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L’aromaterapia e la musicoterapia possono alleviare lo stress tra gli studenti universitari? Uno studio clinico controllato randomizzato

L’indagine di Son et al. (2019) ha confrontato gli effetti di interventi ritenuti efficaci nella riduzione di ansia e stress in un campione di 98 studenti di infermieristica, randomizzati in tre gruppi. 

 

Gli studenti universitari sono una categoria della popolazione che deve affrontare circostanze impegnative e stressanti, soprattutto per le fatiche scolastiche richieste, da portare avanti insieme ad un progetto di vita lavorativo e sfide affettive.

La ricerca ha documentato questi aspetti soprattutto tra gli studenti di infermieristica, individuando come siano sottoposti a notevole pressione durante gli esami che mettono alla prova le loro abilità fondamentali.

In questi momenti, l’ansia e lo stress possono generare una risposta fisiologica e comportamentale che influisce negativamente sulla concentrazione, sull’esito dei test (Jimenez et al., 2010; Zeidner, 2007) e sul rendimento scolastico (Melincavage, 2011; Rana & Mahmood, 2010). Mentre un’adeguata dose di ansia può attivare risorse che consentono una migliore gestione della situazione problematica (Melincavage, 2011), un livello particolarmente elevato impatta sulla capacità di portare alla memoria le nozioni importanti immagazzinate nell’ippocampo (Lupien et al., 2009).

Scarso rendimento scolastico, favorito da ansia e stress, emerge anche nel caso diminuzione dell’interesse o dalla scarsa motivazione ad identificare e descrivere i sentimenti negativi (De Berardis et al., 2009). Come conseguenza, gli studenti di infermieristica sperimentano disadattamento e burnout già nel contesto universitario, che spesso comportano il ritiro dal percorso di studi (Foster et al., 2012).

Per alleviare questo stato emotivo negativo, sono stati sviluppati e validati interventi alternativi e complementari tradizionali.

L’aromaterapia, in particolare, agisce efficacemente nel ridurre ansia, depressione e stress. Il rilassamento e la concentrazione possono essere favoriti da oli essenziali estratti da fiori, steli, radici e foglie di piante (Kutlu et al., 2008; Wells & Hopkins, 2018). Le molecole degli odori relativamente piccole e volatili, vengono inalate rapidamente ed attraversano la barriera ematoencefalica, influenzando direttamente il sistema nervoso centrale (Kutlu et al., 2008; Lv et al., 2013).

Anche la musicoterapia è in grado di condizionare il sistema neuroendocrino ed il sistema nervoso autonomo. L’ascolto di una musica calma e a tempo lento riduce l’ansia e facilita il rilassamento, influenzando a livello cerebrale il sistema limbico, ovvero il principale responsabile del controllo delle emozioni (Lai et al., 2008).

Uno studio comparativo ha confrontato gli effetti della musicoterapia e aromaterapia, riscontrando quest’ultima più efficace nel lenire l’ansia, abbassando la pressione sanguigna diastolica e la frequenza respiratoria in pazienti sottoposti a interventi dentali (Anup, et al., 2017). Inoltre, la combinazione sinergica di musicoterapia, aromaterapia e meditazione, è in grado di alleviare efficacemente lo stress e favorire il rilassamento (Webb et al., 2018).

Su questo filone di ricerca, l’indagine di Son et al. (2019) ha confrontato gli effetti di interventi ritenuti efficaci nella riduzione di ansia e stress in un campione di 98 studenti di infermieristica, randomizzati in tre gruppi. Mentre al primo e secondo campione sono state somministrate esclusivamente l’aromaterapia o la musicoterapia, nel terzo è stata valutata l’efficacia dell’intervento combinato.

Dopo aver revisionato la letteratura e consultato un esperto in aromaterapia, sono stati selezionati gli oli essenziali di Origanum majorana (maggiorana dolce), efficace per alleviare lo stress, calmare e rilassare emotivamente, e di Citrus sinensis (arancio), ottimo nel ridurre nervosismo e stress. Poiché più oli combinati risultano particolarmente efficaci, (Lee et al., 2003) entrambi sono stati mescolati in proporzione 1:1, diffusi nell’aria ed inalati per 20 minuti.

Per l’intervento di musicoterapia, è stata selezionata della musica classica, sulla base delle preferenze musicali del campione. Infatti, un aumento delle emozioni positive, una diminuzione dell’ansia (Lesiuk, 2010) ed il miglioramento delle prestazioni, avvengono esclusivamente se si ascolta la propria musica preferita. La Moonlight Sonata (Lai et al., 2008) di Beethoven, riprodotta in uno spazio condiviso dotato di impianto audio, è emersa come efficace nell’alleviare l’ansia da prestazione, l’ansia di stato, i livelli di stress, la pressione sanguigna, la frequenza cardiaca ed abbassare la temperatura corporea negli ascoltatori. Nello studio è stata riprodotta per 20 minuti (Lai et al., 2008), nonostante in genere bastino 5 minuti di musica soft prima di un test universitario, per alleviare la tensione e migliorare il rendimento (Lilley et al., 2014).

In seguito all’esposizione alla musica o all’aroma, sono state testate le abilità infermieristiche fondamentali.

I risultati confermano l’effetto dell’aromaterapia e della musicoterapia sia applicate separatamente che combinate. Soprattutto tra i soggetti che hanno ricevuto entrambi i trattamenti, è emersa una significativa diminuzione dell’ansia legata al test, dell’ansia di stato e dello stress in generale, che hanno incrementato le loro prestazioni nelle abilità infermieristiche fondamentali. Ciò indica che la combinazione di aromaterapia, e musicoterapia è un intervento efficace nel migliorare le prestazioni degli studenti di infermieristica, e più in generale la loro salute mentale. Infatti, mentre l’aromaterapia agisce riducendo la distrazione degli studenti che insorge per l’ansia da prestazione al test (Shapiro, 2014), la musicoterapia è efficace nell’alleviare l’ansia e favorire il rilassamento in circostanze che provocano nervosismo e stress estremi (Lai et al., 2008; Lesiuk, 2010; Lilley et al., 2014)

Coerentemente con indagini precedenti, nonostante l’aromaterapia combinata con la musicoterapia differisse significativamente dall’intervento singolo, i due interventi separati erano simili nella loro azione (Shapiro, 2014), in quanto andavano ad alleviare le emozioni negative derivate da ansia e stress, in soggetti che svolgono compiti cognitivi impegnativi.

Questi due metodi di intervento, data la loro durata irrisoria e la non invasività, possono potenzialmente essere applicati a tutti gli studenti sottoposti a stress, in particolare in quelli di infermieristica come confermato dall’indagine. L’unica condizione necessaria segnalata dagli autori è l’avere uno spazio fisico adeguato per la somministrazione, riducendo al minimo le influenze dell’ambiente circostante.

 

L’abuso di sostanze. Una strategia di regolazione emotiva – Report dal webinar

Il 25 Gennaio 2021 si è tenuto il primo webinar gratuito proposto dal Centro per i Disturbi di Personalità di Modena dal titolo L’abuso di sostanze. Una strategia di regolazione emotiva.

 

Il Centro, polo specialistico di Studi Cognitivi, che propone un percorso intensivo di tre mesi, è un progetto innovativo che si colloca all’interno delle linee guida della American Psychology Association, e mira a sviluppare e valorizzare l’area psicoterapica e riabilitativa. I modelli di riferimento sono: la Terapia Dialettico Comportamentale di M. M. Linehan (2015), il Multiple Family Program di J. G. Gunderson (2009), il modello LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment) per la concettualizzazione del caso e il Modello Metacognitivo per gruppi di A. Wells (2018). Parallelamente sono offerti interventi psicoeducativi ai familiari.

Il centro propone mensilmente webinar gratuiti ed il primo di questi ha voluto puntare i riflettori sull’abuso di sostanze, come un esempio di strategia disfunzionale di regolazione emotiva. L’evento è stato tenuto dal Dr. Andrea Ferrari, psicologo- psicoterapeuta che lavora anche presso il Centro dei Disturbi di Personalità.

I disturbi da abuso di sostanze e addiction sono tra i problemi di salute mentale più diffusi. Si stima che nella popolazione statunitense la prevalenza nel corso della vita del disturbo da uso di alcol raggiunga l’8% della popolazione, mentre l’uso di altre sostanze si attesti al 2-3%. In Europa, il 18,4% della popolazione riporta un consumo di alcol elevato negli ultimi 30 giorni, e il 15,2% riferisce di fumare abitualmente tabacco (EMCDDA, 2017). L’impatto socioeconomico di questi disturbi è estremamente rilevante, tanto che l’American Board of Addiction Medicine afferma che essi sono “causa di costi incredibilmente elevati sia da un punto di vista finanziario, sia dal punto di vista della salute” per gli individui affetti e per l’intera società.

È necessario operare una distinzione terminologica tra l’inglese addiction e dipendenza. Il primo è solo parzialmente traducibile con la parola dipendenza, e può descriversi come “Il bisogno o un forte desiderio di fare od ottenere qualcosa, o una forte propensione per qualcosa di desiderato” (Cambridge Dictionary, 2021). Il termine dipendenza, invece, è definibile come “Uno stato di necessità verso qualcosa o qualcuno, al fine di poter continuare a esistere o a funzionare”. Nel primo caso, quindi, si definisce una condizione generale in cui la dipendenza psicologica da una sostanza o da un oggetto innesca comportamenti volti alla ricerca dell’oggetto stesso. Questo concetto dà pertanto enfasi ai fattori psicologici che supportano l’uso di sostanze. Nel secondo caso, quello di dipendenza, si intende la condizione in cui l’organismo necessita di una determinata sostanza dal punto di vista chimico e fisico e che permette all’organismo di funzionare. Il termine dipendenza è quindi maggiormente focalizzato sulla dimensione fisica e organica dell’uso di una sostanza o dell’attuazione di un comportamento.

Che cosa sono le droghe?

Per droga si intende ogni sostanza che causi una modificazione nella fisiologia e/o nella psicologia dell’individuo, a seguito del suo consumo (Pickard, Ahmed, Foddy, 2015). Questo perché esse agiscono a livello neurochimico nei meccanismi di ricompensa e apprendimento. Tra gli effetti psicoattivi si identificano, ad esempio, alterazioni nella percezione, nell’umore, nello stato di coscienza, nel pensiero e nei comportamenti (White, 2002). Le droghe possono essere impiegate con finalità molto diverse tra loro, ad esempio mediche, ricreative, sportive/prestazionali e religiose (Piccone Stella, 2002). I fattori che accomunano le sostanze psicoattive sono la possibilità di sviluppo di tolleranza, cioè la necessità di dover incrementare la dose per ottenere il medesimo effetto desiderato e di dipendenza. Infine, un fattore che differenzia le droghe è quello della loro legalità, che non è necessariamente determinata sulla base della loro pericolosità. Infatti, come evidenziato dall’immagine, alcol e tabacco, sostanze legali ed estremamente diffuse, risultano essere tra le più pericolose nel lungo termine (Imm. 1).

Abuso di sostanze una strategia di regolazione emotiva Report Imm 1

Imm. 1: La pericolosità delle sostanze

Come si classificano?

Le sostanze si possono suddividere in 3 categorie grossolane, con alcuni punti di sovrapposizione a seconda delle caratteristiche specifiche della sostanza:

  • Depressori del Sistema Nervoso Centrale (SNC) (es., alcol, barbiturici, benzodiazepine, oppioidi, cannabis, ketamina, solventi);
  • Stimolanti del SNC (es., nicotina, caffeina, cocaina, anfetamine, MDMA);
  • Allucinogeni (es., LSD, peyote, salvia divinorum, psilocibina).

Come già accennato, ciascuna di queste sostanze ha un impatto importante sullo stato d’animo e sul sistema percettivo dell’individuo. La scelta della droga può essere legata a fattori specificamente individuali, quali variabili di personalità e gli specifici scopi che la persona si prefigge, ad esempio, quale stato d’animo ottenere in quali situazioni. Il meccanismo disfunzionale che spesso si instaura a causa della natura autorinforzante delle sostanze (creando sensazioni piacevoli associate a situazioni specifiche), è quello di spingere la persona ad assumere regolarmente la sostanza in concomitanza con situazioni analoghe tra loro. Ad esempio, un individuo potrebbe assumere una droga eccitante quando si sente stanco: l’effetto stimolante così ottenuto rappresenterebbe un rinforzo positivo e ciò, secondo i principi del condizionamento operante (Skinner, 1938), aumenterà la probabilità che la persona ricerchi quella sostanza anche in futuro ogni volta che si sentirà stanco.

Nell’affrontare il tema delle addiction è opportuno analizzare i due approcci dominanti che si sono contrapposti sinora: l’approccio moralistico e quello medico (Pickard, Ahmed, Foddy, 2015). Nel primo caso, la persona che soffre di disturbo da addiction è moralmente “sbagliata”, e il percorso di cura (se ammesso) deve prevedere una rieducazione che passi anche attraverso metodologie coercitive. L’approccio medico, al contrario, ritiene che la persona con disturbo da addiction sia una persona “malata”, ovvero affetta da una “malattia del cervello” che può essere curata. Più di recente si è messo in discussione il fatto che le addiction siano esclusivamente una malattia cerebrale, propendendo per una prospettiva integrata, ovvero quella proposta dal modello bio-psico-sociale (Engel, 1977; George & Engel, 1980).

Secondo il modello bio-psico-sociale, le addiction possono essere considerate come un disturbo cronico, che è causato e mantenuto da fattori biologici, psicologici e sociali (Griffiths, 2005). Questo modello sostiene che circa metà del rischio di sviluppare una addiction sia dato dal patrimonio genetico, in quanto esso impatta significativamente sul grado in cui le persone percepiscono la gratificazione, sulle modalità con cui l’organismo reagisce all’assunzione di sostanze o all’emissione di comportamenti desiderati (Griffiths, 2005). In questa prospettiva, quindi, l’incremento del desiderio per riassumere una data sostanza è influenzato da fattori psicologici (personalità, traumi o esperienze avverse), sociali (contesto amicale, familiare) e ambientali (accessibilità della sostanza), che possono portare a un uso cronico, che può a sua volta indurre modificazioni a livello cerebrale.

Il trattamento delle problematiche di addiction

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è uno specifico orientamento della psicoterapia, ed è il modello più studiato e sottoposto ad analisi di efficacia. La teoria cognitivo-comportamentale parte dall’assunto che la sofferenza psicologica è prima di tutto sofferenza emotiva. Tale sofferenza è generata da una complessa relazione di pensieri, emozioni e comportamenti: gli eventi influenzano le nostre emozioni, ma pensieri e comportamenti determinano la loro intensità e la loro durata. Il processo terapeutico inizia da una concettualizzazione individualizzata della persona, per giungere a una definizione concreta di obiettivi da raggiungere. Ciò implica che il paziente, nel corso della terapia, assuma un ruolo attivo, ad esempio impegnandosi a identificare i propri pensieri le proprie emozioni, venendo stimolato a verbalizzare pensieri e credenze alternative, sperimentando modalità di coping e repertori di comportamenti differenti, praticando tecniche per facilitare la regolazione emotiva in seduta e a casa .

La CBT prevede la prescrizione di “compiti a casa”, allo scopo di promuovere e generalizzare modalità di riconoscimento e regolazione delle emozioni, di pensieri e dei comportamenti acquisiti in seduta.

Secondo l’approccio della CBT, l’uso di sostanze si configura come una strategia di coping maladattiva, che si è sviluppata nel tempo come esito dell’interazione tra scarse abilità di coping (regolazione degli stati emotivi) e da aspettative o credenze riguardanti il consumo di sostanze. Come detto in precedenza, l’effetto immediatamente autorinforzante delle sostanze interagisce con gli stili di coping e le credenze metacognitive maladattive, contribuendo a mantenere l’uso di sostanze. Ad esempio, gli effetti dell’alcol sull’ansia sono immediati (l’ansia viene significativamente ridotta), e possono portare una persona ad utilizzarlo più frequentemente nelle situazioni sociali. Tuttavia, possono trascorrere diversi anni prima che le conseguenze negative dell’uso di alcol siano evidenti alla persona stessa (es., sviluppo di problemi lavorativi, interpersonali, familiari o di salute, ecc…).

Illustriamo ora un esempio di Analisi funzionale del comportamento, una metodologia impiegata abitualmente in CBT:

Si verifica uno stimolo attivante, esterno o interno. Un esempio di stimolo interno potrebbe essere una sensazione spiacevole, un esempio di stimolo esterno potrebbe essere vedere un amico che beve un cocktail. Questo stimolo attiva una credenza, ad esempio: “Se berrò qualcosa la mia giornata migliorerà” che a sua volta attiverà un pensiero automatico, ad esempio: “Sarà divertente”. A questo punto, tale processo cognitivo attiverà l’urgenza di ricorrere alla sostanza, che porterà a strategie per procurarsela materialmente (ad es. recarsi al bar più vicino) accompagnate da pensieri facilitanti, del tipo “Da lunedì non berrò più”. Dunque, la sostanza verrà consumata e, venendo associata a sensazioni piacevoli in seguito al suo consumo, in futuro la persona sarà più propensa a ripercorrere il ciclo da capo non appena incorrerà in un nuovo stimolo attivante simile.

Principi e tecniche cognitive:

  • Affrontare l’ambivalenza e sostenere la motivazione;
  • Dialogo socratico (mettere in discussione le false credenze del paziente, gli errori di pensiero, attraverso un approccio dialogico tra paziente e terapeuta);
  • Automonitoraggio (es. ABC, diario del craving);
  • Tecniche di distrazione;
  • Bilancia decisionale, analisi di vantaggi e svantaggi;
  • Flashcards (piccole carte in formato tascabile sulle quali vengono scritte frasi di sostegno che possano essere d’aiuto nei momenti di difficoltà);
  • Tecnica della freccia discendente (metodo di conduzione del colloquio che consiste nel chiedere progressivamente al paziente il significato dei suoi pensieri, al fine di rilevare le convinzioni sottostanti);
  • Esposizioni in imagery (immaginative).

Tecniche comportamentali:

  • Monitoraggio delle attività / attivazione comportamentale;
  • Tecniche di rilassamento, esercizio fisico;
  • Tecniche di role-play;
  • Esperimenti comportamentali;
  • Gestione delle contingenze (rinforzo o ricompensa per l’evidenza di un cambiamento comportamentale nella direzione dell’obiettivo di cura, nel caso delle dipendenze l’astinenza);
  • Training di assertività;

Comorbilità con il disturbo Borderline di personalità

L’abuso di alcol o di sostanze risulta essere al secondo posto tra le comorbilità con il Disturbo Borderline di Personalità (DBP), preceduta solo dai disturbi dell’umore. Si stima che i pazienti affetti da DBP abusino di alcol e sostanze in percentuali che vanno dal 21% fino al 67%.

I pazienti affetti da disturbo Borderline di personalità potrebbero essere esposti ad un maggiore rischio di addiction rispetto ad altri a causa delle problematiche di disregolazione emotiva. Parallelamente, le persone con problemi di addiction presentano difficoltà nella regolazione delle emozioni: qualora percepiscano emozioni negative tenderanno a tentare di modificarle con l’assunzione di sostanze (Dimeff & Linehan, 2008).

Secondo il modello biosociale il funzionamento mentale è l’esito dell’interdipendenza tra:

  • Fattori temperamentali (aspetti biologici e innati), che possono determinare vulnerabilità emotiva;
  • Fattori ambientali (aspetti culturali), che risultano invalidanti rispetto all’esperienza emozionale soggettiva.

L’alterazione principale nel disturbo borderline è la compromissione dei sistemi di regolazione delle risposte emozionali, che genera la disregolazione emotiva. Ciò comporta, in particolare:

  • Elevata sensibilità emotiva;
  • Difficoltà a regolare stati emotivi intensi;
  • Lento ritorno alla base-line emotiva.

Una scarsa consapevolezza delle proprie emozioni potrebbe essere alla base del tratto di disregolazione emotiva, ritenuto a sua volta responsabile di condotte disadattive volte a moderare la sofferenza soggettiva, quali i gesti autolesivi.

Una regolazione emotiva efficace, al contrario, prevede:

  • Consapevolezza e comprensione delle emozioni;
  • Accettazione delle emozioni;
  • Capacità di controllare le emozioni negative e di agire in base ai propri obiettivi anche quando vengono provate emozioni negative;
  • Capacità di utilizzare strategie di regolazione emotiva flessibili e adatte al contesto.

La disregolazione e la vulnerabilità emotiva spiegano le principali caratteristiche del disturbo borderline: l’instabilità cognitiva, comportamentale, nell’immagine di sé, nelle relazioni con gli altri (Linehan, 2011).

La Terapia dialettico-comportamentale (DBT) (Linehan, 2011) è un trattamento cognitivo-comportamentale basato sul modello biosociale e ideato da Marsha Linehan specificatamente per il disturbo borderline di personalità. Esso lavora su quell’insieme di comportamenti disfunzionali che, a diversi livelli, impattano la vita della persona con disturbo borderline della personalità.

Ma l’obiettivo della DBT non si riduce a questo; attraverso il miglioramento nella gestione di tali comportamenti altamente disfunzionali, nella regolazione emotiva e attraverso la validazione della grande sofferenza che spesso accompagna gli individui con disturbo borderline lo scopo finale è il miglioramento della qualità della vita del paziente.

Il trattamento DBT prevede che il paziente sia seguito individualmente da un terapeuta e che partecipi ad uno skills training di gruppo, condotto da due terapeuti (Linehan, 2015). Il percorso include molte componenti che di fatto sono elementi di terapia cognitivo-comportamentale, come ad esempio la gestione delle contingenze, l’esposizione, l’analisi comportamentale, il problem-solving.

Sono presenti però aspetti distintivi come l’attenzione alle abilità di mindfulness, alla validazione degli stati emotivi, ai fattori che inficiano l’aderenza al trattamento e la qualità di vita. Viene poi posta enfasi agli aspetti dialettici: il cambiamento è l’esito di un difficile gioco di bilanciamento tra cambiamento e accettazione del proprio modo di percepire ed agire.

In conclusione, l’uso di sostanze ha un impatto immediato sullo stato emotivo corrente, costituendo una strategia di regolazione emotiva potenzialmente dannosa, qualora divenga rigida e inflessibile. Un incremento nelle capacità di riconoscere e padroneggiare gli stati emotivi, gestendo e tollerando i momenti di crisi, è fondamentale nel ridurre la tendenza all’assunzione di sostanze.

I problemi di addiction sono enormemente diffusi e causa di profondi costi sociali. Sebbene buona parte delle persone interrompa spontaneamente comportamenti disfunzionali, una minoranza significativa cronicizza. I disturbi da addiction sono trattabili rivolgendosi a professionisti della salute mentale e medici specializzati.

Il Centro Disturbi della Personalità del progetto Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIP) di Modena e di Milano si occupa di fornire sostegno, in ambito clinico e riabilitativo, a chi ha difficoltà di regolazione emotiva o di dipendenza da sostanze ed ai loro familiari.

 

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Biologia della gentilezza (2020) di Immaculata de Vivo e Daniel Lumera – Recensione del libro

Il libro “Biologia della gentilezza” scritto da Immaculata de Vivo e Daniel Lumera è un libro particolarmente interessante per le molte evidenze presentate dalle scienze psicologiche e biomediche intrecciate con le conoscenze delle pratiche meditative.

 

Gli autori del libro sono Immaculata de Vivo, ricercatrice e docente di fama mondiale della Harvard Medical School, che con i suoi studi rappresenta l’avanguardia scientifica nel settore dei meccanismi molecolari del cancro oltre ad essere tra le più importanti studiose al mondo nello studio dei telomeri, e Daniel Lumera, un esperto di fama internazionale nella pratica della meditazione.

Il bagaglio culturale dei due autori si intreccia nel libro in modo originale e scorrevole per sottolineare come alcuni concetti quali la gentilezza, l’ottimismo e la felicità impattano sul funzionamento del nostro apparato biologico determinando cambiamenti che ormai la scienza riesce a misurare in termini, ad esempio, di processi antinfiammatori, di cambiamenti genetici, di longevità e qualità di vita.

Il libro presenta una sintesi costituita da cinque valori fondamentali (gentilezza, ottimismo, perdono, gratitudine e felicità) e sei strumenti e modalità operative preziose per generare un impatto positivo sul nostro corpo e la nostra salute (alimentazione, attività fisica, meditazione, relazioni sociali, musica ed il nostro rapporto con la natura).

Il grado di integrazione che l’attuale letteratura scientifica fornisce riguardo tematiche più strettamente psicologiche con tematiche che, fino a pochissimi anni fa, venivano considerate come esclusivamente biologiche, viene presentato dai due autori con un linguaggio fluido ed accessibile.

Ormai è la scienza stessa che ci indica con chiarezza che praticare la gentilezza, l’essere altruisti, il provare gratitudine ed essere ottimisti migliora la nostra vita non “solo” dal punto di vista del benessere psicologico o morale, ma anche per le notevoli implicazioni sulla nostra salute fisiologica e cellulare.

Grazie ai contenuti presentati dal libro Biologia della gentilezza si comprende in che modo ciascuno di noi ha il potere di controllare e quindi di influenzare direttamente il proprio stato di salute, a breve e lungo termine, attraverso scelte di vita guidate da un approccio psicologico altruistico e cooperativo oltre che riflessivo, proattivo, consapevole e connesso con la natura.

Diversamente da quanto affermato fino a pochi anni fa dal cosiddetto determinismo genetico caratterizzato dall’assunto che l’informazione del nostro DNA è la sede principale che, appunto, determina massicciamente la nostra qualità di vita anche a lungo termine, il libro adotta il più recente e scientificamente solido paradigma epigenetico contraddistinto da un ruolo molto più attivo e plastico delle informazioni extra-genetiche cioè che non fanno parte del nostro patrimonio genetico.

In questo contesto più scientificamente moderno e aggiornato trovano un rinnovato ruolo fondamentale le nostre quotidiane scelte personali che, determinando le nostre abitudini ed i nostri stili di vita, modellano continuamente l’espressione selettiva del nostro codice genetico.

Il libro, in maniera chiara quanto comprensibile, descrive sia la grande potenzialità positiva di queste scelte personali, raggiungibili attraverso una maggiore consapevolezza, che le grandi responsabilità individuali, sociali e politiche derivanti da questo potere.

Particolarmente interessanti per le molteplici ed originali implicazioni bio-psico-sociali sono, a mio parere, i capitoli dedicati all’ottimismo, ai telomeri (le strutture del cromosoma, influenzate dai nostri stili di vita, che determinano la nostra longevità) e quello rivolto alla connessione con la natura, ma anche gli altri capitoli (la meditazione, il perdono, l’alimentazione, l’attività motoria, la musica) sono comunque molto ricchi di stimoli preziosi per migliorare il benessere e la salute psicofisica.

Consiglio vivamente la lettura di questo libro che rappresenta attualmente uno dei pochi libri che, pur affrontando la complessità bio-psico-sociale in maniera integrata e scientifica, riesce comunque ad essere utile a coloro che desiderano trarne delle indicazioni concrete da adottare all’interno della propria quotidianità.

 

Lorenzo tra le nuvole. Educazione, scuola e adolescenza – Intervista con l’autore Marco Pontis

“Lorenzo tra le nuvole” è stato scritto con il desiderio di sensibilizzare i docenti, i genitori e tutta la comunità educante sul tema della conoscenza, del rispetto e della valorizzazione di tutte le differenze al fine di prevenire episodi di bullismo, cyberbullismo, violenza e discriminazione di ogni genere. 

 

 Intervistatrice (I): “Lorenzo tra le nuvole” offre una visione critica sulla società contemporanea che sembra essersi disimpegnata dal ruolo educativo nei confronti delle nuove generazioni. Chi è Lorenzo e perché è proprio lui ad accompagnarci in questa riflessione?

Marco Pontis (MP): Lorenzo è un adolescente intrappolato nel 2021 e, come tante altre ragazze e ragazzi della sua età, da inizio Pandemia ad oggi, sta vivendo la sua adolescenza rinchiuso in casa, o quasi, di fronte allo schermo di un computer, di uno smartphone o della tv, talvolta raggomitolato in posizioni improbabili durante la frequenza di interminabili ed estenuanti lezioni in Didattica a Distanza (DAD) o Didattica Digitale Integrata (DDI). Incontra ormai raramente solo alcuni fra i pochi amici che frequentava spesso in precedenza, generalmente la sera e non pratica più sport. Lorenzo ultimamente si sente profondamente solo, forse troppo solo, ma non ha il coraggio di dirlo a nessuno. Si è iscritto a diversi gruppi di discussione online e segue assiduamente diversi youtuber che si occupano di giochi per la Play, musica aborigena o fisica quantistica, ma tutto ciò non riesce a lenire nemmeno un poco la sua inaspettata sofferenza anzi, a volte, sembra addirittura accrescerla. Per buona parte del suo tempo ha spesso il capo chino su un quaderno o su un libro e, naturalmente, sul suo iPhone, da cui non si separa mai. Talvolta resta quasi ipnotizzato di fonte al suo piccolo schermo luminoso, sporadicamente sembra quasi inebriato dal grondare di like che rinforzano, apparentemente, la sua fragile autostima, e non smette di “scrollarlo” ossessivamente in attesa che arrivi qualche nuova notifica su Instagram, Whatsapp, TikTok, Telegram, Facebook, Messenger o in qualche altra App che, per rispetto o semplicemente per delicatezza, è meglio qui non rivelare. Non si sa mai, – anche i muri hanno orecchi in questa piccola città – dice lui stesso. Chi meglio di lui può accompagnarci in questa riflessione?

I: Per diversi giorni “Lorenzo tra le nuvole”, uscito appena un mese fa, è stato al primo posto tra i Bestseller Amazon in Racconti e in soli cinque giorni (Amazon consente di rendere l’e-book disponibile gratuitamente da uno a cinque giorni massimo) in cui lei ha deciso di rendere l’e-book gratuitamente scaricabile, è stato scaricato da oltre 700 lettori. 

Numerose le recensioni positive degli esperti in ambito pedagogico e psicologico, prof. D. Ianes ad esempio scrive:  «La Spoon River della Dichiarazione dei Diritti Umani e delle molte vittime dei pregiudizi e delle crudeltà sociali: con amore feroce Marco ce li fa trovare sulla collina, morti ma così vivi…». Si aspettava un successo del genere? 

MP: Assolutamente no, dopo aver reso disponibile l’e-book gratuitamente sono andato a dormire, la mattina successiva ho notato con vera sorpresa che in poche ore oltre 100 persone avevano già scaricato o letto il libro (che è e sarà sempre disponibile gratuitamente su Kindle Unlimited).

Sono davvero grato per i tanti e bellissimi pensieri che le ragazze e i ragazzi, i genitori, i docenti e gli amici mi stanno inviando via social e sulla pagina Amazon del testo. Il vero successo per me è avere la meravigliosa possibilità di comprendere le emozioni e le riflessioni che Lorenzo sta suscitando nei diversi lettori, alcune davvero toccanti e preziose . Questa è un’autentica meraviglia, così come lo è l’operato concreto di tanti giovani e meno giovani che si stanno unendo per difendere l’ambiente, i diritti degli animali e di tutte le donne e gli uomini del pianeta, superando pregiudizi e barriere di ogni tipo. Poter vedere con i miei occhi oggi così tante persone, anche giovanissime, che sono già in cammino o si stanno mettendo in moto per cercare di migliorare questa società attraverso piccole azioni quotidiane, forme di collaborazione in rete, unione fra individui, famiglie, popoli, culture, modalità di funzionamento neurodiverse, neurodivergenti, atipiche o laterali, mi riempiono il cuore di gioia e mi fanno credere ancor più che i nostri ragazzi possono farcela, nonostante le loro molteplici difficoltà e fragilità, poiché hanno delle risorse e delle potenzialità magnifiche e straordinarie, sta a noi educatori aiutarli a scoprirle, conoscerle, esplorarle e valorizzarle. E se non ora, quando?

I: “Lorenzo tra le nuvole” il 3 aprile scorso ha iniziato un viaggio in tutta la penisola e ha già raggiunto tante scuole, associazioni, famiglie, insegnanti, studenti universitari. Questo tour simbolico e gratuito è partito da Bologna e, ad oggi, oltre all’Emilia Romagna, ha raggiunto la Calabria, la Sicilia e a breve sarà in Veneto e in Sardegna, può dirci qualcosa di più su questo progetto? 

MP: Il viaggio di Lorenzo in tutte le regioni d’Italia ha proprio lo scopo di sensibilizzare i docenti, i genitori e tutta la comunità educante sul tema della conoscenza, del rispetto e della valorizzazione di tutte le differenze al fine di prevenire episodi di bullismo, cyberbullismo, violenza e discriminazione di ogni genere.

Siamo partiti con un primo webinar gratuito e aperto a tutti con Marco Francioni e gli amici dell’Associazione Bambini e Genitori di Bologna per poi essere il giorno successivo a Petrosino in Sicilia presso L’Istituto Comprensivo «Gesualdo Nosengo» Scuola Polo per l’Inclusione per la provincia di Trapani per discutere di bisogni educativi speciali, didattica inclusiva e prevenzione del bullismo-cyberbullismo.

Siamo poi tornati in Emilia, a Rimini, per discutere di questi temi con i genitori dell’associazione Linkaut e volati il giorno successivo a Crotone, in Calabria, per dialogare con Teresa Manes, un’autrice e una donna straordinaria (tra le sue più recenti pubblicazioni: Andrea oltre il pantalone rosa, Graus Editore, Punto e a capo. La vita dopo il suicidio di mio figlio, Erickson Edizioni e Un’alba nuova, Graus Edizioni) e presentare ufficialmente al pubblico «Lorenzo tra le nuvole». Qualche minuto dopo ho raggiunto gli studenti del Corso di Specializzazione per il Sostegno didattico dell’Università di Catania con la prof.ssa Paolina Mulé, direttrice del corso, e il prof. Giovanni Savia, docente di Pedagogia e Didattica Inclusiva e autore del bellissimo testo Universal Design for Learning. La Progettazione Universale per l’Apprendimento per una didattica inclusiva, Edizioni Erickson.

Mercoledì 21 aprile siamo volati invece in Sardegna per parlare di Bisogni Educativi Speciali in tempi di Pandemia, insieme a Monia Satta, pedagogista e presidente di Akròasis APS per dare il via a un interessante ciclo di seminari gratuiti e aperti a tutti, organizzati dall’Assessorato alle Politiche Sociali e dall’Ufficio Politiche Familiari del Comune di Alghero, per supportare la comunità educante in questo lungo periodo di crisi dovuta all’emergenza sanitaria ancora in corso.

Prossimamente saremo inoltre in diretta con Davide Ferraro, referente arte, spettacolo e cultura dell’Associazione Arcigay Vicenza sulla pagina Instagram WHY NOT che ha l’obiettivo di diffondere la cultura LGBT attraverso le parole, le emozioni e i racconti di tanti ragazzi e ragazze, scrittori, scienziati, registi, divulgatori scientifici, cantanti e non solo.

Se condividete i valori di Lorenzo (e ancor più se non li condividete ancora), di equità, giustizia, fratellanza universale, cooperazione internazionale, valorizzazione di tutte le differenze umane e rispetto dei diritti di tutti, unitevi alla nostra carovana! Più siamo «diversi» e più le nostre differenze arricchiranno l’intero gruppo!

I: Parlando di educazione non si può non guardare alla scuola con preoccupazioneLorenzo si chiede:

«perché la maggior parte dei docenti (non tutti per fortuna perché alcuni di loro sono dei veri supereroi che salvano quotidianamente tantissime vite) considera i suoi allievi degli automi che, varcata la soglia dell’aula, devono resettare tutto ciò che è successo sino a un attimo prima nelle loro case, nelle loro famiglie, nella vita reale, dissociandosi dal loro carico per dedicarsi ad apprendere diligentemente l’italiano, la storia o la fisica?»

Lei che è un educatore di grande esperienza e che conosce la realtà scolastica dall’interno può darci delle risposte a questa domanda?

MP: Problema chiaramente complesso e multisfaccettato che, come tutti i problemi complicati, merita una risposta articolata che non sarà certamente esaustiva: in primo luogo è un problema che ha a che fare con le modalità di reclutamento dei docenti. E’ oggi impensabile poter insegnare ai bambini/ragazzi in via di formazione conoscendo, pur approfonditamente, solo la propria disciplina di insegnamento, senza avere delle competenze specifiche e forti di Didattica, Didattica inclusiva, Pedagogia generale, Pedagogia speciale, Psicologia dell’Educazione, ecc. Attraverso il racconto di alcune intime esperienze personali, Lorenzo cercherà anche di farci comprendere il perché. Spesso, nessuno ha insegnato ai docenti nemmeno “come” insegnare agli alunni i principi, i contenuti e gli strumenti relativi alla propria disciplina e alcuni di loro semplicemente “improvvisano”, ignorano e talvolta si trincerano dietro fantomatiche necessità, come quella di portare avanti il famigerato “Programma Ministeriale” che chiaramente non esiste più da tempo. Vorrei però sottolineare che già oggi, nella scuola italiana, esistono tantissimi insegnanti umani, preparati, in continua formazione, competenti, professionali e preziosi che ogni giorno svolgono un lavoro meraviglioso per e con i loro alunni, salvando spesso anche tantissime vite nell’indifferenza totale di molti altri loro colleghi.

 La formazione (iniziale, continua e permanente) dei docenti curricolari e di quelli specializzati per il sostegno dovrebbe oggi essere comune e condivisa con tutte le altri importanti figure professionali (pedagogisti, psicologi, educatori, assistenti all’autonomia e alla comunicazione) che si prendono cura dell’alunno anche in contesti extrascolastici. Una formazione teorico-pratica, multidisciplinare, che sia in grado di fornire loro competenze specifiche, immediatamente spendibili nella didattica quotidiana, per riuscire a predisporre delle lezioni accessibili e inclusive per tutti (alunni con disabilità, con disturbi specifici di apprendimento o con altri bisogni educativi speciali anche soltanto temporanei) secondo i prIncipi dell’Universal Design for Learning (UDL), rappresentando dunque le diverse informazioni in svariati formati (che consentono la massima adattabilità allo studente), garantendo percorsi multipli e differenti possibilità di espressione, fornendo a ciascun alunno modalità diversificate e molteplici mezzi di coinvolgimento (interattività, collaborazione in gruppo, tutoring, auto-apprendimento) per innalzare la motivazione intrinseca ad apprendere e favorire il collegamento delle nuove conoscenze/abilità/competenze con quelle pregresse.

I: E sull’educazione sessuale oggi nelle scuole cosa possiamo dire? 

Purtroppo quasi non esiste ancora. È oggi davvero urgente predisporre e realizzare percorsi di educazione alle emozioni ed al lavoro cooperativo, di sensibilizzazione e formazione alla conoscenza, al rispetto ed alla valorizzazione di tutte le diversità individuali, dedicati non solo agli alunni ma anche ai loro genitori, familiari ed educatori in genere. Non possiamo più aspettare. Tanti ragazzi e ragazze come Lorenzo non possono più aspettare.

La prima volta che Lorenzo ha visto un video porno aveva circa 8 anni e mezzo, glielo mostrò Michele, il suo compagno di banco, tutto tronfio, che da allora non riesce più a farne a meno e ne divora almeno una decina/ventina al giorno. A volte, li sogna pure. Da marzo scorso in poi Michele si è chiuso sempre più, ha cominciato ad avere degli strani attacchi di panico e ora pare stia seguendo una sorta di “cura” a base di benzodiazepine, suggerita da un amico che si intende di queste cose e possibile soltanto grazie al furto periodico di piccole quantità di farmaco dalle tante boccette custodite ordinatamente dentro l’armadietto del bagno dai genitori ignari.

Tutto ciò non sembrerà affatto strano o inconsueto a coloro che si occupano di educazione sul campo, lavorano quotidianamente insieme ai ragazzi e lottano, da anni, ogni giorno affinché anche, e soprattutto, a scuola tutti gli alunni possano fruire di percorsi significativi di educazione al corpo, alla cura di sé, al benessere globale, all’affettività e alla sessualità, oggi ancora praticamente assenti! Questi indispensabili percorsi devono essere multidisciplinari e possono anche essere concordati e condivisi in gruppo (genitori, familiari, insegnanti, operatori sanitari) per favorire sia nei ragazzi che nei loro educatori una maggior conoscenza, rispetto e valorizzazione di tutte le differenze individuali (bio-psico-sociali), legate ad aspetti biologici, culturali, economici, religiosi o più semplicemente alle emozioni, agli stati d’animo e ai sentimenti umani. Solo investendo fortemente in simili percorsi educativi-formativi di qualità, sarà possibile realizzare, nel corso dei prossimi anni, una concreta ed efficace prevenzione del bullismo-cyberbullismo-revengeporn, razzismo violenze o discriminazioni di qualsiasi genere, fenomeni in spaventosa e continua crescita.

I: Il libro è anche un grande richiamo alla responsabilità individuale spesso soffocata dall’omologazione e dall’adesione critica che gli adulti pretendono dai giovani nei confronti di norme e valori che loro, per primi, spesso non comprendono fino in fondo o addirittura non rispettano.

In che modo noi “grandi” possiamo riappropriarci di un ruolo educativo efficace? 

MP: I nostri adolescenti oggi navigano a vista, catapultati inesorabilmente in una realtà digitale quotidiana che fornisce certo importanti opportunità ma presenta altrettanti limiti e alcuni pericolosi rischi. In un mare di difficoltà emotive, relazionali ed economiche impreviste e “mai sperimentate prima”  cercano disperatamente di trovare un loro spazio, una loro identità e una progressiva (e sempre maggiore) autonomia. Hanno dunque, oggi più che mai, estremo bisogno di punti di riferimento educativi onesti, leali, competenti e sensibili che siano per loro degli esempi e dei punti di riferimento significativi, in famiglia, a scuola e nelle comunità. Possiamo essere efficaci solo se siamo credibili, sinceri e forniamo loro degli esempi positivi e concreti, attraverso il nostro comportamento, non solo a parole.

I ragazzi hanno bisogno di genitori, familiari, docenti ed educatori realmente “interessati” alla loro crescita, appassionati, consapevoli dell’unicità di ciascuno di loro, della necessità di personalizzare i percorsi di apprendimento in base ai loro stili cognitivi, relazionali e di apprendimento, ai punti di forza ed alle difficoltà specifiche di ciascuno, capaci di favorire l’apprendimento cooperativo e non la competitività, il lavoro collaborativo, lo sviluppo di abilità meta-cognitive e cognitivo-emotive, indispensabili oggi per affrontare la vita quotidiana e imparare prima di tutti a prendersi cura di sé e a volersi bene. Educatori capaci anche di mettersi costantemente in discussione, di osservare attentamente ciò che sta dietro la maschera di ciascuno ragazzo e insegnare prima di tutto, sin dalla scuola dell’infanzia, che ogni persona ha un immenso potenziale dentro di sé poiché è unica e diversa da tutte le altre al mondo, a prescindere dal rendimento scolastico, dalla popolarità/successo con i pari o dall’aspetto fisico e che si può cambiare e migliorare ogni giorno, superando anche delle difficoltà apparentemente insormontabili, che possiamo darci tempo e imparare a perdonarci, ad amarci sempre di più e a rispettarci davvero, giorno dopo giorno.

Vorrei ringraziare tutti voi, sperando di rincontrarci presto online o dal vivo, con questa bellissima frase di Hannah Arendt:

“L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani”.

Grazie a te Ilaria e grazie a State of Mind per questa bella opportunità di lavoro in rete per costruire una scuola e una società più equa, giusta e inclusiva per tutti!

 

Credenze metacognitive e avversità infantili: una panoramica della letteratura – SURVEY ONLINE

La metacognizione può essere definita come la capacità di riflettere sui propri stati mentali.

 

Adrian Wells da anni si occupa di studiare la metacognizione e ha proposto un particolare modello, il Modello dell’Autoregolazione delle Funzioni Esecutive (Self-Regulatory Executive Function model, S-REF) attraverso il quale vengono delineati i fattori cognitivi e metacognitivi coinvolti nell’eziologia e nel mantenimento dei disturbi emotivi (Myers & Wells, 2015).

Il prolungamento dell’attivazione della S-REF darebbe origine alla sindrome cognitivo-attenzionale (CAS). Il CAS consiste in una particolare forma di pensiero ripetitivo e perseverante, caratterizzata da rimuginio, ruminazione, monitoraggio di stimoli minacciosi e strategie di coping controproducenti. Secondo il modello S-REF i disturbi psicologici dipenderebbero proprio dal CAS (Wells & Matthews, 1996). Generalmente, a tutte le persone capitano dei periodi caratterizzati da emozioni negative, tuttavia tali periodi sono saltuari e limitati nel tempo. Quando, invece, il CAS viene attivato, il soggetto si trova invischiato in una spirale in cui le emozioni negative si mantengono e le idee negative vengono rinforzate. Per il CAS risultano rilevanti due tipologie di credenze metacognitive: le metacredenze positive che si riferiscono all’utilità del preoccuparsi e del ruminare (rimuginio e ruminazione vengono utilizzate come strategie di coping); le metacredenze negative che riguardano, invece, l’incontrollabilità e la pericolosità dei pensieri e delle emozioni (Wells, p. 11, 2012).

La metacognizione si sviluppa durante l’infanzia o l’adolescenza (Schneider, 2008) e potrebbe essere influenzata da esperienze vissute nell’ambiente familiare come le esperienze di attaccamento (Malik, Wells e Wittkowski, 2015), lo stile genitoriale (Spada et al., 2012) e lo stile metacognitivo dei genitori (Esbjørn, Normann, Lønfeldt, Tolstrup e Reinholdt-Dunne, 2016).

Una overview della letteratura condotta dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi (Mansueto, Caselli, Ruggiero e Sassaroli, 2019) ha evidenziato che:

  • l’esposizione all’abuso o all’abbandono infantile sembra essere associata a convinzioni metacognitive disfunzionali in età adulta;
  • in soggetti adulti sia sani che clinici, le credenze metacognitive sembrano mediare l’associazione tra le avversità infantili e il pensiero ripetitivo ed emozioni negative.

Questi risultati sono in linea con il modello S-REF il quale ipotizza che l’angoscia, causata da avversità infantili, potrebbe generare convinzioni metacognitive disfunzionali e quindi attivare il CAS, predisponendo alla vulnerabilità emotiva. Di conseguenza, le credenze metacognitive potrebbero avere un ruolo nel mediare il legame tra avversità infantili e disturbi psicologici (Mansueto et al., 2019).

In particolare, si può ipotizzare che le avversità infantili potrebbero essere più frequentemente associate a credenze negative relative all’incontrollabilità e alla pericolosità dei pensieri. All’inizio il CAS è attivato da convinzioni metacognitive positive, che non sono di per sé problematiche e che sono esperienza comune a tutte le persone (Myers & Wells, 2015). Tuttavia, quando il CAS risulta attivato per un tempo prolungato senza una riduzione dell’angoscia, le persone si trovano in difficoltà nello sviluppare una strategia flessibile per la regolazione delle proprie emozioni e ciò potrebbe portare allo sviluppo di credenze metacognitive negative circa l’assenza di controllo sui propri pensieri (Wells, 2012).

La relazione tra avversità ambientali e vulnerabilità emotiva rappresenta un interessante tema di ricerca. Il presente studio si propone di esplorare la relazione tra avversità ambientali e disturbi emotivi.

 

Se ti va puoi fornire il tuo aiuto partecipando alla seguente survey:

COMPILA IL QUESTIONARIO – CLICCA QUI 9733

 

 

La relazione tra attività fisica ed aggressività

La letteratura riguardante la relazione tra l’esercizio fisico e l’aggressività è fortemente eterogenea (Williams & Gill, 2000) e ciò potrebbe essere dovuto all’interazione di una serie di fattori, ovvero variabili moderatrici, che hanno dato luogo a risultati differenti.

 

Esistono almeno due macro-categorie di moderatori che sembrano avere una rilevanza quando si analizza l’influenza dello sport sull’aggressività e sui sentimenti aggressivi, ovvero gli aspetti metodologici degli studi e le circostanze in cui l’esercizio fisico ha luogo come, ad esempio, le condizioni sociali o il tipo di movimento. Attraverso la considerazione di questi moderatori, è possibile chiarire i potenziali meccanismi attraverso i quali lo sport e l’esercizio fisico contribuiscono alla riduzione dell’aggressività.

Per quanto riguarda gli aspetti metodologici, la definizione della variabile dipendente è un moderatore chiave.

L’aggressione può essere definita come “qualsiasi comportamento diretto verso un altro individuo che viene messo in atto con l’intento di causare danno”, mentre, i sentimenti aggressivi possono influenzare l’aggressione in diversi modi, ad esempio aumentando i livelli di eccitazione (Anderson & Bushman, 2002, p. 28).

Per quanto riguarda le circostanze in cui l’esercizio ha luogo, le evidenze precedenti indicano che sia il tipo di movimento che le condizioni sociali possono agire come moderatori.

Rispetto al tipo di movimento, alcune attività sportive vengono tipicamente assunte come determinanti dell’aggressività, in particolare modo gli sport di combattimento (Jarvis, 2006). A sostegno di ciò, l’inizio di queste attività è stato associato ad un aumento di comportamenti antisociali, mentre l’interruzione determina una diminuzione dei suddetti (Endresen & Olweus, 2005). Tuttavia, esistono anche prove del contrario.

I risultati incoerenti in questo caso possono essere spiegati da ricerche successive che indicano che l’influenza degli sport da combattimento sull’aggressività dipende da come uno sport viene insegnato. Per esempio, l’allenamento moderno delle arti marziali porta a punteggi più alti di delinquenza (Trulson, 1986), mentre, le lezioni di taekwondo, che incorporano un’istruzione specializzata, promuovono più comportamenti prosociali rispetto alle lezioni standard di educazione fisica (Lakes & Hoyt, 2004).

Per quanto riguarda le condizioni del compito sociale, la ricerca suggerisce che la competizione potrebbe aumentare i sentimenti aggressivi. Alcuni autori concordano sul fatto che la competizione causi frustrazione, che, a sua volta, porta a punteggi più alti di aggressività, in quanto gli avversari interferiscono con il raggiungimento di obiettivi individuali (Tjosvold, 1998).

Al contrario, la cooperazione richiede uno scambio reciproco per raggiungere un obiettivo comune (Tjosvold, 1998), che determina la formazione di un’identità sociale positiva e, a sua volta, a una maggiore autostima (Luhtanen & Crocker, 1992), che riduce i sentimenti aggressivi. Di conseguenza, i giochi cooperativi si sono rivelati un’opzione di trattamento efficace per ridurre l’aggressività (Bay-Hinitz & Wilson, 2005).

Oltre al tipo di movimento e alle condizioni del compito sociale, devono essere prese in considerazione le condizioni quantitative, come l’eccitazione, per spiegare l’entità della riduzione dell’aggressività attraverso lo sport. Tuttavia, anche in questo caso la letteratura contiene una contraddizione: da un lato, l’ipotesi della catarsi afferma che un’elevata eccitazione durante un’attività comporti una riduzione della tensione psichica (Bushman, Stack, & Baumeister, 1999). D’altra parte, studi empirici hanno dimostrato che le attività eccitanti possono portare a un comportamento ancora più aggressivo (Lemieux, McKelvie, & Stout, 2002).

In sintesi, le ricerche e le considerazioni teoriche descritte in precedenza suggeriscono che i sentimenti aggressivi associati allo sport dipendono dal tipo di movimento e dalle condizioni in cui l’attività è condotta.

Dunque, sulla base di quanto appena esposto, alcuni autori hanno ipotizzato che gli individui presi in esame avrebbero riportato una riduzione dei sentimenti aggressivi a seguito di attività fisiche che non implicano movimenti aggressivi e, soprattutto, hanno supposto che vi sarebbero state delle differenze, rispetto ai sentimenti aggressivi, tra un’attività fisica condotta in modo cooperativo rispetto a un’attività condotta in presenza di un avversario.

Il campione preso in esame era composto da 60 studenti. I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale a sei diversi gruppi di trattamento. Difatti, i due sport presi in considerazione, il canottaggio e il combattimento, sono stati eseguiti in tre diverse condizioni: individualmente, in un ambiente competitivo e in un ambiente cooperativo.

All’inizio dello studio, al fine di indurre dei sentimenti aggressivi, tutti i partecipanti hanno ricevuto un feedback negativo da parte di un assistente.

In generale, si è assistito ad una significativa riduzione dei sentimenti aggressivi nel corso dei compiti sperimentali e, in particolar modo, si è assistito ad una riduzione significativa dei sentimenti aggressivi nei partecipanti che avevano preso parte al compito di canottaggio individualmente, rispetto alla condizione di combattimento.

Inoltre, nel corso delle attività da combattimento, non è stato rinvenuto nessun aumento dei sentimenti aggressivi, ciò significa che l’ipotesi che i movimenti assimilabili al combattimento inducano effetti negativi non può essere sostenuta.

Questi risultati supportano in parte l’ipotesi che i movimenti meno aggressivi determinino una riduzione dell’aggressività, rispetto ai movimenti altamente aggressivi.

Ulteriormente, va aggiunto che le due condizioni di cooperazione e competizione non differivano dalla condizione di esercizio individuale, in termini di cambiamenti nei sentimenti aggressivi.

Ciò può essere spiegato dal fatto che l’avversario della condizione competitiva non era un vero avversario e, al contempo, la relazione tra i due partner nel compito cooperativo non era abbastanza positiva.

Quanto appena detto mostra che se l’attività fisica di gruppo fosse messa in atto per ridurre l’aggressività all’interno del team, la qualità della relazione tra le persone coinvolte sarebbe più rilevante del contesto sociale stesso. Di conseguenza, sarebbe poco utile definire semplicemente un compito in cui i partecipanti devono cooperare o competere tra loro, bensì sarebbe importante formare e sviluppare le relazioni interpersonali nel corso del compito.

In altre parole, l’esercizio fisico è in grado di ridurre l’aggressività, in particolar modo nei casi in cui i partecipanti sperimentano i movimenti come soddisfacenti. Si può supporre che le attività fisiche, specialmente quelle che soddisfano i bisogni psicologici di base, sono in grado di ridurre i sentimenti di aggressività e frustrazione. Concludendo, i suddetti risultati suggeriscono che la riduzione dell’aggressività non sia tanto legata al tipo di movimento o al compito sociale, bensì che essa sia una questione di appagamento personale.

 

Apart of Me: la prima app che aiuta i giovani ad affrontare la morte – Psicologia Digitale

L’app Apart of Me è un gioco terapeutico che aiuta i più giovani ad affrontare il lutto fornendo supporto psicologico, strategie ed esercizi per elaborare la perdita.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 21) Apart of Me: la prima app che aiuta i giovani ad affrontare la morte

 

 Lo scorso Novembre è stata rilasciata la versione italiana di Apart of Me, un’app nata per offrire supporto psicologico a bambini ed adolescenti che affrontano un lutto. Attraverso giochi ed interazioni coi personaggi, l’utente viene aiutato a conoscere e riconoscere le emozioni, ascoltare storie di altre persone che hanno vissuto la perdita di una persona cara, fare meditazione ed avere uno spazio sicuro e sempre a disposizione (l’app è gratuita sia per Android che iOS).

Apart of Me nasce da un’idea di Louis Weinstock, psicoterapeuta infantile, che ha lavorato a lungo con famiglie e ragazzi che hanno affrontato un lutto. Assieme allo sviluppatore di software Ben Page, Weinstock ha fondato la Bounce Works, un’impresa sociale che crea prodotti e servizi digitali per il supporto dei più piccoli.

Il primo progetto della Bounce Works è proprio Apart of Me, un’app costruita a più mani grazie alla collaborazione con ragazzi, genitori, psicologi e game designers. Questo lavoro congiunto ha permesso di creare un’esperienza di gioco coinvolgente e basata sulle indicazioni e l’esperienza di professionisti qualificati.

Come funziona Apart of Me

Nella narrativa del gioco il protagonista arriva sull’isola dopo aver affrontato un evento tragico e, grazie all’aiuto della Guida e di altri personaggi, apprende abilità e informazioni che lo aiutano ad affrontare il dolore.

Progredendo nel gioco e attraverso alcune attività, l’utente viene aiutato ad esplorare l’esperienza del lutto: catturando le lucciole può conoscere cosa sono le emozioni (ogni lucciola corrisponde ad una emozione); nella grotta può ascoltare le storie di altri ragazzi che hanno subito una perdita; la cascata gli offre esperienze di meditazione; la guida gli dà delle missioni che lo incoraggiano a ricordare momenti piacevoli e significativi con la persona che è venuta a mancare. Non c’è un tempo determinato per ogni attività, ognuno può seguire il suo ritmo e fare le attività quando si sente di farlo.

Uno spazio virtuale sicuro

La perdita di una persona cara è un’esperienza che, se non affrontata adeguatamente e con gli strumenti giusti, può far sentire isolati e vulnerabili. In particolare quando non si ha accesso a servizi di supporto c’è il rischio che la sofferenza si tramuti in depressione, ansia, comportamenti antisociali e in casi estremi suicidio: per questo è fondamentale agire e dare supporto ai giovani che affrontano un lutto e aiutarli a sviluppare la propria resilienza emotiva.

L’esperienza di gioco è piacevole così come la grafica; le emozioni (cosa sono, come si manifestano) vengono spiegate in maniera semplice e chiara; gli esercizi di meditazione sono facili da eseguire; le storie esplorano diverse situazioni legate ad un lutto, esperienze in cui ci si può rispecchiare per sentirsi meno soli; grazie alle missioni della Guida si rievocano ricordi piacevoli da custodire nella ‘scatola dei ricordi’ digitale; nella capanna della Guida sono a disposizione anche contatti di associazioni impegnate nel sostegno professionale per bambini e adolescenti in lutto.

Nel complesso, Apart of Me ha tutte le qualità per essere uno strumento valido e utile per chi affronta un lutto. Per riuscire a catturare l’attenzione ed avere un impatto positivo sui nativi digitali un’app è sicuramente la via più immediata ed è proprio questo il grande pregio di Apart of Me: fornire supporto ai più giovani attraverso linguaggi e mezzi a loro più vicini.

 

Melatonina e depressione: fra false credenze e paradigmi scientifici

Negli ultimi anni si è diffusa la falsa credenza che la somministrazione della melatonina esogena possa essere un trattamento specifico ed efficace per il disturbo depressivo, considerando l’andamento ciclico giornaliero dei sintomi depressivi. Le numerose evidenze scientifiche suggeriscono, invece, un ruolo modesto di questa sostanza in tale disturbo.

 

La melatonina

 Negli ultimi anni la ricerca scientifica si sta occupando in maniera sempre più specifica di sondare gli effetti della melatonina, il suo ruolo in alcune psicopatologie e il suo razionale uso clinico.

La melatonina, come sostanza biochimica, è ascrivibile alla classe degli ormoni ed è prodotta principalmente dalla ghiandola pineale o epifisi ed esplicita la sua azione sull’ipotalamo. La produzione della melatonina non è costante nel ciclo di vita dell’individuo: infatti, essa raggiunge la maggiore quantità nella giovinezza per poi decrescere nel corso della maturità e della senescenza.

La sua sintesi nell’organismo umano è regolata dalla quantità di luce che giunge ai fotorecettori della retina. In altri termini, la sua produzione è esigua nel corso della giornata, mentre diviene massima nel corso della notte, raggiungendo il picco di produzione fra le due e le quattro del mattino. I recettori retinici, allorquando sono colpiti dai fasci luminosi, inviano un input inibitorio all’epifisi, che è responsabile della scarsa produzione dell’ormone. Al contrario, la mancanza di luce attiva la via neuronale che comincia dalla retina, si proietta sui nuclei soprachiasmatici dell’ipotalamo per arrivare all’epifisi, dove elicita la sintesi di melatonina.

Nell’ambito della produzione di questo ormone, un ruolo chiave lo svolgono i neurotrasmettitori: infatti, la sua secrezione viene stimolata dalla noradrenalina e richiede la serotina come precursore  (Simonneaux e al., 2003). In sintesi, la produzione di melatonina da parte della ghiandola pineale regola, quindi, le funzioni corporee e i comportamenti umani secondo il ritmo del giorno e della notte (ritmo circadiano).

Disturbi depressivi e melatonina

Considerando la natura ciclica dei disturbi depressivi, il loro andamento nel corso della giornata (i sintomi depressivi appaiono della massima intensità al mattino, mentre decrescono nel corso della giornata), la ricerca, nel corso degli anni, ha focalizzato la sua attenzione sulle connessioni che esistono tra melatonina e depressione.

La depressione può far parte del disturbo depressivo vero e proprio o essere una fase del disturbo bipolare. Essa si manifesta, secondo il DSM – 5 (2014), con umore depresso (sentimento di tristezza, vuoto esistenziale, disperazione), perdita di interesse per le attività quotidiane, diminuzione o aumento dell’appetito, con relativo dimagrimento o sovrappeso, insonnia o ipersonnia, agitazione o rallentamento psicomotorio, mancanza di energia, vissuti di autosvalutazione e senso di colpa, rallentamento ideatorio, con ridotta concentrazione, frequenti pensieri di morte.

Relativamente all’origine della depressione, in ambito biologico sono state proposte diverse ipotesi nel corso del tempo.

La prima ipotesi è stata quella neurochimica, che ha visto dapprima l’origine della depressione, secondo la teoria monoaminergica e la teoria recettoriale monaminergica, in una deplezione delle amine biogene (dopamina, serotonina e noradrenalina) o in una diminuzione della loro attività nell’ambito del Sistema Nervoso Centrale (Stahl, 2008), e successivamente, secondo l’ipotesi neurotrofica, come prodotto di un deficit nella produzione di BDNF (Brian Derived Neurotrophic Factor) nel SNC (Duman, 2006).

Ancora, in ambito biologico, è stata proposta l’ipotesi di una disfunzionalità del sistema ipotalamo – ipofisi – surrene, con livelli elevati di cortisolo plasmatico, come origine della depressione (Young, 2004).

Attualmente, nel contesto biologico, si sta facendo sempre più strada l’ipotesi della depressione come malattia infiammatoria cronica, nell’insorgenza della quale un ruolo chiave lo riveste l’attività delle citochinine proinfiammatorie (Dowlati e al., 2010).

 Le correlazioni fra produzione di melatonina e comportamenti legati ad un eventuale stato depressivo sono state studiate nei ratti. Infatti, a quanto si è detto, la diminuzione di melatonina sarebbe elicitata da una diminuzione delle ore di luce e proprio questa condizione è stata utilizzata a livello sperimentale per studiare tali collegamenti. I ratti, esposti per quattro settimane ad una luce di bassa intensità nel corso della giornata, hanno mostrato un incremento dell’immobilità, scarsa capacità di iniziativa, minore propensione ad alimentarsi e altre manifestazioni ascrivibili ai sintomi comportamentali depressivi (Ashkenazy-Frolinger e al., 2010; Deats e al., 2015). In aggiunta, in questi animali il trattamento con melatonina ha migliorato i sintomi depressivi summenzionati (Ali e al., 2020).

Nell’uomo non si è trovata questa corrispondenza: infatti, differenti ricerche hanno studiato l’utilizzo della melatonina esogena o di farmaci agonisti della melatonina nel trattamento della sindrome depressiva. Alcuni di questi studi hanno stabilito che la melatonina (ad un dosaggio che arriva fino a 10 mg al giorno) sembra incidere positivamente sull’insonnia che si manifesta nel disturbo depressivo, ma non sugli altri sintomi (Dolberg e al., 1998). Altre ricerche hanno sottolineato il benefico effetto della melatonina solo sul disturbo affettivo stagionale (SAD) (Lewy e al., 1998). Da qualche anno nell’ambito della cura della depressione si utilizza l’agomelatina, un antidepressivo di terza generazione, che ha un’azione agonista sui recettori melatoninergici M₁ ed M₂. In pratica, questa molecola simula l’azione regolatoria della melatonina (Mauri e Volonteri, 2017). Gli studi fin qui condotti, non hanno mostrato la superiorità di questo farmaco rispetto ad altri farmaci antidepressivi (paroxetina, fluoxetina, sertralina, escitalopram e venlafaxina) nel trattamento della depressione (De Berardis e al., 2013; Guaiana e al., 2013).

Attualmente, l’uso razionale della melatonina è indicato per il trattamento di alcune forme d’insonnia (difficoltà di addormentamento) (dosaggio fra 1 e 5 mg al giorno). Inoltre, essa è raccomandata nel trattamento aggiuntivo dell’insonnia dell’età evolutiva, che compare nel corso dell’ADHD e dell’autismo, nella cura dell’insonnia dei lavoratori che hanno frequenti turni di notte e in alcune sindromi da fuso orario (jet lag) (Tonon e al., 2021).

In conclusione, negli ultimi anni si è diffusa la falsa credenza che la somministrazione della melatonina esogena possa essere un trattamento specifico ed efficace per il disturbo depressivo, considerando l’andamento ciclico giornaliero dei sintomi depressivi. Le numerose evidenze scientifiche suggeriscono, invece, un ruolo modesto di questa sostanza in tale disturbo. Un uso razionale della melatonina è indicato per alcune forme d’insonnia dell’età adulta (difficoltà di addormentamento) e dell’età evolutiva (insonnia nel corso di ADHD e dei disturbi dello spettro autistico).

 

Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere (2019) di Michela Marzano – Recensione del libro

Volevo essere una farfalla, attraverso la storia di Michela, può insegnare che amarsi è una necessità e che, a volte, ascoltare quella vocina nell’orecchio che ci spinge a fare ciò che più desideriamo, non è sbagliato se ci fa stare bene.

 

Introduzione

Mi ero convinta che se fossi riuscita a diventare leggera come una farfalla, tutto sarebbe andato a posto. Sarei diventata forte, indipendente, libera. E non avrei mai più avuto bisogno di nessuno.

 Nel libro Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere, Michela Marzano, affermata filosofa e scrittrice, racconta la sua storia.

Michela è cresciuta in un ambiente familiare in cui «l’educazione consisteva nell’inculcare il dovere», quel forte senso di obbedienza, che da un lato le ha permesso di raggiungere i suoi obiettivi professionali, dall’altro l’ha fatta sprofondare nell’anoressia.

Michela, sempre obbediente e disciplinata, farebbe di tutto pur di sentirsi amata dal padre. Farebbe di tutto pur di sentirsi «piena» d’amore, quell’amore che probabilmente non ha sperimentato nella sua infanzia, perché sotterrato dalle troppe aspettative, dalle troppe attese. Solo che, quando si costruisce il proprio mondo sulla base delle aspettative altrui, non si vive mai appieno.

Michela racconta la tubercolosi che ha dovuto combattere, i tentati suicidi e i risvegli in ospedale, gli amori tossici e gli sguardi giudizievoli.

Descrive l’anoressia e le intense sedute di psicoanalisi a cui si è sottoposta, la paura di non farcela e il vuoto che l’ha attanagliata. Ed infine, come ha imparato piano piano a ricostruirsi e com’è riuscita a ripartire da

quella consapevolezza sottile e fragile di poter essere “altro” rispetto alle esigenze del “dover essere”.

La potenza del desiderio e l’arte dell’accettazione

Entrare nella logica per cui ci si ritiene degni d’amore solo se si compiace l’altro, solo se ci si uniforma a ciò che l’altro vorrebbe che noi fossimo, potrebbe scatenare conseguenze devastanti.

Ognuno di noi ha bisogni e desideri. Abbiamo bisogno di desiderare, perché il desiderio ci fa sentire vivi, anima il nostro corpo e ci spinge ad agire. Ogni desiderio deriva da una mancanza, e non sempre sappiamo esattamente cosa vogliamo; non sempre desideriamo veramente ciò che diciamo perché

i nostri desideri si trasformano, cambiano, si contraddicono. Soprattutto quando siamo combattuti tra un “Io ideale” che ci spinge a domandarci che tipo di vita condurre e un “Io reale” che ci interroga riguardo a ciò che vogliamo davvero. A volte siamo lacerati tra il desiderio di esporci, scegliere, costruire il nostro destino, e il bisogno di ritirarci in noi stessi, di non scegliere, di abbandonarci all’estro del momento. 

 Siamo esseri sociali: l’identità personale di ognuno di noi si origina dall’incontro con l’altro. L’empatia, l’accettazione, l’ascolto attivo dovrebbero essere alla base di ogni relazione tra individui, ma molte volte non è così. E quando le relazioni che viviamo non ci fanno sentire riconosciuti nella nostra soggettività, non ci fanno sentire accolti e accettati, iniziamo a vacillare, a perdere il controllo.

L’autrice, nella sua autobiografia, mette in risalto l’importanza dell’accettazione.

Accettare noi e l’altro diverso da noi, non è mai un’azione passiva: non significa rassegnarsi al cliché del “io sono fatto così” privandosi della possibilità di scoprire i motivi che ci spingono a mettere in atto determinati comportamenti, bensì imparare a rispettarsi nella totalità e unicità del proprio essere, comprese debolezze e fragilità, lasciandosi semplicemente il diritto di esistere.

Accettarsi è comprendere che ogni nostra emozione, non necessariamente piacevole, è espressione di noi stessi. È accettare che non possiamo scegliere quale emozione provare, ma possiamo cercare di capire il motivo per cui si è presentata e cosa vuole dirci, in quanto

ognuno di noi ha un percorso personale complesso. Nessuno può essere “programmato” come una macchina, per scegliere e agire solo dopo aver calcolato in modo esatto costi e benefici delle proprie azioni. Che piaccia o no, siamo tutti in balia delle nostre emozioni.

Siamo immersi in una cultura che esalta la verità, la bellezza, la positività, ma condanna il dubbio, le lacrime, la frustrazione. Tendiamo a nascondere le nostre sofferenze, «gettandoci nel vortice del “fare”» pur di evitare di vivere il dolore.

Come se le nostre fragilità fossero un virus da debellare. Come se potessimo scegliere come sentirci. Come se potessimo scegliere di vivere di sola luce.

Siamo contemporaneamente bene e male, luce e ombra perché

il pensiero […] è duttile, controverso, contraddittorio.

Ognuno di noi ha una propria rappresentazione della realtà che non è mai oggettiva, ma sempre filtrata dalle nostre credenze e dal nostro vissuto, da ciò che siamo e da ciò che ci è stato insegnato.

Consiglio vivamente la lettura di questo libro perché, attraverso la storia di Michela, possiamo imparare che amarsi è una necessità e che, a volte, ascoltare quella vocina nell’orecchio che ci spinge a fare ciò che più desideriamo, non è sbagliato se ci fa stare bene.

Piegarsi totalmente al dovere, annullando il proprio volere, è un pò come morire, lentamente.

Ciò che possiamo fare è smettere di scappare dalle nostre emozioni, ma fermarci ad ascoltarle per entrare davvero in contatto con noi stessi.

C’è sempre un modo per reinventarsi, c’è sempre un modo per “ricominciarsi”: ogni ferita e ogni «frattura» fanno parte di noi e del nostro vissuto, ed

è da lì che si deve ripartire. […] Senza passare il tempo a sperare che forse un giorno tutto sarà diverso. Perché tutto è già diverso, non appena si fa la pace con i propri ricordi.

 

La percezione del tempo nei pazienti a rischio suicidario

Nonostante decenni di ricerca, i tassi di suicidio al giorno d’oggi continuano ad aumentare.

 

Una prevenzione efficace del suicidio viene spesso ostacolata dalla limitata comprensione della neurobiologia e della storia del processo suicidario.

Difatti, la durata di quest’ultimo, e dunque del tempo disponibile per l’intervento, ha un grande impatto sulla prevenzione del suicidio ed è per tal motivo che la comprensione del processo suicidario, e dei fattori ad esso associati, appare fondamentale.

Rispetto alla fase pre-suicidaria è bene considerare due elementi: la contemplazione del suicidio e gli intervalli di azione suicidaria (Klonsky et al., 2017). Per intervallo di contemplazione suicida si intende il tempo che intercorre dall’inizio dell’ideazione suicida alla decisione di uccidersi, mentre, l’intervallo di azione suicida coincide con il tempo trascorso tra la decisione di uccidersi e il tentativo di suicidio.

Dunque, la durata del processo suicida potrebbe essere influenzata da come l’individuo elabora o giudica il tempo, dall’impulsività e da altri fattori cognitivi (Neeleman et al., 2004).

Il giudizio sul tempo coincide con la capacità oggettiva di un individuo di giudicare la lunghezza di un dato lasso di tempo, e può essere esaminato con compiti di stima del tempo, in cui si chiede al partecipante di valutare la lunghezza di un dato intervallo di tempo (Bschor et al., 2004).

Bschor e colleghi (2004) hanno constatato come i pazienti affetti da depressione percepiscono il tempo in maniera dilatata.

L’esperienza di un dolore psicologico travolgente, in combinazione con l’elaborazione distorta del tempo, potrebbe peggiorare i pensieri suicidi e portare all’autolesionismo impulsivo. Per esempio, la percezione anormale del tempo può influenzare il costo soggettivo dell’attesa, innescando l’impulsività (Cáceda et al., 2020).

Al fine di fornire una migliore comprensione del processo suicidario, alcuni autori hanno valutato la durata di quest’ultimo in relazione al giudizio sul tempo, alle variabili cognitive e alla gravità dell’ideazione suicidaria.

Allo studio hanno preso parte 287 soggetti, con un’età compresa tra i 18 e i 65 anni. I partecipanti sono stati divisi in quattro gruppi: tentati suicidi recenti, ideatori suicidari attuali, pazienti depressi non suicidi e controlli sani.

I risultati hanno mostrato come la dilatazione del tempo fosse correlata negativamente all’intervallo di azione suicidaria e, positivamente, con la gravità dell’ideazione e gli autori hanno suggerito che ciò potrebbe essere riconducibile a fenomeni di depersonalizzazione e derealizzazione. Difatti, i disturbi dissociativi sono associati a una storia di recenti tentativi di suicidio e di autolesionismo non suicida (Webermann et al., 2016) e a una storia di tentativi di suicidio multipli (Foote et al., 2008).

Dunque, si potrebbe concludere che l’esperienza del rallentamento o della dilatazione del tempo nei pazienti suicidi, probabilmente innescata da un dolore psicologico schiacciante, potrebbe a sua volta peggiorare la percezione di ineluttabilità del dolore psicologico. Si potrebbe ipotizzare che il culmine di una crisi suicidaria potrebbe coincidere con uno stato dissociativo, innescato da un dolore psicologico travolgente e caratterizzato da una percezione rallentata del tempo.

Al contempo, le correlazioni relativamente deboli tra la durata del processo suicidario e il rallentamento temporale suggeriscono la presenza di altri fattori rilevanti, oltre alle anomalie del giudizio temporale.

Difatti, almeno il 50% dei tentativi di suicidio sono considerati gesti impulsivi (Deisenhammer et al., 2009). L’impulsività è un costrutto che tende ad esplicitarsi in diverse modalità (Klonsky & May 2010). Così, non sorprende che la letteratura sull’impulsività, in relazione al comportamento suicida, sia estremamente eterogenea (Anestis et al., 2014; Jimenez et al., 2016).

Gli autori del presente studio hanno esaminato gli stati cognitivi che si verificano antecedentemente al comportamento suicida. L’aumento del delay discounting, ovvero la tendenza a preferire una ricompensa minore subito a discapito di una maggior ricompensa per la quale sarebbe necessario aspettare, è strettamente correlato all’impulsività (Anokhin et al., 2015).

In studi precedenti si è visto come in pazienti adulti a maggior rischio di suicidio il delay discounting sia estremamente elevato (Cáceda et al., 2014).

Ulteriormente, l’aumento dell’impulsività è stato correlato positivamente con la gravità dei tentativi di suicidio nel corso della vita nei pazienti bipolari (Swann et al., 2005).

Coerentemente con quanto appena esposto, anche i risultati dell’attuale studio hanno mostrato la presenza di specifiche anomalie nell’elaborazione dei guadagni o delle ricompense nei pazienti che recentemente avevano effettuato un tentativo di suicidio, mentre non vi erano differenze rispetto all’avversione alle perdite, tra i pazienti depressi suicidi e non suicidi. Ciò supporterebbe la nozione che coloro i quali avevano mostrato recenti tentativi di suicidio avrebbero agito più impulsivamente per ragioni legate all’edonismo, come la rimozione del dolore psicologico, pur agendo a discapito della loro vita futura.

Dunque, la depressione e gli stati suicidari potrebbero amplificare la valutazione dei guadagni e delle perdite (Alves et al., 2017).

Gli autori hanno dunque ipotizzato che gli individui impulsivi potrebbero essere così a causa di una percezione alterata del tempo. Gli individui impulsivi potrebbero scegliere ricompense più piccole e immediate perché il tempo viene percepito come troppo lungo, generando un costo troppo alto (Wittmann & Paulus, 2008).

I risultati dello studio appena presentato mostrano come il tempo per intervenire su questi pazienti sia molto limitato e ciò determina la necessità di prevedere un ampio spettro di strategie che mirino a fattori di rischio sovrapposti. Ad esempio, l’ampliamento dello screening e del trattamento delle malattie mentali potrebbe diminuire il numero di persone che presentano pensieri suicidi. Le strategie preventive specifiche per il suicidio includono la modifica dello stile di vita (Berardelli et al., 2018), la sensibilizzazione sulla gravità delle comunicazioni suicide (Pompili et al., 2016), la pianificazione della sicurezza (Stanley & Brown, 2012) e la restrizione dei mezzi di suicidio, come l’accesso alle armi da fuoco, ai pesticidi e alla recinzione dei ponti (Knipe et al., 2017).

Inoltre, le fasi che precedono il processo suicidario sono caratterizzate anche da un’incapacità di esprimere i propri turbamenti e da un’incapacità di chiedere aiuto (Wasserman et al., 2008) e ciò mette in luce la necessità di migliorare le capacità di comunicazione e la pianificazione della sicurezza (Stanley & Brown, 2012).

 

La polvere sotto al tappeto (2021) di Anna Paola Lacatena – Recensione del libro

Il bel libro di Lacatena La polvere sotto al tappeto è dedicato al complesso mondo della tossicodipendenza.

 

Il volume ha un taglio sociologico ed ha il pregio di affrontare in modo ampio un tema molto complesso. L’autrice lavora da molti anni in ambito pubblico come dirigente del Dipartimento Dipendenze Patologiche di un’Asl pugliese ed ha già affrontato l’argomento in altri scritti.

Il libro è apprezzabile nel suo tentativo di avere una posizione non ideologica su un tema che, invece, è spesso vissuto con estremismi teorici e contrapposizioni che alla fine producono poco. Il testo è completato da alcuni inserti, a cura di autorevoli personaggi del mondo della cultura (regista, scrittore, cantanti) che suggeriscono la loro opinione sul tema “droga”, allargando la visuale su un fenomeno così complesso.

La premessa fondativa dell’opera è la convinzione che sia proibizionisti che antiproibizionisti risultino entrambi portatori di un estremismo incapace di un confronto reale. Tra queste due posizioni va rintracciata un’area trascurata di considerazioni che richiamano ad un aggiornamento del sapere fatto di storia, ricerca, innovazione, evoluzioni. Le organizzazioni criminali fiutano la ricchezza, la inseguono con sapiente determinazione; spesso sono in grado di produrre cambiamenti, orientare tendenze, indurre bisogni. Per certi aspetti, sembrano avere una lettura del fenomeno più adeguata di quanto riesca a fare lo stato.

Il principale affare per le criminalità, la complessità di uno dei fenomeni più articolati della storia dell’uomo non possono essere ridotti a una mera questione di leggi e sanzioni. L’universo che ruota attorno alla cessione degli stupefacenti è diffuso e assai complesso. È puramente illusorio credere che l’arresto, la detenzione o anche la sola minaccia della stessa possano rappresentare un deterrente efficace. Analogamente, anche la posizione antiproibizionista sembra non tener conto fino in fondo dei danni connessi al consumo di sostanze psicotrope, talvolta escludendo aprioristicamente la malattia. Nel nostro paese, in particolare, il confronto scientifico sul tema è ostacolato dall’effetto negativo decuplicato dall’insieme del sensazionalismo dei media, il moralismo diffuso nella collettività e l’immobilismo della classe politica.

Il libro parte dalla descrizione della situazione attuale, in Italia e nel mondo, in merito alla diffusione delle principali droghe. Successivamente sono descritte le strategie adottate per contrastare il fenomeno, a partire dal proibizionismo americano dello scorso secolo. Ampio spazio è dedicato poi alle normative legislative italiane sino a giungere al fenomeno della vendita on-line.

È affrontato anche il tema delle carceri, ove una percentuale altissima di detenuti (circa il 28% del totale) sono tossicodipendenti. Viene anche osservato come la stragrande maggioranza di essi siano detenuti per possesso a fini di spaccio e si tratta sostanzialmente di piccoli spacciatori, mentre sono pochissimi gli arresti dei grandi trafficanti.

Il libro prende posizione e suggerisce di assumere a modello l’esperienza portoghese. La differenza sostanziale tra la loro depenalizzazione e quella italiana, secondo l’autrice, è nel guardare a chi fa uso di droghe non come un criminale. Dunque, una depenalizzazione ma più ancora una decriminalizzazione del consumo personale. Il libro intende dichiaratamente perorare tale posizione, ispirandosi al modello portoghese che esprime la volontà di riportare la questione nel suo più corretto ambito, ossia quello socioculturale e sanitario.

Volendo fare una critica al testo, probabilmente manca un approfondimento del significato psicologico della tossicodipendenza e delle terapie psicoterapiche di maggior comprovata efficacia.

Ad esempio, si entra nello specifico di una nuova dipendenza, dedicando alcune pagine al nuovo fenomeno del binge watching (eccesso di ore trascorse davanti allo schermo televisivo), ma non si parla proprio della terapia familiare e del significato relazionale del comportamento degli adolescenti.

In ogni caso, un volume interessante che ha il merito di riproporre un dibattito che purtroppo nel nostro paese tende troppo spesso a essere circoscritto a pochi “addetti ai lavori”.

 

Analogie tra il profilo neuropsicologico dell’anoressia nervosa e dei disturbi dello spettro autistico

Il profilo neuropsicologico dell’anoressia nervosa (AN) è caratterizzato da significative analogie con quello dei disturbi dello spettro autistico (ASD), nonostante la fenomenologia dei rispettivi quadri clinici presenti delle differenze sostanziali (Saure et al., 2020).

 

La sintomatologia di AN prevede: notevole restrizione dell’introito calorico, che conduce ad un peso criticamente sottosoglia; timore dell’incremento ponderale e alterata percezione del proprio corpo, che porta a basare la propria autostima quasi unicamente sulla propria forma fisica (APA, 2013). Il quadro sintomatologico dell’ASD è composto da: deficit nella reciprocità socio-emotiva; compromissione della comunicazione verbale e non (es. mancanza di espressività facciale e del contatto visivo), difficoltà interpersonali, limitazione degli interessi, stereotipie di vario genere e carenza di flessibilità cognitiva e iper/ipo-reattività a stimoli sensoriali (APA, 2013).

I deficit cognitivi, comuni ai due profili neuropsicologici, sono i seguenti: debole coerenza centrale e difficoltà di set-shifting; entrambi esito di una significativa inflessibilità cognitiva (Anckarsäter et al., 2012; Westwood, Stahl, Mandy, & Tchanturia, 2016). La scarsa coerenza centrale concerne uno stile di elaborazione cognitiva caratterizzato da un focus attentivo incentrato principalmente sui dettagli, a discapito dell’integrazione olistica dei fenomeni, implicando, dunque, difficoltà di contestualizzazione (Happé & Booth, 2008). È, inoltre, emerso che una debole coerenza centrale in AN può contribuire all’incapacità di beneficiare in toto del trattamento, in quanto è spesso correlata a tratti di personalità ossessivo-compulsivi e a un perfezionismo clinicamente significativo; che inficiano sulla motivazione al cambiamento e sull’alleanza terapeutica (Lang, Lopez, Stahl, Tchanturia & Treasure, 2014). Il set-shifting deficitario implica, invece, difficoltà nello spostare l’attenzione tra stimoli attentivi differenti in tempistiche relativamente rapide (Garret et al., 2014). A tal proposito, non sorprende che un sottogruppo di pazienti con AN soddisfi anche i criteri diagnostici dell’ASD (Huke, Turk, Saeidi, Kent, & Morgan, 2013). È stato, infatti, dimostrato che numerosi tratti dello spettro autistico nell’anoressia nervosa sono spesso connessi alle prognosi più severe e croniche del disturbo alimentare, caratterizzate da: prolungamento del parametro “durata di malattia”, necessità di implementare un trattamento farmacologico, sintomi da malnutrizione esacerbati e deficit neuropsicologici significativi (Nielsen et al., 2015; Stewart, McEwen, Konstantellou, Eisler, & Simic, 2017; Tchanturia, Adamson, Leppanen, & Westwood, 2017; Westwood, Mandy, & Tchanturia, 2017a, 2017b). La rigidità cognitiva è stata, infatti, definita come marcatore di tratto e come candidato endofenotipo nell’anoressia nervosa (Roberts, Tchanturia & Treasure, 2010): questo stile cognitivo sembra essere ereditabile e presente anche nella parentela non affetta da AN (Fossella et al., 2003; Treasure, 2007; Wade & Bulik, 2007; Grice et al., 2002).

Un’altra analogia tra i quadri clinici di AN e ASD concerne la dimensione dell’empatia e del riconoscimento emotivo: aspetti nucleari connessi alla teoria della mente (ToM), che si riferisce alla capacità di decodifica e interpretazione degli stimoli emotigeni, fondamentale per sviluppare una sfera interpersonale proficua (Kerr-Gaffney, Harrison, & Tchanturia, 2019; Oldershaw, Treasure, Hambrook, Tchanturia & Schmidt, 2011). L’evidenza scientifica suggerisce che l’inibizione della socialità e le difficoltà interpersonali costituiscono spesso un fattore prodromico di rischio e di mantenimento di AN (Cardi et al., 2018; Krug et al., 2012); oltre ad essere associati a una prognosi del disturbo più grave e duratura (Harrison et al., 2012). Inoltre, le difficoltà nel riconoscimento emotivo tendono a persistere anche a seguito del ripristino ponderale: questo dato suggerisce che le difficoltà nel riconoscimento emotivo costituiscono una variabile di tratto, piuttosto che di stato (Harrison et al., 2012; Oldershaw et al., 2011). In conclusione ciò che è stato rincontrato è che il profilo neuropsicologico dell’anoressia nervosa, sovrapponibile a tratti a quello dei disturbi dello spettro autistico, è associato a una prolungata durata di malattia, con un significativo impatto sulla prognosi e sull’efficacia del trattamento (Saure et al., 2020).

 

Disturbi alimentari e falsi miti da sfatare: (non) è tutta colpa dei genitori! – Report e VIDEO dall’evento del CIPda di Milano

Report e video del primo webinar appartenente al ciclo divulgativo dedicato a sfatare tre falsi miti che ruotano attorno ai disturbi dell’alimentazione. L’equipe multidisciplinare del CIPda, con questo intervento, ha affrontato una falsa credenza ricorrente e diffusa: l’eccessiva responsabilizzazione genitoriale. 

 

L’incontro si è aperto con un caloroso benvenuto da parte della Dott.ssa Rosaria Nocita, Direttrice Operativa della clinica, e la successiva presentazione dei professionisti coinvolti in questa sessione:

  • Dott.ssa Ilaria Riboldi: Medico Psichiatra
  • Dott.ssa Laura Ranzini: Psicologa, Psicoterapeuta
  • Dott.ssa Martina Tramontano: Psicologa, Psicoterapeuta
  • Dott.ssa Laura Zagarese: Psicologa
  • Dott.ssa Maria Luisa Colantonio: Psicologa
  • Dott.ssa Chiara Ramponi: Dietista

Tale incontro divulgativo si è articolato in due momenti principali: una prima parte dedicata all’esposizione teorica dei contenuti mediante un approccio multidisciplinare, garantito dal coinvolgimento di diverse figure professionali; secondariamente, grazie un confronto interattivo, si è cercato di rispondere agli interrogativi avanzati dagli spettatori.

Il razionale sotteso a questo ciclo di incontri, come spiegato dalla Dott.ssa Nocita, è stato quello di sfatare le numerose false credenze che si celano dietro la diagnosi di un Disturbo Alimentare (DA), assunzioni non veritiere spesso veicolate dai mass media e prive di una solida base scientifica.

L’eccessiva responsabilizzazione genitoriale, che segue nella maggior parte dei casi l’esordio della psicopatologia alimentare, è indubbiamente un falso mito che necessita di essere sfatato. 

Le cause dei DA, oggigiorno, non sono del tutto note. Pertanto, non è possibile stabilire alcun rapporto diretto di causa-effetto e, conseguentemente, attribuire un rapporto diretto tra stile genitoriale e modificazioni del comportamento alimentare.

I dati ottenuti dalla ricerca più recente sembrano indicare che questa complessa categoria diagnostica derivi piuttosto da una combinazione tra predisposizione genetica e fattori di rischio ambientali, psicologici e socioculturali.

L’incontro dunque, grazie all’intervento di ciascun professionista e mediante un linguaggio chiaro ed esempi concreti, si è proposto di spiegare la natura complessa e multifattoriale dei Disturbi Alimentari.

Dott.ssa Ilaria Riboldi (Medico Psichiatra) – Il contributo dei fattori genetici nell’esordio del DA

Il principale contributo relativo alla genetica dei Disturbi Alimentari proviene dagli studi condotti sui gemelli omozigoti, ricerche da cui emerge l’importanza di fattori di rischio di natura biologica.

Un’autorevole revisione della letteratura esistente sul tema (Yilmaz et al., 2015), focalizzatasi sulla componente genetica di Anoressia Nervosa (AN), Bulimia Nervosa (BN) e Binge Eating Disorder (BED), ci permette di disporre di molteplici dati provenienti da diverse tipologie di studi, così riassunti:

Studi su gemelli omozigoti e consanguinei: da tali evidenze emerge una probabilità 11 volte superiore di sviluppare una diagnosi di anoressia nervosa nei familiari di probandi con tale diagnosi. In aggiunta, in questi soggetti, è stata sottolineata una prevalenza di tale disturbo pari al 2% contro l’assenza nei familiari dei controlli; in merito alla bulimia nervosa si registra una prevalenza del 4,4% contro l’1,3% dei controlli, a testimonianza di una correlazione genetica tra differenti disturbi alimentari.

Studi genetici: tale branca di indagini ha sondato l’ipotesi biologica sottesa alla psicopatologia alimentare, provando ad individuare i geni responsabili della codifica di particolari recettori ed enzimi di sintesi o degradazione dei neurotrasmettitori. Nello specifico, relativamente ai DA, i geni candidati potrebbero essere quelli codificanti le varie proteine del sistema neurotrasmettitoriale serotoninergico, fondamentale mediatore relativo alla genesi dei DA.

Studi di epigenetica: più recenti rispetto ai precedenti, hanno analizzato le differenti modificazioni ereditabili che portano a variazioni dell’espressione genica in assenza di un’alterazione della sequenza del DNA.

Seppur la branca di studi sopracitata sia in perpetua espansione, oggigiorno non è ancora possibile identificare con certezza una linea comune: nonostante siano riscontrabili alcune similitudini geniche, ravvisabili ad esempio fra il Binge Eating e la Bulimia Nervosa, è importante considerare ciascun disturbo come a sé stante e la natura multifattoriale di tale categoria diagnostica.

L’utilizzo di campioni clinici più ampi e variegati, l’inclusione omogenea delle diagnosi all’interno delle ricerche empiriche e l’approfondimento di come la componente biologica si intrecci con aspetti sociali e psicologici, sono solo alcune delle sfide a cui la ricerca nell’ambito dei Disturbi Alimentari è chiamata a rispondere.

Dott.ssa Maria Luisa Colantonio (Psicologa) – I fattori predisponenti

Sebbene l’aspetto genetico ricopra un ruolo importante nel favorire una maggiore o minore predisposizione all’esordio di un qualsivoglia DA, dalla letteratura scientifica si riscontra la presenza di una serie di fattori che contribuiscono a creare un terreno fertile per la psicopatologia alimentare. Questi, come illustrato dalla professionista, sono:

Fattori socioculturali: seppur non ancora inquadrati con sistematicità, si presume che un ruolo centrale sia giocato dall’ideale di magrezza sviluppatosi negli ultimi 50 anni nei paesi occidentali ed enfatizzato dai media e social network. A supporto di tale considerazione, la netta preponderanza dei DA nei paesi occidentali rispetto a quelli orientali.

Ambiente familiare: anch’esso considerato un fattore predisponente, può contribuire in alcuni casi a veicolare messaggi disfunzionali quali l’eccessiva polarizzazione dell’attenzione verso la forma del corpo, il proprio peso e l’alimentazione. In aggiunta le abitudini alimentari familiari, siano queste orientate verso un consumo eccessivo o restrittivo di cibo, sono spesso correlate positivamente con condotte alimentari disfunzionali.

Caratteristiche individuali: fra queste rientrano il sesso femminile, in quanto il corpo della donna è soggetto a cicliche modificazioni date dallo sviluppo puberale ed eventuali gravidanze ed una pregressa condizione di sovrappeso, che si associa a sentimenti di inadeguatezza frutto dalla discordanza tra la propria forma fisica ed il prototipo ideale di bellezza promosso dalla società.

Variabili psicologiche: quali bassa autostima nucleare e perfezionismo clinico.

Dott.ssa Laura Zagarese (Psicologa) – I fattori precipitanti

Una volta definito il ruolo centrale giocato dalla componente biologica ed il contributo proveniente dai fattori di rischio predisponenti, si è proseguito inquadrando l’importante ruolo attribuito allo stress in rapporto alla manifestazione di comportamenti di controllo del peso e della forma del corpo. Primo tra i fattori precipitanti è indubbiamente l’inizio di una dieta ipocalorica, che aumenta di ben 8 volte la probabilità di esordio di DA. Seguono gli eventi di vita stressanti, quali trasferimenti, rottura di relazioni significative e cambiamenti della routine, così come la transizione evolutiva, spesso associata ad una persistente sensazione di perdita di controllo, gestita con l’aumento di controllo sul piano alimentare.

Dott.ssa Martina Tramontano (Psicologa, Psicoterapeuta) – I fattori di mantenimento

L’incontro prosegue con l’inquadramento, da parte dell’esperta, di tutte quelle variabili che mantengono e rinforzano il disturbo precedentemente innestato, ossia l’insieme di fattori psicologici ed ambientali che intrappolano la persona nel circolo vizioso del DA. Gli interventi terapeutici, in linea con la prospettiva transdiagnostica di Fairburn, si focalizzeranno dunque sulla rimozione di tali elementi di mantenimento.

Fattori di mantenimento specifici: primo fra tutti l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo che, in ottica transdiagnostica, rappresenta il nucleo psicopatologico cognitivo specifico dei Disturbi dell’Alimentazione. Da tale componente cardine conseguono le molteplici caratteristiche cliniche della categoria diagnostica analizzata, che concorrono in maniera unitaria a mantenere il disturbo. Fra queste rientrano le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo, la dieta ferrea, comportamenti di compenso quali vomito autoindotto, uso improprio di lassativi e diuretici, esercizio fisico eccessivo ed i sintomi da malnutrizione. Gli episodi di abbuffata, in quest’ottica, altro non sono che una conseguenza diretta delle regole dietetiche estreme. Inoltre, tale discontrollo alimentare, può instaurarsi come strategia disfunzionale di modulazione delle emozioni negative.

Fattori di mantenimento aspecifici: fra cui perfezionismo clinico, bassa autostima nucleare, intolleranza alle emozioni ed esperienze di vita avverse.

Anche i rinforzi positivi e negativi sono aspetti salienti da considerare quando si valuta questa tematica. Nello specifico, quelli positivi possono essere sia di natura cognitiva che sociale. I primi fanno riferimento, ad esempio, al sentimento di controllo ed onnipotenza che si esperisce successivamente al calo ponderale. I secondi, comprendono fattori come l’approvazione da parte del gruppo dei pari o una maggiore considerazione da parte delle figure genitoriali. In aggiunta, aspetti come la perdita di peso e l’acquisizione di un corpo con forme prepuberi, possono in essere mantenuti attraverso rinforzi negativi, tramite l’allontanamento o l’evitamento di situazioni temute quali contatti di natura sessuale, aspettative altrui elevate, conflitti familiari.

Dott.ssa Laura Ranzini (Psicologa, Psicoterapeuta) – Il ruolo esercitato dai social media come fattore ambientale predisponente

Come anticipato precedentemente, la pressione esercitata dai social media relativa all’ideale di magrezza e perfezione fisica, rappresenta tutt’oggi una delle principali sfide a cui il clinico è chiamato a rispondere, poiché rappresenta un importante fattore d’esordio e mantenimento della problematica alimentare. Con la pandemia di Covid19 ed i prolungati periodi di isolamento, si è assistito ad un uso massiccio dei social sia da parte dalla popolazione giovanile che adulta. Studi di ricerca hanno confermato quanto questi canali promuovano sensazioni di insoddisfazione corporea e favoriscano l’interiorizzazione di stereotipi di bellezza inverosimili e falsati. Di pari passo, dalla pratica clinica si evince quanto essi mantengano fervide le preoccupazioni relative al peso e alla forma del corpo, nucleo portante del Disturbo Alimentare, esponendo gli utenti a ripetuti confronti fra il proprio corpo e quello altrui. Pertanto, come esposto dalla Dott.ssa Ranzini, potrebbe essere utile a livello terapeutico promuovere, in maniera congiunta con il paziente, una discussione critica relativa alla poca veridicità delle immagini forniteci dai social, nella maggior parte dei casi soggette a manipolazioni e ritocchi di post-produzione.

Dott.ssa Chiara Ramponi – I fattori protettivi rispetto all’esordio

Prima di dedicare spazio alle domande degli spettatori, ci si è focalizzati sull’identificazione dei fattori protettivi, ossia quelle variabili che possono concorrere a diminuire le probabilità di esordio di un Disturbo Alimentare. Tra questi si annoverano:

Adozione di un sano stile alimentare sin dall’infanzia: poiché l’apprendimento vicario è fondamentale durante i primi anni di vita, presentare al bambino uno stile alimentare sano ne favorisce l’introiezione. Nel concreto, si suggerisce di coinvolgerli durante la scelta dei prodotti da consumare, nella preparazione delle pietanze, evitando di eliminare in maniera assoluta determinati cibi o, al contrario, consumarne selettivamente degli altri.

Promozione di un clima sereno durante i pasti: evitando quindi conflitti e scontri nel momento della convivialità

Evitare di utilizzare il cibo come premio o punizione: dalla ricerca scientifica emerge che tale pratica si associa, in età adolescenziale, a selettività alimentare e restrizioni.

Favorire il raggiungimento di un “peso ed un appetito salutare”: quindi permettere al bambino di arrivare adeguatamente affamato all’orario dei pasti e, al contrario, inibendo la fame durante il tempo che intercorre tra essi. Proporre cinque pasti giornalieri, che si articolano nei tre principali e due spuntini a metà mattina e metà pomeriggio, è una strategia utile per perseguire questi obiettivi.

Prestare attenzione ai segnali: quindi sollecitare il genitore ad adottare un atteggiamento moderatamente attento, non apprensivo; riconoscere comportamenti alimentari schizzinosi, problematiche legate ad una scorretta digestione e fobie associate a particolati cibi, e consultare prontamente un esperto per un consulto, è indubbiamente un importante fattore protettivo.

Le domande del pubblico

La seconda parte del webinar si è poi articolata attraverso la presentazione agli esperti delle domande degli spettatori, in particolare si è tentato di rispondere a due quesiti principali, così riassunti:

1) Quale risposta si offre in caso di Disturbo Alimentare di lunga durata?

Le Dott.sse Ranzini e Tramontano hanno sottolineato quanto sia importante attenersi all’evidenza scientifica per rispondere a questa domanda. Gli studi indicano infatti che è possibile assumere un atteggiamento moderatamente ottimistico, in quanto solo un 10% di persone affette da un DA non manifesta alcuna risposta al trattamento. Importante inquadrare i fattori prognostici positivi, quali esordio precoce e breve durata di malattia e quelli negativi, ossia la lunga durata, grave perdita di peso e presenza di condotte di abbuffata e vomito autoindotto. Sommariamente, un trattamento focalizzato sul nucleo psicopatologico e sui meccanismi di mantenimento sembrerebbe portare nella maggior parte dei casi ad una remissione del disturbo.

2) Quali sono le risposte territoriali a questa tematica?

Il territorio, come sottolineato dalla Dott.ssa Zagarese, offre molteplici risposte a questa problematica, sia sul versante pubblico che privato. Previo un rapido riconoscimento dei sintomi, a fini terapeutici ci sono due aspetti di vitale importanza: da un lato, un approccio multidisciplinare, dall’altro una concordanza teorica e metodologica sia a livello di formulazione della problematica alimentare, che nel relativo trattamento della stessa.

 

I 3 FALSI MITI SUI DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE:
FALSO MITO #1: (NON) È TUTTA COLPA DEI GENITORI

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Balbuzie: cause, disagio e nuove vie terapeutiche con la neurostimolazione

La balbuzie colpisce circa l’1,5% della popolazione mondiale, e quasi un milione di italiani balbetta.

 

La balbuzie riguarda particolarmente il sesso maschile, con un rapporto di 4 a 1, anche se, negli ultimi anni, la percentuale femminile è in costante aumento.

Nella primissima infanzia il 5% dei bambini è affetto da disfluenza, ed entro i 6 anni l’80% della popolazione guarisce spontaneamente, con una percentuale di 4 bambini su 5 (Yari & Ambrose, 1999). Le femmine tendono a guarire con una maggiore frequenza rispetto ai maschi, e questo sottolinea come il maschio possa essere più vulnerabile nell’evoluzione psicolinguistica.

Nella maggioranza dei casi, la balbuzie compare tra i 3 e i 7 anni. Può comparire anche in età pre-puberale (10-12 anni), e solo in casi rari potrebbe manifestarsi in età adulta dopo un evento traumatico, anche se ciò non è attualmente dimostrabile attraverso la letteratura scientifica.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce questo disturbo del linguaggio nel seguente modo:  “La balbuzie è un disordine nel ritmo della parola, nel quale il paziente sa con precisione ciò che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni o prolungamenti di un suono”.

La definizione ben sottolinea la mancanza di coordinazione tra i centri motori deputati al linguaggio ed i centri cognitivi che formulano la frase. I centri motori non seguono di necessità la formulazione del linguaggio. Tale mancanza di coordinazione viene esacerbata in particolari situazioni sociali, soprattutto quando alla persona con balbuzie viene richiesta una perfomance verbale.

Per Büchel & Sommer (2004) esistono due tipi di disfluenze:

  • balbuzie inerente allo sviluppo, definita “balbuzie primaria“, che compare tra due e cinque anni di età, senza cause apparenti e/o evidenti problematiche a livello del sistema nervoso centrale;
  • balbuzie inerente allo sviluppo persistente, definita “balbuzie secondaria”.

Nella balbuzie quindi si riconoscono degli “indici primari” (ripetizioni di suoni, sillabe, parole o frasi, blocchi silenziosi o prolungamento dei suoni), che si differenziano dalle disfluenze fisiologiche e tipiche di molti bambini all’inizio del loro percorso di apprendimento linguistico.

Si notano poi degli “indici secondari”, che sono meccanismi di evitamento su base psicogena, che si manifestano successivamente all’insorgenza della balbuzie. In questo caso, il balbuziente si troverà ad esempio a cambiare la parola su cui balbetta, a modificare continuamente la sintassi o la grammatica della frase, oppure cercherà di evitare situazioni o persone che sollecitano angoscia da prestazione.

Quando questi accorgimenti non funzionano, la persona con balbuzie si troverà ad esacerbare i blocchi con sincinesie (movimenti involontari del corpo), o con l’interruzione totale della parola (blocco tonico). A causa degli “indici secondari”, la persona con balbuzie sviluppa un linguaggio “protettivo”,  ovvero cercherà di parlare il meno possibile. Questo comportamento nell’arco degli anni potrà provocare altre problematiche, quali per esempio diminuzione della capacita semantica, sintattica e grammaticale, con difficoltà anche nella codifica della lettura a voce alta.

Per ciò che concerne gli studi italiani su tale materia, nel 1906 compare la prima pubblicazione di Antonio Sala dal titolo “Cura della balbuzie e dei difetti di pronunzia”. Dagli anni ‘60 in poi, a livello mondiale ci sarà un vasto proliferare di testi, e già nel 1950 lo statunitense Charles Van Riper conteggiava circa 8.000 lavori scritti in materia.

Secondo Kidd et al. (1981) all’interno di tale disordine è rinvenibile una predisposizione genetica che rimanda ad un problema organico di base, ma solo a partire dal 1997 la scienza ha effettuato i primi passi per isolare il gene della balbuzie.

Da un punto di vista linguistico, Pellowski & Conture (2005) sostengono che la disfluenza sia dovuta ad una diminuita capacità sintattica e semantica rispetto ai soggetti normofluenti. Si potrebbe quindi ipotizzare che le alterazioni rinvenute a livello genetico possano determinare una serie di alterazioni strutturali e funzionali, evidenti a livello del sistema nervoso centrale, alterando la capacità di elaborare correttamente i piani linguistici e quelli motori complessi, quali per esempio quelli necessari per la corretta realizzazione del linguaggio (si veda Etchell et al., 2018, per una esaustiva e recente revisione della letteratura).

Partendo da questi presupposti, la terapia quindi dovrà riguardare gli “indici primari” (in altre parole concerne la balbuzie dal punto di vista funzionale), intervenendo sulle aree deficitarie del linguaggio mediante la logopedia, preferibilmente aggiungendo un intervento psicologico proteso a ridurre i meccanismi di evitamento che esasperano il blocco.

Secondo molti ricercatori è necessario intervenire precocemente sul bambino: il trattamento dovrà essere proposto già al di sotto dei sei anni, prima che il soggetto in età evolutiva si confronti con la realtà scolastica, senza inutili attese che potrebbero facilitare il passaggio ad una balbuzie secondaria.

Nella comorbidità del bambino è facile rilevare solitamente la presenza di altri disturbi motori, così come la presenza di altri disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia), dell’attenzione ed iperattività. Nell’adulto con balbuzie è possibile anche rilevare alcune patologie di tipo psichiatrico, quali per esempio Disturbi Dell’Umore (depressione), Disturbo d’ansia, Disturbo Ossessivo Compulsivo e Disturbi di Personalità.

Infatti, diversi ricercatori sottolineano che spesso nell’adulto balbuziente si sviluppa un disturbo d’ansia specifico (Pravesh Arya & Geetha 2013), che s’innesca dalle esperienze negative scolastiche e sociali collegate al disturbo.

Compatibilmente, la quasi totalità degli adolescenti e degli adulti con balbuzie presenta frequente angoscia e fobia sociale.

Per questo motivo, specialmente negli adulti e nei casi più severi, la balbuzie potrebbe diventare gravemente invalidante: la ricerca di Klein & Hood (2004), effettuata su un campione di 232 persone con balbuzie in età adulta, ha messo in luce che oltre il 70% delle persone esaminate è del parere che la disfluenza interferisca negativamente sulla loro qualità di vita, ove il 20% del campione ha addirittura rifiutato un lavoro o una promozione a causa del disturbo.

Per ciò che concerne la terapia, la balbuzie è definita da molti operatori del settore come “la bestia nera della logopedia”, essendo una patologia mal compresa e poco trattata. In alcune regioni del nostro Paese, come nel sud Italia e nelle isole, diventa veramente difficile trovare una struttura pubblica che si occupi di persone con balbuzie.

Nel sistema pubblico la cura della disfluenza è riconosciuta solo per i soggetti in età evolutiva, mentre adolescenti ed adulti devono spesso ricorrere a centri privati. Nel nostro Sistema Sanitario Nazionale, dopo circa un anno o due di attesa, il bambino con balbuzie viene preso in carico dall’età di 6/7 anni con la somministrazione di un trattamento logopedico, a cui si può aggiungere un intervento psicologico.

In ambito privato, oltre alla presenza di una serie di professionisti sanitari validi che hanno dedicato la loro vita professionale alla cura della balbuzie, partendo da solide basi teoriche e scientifiche, ci troviamo molte volte alle prese con una “comunicazione mediatica selvaggia”, i cui contenuti possono essere basati su evidenze non scientifiche e non dimostrate, e soprattutto, non soggetti ad un controllo attento da parte delle autorità competenti.

Tutto il campo della terapia della balbuzie andrebbe perciò normato, dal tipo di pubblicità fino agli attori deputati alla riabilitazione, che dovrebbero essere operatori sanitari (medici, psicologi e logopedisti) che abbiano acquisito un’evidente esperienza nel trattamento della balbuzie.

Infatti, questo disturbo è un problema serio che va sempre trattato con cautela, sulla base di una diagnosi logopedica, foniatrica, neuropsichiatrica e psicologica.

Una procedura che tenga conto solo della balbuzie in quanto tale, senza considerare il quadro psicologico del soggetto, potrebbe determinare anche un peggioramento della sintomatologia con effetti collaterali.

La balbuzie è un problema di tipo multifattoriale, che abbraccia l’aspetto logopedico, psicologico e somatico, e quindi di necessità l’approccio terapeutico dovrebbe prevedere una metodologia multidisciplinare, in grado di sollecitare tutte le variabili comunicazionali.

La balbuzie non si può curare in tempi brevi: nella letteratura scientifica non esistono forti evidenze a favore di interventi che assicurano risultati istantanei; onde per cui è sempre meglio affidarsi nelle mani di professionisti accertati, che possano seguire il paziente nel tempo, verificandone i progressi.

In questo contesto, anche il contributo della ricerca scientifica è fondamentale per proseguire nella comprensione e nel miglior trattamento del disturbo. Anche in Italia, come in ambito internazionale, sono vari i filoni di ricerca impegnati nello studio della balbuzie, che stanno provando a tradurre le evidenze riscontrate in nuove proposte da sperimentare in ambito terapeutico.

Per esempio, nel nostro Paese, presso il Laboratorio di Balbuzie e Logopedia dell’IRCCS San Camillo di Venezia è attivo il Dott. Pierpaolo Busan (psicologo) che sostiene come la balbuzie possa essere il risultato di una serie di erronei processi di programmazione motoria, da ascrivere principalmente al non corretto funzionamento di un complesso circuito cerebrale cortico-striato-talamo-corticale, che comprende strutture quali i gangli della base e l’area supplementare motoria. Tale circuito è responsabile del corretto apprendimento motorio e del suo corretto recupero, funzione fondamentale per l’esecuzione di sequenze motorie complesse quali per esempio quelle collegate al linguaggio. La persona con balbuzie sembrerebbe perciò non riuscire ad attivare e a controllare nella maniera più funzionale tali circuiti cerebrali, favorendo perciò la comparsa delle disfluenze. Intervenire direttamente su tali processi potrebbe aiutare nel controllare con maggiore efficacia il disturbo.

A tal riguardo, il progetto di ricerca avviato presso l’IRCCS San Camillo di Venezia, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia (sede di Ferrara), sta cercando di verificare l’utilità di un protocollo di neuromodulazione non invasiva (tramite l’utilizzo di stimolazione elettrica transcranica) per migliorare l’attività del circuito cortico-striato-talamo-corticale e della corteccia motoria, in modo da potenziare l’efficacia di un intervento più classico (logoterapia) sulla fluenza verbale della persona affetta da balbuzie.

L’obiettivo di questo progetto di ricerca è perciò quello di implementare nuove modalità di intervento da affiancare alle terapie già esistenti, in modo da migliorarne l’efficacia (per maggiori informazioni al riguardo contattare l’indirizzo mail [email protected]).

In conclusione, la balbuzie è un problema complesso e, come tale, il trattamento di questo disturbo richiede una sempre migliore comprensione delle sue caratteristiche e delle sue cause. Di conseguenza, un approccio di tipo multidisciplinare, che richiede una piena collaborazione tra clinica e ricerca, ma anche delle Istituzioni atte a normare questo campo di intervento, è oggi più che mai necessario per individuare nuove vie di intervento per migliorare la qualità di vita delle persone affette da questo problema.

 

Il mondo degli exergames: tra potenzialità e ambiti di intervento?

Gli exergames sono nuovo genere di videogames e hanno lo scopo di promuove uno stile di vita attivo e dinamico. Il training neuromotorio che si compie giocando induce allo stesso tempo una modificazione della plasticità del cervello.

 

 Il termine exergaming è un vocabolo di origine inglese usato per indicare una categoria di videogames che è esplosa dopo la comparsa della Nintendo Wii.  

Questo nuovo genere, conosciuto anche come active games (Mears & Hansen, 2009), si riferisce a un ambito videoludico in cui l’attività fisica viene utilizzata come dispositivo di input (Marasso, D. 2015). Questo genere, nato allo scopo di rovesciare uno degli stereotipi che affliggono i videogiochi (vale a dire la promozione dell’attività sedentaria e della pigrizia), promuove uno stile di vita attivo e dinamico (Marasso, D. 2015). Attraverso un alternarsi di tentativi ed errori l’utente, grazie alla rilevazione dei propri movimenti del corpo combinati con l’ausilio di biofeedback visivi, viene portato ad esplorare innumerevoli strategie fino a trovare quella corretta che lo porta a completare il livello. Il training neuromotorio che si compie induce allo stesso tempo una modificazione della plasticità del cervello portando in breve al ripristino o creazione di corretti modelli motori. Mente e corpo vengono messi quindi in fortissima relazione. Fruibili da tutti, gli exergames si offrono a un target davvero ampio. Si va dal bambino in fase di sviluppo fino ad arrivare all’anziano che, se stimolato al movimento in maniera coinvolgente, trae benefici riabilitativi nonché cognitivi. Secondo uno studio (Anderson-Hanley, C. et al. 2018) apparso in Frontiers in Aging Neuroscience, alcuni ricercatori dell’Union College hanno dimostrato come attraverso la pratica degli exergames sia possibile rallentare il Mild Cognitive Impairment (MCI), ovvero quel lieve decadimento cognitivo precursore dell’Alzheimer.  Nello studio in questione erano stati coinvolti più di 100 anziani con un’età media di 78 anni e divisi in due gruppi.  Al primo gruppo veniva richiesto di svolgere un “exer-tour” mentre al secondo gruppo veniva richiesto di svolgere un “exer-score”, attività anche cognitivamente impegnativa. L’exer-tour consisteva nel pedalare su una cyclette tradizionale dove, montato su uno schermo, appariva l’avatar di un ciclista posto una pista ciclabile panoramica. La veloce progressione dell’avatar dipendeva dalla pedalata dell’utente stesso. L’avatar inoltre non poteva lasciare il percorso né tantomeno sbattere contro qualcosa. Poteva solo proseguire diritto. L’Exer-score al contrario richiedeva al partecipante di pedalare come nell’exer-tour, ma di giocare contemporaneamente a un videogames in cui si dovevano inseguire dei draghi e conseguire anche delle monete in uno spazio d’azione di ben 360 gradi. Il fine ultimo del videogioco era di segnare più punti possibili. Questi due gruppi dovevano praticare l’attività di exergaming con regolarità per la durata di 6 mesi (la durata della ricerca). I risultati ottenuti dai due campioni vennero poi confrontati con le risposte di altri due gruppi di anziani che giocavano a un videogames su un computer e da un altro che invece si affaticava con la cyclette. Nonostante gli stessi ricercatori ammettano che sia necessario un RCT più esteso per confermare i risultati, al termine della sperimentazione clinica si è visto come i primi due gruppi di partecipanti si sono ritrovati con una funzione esecutiva migliore, determinante per il processo decisionale e il multitasking. Un beneficio lo si era già visto dopo comunque già dopo i primi 3 mesi. (Anderson-Hanley, C., Barcelos, N. M., Zimmerman, E. A., Gillen, R. W., Dunnam, M., Cohen, B. D., Yerokhin, V., Miller, K. E., Hayes, D. J., Arciero, P. J., Maloney, M., & Kramer, A. F. 2018)

 Nei più piccoli invece gli active games si sono dimostrati un efficace strumento per indurli a svolgere attività fisica con regolarità, dimostrandosi un valido alleato nella prevenzione, cura e trattamento di dismorfismi (come ad esempio la scoliosi) o paraformismi (ovvero posture scorrette della schiena) che possono colpirli durante la loro crescita. Anche a livello cognitivo e sociale la pratica degli exergames ha dimostrato dei considerevoli giovamenti. Ricerche effettuate in ambito cognitivo hanno dimostrato come giocare agli exergames migliori anche le performance scolastiche. A livello cognitivo, per esempio, vengono stimolati alcuni aspetti quali l’attenzione, la consapevolezza spaziale o la comprensione delle relazioni causa-effetto (Höysniemi, J. 2006). Oltre all’ambito cognitivo la pratica degli exergames ha comportato effetti benefici anche a livello sociale. Alcuni studi hanno dimostrato infatti come la pratica degli exergames in ambienti di gruppo ha portato a un incremento dei legami amicali e una decrescita del pericolo di isolamento sociale (Mueller, F., Agamanolis, S., & Picard, R. 2003). Viste le diverse proprietà benefiche confermate dai vari studi, lo stato del Michigan ha introdotto nel 2003 il videogioco Dance Dance revolution all’interno del proprio programma scolastico.

Dunque, quali sono quindi gli exergames più consigliati a questo punto per allenarsi a casa? In questo periodo in cui allenarsi a casa è diventato obbligatorio, alcuni tra gli exergame più noti sono Just Dance, Ring Fit Adventure o Beat Saber. Praticare exergaming in realtà virtuale (o VR), come nel caso di Beat Saber, ha dimostrato come gli ambienti immersivi possono distrarre gli utenti dallo sforzo fisico dell’esercizio e possono nello stesso tempo motivarli a continuare a giocare. Nonostante il recente aumento della popolarità della realtà virtuale grazie anche al contributo di tecnologie come la PSVR e i vari Oculus, numerosi utenti continuano ancora a soffrire di cybersickness (McCauley, et all. 1992). La cybersickness o VR sickness è quel fenomeno i cui principali sintomi, dopo un periodo variabile di immersione attraverso l’HMD, sono l’affaticamento degli occhi, il disorientamento e la nausea (LaViola, J. R. 2000). Oltre a questi sintomi anche la percezione della profondità e la cognizione possono essere influenzate. Sebbene ci siano degli evidenti benefici negli exergaming in VR, è comunque utile identificare anche gli effetti negativi che ne limitano il suo potenziale e la sua continua diffusione. A tal proposito, presso  l’Università dell’Australia Meridionale, è stato recentemente svolto uno studio (Saredakis, D. et al. 2020) volto a investigare la VR sickness in 36 partecipanti che utilizzavano Beat Saber per sessioni di 10 e 50 minuti. Diversi sono stati i parametri analizzati, ovvero l’accomodazione, la vergenza, la velocità decisionale, la velocità di movimento e aspetti della cybersickness auto-denunciati in tre precisi momenti: prima dell’esperienza in VR, immediatamente dopo l’immersione in VR e 40 minuti dopo la VR (molto in ritardo). Dai risultati della ricerca è emerso che Beat Saber è stato ben tollerato. Per la maggior parte dei partecipanti, tutti gli effetti collaterali immediati sono stati di breve durata e sono tornati ai livelli basali dopo 40 minuti dall’uscita dalla VR. Sia per le esposizioni brevi che per quelle lunghe, ci sono state variazioni di accomodamento ( F 1,35 = 8.424; P = .006) e convergenza ( F 1,35 = 7.826; P = .008); tuttavia, nel periodo tardivo del test, i partecipanti sono tornati ai livelli di base. Le misure sulla cognizione non hanno rivelato alcuna preoccupazione. I punteggi ottenuti tramite il Simulator Sickness Questionnaire (SSQ) sono aumentati immediatamente dopo VR ( F 1,35 = 26,515; P <0,001) ed erano significativamente più alti per le esposizioni lunghe rispetto a quelle brevi ( t35 = 2,807; P = 0,03), ma non ci sono state differenze nella durata dell’esposizione nel periodo tardivo del test, con i punteggi che tornavano ai livelli basali. Solo il 14% dei partecipanti ha riportato ancora alti livelli di malattia nel periodo di test avanzato dopo aver giocato 50 minuti di Beat Saber.

Andando oltre tale ricerca è tuttavia interessante notare come la VR abbia fatto dei notevoli passi avanti rispetto al primo prototipo sviluppato da Ivan Sutherland nel 1986. La realtà virtuale oggi non è più uno strumento esclusivo, ma bensì alla portata di tutti e con una funzione non più esclusivamente ludica. Dal suo iniziale utilizzo esclusivo nella ricerca, la RV ad oggi è stata utilizzata anche in altri ambiti: clinico (per la cura di fobie specifiche e non solo), sportivo (Torkington, Smith et al. 2001), riabilitativo, formativo, nonché ospedaliero come nel caso di  Snow World. SnowWorld, sviluppato presso l’Università di Washington in collaborazione con Harborview Burn Center, è stato il primo software VR immersivo progettato specificamente per la riduzione del dolore. Esso sposta la concentrazione del paziente lontano dal dolore in un ambiente gelido e virtuale inondato di blu e bianchi freddi, dove il loro unico compito è lanciare palle di neve a un gruppo di pinguini e di pupazzi di neve che avanza all’infinito. Potrebbe sembrare sciocco, ma i risultati parlano da soli: i pazienti ustionati hanno avvertito dal 35 al 50% di dolore in meno quando sono stati immersi nella VR (Hoffman, H.G. et al. 2011), circa la stessa riduzione di una dose moderata di antidolorifici oppioidi. Oltre a ridurre la quantità di dolore, la distrazione in VR sembra modificare il modo in cui il cervello elabora i segnali in arrivo dai recettori del dolore. I pazienti immersi in SnowWorld non solo hanno riportato meno dolore sulla scala soggettiva del dolore, ma hanno anche mostrato circa la metà dell’attività cerebrale correlata al dolore mentre erano immersi in SnowWorld. Dopo aver sviluppato un auricolare MRI unico nel suo genere per due anni, il team di ricerca ha analizzato le scansioni cerebrali di pazienti con e senza VR, dimostrando che i recettori del dolore nel cervello sono molto meno attivi durante la VR (Hoffman, H.G. et al. 2006). Nello specifico la risposta del cervello ai recettori presenta una rimodulazione degli aspetti sia sensoriali che emotivi peculiari per l’elaborazione del dolore.

 

Il Gruppo come cura (2021) di Claudio Neri – Recensione del libro

Il gruppo come cura ha il chiaro intento di trasmettere le conoscenze maturate in tanti anni di terapia gruppale e rivelatesi efficaci, candidandosi ad entrare a pieno titolo nella cassetta degli attrezzi di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori, operatori di comunità, infermieri.

 

 Il gruppo come cura, scritto da Claudio Neri, Psicoanalista e Psicoterapista di Gruppo, segue la pubblicazione Gruppo (2017), ed è frutto di un sogno, al risveglio dal quale il Dottor Neri risulta illuminato circa la direzione da dare ai vari appunti presi: il narratore non doveva essere solo osservatore ma partecipe dei fatti.

Il libro ha il chiaro intento di trasmettere le conoscenze maturate in tanti anni di terapia gruppale e rivelatesi efficaci, candidandosi ad entrare a pieno titolo nella cassetta degli attrezzi di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori, operatori di comunità, infermieri, nonché aiutare gli studenti di psicologia e psichiatria ad approcciare l’analisi di gruppo.

Si intrecciano nel libro due modi di raccontare, uno prettamente concettuale, l’altro puramente clinico, volto ad esplicitare i contenuti teorici trattati: le 7 sequenze cliniche riportate, racchiudenti ognuna più sedute, coprono un periodo di dieci anni, dal 2005 al 2015, e non seguono, dunque, un ordine cronologico, quanto piuttosto rispondono alle esigenze del Dottor Neri di rendere il processo terapeutico maggiormente comprensibile.

Nella prima parte vengono presentati i protagonisti del testo, in particolare la narrazione inizia con la richiesta di Gianna di partecipare ad una terapia di gruppo. Da qui la differenziazione tra “candidato ideale” e “paziente possibile”: dai colloqui preliminari ci si accerta se il soggetto ha effettivamente bisogno di un percorso psicoterapeutico e se, nello specifico, può giovare di una terapia di gruppo rispetto ad una psicoterapia individuale. Il paziente possibile è una persona che realmente esiste:

È ogni uomo o donna che viene nel mio studio, chiedendomi aiuto per affrontare la sua sofferenza psicologica ed esistenziale (pag.22).

Gianna accederà al gruppo dopo un percorso individuale durato un anno, durante il quale si è lavorato sulla sintomatologia depressiva.

Obiettivo della psicoterapia di gruppo è riattivare il “progetto vitale” dell’individuo, tendenza evolutiva originaria che ciascuno cerca di perseguire lungo l’intero arco di vita: progetto vitale e psicoterapia di gruppo sono in un rapporto inversamente proporzionale, dal momento in cui l’impellenza del primo rende meno necessario il lavoro di gruppo.

Come sottolinea Kohut:

Il cuore del processo terapeutico, infatti, non consiste nel risolvere singoli meccanismi che sono disfunzionali, ma nel riattivare il potenziale evolutivo del Sé difettoso.

Il gruppo è un tutto in cui ciascuno mantiene la propria individualità: esso non esiste soltanto sul piano sociale, ma ha una propria connotazione nella psiche, essendo una presenza nella mente delle persone. Nel gruppo analitico i rapporti sono di natura egualitaria ed il compito è di conoscersi l’un l’altro, e di conoscere sé stessi nel rapporto con gli altri.

Il setting è di cruciale importanza: statico, immodificabile, luogo sicuro cui affidarsi. Il timing di una psicoterapia di gruppo ideale è bisettimanale, della durata di un’ora e quarantacinque minuti, favorendo il raggiungimento di un’ottimale intensità nella vita dei partecipanti.

 Il gruppo raggiunge maggiori benefici quando è formato da 7/8 persone: un numero inferiore andrebbe a favorire i rapporti duali ed un numero maggiore renderebbe difficoltoso seguire le vicende di ciascuno. Il gruppo analitico descritto nel testo è eterogeneo per sintomatologia e relativamente omogeneo per età e viene descritto dal Dottor Neri “ad alto funzionamento”. Trattasi di un gruppo “slow open”, ovvero a lento ricambio: ogni anno circa due persone concludono la terapia e altrettante la iniziano. Con la consapevolezza che i gruppi chiusi a lungo andare stagnano, l’autore sottolinea il delicato momento di ristrutturazione cui l’intero gruppo va incontro quando entra un nuovo partecipante-paziente: la fuoriuscita di uno dei membri viene vissuta come un lutto, ragion per cui si lavora su tale momento per mesi; di converso alle new entry si associano intense aspettative. Appartenere a un gruppo analitico corrisponde ad un lavoro di ri-definizione identitaria, ovvero si percorre la strada della soggettivazione. Più precisamente, rappresenta l’inizio di un processo che va in direzione opposta alla strada di solitudine e ripiegamento su di sé verso cui la persona si era precedentemente indirizzata, o verso cui era stata spinta.

Disposti in cerchio, i soggetti affidano i propri pensieri, fantasie, sogni, emozioni, al centro vuoto, venendo in contatto con l’ignoto. Il materiale portato in seduta viene così pensato e trasformato.

Nello stato del “gruppo nascente”, caratterizzato da speranza ed apertura al futuro, l’individuo sperimenta depersonalizzazione, ovvero perdita dei confini del sé, accompagnata da un cambiamento del proprio modo abituale di pensare e di porsi in rapporto con la realtà circostante: le sensazioni e le attese non sono più localizzate, ma diffuse in uno spazio comune. Il tempo non è più il tempo della quotidianità, bensì il tempo della seduta, ovvero un “presente esteso”. Tale disorientamento colpisce tutti i partecipanti, incluso il terapeuta. L’evoluzione di tale stadio è “la comunità dei fratelli”: i membri prendono consapevolezza delle potenzialità del gruppo come soggetto collettivo, come comunità capace di pensiero. In tale stadio ogni membro diviene maggiormente disponibile a mettersi in gioco. L’analista, conduttore del gruppo, è percepito meno distante, più umano e maggiormente partecipe: se nella fase precedente veniva costantemente atteso un suo intervento (di approvazione, disapprovazione o salvazione), nella comunità dei fratelli vi sono lunghe fasi della seduta dove il terapeuta non interviene; calibrando i suoi interventi, il terapeuta si colloca in posizione laterale, lasciando scorrere gli interventi dei pazienti.

Compito del terapeuta è fare in modo che vengano rispettati i tempi di ciascuno alla condivisione, proteggendo il diritto al riserbo. Specie nelle fasi iniziali, la sola presenza e l’accoglimento dei pensieri altrui nella propria mente, costituisce un momento di condivisione e trasformazione. Quando tutti riescono a partecipare al gruppo allo stadio della comunità dei fratelli, ogni membro si trova a essere contemporaneamente un paziente e un agente attivo che svolge una funzione nel trattamento degli altri.

Il pensiero di gruppo sviluppa le sue potenzialità terapeutiche soprattutto quando può lasciare da parte il ragionamento organizzato e il problema concreto, ed è libero di spaziare nell’immaginazione e procedere per rapide intuizioni. Il pensiero di gruppo è mimetico, ovvero capace di rappresentare qualcosa e renderlo emozionalmente e sensorialmente presente.

Il racconto delle sequenze di seduta si dispiega come un dialogo a più voci, mettendo in luce il processo veritativo che si realizza in analisi di gruppo: punti di vista diversi e diverse verità coesistono, si confrontano, si scontrano, favorendo un’evoluzione del discorso e delle persone che vi prendono parte. Gradualmente si forma il senso del “NOI” e un sentimento di interdipendenza, portando alla creazione della membrana protettiva, pelle psichica, denotante il senso di appartenenza.

Ogni membro deve impegnarsi non solo per raggiungere la sua meta personale, ma anche per creare e mantenere le condizioni di un buon funzionamento del gruppo come insieme.

Il problema del singolo diviene problema del gruppo: il dottor Neri utilizza il termine commuting per indicare tale processo.

Compito del terapeuta è focalizzare l’andamento di ciascun membro nel processo di cura, stando bene attento ad evitare l’attivazione dell’assunto di base della dipendenza, il cui risultato sarebbe la passivizzazione del gruppo. Rivolgendosi alla totalità del gruppo, piuttosto che al singolo individuo, egli favorisce le libere associazioni utilizzando immagini o piccoli racconti, promuovendo, in tal modo, la “buona socialità”. Un gruppo è dotato di buona socialità, quando è in grado di soddisfare almeno in parte il bisogno di riconoscimento delle persone che lo formano. Trattasi di un riconoscimento realistico: oltre alle capacità vengono focalizzati anche limiti e manchevolezze. Da ciò può dispiegarsi un discorso comune diretto verso una meta condivisa: l’autenticità, vista come conoscenza, sincerità, miglioramento individuale.

Il modello esplicitato non importa nel setting gruppale metodologie psicoanalitiche standard, quali transfert e controtransfert, che, seppur notate, vengono collocate sullo sfondo.

Centrale è il dispiegarsi della “capacità negativa”, individuata da Bion: l’esercizio del “non capire” fa sì che l’analista non dia prematuramente forma a ciò che sta evolvendo e che potrà emergere in modo più chiaro nel campo analitico. Ciò non equivale ad un atteggiamento di passività, quanto piuttosto al restare in contatto con l’incomprensibile, non uscendo dalla condizione di dubbio.

La funzione analitica non è prerogativa del terapeuta: è invece una funzione ruotante, che può venire assunta dal gruppo nel suo insieme e di volta in volta dal Genius loci, ovvero dalla persona che prende la parola e coglie in modo più creativo il senso della situazione in atto in quel dato momento.

Nel gruppo vengono elaborati e metabolizzati traumi, lutti, separazioni, conflitti: il modus operandi è dato dal racconto e dalla condivisione di sogni, di fantasie, di pensieri. Il racconto e il raccontare hanno finalità terapeutiche e i confini di ciascuno divengono via via più permeabili. Il paziente si lascia andare alla condivisione e alla compartecipazione esperendo il gruppo come luogo sicuro.

Particolarmente rilevanti sono i “sogni a tema”: serie di sogni con contenuto simile tra loro, contenenti piccoli cambiamenti, indice dello sviluppo personale che il sognatore sta compiendo.

Il processo terapeutico implica una trasformazione complessiva della persona e non soltanto un miglioramento della sintomatologia: il gruppo rappresenta la cura nel processo di soggettivazione.

Utilizzando il concetto di “zona di sviluppo prossimale” sviluppato da Vygotskij, si può affermare che l’appoggio e il sostegno dell’analista e del gruppo incidono sulla possibilità del paziente di sviluppare le sue potenzialità verso il miglioramento e la guarigione. Il primo passo di questo percorso è offerto dall’accettazione e dalla convalida dei pensieri e delle emozioni: solo sentendosi un umano, vedendo riconosciuto il proprio diritto all’errore, l’individuo può muovere i passi verso il cambiamento.

L’epilogo del libro coincide con la fine della terapia di Gianna, comunicato al gruppo diversi mesi prima: il processo di soggettivazione si è dispiegato e Gianna è diventata autonoma.

 

Affrontare il disturbo ossessivo compulsivo. Quaderno di lavoro (2021) di Paola Spera e Francesco Mancini – Recensione del libro

Affrontare il Disturbo Ossessivo Compulsivo di Paola Spera e Francesco Mancini, nasce e si presenta come un validissimo quaderno di lavoro in grado di fornire efficaci strumenti sia a chi soffre di tale disagio che al professionista.

 

 Scritti da eccellenti figure esperte e competenti in tema di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), Paola Spera e Francesco Mancini, con il contributo di altri validissimi professionisti, questo quaderno di lavoro offre informazioni e strumenti pronti all’uso sia per l’esperto che il non addetto ai lavori.

Si parte dall’offrire una panoramica circa il disturbo, il significato di ossessione e compulsione e varie forme e manifestazioni, perché come ormai oggi dovremmo sapere, il DOC è una forma di disagio psicologico molto ricco e complesso e – come scrivono anche gli autori – è un disturbo che nasconde molte insidie, tanto che può mettere in difficoltà sia i terapeuti alle prime armi sia quelli più esperti.

Immagine 1 – Scheda dei principi e caratteristiche delle ossessioni ripresa e adattata da Abramowitz (2006)

I primi capitoli consentiranno di conoscere il DOC e il modo di procedere della Terapia Cognitivo Comportamentale, arricchiti da schede per iniziare sin da subito ad individuare il proprio schema di funzionamento (vedi in foto scheda 10 tratto dal libro a pag. 33).

Immagine 2 – Schema del funzionamento del DOC

Lo schema di funzionamento del disturbo consentirà di individuare le variabili in gioco e, dunque, l’evento e situazione scatenante; come lo stesso viene valutato dalla persona; il significato attribuito allo stesso; i tentativi di soluzione di primo ordine (TS1) ossia tutto ciò che la persona fa o non fa, sia in termine di atti comportamentali che mentali, nel tentativo di prevenire, fronteggiare o neutralizzare la minaccia percepita (come ad esempio evitamenti, ricerca di rassicurazione, compulsioni, ruminazioni mentali); la seconda valutazione, in questo caso si fa riferimento alla critica che la stessa persona rivolge a se stessa in merito al fatto di non saper gestire il disturbo ed infine i tentativi di soluzione di secondo ordine (TS2), ossia le strategie che la persona applica nel tentativo di contenere il disturbo.

Un altro importante vantaggio derivante dallo schema di funzionamento, continuano a spiegare ed illustrare gli autori, è quello di identificare anche i processi ricorsivi che mantengono o aggravo il DOC. Tre quelli descritti dagli autori:

  • Primo processo ricorsivo: coinvolge gli eventi critici, la prima valutazione e i TS1;
  • Secondo processo ricorsivo: riguarda la prima valutazione, i TS1, la seconda valutazione ed i TS2;
  • Terzo processo ricorsivo: coinvolge i sintomi ossessivi, i TS1, la reazione dei familiari e gli effetti di queste reazioni sulla sintomatologia stessa.

 Tutti gli aspetti sopra citati diventano tematiche centrali approfondite nei vari capitoli del testo, accompagnati da suggerimenti, schede, ed esercizi a riguardo, compreso il lavoro con e sui familiari e la prevenzione delle ricadute.

Il testo, di matrice cognitivo comportamentale, si ispira e fa riferimento a tecniche e trattamenti validati dalle ricerche scientifiche che ne mettono a tutt’oggi in luce la validità relativa all’efficacia nel trattamento del DOC, e dunque si ritroverà il riferimento all’Esposizione e Prevenzione della Risposta (EPR), a esercizi ispirati all’ACT, alla terapia dell’Accettazione e dell’impegno e alla mindfulness.

Un testo ricco nella sua semplicità che concretamente consente anche ai non addetti ai lavori che soffrono di tale disturbo, di avere a portata di mano valide proposte alternative ai tentativi di soluzione finora messi in atto e che purtroppo non sono risultati risolutivi (ma spesso hanno peggiorato il problema) e una valida raccolta spendibile per il clinico, di ausilio al proprio lavoro.

 

Terapia EMDR auto-somministrata: rischio o opportunità?

Waterman & Cooper (2020) hanno revisionato la letteratura esistente, valutando i potenziali rischi e benefici della terapia EMDR auto-somministrata.

 

La terapia di desensibilizzazione basata su movimenti oculari (EMDR) è raccomandata da molti organismi nazionali e internazionali per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), tra cui l’Organizzazione mondiale della sanità (World Health Organisation, 2013) e l’American Psychiatric Association (American Psychiatric Association., 2004).

Sebbene non si è concordi sul meccanismo alla base che spieghi la sua azione sulla sintomatologia (Bisson et al., 2013), la ricerca individua l’EMDR come più efficace del trattamento farmacologico e della maggior parte delle altre psicoterapie per il trattamento del PTSD. In particolare, è superiore ad altre terapie rivolte al trauma, nella riduzione dei pensieri intrusivi ed abbassamento dell’attivazione (Khan et al., 2018).

Il PTSD è una patologia con prevalenza particolarmente elevata in occidente tra le popolazioni di rifugiati e richiedenti asilo, che spesso hanno sperimentato un trauma ad esempio nelle forme di reclusione, tortura o violenza sessuale (Firenze et al., 2016). Queste popolazioni non accedono alla terapia psicologica non solo perché molto costosa, bensì per una mancanza di consapevolezza del diritto, barriere dettate dal linguaggio, ricollocazioni ripetute all’interno del paese e soprattutto mancanza di fiducia negli operatori sanitari.

Anche nei paesi a medio e basso reddito, il rischio di trauma per conflitti e tortura subita aumenta (Kessler et al., 2017) ed, essendo contesti con poche risorse o distribuite iniquamente, non è garantito l’accesso a cure efficaci (Kohn et al., 2004; Saxena et al., 2007).

Barriere rilevanti all’accesso alla terapia psicologica, generalizzabili all’intera popolazione sono lo stigma percepito associato alla terapia stessa (Lannin et al., 2013), vincoli fisici (come vivere in territori isolati), agorafobia, scarsa mobilità fisica o mancanza di accesso ai mezzi di trasporto (Simblett et al., 2017). Anche il razionamento dei servizi secondo gravità sintomatologica o grado dell’impatto funzionale, insieme alle lunghe liste di attesa per la psicoterapia all’interno dei servizi sanitari nazionali, possono impattare notevolmente.

Date queste difficoltà, unite alla concomitante crescita di internet come fonte di informazioni mediche, si è reso urgente lo sviluppo, la valutazione e la regolamentazione, di tecnologie che aumentino l’accesso ad informazioni sanitarie di qualità, oltre che alle terapie psicologiche (Ruzek & Yeager, 2017). Infatti, molti individui potrebbero non capire come valutare l’affidabilità di un sito web o di un applicazione (Eysenbach & Köhler, 2002). Inoltre, nonostante alcuni siti vengano gestiti da agenzie sanitarie specializzate o si conformino a determinati standard di qualità, molti altri non sono regolamentati.

Per quanto concerne l’EMDR, diversi forum testimoniano il suo utilizzo in termini di terapia autosomministrata.

Mentre esistono 11 applicazioni Apple e 8 Android che offrono la possibilità di autosomministrarsi l’EMDR, diversi siti web non regolamentati pubblicizzano strumenti di auto-aiuto per questa terapia.

A partire dalle correnti evidenze, Waterman & Cooper (2020), hanno revisionato la letteratura esistente, valutando i potenziali rischi e benefici della terapia EMDR auto-somministrata, presentando evidenze di efficacia relative ad altre psicoterapie di auto-aiuto.

L’unica indagine sulla ricerca di efficacia, tollerabilità, fattibilità e sicurezza della terapia EMDR autosomministrata (Spence et al., 2013), includeva un trattamento fornito interamente online di sei lezioni, con elementi di EMDR e CBT affiancati ad un contatto settimanale con uno psicologo. Il 55% dei partecipanti, che soffrivano di PTSD, hanno riportato una regressione completa della sintomatologia post trattamento ed al follow up di tre mesi.

Tuttavia, il campione ridotto, l’elevato tasso di abbandono, l’assenza di un gruppo di controllo ed il contatto con lo psicologo, hanno impedito di trarre conclusioni definitive.

Nella valutazione post trattamento era emersa una moderata tolleranza della terapia tra i soggetti, suggerendo la possibilità di apportare modifiche al protocollo. Al fine di migliorare l’accettabilità dell’intervento, sarebbe utile includere elementi di interazione sociale, come un avatar umano virtuale di accompagnamento (Rehm et al., 2016).

Una problematica insorta riguardava la valutazione dell’idoneità dei pazienti alla terapia EMDR, nella capacità di utilizzare con successo tecniche di autocontrollo e rilassamento (Tien, 1997). Nonostante questo, insieme all’attuazione di una procedura standardizzata, non sia possibile, i rischi evidenziati puramente a livello teorico non trovano fondamento nella letteratura sulla terapia EMDR computerizzata di auto-aiuto.

Per quanto concerne le prove di efficacia relative ad altre psicoterapie di auto aiuto erogate su internet, evidenze in letteratura sostengono che oltre ad essere maggiormente accessibili, sono economiche e sicure nel trattamento dei disturbi dell’umore, d’ansia e del consumo di sostanze (Kumar et al., 2017).

Trattamenti interamente online, sia di esposizione a stimoli per la riduzione dell’ansia nelle fobie e nel panico, che nella riduzione del disagio psicologico legato a traumi in popolazioni di rifugiati, si sono dimostrati efficaci (Schneider et al., 2005); andando incontro ad un target che con poca probabilità avrebbe ricevuto un intervento psicologico diretto (Tol et al., 2020).

Ulteriori indagini hanno supportato l’efficacia delle applicazioni su smartphone nel trattamento del PTSD. In particolare, “PTSD Coach” scaricata da oltre 100000 utenti in 74 paesi del mondo, che comprende tecniche di auto-aiuto incluso il rilassamento (US Department of Veterans Affairs., 2013).

Nonostante siano promettenti nel poter raggiungere ad un basso costo un’ampia fetta della popolazione, nei trattamenti di auto-aiuto è complesso mantenere il coinvolgimento del paziente, come testimoniato dal completamento della CBT online solo dal 20% dei soggetti (Christensen et al., 2006).

Considerando le evidenze attuali, la terapia online non scoraggia né influisce sull’efficacia della terapia personalizzata diretta (McDonald et al., 2020), ma rende il supporto maggiormente accessibile nei paesi a medio e basso reddito, dato l’incremento in tutto il mondo dell’utilizzo della tecnologia (Hall et al., 2014; Ruzek & Yeager, 2017)

In conclusione, sia l’EMDR, che in generale gli interventi psicologici online per diverse forme di psicopatologia, possono aggirare alcune delle barriere all’accesso alla terapia. Ciò nonostante, si rendono necessarie ulteriori ricerche in questo ambito, ancora poco esplorato, per vedere se realmente i vantaggi superano gli svantaggi.

 

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