogni modo, ogni trattamento dovrà avere l’obiettivo di aiutare il paziente ad affrontare la situazione, motivo per cui gli interventi psicoterapeutici risultano essere il trattamento di elezione (Sokolowski, Giovannitti & Boynes, 2010), tra cui rientra il processo di desensibilizzazione, che talvolta prevede l’utilizzo di immagini, al fine di introdurre la procedura o, ancora, le terapie incentrate sulla percezione, che verificano il procedimento pianificato e riesaminano l’attrezzatura necessaria.

È bene tener presente che la percezione della paura di un paziente è simile alla percezione del dolore: entrambi suscitano una risposta personale basata su ciò che è reale per il paziente. Rendere una procedura spaventosa meno intimidatoria dovrebbe essere un obbligo professionale. La sfida più grande sarà riconoscere i pazienti la cui paura è pervasiva e sarebbe dunque necessario prevedere un piano di cura che si focalizzi sulla prevenzione e sul trattamento e che coinvolga l’intero team sanitario, affinché tale fobia non incida sul trattamento medico di questi pazienti.

 

I Disturbi del calcolo e del numero: modelli neuropsicologici, diagnosi, trattamento (2017) a cura di A. Biancardi, E. Mariani e M. Pieretti – Recensione del libro 

Il libro I disturbi del calcolo e del numero: modelli neuropsicologici, diagnosi, trattamento è stato pensato e realizzato per tutte quelle figure professionali che si accingono allo studio o a un aggiornamento professionale riguardo alle tematiche dello sviluppo e dell’apprendimento delle abilità matematiche in età evolutiva.

 

Il volume è stato curato da Andrea Biancardi (psicologo, psicoterapeuta e coordinatore del “Centro per l’Apprendimento Tassinari), Enrica Mariani (logopedista, pedagogista, dedita ad attività di clinica e di ricerca) e Manuela Pieretti (Logopedista, pedagogista e docente presso l’Università La Sapienza e Tor Vergata), edito da Erickson nel 2017.

Il libro è composto da sei capitoli ognuno creato grazie al contributo di professionisti specializzati e dediti da tempo nello studio, nella diagnosi e nell’abilitazione delle abilità matematiche. Tra gli autori troviamo: Luisa Girelli, Marco Zorzi, Franco Sella, Sara Caviola, Denes Szucs, Andrea Biancardi, Alice Ara, Enrica Mariani, Manuela Pieretti e Cristina Caciolo.

Questo testo presenta una buona suddivisione perché permette al lettore di approfondire le tematiche in modo graduale o di scegliere liberamente quale aspetto attenzionare rispetto al proprio livello di conoscenza dell’oggetto di studio.

Come si è provato a suggerire precedentemente, il testo presenta una disamina esaustiva dei disturbi del calcolo e del numero: dalle ricerche a modelli teorici ben fondati su evidenze scientifiche, da riferimenti diagnostici sul panorama italiano e internazionale come le due Consensus Conference Italiane (2007, 2011) e il DSM-5 a principi cardine di abilitazione e potenziamento delle abilità matematiche.

Inoltre, il volume è ricco di raccomandazioni e indicazioni sul come destreggiarsi e districarsi in un campo dove la ricerca scientifica è ancora nel pieno del suo sviluppo.

Ogni autore, quindi, non si limita a presentare dati e teorie ma mira a supportare ed evidenziare quali sono i modelli teorici validi, i riferimenti e gli oggetti di indagine di un clinico e, ancora, gli strumenti e gli approcci che può avere a disposizione un professionista che si accinge a fare abilitazione.

Nell’intraprendere la lettura del volume, il percorso inizia con un’introduzione storica della ricerca sulle abilità matematiche e sui disturbi correlati che avvia i primi passi negli anni ’80 del secolo scorso e che fin dall’inizio si imbatte nelle problematiche metodologiche dello studio delle abilità numeriche e nella difficoltà di una definizione terminologica, di individuazione dell’eziopatogenesi e dei correlati neuro-funzionali, la loro affermazione come evidenza scientifica e la conseguente applicazione clinica.

Successivamente, da una contestualizzazione e presentazione dello stato dell’arte della ricerca, il volume si concentra a esaminare i sistemi alla base delle abilità numeriche e i meccanismi cognitivi coinvolti in traiettorie di sviluppo tipico e atipico, così da evidenziare quali potrebbero essere le componenti cognitive deficitarie che un bambino con difficoltà nell’ambito della matematica può presentare.

Questo volume, inoltre, non tralascia argomentazioni che potrebbero sembrare marginali ma si occupa di esaminare l’impatto che possono avere le componenti emotive e le differenze di genere sulle abilità numeriche. Anche in questo caso ci districheremo tra ipotesi ed evidenze scientifiche che solleciteranno l’emergere di ulteriori spunti di riflessione sull’approccio culturale e scolastico alla matematica.

Particolarmente apprezzabile è la trattazione accurata degli aspetti inerenti le linee guida individuate ed emesse dalle due Conferenze di Consenso (2007, 2011) a cui un clinico dovrebbe fare riferimento e che Andrea Biancardi e Alice Ara definiscono come

documenti che rappresentano lo sforzo dei clinici e dei ricercatori italiani di concretizzare quanto la ricerca internazionale ha prodotto sui disturbi specifici di apprendimento per orientare verso una corretta e aggiornata pratica clinica. 

Se cercate un testo che racchiude chiarezza, esaustività e novità nel campo della cognizione, abilità e apprendimento numerico potreste includere la lettura di questo testo che, anche successivamente, potrebbe ricoprire il ruolo di bussola tra aspetti teorici e pratici.

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