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“Mi sento sporco”: la relazione tra tradimento e psicopatologia

Sebbene le conseguenze psicologiche derivanti dall’aver subito un tradimento siano note all’interno della cultura popolare (Altenberg, 2015), la relazione tra tradimento e psicopatologia è ancor poco esplorata. 

 

Il tradimento è stato definito come “la percezione di essere stati danneggiati dalle azioni intenzionali o dalle omissioni di una persona di fiducia” (Rachman, 2010, p. 304). Rachman e colleghi, grazie agli studi effettuati con pazienti affetti da un disturbo ossessivo compulsivo (DOC) (Rachman, 2010), hanno mostrato come le esperienze di tradimento siano centrali nell’espressione del disagio e nella resistenza al trattamento in questi pazienti.

Ulteriormente, secondo alcuni studi, esiste un legame specifico tra il tradimento e la contaminazione mentale (CM) (Coughtrey et al., 2013; Warnock-Parkes et al., 2012). Per contaminazione mentale si intende quel fenomeno clinico, tipico dei pazienti DOC, caratterizzato dalla percezione di un senso di contaminazione, nonostante l’assenza di un contatto fisico con un altro soggetto. È la mera associazione con una persona fisicamente, moralmente o simbolicamente contaminata che può innescare tale percezione.

In altre parole, per alcune persone, l’essere state trattate come spazzatura le fa sentire sporche. Coughtrey e collaboratori (2012a) hanno scoperto che il 46% dei partecipanti affetti da DOC ha manifestato fenomeni di contaminazione mentale e la gravità di quest’ultima era correlata alla gravità dei sintomi (Coughtrey et al., 2012b).

Secondo le teorie cognitive, la valutazione o l’interpretazione delle esperienze è centrale per lo sviluppo della psicopatologia. Il modello cognitivo-comportamentale del DOC (Salkovskis, 1985) afferma che la valutazione della responsabilità di aver causato un danno o, di non aver potuto impedire che quest’ultimo si verificasse, è la chiave per comprendere lo sviluppo e il mantenimento del disturbo. Si ritiene che la contaminazione mentale nel DOC si verifichi a causa della valutazione di vari pensieri, immagini ed esperienze (Rachman, 2004, 2006) e la ricerca suggerisce che le valutazioni di responsabilità, violazione e immoralità sono predittori della contaminazione mentale (Elliott & Radomsky, 2013).

Dunque, secondo i resoconti clinici, il tradimento sembra essere associato alla contaminazione mentale nei pazienti DOC, ma rimane da indagare sistematicamente la suddetta relazione.

Anche se la contaminazione mentale risulta essere maggiormente associata al disturbo ossessivo-compulsivo, ci sono alcune prove che essa possa verificarsi in tutti i disturbi. Per esempio, uno studio di Coughtrey e collaboratori (2018) ha indicato la prevalenza di contaminazione mentale nei disturbi alimentari, nella depressione e nell’ansia. Altri studi hanno trovato prove di CM nella fobia specifica e nel disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (Rachman, 2006).

La contaminazione mentale è stata osservata anche indipendentemente dalla psicopatologia; difatti, anche le donne vittime di aggressioni sessuali, hanno riportato un aumento dei sentimenti di contaminazione mentale e l’urgenza di lavarsi, quando richiamavano i ricordi dell’esperienza subita (Ishikawa et al, 2015).

È sulla base delle considerazioni appena esposte, che alcuni autori si sono proposti di effettuare due studi. Nel primo studio essi hanno sviluppato un nuovo strumento, la Perception of Betrayal Scale (POBS), con l’obiettivo di definire le proprietà psicometriche della POBS all’interno di un campione non clinico. Il questionario sviluppato constava di 27 item che miravano a valutare l’impatto del tradimento su diverse dimensioni come le relazioni interpersonali, la percezione di sé e il comportamento.

Nel secondo studio, invece, i ricercatori hanno confrontato l’impatto del tradimento in tre gruppi clinici e un gruppo di controllo.

L’ipotesi primaria era che i soggetti clinici avrebbero riportato un maggiore impatto del tradimento, come misurato dalla POBS e, nello specifico, gli autori hanno ipotizzato che i pazienti affetti da DOC, avrebbero mostrato di aver subito un maggior impatto, a causa del tradimento. L’ipotesi secondaria era che gli individui affetti da DOC, con livelli più elevati di contaminazione mentale, avrebbero mostrato anche un maggiore impatto dovuto al tradimento, misurato attraverso la POBS. Una terza ipotesi era che l’impatto del tradimento avrebbe predetto la contaminazione mentale.

Al fine dello sviluppo psicometrico e della validazione della POBS, sono stati reclutati 217 soggetti non clinici. Al secondo studio, invece, hanno preso parte 83 individui, divisi in quattro gruppi: 23 nel gruppo DOC, 21 nel gruppo ansia, 18 nel gruppo depressione e 21 nel gruppo di controllo.

Il primo studio ha mostrato che la POBS aveva un test-retest accettabile ed una buona attendibilità e coerenza interna.

I risultati del secondo studio hanno mostrato che i soggetti con un disturbo ossessivo-compulsivo avevano riportato punteggi dell’impatto del tradimento significativamente più elevati rispetto agli altri gruppi clinici e a quello di controllo, con i gruppi di ansia e depressione che mostravano un punteggio più alto rispetto al gruppo comunitario.

È possibile che il gruppo costituito da soggetti con DOC abbia mostrato maggiori valutazioni disadattive riguardo al tradimento in quanto è probabile che essi siano più preoccupati da eventi interpersonali rispetto ad altri gruppi clinici, o forse presentano un approccio diverso rispetto alle interazioni interpersonali complesse. Ci sono alcune prove che gli individui con una diagnosi di DOC mostrano alcuni deficit nella consapevolezza di sé e nel riconoscere e verbalizzare le emozioni (De Berardis et al., 2005), nonché una maggior tendenza alla sottomissione interpersonale, rispetto ai controlli sani (Solem et al., 2015).

Inoltre, i risultati del secondo studio hanno suggerito che vi è un’associazione tra il tradimento e la contaminazione mentale, ma il meccanismo con cui quest’ultima venga indotta non è ancora chiaro.

Questo è il primo studio che tenta di misurare la percezione del tradimento in gruppi clinici e non clinici e supporta l’ipotesi di una relazione tra valutazioni negative del tradimento e psicopatologia e più specificamente tra tradimento e contaminazione mentale, aggiungendosi ad un piccolo ma crescente corpo di ricerca che studia l’impatto del tradimento sulla psicopatologia.

La presente ricerca solleva ulteriori quesiti e apre nuovi scenari per futuri studi. Naturalmente, tali questioni dovranno essere risolte prima di poter affermare con certezza che le esperienze di tradimento dovrebbero essere al centro degli interventi terapeutici, sia in coloro che sperimentano una forma di contaminazione mentale, che in chi non la esperisce.

Difatti, il tradimento potrebbe essere un fattore rilevante quando si valutano e si forniscono interventi rivolti alla risoluzione della percezione di contaminazione mentale.

 

Gamification: riabilitare i pazienti con disturbi neurocognitivi tramite l’utilizzo di videogiochi

Nel tempo si è sviluppata una branca particolarmente innovativa del training cognitivo che si focalizza sull’applicazione di meccanismi legati a videogiochi per coinvolgere i pazienti e generare benefici motivazionali: la Gamification.

 

 Il training cognitivo è una pratica ampiamente diffusa in ambito neuropsicologico e riabilitativo che si fonda su un vero e proprio esercizio mentale di alcune funzioni cognitive, specialmente la memoria, permettendo di migliorarle, mantenerle e generalizzarne l’effetto alla vita quotidiana. Può essere svolto individualmente, in gruppo, dal paziente stesso, da un caregiver o da uno specialista. Le prove sono basate su carta e penna o supporti informatici (computer, tablet e così via) seguendo un grado crescente di livelli di difficoltà. L’importante è, infatti, creare un set di esercizi che seguano i principi della ripetitività e gradualità, in modo da non scoraggiare il paziente fin da subito e individualizzare il più possibile il trattamento (Clare e Woods, 2003).

Quando si parla di Gamification?

Nel tempo, si è sviluppata una branca particolarmente innovativa del training cognitivo che si focalizza sull’applicazione di meccanismi legati a videogiochi per coinvolgere i pazienti e generare benefici motivazionali. Originatasi nel mondo del business, è stata successivamente applicata alla sanità tramite i cosiddetti ‘serious games’ per intrattenere i pazienti mentre svolgevano l’attività di training o di educazione (Ricciardi e Paolis, 2014). Definita anche Gamification o CCI (Computerized Cognitive Interventions), si presenta al partecipante tramite un video 2D tradizionale oppure tramite tecniche 3D più sofisticate, come la VR immersiva o la realtà aumentata (Garcìa-Betances et al., 2015; Chicchi Giglioli et al., 2015). Per poter parlare di effettiva Gamification, il training deve includere elementi fondamentali tipici dei videogiochi come rinforzi positivi al termine delle prove (punti, medaglie), avatar per potersi rappresentare nel gioco e tutorial per comprenderne le funzioni. Talvolta si cerca di creare competizione e sfide tra i vari partecipanti anche attraverso i social network (Cugelman, 2013). L’obiettivo principale rimane lo stesso: rendere l’attività cognitiva, di per sé potenzialmente demotivante, coinvolgente e incalzante (Turan et al., 2016).

Ambiti di applicazione

Nella revisione della letteratura effettuata da Sardi e collaboratori (2017) viene riportato come la maggioranza dell’utilizzo di gamification nell’ambito sanitario digitale (e-Health) venga indirizzato alla riabilitazione di patologie croniche, all’attività fisica e alla salute mentale. Inoltre, la Gamification viene sempre più spesso applicata al campo dei disturbi neurocognitivi, e nello specifico nel trattamento del Mild Cognitive Impairment. I benefici sono numerosi: un aumento della capacità della memoria di lavoro, lo sviluppo di nuove strategie mnemoniche, un miglioramento della velocità di elaborazione delle informazioni e delle funzioni esecutive. Il meccanismo del videogioco, infatti, stimolerebbe il mantenimento della concentrazione e del problem solving, portando l’individuo a trovare soluzioni innovative per i problemi che si presentano oltre che a sviluppare un senso di orientamento allo scopo (Lumsden et al., 2016; Ruhi, 2015).

Evidenze di efficacia

L’efficacia di un training cognitivo computerizzato per il Mild Cognitive Impairment è stata comprovata da una meta-analisi che ha identificato effetti benefici sia sulla cognizione globale che su singoli domini cognitivi e sul funzionamento psicosociale, sebbene i risultati per i pazienti affetti da demenza risultino ancora scarsi (Hill et al., 2017). La stessa efficacia è stata riscontrata per i pazienti affetti da esordio di Alzheimer (Cavallo et al., 2016) con miglioramenti che sono rimasti stabili per circa un anno, riducendo il progressivo declino cognitivo per quel periodo di tempo (Cavallo e Angilletta, 2019). I miglioramenti riguarderebbero soprattutto l’ambito della memoria visuospaziale: sebbene un certo grado di declino in questa funzione cognitiva durante l’invecchiamento sia la norma (Iaria et al., 2009) le abilità visuospaziali allocentriche ed egocentriche risultano maggiormente compromesse nei pazienti MCI e AD in confronto ad anziani sani (Boccia et al., 2016). Di conseguenza, si può facilmente comprendere come sia importante rinforzare queste strutture attraverso interventi mirati mentre la compromissione è ancora limitata, come appunto nel Mild Cognitive Impairment.

Esercitarsi virtualmente

La tecnica della realtà virtuale (VR) è molto promettente per via di vari vantaggi, come una stimolazione multimodale, un feedback sulla performance e un ambiente controllato (Morganti, 2004). Provvedendo uno “spazio egocentrico” l’individuo può interagire con il mondo virtuale in prima persona oppure formarsi mappe cognitive spaziali grazie allo “spazio allocentrico” (Tolman, 1948). Uno dei primi studi a riguardo è stato un esperimento di caso singolo di Brooks e colleghi (1999) nel quale la realtà virtuale è stata impiegata allo scopo di insegnare al paziente amnestico come orientarsi nell’ospedale in cui si trovava. Egli riuscì, incredibilmente, a imparare le strade e a trasferire questa conoscenza nella realtà vera e propria. È bene specificare che il training svolto semplicemente nella vita reale non aveva dato alcun risultato (Holden, 2005). Gli autori hanno elencato vari motivi per cui la realtà virtuale possa essere stata più efficace: i percorsi potevano essere svolti più spesso; nella realtà virtuale non era limitato da nessun tipo di disabilità fisica o ostacolo ambientale; in ultimo, non erano presenti distrazioni che potevano distoglierlo dall’apprendimento (Brooks et al., 1999).

Piattaforme CCI

Vi sono vari tipi di Computerized Cognitive Interventions (CCI) che possono essere presi ad esempio, descritti nella revisione di Pertíñez e Linares (2015). Essi vengono utilizzati per la riabilitazione di vari disturbi e si avvalgono delle nuove tecnologie, con alcuni modelli di Gamification. Di seguito, una compilazione delle CCI più importanti e dunque di maggior rilievo nelle strutture neuropsicologiche. Questa lista non è da considerarsi esaustiva dato che nuove piattaforme vengono continuamente create a pari passo con lo sviluppo della ricerca scientifica.

  1. Gradior, un sistema multimediale utilizzato nella valutazione e riabilitazione neuropsicologica che promuove un ricovero funzionale in pazienti con compromissioni cognitive, come demenza, schizofrenia, disabilità intellettiva e così via. I singoli esercizi vengono individualizzati e ne possono essere introdotti di nuovi anche in seguito (Franco et al., 2000).
  2. RehaCom, un sistema di terapia computerizzata per pazienti neuropsicologici che consente la stimolazione cognitiva di varie funzioni. Anch’esso è interamente modificabile in base al caso specifico. È interattivo, semplice da usare, dinamico ed è risultato essere efficace nella riabilitazione di traumi cerebrali (Fernàndez et al., 2012).
  3. Smartbrain, un programma internet-based di stimolazione cognitiva che ha diversi obiettivi. Permette l’individualizzazione dell’esercizio delle funzioni cognitive di base attraverso la modificazione della durata, numero e tipo di sessioni e di rinforzi dal professionista. Il livello di difficoltà si aggiusta automaticamente in base al progresso effettuato. L’efficacia terapeutica di Smartbrain, al confronto di strumenti non tecnologici, è stata comprovata in uno studio con pazienti affetti da Alzheimer (Tàrraga et al., 2006).
  4. CogniFit Personal Coach, il quale permette l’esercizio delle funzioni cerebrali e la valutazione delle capacità cognitive negli adulti per implementare il trattamento più adeguato (Smith et al., 2009).
  5. Scientific Brain Training Pro, ad oggi denominata HappyNeuron Pro, offre programmi per disturbi neurotraumatici, neuropsichiatrici e neurodegenerativi con dei giochi interattivi per stimolare le funzioni cognitive.
  6. Lumosity, che combina giochi ed esercizi per varie aree cognitive ed è orientato a bambini e adulti con disabilità o ad individui che desiderano migliorare la propria performance. Uno studio ha mostrato che portava a miglioramenti se veniva effettuato un esercizio continuo ed appropriato (Kesler et al., 2011).
  7. NeuronUP, è una piattaforma web per la riabilitazione delle lesioni cerebrali acquisite e non, e per un mantenimento delle funzioni cognitive nell’invecchiamento normale. Le attività, che variano di livello, possono essere svolte sul computer o anche carta e penna.
  8. Neuro@Home è diretto alla riabilitazione domiciliare e utilizza tecnologie sofisticate per il training e la raccolta dati.

 Il vantaggio comune di queste piattaforme CCI è la potenziale applicazione a diversi gruppi di età, livelli di patologia e di disturbi. Infatti, possono essere utilizzate anche da individui sani e la flessibilità viene evidenziata dalla personalizzazione del numero e frequenza delle sedute, del linguaggio, degli stimoli visivi e sonori e degli esercizi. Permettono inoltre di monitorare e registrare i dati delle performance per compararne i risultati e individuare l’efficacia. Vi sono, però, degli aspetti da migliorare, soprattutto l’accessibilità per persone con deficit sensorimotori e la possibilità di comparare i risultati tra i vari pazienti per poter dedurre le differenze o similarità. In generale sono comunque considerati validi aiuti nel training e nella riabilitazione dai professionisti (Pertíñez e Linares, 2015).

Limitazioni

Un limite della Gamification riguarda l’analisi dei dati: essendo un videogioco di per sé un’attività complessa, distinguerne l’effetto su una sola funzione cognitiva diventa complicato (Lumsden et al., 2016). Inoltre, è stato comprovato come l’esercizio di multipli domini cognitivi risulti essere più efficace a lungo termine (Cheng et al., 2012). Per esempio, in un training che mira a rafforzare l’attenzione, potrebbe essere difficile misurarne l’efficacia basandosi solo sulla variabile attentiva, poiché molte altre variabili potrebbero aver influito. Purtroppo vi sono un numero elevato di potenziali variabili e distrattori che possono inficiare sulla validità del gioco (Lumsden et al., 2016).

Interventi precoci e mirati

La Gamification, in ogni caso, rimane una delle tecniche di training cognitivo che, se applicata in modo corretto e con costanza, promette una valida alternativa ad una riabilitazione tradizionale su carta e penna indicata per pazienti con ridotta compliance e collaborazione che normalmente non sarebbero motivati ad accedere alle sedute. La sua efficacia nel miglioramento delle condizioni dei pazienti con disturbi neurocognitivi maggiori e con MCI fa ben sperare rispetto al futuro di questa branca della neuropsicologia. Non essendoci una cura farmacologica che permette di curare queste patologie, è essenziale ricercare tecniche riabilitative innovative e comprovate che si possano applicare nelle fasi precoci della malattia, in un’ottica di mantenimento delle abilità cognitive residue per migliorare la qualità di vita di questi pazienti e dei loro famigliari.

 

 

Le naturali ragioni del collettivismo

In tempi brevi sembra che l’egoismo paghi, ma la società ha bisogno dell’aiuto vicendevole per evolvere.

 

Le piante hanno un’architettura modulare con funzioni cooperative e un’intelligenza distribuita, senza avere dei centri di comando precisi, e sono in grado di cooperare con altri vegetali per il bene dell’ambiente in comune. L’animale invece ha un centro di comando centrale e ha costruito una società gerarchica e centralizzata, ha devastato la biodiversità e pensa che il mondo debba essere “monospecie”, ha sviluppato l’illusione del controllo di un mondo modellato a sua somiglianza, ma basta un piccolo virus a mettere tutto in discussione e a ricordarci che anche noi siamo parte di un tutto interconnesso.

Le sequoie possono raggiungere altezze elevate e, solo grazie al fatto che intrecciano le loro radici, possono sostenersi a vicenda e superare così le tempeste. I funghi si scambiano le sostanze nutritive tra di loro e fanno da tramite mettendo in comunicazione specie diverse. Alcune piante possiedono memoria, senso del tatto, altre crescono meglio con la musica.

L’illusione di controllare il pianeta a nostro piacimento è stata in gran parte ridimensionata, abbiamo visto che il nostro ritiro e confinamento in casa è servito per migliorare l’ambiente; gli animali, le piante si sono temporaneamente riappropriati di strade, lagune, è migliorata la qualità dell’aria e dell’acqua.

Dovremmo collaborare come piante per il vantaggio reciproco e avremo come risposta al collegamento un’accresciuta fiducia nel prossimo e finalmente una visione ottimistica basata sulla certezza che è possibile sostenersi a vicenda e avere anche dei vantaggi, che non sono quelli del successo individuale ma quelli della condivisione (Tomasello, 2019).

La condivisione ci ha portato lontano nella nostra storia evolutiva, come anche l’organizzazione gerarchica e il meccanismo di dominanza-sottomissione ma, a differenza di questa, crea vicinanza e legami, caratteristiche utili alla coordinazione del gruppo verso grandi obiettivi evolutivi come preservare il nostro habitat.

I comportamenti che perdurano nel tempo sono al servizio della sopravvivenza della specie, quelli che la danneggiano vanno cambiati al più presto.

Negli animali l’aggressività ha una sua funzione come quella di regolare la gerarchia, conquistare o difendere un territorio, in un ambiente aggressivo però prevalgono rabbia e paura mentre i comportamenti altruistici diminuiscono. Fiducia e stima reciproca sono invece gli elementi essenziali per l’agire cooperativo, un agire che genera legami tra le persone e forma una comunità orientata al bene comune (Liotti, Monticelli 2017).

In tempi brevi sembra che l’egoismo paghi, ma la società ha bisogno dell’aiuto vicendevole per evolvere. Inutile esaltare il meccanismo della competizione e l’immagine del vincitore come modello da seguire, perché chi non riuscirà ad arrivare a certi standard, proverà invidia o vergogna, colpa o tristezza. Le continue situazioni di rabbia rivalitaria non sono poi semplici da gestire, lasciano strascichi e astio.

Il numero delle persone che si sentono inadeguate come risposta a questi esagerati stimoli competitivi sta crescendo, molti si chiudono in casa e rinunciano a priori, anche se spesso la colpa dell’insuccesso è dell’ambiente poiché non partiamo tutti dalla stessa linea di partenza, prevale un sentimento di sconfitta.

La pandemia ha creato profonde ferite, ma attraverso queste possiamo guardare meglio al nostro interno, attraverso questi squarci egoici possiamo vedere più adeguatamente chi siamo e cosa è davvero importante. Attraverso le feritoie che si sono create, possiamo vedere parti di noi che sono rimaste nell’ombra e che ora possono spingere verso una nuova strutturazione del nostro essere, verso una nuova comprensione del nostro senso esistenziale. Ascoltiamo le nostre fantasie, diamo spazio all’immaginazione, non ascoltiamo chi ci fa scegliere per forza tra due mondi, immaginiamo noi il terzo.

Se per un periodo ci sentiamo meno forti, accettiamo questa sensazione e cerchiamo di accogliere i nuovi significati che arrivano, anche se sono dolorosi e ci fanno scoprire le nostre fragilità. Accettiamo questi nuovi significati da decifrare, anche se siamo confusi e dubbiosi, potrebbero aprirci a nuove possibilità di pienezza vitale. È meglio avere dei dubbi che possedere una folle normalità che sedimenta e blocca i cambiamenti e ci mura dentro noi stessi. Dobbiamo purtroppo indebolirci, un po’ per aprirci e costruire ponti fatti di fiducia e tolleranza verso le persone che ci sembrano meritevoli e incontrarci sopra di essi a metà strada, dove si vedono bene entrambi i percorsi ma anche l’orizzonte.

Il livello della collaborazione è boicottato ad arte dall’élite e sono incentivati individualismi e competizione, automatismi utili alla polarizzazione del potere; ma non smettiamo di cercare chi crede nel vantaggio della cooperazione e intrecciamo le nostre radici per raggiungere obiettivi comuni.

 

Cinema, metafore e psicoterapia (2021) di Isabel Caro Gabalda – Recensione del libro

In generale il libro Cinema, metafore e psicoterapia, oltre che una piacevole e scorrevole lettura, può essere utile a un terapeuta sia come suggerimento di film che possono essere usati in terapia come metafore terapeutiche, sia come lettura guidata ai diversi livelli di lettura possibili degli stessi film.

 

 Ho deciso di scrivere la recensione a questo libro prima di leggerlo e, forse, l’avrei potuta scrivere senza leggerlo. Avrei potuto iniziare, scrivendo: non c’è esercizio migliore per aumentare la comprensione e l’empatia verso la sofferenza che i pazienti portano in terapia, del cosa regola questa sofferenza, che immergersi in film e romanzi di qualità. Mauppasant e Anna Bronte hanno dato descrizioni chiarissime degli stati mentali che regolano un narcisista e delle loro conseguenze “patogene”, ben prima che si pensasse di creare manuali sui disturbi mentali.

Cinema, in generale fiction, e psicoterapia sono due modi diversi di guardare allo stesso oggetto: storie della varietà di problemi e ostacoli con cui gli esseri umani si confrontano e della varietà di modi che usano per cercare soluzioni. Vedere un buon film o leggere un buon libro è un modo per esplorare e comprendere come funziona la mente, ma con un vantaggio a favore della fiction: raccontare storie è il talento di chi fa cinema o romanzi e quindi lo sa fare molto bene.

Ho letto, però, il libro di Isabel Caro Gabalda per capire che tipo connessioni tra cinema e psicoterapia vengono messe in luce dall’autrice.

Il libro è in effetti interessante, in quanto i film vengono usati come metafore per comprendere aspetti diversi della psicoterapia, sia attinenti al paziente, che al terapeuta che alla relazione e al processo terapeutico. La storia fantastica diventa, per esempio, una metafora della perseveranza come condizione necessaria per ottenere il cambiamento in terapia, un modo per suggerire al paziente che la terapia non è un processo di cambiamento passivo o frutto di insight, quanto piuttosto il risultato di un impegno costante. Il film Forza maggiore è un modo per comprendere e condividere con il paziente come un evento, apparentemente con esito positivo come la valanga mancata del film, possa modificare in modo drammatico il funzionamento psicologico e relazionale di una persona: come si passa da famiglia felice a coppia devastata da rabbia e colpa? E quale via di uscita?

 In generale il libro, oltre che una piacevole e scorrevole lettura, può essere utile a un terapeuta sia come suggerimento di film che possono essere usati in terapia come metafore terapeutiche (cioè portatrici di cambiamento), sia come lettura guidata ai diversi livelli di lettura possibili degli stessi film.

Concludo con un evento di qualche giorno fa. Un allievo mi dice: “Un mio amico ha fatto una terapia durata qualche mese e dice che gli è stata molto utile. Quello che mi lascia perplesso e non mi torna è che quando gli ho chiesto cosa hanno fatto in terapia, lui mi ha raccontato che fondamentalmente in tutte le sedute parlavano di film e libri. Secondo te ha un senso come terapia?”. Questo libro suggerisce che, se fatto con un piano e una strategia, parlare di film e libri non è solo un modo piacevole per il terapeuta per guadagnare e trascorrere un’ora, ma può essere lo strumento attraverso il quale far passare specifici interventi di cambiamento.

 

I grandi pensieri vengono dal Cuore. Educare all’ascolto (2021) di Eugenio Borgna – Recensione

“Nulla si comprende di una sofferenza psichica nelle sue diverse forme di espressione, se non si conoscono gli intrecci emozionali ardenti e complessi che sono in essa”, avverte l’autore del libro I grandi pensieri vengono dal Cuore.

 

Il cuore è la pietra angolare dell’intera rassegna di opere di Eugenio Borgna, del suo modo di leggere la cura, di incontrare la sofferenza. Nel suo libro I grandi pensieri vengono dal cuore. Educare all’ascolto, Borgna ci invita ancora una volta a cogliere la testimonianza della possibilità di una “psichiatria dell’interiorità”, attenta a tutte le sfumature dell’umana sofferenza, tragiche e pure incredibilmente feconde di bellezza e di vita.

Dico ancora una volta perché nel trasferire il suo personale modo di intrattenere un dialogo con la sofferenza, Borgna riserva parole che non nascondono mai la necessità di calarsi nella profondità di se stessi per non lasciarsi accecare dalla crosta spessa e impenetrabile della malattia. È in questo contatto con “la fragilità che è in noi” che riconosce la strada maestra per non perdere di vista quelle emozioni umane che uno strumento tanto sensibile quanto multiforme come l’arte è capace di cogliere e raccontare.

Un tributo generoso e appassionato alla sua ardente capacità di pronunciarsi sull’invisibilità dell’esistenza è, di fatto, la trama di cui è intessuto anche questo libro, che non può fare a meno di mettere in evidenza l’incompatibilità con uno sguardo fugace, con un orecchio disattento, incapace di accostarsi alla straordinaria e caduca dimensione di ogni cosa.

Da qui sembra partire il suo tentativo di avvicinare la dimensione artistica di ogni disciplina all’uomo, per metterlo in contatto con le sue molteplici modalità di stare al mondo, le sue domande impossibili, la sua infinita ricerca di senso.

È all’incunearsi del mistero nelle pieghe dell’esistenza e al loro meraviglioso rivelarsi che Borgna orienta il suo sguardo e lo traduce con parole che spera possano ampliare la conoscenza della sofferenza, restituire speranza e bellezza alla fragilità umiliata, negata, occultata dell’uomo.

Nell’accorato discorso che rivolge a chi vive il mestiere della cura, si muove nella sua direzione, o che può incontrare la sofferenza predisponendosi con un atteggiamento frettoloso, indifferente, lontano dalla sua essenza, esorta al contatto e all’educazione permanente di quella particolare sensibilità che è disposta a mantenere un dialogo costante con le proprie ferite, indispensabile per non perdere di vista quelle dell’altro. È, infatti, in quella che lui definisce, “comunità di ascolto e di dialogo fra chi cura e chi è curato”, che i silenzi diventano preziosi e non terribilmente oscuri, le parole delicate e piene di speranza di fronte alle ombre più nere della sofferenza.

Il suo desiderio di presentarci una psichiatria “gentile”, “umana”, fa riecheggiare il corpo-soggetto e la danza in cui siamo coinvolti nel tentativo di metterci a contatto con esso, su una melodia sconosciuta e imprevedibile che segue il ritmo scandito dalle emozioni.

“Nulla si comprende di una sofferenza psichica nelle sue diverse forme di espressione, se non si conoscono gli intrecci emozionali ardenti e complessi che sono in essa”, avverte (Borgna, 2021, p. 87). Appurate le loro forme a volte limpide, a volte più opache, ardenti, appiattite, cangianti o cristallizzate, Borgna sottolinea l’importanza di non confonderle, di non utilizzarle impropriamente nel linguaggio quotidiano e nella cura. Non solo, ma cogliere il loro imprevedibile e viceversa presumibile associarsi alla malinconia, alla disperazione, alla speranza, alla creatività, alla morte e il nostro riconoscerci in esse, anche nelle loro forme più dolorose, come possono non renderle più decifrabili, più umane?

Una strada praticabile, certo, ma che richiede di essere attraversata nel silenzio perché, “Solo nel silenzio si colgono fino in fondo gli abissi di fragilità che sono in noi, e negli altri da noi, e si impara ad accoglierli nelle loro luci e nelle loro ombre” (Borgna, 2014, p.17).

È alle relazioni umane, dunque, ai loro confini lassi o estremamente rigidi, alle derive troppo spesso poco umane, in cui le dimensioni del tempo e dello spazio vissuto sono invase o annullate, che Borgna vuole condurre l’attenzione del lettore, portandolo a scorgere l’interdipendenza tra vicinanza e lontananza e l’equilibrio funambolico da conservare nella cura e nella vita.

Un processo di maturazione che non considera solo appannaggio di chi sceglie una professione di cura, ma che si estende in orizzonti vastissimi, pensiamo alla scuola e alla famiglia che non dovrebbero esimersi dall’utilizzo di quella che lui definisce la “saggezza del cuore” nel loro quotidiano operare.

Allora eccolo arrivare dritto al destino delle parole, messo a fuoco sotto la sua lente più nitida, da cui non può che scaturire un appello a non dimenticarlo dopo averle pronunciate. È, infatti, al loro scivolare via senza responsabilità, senza prestare attenzione alle attese e ai bisogni dell’interlocutore, al nostro perdere di vista la loro composizione superficiale e profonda, visibile e invisibile che richiama la nostra attenzione. Ci invita a fermarci dinanzi al rapporto indissolubile che lega le parole al silenzio, a imparare a riconoscerlo nelle sue molteplici forme.

“Sono molti i modi in cui la parola e il silenzio si intrecciano: c’è il silenzio che rende palpitante e viva la parola, dilatandone le emozioni; c’è il silenzio che si sostituisce alla parola nel dire la gioia e il dolore, la speranza e la disperazione; c’è il silenzio del cuore che nasce dagli abissi della interiorità; ma c’è anche il silenzio che si chiude in se stesso, e non ridesta risonanze emozionali” (Borgna, 2021, p. 29).

Si tratta di tonalità emozionali che nel contatto con le interiorità profondamente ferite delle sue pazienti non possono essergli sfuggite e averlo condotto lontano dal rispettare la loro dignità, dal riservarle una doverosa importanza.

“Cosa fare al fine di evitare ferite alla dignità delle persone? Lo dico ancora una volta: ascoltare, essere gentili, e miti, dire parole che nascano dal cuore (avete cuore, fratelli, avete coraggio?), non dimenticando mai l’importanza degli sguardi, e del sorriso, evitando noncuranze, e indifferenza. La gentilezza non costa nulla, e non costano nulla la mitezza e la tenerezza, che nella loro fragile fragranza e nelle loro umbratili forme di espressione cambiano la climax delle relazioni di cura” (Ivi, p.90).

Infatti, nelle pagine di vita vissuta assieme alle sue pazienti, di cui ci fa generosamente dono, a parlare di comunione e conforto nell’intimità dell’incontro sono: lo sguardo, la parola appena accennata, la silenziosa vicinanza, la presenza mite e gentile.

Non è difficile comprendere come quelle speranze timide, fuggevoli, che nascevano come rapidi bagliori per poi spegnarsi altrettanto rapidamente nelle pazienti del manicomio di Novara possano aver destato sin dai primissimi anni della sua esperienza clinica un interesse particolare per la speranza, tanto da indurlo a dedicarle pagine bellissime sulle sue relazioni con la disperazione, l’attesa, il tempo vissuto.

Nel suo cammino di formazione, che ha tutte le caratteristiche per presentarci come si trasformi la persona a contatto con i suoi pazienti, sembra non abbandonarlo mai il suo appassionato interagire con le opere di incredibili protagonisti della filosofia, della letteratura, della poesia e la possibilità di attingere ad esse come fonte inesauribile di conoscenza sulla vita.

“Non c’è cura senza cuore” è l’altisonante messaggio di cui le sue pagine sono intrise e che ha destato anche nei cuori più assopiti quella saggezza necessaria per sopravvivere ad un tempo di pandemia come quello che stiamo attraversando, dominato dalla paura, dall’ombra della morte, dal silenzio e dalla solitudine. L’ascolto di se stessi e il riconoscimento del giusto valore della vicinanza, della compassione, della solidarietà, come pure l’attenzione verso l’esacerbarsi delle condizioni di sofferenza preesistenti, il loro precario equilibrio, la dimensione sociale della psichiatria non potevano non diventare per Borgna e per noi, motivo di riflessione e di costruzione di un nuovo orizzonte di senso e di cura.

In conclusione, educare a rivolgere uno sguardo alla sofferenza che non la banalizzi, ne riduca la complessità e il mistero, ma sappia apprezzarne le emozioni, la creatività, la libertà è la capacità raffinatissima che Borgna possiede e che non possiamo fare a meno di esaltare. Una qualità, la sua, che si nutre di speranza e mai interrompe un rapporto speciale con essa, che costituisce uno “slancio verso il futuro, si presenta «come apertura nel tempo: come un tempo aperto che vive del futuro (dell’avvenire) e che non si arena nel passato[…], che tende alla riconciliazione e alla riunificazione; e, in questo senso, essa è come una memoria del futuro” (Borgna, 2018, p. 91).

 

“Mi piaccio così come sono”. Quali fattori favoriscono la concezione Body Positive?

Il body positive è un movimento sociale che porta alla luce modelli corporei non corrispondenti agli iconici ideali di magrezza, snellezza, perfezione proporzionale o cutanea.

 

Solitamente, è difficile trovare immagini di cosiddetti “corpi normali” in riviste, trasmissioni televisive e social networks, anche se negli ultimi tempi si sta creando una vera e propria inversione di tendenza. Questo movimento si sta infatti diffondendo sempre di più, generando consapevolezza, accettazione e positività in molte persone, in particolar modo in quelle giovani, limitando l’insorgenza di insoddisfazione corporea e problematiche correlate.

Le ricerche esistenti sulla body positivity hanno fornito informazioni fondamentali sull’importanza dell’immagine corporea positiva nelle vite delle giovani ragazze (Frisén & Holmqvist, 2010; Maor & Cwikel, 2016; McHugh et al., 2014; Wood-Barcalow et al., 2010). Ciononostante, la ricerca tende a trascurare la studio di quelli che vanno a costituire i fattori sottostanti un’immagine corporea positiva. Per questo motivo, Poulter & Treharne hanno scelto di svolgere uno studio il cui scopo era proprio quello di esplorare le prospettive di studentesse universitarie con un’immagine corporea positiva, al fine di identificare i fattori che sostengono questa concezione (Poulter & Treharne, 2020).

Facilitare un’immagine corporea positiva può aiutare a ridurre i tassi di suicidio e migliorare la salute mentale e il benessere dei giovani adulti. Proprio da questo presupposto nasce un particolare bisogno di una comprensione approfondita di come l’immagine corporea positiva sia vissuta dai giovani durante i loro primi anni universitari, nei quali molti di essi possono sperimentare nuove pressioni relative all’immagine corporea a cui può conseguire un modifica delle abitudini alimentari (Gilbert & Meyer, 2004).

Nell’esperimento di Poulter & Treharne, il campione era costituito da un gruppo di giovani donne neozelandesi aventi un’auto-dichiarata body positivity (Poulter & Treharne, 2020). Le ragazze, oggetto di ricerca, hanno quindi partecipato a cinque focus group, metodologia di ricerca qualitativa, ognuno dei quali era composto da cinque soggetti. Le attività sono state svolte in un laboratorio di ricerca all’interno del campus neozelandese, e sono durate dai 54 ai 90 minuti. L’analisi tematica svolta sugli argomenti trattati nei focus group ha prodotto quattro temi principali a supporto della visione body positive.

Il primo tema era rappresentato dal cambiamento positivo nell’immagine corporea verificato tra l’adolescenza e la prima età adulta. Le ragazze avevano infatti attribuito la loro maggiore body positivity alla modifica del gruppo dei pari, dapprima composto da membri acerbi e di strette vedute, e successivamente sostituito con uno più aperto all’autenticità e all’individualità. L’allontanamento dalla pressione e dalla conformità dei pari, caratteristiche maggiormente attribuibili ad adolescenti che frequentano le scuole superiori, ha permesso alle ragazze di sviluppare una percezione di un’immagine più positiva del proprio corpo. Ciò è coerente con l’idea secondo la quale una rete sociale di supporto possa influenzare l’immagine del corporea, teoria precedentemente confermata da Frisén e Holmqvist (2010), i quali hanno riferito che l’accettazione e il sostegno da parte di amici e familiari giocano un ruolo chiave nel contribuire ad un’immagine corporea positiva nei giovani.

Il secondo tema individuato nei focus group era rappresentato dall’occhio critico sviluppato dalle ragazze nei confronti dei messaggi sul corpo femminile letti all’interno dei social media. Parallelamente alle abilità critiche, le giovani hanno sostenuto di aver sviluppato consapevolezza, nonché svolto azioni consapevoli nelle piattaforme con cui hanno interagito.

Questi risultati sono coerenti con la ricerca precedente, che ha dimostrato che i giovani con un’immagine corporea positiva tendono ad elaborare i contenuti multimediali in modo critico (Holmqvist & Frisén, 2012; Wood-Barcalow et al., 2010). Nel presente studio, le partecipanti hanno descritto un processo attivo di selezione di canali mediatici che promuovevano dinamicità e accettazione, scegliendo ad esempio programmi TV con personaggi femminili responsabilizzanti e non convenzionali, così come piattaforme di social media che ritenevano consentissero un approccio attivo e critico al materiale, primo tra tutti, Tumblr.

Per ciò che concerne il terzo tema, è stata individuata nelle argomentazioni emerse una concettualizzazione funzionale del corpo. Le giovani donne nello studio hanno infatti descritto i loro corpi come mezzi per compiere azioni fisiche, piuttosto che in termini estetici. Ciò è coerente con altri studi sull’immagine corporea positiva in cui gli adolescenti avevano evidenziato le proprie capacità atletiche (Frisén & Holmqvist, 2010) e di svolgimento di compiti e attività quotidiane (Wood-Barcalow et al., 2010). Alleva e colleghi avevano inoltre scoperto che osservare la salienza della funzionalità del corpo piuttosto che l’estetica può ridurre l’impatto negativo della visione di immagini multimediali rappresentanti irrealistici ideali di magrezza (Alleva et al., 2016).

Il quarto tema riguardava l’identità religiosa e culturale, in quanto aspetti determinanti nella visione body positive per alcune delle partecipanti. Le giovani religiose o con etnie non occidentali si sono spesso riferite al modo in cui queste identità hanno modellato la loro immagine corporea. Questa scoperta dimostra come la religione e la cultura possano influenzare il rapporto che le ragazze hanno con il proprio corpo. Le partecipanti cresciute in paesi orientali, infatti, consideravano la mancanza di media occidentali come vantaggiosa, in quanto limitava la sovraesposizione all’ideale di perfezione. Allo stesso modo, alcune ragazze hanno riportato che la religione aveva contribuito a plasmare la propria immagine corporea positiva. Questo assunto è confermato da altri studi, i quali hanno suggerito che il concreto ruolo della religione è dovuto alla convinzione che le persone siano state appositamente create con certe fattezze, ed in quanto tali, risultino giuste così come sono (Wood-Barcalow et al., 2010). È stato inoltre dimostrato che la sola esposizione a stimoli religiosi possa rafforzare efficacemente sentimenti positivi relativi al proprio corpo (Boyatzis et al., 2007).

In conclusione, questo insieme di risultati evidenzia la natura evolutiva dell’immagine corporea positiva e il nucleare ruolo della presa di consapevolezza critica quando si interagisce con i media. Inoltre, le radici cultural-religiose e il contesto sociale possono contribuire ad instaurare credenze favorevoli al body positive.

 

Pandemia e ritiro sociale in adolescenza: hikikomori – VIDEO dal webinar di Studi Cognitivi L’Aquila

Le misure contenitive messe in atto per la pandemia possono aver rinforzato delle credenze positive sulla possibilità di iniziare a condurre uno stile di vita tipico degli Hikikomori, anche in società culturalmente diverse da quella che ha dato vita a questo fenomeno. Studi Cognitivi L’Aquila ha organizzato un incontro sull’argomento.

 

 I modi di agire e reagire di un individuo non sono casuali, sono acquisiti per imitazione, culturalmente o anche sperimentati casualmente. Anche i comportamenti protettivi rispetto ai dolori della psiche agiscono allo stesso modo, vengono appresi e messi in atto per evitare le situazioni valutate come pericolose, per prevedere e prevenire ciò che si teme o per non sentire il peso dei fallimenti.

In Giappone, le condizioni socio-economiche e determinati aspetti culturali hanno fatto sì che si generasse un fenomeno comportamentale chiamato Hikikomori, un ritiro sociale estremo che viene vissuto esclusivamente nella propria stanza, con le ore notturne solitamente dedicate a componenti tipiche della cultura popolare giapponese (es. visione di “anime”) e il rifiuto per i rapporti interpersonali che avvengono esclusivamente tramite la rete.

 Le nuove abitudini che ci sono state imposte dalla quarantena come l’accesso costante alle piattaforme di streaming, l’uso di PC e consolle, il conseguente distanziamento dalle pressioni lavorative e scolastiche possono aver fatto sperimentare una piacevole sensazione di tranquillità che è terminata con la fine del lockdown. Tutto questo può aver portato a delle credenze positive sulla possibilità di iniziare a condurre uno stile di vita tipico degli Hikikomori anche in società culturalmente diverse da quella che ha dato vita a questo fenomeno.

Ha condotto l’incontro il Dottor Luca Innocenzi – Psicologo Psicoterapeuta. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

PANDEMIA E RITIRO SOCIALE IN ADOLESCENZA: HIKIKOMORI

Guarda il video integrale del webinar:

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Positivo

Se in passato il termine positivo rimandava a qualcosa di piacevole, oggi invece suscita nei più un senso di allarme e pericolo. 

 

L’abituazione rappresenta un processo di apprendimento, il più semplice e il meno dispendioso, in quanto avviene in maniera del tutto inconscia. Attraverso gli studi di Kandel sulla lumaca gigante di mare Aplysia si è scoperta la semplicità di alcune acquisizioni, nonostante, paradossalmente, il nostro sistema nervoso sia complesso. Grazie a questi meccanismi è possibile rispettare quel principio di economia cognitiva, fondamentale per la nostra massa gelatinosa, in quanto impossibilitata a creare una banca dati infinita, per incapacità di spazio e di risorse. Quel principio che garantisce alla specie la sopravvivenza. Anche rispetto a quelli che sono i processi consapevoli vale la stessa identica regola: dopo un primo periodo di prove, guidare diventa un’abitudine, come l’andare in bicicletta o il giocare a tennis. Non solo. Pensiamo alla capacità di crearsi degli schemi mentali che ci permettono ad esempio di studiare più velocemente, di partire da una base sicura per poi ampliare i nostri discorsi, quegli schemi mentali che, se funzionali, migliorano l’efficienza e la performance.

Anche le stesse formule matematiche cercano di rispettare quel principio di semplicità che permette loro di spiegare i meccanismi più arcani e complessi. Dunque una base sicura, che ci dà equilibrio, che ci permette di riposare, che previene e preserva il nostro cervello da possibili blackout. Lo stesso vale per le abitudini e per le associazioni.  Ma cosa accade se ad una abitudine o ad una semplice associazione si impone un cambiamento improvviso? Fino ad un anno e mezzo fa pronunciare l’aggettivo positivo portava il più delle volte ad una rapida e diretta connessione con beneficio, fortuna, vedere il bicchiere mezzo pieno, c’è chi addirittura così scrive in una sua canzone: “Io penso positivo, perché son vivo, perché son vivo”, e, dunque, positivo come fonte primaria di vita. Anche nei tentativi di supporto e sostegno altrui quella parola risuona spesso come incentivo a non mollare, a non arrendersi, a non rinunciare.

Tutto questo fino al giungere di un evento straordinario, la cui particolarità sta nel suo protrarsi nel tempo. Un evento che riesce a bloccare la frenesia del quotidiano, proprio come un freno che fa inchiodare, all’improvviso, e paralizza. Quel Male arriva interrompendo il vortice incessantemente irrequieto della nostra società liquida, quel Male arriva solidificando la qualunque, rendendo più pesanti e lenti perfino quei processi cognitivi più veloci della luce, interrompendo la noiosa, ma stabile routine, la nostra familiare quotidianità. Proviamo in questo momento a pronunciare l’aggettivo positivo, chiedendo alle persone quale meccanismo innesca, sia esso mentale che comportamentale, quale immagine evoca. Io stessa ho partecipato al gioco ed è successo questo: ho pensato immediatamente alle malattie sessualmente trasmissibili, alle droghe, all’alcol, io che ho sempre visto la vita in “maniera positiva”, io che ho sempre visualizzato il mondo con ottimismo e con fiducia. Ho fatto lo stesso inserendo l’aggettivo su Google ed ecco cosa ho visualizzato tra le prime posizioni: positivo al covid, positivo dopo 21 giorni, positivo asintomatico. Questo Male ha modificato e messo in discussione le nostre certezze, ha modificato la prospettiva di visione del mondo. Pronunci positivo e ti dicono di cambiare parola, sorridendo, ma, pensandoci, c’è davvero poco da sorridere: questo Mostro ha stravolto i nostri assetti, agendo anche sui nostri gruppi neuronali che oggi, a quella parola, rispondono allarmati. Cambiano i sistemi delle nostre cellule nervose, cambiano i nostri pensieri, le nostre associazioni, le nostre abitudini. Cambiamo noi. La plasticità cerebrale presenta due facce: una rivolta all’innovazione, all’efficienza, al cambiamento funzionale, l’altra però va dalla parte opposta. Ci condiziona. Ci limita. Ci altera. Lei stessa condizionata, limitata, alterata dal sintomo virale.

 

Benessere e resilienza nella longevità all’epoca del Covid-19 – Report dal XIV Convegno Nazionale di Psicologia dell’Invecchiamento

Il 29 Maggio si è tenuto il Convegno Nazionale organizzato dalla Società Italiana di Psicologia dell’Invecchiamento (SIPI).

 

Anche quest’anno, come il precedente, è stata utilizzata la modalità a distanza tramite la piattaforma Zoom, con la possibilità di scegliere le sessioni tematiche di interesse attraverso la predisposizione di stanze parallele.

La giornata è stata un’occasione di confronto per i professionisti coinvolti a pieno titolo nella gestione pandemica nei servizi per anziani, attraverso la condivisione delle strategie adottate in questo anno faticoso, sia emotivamente che professionalmente. Una condizione, quella pandemica, che ci ha permesso sicuramente di riscoprire la resilienza dei nostri anziani, di valorizzare l’importante contributo degli operatori sanitari nel processo di cura ma anche, e soprattutto, di rivedere e riprogettare l’organizzazione delle residenze.

L’evento si è aperto con i saluti delle autorità tra cui quelli di David Lazzari, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, il quale ha sottolineato la necessità e l’urgenza di una maggiore presenza e rilevanza dello psicologo nell’area dell’invecchiamento.

Interessante è stato indubbiamente l’approccio multidisciplinare adottato, infatti oltre all’intervento di psicologi e psicoterapeuti si è potuto assistere anche a interessanti spunti di riflessione da parte di ingegneri e coach del lavoro. Infine, è stato possibile partecipare a una lectio magistralis tenuta da Alain Koskas, geropsicologo e Presidente della Federazione Internazionale delle Associazioni delle Persone Anziane (FIAPA), con sede a Parigi. Di seguito alcuni dei temi trattati.

Una squadra per la Psicologia dell’Invecchiamento

All’incontro sono intervenuti alcuni dei membri della Consulta di Coordinamento degli Enti di Psicologia dell’Invecchiamento dell’Ordine degli Psicologi del Veneto.

Una prima importante riflessione è stata quella della dott.ssa Cristina Ruaro, psicologa e psicoterapeuta presso il CRIC di Padova. La dottoressa, infatti, ha sottolineato come, nonostante vi sia un drammatico aumento dei casi di diagnosi di demenza giovanile, i servizi per questa tipologia di pazienti sono ancora carenti, con una tendenza a intervenire sul singolo.

La dott.ssa Federica Sandi, psicologa-psicoterapeuta e Consigliera Segretario presso l’Ordine degli Psicologi del Veneto, si è invece soffermata sulla mancata preparazione alla disabilità nei servizi per la terza età.

Impatto della longevità nel mondo del lavoro e passaggio generazionale nelle aziende familiari

Numerosi relatori si sono concentrati sull’importante ruolo ricoperto dagli operatori socio-sanitari durante l’emergenza pandemica, categoria spesso poco considerata e riconosciuta ma che, forse, per la prima volta si è sentita parte indispensabile di un gruppo di lavoro, riscoprendo la necessità di una solida partnership all’interno delle organizzazioni sanitarie. A tal proposito, è stato sottolineato più volte il compito dello psicologo di prendersi cura della triade, ovvero dell’anziano, dei familiari e del personale, gestendo e affrontando gli stress multipli a cui sono stati sottoposti anche questi ultimi.

Ampio spazio, nel corso del Convegno, è stato dato all’impatto della longevità nel mondo del lavoro, sempre più caratterizzato da una densità di over 50 e fenomeni di intergenerazionalità. Questo scenario mette in luce la necessità di interventi strutturati quali strategie di Age Management e attività di mentoring.

Infine, l’ingegnere Claudio Manca, mentore e senior advisor presso Futuro Desiderato s.r.l., si è concentrato sul fenomeno del passaggio generazionale, ovvero quel momento delicato della vita di un’azienda familiare in cui l’imprenditore lascia il posto all’erede, spesso impreparato. Emergono da una parte l’utilità di un allontanamento graduale dell’imprenditore dalle attività aziendali e dall’altra un percorso precostituito di accompagnamento delle nuove leve in azienda.

La reazione emotiva e cognitiva degli anziani nella situazione di stress legata al Covid-19

Nel corso dell’ultimo anno sono state condotte numerose ricerche volte a indagare l’impatto dello stress causato dall’emergenza sanitaria sugli aspetti emotivi e cognitivi degli anziani, sia sani che con decadimento cognitivo.

Dagli studi presentati al Convegno emerge negli anziani sani un maggiore benessere emotivo rispetto ai giovani, confermando ancora una volta la Teoria della Selettività Socio-Emotiva di Carstensen e colleghi (2003).

Nei servizi residenziali, la cessazione delle tipiche attività riabilitative di tipo educativo, fisioterapico e cognitivo ha avuto una forte influenza sulla qualità di vita e sullo stato di salute psico-fisica dei residenti anziani. All’interno delle RSA, infatti, al fine di contenere i contagi e preservare la vita degli ospiti sono state adottate misure di isolamento. I risultati mostrano un peggioramento dello stato cognitivo, della motricità e dell’autonomia degli anziani, sottolineando l’importante contributo delle attività di stimolazione e riabilitazione normalmente proposte.

Discriminazioni e abusi legati all’età

Alain Koskas, geropsicologo e Presidente della FIAPA, ha delineato i principali obiettivi della Federazione e analizzato in particolare gli abusi finanziari, presi solitamente poco in considerazione.

Lo scopo principale della FIAPA è la difesa dei diritti degli anziani attraverso la lotta contro l’ageismo e la prevenzione degli abusi.

Per quanto riguarda le truffe finanziarie, esse costituiscono il 25% del totale dei maltrattamenti verso gli over 65 e il 13% dei casi denunciati in istituto (Koskas et al., 2011).

Risulta quindi indispensabile affrontare il fenomeno attraverso la condivisione di un vocabolario comune e la predisposizione di una formazione specifica per professioni sanitarie, avvocati, forze dell’ordine e cittadinanza stessa, al fine di sensibilizzarli al problema.

 

Un modo lo trovo (2020) di Paola Napoleone – L’esperienza del cancro in chiave narrativa e psicologica

“La vera tenerezza non si confonde con nulla. È silenziosa” (Achmatova, 2020). Titola così, uno dei primi capitoli, l’autrice del libro Un modo lo trovo.

 

Paola Napoleone, psicologa e scrittrice, scrive un romanzo che nasce da un incontro, da una storia vera (solo i nomi sono stati cambiati), e che sembra raccontato sul filo di dimensioni opposte: silenzi e parole, somiglianze e differenze, incertezze e decisioni. La stessa autrice, voce narrante, si reca ad una festa privata in una casa della campagna toscana. Si muove nella festa fra l’allegria e la piacevolezza degli invitati, colpita dal gusto con cui la casa è stata arredata e dal fascino della sua proprietaria, Futura. Anche lei psicologa ma dedita alla gestione di un negozio. Dopo le presentazioni iniziali, la protagonista capisce da una conversazione fra amiche che Futura ha dovuto affrontare il cancro. Pensa, immagina, intuisce che la storia della donna possa diventare romanzo, si rivolge quindi a lei per chiederle di raccontargliela. Crede che a quell’esperienza Futura possa dare una forma attraverso le parole, grazie ad una narrazione degli stati d’animo, della difficoltà delle scelte, delle relazioni che cambiano. Dopo un iniziale rifiuto, la donna le consegna un nutrito numero di fogli sui quali ha scritto come ha vissuto i giorni della malattia. Prima di salutarla lancia in aria i fogli, lasciandoli cadere a terra, in modo scomposto, caotico, disordinato. Senza voler anticipare quella che è la parte successiva del romanzo, la storia si legge d’un fiato, per la nitidezza delle immagini, per la puntualità con cui viene raccontato il crescendo di emozioni che ha caratterizzato alcuni anni di Futura e che caratterizza le giornate della psicologa dal momento in cui sceglie di compiere questa impresa. Sono vicine e lontane, simili e diverse. Se per Futura lo scompiglio è arrivato in seguito alla shock procurato dalla diagnosi, per la scrittrice protagonista del romanzo lo scompiglio è generato dal gesto della donna che sceglie di lanciare in aria i fogli, invitandola così a trovare un senso, un ordine, una forma. Senso che non è solo un susseguirsi di fatti ma anche una trasformazione emotiva e relazionale. “Un modo lo trovo” è un’espressione che sembra aver assunto valore per tutte e due. “Un modo lo trovo” non è solo un bel romanzo ma anche un testo che allude a quelle che sono alcune fra le tematiche più significative per chi si occupa di psiconcologia: la reazione dei familiari alla diagnosi, le strategie di coping, la qualità della comunicazione medico-paziente.

La reazione dei familiari alla diagnosi. La diagnosi di cancro ha una ricaduta significativa su tutti i componenti del nucleo familiare. Se è lecito parlare di “shock” in riferimento ai vissuti della persona che riceve la diagnosi, anche lo stato d’animo dei familiari non si colloca molto lontano. Il padre, la madre, il fratello, il figlio del paziente immagina un periodo di cura, oltre che una fase della vita in cui si ha più difficoltà ad anticipare e a controllare gli eventi. Spesso cambia il modo di comportarsi all’interno del nucleo familiare. Si assiste ad un intreccio e ad un riaggiustamento delle relazioni che ha come protagonisti: le emozioni, l’espressione delle stesse attraverso azioni o parole, la scelta di comunicare o meno e a chi i propri pensieri e i propri stati d’animo, talvolta una ridefinizione dei ruoli (alcuni familiari potrebbero diventare ad esempio, molto protettivi). L’ascolto della propria esperienza interiore rispetto ad un susseguirsi di eventi spesso rapido e imprevedibile, la scelta di condividere le proprie preoccupazioni all’interno di relazioni accoglienti e poco minacciose, e la possibilità di conservare delle attività che permettano una piena concentrazione nell’attività stessa fuori da dimensioni legate alla preoccupazione, sembrano soluzioni in grado di offrire una buona percorribilità nella gestione dell’evento, per i familiari del paziente. Futura rivolge le sue riflessioni all’esperienza del figlio. Non sa e non riesce a capire cosa stia provando. Lo osserva, immagina in che modo la propria malattia possa metterlo in difficoltà, si chiede se il ragazzo, futuro medico, potrà in qualche modo fare tesoro nella sua professione, del racconto della madre.

Le strategie di coping costituiscono delle modalità messe in atto da una persona per affrontare un evento. Si tratta di strategie che permettono di far fronte ai problemi, come una malattia, conflitti e altre tipologie di difficoltà. Considerato che l’elaborazione della malattia nel susseguirsi degli eventi e rispetto alle trasformazioni fisiche e relazionali, è un processo di lunga durata, talvolta osserviamo fasi diverse anche in relazione ad uno stesso individuo ed è difficile individuare sempre un unico stile di coping. Per questo preferisco parlare di dimensioni coinvolte nel processo di elaborazione e gestione dell’evento malattia che possono essere più o meno presenti e intrecciarsi in modo diverso:

  • Cercare di non pensare al problema, di non ascoltare le emozioni ad esso collegate
  • Impegnarsi nel lavoro
  • Coltivare passioni
  • Condividere/non condividere con gli altri l’esperienza
  • Esprimere/non esprimere le emozioni
  • Ricercare soluzioni per gestire la malattia e le conseguenze della malattia
  • Fiducia/sfiducia nelle proprie capacità di gestione
  • Senso di impotenza
  • Ascoltare i propri vissuti
  • Nutrire un buon livello di speranza
  • Cercare nella difficoltà una nuova opportunità
  • Chiedere aiuto

Le dimensioni coinvolte e la strategia di coping cambiano sulla base del livello di minaccia percepito, dell’età, del momento di vita, delle caratteristiche di personalità, della situazione occupazionale, della qualità del sistema di relazioni in cui si vive. La strategia di coping, la modalità di elaborazione della malattia narrata nel romanzo è descritta in modo così puntuale, articolato, sfumato che è difficile da definire in poche frasi. Futura frequenta familiari e amici, talvolta invece si affida alla solitudine della casa e all’ascolto di alcune canzoni. Dai Queen a Malika Ayane, da Elton John a Battiato, l’elenco delle canzoni ascoltate sembra tratteggiare con ulteriore chiarezza il passaggio da uno stato d’animo all’altro dentro un’esperienza difficile da vivere e da raccontare, ma che assume anche  un valore di trasformazione del proprio modo di percepire sé e il mondo.

La qualità della comunicazione medico – paziente. Futura descrive l’oncologo come una donna solare e accogliente, chiara nelle comunicazioni, combattiva e determinata nella cura del cancro. Si sente protetta e rassicurata dalle modalità di cura del medico. L’oncologo ha un ruolo complesso non solo sul piano medico. Negli ultimi decenni la letteratura (Biondi M., Costantini A., Wise T.N., 2014), ma anche la formazione e la pratica medica, si sono concentrate molto sulla qualità della relazione medico-paziente. L’oncologo ha due obiettivi  sul piano relazionale: favorire quella che viene definita la “compliance” al trattamento, creare e mantenere un buon rapporto con il suo assistito. Anche se la traduzione letterale di “compliance” corrisponde al significato di “conformità”, “aderenza” al trattamento, il ruolo del paziente nella medicina moderna è sempre più vicino a quello di un soggetto attivo, consapevole e partecipe. Al medico sono richieste capacità di empatia, chiarezza e disponibilità di tempo rispetto ai processi di comunicazione ma anche la capacità di leggere alcune transizioni psicologiche che accompagnano gli stati d’animo del paziente nei vari passaggi della terapia. La corretta interpretazione dei processi psichici del paziente non lo porterà necessariamente a parlarne in modo esplicito ma guiderà l’aspetto relazionale della cura. Nel caso in cui il medico riscontri stati d’ansia, potrà spiegare con maggiore chiarezza quali sono gli step che il paziente deve affrontare e favorire l’emergere di dubbi, domande, motivi che spiegano l’ansia. Molto spesso i pazienti a cui viene fatta una diagnosi di cancro provano forti sentimenti di minaccia rispetto all’esperienza futura, perché immaginano cambiamenti significativi sul piano della percezione del corpo, del tempo, dal punto di vista relazionale, lavorativo e sociale. Se l’oncologo avverte significativi stati di minaccia, può canalizzare la comunicazione verso tutti gli aspetti di continuità della vita del paziente e sottolineare, laddove sia possibile, quali sono i tempi previsti o ipotizzati circa il superamento dei vari passaggi (test diagnostici, interventi, terapie, possibili effetti collaterali) necessari alla cura. La diagnosi iniziale comporta in alcuni pazienti atteggiamenti di difesa e di negazione rispetto alla portata dell’evento. Come se ci fosse una costrizione sull’esperienza. In questo caso il medico dovrà cercare una non facile ortogonalità fra la possibilità di favorire una compliance al trattamento e quella di mostrarsi empatico nei confronti dei tentativi di difesa del paziente, dando però la priorità alla necessità che il paziente si confronti con tutti i passaggi necessari al trattamento. In ogni caso l’oncologo cercherà di stringere un’alleanza con il paziente e con la sua capacità di esercitare uno spirito combattivo nei confronti della malattia, ancorandosi al senso di autoefficacia, alle capacità di collaborazione e di risoluzione dei problemi del suo cliente, validando e supportando nel corso degli incontri tutti quegli aspetti  della conversazione volti in questa direzione.

 

Meta-analisi dei trattamenti psicologici: possibili implicazioni metodologiche e conseguenze sull’attendibilità del dato

Nonostante l’obiettivo per cui la meta-analisi nasce sia proprio superare i limiti di ciascun studio singolo, spesso si verifica un effetto iatrogeno secondo cui alcuni limiti metodologici non solo non vengono superati, ma addirittura esacerbati: se ne aggiungono ulteriori e spesso ancora più ostici.

 

 La meta-analisi è una tecnica clinico-statistica finalizzata a integrare i risultati generati da molteplici studi clinici, con l’obiettivo di ottenere un indice quantitativo attendibile, che possa trascendere i limiti intrinseci degli studi singoli. Tale ‘studio degli studi’ combina i risultati generati da differenti studi singoli, al fine di incrementare la numerosità campionaria complessiva e la relativa potenza statistica; per poter auspicare a conclusioni teoricamente più attendibili rispetto a quelle raggiunte da uno studio singolo (Dalle Grave & Calugi, 2019). Nonostante l’obiettivo per cui la meta-analisi nasce sia proprio superare i limiti di ciascun studio singolo, spesso si verifica un effetto iatrogeno secondo cui alcuni limiti metodologici non solo non vengono superati, ma addirittura esacerbati: se ne aggiungono ulteriori e spesso ancora più ostici.

Le meta-analisi possono, infatti, essere considerate attendibili e aderenti al dato soltanto quando includono studi di alta qualità con omogeneità campionaria e metodi di studi analoghi; sono, invece, frequenti casi di eclettismo metodologico che conducono a conclusioni clinicamente non significative, specialmente in ambito psicologico e psicoterapico (Barnard, Willett, & Ding, 2017). Nonostante ciò, le meta-analisi continuano a essere considerate come la tecnica di ricerca più autorevole e d’elezione per l’analisi della letteratura concernente la psicologia e la psicoterapia, al punto tale da influenzare le linee guida sanitarie internazionali (Dalle Grave & Calugi, 2019).

Generalmente la problematica più ostica si verifica nel momento in cui all’interno di una meta-analisi si presenta un’eccessiva varietà d’inclusione degli studi: estrema eterogeneità nei metodi, inclusione di campioni eterogenei, somministrazione di trattamenti disomogenei, ma raggruppati nella medesima categoria. Nell’ambito dei disturbi alimentari, ad esempio, una meta-analisi ha inglobato studi fortemente sottodimensionati per poter rilevare una significatività clinica e ha raggruppato format eterogenei di terapia cognitivo-comportamentale (Kraemer & Blasey, 2015). Un’altra, invece, ha incluso in un’unica categoria trattamenti eterogenei per l’anoressia nervosa, combinando campioni con target d’età adulto e adolescenziale; nonostante sia ormai noto in letteratura che gli adolescenti tendenzialmente manifestano una migliore risposta al trattamento rispetto agli adulti (Calugi, Dalle Grave, Sartirana & Fairburn, 2015), adoperando differenti misure di outcome e tempi di esito non omogenei (Murray, Quintana, Loeb, Grifths, & Le Grange, 2019). La diretta conseguenza è che entrambe le meta-analisi non hanno rilevato differenze significative nell’esito dei diversi trattamenti (van den Berg et al., 2019). Vengono di seguito riportati alcuni dei limiti metodologici più frequentemente riscontrati nelle meta-analisi: bassa potenza statistica (Byrne et al., 2017), scarsa validità interna e implementazione del trattamento psicologico non accurata (Zipfel et al., 2014), misure di outcome e tempi di misurazione eterogenei (Lock, Kraemer, Jo, & Couturier, 2018) e infine poca chiarezza sulla definizione di drop-out, come ad esempio l’inclusione di pazienti ospedalizzati durante la psicoterapia (Lock et al., 2010; Zipfel et al., 2014). In tali casistiche l’esito comporta spesso risultati inattendibili, come ad esempio riscontrare la medesima efficacia in tutti i trattamenti analizzati (Grenon et al., 2018); senza alcun criterio evidence-based per poterlo affermare.

 Le meta-analisi imprecise, che affermano ugual efficacia delle terapie psicologiche oggetto d’analisi, conducono a due conseguenze potenzialmente iatrogene: 1) la credenza erronea secondo cui non sarebbe poi così vantaggioso ricercare e intraprendere trattamenti evidence-based 2) la riduzione del desiderio dei clinici di apprendere e implementare modelli teorici e clinici evidence-based (Lock, Kraemer, Jo & Couturier, 2018). Le meta-analisi possono, dunque, continuare a essere uno strumento di ricerca autorevole, al fine di far progredire la ricerca sui trattamenti psicologici e psicoterapici; a patto che venga garantita una certa precisione metodologica e aderenza al dato effettivo.

Spesso alcune meta-analisi combinano studi con campioni e metodi estremamente eterogenei, perdendo così i reali effetti dei singoli studi; per la semplice spiegazione teorica secondo cui una maggiore numerosità di studi assemblati implicherebbe una popolazione più ampia e un conseguente maggior potere statistico. In questo modo il rischio sarebbe quello di inficiare la differenziazione dei reali gradi di efficacia di ciascun trattamento analizzato: trattamenti non realmente superiori (o inferiori) figurerebbero come tali (Dalle Grave & Calugi, 2019). Considerato il potere intrinseco delle meta-analisi di poter influenzare la politica sanitaria e l’attività clinica, viene di seguito presentano un vademecum di suggerimenti per poter garantire una certa solidità metodologica (Barnard et al., 2017):

  • 1) implementare una revisione da parte di esperti sul tema e sulla progettazione di una meta-analisi
  • 2) richiedere agli autori della meta-analisi di confrontarsi con gli autori dei singoli studi per garantire una corretta rappresentazione dei dati
  • 3) chiedere agli autori della meta-analisi di condividere i metodi e la sintesi dei dati
  • 4) includere i dati originali dello studio, non soltanto il dato di sintesi pubblicato
  • 5) creare un sistema di monitoraggio dei conflitti d’interesse tra i ricercatori coinvolti nelle meta-analisi, al fine di arginarli.

In sintesi, alla luce di quanto riportato, risulta necessario e doveroso aggiornare le linee guida esistenti (Moher, Liberati, Tetzlaff, & Altman, 2009), con l’obiettivo di trascendere i limiti emersi nelle revisioni di meta-analisi riguardanti i trattamenti psicologici; infine, potrebbe risultare utile avviare corsi di formazione ad hoc per ricercatori e giornalisti scientifici, affinché possa avvenire una divulgazione accurata delle revisioni dei trattamenti psicologici (Dalle Grave & Calugi, 2019).

 

Programma di prevenzione primaria e secondaria dei Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione: attività conoscitive e di sensibilizzazione in tempo di COVID-19 – Comunicato stampa

Comunicato stampa

Al via il Progetto annuale promosso dall’Associazione Voci dell’Anima e finanziato con il contributo della Fondazione di Sardegna

 

 L’Istituto Superiore di Sanità ha recentemente evidenziato come l’emergenza da COVID-19 abbia determinato un aumentato rischio di ricaduta e peggioramento dei Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione (DCA), un maggiore rischio di infezione da COVID-19 nelle persone con DCA e l’aumento della mortalità e della diffusione del disturbo (nuovi casi).

Nell’ottica di promuovere azioni efficaci di promozione del benessere e di prevenzione primaria e secondaria, che contribuiscano a contenere la diffusione del disturbo, l’Associazione Voci dell’Anima in partenariato con Consult@noi, Food For Mind, Ordine degli Psicologi della Sardegna, Casa Emmaus, Ananke, Acli di Cagliari, SIRIDAP, Canne al Vento, Il Gesto Interiore e Cittadinanza Attiva avvia il progetto Programma di prevenzione primaria e secondaria dei Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione: attività conoscitive e di sensibilizzazione in tempo di COVID-19, che sarà realizzato con il contributo della Fondazione di Sardegna e sponsorizzato da Assiprofessioni di Roberto Pisano e UnipolSai di Carlo Putzolu.

Il progetto prevede le seguenti azioni:

  • Attivazione di uno sportello d’ascolto gratuito psicologico e nutrizionale, aperto a tutta la popolazione sarda, con finalità di ascolto, prevenzione e promozione del benessere psico-fisico.
  • Realizzazione di Seminari pubblici di natura informativa, divulgativa e di prevenzione primaria e secondaria sui DCA, gratuiti e aperti a tutta la popolazione, che saranno realizzati in modalità webinar.
  • Avvio di una indagine anonima rivolta ad un campione della popolazione regionale tra i 18 e i 60 anni, finalizzata ad esplorare in che modo l’emergenza da Covid-19 (e le conseguenti misure restrittive e di isolamento previste dalle disposizioni ministeriali e regionali) abbia e stia tutt’ora influenzando le abitudini alimentari, il rapporto con il cibo, il corpo e la propria immagine, gli stili di vita e i livelli di stress della popolazione sarda.

 Il progetto permetterà di sensibilizzare la popolazione sul tema dei DCA, contrastando gli stereotipi e diffondendo conoscenze puntuali e aggiornate sulla complessità del disturbo e sulle modalità di gestione e trattamento dello stesso. L’indagine anonima consentirà di raccogliere dati utili al fine di strutturare programmi di prevenzione e cura che rispondano con maggiore efficienza ai bisogni della popolazione.

Per ricevere maggiori informazioni sul progetto, per accedere allo sportello d’ascolto e per partecipare ai seminari tematici e all’indagine anonima è possibile rivolgersi ai seguenti contatti:

Associazione Voci dell’Anima:

La ‘ricerca’ del lavoro passa da se stessi

Il contesto lavorativo odierno è sempre più complesso, risulta quindi sempre più vantaggioso individuare le variabili personali coinvolte nelle varie fasi dell’esperienza di lavoro. Infatti, oggi più che mai, occorre fare affidamento sulle qualità e potenzialità di ciascuno, cercando di sviluppare le capacità resilienti laddove sono carenti.

 

Introduzione

 Com’è noto il lavoro ha una funzione fondamentale nella vita delle persone e generalmente non è finalizzato soltanto al guadagno. Alla domanda su cosa farebbero se vincessero alla lotteria una somma sufficiente per vivere (lottery question), due persone su tre hanno risposto che continuerebbero a lavorare (Sarchelli G. e Fraccaroli F. 2010).

Alcuni autori parlano di un ‘Sé professionale’ per spiegare come l’attività lavorativa svolga un ruolo centrale nella vita dell’individuo e contribuisca a una maggiore definizione dal punto di vista sociale e personale (Fabbri e Rossi, 2001).

Tuttavia, seppure il lavoro ha la centralità descritta, ormai sempre più spesso può essere anche fonte di preoccupazione e stress. Per molte persone, infatti, il lavoro rappresenta qualcosa di incerto, di provvisorio, di discontinuo; anche quando è presente può terminare da un momento all’altro sia per il tipo di contratto, sia per le possibili crisi o cambiamenti che possono investire le organizzazioni dove si lavora. Inoltre, tutte le forme atipiche e flessibili di lavoro possono influire sullo stato emotivo del lavoratore creando instabilità e incertezza per il futuro, difficoltà a fare progetti di vita (per esempio matrimonio, figli, investimenti nell’acquisto della casa).

In relazione al quadro descritto possiamo dire che nella nostra Società è diventato sempre più difficile costruire un’identità professionale abbastanza stabile; infatti di frequente è richiesto alle persone di essere ‘flessibili’ per potersi adattare a ruoli e mansioni che vengono ‘imposte’ dalle logiche economiche del mercato del lavoro. A ulteriore conferma del nesso tra lavoro e aspetti emotivi, diversi studi hanno messo in luce come l’insicurezza lavorativa influisce negativamente sulla salute psicologica e fisica, pesando sul livello di soddisfazione e sul coinvolgimento lavorativo (Cheng e Chan, 2008).

A tutte le criticità citate va necessariamente aggiunto un richiamo all’emergenza coronavirus che ha generato allarme non solo a livello sanitario ma anche economico e sociale; la pandemia inevitabilmente sta avendo un forte impatto sul mercato del lavoro e complica ulteriormente il quadro già da tempo in grande crisi, specialmente in alcuni settori.

Considerando la complessità del contesto del lavoro si ritiene possa risultare vantaggioso individuare le variabili personali coinvolte nelle varie fasi dell’esperienza lavorativa. Infatti, oggi più che mai, occorre fare affidamento sulle qualità e potenzialità di ciascuno, cercando di sviluppare le capacità resilienti laddove sono carenti.

Nel presente articolo, come evidenzia già il titolo, viene messo al centro l’individuo. Per farlo si cercherà di parlare di alcuni aspetti che possono facilitare o ostacolare la messa in campo delle risorse personali. La parola ricerca nel titolo fa riferimento a varie accezioni: ricerca di crescita professionale, ricerca di un inserimento del mondo del lavoro e/o di una ricollocazione, o riqualificazione. Ma principalmente si farà riferimento a una ricerca che parte da sé, dalla possibilità di riflettere sul proprio modo di affrontare la ‘questione lavorativa’, anche a livello emotivo.

Attribuzione interna e esterna

É osservazione comune che non tutti reagiscono allo stesso modo nelle situazioni critiche. C’è chi tende più facilmente a scoraggiarsi e a temere il fallimento e chi invece, pur consapevole delle difficoltà, riesce a mantenere un impegno costante e proattivo senza farsi fermare quando le cose non vanno bene. È evidente che questi due stili descritti nascono da modi diversi di sentire e valutare le situazioni e portano a modi di agire differenti.

Il Locus of control (Rotter, 1996) fa riferimento al diverso grado di controllo che i soggetti sentono di avere sulle situazioni. Quindi potremmo dire che nel locus of control esterno  le motivazioni identificate per spiegare la mancanza del lavoro, o una situazione lavorativa insoddisfacente, sono molto orientate all’individuazione di fattori ostacolanti esterni: ingiustizie, la fortuna o il caso, mancanza di offerte, crisi economica, eccetera; mentre nel locus of control interno l’attenzione è prima di tutto orientata a capire quali azioni si potrebbero mettere in atto per far fronte alle difficoltà incontrate. Nel primo caso, pertanto, il soggetto potrà più facilmente farsi l’idea che la soluzione deve venire dall’esterno; e questa convinzione può portare a un atteggiamento più orientato in modo passivo. Mentre nel secondo caso, senza necessariamente escludere il peso dei fattori esterni, è come se il soggetto si sentisse in grado di poter modificare la situazione, come se la soluzione dipendesse anche da lui, da quello che fa o non fa. E questo atteggiamento, generalmente, permette alla persona di sentirsi più attiva, di percepire un maggior controllo, appunto, sulla situazione.

Mindset statico e mindset dinamico

Per articolare la riflessione sull’argomento può essere di aiuto la teoria sul mindset statico e dinamico elaborata da Carol Dweck, docente di psicologia presso la Stanford University.

Per la Dweck le credenze che adottiamo riguardo a noi stessi influenzano profondamente il modo in cui gestiamo la nostra vita. Da queste dipende la possibilità di diventare la persona che si vorrebbe essere e di ottenere le cose a cui si attribuisce importanza. Non è solo questione di DNA e di predisposizioni individuali perché grazie alla forma mentis è possibile influire sulle proprie capacità attuali e future.

Questa posizione non vuol dire che tutti possono realizzare tutto, e che chiunque impegnandosi possa diventare Einstein o Beethoven, ma, spiega la studiosa:

[…] sono convinta che il vero potenziale di una persona sia sconosciuto (e non conoscibile), che sia impossibile prevedere quali potranno essere i risultati ottenibili con anni di passione, fatica e formazione. (Dweck, 2017)

Le osservazioni della ricercatrice hanno portato a rilevare come coloro che sono caratterizzati dal mindset statico più facilmente cercheranno nelle diverse situazioni la conferma delle proprie capacità ponendosi domande del tipo: ce la farò o fallirò? Farò la figura di quello intelligente o del mediocre? Verrò accettato o rifiutato? Pertanto, l’attenzione è molto focalizzata sull’importanza di dimostrare di essere capaci e apprezzabili e dal timore di non riuscire nell’intento; in sostanza possiamo dire che questi soggetti sentono di dover dimostrare sempre qualcosa e che qualora non avessero successo temono di andare incontro a un giudizio negativo da parte degli altri o di se stessi.

Il mindset dinamico si fonda invece sulla convinzione che le qualità di base possano essere coltivate ed accresciute con l’impegno. Un punto importante che caratterizza chi ha l’atteggiamento descritto è la ricerca di nuove strategie quando quelle utilizzate non si rivelano adeguate. Chi possiede questa forma mentis è meno preoccupato di dimostrare di essere capace ed è maggiormente orientato ad apprendere. Più facilmente, se anche non riesce in un’attività, penserà di poter migliorare impegnandosi di più.

I soggetti che hanno un mindset dinamico riescono ad affrontare meglio le sfide e riconoscono la gradualità del processo di apprendimento; questo diverso atteggiamento permette di non entrare in ansia se non si riesce a risolvere con facilità un compito e di non sentire un eventuale errore come una minaccia alla propria autostima.

Mentre chi possiede una forma mentis statica si aspetta che le capacità verranno fuori da sole, prima che abbia luogo un vero processo di apprendimento e questo accade proprio perché in qualche modo queste vengono considerate come innate e non come un potenziale da sviluppare.

La studiosa racconta come lei stessa fosse stata educata al mindset statico fin dall’infanzia e come già da bambina cercasse sempre di dimostrare di essere brillante. In un secondo momento anche una sua insegnante contribuì a rinforzare la modalità appresa; in effetti i docenti possono favorire tale atteggiamento se sollecitano gli studenti a mostrarsi intelligenti e capaci piuttosto che a provare piacere nell’apprendere.

Un ruolo ugualmente importante, per la Dweck, viene svolto dall’atteggiamento dei genitori che attraverso il modo con cui incoraggiano i bambini finiscono per influire sullo sviluppo del tipo di forma mentis. Per esempio, rassicurare i bambini sulla loro intelligenza e sul loro talento può essere controproducente perché non mette l’attenzione sul processo di apprendimento ma sul risultato. Quando vengono lodati spesso i figli possono entrare in ansia, in occasione di esami o altre prove, perché temono la valutazione e sono preoccupati di dover mantenere un livello alto nei voi e giudizi; inoltre se si sentono ripetere di frequente che sono bravi e capaci, possono aver paura di deludere le aspettative dei familiari (Dweck, 2008).

Per la studiosa

Sebbene le persone differiscano tra loro in mille modi – talenti e attitudini iniziali, interessi, temperamento – ognuna di esse ha la possibilità di cambiare e di crescere attraverso l’applicazione e l’esperienza. (Dweck, 2017)

Per dimostrare come insuccessi nella carriera non siano necessariamente indicativi di mancanza di talento e non vadano considerati predittivi per il proprio futuro cita alcuni noti personaggi appartenenti a diversi ambiti: Ben Hagan noto golfista, che da bambino era totalmente scoordinato, la fotografa Cindy Sherman, che era stata bocciata al suo primo corso di fotografia e l’attrice Geraldine Page, a cui fu sconsigliato di intraprendere la carriera cinematografica perché non aveva la stoffa.

Molte delle ricerche sull’argomento sono state condotte a partire dall’osservazione del modo diverso in cui gli studenti reagiscono a compiti difficili. È stato inoltre notato che il mindset statico e dinamico si formano fin da piccoli e tendono a perdurare se non intervengono fattori nuovi in grado di modificare la convinzione maturata. Secondo la Dweck i mindset possono influenzare non solo il percorso scolastico, ma anche gli altri ambiti della vita come quello professionale, sociale e anche affettivo.

In merito a quanto detto è importante segnalare che i soggetti che hanno un mindset statico tenderebbero a scoraggiarsi in particolare quando non riescono in qualche attività, se per esempio vanno incontro a un fallimento o a un insuccesso; mentre possono sentirsi stimabili e apprezzati, mostrando quindi una buona autostima, quando ottengono dei successi. La differenza con coloro che hanno un mindset dinamico si manifesta proprio quando si incontrano degli ostacoli perché più facilmente questi saranno in grado, nonostante tutto, di impegnarsi nell’affrontare i problemi incontrati senza avere importanti ripercussioni sull’autostima; riescono, pertanto, a mantenere una fiducia nella possibilità di riuscire a risolvere le difficoltà che di volta in volta si presentano.

Mindset e lavoro

 Un breve esempio può essere utile ad esemplificare: un manager cinquantenne con una brillante carriera, fino a quando vengono concordate le sue dimissioni perché l’azienda deve mettere in atto una riorganizzazione. Inizialmente l’uscita dall’azienda viene vissuta bene perché rappresenta un’opportunità di cambiamento. Ma quando incontra difficoltà nel trovare una ricollocazione, sembrano emergere atteggiamenti e sentimenti riconducibili al mindset di tipo statico. Nonostante il curriculum ricco di esperienze significative comincia a prendere forma un senso di vergogna e sfiducia che porta il manager a ridurre il suo impegno nella ricerca.

L’intervento focalizzato sul problema lavorativo ha permesso al dirigente di comprendere come la sua lettura dell’esperienza non gli aveva creato problemi finché era andato tutto bene e aveva ricevuto apprezzamenti circa le sue capacità; invece, nel momento in cui le conferme a cui era abituato sono venute a mancare, e anzi bisognava fare i conti con la delusione prodotta dalle risposte negative alla sua candidatura, o addirittura dall’effetto che gli faceva non ricevere nessuna risposta, il suo senso di sé ne ha risentito portandolo a un atteggiamento di ‘ritiro’ e di tipo depressivo. In pratica il manager non riusciva a fare una valutazione obiettiva delle sue esperienze professionali e quindi del valore che avrebbero potuto avere ancora per le Aziende; la sua valutazione ormai era influenzata dal suo stato emotivo. Si trattava quindi di cambiare prospettiva sia su di sé che sul contesto aziendale. Una volta messo a fuoco come si sentiva nella nuova fase della sua vita, il manager è riuscito a riprendere la ricerca di un’attività con maggiore fiducia, senza leggere ogni contrarietà come prova dell’impossibilità di ricollocarsi.

Un altro esempio altrettanto utile ad esemplificare può essere rappresentato da una giovane insegnante della scuola primaria che non sentendosi in grado di lavorare ha dovuto prendere lunghi periodi di malattia. La ragazza aveva uno stile di personalità per cui già in altre occasioni stressanti aveva reagito con una flessione dell’umore; ma in questo frangente è stato possibile ricostruire gli eventi che le avevano creato il forte disagio, con conseguente demotivazione: le era stata assegnata una classe frequentata da diversi alunni impegnativi dal punto di vista relazionale e lei non si sentiva assolutamente in grado di gestirla. Inoltre, l’insegnante si aspettava che le sarebbero state assegnate delle classi più tranquille, e quindi ha vissuto l’incarico come una mancanza di considerazione e rispetto nei suoi confronti. Una volta messi a fuoco i diversi passaggi la ragazza ha capito che insegnare in una classe più impegnativa poteva rivelarsi una sfida interessante e che tutto sommato si sentiva in grado di affrontare la sfida. Inoltre, la decisione della direttrice che inizialmente era stata percepita come una mancanza di considerazione, come se questa avesse voluto favorire altri colleghi, in un secondo momento è stata letta come possibile espressione di un atto di fiducia. Anche in questo esempio sembrano emergere delle convinzioni riconducibili al mindset statico, che possono aver contribuito a uno stato di scoraggiamento e sfiducia.

Poiché il focus è posto sul modo con cui ciascuno si spiega le difficoltà che incontra a vario titolo nell’interfacciarsi con il contesto lavorativo, e non sulle criticità che presenta quest’ultimo, tale approccio può essere vantaggioso in qualsiasi settore del lavoro. L’intento, infatti, è quello di individuare il ruolo svolto dalle variabili emotive.

E tuttavia, le diverse sfaccettature della personalità di un individuo sono un tema molto complesso e difficilmente riconducibile alla teoria del mindset. Ma quest’ultima può essere utile per individuare in modo abbastanza rapido i meccanismi che portano a risposte di sfiducia e scoraggiamento nel contesto lavorativo.

Infatti, possiamo immaginare che coloro che hanno una concezione riconducibile a un mindset statico potrebbero sentirsi più facilmente preoccupati trovandosi nella necessità di cercare lavoro, in particolare se questo dovesse accadere in seguito a un licenziamento. Ma anche chi si trovasse alla prima esperienza lavorativa potrebbe scoraggiarsi nel dover affrontare le frequenti delusioni che si verificano nella fase di ricerca delle offerte. I soggetti con un mindset statico, quando si verifica una situazione percepita come fallimento, possono avere maggiori ripercussioni a livello dell’autostima e più facilmente possono andare incontro a stati depressivi.

La Dweck precisa che le persone con una forma mentis statica non hanno necessariamente poca fiducia in se stessi,

[…] almeno prima dell’irrompere di un determinato evento nella loro vita. (Dweck, 2017)

Tuttavia, la loro fiducia di fronte a delle sconfitte è più fragile e in seguito riescono più difficilmente a mettere in campo l’impegno necessario per raggiungere un obiettivo.

La studiosa cita una ricerca svolta da Joseph Martocchio che riguarda i dipendenti di un’azienda che dovevano seguire un corso di formazione di informatica per il quale era stato spiegato che si trattava di apprendere alcune abilità con il computer che si sarebbero potute sviluppare ulteriormente con la pratica.

Alcuni degli impiegati presentavano un mindset statico e altri dinamico, ma tutti avevano analoghe competenze dal punto di vista informatico.

I partecipanti con mindset dinamico mostravano tuttavia di credere sempre più nelle proprie capacità via via che imparavano, malgrado i numerosi errori che inevitabilmente commettevano. Al contrario, proprio a causa di quegli errori, coloro che avevano un mindset statico di fatto perdevano fiducia nelle proprie capacità via via che imparavano! (Dweck, 2017)

La diversa risposta al corso di formazione esemplifica bene come alcune credenze su come andrebbe affrontato un compito nuovo, per esempio imparando subito, possano condizionare il comportamento e influire sul modo in cui si cerca di raggiungere un obiettivo.

Rimane però aperta la domanda circa le condizioni che portano a sviluppare un mindset piuttosto che l’altro e che incidono sulle eventuali modifiche successive.

Stili di attaccamento e mindset

Un contributo per comprendere quali esperienze possono condurre a sviluppare un determinato mindset potrebbe fornirlo la teoria dell’attaccamento nella sua concettualizzazione classica di Bowlby e Ainsworth e il successivo contributo fornito dall’inquadramento postrazionalista elaborato da Vittorio F. Guidano. Per quest’ultimo le dimensioni sicuro/insicuro sono trasversali ai diversi stili di attaccamento che si articolano lungo un continuum che va dall’attaccamento sicuro al disorganizzato e pertanto non costituiscono una categoria a sé (Guidano 2007).

Alla luce di questa teoria potremmo ipotizzare che coloro che hanno sviluppato uno stile di attaccamento sul versante sicuro, avranno maggiori possibilità di sviluppare un mindset dinamico. Infatti i bambini che fanno l’esperienza di una base sicura sentono di poter esplorare l’ambiente con maggiore tranquillità e di conseguenza faranno una gamma di esperienze più ricca. Connesso alle presenza di una base sicura l’acquisizione di un’adeguata capacità di riconoscere le emozioni e di regolare gli stati emotivi. Aspetti che sembrano correlabili alle caratteristiche descritte dalla Dweeck per il mindset dinamico.

Plausibilmente le caratteristiche descritte, se saranno confermate nelle successive fasi della crescita, una volta adulti permetteranno di muoversi in modo sicuro anche nel contesto lavorativo, e di poter affrontare i momenti critici che di volta dovessero presentarsi, con una maggiore fiducia nella possibilità di superarli.

Com’è noto lo stile di attaccamento può essere suscettibile di una sorta di riorganizzazione nel corso delle diverse fasi della vita, grazie a sollecitazioni prodotte da nuove relazioni e da nuove esperienze.

Poiché il lavoro ricopre un ruolo di rilievo nell’equilibrio personale, anche gli eventi che si verificano in questo ambito potrebbero in qualche modo contribuire a modificare alcune componenti dello stile di attaccamento e viceversa.

Cambiamenti importanti nell’esperienza immediata e nella coerenza del significato personale si susseguono […]. Nessun momento specifico del ciclo di vita individuale può, pertanto, essere identificato come quello in cui si sia acquisita una comprensione ultima ed esaustiva, così come non è possibile individuare […] l’esistenza di un equilibrio “giusto” o “ottimale”, o di qualsiasi altra cosa che possa suggerire il raggiungimento di uno stadio definitivo di “maturità. (Guidano 1992)

L’individuo quindi è potenzialmente in grado di andare incontro ad evoluzioni dinamiche e a trasformazioni. Ma talvolta se un grave contrattempo (come per esempio la perdita del lavoro) viene vissuto come espressione di una propria carenza, può portare a una sorta di blocco e demotivazione. Tanto più il soggetto sentirà che le difficoltà sono dovute, per esempio, a una sua inadeguatezza e tanto più se ne potrebbe sentire condizionato a causa dei vissuti emotivi negativi che ne derivano. In questa evenienza si può creare un sovraccarico di stress, determinato da preoccupazioni economiche, difficoltà a cercare lavoro e sfiducia. L’insieme di questi elementi può portare a un malessere psicologico e rischia di generare un circolo vizioso che, se non interrotto, può anche portare a stati depressivi.

Sia la teoria del mindset della Dweck, che la teoria dell’attaccamento possono aiutare a individuare delle modalità per supportare processi di evoluzione e crescita delle persone, pur operando a un livello diverso. Considerare lo stile di attaccamento implicherebbe agire anche sulle esperienze emotive che portano a determinate spiegazioni su di sé, mentre intervenendo sul mindset si agirebbe a livello delle credenze per cercare di modificarle.

Conclusioni

In un momento di grave difficoltà come quello attuale, con la pandemia che ha inevitabili e gravi ripercussioni sul contesto lavorativo, diventa ancora più importante provare ad investire al massimo sulle potenzialità e risorse delle persone. Talvolta un atteggiamento demoralizzato, sebbene assolutamente comprensibile e giustificato, non aiuta a intravedere possibili opportunità e scenari alternativi che eppure potrebbero esserci.

Pertanto spiegazioni prevalentemente orientate a evidenziare le criticità esterne, tra cui quelle del mondo del lavoro, non sempre aiutano a trovare nuove strategie e soluzioni. Mentre focalizzare l’attenzione sul soggetto può aprire la possibilità di trovare soluzioni e idee nuove e creative.

 

Lessico psicologico in età prescolare, scolare e adolescenziale: vantaggi e svantaggi

Le emozioni nelle organizzazioni: un possibile sguardo psicodinamico

Quando nelle organizzazioni viene a mancare la capacità di mentalizzazione, si determina un’impossibilità di elaborare le emozioni, di attribuire senso all’esperienza e, probabilmente, la sua rappresentazione mentale del contesto organizzativo avrà come oggetto un luogo di frustrazione, incertezza, minaccia.

 

Nonostante il vecchio cliché sull’ambiente lavorativo come luogo privo di emozioni, la ricerca negli ultimi 30 anni ha dimostrato il ruolo fondamentale che esse rivestono in questo particolare contesto.

Inizialmente l’interesse si è focalizzato sul modo in cui si sentono le persone rispetto al proprio lavoro, in un’ottica dunque individuale; con il tempo, comprendendo la portata del contributo che le emozioni apportano all’efficacia organizzativa, la ricerca si è ampliata alle varie modalità di utilizzo esplicito delle emozioni (Pugh & Groth, 2020).

L’intelligenza emotiva avrebbe infatti un impatto positivo sull’engagement, sulla soddisfazione e sul benessere lavorativo e gli effetti sarebbero tangibili, come nel caso della diminuzione del turnover, problematica che spesso intacca le organizzazioni (Brunetto et al., 2012).

Riprendendo la definizione di Franco Avallone (2005, p.65), il concetto di benessere organizzativo è da intendersi come

l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative.

In tale concettualizzazione è dunque importante l’accento posto non solo sull’individuo, ma sull’aspetto di convivenza, che richiama la componente relazionale. È in questo connubio tra la dimensione individuale e collettiva, tra il mondo intrapsichico e quello intersoggettivo, che diviene possibile inserire il concetto di mentalizzazione. Esso è da intendersi come un processo mentale in cui le azioni proprie ed altrui vengono interpretate in maniera implicita ed esplicita; tale dinamica permette all’individuo di dotare di senso il comportamento, i desideri, i bisogni, i sentimenti, le emozioni altrui a partire dalla comprensione degli stati mentali (Fonagy, Bateman & Luyten, 2012).

Gli inglesi rendono questo complesso concetto in maniera molto semplice ed efficace con la frase “mind the mind”, ovvero tieni a mente la mente, restituendo l’idea di un processo attivo, non passivo, statico ed immutabile (Baldoni, 2014). Questo tassello va ad inserirsi nel complesso mosaico che costituisce la competenza relazionale di ciascuno, una competenza fondamentale per vivere una vita sociale “sana” e che viene sempre più richiesta all’interno delle organizzazioni. In altri termini, nel modo in cui creiamo, manteniamo ed alimentiamo le relazioni vi è un fondamentale passaggio legato alla comprensione del senso dei comportamenti altrui; durante la pratica del proprio lavoro l’individuo mette in atto continuamente attribuzioni di senso e di intenzionalità al comportamento dell’altro con l’obiettivo di comprendere e mantenere la relazione.

Per tale ragione è possibile pensare che, come ogni altra competenza che va a delineare un ruolo organizzativo, la mentalizzazione costituisca una capacità che è possibile apprendere, implementare ed allenare.

Nell’organizzazione “mentalizzante” coloro che vi partecipano hanno raggiunto la competenza di rappresentarsi mentalmente non solo l’intenzionalità propria ed altrui, ma anche le emozioni, le sensazioni, i significati elicitati dal luogo di lavoro e che guidano i comportamenti del lavoratore (Di Stefano, 2017).

Come sostenuto dalle teorie psicodinamiche, coloro i quali non hanno capacità di mentalizzazione non riescono ad utilizzare i propri stati interni per comunicare e collaborare con gli altri in vari ambiti di vita, che vanno dalla sfera intima a quella lavorativa (Fonagy & Target, 2001); una difficoltà temporanea di mentalizzazione è spesso correlata a difficoltà nella regolazione degli affetti e del controllo dei processi attentivi, oltre che all’aumento di distress (Fonagy & Allison, 2012; Fonagy, Bateman & Luyten, 2012).

Quando nell’organizzazione viene a mancare la capacità di mentalizzazione, si determina un’impossibilità per il professionista di elaborare le emozioni, di attribuire senso all’esperienza e, probabilmente, la sua rappresentazione mentale del contesto organizzativo avrà come oggetto un luogo, non più di crescita personale, ma di frustrazione, incertezza, minaccia. Sarebbe possibile, infatti, imputare all’incapacità o al difetto di mentalizzazione la moltiplicazione dei fattori di rischio che espongono il lavoratore – e di conseguenza l’organizzazione di cui fa parte – a patologie come distress, burnout, mobbing (Di Stefano, 2017).

Al contrario, se il soggetto è collocato all’interno di un contesto lavorativo che promuove la mentalizzazione, ponendosi come contenitore riflessivo, gli effetti positivi investono il campo della fiducia reciproca tra i membri che lo abitano, dell’empatia e della resilienza collettiva (Kahn, 2001).

In che modo possono le organizzazioni costruire un ambiente di lavoro siffatto?

Come spesso accade, coloro i quali possono realmente apportare un cambiamento nelle pratiche di lavoro sono i professionisti che hanno accesso alle posizioni manageriali: chi occupa un ruolo di potere e di responsabilità all’interno delle aziende può decidere di investire sulla promozione di “pratiche riflessive”, che si radichino nella routine quotidiana della realtà organizzativa e mirino alla condivisione delle esperienze di lavoro, nonché di spazi di pensiero. Bisognerebbe dunque partire dall’esperienza individuale, valorizzando lo scambio di prospettiva tra i lavoratori e promuovendo la messa in atto di comportamenti attivi all’interno del contesto lavorativo (Fonagy, 2012; Di Stefano, 2017).

L’acquisizione di una simile competenza avrebbe effetti profondamente positivi che, partendo dal singolo, si espandono all’intero sistema lavorativo. Esempi sono l’attivazione di legami di attaccamento e affiliazione tra i colleghi e tra i lavoratori e l’organizzazione stessa, incrementando i livelli di coinvolgimento e di impegno (Fonagy & Target, 2001; Ammaniti & Gallese, 2014; Scrima, Di Stefano, Guarnaccia & Lorito, 2015).

Le origini della creatività (2018) di Edward O. Wilson – Recensione del libro

The Origin of Creativity  pubblicato in Italia da Raffallo Cortina per la prima volta nel 2017, nella traduzione curata da Allegra Panini, è un saggio  di Edward O. Wilson, professore di biologia presso la Harvard University, fondatore della sociobiologia e vincitore di due premi Pulizer.

 

 Quest’opera di Wilson, che giunge dopo la pubblicazione di La conquista sociale della Terra (2013) e Lettere a un giovane scienziato (2013), si sviluppa intorno al concetto che

La creatività è il carattere distintivo della nostra specie ed ha come fine ultimo la comprensione di noi stessi.

Le definizioni di creatività si sono succedute nel tempo, nel 1929 il matematico francese Hanri Poincarè affermava che:

creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili

Un concetto assai simile a quello espresso da Steve Jobs che ha detto:

la creatività è mettere in connessione le cose.

Secondo Wilson:

la creatività è la ricerca innata dell’originalità. La sua forza trainante è l’amore istintivo che il genere umano prova per la novità.

Il saggio illustra l’importanza che la creatività ha avuto nell’evoluzione umana e l’interrelazione esistente tra il sapere umanistico e quello scientifico.

L’esposizione di Wilson non è, data la natura dell’opera, di tipo narrativo ma risulta chiara e di facile comprensione. L’autore, grande naturalista, partendo dalle origini dell’uomo ripercorre la sua evoluzione sia in senso biologico che culturale. Mostra come il sapere umanistico e il sapere scientifico trovano fondamento nell’istinto creativo dell’uomo. Wilson ritiene che l’uomo abbia potuto sviluppare il linguaggio grazie alla creatività e che quest’invenzione abbia determinato lo sviluppo delle discipline umanistiche. La creatività è, del resto, fondamentale anche per la nascita e la progressione della scienza. Non può esistere alcuna intuizione scientifica in assenza di creatività. Secondo Wilson le discipline scientifiche e quelle umanistiche condividono

l’origine e i processi cerebrali creativi. Possono dunque essere affiancate l’un l’altra e fuse in ampia misura.

Per l’autore:

i due grandi rami della conoscenza l’ambito scientifico e quello umanistico, sono complementari nel nostro esercizio della creatività. 

 Il saggista inglese illustra, portando in esempio come è possibile descrivere e studiare l’isola Sala y Gomez, una piccola isola del Pacifico, ciò che permette di fare l’unione della creatività scientifica con quella umanistica. Nello stesso capitolo Wilson sottolinea come ogni fatto creativo può essere tale solo grazie alla presenza dell’uomo: che cosa si potrebbe dire dell’isola di Sala y Gomez se nessun essere umano l’avesse mai trovata? Per chiarire meglio questo concetto, Wilson, riporta un passo di Così parlò Zaratustra di Nietzsche in cui Zaratustra si rivolge al Sole:

Oh grande astro, che cosa sarebbe la tua felicità se tu non avessi coloro a cui risplendi? 

Wilson esplora le numerose esperienze creative dell’uomo che si sono succedute durante la sua evoluzione ed hanno trovato massima espressione nei periodi “illuministici” conducendo l’umanità dalle origini fino all’era dell’intelligenza artificiale. Oggi l’uomo si trova a fare i conti con diversi problemi dalla cui soluzione dipende la sua stessa sopravvivenza: il cambiamento climatico, il depauperamento degli ecosistemi, le diseguaglianze e le migrazioni. Il saggio di Edward O. Wilson indica la strada per la risoluzione dei problemi che oggi l’umanità deve fronteggiare: è necessario che si realizzi un nuovo illuminismo che permetta di fondere le discipline umanistiche con quelle scientifiche attraverso la creatività:

I due grandi rami della conoscenza condividono le stesse radici dell’impresa innovativa. Le discipline scientifiche si occupano di tutto ciò che può accadere nell’universo; le discipline umanistiche di tutto ciò che è concepibile nella mente umana.

Attingendo alle conoscenze combinate della nostra specie, ognuno di noi può andare ovunque nell’universo, catturare qualsiasi forza, raggiungere qualsiasi meta, cercare l’infinito nello spazio e nel tempo.

 

Concerti che danno alla testa! Musica live e registrata fanno muovere il nostro corpo in modi differenti?

Un concerto di musica dal vivo è un piacevole evento sociale che si colloca tra le forme più memorabili e viscerali di rappresentazione musicale.

 

Ma cosa spinge gli ascoltatori ad assistere ai concerti, a volte con considerevoli spese, quando potrebbero ascoltare le registrazioni delle stesse canzoni direttamente da casa? Un aspetto iconico che caratterizza i live show è il coinvolgimento che lo spettatore ha con gli altri membri del pubblico. I componenti della platea, infatti, si possono spesso considerare tutt’altro che “spettatori”, in quanto in realtà sono essi stessi parte dello spettacolo, attraverso emozioni e relativi movimenti corporei suscitati dalla musica dal vivo. La musica ci spinge a muoverci, e questo è un probabile risultato delle connessioni tra le aree uditive e motorie del cervello, la cui comunicazione durante la previsione del ritmo e del battito può essere misurata in oscillazioni neurali (Sakai et al., 1999; Janata e Grafton, 2003; Grahn e Brett, 2007; Zatorre et al., 2007; Grahn e Rowe, 2009; Fujioka et al., 2012). I movimenti della testa, in particolare, riflettono le emozioni esperite in quel momento di coinvolgimento, e possono favorire il legame con le persone circostanti (Swarbrick et al., 2019). Recenti studi hanno esplorato il coinvolgimento sociale affiliativo sperimentato tra le persone che si muovono all’unisono al ritmo di musica, ma i concerti dal vivo hanno anche altre caratteristiche che potrebbero essere importanti, come il fatto che durante una performance live la musica prodotta sia unica e non prevedibile, né predeterminata. Ciò aumenta l’attesa e i sentimenti di coinvolgimento del pubblico che vi assiste. Sarà per questo motivo che la maggior parte del pubblico riferisce che il costo del biglietto non influenza la scelta di assistere o meno ai concerti (Brown e Knox, 2017)?

Nello studio di Swarbrick, gli sperimentatori hanno osservato l’esperienza del concerto live, testando l’ipotesi secondo cui il semplice fatto di far parte di un pubblico di un concerto dal vivo possa contribuire positivamente all’esperienza dell’ascoltare musica. Il team di scienziati ha utilizzato il motion capture, un sistema di più telecamere emittenti luce e di marcatori di materiale riflettente in grado di rilevare movimenti con estrema precisione. È stata utilizzata questa tecnologia al fine di confrontare le risposte del movimento della testa del pubblico in termini di vigore e di coinvolgimento durante un concerto live della rock star canadese Ian Fletcher Thornley, con quelle di un concerto registrato senza gli esecutori, in cui sono state riprodotte le stesse canzoni (Toiviainen et al., 2010; Burger et al., 2013). I ricercatori hanno anche preso nota di chi del pubblico fosse fan dell’artista e di chi invece fosse ascoltatore neutrale. L’essere fan avrebbe implicato una precedente conoscenza della band e della relativa musica, fattore più che rilevante nell’emotività espressa durante il live.

Con questa sperimentazione, è stato scoperto che sia nei fan, sia negli ascoltatori neutrali, i movimenti della testa erano più vigorosi nel concerto dal vivo che nella condizione di riproduzione dell’album registrato. D’altra parte, in entrambe le condizioni sperimentali, i fan hanno mosso la testa più vigorosamente e con maggiore coinvolgimento al ritmo rispetto agli ascoltatori neutrali. Il maggior grado di coinvolgimento generale nei fan rifletteva probabilmente la loro maggiore familiarità con lo stile musicale dell’artista. Il maggior vigore dei movimenti della testa tra i gruppi rappresentava probabilmente una maggiore eccitazione, un maggiore riscontro fisiologico dell’imprevedibilità del live, e una maggiore connessione con gli artisti e con la loro musica durante il concerto dal vivo (Mazzoni et al., 2007; Leow et al., 2014).

Tra i membri del pubblico, non c’erano differenze tra musicisti e non musicisti nel vigore del movimento o nella sincronizzazione al ritmo. Allo stesso modo, Bernardi e colleghi (2017) hanno riferito che la formazione musicale non influenza il grado di sincronizzazione delle risposte autonomiche al ritmo della musica sperimentata in un ambiente di gruppo. Entrambi questi risultati suggeriscono che le risposte di coinvolgimento del pubblico sono indipendenti dalla formazione musicale.

Lo studio di Swarbrick dimostra quindi che, oltre alle caratteristiche acustiche della musica, anche i fattori ambientali e personali influenzano il movimento in relazione ad essa. In particolare, la familiarità con l’esecutore e lo stile musicale ha portato a un aumento del movimento e del coinvolgimento, mentre la performance dal vivo in sé ha portato a un aumento significativo del vigore delle movenze del capo, generando il movimento sincrono tra il pubblico, e dunque la prosocialità.

In conclusione, questi risultati confermano che la musica dal vivo ha coinvolto gli ascoltatori in misura maggiore rispetto alla musica preregistrata. In aggiunta a ciò, una preesistente ammirazione per gli artisti può portare ad un maggiore coinvolgimento psicofisico.

 

L’essere e il vivere la coppia – Video dell’evento di Studi Cognitivi Modena

Il Centro Clinico Studi Cognitivi Modena ha organizzato un incontro informativo gratuito rivolto al pubblico sul tema delle relazioni di coppia. Pubblichiamo oggi, per i nostri lettori, il video dell’evento

 

  Si è trattato di un incontro partecipato in cui è stato definito che cosa significa essere coppia oggi. Sono state inoltre trattate quelle che possono considerarsi le più comuni conflittualità e che, con il tempo, possono andare a incidere con l’intesa di coppia.

Hanno condotto l’incontro la Dott.ssa Daniela Rebecchi e la Dott.ssa Arianna Ferretti.

Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’evento.

 

GUARDA IL VIDEO DELL’EVENTO:

L’essere e il vivere la coppia

 

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