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Vecchie e nuove teorie sull’incongruenza di genere

Poiché gli studi sulle possibili alterazioni genetiche e ormonali non hanno mai dato risultati significativi, negli ultimi decenni, molte ricerche hanno cercato di fornire un’interpretazione neurobiologica della disforia di genere.

 

Classicamente le teorie eziologiche sull’identità e sulla disforia di genere si dividono tra quelle a carattere più socio-psicologico, che sottolineano il peso dei fattori psicosociali, quali l’educazione ricevuta e l’ambiente di vita familiare e culturale, e quelle che privilegiano fattori biologici come la genetica e il funzionamento neuroendocrino. Le prove di un contributo genetico alla transessualità sono molto limitate: vi sono poche segnalazioni di studi familiari e gemelli sui transessuali, e nessuno offre un chiaro sostegno al coinvolgimento di fattori genetici.

Per quanto riguarda gli ormoni prenatali, le prove a sostegno del fatto che possano influenzare lo sviluppo dell’identità di genere sono un po’ più forti ma è tutt’altro che provato. Un’indicazione che l’esposizione al testosterone prenatale ha effetti permanenti sull’identità di genere proviene dallo sfortunato caso di David Reimer. Altri studi clinici hanno riportato che l’identità di genere maschile emerge in alcuni bambini XY nati con genitali mal formati: questi individui sono stati esposti al testosterone prenatalmente, sottolineando un potenziale ruolo per gli androgeni nello sviluppo di genere e sollevando dubbi sul fatto che i bambini siano psicosessualmente neutri alla nascita. D’altra parte, gli individui XY nati con una mutazione del recettore degli androgeni che causano completa insensibilità agli androgeni (androgen insensitivity syndrome – AIS) sono fenotipicamente femminili, si identificano come femmine e sono più spesso androfili.

È chiaro che nessuno di questi fattori può essere considerato singolarmente, ma più probabilmente sarebbe la loro interazione a determinare lo sviluppo di una Disforia di Genere, tant’è che oggi queste teorie sono ritenute obsolete o sono state integrate in modelli eziologici più complessi.

Teorie psicologiche

  • Processi anomali di identificazione primaria o secondaria (Freud, 1921): l’identità di genere verrebbe acquisita tramite due processi di identificazione, primaria e secondaria. Quella primaria avviene nei primi mesi di vita del bambino, e caratterizza la relazione con la madre, con la quale il bambino tende ad identificarsi instaurando un rapporto fusionale ed indifferenziato. A questo segue il processo di identificazione secondaria, che porterà alla strutturazione del complesso edipico, in cui il bambino si identifica con il genitore dello stesso sesso. Nei bambini il processo avverrà grazie alla sostituzione dell’oggetto di identificazione: il padre verrà preso come modello da imitare, la madre rappresenterà la meta delle pulsioni sessuali; si svilupperanno così la mascolinità e l’attrazione verso le donne. Analogamente, nelle bambine la madre verrà mantenuta quale oggetto di identificazione e il padre rappresenterà l’oggetto libidico; da qui, lo sviluppo della femminilità e dell’attrazione verso gli uomini. La Disforia di Genere si svilupperebbe in seguito ad anomalie in uno dei processi di identificazione;
  • Identificazione conflittuale del bambino con la madre (Stoller, 1968): l’origine del transessualismo maschile risiederebbe in un mancato emergere da parte del bambino dalla fase di fusione simbiotica con la madre e, di conseguenza, in un’identificazione conflittuale con essa, magari facilitata da un eccessivo contatto fisico che ostacolerebbe il normale processo di separazione. Sebbene Stoller si sia occupato perlopiù di transessualismo maschile, è interessante che nella sua analisi, l’autore ha individuato una costellazione familiare tipica dei soggetti transessuali caratterizzata da eccessiva vicinanza con la madre, spesso portatrice di nevrosi e conflitti, e assenza della figura paterna. Tuttavia, anche se rispetto alla psicoanalisi classica qui vengono introdotti fattori di natura transgenerazionale, la situazione familiare da lui individuata è comune a molteplici condizioni patologiche e non certo caratteristica per lo sviluppo della Disforia di Genere;
  • Transessualismo come esito di una reazione difensiva (regressione) messa in atto dal bambino per contrastare l’angoscia di separazione (Person e Ovesey, 1974): quest’angoscia sarebbe così intensa da rappresentare una minaccia di frammentazione del Sé, e spingerebbe il bambino verso una fantasia regressiva di fusione simbiotica con la madre allo scopo di annullare la separazione. Questo determinerebbe l’ambiguità di genere. Anche Person e Ovesey riconoscono un padre emotivamente assente nelle storie familiari dei soggetti studiati; rispetto all’atteggiamento materno, osservano che questo può assumere tre diverse qualità: simbiotico, intrusivo o ostile;
  • Assegnazione del sesso alla nascita ed educazione ricevuta dai genitori (John Money, 1975): sarebbero i fattori maggiormente predittivi dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. A sostegno di tale ipotesi, Money fece riferimento a un suo caso, diventato celeberrimo, ovvero quello dei gemelli Reimer: in seguito ad una procedura di circoncisione ad uno dei due gemelli, a David venne erroneamente amputato il pene all’età di 7 mesi, per cui Money raccomandò la riattribuzione al sesso femminile, seguita da terapia ormonale, decretandone il successo sulla base del follow – up fino all’età di 9 anni. Questa fu però successivamente criticata da Diamond (1997) che scoprì che, nonostante David fosse stato allevato come una bambina, sviluppò un’identità di genere maschile e durante la pubertà rifiutò la terapia ormonale con estrogeni, ricorrendo poi alla terapia con androgeni e ad un’operazione chirurgica per la ricostruzione del pene. Di fatto Diamond non solo ha smentito l’ipotesi di Money, ma ha anche potenzialmente avvalorato le teorie che sostengono invece un maggior peso delle componenti biologiche;
  • Eventi traumatici nella prima infanzia possono scatenare una disforia di genere (Di Ceglie, 1998): Di Ceglie sostiene che, nel tentativo di riuscire ad affrontare situazioni traumatiche relative alla separazione dalla figura genitoriale, il bambino metterebbe in atto un meccanismo di difesa di tipo dissociativo sviluppando un nuovo concetto di sé e identificandosi con il genitore del sesso opposto, per reagire in maniera onnipotente alla minaccia di perdita e salvaguardare la propria integrità psichica. Questo nuovo concetto assume la forma “io sono la mamma” / “io sono il papà”. Questa re-identificazione però non si limita al ruolo genitoriale, ma si estende al concetto di genere “io sono una femmina/io sono un maschio”. In tal senso Di Ceglie ha proposto il concetto di “organizzazione atipica dell’identità di genere”

Teoria multisenso

Poiché gli studi sulle possibili alterazioni genetiche e ormonali non hanno mai dato risultati significativi, negli ultimi decenni, molte ricerche hanno cercato di fornire un’interpretazione neurobiologica della disforia. A partire dalle prime analisi post-mortem del cervello di soggetti transessuali, una ventina di anni fa, l’attenzione si è focalizzata su uno specifico nucleo dell’ipotalamo chiamato letto della stria terminale (BNST). In particolare, questo nucleo sembra avere una dimensione media nelle transwoman (MtF) più simile alle donne cisgender che agli uomini cisgender; questi dati supportano la teoria secondo cui il distress caratteristico della disforia di genere dipende da un’incongruenza anatomica tra il cervello e il corpo sessuato – gli individui transgender avrebbero un cervello di sesso opposto al genere che gli viene assegnato alla nascita. In accordo con questi studi e altri che hanno messo in relazione la disforia di genere con i cambiamenti di body ownership nei soggetti transgender, Stephen Gliske, del dipartimento di neurologia dell’Univerità del Michigan, ha sviluppato una nuova teoria della Disforia di Genere che definisce “multisenso”. In pratica, secondo questa teoria, la Disforia di Genere non sarebbe causata da anomalie neuroanatomiche bensì da cambiamenti sistemici in alcuni network funzionali, che provocherebbero quell’incongruenza tra senso del proprio genere e genere assegnato alla nascita. Gliske considera 3 dimensioni:

  • il distress cronico
  • non-conformità di genere e comportamento sociale
  • incongruenza e body-ownership

che sono costantemente in interazione tra di loro e genererebbero il senso del genere. Alterazioni nelle attivazioni o nelle loro interazioni porterebbero a cambiamenti dinamici nell’attività del network, e sarebbero la causa della soggettiva esperienza di disforia di genere e, probabilmente, anche dei contestuali cambiamenti neuroanatomici che si osservano negli studi summenzionati. Sembrano coinvolti in particolare cambiamenti a livello del BNST, ipotalamo anteriore, insula anteriore, solco intraparietale, lobulo parietale superiore e corteccia orbitofrontale.

Lungi dal voler proporre una teoria meccanicistica di un’esperienza così soggettiva come la Disforia di Genere o l’identità di genere stessa, Gliske sottolinea che i network neurobiologici sottostanti questo modello integrato influenzano quanto un certo individuo percepisce e soffre rispetto a uno stress cronico, quanto desideri agire in coerenza con il suo ruolo di genere e quanto percepisca gli aspetti “genderizzati” del suo corpo come appartenenti a sé. Tutti questi aspetti concorrono alla sensazione di matching (o meno) tra la propria identità di genere e il sesso assegnato alla nascita. Il peso dei fattori socio-comportamentali e di body-ownership può chiaramente essere diverso in individui diversi.

 

Spettro autistico: un excursus di miti e controversie sull’eziologia

Nonostante i significativi progressi di natura epidemiologica e genetica nella ricerca scientifica sull’autismo, l’eziologia e la patogenesi di questa condizione sono lungi dall’essere chiarite e attualmente non esiste alcun trattamento curativo (Davidson, 2017).

 

 Con la classificazione dimensionale “disturbi dello spettro autistico” si fa riferimento a una vasta gamma di manifestazioni sintomatologiche di disturbi del neurosviluppo, caratterizzati da una notevole eterogeneità in termini di gravità/pervasività del sintomo e compromissione del funzionamento, ma accomunati dai seguenti pattern: reciprocità socio-emotiva deficitaria, comunicazione non verbale inficiata (es. mancanza di espressività facciale e anomalie del contatto visivo), difficoltà interpersonali, interessi limitati, stereotipie, mancanza di flessibilità cognitiva e iper- o iporeattività a stimoli sensoriali (APA, 2013). Nonostante i significativi progressi di natura epidemiologica e genetica nella ricerca scientifica sull’autismo, l’eziologia e la patogenesi di questa condizione sono lungi dall’essere chiarite e attualmente non esiste alcun trattamento curativo; considerata la prognosi sfavorevole che non contempla la reversibilità della condizione, ma soltanto dei miglioramenti significativi in alcune aree dello sviluppo, a fronte di interventi precoci e mirati (Davidson, 2017).

La prima definizione e concettualizzazione dell’autismo risale al 1943, ad opera del medico psicanalista Leo Kanner: il quale descrive la fenomenologia di tale condizione in maniera similare a quella attuale (Kanner, 1973); in termini eziologici, però, era predominante la credenza secondo cui una scarsa responsività materna al soddisfacimento immediato dei bisogni primari evolutivi del bambino, sarebbe potuta esserne la causa. “Madre frigorifero” era l’espressione utilizzata per descrivere quel prototipo di madre assente e non responsiva ai bisogni emotivi basilari del bambino: questa era la spiegazione vigente, a metà del secolo scorso, per descrivere il senso di autoisolamento e di distanziamento sociale del bambino con autismo dal mondo esterno (Bettelheim, 1956). All’inizio degli anni ’80, grazie alla pubblicazione della terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-III; APA, 1980), il fenomeno dell’autismo viene per la prima volta concettualizzato come un disturbo del neurosviluppo; divenendo oggetto di ricerca scientifica, oltre che di assistenza clinica e sociale (Davidson, 2017).

 Negli stessi anni è, però, concomitante la proliferazione totalmente infondata e priva di alcuna base scientifica dell’eziologia dell’autismo spiegata dalla somministrazione dei vaccini; postulando un erroneo rapporto di causalità tra autismo e vaccino (DeStefano, 2007). Il criterio con cui tale “mito causale” si è diffuso è una mera coincidenza temporale tra l’esordio della prima manifestazione sintomatologica del disturbo e la somministrazione dei vaccini per parotite, morbillo e rosolia (MMR), tra i 12 e i 18 mesi (Davidson, 2017). L’attribuzione di un legame causale a una semplice sovrapposizione temporale costituisce un bias cognitivo, senza alcun fondamento logico e soprattutto clinico. Fortunatamente negli anni successivi il rapporto diretto di causalità tra autismo e vaccino è stato demistificato da studi scientifici finalizzati all’analisi sia dell’epidemiologia dell’autismo, sia degli effetti indotti dai vaccini MMR (Maglione et al., 2014; Taylor, Swerdfeger & Eslick, 2014). Di fatti, nonostante fossero sempre più numerose le rinunce alla vaccinazione MMR, i tassi di autismo erano in aumento (Modabbernia, Velthorst & Reichenberg, 2017). Nonostante il passare del tempo e il significativo incremento delle evidenze scientifiche a favore della varianza fenotipica del disturbo spiegata da fattori genetici, il mito causale tra vaccino e autismo ha continuato a essere radicato nelle menti di molti, i quali hanno preferito privarsi degli effetti benefici del vaccino; per tutelare i loro figli da un eventuale esordio della sintomatologia (Offit, 2014). Anche dopo decenni dalla diffusione mediatica di tali credenze infondate sull’eziologia dell’autismo, all’interno di tale rassegna è possibile rivolgere il focus attentivo su un tema estremamente attuale: la tendenza a lasciarsi trasportare acriticamente dal luogo comune verso spiegazioni illogiche di un fenomeno e delle sue conseguenze, fomentate dalla continua ricerca di prove confermative fallaci, ma che nell’immediato possono risultare convincenti; anziché orientare le proprie scelte sulla base di dati empiricamente dimostrati.

 

Il bambino e l’importanza dell’ambiente affettivo primario: il pensiero di Donald Winnicott

Winnicott spiega come i bambini hanno bisogno della madre: in senso assoluto nei primi anni di vita, per poi passare alla separatezza fisica e psichica che caratterizza ciascuno di noi per tutto il resto della nostra vita.

 

Non c’è una cosa che si può chiamare un bambino, nel senso che, se volete descrivere un bambino, vi troverete a descrivere un bambino con qualcuno. Un bambino non può esistere da solo, ma è essenzialmente parte di un rapporto – scriveva Winnicott nel 1964.

 Pediatra e psicoanalista, egli ha concentrato il suo interesse nell’osservazione dei bambini e delle loro madri, partendo dal presupposto, centrale in tutta la sua opera, che il bambino è un fenomeno che non può essere isolato: questo all’inizio vive in un mondo soggettivo, pervaso da un senso di onnipotenza, pur essendo, in realtà, la sua vita estremamente precaria e strettamente dipendente dalla figura materna (Winnicott, 1970).

I bambini hanno, infatti, bisogno della madre: ne hanno bisogno in senso assoluto nei primi anni di vita, quando gradualmente sono costretti a passare da uno stato simbiotico, di unicità madre bambino, in cui “il bambino non esiste” (Winnicott, 1961), alla separatezza fisica e psichica che caratterizza ciascuno di noi per tutto il resto della nostra vita. Il bisogno della presenza della madre – il legame fondamentale madre figlio – è, pertanto, nei primi anni, assoluto (Viorst, 2014). Solo successivamente, per maturazione, attraverso un processo graduale, duraturo e non privo di difficoltà, il bambino diventa un Sé separato.

Questa pianta vorrebbe crescere ed anche essere embrione; svilupparsi ed anche fuggire la condanna a prendere forma… (Richard Wilbur)

perché l’unicità è beatitudine e la separazione fa paura; essere separati significa riconoscere i propri confini e i confini degli altri, riconoscere il proprio Sé come unico, riconoscere che “Io sono Io” e trovare conferma negli altri significativi che “Sì, tu sei tu” (Viorst, 2014). Separarsi significa diventare indipendenti, significa essere. Essere genitori, allo stesso tempo, significa promuovere e supportare lo sviluppo fisico, emotivo e mentale del bambino (De Carli et al., 2018): è grazie alle prime relazioni che egli può costruire mappe interiori di sé e del mondo, sulle quali si plasma il senso di sé.

Nel suo articolo L’esperienza di mutualità tra madre e bambino (Winnicott, 1969) l’autore pone l’attenzione sul progresso che la psicoanalisi ha fatto in questo senso: si è passato dall’affrontare, ad originem, lo sviluppo infantile in termini di conflitto di Edipo e di

complicazioni che sorgono dai sentimenti di maschi e di femmine ormai divenuti persone intere in relazione con altre persone intere (Winnicott, 1969),

  ad attenzionare l’esperienza e i conflitti interni alla psiche dei bambini, fino ad occuparsi prevalentemente dei processi di influenza ambientale e di dipendenza: nel bambino, secondo Winnicott, esistono sì dei processi maturativi innati, ma questi si svolgono esclusivamente in un quadro di dipendenza dall’ambiente, ed è proprio questa presa di coscienza che la psicoanalisi non può più ignorare. Quando osserviamo un bambino, osserviamo un bambino oggetto di cure: la tendenza ereditaria all’integrazione, alla ricerca dell’oggetto, all’indipendenza da sola non basta. Lo sviluppo ha luogo perché c’è una madre sufficientemente buona che, attraverso un comportamento adattivo e di identificazione con i bisogni del bambino, attraverso il sostegno e il contenimento fisico e psichico (holding), le cure corporee (handling) e la capacità di mettere a disposizione al bambino l’oggetto al momento giusto (object – presenting), fa sì che questo gradualmente possa procedere lungo la propria linea di sviluppo e conquistare i processi di integrazione, di separazione e la capacità di vivere il proprio corpo in relazione agli oggetti (Winnicott, 1961). Nel periodo immediatamente prima della nascita e per le successive settimane, infatti, la madre è affetta da quella che Winnicott chiama preoccupazione materna primaria, uno stato che, in condizioni psichiche normali, le permette di abbandonare temporaneamente le proprie identificazioni maschili – quando anche supportata nel processo dal padre del bambino – e di identificarsi completamente con i bisogni del piccolo. Quando la madre – e il padre in supporto – sono in grado di offrire questo tipo di ambiente, il bambino può vivere per il periodo necessario nel proprio mondo soggettivo, protetto dalle pressioni di una realtà esterna che per lui non esiste: è così che sviluppa un sentimento di prevedibilità che gli permette di gettare le basi dei primi stadi di crescita personale. In questo modo, gradualmente, si stabiliscono le condizioni necessarie affinché il processo ereditario di crescita possa attuare le sue potenzialità, consentendo al bambino di arrivare a vivere un’esistenza integrata e separata, costruita su un Vero Sé (Winnicott, 1970). Dice Winnicott (1970):

sebbene ogni bambino che viene al mondo abbia, diciamo così, un bastone da primo ministro nel pannolino, questo bastone può rimanere qualcosa che avrebbe potuto essere,

egli necessità cioè, in modo imprescindibile, di un apporto ambientale sufficientemente buono, che gli consenta

di diventare sempre più indipendente, pur conservando un buco in cui rifugiarsi.

Vale a dire, come scriveva J.K. Rowling nel romanzo Harry Potter e la pietra filosofale (1997) che

Essere stati amati tanto profondamente ci protegge per sempre. È una cosa che ci resta dentro, nella pelle.

 

Il controllo cognitivo e la corteccia prefrontale

I processi su cui si basa e attraverso cui viene implementato il controllo cognitivo vengono definiti funzioni esecutive, le quali sono coinvolte nella pianificazione dell’azione e nel monitoraggio del comportamento.

 

Il controllo cognitivo

Cosa intendiamo quando parliamo di “controllo cognitivo”?

In letteratura con questo termine si indicano quei processi necessari per coordinare pensieri e azioni al fine di ottenere un comportamento flessibile e orientato allo scopo, che sia in linea con gli obiettivi del soggetto e le richieste dell’ambiente che lo circonda (Gazzaniga, 2009; Chiew & Braver, 2017).

Il primo lavoro sul controllo cognitivo è di Posner e Snyder (1975), in cui emerge come i processi di controllo cognitivo siano in antitesi rispetto a quelli automatici (come i riflessi), i quali si manifestano solitamente in assenza di consapevolezza o intenzione da parte dell’individuo che li sta attuando. Più nello specifico, tre aspetti distinguono i processi controllati da quelli automatici: i processi controllati sono più lenti da eseguire, sono soggetti a interferenze da processi automatici concorrenti e si basano su un meccanismo di elaborazione centrale a capacità limitata.

Le funzioni esecutive

I processi su cui si basa e attraverso cui viene implementato il controllo cognitivo vengono definiti funzioni esecutive, le quali sono coinvolte nella pianificazione dell’azione e nel monitoraggio del comportamento.

Le tre funzioni esecutive principalmente presentate in letteratura sono shifting attentivo, updating delle informazioni e inibizione della risposta (Miyake et al.,2000).

Lo “shifting” riguarda lo spostamento dell’attenzione tra compiti diversi ed è considerato importante per la comprensione dei deficit nel controllo cognitivo in pazienti con lesioni cerebrali durante l’esecuzione di specifici compiti in cui si richiede di alternarsi tra due compiti (Monsell, 1996).

L’ “updating” della memoria di lavoro richiede il monitoraggio e la codifica delle informazioni rilevanti per lo svolgimento di un compito (Morris & Jones, 1990), questa funzione esecutiva interviene in un gran numero di attività della vita quotidiana, come l’apprendimento o l’organizzazione delle informazioni acquisite recentemente (Collette & Van der Linden, 2002).

Infine, con inibizione della risposta si intende la capacità dell’individuo di impedire il verificarsi di una risposta dominante o automatica quando necessario (Miyake et al., 2000).

Le basi neurali del controllo cognitivo

Per quanto riguarda le basi neurali del controllo cognitivo, risultati convergenti dimostrano un importante coinvolgimento della corteccia prefrontale (PFC) (Fiore, 2017).

L’importanza di tale area per il controllo cognitivo è stata largamente investigata e confermata attraverso diversi approcci sperimentali: ad esempio, Jacobsen e colleghi (1936) hanno condotto uno studio sul modello animale, asportando bilateralmente l’omologa area cerebrale in due scimmie e osservando che alla lesione non segue una demenza generale, bensì il fallimento di alcuni comportamenti specifici, soprattutto nella soluzione di problemi in cui è richiesto il coinvolgimento di processi esecutivi.

Vi sono studi anche sull’uomo che mostrano come danni a livello della PFC conducano a deficit di comportamento orientato all’obiettivo senza ulteriori danni a livello di capacità sensoriali, in particolare si hanno deficit in compiti che richiedono un’elaborazione controllata: un paziente con danni alla PFC mantiene alcune capacità, come eseguire compiti cognitivi di base o memorizzare informazioni, ma le sue prestazioni orientate al raggiungimento di un obiettivo risultano compromesse (Luria, 2012).

Vi sono inoltre numerosi studi di neuroimaging che forniscono evidenze della relazione tra questa regione cerebrale e le funzioni esecutive, il lavoro di Thomsen e collaboratori (2004) è uno tra questi: gli autori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per indagare le basi cerebrali coinvolte nello shifting attentivo durante un paradigma di ascolto dicotico, evidenziando un’attivazione significativa della PFC bilaterale durante lo shifting attentivo rispetto a un compito di controllo. Gli autori hanno concluso che tale regione giochi un ruolo importante nella selezione top-down degli stimoli rilevanti per il compito e correlati all’inibizione dell’elaborazione di stimoli irrilevanti per l’obiettivo.

Perché proprio la corteccia prefrontale?

La PFC ha il ruolo di sintetizzare le informazioni provenienti da varie aree cerebrali corticali e sottocorticali per produrre un comportamento diretto all’obiettivo attraverso un processo di tipo top-down: ad esempio, per selezionare le risposte motorie più adatte deve integrare le informazioni sensoriali provenienti sia dall’ambiente esterno che dall’interno dell’organismo stesso. Ciò è permesso dalle numerose interconnessioni della PFC con le altre strutture cerebrali.

Dunque, le aree associate al controllo cognitivo coinvolgono il circuito corticale della PFC e i circuiti corticali e sottocorticali ad essa connessi, come i gangli della base (Fuster, 2015).

Felicità cercasi. Pratiche personali e collettive (2020) di Sergio Sorgi e Francesca Berté – Recensione del libro

Il titolo del libro Felicità cercasi. Pratiche personali e collettive è assolutamente fedele al suo contenuto: la felicità va cercata, non solo tramite l’impegno necessario, ma anche attraverso le modalità più adatte.

 

Sorgi e Bertè, basandosi su vari dati empirici, propongono classificazioni e tesi con l’obiettivo di sensibilizzare i lettori al bisogno di felicità. La soddisfazione di tale bisogno, secondo gli autori, non riguarda solamente il singolo individuo, ma la collettività, pertanto la felicità comune dovrebbe coincidere con lo scopo della società e, in particolare, delle istituzioni. È evidente che noi esseri umani, in quanto animali sociali, siamo costantemente in qualche modo interconnessi. Un capitolo del testo viene infatti interamente dedicato alla valenza delle relazioni umane spiegandone la funzione nel trovare, o ritrovare, la felicità sia propria che condivisa. Tale ricerca risulterebbe pertanto fondamentale per il bene della collettività e per l’avvenire. “Una cosa è per noi certa: essere felici non è un destino, né un accadimento casuale e neppure l’esito di un approccio ingenuo”. È qualcosa che viene infatti descritto dagli autori come un’abilità che va sviluppata attraverso le modalità adatte.

Secondo Sorgi e Berté, occuparsi di felicità dovrebbe essere naturale, oltre che necessario, in particolare in un periodo storico come questo in cui è facile confondersi tra ciò che rende e non rende felici.

Tramite il riferimento al famoso esperimento di Mischel, in cui vengono utilizzati i Marshmallow, gli autori spiegano come la capacità di posticipare la gratificazione si riflette nell’abilità di mettere in ordine le proprie priorità. Attraverso l’esempio riportato viene quindi messa in luce la funzionalità di una determinata modalità di presa di decisione: una ricerca del benessere continuo a discapito di quello immediato. Secondo gli autori infatti essere felici non è una mera abilità intrinseca, bensì una capacità che va appunto sviluppata tramite uno sforzo costante, delle scelte adatte e delle prese di posizione chiare.

Tutto ciò, secondo Sorgi e Bertè, dovrebbe essere noto alle istituzioni e far riflettere chi governa i territori.

Amori violenti. Cosa significa amare? (2015) di Mirella Baldassarre – Recensione del libro

L’autrice, psicologa e psicoterapeuta, scrive questo libro allo scopo di riflettere sul processo che conduce la coppia alla distruzione delle due personalità, ripercorrendo il cammino che da evolutivo verso la crescita, si trasforma in un percorso degenerativo che persegue il crollo dell’autonomia e dell’individualità, sfociando spesso in atti di vera e propria violenza.

 

 L’amore è fonte di ricchezza, gioia, creatività e sostegno ma è anche in grado di scatenare i bisogni primitivi della persona che, pur di soddisfarli, nega il rispetto e la libertà dell’altro fino ad annullarlo mentalmente e, talvolta, anche fisicamente. Quando è guidato dal bisogno di possesso, non si tratta più di amore e conduce alla distruzione dell’autostima e della voglia di vivere.

La pratica clinica evidenzia come un legame di coppia struttura una nuova sfera mentale condivisa, in cui i due partner sono insieme ma distinti ed in cui confluiscono le caratteristiche strutturali della personalità di entrambi: ciascuno contribuisce con il proprio bagaglio emotivo, conscio ed inconscio. Da questo processo non è esente la psicopatologia che conduce ad una catena di soprusi e di prevaricazione: l’altro diventa un oggetto da possedere in modo esclusivo, che non può fare richieste né, tantomeno, andarsene.

L’autrice evidenzia come la capacità di strutturare relazioni d’amore soddisfacenti o, al contrario, instabili e violente, è strettamente collegata alle esperienze emotive che ognuno sperimenta nel passato. In quest’ottica assume un rilievo primario la famiglia in cui si cresce ed il carico emotivo che ne deriva, poiché influisce sul modo di sentire e di comportarci da adulti. È infatti dai legami che esperiamo da piccoli che dipende la capacità di vivere la reciprocità tollerando frustrazioni e delusioni, imparando a riconoscere i bisogni e i desideri dell’altro, di considerarlo insomma una persona autonoma senza che la sua diversità venga percepita come una minaccia. Non è solo il trauma di per sé, ma il vivere in uno stato di trauma continuo che rende vulnerabile il nostro narcisismo, lede la nostra autostima e ci rende privi della capacità di controllare emozioni e reazioni, rendendoci fragili e svalutanti: il linguaggio della violenza è, infatti, predominante quando non si è in grado di condividere e si è incapaci di sopportare le differenze di opinioni e di comportamenti.

È soprattutto la mancanza di elaborazione delle esperienze che lascia immutati i vissuti violenti subiti, molto spesso le dinamiche che legano i partner ripropongono quelle del passato poiché nessuno dei due ha elaborato in modo consapevole il fallimento. Ogni coppia che vive un contesto di violenza si trova a dover compiere un lavoro psichico, ma spesso gli operatori della salute mentale vengono consultati solo quando la situazione è ormai degenerata e la violenza è diventata l’unico codice di comunicazione tra due persone. Quando questo accade, il clima emotivo è pervaso da umiliazione, svalutazione, annullamento dell’altro e del suo essere persona, senza che ci siano sentimenti di colpa o rimorso da parte del partner violento. Egli è guidato esclusivamente dal bisogno di distruggere l’altro trasformato in oggetto, ritenendolo responsabile della propria infelicità, senza nessuna considerazione per la gravità delle proprie azioni.

È innegabile che esista una stretta connessione anche con la società, perché l’equilibrio mentale di ciascuno di noi è collegato all’interazione continua di fattori biologici, psicologici e sociali, al contesto ambientale ed emotivo in cui viviamo.

 Le trasformazioni sociali dell’ultimo secolo hanno sicuramente condotto a diversi cambiamenti: in primo luogo nel ruolo della donna; in secondo luogo nella visione dell’amore, che costituisce oggi quasi un deterrente perché emerge il bisogno di dare alla propria immagine connotati di forza e successo; infine, nell’ideale consumistico, che è diventato predominante favorendo una mentalità del tutto e subito. Questo tipo di vita amplifica il vuoto interno, la mancanza di significato e di progettualità; troppo spesso acquista valore il possesso che investe non solo le cose ma anche le persone.

Il libro, attraverso il racconto di storie ed esperienze di famiglie, coppie, adulti, bambini e adolescenti, oltre ad analizzare i risvolti di amori degenerati, cerca di riflettere anche sulle cause che maggiormente conducono a comportamenti violenti che non vengono regolati da limiti e divieti.

 

Apprendere con i profumi: memoria olfattiva come mezzo per potenziare la memoria visuo-spaziale

Olofsson e collaboratori (2020) hanno ideato uno studio in grado di rilevare se un particolare esercizio che stimolava la memoria attraverso l’olfatto avesse effetti positivi anche sull’orientamento nello spazio.

 

Il sistema olfattivo è caratterizzato da un alto livello di plasticità biologica e funzionale, essendo uno dei sensi che è maggiormente in grado di modificare il nostro cervello e che è più facile modificare se sottoposto a ripetuti stimoli, come profumi e odori (Li et al. 2008; Fletcher, 2012; Kass et al. 2013). È infatti noto che sia possibile migliorare le prestazioni olfattive semplicemente per mezzo di un addestramento basato su stimolazioni, e i sommelier ne sono un esempio (Mainland et al. 2002, Hummel et al. 2009; Damm et al. 2014; Morquecho-Campos et al. 2019). Studi recenti hanno infatti appurato che gli esperti del settore, ottengono risultati migliori dei non esperti nelle valutazioni olfattive (Royet et al. 2013), e che la loro competenza è correlata a riorganizzazioni strutturali nelle aree cerebrali associate alla memoria avvenute mediante allenamento ripetuto (Delon-Martin et al. 2013). Al contrario, non sono stati riportati effetti analoghi nel sistema visivo, che risulta pertanto poco allenabile.

Alcune ricerche mostrano quindi come l’olfatto sia strettamente associato all’apprendimento, e suggeriscono che le abilità sensoriali olfattive possano giocare un ruolo chiave nelle prestazioni della memoria visiva. In merito a quest’ultimo caso, è stato dimostrato che l’addestramento alla discriminazione di differenti odori porta a un miglioramento dell’apprendimento visuo-spaziale nei ratti (Zelcer et al. 2006). Attraverso la memoria olfattiva, i ratti possono quindi potenziare la memoria visiva.

In seguito a tale scoperta, Olofsson e colleghi hanno ipotizzato che questa abilità valesse anche per soggetti umani, e che quindi l’addestramento alla memoria basato sull’olfatto in partecipanti adulti potesse avere effetti positivi sia sulla memoria visiva, sia sulle prestazioni percettive olfattive (Olofsson et al., 2020). Di conseguenza, gli autori hanno ideato uno studio in grado di rilevare se un particolare esercizio che stimolava la memoria attraverso l’olfatto avesse effetti positivi anche sull’orientamento nello spazio, nonché sulla stessa qualità dell’olfatto in partecipanti umani. Gli autori dello studio hanno inoltre ipotizzato che, viceversa, l’allenamento visivo non portasse particolari benefici nelle prestazioni olfattive. Per testare queste ipotesi, gli autori hanno ideato due differenti giochi da tavolo che esplorassero le due diverse sfere sensoriali, noti nell’implicazione delle reti di codifica della memoria (Rasch et al. 2007; Kunz et al. 2015).

Il cuore dell’intervento consisteva nella modifica di una canonica sperimentazione incentrata sulla memoria escludendone le componenti visive per confrontare gli effetti di trasferimento generati dall’implicazione della memoria olfattiva e visiva. I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale allo svolgimento di compiti olfattivi o visivi, con livello di difficoltà simile, per l’allenamento quotidiano della memoria pre-test in un periodo di circa 40 giorni. L’addestramento è stato svolto con esercizi giornalieri di discriminazione e riconoscimento degli odori, e con l’utilizzo degli Sniffin’ Sticks, striscioline di carta pregne di differenti aromi, che permettono di individuare la capacità di identificazione degli odori, di discriminazione e di determinazione della soglia olfattoria.

Se chi sta leggendo ha mai giocato a Memory, il gioco da tavola in cui si devono individuare coppie di immagini identiche nel tabellone, potrà comprendere appieno le procedure dell’esperimento in questione, in quanto pressoché simili. Le sperimentazioni olfattive e visive sono infatti state svolte proprio con lo stesso principio. Il gioco relativo alla memoria olfattiva comprendeva 24 lattine, contenenti 12 diversi tipi di tè aromatizzati, che costituivano, quindi, 12 coppie di stimoli a due a due identici. Gli aromi sono stati posti in sacchetti di cotone per arginare l’identificazione visiva degli stessi. Le lattine sono state poi distribuite casualmente su una tavola di 24 caselle. In ogni prova, il giocatore aveva l’obiettivo di campionare due lattine a scelta e confrontarne il contenuto, accoppiando quelle con lo stesso aroma. Al rilevamento di una corrispondenza, gli oggetti venivano rimossi dalla tavola. L’esercizio terminava quando non rimaneva alcuna lattina in tavola.

Per ciò che concerne invece la memoria visiva, è stato ideato un gioco piuttosto similare al precedente come compito di controllo. Questa seconda sperimentazione, ancor più simile a Memory, consisteva nell’individuazione di 12 coppie di immagini identiche collocate all’interno delle 24 lattine, e poste in due differenti tavole. Le immagini rappresentavano diversi simboli linguistici, ottenuti dal coreano e dal cinese mandarino. I due compiti di addestramento erano simili in tutti gli aspetti, per questo motivo le performance dei soggetti di ciascuno dei due esperimenti sono state misurate osservando il numero di prove impiegate per svuotare la tavola: ça va sans dire, meno prove indicavano una miglior performance.

I risultati dello studio hanno mostrato che mentre l’addestramento visivo non ha prodotto il trasferimento al compito di memoria olfattiva, esattamente come previsto, l’addestramento olfattivo ha prodotto il trasferimento di memoria al compito visivo non precedentemente addestrato. Ciò significa che mentre nel secondo compito i soggetti hanno utilizzato esclusivamente la memoria visiva, che ha loro permesso svuotare il tabellone attraverso molteplici tentativi, nel primo compito i soggetti hanno utilizzato entrambi i sensi ed entrambi i tipi di memoria per accoppiare oggetti con le stesse caratteristiche olfattive. Questo studio ha inoltre dimostrato che l’addestramento olfattivo precedentemente esercitato, ha anche migliorato le prestazioni dei partecipanti nei compiti di discriminazione degli odori e di denominazione, tanto che il gruppo che ha svolto il primo esperimento ha raggiunto lo stesso livello di prestazioni di un gruppo di sommelier con prestazioni elevate, che ha svolto lo stesso esercizio con lo stesso numero di tentativi ed identiche tempistiche (Olofsson et al., 2020).

I risultati di cui sopra indicano che il sistema olfattivo è altamente reattivo all’allenamento e fanno strada all’ipotesi che l’olfatto possa facilitare il trasferimento dell’apprendimento ad altri domini sensoriali. Queste informazioni potrebbero essere utilizzate non solo nelle aree clinica e medica, ma anche nei settori lavorativi e scolastici, implementando le tecniche di apprendimento già esistenti.

 

Comuni-CARE, il corpo e la cura oltre le parole (2021) di Valentina Di Ludovico – Recensione del libro

Il libro “Comuni-care. Il corpo e la cura oltre le parole. Guida pratica: come progettare un training di gruppo sulla comunicazione assertiva” (2021), scritto da Valentina Di Ludovico, Edizioni Alpes, è una guida agile e accessibile a tutti, che connette ed integra il tecnicismo dell’agire professionale a dei mini racconti, offrendo così importanti spazi di riflessione al lettore.

a cura del Dott. Domenico De Berardis – Psichiatra Psicoterapeuta, ASL 4 Teramo

 

Valentina Di Ludovico, Tecnico della riabilitazione psichiatrica, accompagna il lettore verso il mondo della comunicazione sottolineando che la natura tecnica e strutturata della parola non basta per essere “buoni comunicatori”. Bisogna tornare alle origini, alle sensazioni primordiali, al “porre orecchio” al mondo interno per non rischiare di essere sommersi da una società accelerata, che impone prestazioni e modelli perfetti, avulsi dal prendersi cura dell’essere umano. Una guida agile e accessibile a tutti, una guida che connette ed integra il tecnicismo dell’agire professionale a dei mini racconti che si pongono come spazi di riflessione per il lettore.

Si fa un gran parlare del termine assertività, ma spesso questo termine viene abusato oppure usato in contesti che non sono necessariamente corretti. L’assertività è una caratteristica che a che fare non solo, ovviamente, con la pura e semplice “comunicazione” (cosa peraltro ovvia per chi lavora con la salute mentale), ma anche con una caratteristica intima e propria di sé stessi che ci permette di auto affermarci, di interagire col mondo e con gli altri, in modo sempre rispettoso e coerente. Va da sé che l’assertività non è una caratteristica che può essere completamente appresa nel corso della vita. È vero che può essere affinata, può essere implementata, può essere addirittura imitata, ma essa è una caratteristica profondamente umana con la quale, a mio giudizio, si nasce e che si modella a partire dalle esperienze precoci di vita, dalle relazioni genitoriali e amicali, dal clima ambientale più o meno positivo e da tutte le esperienze che si fanno nel corso dell’esistenza.

La comunicazione assertiva presume un’assertività personale, su questo credo non ci siano dubbi. Inoltre presuppone sempre anche il rispetto dell’altrui opinione, per quanto questa possa essere, entro certi limiti, disfunzionale e fonte di malessere. Non possiamo essere comunicatori assertivi se non rispettiamo l’altrui opinione, anche se consideriamo quest’ultima un’espressione psicopatologica oppure un’idea che noi personalmente non condividiamo o rifiutiamo. Per essere efficaci comunicatori assertivi bisogna innanzitutto avere autoconsapevolezza, livellare la propria autostima, aspettarsi sempre una sorpresa dall’interazione con l’altra persona, cercare di non travalicare i propri limiti, di non essere kamikaze e di conservare sempre una caratteristica che nel mondo moderno spesso è negletta o ignorata, cioè l’empatia. La comunicazione assertiva, inoltre, serve anche per modulare il modo di veicolare le informazioni a seconda del contesto in cui noi ci troviamo: è possibile, in alcuni casi, che di fronte a determinate situazioni possiamo anche usare una comunicazione non troppo assertiva, modulandola a seconda del contesto.

L’errore che si fa spesso nella comunicazione è quello di sembrare “ex cattedra”, con atteggiamenti giudicanti e sprezzanti, quasi a voler ribadire che il mio modo di voler veder le cose è il modo corretto, mentre il modo altrui è assolutamente sbagliato e da cambiare. Questa non è in nessun modo una comunicazione assertiva, perché l’essere giudicanti presuppone che io, a priori, non rispetti l’opinione altrui, pur dissentendo da essa. Sono intimamente anche convinto che la comunicazione giudicante, non rispettosa, maldestra sia esattamente ciò che bisogna evitare in qualunque contesto e a maggior ragione quando si ha a che fare con la salute mentale e la sofferenza psichica.

La comunicazione assertiva, a mio modesto avviso, presuppone inoltre una consapevolezza delle proprie emozioni, dei propri sentimenti, stati d’animo e la capacità di poterli comunicare all’altro, non solo verbalmente ma anche usando tutti gli strumenti del linguaggio non verbale e dunque del non detto. Per di più noi sappiamo perfettamente che porsi in contrapposizione assolutamente ferma e mai opinabile porta molto raramente a risultati efficaci quando si comunica con un’altra persona che ha opinioni o pensieri che divergono dai nostri. La capacità di modulare la nostra opinione, senza ovviamente risultare falsi o fintamente accondiscendenti, è una capacità fondamentale nella vita umana per avere sane relazioni che possono in qualche modo permettere sia a noi stessi che agli altri di raggiungere i propri obiettivi e trovare punti di condivisione a volte assolutamente inaspettati.

Naturalmente la comunicazione assertiva è un qualcosa che tutti gli operatori della salute mentale conoscono sin troppo bene quando hanno a che fare con i disturbi psichiatrici gravi. Basti pensare agli errori di comunicazione che si fanno con le persone affette da depressione maggiore quando si dice loro “…tirati su dai, ce la devi fare da solo, hai tutte le possibilità per farcela, non essere triste, hai tutto dalla vita, eccetera”: questa comunicazione, che apparentemente potrebbe sembrare assertiva, in realtà è l’esatto contrario perché nasconde una totale irrispettosità di quella che è la situazione dell’altra persona e adombra il presupposto che il mio punto di vista sia assolutamente quello giusto e che l’altro sia semplicemente un errore. Sappiamo quanto questo genere di comunicazione possa creare problemi e peggioramenti proprio nei casi di depressione, per fare un esempio che sia facilmente comprensibile a tutti. In realtà la comunicazione assertiva noi la usiamo sempre molto finemente, gestendola a volte in modo inconsapevole anche in tante altre occasioni. Basti pensare a quelle situazioni in cui ci ritroviamo a gestire, ad esempio, un episodio psicotico in una persona con disturbo di personalità, forse uno dei più impegnativi e stressanti quadri che possiamo incontrare nella pratica clinica.

Sono fermamente convinto che l’assertività e la comunicazione assertiva non possono prescindere poi da una caratteristica fondamentale che sempre più viene trascurata: il buonsenso. Il buonsenso ci guida nelle scelte quotidiane, ci rende capaci di affrontare le complesse interazioni umane di tutti i giorni, ci restituisce il valore e il significato delle cose vere e della vita. Il buonsenso stesso è un valore fondante di ogni azione che noi facciamo, di ogni colloquio che intraprendiamo, di ogni gesto quotidiano. Dunque, nella comunicazione assertiva, il buonsenso è assolutamente un punto fermo. Ci può stare anche l’impulsività nella comunicazione, anche in presenza di buon senso, ma ove essa sia esagerata bisogna rimodularla, ammettere i propri sbagli, cambiare opinione ove possibile e necessario, riuscire a comprendere che dobbiamo imparare dall’esperienza e che gli errori, come esseri senzienti e umani, possiamo commetterli, ma che da essi dobbiamo trarre insegnamenti fondamentali.

Il volume di Valentina di Ludovico rappresenta una innovazione importante nel panorama dei tanti testi dedicati alla comunicazione e all’assertività per una serie di ragioni. L’autrice parte dal presupposto che fare riabilitazione non possa avvalersi di schemi rigidi e di manuali applicati e già questo consente di affermare che si entra in un campo in cui la comunicazione assertiva svolge un ruolo fondamentale: quanto può essere difficile capire gli schemi mentali dell’altro, mettersi nei panni dell’altro, risuonare emotivamente con l’altro, intercettarne i bisogni e i desideri, capire cosa egli desideri della vita e cosa in realtà gli manchi? È molto semplice: in realtà snobbare unificazione con l’altro e imporgli forzatamente quello che è nella nostra mente, quello che noi riteniamo giusto, quello che per gli studi che abbiamo fatto pensiamo sia una verità assoluta. Questo ci allontana molto spesso dall’altra persona perché non ci consente di entrare in comunicazione empatica con essa: quando abbiamo a che fare con una persona che soffre, e che magari è affetta da un disturbo psichiatrico grave, ci si rende conto nella pratica clinica quanto il seguire modelli standardizzati sia spesso fallace e fonte di incomprensioni.

L’autrice introduce il personaggio di Mindy, la quale porta la propria esperienza in prima persona, con tutte le difficoltà di comprensione dell’altro e di instaurazione di una comunicazione efficace e assertiva. Questo è un altro grande vantaggio del libro che permette una sorta di percorso guidato, permettendoci a nostra volta di empatizzare con gli utenti e, di fondo, con la stessa Mindy. Un altro aspetto di grande importanza è dato dal fatto che la comunicazione assertiva presuppone la conoscenza di quel complesso mondo fatto di infinite sfumature che appartiene all’altro e che non può essere riduttivo o ridotto a pura e semplice deduzione dall’alto. L’immedesimarsi è capacità centrale e in qualche modo anche, entro certi limiti, affinabile.

Potrei citare tanti altri valori e vantaggi che possiamo trarre dalla lettura di questo libro, ma mi piace soffermarmi soprattutto su uno di essi: la creatività. Comunicazione assertiva significa attingere alle proprie risorse interne e, principalmente, alla creatività personale, caratteristica presente in modo più o meno sfumato in tutti noi. Attenzione però, creatività non intesa nel senso che ogni cosa è permessa ma bisogna essere creativi sempre nel rispetto altrui, di alcuni protocolli e della validità scientifica di essi. Esercitare la comunicazione assertiva usando la creatività e l’accesso al proprio mondo emotivo è sempre fonte di illuminazione e di guida, per dirimere schemi maladattativi, fornire risposte capaci di comprendere la sofferenza ed evitare di entrare in circoli interpersonali disfunzionali che sappiamo bene essere alla base di molti quadri di cronicizzazione.

Il “fare” non corrisponde al “saper fare”, lo sappiamo bene, e certe volte lo dimentichiamo convinti che non abbiamo più nulla da imparare e che si possa fare, senza necessariamente dovere continuamente apprendere dalle nostre esperienze e dalla lettura di testi fondamentali. Il libro di Valentina Di Ludovico aiuta a saper fare e dunque, forse, tra tutti, questo è il miglior pregio che può derivare dalla sua lettura.

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Comuni-care (2021) di Valentina Di Ludovico - Recensione del libro

L’utilizzo della realtà virtuale in pazienti affetti da fobia sociale

La fobia sociale (social anxiety disorder – SAD) è caratterizzata da un’eccessiva paura del giudizio e delle reazioni degli altri e da intensa paura dell’imbarazzo e dell’umiliazione provati in contesti sociali (APA, 2013).

 

Tali individui, infatti, provano ansia in una vasta gamma di contesti sociali e nelle situazioni in cui devono compiere una performance (es. parlare in pubblico); la prevalenza di tale disturbo si attesta tra il 2 e il 13% (De Graaf, Ten Have & Van Dorsselaer, 2010; Kessler, Petukhova, Sampson, Zaslavsky & Wittchen, 2012)

In accordo con le linee guida NICE (National Institute for Health and Care Excellence, 2013), la terapia cognitivo-comportamentale risulta un trattamento d’elezione per la fobia sociale e una componente centrale di tale terapia risulta essere l’esposizione. Tale tecnica prevede che i pazienti si confrontino direttamente con quegli stimoli che generano ansia e paura, così da sperimentare in prima persona che le conseguenze negative temute in realtà non si verificano. Le teorie alla base sono due: l’Emotional processing theory (Foa & Kozak, 1986) e l’Inhibitory learning model (Craske et al., 2008), ed entrambe ipotizzano che il confronto con lo stimolo temuto consenta all’individuo di apprendere un nuovo tipo di informazione corretta e non spaventosa. Tuttavia, data la natura stessa del disturbo e la tendenza alla messa in atto dell’evitamento come comportamento di sicurezza, le situazioni sociali in cui praticare l’esposizione sono considerate spaventose per il paziente e, in alcuni casi, difficili da riprodurre per l’impegno e il tempo richiesto ai terapisti, anche in funzione della personalizzazione degli eventi trigger (Krijn, Emmelkamp, Olafsson & Biemond, 2004; Vanni et al., 2013). Infine, le esposizioni vengono spesso eseguite come esercizi a casa, sui quali viene fornito un feedback retrospettivo e fortemente dipendente dai report soggettivi del paziente. Per questo l’esposizione mediante realtà virtuale (VRET) è diventata un importante strumento terapeutico, utile per simulare quei contesti sociali che provocano un distress al paziente e che permettono così al terapeuta di mettere in atto un intervento efficace (Kampmann, Emmelkamp & Morina, 2016; Freeman et al., 2017).

Benché negli ultimi anni siano stati sviluppati numerosi ambienti sociali, utilizzabili con la realtà virtuale, gli studi che hanno valutato l’efficacia della VRET nel trattamento della fobia sociale sono esigui. Klinger e collaboratori (2005) sono stati i primi a valutare l’efficacia della VRET; nello specifico i pazienti con fobia sociale sono stati divisi in due gruppi: il primo ha ricevuto 12 sessioni con VRET, esponendosi a 5 diversi ambienti virtuali che simulavano differenti situazioni sociali, mentre il secondo gruppo è stato trattato con la terapia cognitiva comportamentale (CBT) standard. I risultati hanno dimostrato che la VRET è risultata efficace tanto quanto la CBT standard.

A questo primo studio pilota ne sono seguiti altri. Bouchard et al., (2011) hanno comparato l’utilizzo dell’esposizione “in vivo” con quella virtuale nel trattamento con terapia cognitivo-comportamentale; i ricercatori, infatti, hanno suddiviso i pazienti con fobia sociale in tre gruppi sperimentali: il primo gruppo è stato trattato con la CBT e con sessioni di esposizioni “in vivo”, il secondo gruppo con CBT con l’aggiunta di esposizione in realtà virtuale e l’ultimo gruppo non ha ricevuto alcun trattamento, fungendo da gruppo di controllo. I risultati hanno dimostrato che entrambi i trattamenti con CBT sono risultati significativamente più efficaci rispetto al gruppo di controllo e non sono state trovate differenze rilevanti tra l’esposizione in vivo e quella virtuale. Tali evidenze sono state confermate da una ricerca condotta due anni dopo, dimostrando che sia l’esposizione condotta con realtà virtuale che quella sperimentata in vivo hanno prodotto miglioramenti nella percezione negativa di sé e degli altri, nella regolazione emotiva, nella ruminazione e nel porre obiettivi realistici durante le situazioni sociali (Anderson et al., 2013); risultati che sono stati poi confermati nei follow-up condotti a distanza di 4 e 6 anni.

Nel 2018 è stato pubblicato da Chesham, Malouff e Schutte uno studio su due meta-analisi, riguardante l’efficacia della VRET nella riduzione dei sintomi dell’ansia sociale. Nella prima è stata comparata l’efficacia della tecnica di esposizione con la realtà virtuale rispetto al gruppo di controllo, mentre nella seconda rispetto ai trattamenti standard con esposizione in vivo e in immaginazione. Nello specifico le ipotesi di ricerca sono che il trattamento con esposizione con la tecnica di realtà virtuale sia più efficace nel ridurre i sintomi dell’ansia sociale rispetto al gruppo di controllo e che gli interventi CBT standard siano più efficaci nel ridurre i sintomi dell’ansia sociale rispetto alla VRET.

Dai risultati è emerso che per quanto riguarda la prima ipotesi di ricerca, l’analisi effettuata su sei studi con 233 partecipanti totali conferma una significativa riduzione di ansia sociale con VRET rispetto al gruppo di controllo. Per quanto riguarda, invece, il confronto tra VRET e trattamento CBT standard, l’analisi effettuata su sette studi con 340 partecipanti totali rileva una riduzione di ansia sociale maggiore nel trattamento standard con esposizione in vivo o immaginativa ma non di valore significativo, in contrasto con quanto ipotizzato. Tale risultato è in linea con due precedenti meta-analisi (Opris et al., 2012; Kampmann, Emmelkamp & Morina, 2016) ma rispetto a queste ultime, la ricerca in oggetto risulta più generalizzabile e affidabile in quanto ha confrontato un numero maggiore di studi, ha allineato il bias da pubblicazione, ha riportato risultati sia per RCTs che per studi ben controllati.

Più recentemente, Geraets e colleghi (2019) hanno effettuato un’ulteriore ricerca per evidenziare la fattibilità e i potenziali effetti della VRET-CBT in pazienti con fobia sociale, utilizzando un software che ha consentito ai terapisti di manipolare gli ambienti visualizzati dai partecipanti. Durante le 15 sessioni di VRET, i pazienti hanno testato le loro credenze, sono stati sollecitati i comportamenti di approccio sociale e sono stati forniti feedback su cognizioni e comportamento. I risultati hanno mostrato che l’ansia e il rimuginio durante l’interazione sociale e i sintomi depressivi sono stati significativamente ridotti dopo il trattamento con la realtà virtuale, migliorando notevolmente la qualità della vita dei partecipanti, anche nel successivo follow-up.

In conclusione, è possibile affermare che le ricerche condotte sull’utilizzo della realtà virtuale, abbinata alla CBT, nel trattamento della fobia sociale ha prodotto risultati promettenti, specialmente se tale realtà risulta interattiva; infatti da una successiva review condotta nel 2020 da Emmelkamp e colleghi, è emerso che tanto più l’ambiente virtuale è interattivo (es. dialogo con gli avatar, modificazione delle espressioni facciali dei personaggi, avere un’audience) tanto più l’esposizione è percepita immersiva e quindi efficace.

 

Mindfulness: psicologia buddhista e scienza. Le conoscenze essenziali per istruttori e terapeuti (2021) di Christina Feldman e Willem Kuyken – Recensione del libro

Mindfulness: psicologia buddhista e scienza. Le conoscenze essenziali per istruttori e terapeuti mantiene le promesse, ossia parlare della Mindfulness e delle sue caratteristiche essenziali nell’ottica integrata di Scienza e Tradizione.

 

 Chistina Feldman e Willelm Kuyken sono gli autori del libro Mindfulness: Psicologia Buddhista e Scienza curato da Antonio Cammellato e Fabio Giommi.  Un testo destinato a istruttori e terapeuti che tratta, con successo, di Mindfulness nella sua accezione più completa e ampia integrando i contributi della Psicologia come Scienza e della Psicologia Buddista. Un libro di Mindfulness scritto e curato da chi pratica e conosce la Mindfulness da molti anni e che cerca di farsi un posto tra gli scaffali degli ormai tantissimi libri che riempiono le librerie parlando di “consapevolezza” e “qui ed ora”.

Chistina Feldman è un’insegnante di meditazione e una figura di riferimento nell’ambito dell’Insight Meditation, conduce ritiri a livello internazionale, è cofondatrice del progetto Gaia House, è docente al Bodhi College, entrambi nel Regno Unito e autrice di numerosi libri. Willelm Kuyen è Professor of Mindfulness and Psychological Science all’Università di Oxford e direttore dell’Oxford Mindfulness Center. Si occupa, tra le altre cose, del ruolo della Mindfulness nella prevenzione delle ricadute, autore di numerosi articoli scientifici.

Le impronte di entrambi permeano la scrittura fatta di costanti rimandi alla tradizione della Psicologia Buddista da un lato e a cenni altrettanto importanti ai programmi basati sulla Mindfulness. Dalla loro sinergia nasce la possibilità di questo libro che integra aspetti legati alla tradizione con i contributi della Psicologia come Scienza rispecchiando l’attualità e l’esigenza di coinvolgere entrambi gli aspetti quando si parla di Mindfulness.

Alcuni Istruttori potrebbero non avere conoscenze nel campo della Scienza e alcuni terapeuti potrebbero aver bisogno di entrare nella profondità della Psicologia Buddista pertanto il libro nasce proprio con il fine di parlare ad entrambi; parlare un linguaggio che sempre più naturalmente si rivela compatibile e perfettamente amalgamabile come rivelano ormai i sempre più numerosi contributi che integrano pratiche contemplative e neuroscienza.

Raccontare la Mindfulness nel terreno laddove nasce in origine, amplia la prospettiva del suo significato. Nel testo viene prestata la dovuta attenzione alla filosofia e ai significati che costituiscono il substrato della pratica Mindfulness che non può rischiare di passare in secondo piano costituendone le basi stesse. L’incontro tra Psicologia Buddista e Scienza moderna è il presupposto per coltivare il cammino dalla sofferenza ad un miglioramento del proprio benessere. Il libro di 357 pagine è denso e ricco di informazioni, concetti, esercizi, pratiche, ma si fa leggere con estrema fluidità.

Ci sono molti testi che aprono il loro indice con il titolo “Cos’è la Mindfulness?” ma questo testo sicuramente risponde in modo non ovvio e integrato alla domanda, inglobando sia le conoscenze relative all’emergere e al proliferare dei programmi Mindfulness Based, sia sottolineando la “saggezza antica” (pp.8) che risulta quanto più attuale e contemporanea. I contenuti e le modalità in cui questa viene trattata sono originali e non scontati. Nei trafiletti tra le pagine si imparano a conoscere 4 personaggi che si dispiegheranno lungo il corso del libro, ognuno con la propria storia, la propria inevitabile sofferenza e il proprio percorso di consapevolezza e di come questa li abbia aiutati mano mano a (ri)conoscere e liberarsi dalle loro catene: Mohamed perso nella resistenza ai suoi dolori cronici, Ling recidiva alla depressione, Sophia in lotta con la sua voce autocritica e Sam con problematiche di dipendenza. 4 vite che si svelano mano a mano nei capitoli che esplicitano la pragmaticità degli insegnamenti che vengono raccontati nei vari capitoli.

Più definizioni, ma soprattutto un focus più preciso su cosa sia La Consapevolezza intesa come uno stato mentale dell’essere presenti, un processo di dispiegamento dell’esperienza e una facoltà che si può, pertanto, addestrare. Grande importanza, a ragion veduta, viene data all’intenzione e alle qualità attitudinali come la gentilezza, la curiosità e la pazienza, che permeano il terreno di chi pratica (e di chi insegna) la Mindfulness.

Si parla di Mappe, un minimo comune denominatore che si snoda nella parte centrale del libro: “la Mappa della mente” e la “Mappa della Psicologia Buddista”, la “Mappa della Sofferenza” e la “Mappa della Trasformazione”.

La parte del libro dedicata alla Scienza Psicologica affronta tematiche relative ai processi cognitivi, primo fra tutti l’attenzione, alla differenza tra emozioni, cognizioni e sensazioni fisiche e al loro costante integrarsi e influenzarsi nell’esperienza. Argomenti che possono risultare familiari ad un lettore del settore ma non per questo risultano in alcun modo banali poiché vengono affrontati nell’ottica degli insegnamenti Mindfulness Based. Utili all’Istruttore che ha familiarità, fondamentali per chiunque si voglia avvicinare all’insegnamento. Sempre da questa prospettiva si parla del pilota automatico, della mente giudicante e del suo costante vagare, ma non come spesso accade per “convincere” come la Mindfulness possa essere d’aiuto quanto piuttosto per “spiegarlo”. Accenni agli studi più importanti nel campo delle Neuroscienze e rimandi costanti ai programmi Mindfulness Based (con particolare riferimento al programma MBCT Mindfulness based Cognitive Therapy, Segal, Williams, Teasdale,) si snodano lungo le pagine in modo da chiarire con un senso incredibilmente pratico a accurato i vari aspetti che poi vengono trattati nelle sessioni di gruppo.

 La parte seguente, dedicata alla Psicologia buddista, con un linguaggio chiaro e immediato affronta tematiche relative alla sofferenza e alla sofferenza della sofferenza, al potere della resistenza e del desiderio, all’impermanenza, e ai modi per stabilire la consapevolezza (i quattro fondamenti: consapevolezza del corpo, tonalità edonica delle sensazioni, stati mentali e stati d’animo e esperienze del mondo). Questi quattro punti vengono raccolti e raccontati ancorandosi sempre alle pratiche dei programmi Mindfulness Based e quindi con un focus proprio su quelle pratiche formali ed informali che vanno a lavorare sui diversi fondamenti. Come ogni libro sulla pratica Mindfulness che si rispetti non mancano momenti di invito alla pratica stessa con esercizi di consapevolezza guidati.

Vengono utilizzati, come accennato in precedenza, termini della tradizione e della Psicologia Buddista, finemente raccontati nell’ottica dei Programmi di Mindfulness. I due linguaggi permeano l’uno nell’altro rendendo difficile categorizzare il testo, non appare come un vero e proprio manuale per la fluidità delle pagine che scorrono anche se la qualità e la quantità delle informazioni lo renderebbe tale. Il testo scorre in modo davvero intuitivo raccontando come le pratiche della Mindfulness che vengono proposte durante i percorsi di due mesi sostengano la via verso un miglioramento del benessere della persona in tutte le varie sfaccettature.Tabelle riassuntive spiegano gli insegnamenti nelle varie sessioni dei programmi. Il libro non si sostituisce ad un vero e proprio manuale di insegnamento di queste, ma ne racconta le parti essenziali, come cita il sottotitolo del testo stesso. Un approfondimento per chi conosce già, una lettura necessaria per chi vi si approccia in prima battuta.

Anche per chi anche avesse già dimestichezza con i programmi, infatti, il libro risulta comunque fluido ed interessante legando tutti gli aspetti che vengono affrontati di sessione in sessione sia dal punto di vista della Psicologia sia della Tradizione.

Un bellissimo capitolo affronta le essenziali qualità di Benevolenza, Compassione, Gioia ed Equanimità attraverso una semplice e profonda spiegazione delle loro caratteristiche, di cosa siano davvero (e non assomiglino) e di cosa NON siano davvero. Ed è questo capitolo che apre la strada agli ultimi, dove rilievo viene dato all’importanza di rispettare la figura dell’Istruttore o Insegnante di Mindfulness nella sua accezione più completa. E quindi anche nella sua formazione.

Si affronta dapprima il concetto di “Embodiment” quindi della continuità tra i nostri valori, il modo in cui pensiamo, agiamo e parliamo per proseguire a disquisire sulle non affatto banali tematiche di Etica e Integrità che non possono non essere parte integrante delle persone coinvolte nell’insegnamento di questa delicata attitudine che difficilmente passano da corsi di formazione “fast food “ che rischiano di snaturare la complessità e la natura stessa della Consapevolezza Mindfulness. Il libro si completa con due Appendici, una prima con una raccolta di definizioni essenziali e la seconda che sottolinea l’importanza di comprendere cosa sia l’addestramento alla consapevolezza e quali sono le caratteristiche che definiscono un programma Mindfulness Based.

In definitiva un testo che è stato scritto e curato non solo da chi conosce l’argomento dal e nel profondo, ma anche da chi ha a cuore che gli insegnamenti vengano proposti con la giusta delicatezza e il giusto rispetto. Si parla tanto di “stare nel presente” e di quanto i suoi benefici siano ormai oggetto di evidenza scientifica, ma per parlare di Mindfulenss occorre vestirla, conoscerla, praticarla, e fare il bagno in tutto il passato radicato al di sotto, per poterlo poi portare nei vari programmi Mindfulness Based ormai noti in tutto il mondo.

Si tratta pertanto di un testo che mantiene le promesse, ossia parlare della Mindfulness e delle sue caratteristiche essenziali nell’ottica integrata di Scienza e Tradizione. Non è il primo che si lancia nell’impresa ma sicuramente uno dei più completi e appaganti in tal senso.

 

Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti (2021) di Pietro Roberto Goisis- Recensione del libro

Nella stanza dei sogni è un’opera emozionante e coinvolgente. Lo psicoanalista Pietro Roberto Goisis si mette a nudo e con straordinaria maestria apre le porte del suo studio. Cosa accade una volta varcata quella soglia?

 

Lo psicoanalista Pietro Roberto Goisis si mette a nudo e con straordinaria maestria apre le porte del suo studio, ci conduce dietro le quinte dei colloqui con i suoi pazienti e, prendendoci per mano, ci accompagna proprio lì, in quella stanza. Cosa accade una volta varcata quella soglia? Quali sono le narrazioni, i pensieri, le emozioni che caratterizzano l’analista? E i pazienti? Alternando la narrazione in prima persona, alla voce dei pazienti, veniamo accompagnati in un viaggio fatto di incontri, di prime volte, di attese, di scoperte, di emozioni e sentimenti.

I primi capitoli affrontano il tema del primo incontro tra analista e paziente, dando voce alla storia di Anita, Alessandra e Simona, e il tema dell’adolescenza con le narrazioni di Annibale, Greta, Antonio e Matteo. I capitoli successivi trattano temi universali come il senso della vita, il suicidio, la morte, l’omosessualità, il cambiamento e la crescita, non solo del paziente ma anche del terapeuta nel corso della pratica clinica. Il racconto di stralci di vita dell’autore si alterna alle storie dei pazienti offrendo una lettura scorrevole, profonda, toccante. La narrazione porta il lettore ad empatizzare profondamente con ogni singola voce, provando emozioni di dolore e sorpresa, gioia e commozione. Emergono la complicità, l’energia e il potere dell’incontro tra due persone che si parlano intimamente e si trasformano. Affiorano le riflessioni, i dubbi e le emozioni di un analista appassionato, profondamente umano. Per essere aiutati i pazienti hanno bisogno di affezionarsi al proprio terapeuta ma è altrettanto importante che il terapeuta voglia bene a chi si accomoda di fronte a lui.

Cosa accade quando una terapia giunge al termine? Come si salutano analista e paziente? Cosa si dicono? La parte finale del libro è dedicata proprio alle chiusure, ai saluti, agli arrivederci, agli addii attraverso le storie di Sara, Paula ed Eleonora. Citando l’autore per poter aiutare chi giunge in terapia a riscrivere la propria storia è necessario raggiungere un altissimo livello di intimità relazionale, a volte addirittura paragonabile a quello di un legame affettivo; quando poi la persona esce per sempre dalla vita del terapeuta è come se un figlio che è stato amorevolmente accompagnato nella crescita, se ne andasse di casa “orgoglio e dispiacere al tempo stesso”. Il paziente, che si prepara a salutare il proprio analista, sa che il viaggio della vita continua con maggiori consapevolezze, un nuovo equilibrio e con la voce del proprio terapeuta dentro di sé che riecheggia amorevolmente, in una sorta di dialogo interno, lungo le strade della vita.

Trasparenza e autenticità accompagnano tutta la narrazione rendendo l’opera una guida preziosa per tutti, un libro da leggere più volte, su cui continuare a riflettere nel tempo.

 

Questionario online SatisFACE: percezione dell’immagine digitale di sé – Survey Online

Il progetto SatisFace nasce dalla collaborazione tra la Facoltà di Psicologia dell’Università Vita Salute S. Raffaele e l’Università Sigmund Freud di Milano e mira ad indagare la percezione dell’immagine del sé in diversi contesti e costrutti psicologici.

 

 La costruzione dell’immagine di sé è un processo complesso e dinamico, costituito dall’equilibrio tra la percezione di sé e la percezione che gli altri hanno di noi. La prima si riferisce a come noi stessi ci vediamo e riconosciamo, deriva da riflessioni sul nostro sé. La seconda è legata al modo in cui gli altri ci vedono e da come pensiamo di essere visti e percepiti dagli altri.

A causa dell’emergenza sanitaria e delle restrizioni anti-COVID, indispensabili per la salute pubblica, le comunicazioni online virtuali si sono necessariamente intensificate e il modo in cui interagiamo con gli altri si è trasformato.

La rappresentazione di sé online risulta differente rispetto a quella faccia a faccia, le interazioni virtuali sono senza dubbio più soggette a distorsioni dovute alla desiderabilità sociale: gli utenti hanno la possibilità di decidere quali caratteristiche fisiche e caratteriali esibire per aumentare l’approvazione sociale.

Sui social media non è infrequente imbattersi in foto o selfie accuratamente modificati tramite filtri, applicazioni di fotoritocco o make-up virtuale. La continua ricerca della perfezione, accessibile solo tramite fotoritocco o addirittura con il ricorso alla chirurgia plastica, promuove un modello di bellezza distorto e irraggiungibile, provocando un gap tra corpo reale e corpo ideale che altera l’autostima e il benessere personale e sociale.

La soluzione che ha permesso il rispetto del distanziamento sociale, pur assicurando una continuità lavorativa, educativa e relazionale sono le videochiamate. Le piattaforme digitali, utilizzate per favorire smartworking, didattica a distanza, e mantenere le relazioni interpersonali, ci sottopongono ad un costante confronto con l’immagine speculare del nostro stesso viso, permettendoci di vedere e alterare la naturale mimica facciale durante la conversazione o modificare la posa in modo da ottenere una miglior rappresentazione di noi nell’inquadratura. Il nostro volto diviene così lo stimolo più efficace e quello più esposto del nostro corpo, non solo agli occhi degli altri ma anche al nostro stesso sguardo.

Questa costante visione del proprio volto attraverso uno specchio virtuale può rappresentare una fonte di ansia e stress, in quanto induce a interrogarsi su sé stessi e sulla percezione che gli altri hanno di noi, generando così una possibile insoddisfazione dell’immagine di sé: oltre il 30% delle persone in videochiamata ha notato un difetto del proprio volto mai identificato prima (Pikoos, 2021).

Anche lo stato di salute personale può influenzare diversi atteggiamenti e comportamenti nel processo della costruzione dell’immagine di sé.

All’interno del contesto clinico, l’indagine si concentra sui pazienti con attuale o antecedente diagnosi di cancro, in quanto i pazienti oncologici comunemente sperimentano cambiamenti significativi a seguito delle terapie che mutano la relazione con l’immagine di sé.

L’associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) riporta che oltre il 50% dei pazienti oncologici si rivolge ai social per ulteriori informazioni sanitarie, per condividere la propria esperienza e ricevere supporto. Negli ultimi anni sono aumentati profili personali, gruppi e pagine dedicate alla condivisione e informazione oncologica.

 Il progetto SatisFace nasce dalla collaborazione tra la Facoltà di Psicologia dell’Università Vita Salute S. Raffaele e l’Università Sigmund Freud di Milano e mira ad indagare la percezione dell’immagine del sé nei contesti sopra descritti e costrutti psicologici quali l’autostima, l’ansia e la depressione. La soddisfazione rispetto all’immagine di sé, così come declinata ed esplorata nel progetto SatisFace, si concentra sul viso, protagonista delle interazioni virtuali e sui social network. Questo è un aspetto estremamente innovativo dal momento che gran parte della letteratura sulla soddisfazione con l’immagine di sé prende in considerazione prevalentemente l’intero corpo.

Le attività previste dal progetto di ricerca sono volte ad approfondire, a livello teorico e pratico, come e se è cambiato il rapporto con il proprio viso nell’era digitale, come l’innovazione tecnologica ha portato ad una evoluzione dell’immagine digitale e se ci sono stati o meno risvolti e ripercussioni per i fruitori.

Il questionario, strutturato per tutte le persone maggiorenni, ha una parte specifica dedicata solamente ai pazienti che hanno affrontato un percorso di malattia oncologica per indagare il ruolo dello stato di salute nella relazione con l’immagine di sé mediata dalle tecnologie digitali.

 

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La ringraziamo per il tempo che ci ha dedicato e per aver contribuito allo sviluppo della nostra ricerca.

Autori:

 

Cybercondria: alcuni fattori di rischio nella tendenza ad autodiagnosticarsi malattie su web

La letteratura associa la cybercondria a variabili disposizionali e personologiche, in particolare ad altri tratti di nevroticismo.

 

Il 7% delle ricerche giornaliere su internet riguarda la richiesta di informazioni o di supporto di aspetti inerenti la propria salute. Sono un 1 miliardo le domande poste ogni giorno per informarsi sulle potenziali minacce, autodiagnosticarsi patologie o rassicurarsi sul proprio stato fisico (Murphy, 2019).

Sebbene questo fenomeno costituisca la normalità, un’esacerbazione di tali comportamenti potrebbe sfociare nella cybercondria, uno schema di condotte anomalo, costituito da ricerche ripetute ed eccessive di informazioni su internet inerenti la salute (Starcevic et al., 2019), che provoca ansia e cognizioni che riflettono tale atteggiamento problematico.

La cybercondria è stata definita come un uso problematico di internet correlato alla salute (Fergus & Spada, 2017), che può essere concomitante alla depressione (Barke et al., 2016), all’ansia per la salute (McMullan et al., 2019) e sintomi ossessivo-compulsivi (Fergus & Russell, 2016), poiché esacerba la componente di angoscia, interrompe la vita quotidiana, alimentando la ricerca di rassicurazioni (Fergus, 2014).

La letteratura associa la cybercondria a variabili disposizionali e personologiche, in particolare ad altri tratti di nevroticismo, che correla ad un uso problematico di internet (Kayiş et al., 2016; Koronczai et al., 2019) e ricerca di informazioni online sulla salute (Bogg & Vo, 2014).

Poiché il nevroticismo riflette la tendenza a provare emozioni negative, cognizioni e comportamenti disadattivi (Mccrae & Costa, 1994), indagini prospettiche lo hanno individuato come fattore di vulnerabilità generale per la maggior parte delle psicopatologie dell’età evolutiva (De Bolle et al., 2012) adolescenziale (Goodwin et al., 2003) e adulta (Hampson et al., 2006).

Inoltre, avendo un’elevata stabilità temporale, si associa prospetticamente a depressione, ansia, disturbi dell’umore (Jeronimus et al., 2016), ansia per la salute (Noyes et al., 2005) e sintomi ossessivo-compulsivi (Bergin et al., 2014).

Secondo la letteratura, individui con maggiori livelli di nevroticismo reagiscono allo stress in modo emotivamente saliente. Riportando un’elevata sensibilità alla minaccia, attuano comportamenti disadattivi come disregolazione comportamentale, impulsività e ricerca di sensazioni estreme (Allen & Deyoung, 2015).

Un fattore indagato in associazione al nevroticismo è l’incapacità disposizionale di sopportare una risposta avversiva innescata da una percepita assenza di informazioni salienti, ovvero l’intolleranza all’incertezza (Carleton, 2016).

L’incertezza, oltre ad innescare emozioni negative tra coloro con alto nevroticismo, ha un ruolo rilevante nel mantenimento di disturbi dell’umore e d’ansia (McEvoy & Mahoney, 2012) ed è stata individuata in associazione alla cybercondria (Fergus, 2015).

Tra coloro con elevata intolleranza all’incertezza, la possibilità incorrere in conseguenze negative a livello di salute, può provocare risposte comportamentali e cognitive disadattive (come interpretazione negativa della situazione) ma soprattutto ricerca frequente di informazioni mediche online che, anziché dare sicurezza, amplificano la preoccupazione e l’ansia (Starcevic et al., 2019).

Un ulteriore costrutto implicato nella cybercondria è il pessimismo difensivo; una strategia mentale impiegata per fronteggiare situazioni estranee incerte o minacciose, che costituiscono un rischio di fallimento (Norem, 2008).

Tale attenzione mentale negativa non è debilitante ma promuove un pensiero rivolto alla prevenzione di un disastro immaginario (Norem & Cantor, 1986a), consentendo l’elaborazione cognitiva dell’ansia e dell’incertezza inerente la salute. Costruire mentalmente uno scenario di salute, potrebbe aiutare a trasformare il problema in azione, e di conseguenza agire per prevenirlo (Norem, 2008).

Questa strategia, anziché consentire una buona gestione dell’ansia, la intensifica. Infatti, nel prepararsi a fronteggiare lo scenario peggiore, come un’ipotetica malattia, si ricercano assiduamente informazioni su internet per rassicurarsi sul proprio stato di salute, soffermandosi sugli aspetti negativi e riflettendo su tutto ciò che potrebbe andare storto (Norem & Chang, 2002).

Al fine di ampliare la letteratura nell’ambito, l’indagine di Bajcar & Babiak (2020), ha studiato il ruolo del nevroticismo nella cybercondria in un campione di 386 studenti, esaminando in questa relazione l’effetto di mediazione dell’intolleranza all’incertezza e del pessimismo difensivo.

Coerentemente con studi precedenti, il nevroticismo, ovvero il tratto di personalità più implicato nello sviluppo dei disturbi d’ansia, cognizioni disadattive e comportamenti coerenti con l’uso problematico di internet, correlava positivamente con la cybercondria (Koronczai et al., 2019; Noyes et al., 2005)

Anche l’intolleranza all’incertezza ed il pessimismo difensivo avevano un ruolo rilevante nella relazione tra nevroticismo e cybercondria, ponendosi come fattori di mediazione sia parallela che sequenziale.

Nella mediazione sequenziale, il nevroticismo rappresenta il fattore di vulnerabilità genetica, che precede temporalmente l’insorgenza dell’intolleranza all’incertezza e del pessimismo difensivo; fattori di vulnerabilità specifica che favoriscono, nella cybercondria, un un’eccessiva ricerca online di contenuti correlati alla salute.

Nel dettaglio, individui con alti livelli di nevroticismo sperimentano maggiore intolleranza di fronte a informazioni mediche incerte, minacciose e angoscianti, che possono innescare l’utilizzo di una strategia di pessimismo difensivo, protettiva ma che alimenta l’eccessiva ricerca di contenuti online, sfociando in cybercondria.

Nel modello di mediazione parallela, le preoccupazioni inerenti la salute tra coloro con nevroticismo, alimentano l’intolleranza all’incertezza, che a sua volta provoca l’insorgenza di cybercondria, ansia e ricerca eccessiva su internet di contenuti inerenti la salute. Ricorrere a fonti mediche online, oltre che conferire immediata rassicurazione, consente di ridurre lo stress e l’ansia elevata tra questi individui.

Separatamente, il nevroticismo alimenta il pessimismo difensivo come strategia di pensiero negativo per ridurre l’ansia nelle situazioni di minaccia (Lei & Duan, 2016), che a sua volta predispone alla cybercondria.

Anche in questo caso, pensieri e sentimenti negativi si interfacciano con la componente ansiosa legata al timore della malattia, che anziché ridursi mediante ricerca di informazioni rassicuranti su internet (Norem & Cantor, 1986b), viene esacerbata, generando preoccupazioni ulteriori che sfociano nella cybercondria (Fergus & Dolan, 2014).

Complessivamente, questi risultati offrono un contributo significativo alla comprensione della cybercondira e dei suoi potenziali fattori di rischio, individuando il ruolo del nevroticismo come fattore generale e dell’intolleranza all’incertezza e del pessimismo difensivo come ulteriori elementi chiave nella spiegazione del comportamento problematico.

 

“L’amore ai tempi del colera” … ops, del Covid!!

La letteratura e la psicologia, cooperando, pullulano di riflessioni e teorie riguardanti l’amore: sentimento eterno e primordiale, causa emozionale da anteporre alla nascita dell’individuo.

 

Rispondigli di sì, anche se stai morendo di paura, anche se poi te ne pentirai, perché comunque te ne pentirai per tutta la vita se gli rispondi di no (Gabriel García Márquez).

Introduzione

L’amore è il più potente dei virus. Volendo attribuire al termine “virus” un’accezione positiva, potremmo dire che è il sentimento verso il quale convergono le espressioni più alte del bene. L’amore si trasmette, diventa virale, colpisce chiunque, talvolta fa star male e non chiede il permesso prima di varcare la soglia della nostra persona. Fatta questa premessa, non è necessario sottolineare la connessione quasi ironica tra i due termini, il contesto storico in cui ci troviamo a vivere è l’ambiente più comodo per un parallelismo amore – virus.

Quando la psicologia incontra la letteratura: la personalità resiliente di Florentino Ariza

La letteratura e la psicologia, cooperando, pullulano di riflessioni e teorie riguardanti l’amore: sentimento eterno e primordiale, causa emozionale da anteporre alla nascita dell’individuo. D’altronde siamo nati grazie all’amore dei nostri genitori, siamo il frutto dell’evolversi di tale trepidazione affettiva. Osservando con occhi attenti il risultato della proliferazione di pensieri sull’idea di amore e sulla sua resa pratica (la relazione affettiva) è possibile definire quali siano le colonne portanti dello studio di questo favoloso sentimento.

Ad esempio, Florentino Ariza, il protagonista del celebre romanzo L’amore ai tempi del colera, si innamora perdutamente di Fermina Daza, con la quale ha avuto un rapporto epistolare. Si è dedicato anche all’ammirazione di altre donne, le quali sono state tutte attratte dal potere implicito dell’amore che Florentino ha sempre provato per Fermina.

Questo amore ha vissuto molte peripezie; l’attesa è durata cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni. Il protagonista ha dimostrato un forte coraggio, non si è mai arreso, neanche nel momento in cui la giovane amata ha sposato un altro uomo avente un ruolo più prestigioso nella società dell’epoca.

Il grande psicologo, sociologo, psicoanalista e filosofo, Erich Fromm è l’unico in grado di spiegare cosa sia successo a Florentino, cosa lo ha spinto ad aspettare per molto tempo Fermina, la donna della sua vita. Difatti, egli afferma che “amare qualcuno è una scelta, una promessa, un impegno”, il senso di responsabilità ha forme diverse che si individuano nel rispetto e nella conoscenza (E. Fromm, 2016).

Cosa spinge una persona ad aspettarne un’altra per un tempo così prolungato: ragione o istinto?

Erich Fromm considera l’amore come uno dei valori più intrinsecamente legati all’uomo, il quale, sin dalla sua nascita, ha imparato “L’arte di amare”, prima la sua mamma, la sua figura di attaccamento, poi i suoi fratelli e/o sorelle ed infine se stesso e Dio. Tutto questo per sopravvivere al senso di isolamento che lo pervade fin da subito. A differenza di Sigmund Freud, Erich Fromm afferma che è errato interpretare l’amore come una reciproca soddisfazione sessuale, in quanto si è completamente felici quando amore e pulsioni si relazionano reciprocamente (E. Fromm, 1997). La frenesia della vita quotidiana, ci porta, purtroppo, a non sforzarci di imparare cosa sia l’amore e quali elementi lo caratterizzano, quanto piuttosto ad essere felici per pochi attimi solo grazie alla soddisfazione effimera permessa dall’istinto sessuale (S. Freud, 2010). Secondo Erich Fromm, l’uomo dovrebbe accettarsi per quello che è e dimostrare valori e ideali che non appartengono al genere comune, unici nella sua sola specie (E. Fromm, 2016). Egli non è un contenitore sterile, ma è qualcosa di più, è una persona che necessita di rispettare, in primis, se stessa e ad essere rispettata dagli altri in quanto essere umano.

Nel periodo storico che stiamo vivendo, ci si chiede come possa essere possibile instaurare legami sociali e affettivi, In che modo l’individuo, costretto nelle quattro mura domestiche, abituato a non vedere che il suo riflesso allo specchio, possa tornare a sentire lo stimolo di creare rapporti quando tutto tornerà alla normalità.

Nel momento in cui un abbraccio e un bacio diventano probabili cause di contagio, la definizione personale di amore cambia, il bene non è più vicinanza bensì distanza di sicurezza. Il sorriso regalato alla persona amata è coperto da uno strato filtrante che maschera ogni gioiosa reazione. Cosa avrebbe fatto Florentino Ariza se non avesse potuto baciare la sua Fermina Daza dopo quasi cinquant’anni di trepidante attesa?

Florentino, di sicuro, è descritto come un uomo avente una personalità molto passionale, capace di resistere alle dure prove a cui la vita lo ha sottoposto ed è grazie a questo che gli è stato permesso di vivere il suo amore non corrisposto nei confronti di Fermina, in modo sofferente e resiliente. L’insegnamento che si può cogliere è di rimanere cognitivamente fermi su ciò che si desidera, al fine di non abbattersi se poi la fatica e la resa subentrano e/o non si raggiunge la meta. Nel romanzo, Fermina Daza è descritta come la figlia di una famiglia assai ricca e che desidera per lei un matrimonio molto più prestigioso di quello che potrebbe unirla con Florentino Ariza. Difatti, sposa il Dott. Urbino, un medico, un uomo considerato idoneo dalla famiglia a stare con lei. Nel frattempo, il “povero” Florentino si adopera per diventare un uomo di prestigio, degno di poter amare Fermina. Quando il dottor Urbino muore, Fermina e Florentino si uniranno, concretizzando il sogno dell’ormai “vecchio” uomo.

Questo ci porta ad una considerazione importante: la personalità, così come descritta da Erich Fromm, è l’insieme delle qualità genetiche ed acquisite, che permettono all’uomo di adattarsi all’ambiente tenendo presente quali siano i suoi scopi e/o desideri (E. Fromm, 2016). Il carattere dell’uomo è quindi inteso come un mix tra caratteri evolutivi ereditati e di accomodamento all’ambiente.

Rifacendosi a Jean Piaget, l’autore sottolinea come l’uomo si formi grazie a ciò che riesce ad acquisire dall’ambiente circostante e come lo accomodi nella relazione con l’altro, diverso da sé (J. Piaget, 2000). Questo determina la meta, il traguardo che ogni essere umano si pone quando ama e/o è interessato, una perfetta sincronia tra ragione ed istinto.

Conclusione

Quando troviamo l’amore in tutte le sue forme più disparate, non ci dobbiamo preoccupare di ciò che viene meno. Florentino Ariza ha pensato solo a quale fosse il suo desiderio, al momento in cui avrebbe potuto realizzare la sua voglia di amare Fermina. La consapevolezza che solo impegnandosi avrebbe ottenuto la sua amata lo ha reso resiliente, ossia in grado di affrontare un periodo più o meno lungo di difficoltà emotive e personali. La personalità descritta molto bene da Gabriel García Márquez, ci ha fatto capire quanto sia importante coltivare e incoraggiare l’amore, anche se all’inizio non è corrisposto o non è accettato. Ha raggiunto razionalmente la consapevolezza che il momento tanto desiderato prima o poi sarebbe arrivato e questo gli ha dato maggiore forza nell’affrontare gli ostacoli e le dicerie della gente del popolo. L’amore è uno dei rimedi che in questo periodo possono aiutarci a rendere le nostre vite migliori, a darci maggiore forza per affrontare gli ostacoli del nostro vivere quotidiano. Questa pandemia ci ha messo sotto sforzo, ci ha costretto ad utilizzare tutte le forze a disposizione per uscirne vivi. Attraverso la condivisione, nessuno si potrà sentire solo. Facciamo come Florentino Ariza, armiamoci di coraggio e di ottimismo, cerchiamo di rendere l’amore ancora più grande e di trasmetterlo agli altri senza paure e/o indugi.

 

Finché il caffè è caldo – Il passato, il presente e le seconde possibilità, dalla letteratura alla psicoterapia

Le quattro protagoniste di Finché il caffè è caldo intraprendono un viaggio nel tempo che permette loro di compiere un percorso interiore e di scoprire i propri obiettivi di vita, esattamente come capita ai pazienti attraverso la terapia.

 

 Finché il caffè è caldo, romanzo di esordio di Toshikazu Kawaguchi, incuriosisce poiché richiama l’idea di pausa come un momento di reale sospensione, un’interruzione nel flusso del tempo che proietta le protagoniste in un frammento definito offrendo loro una seconda occasione.

Ambientato in un caffè aperto da più di cento anni, seminterrato, senza finestre, avvolto da una leggenda secondo cui entrando sia possibile viaggiare nel tempo, il romanzo si articola attraverso le storie di quattro donne e delle loro scelte. Accomunate da una sedia al tavolino di un caffè sempre uguale, all’interno del quale non si sa mai se sia giorno o notte, né che ore siano, le protagoniste si scoprono a desiderare di trovarsi in un momento preciso della propria vita per conoscere, rimediare e concedersi una seconda possibilità. In un angolo del caffè, una caffettiera d’argento, su un vassoio anch’esso d’argento ed una tazzina bianca danno inizio ad un rito preciso, con regole precise, per ritrovarsi in un momento preciso della propria vita. Regole inflessibili, una fra tutte quella che qualunque cosa accada il presente non cambierà.

Anche nelle stanze dei nostri studi c’è una sedia, sempre la stessa per i pazienti che vi si avvicendano, un po’ come per gli avventori del caffè, quasi immutabile nel tempo. Anche sulla nostra sedia è possibile viaggiare nel tempo e proiettarsi in un momento preciso, anzi in un episodio specifico. Non abbiamo il rito del caffè, ma sulla nostra sedia chiudendo gli occhi, ancorandosi al proprio respiro, chiediamo alle persone di aprire una finestra per sbirciare nei propri ricordi e rivivere scene di vita incarnando nel momento attuale le emozioni che emergono. Anche nel nostro caso ci sono delle regole, anche nel nostro caso il presente non potrà cambiare.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

 Finche il caffe e caldo - viaggiare nel tempo psicoterpia

Ma allora perché rivivere una scena se non è possibile modificarne il seguito? E’ la protagonista della prima storia, Fumiko, a suggerirci che rivivendo un momento passato in fondo non si corrono grandi rischi, sappiamo già quello che ci aspetta, ma ci si concede la possibilità di dire le cose diversamente e di essere sinceri.

Ma nello spazio di terapia a cosa serve viaggiare nel tempo?

In psicoterapia il “viaggio nel tempo” si chiama immaginazione (imagery) e con tecniche immaginative può avere diversi obiettivi (Dimaggio et al, 2019), ad esempio quello di esplorare come ci siamo sentiti esattamente: quale immagine di noi si è palesata, quali emozioni abbiamo provato, quale desiderio è stato frustrato? In terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al. 2013) questo processo di osservazione facilita il riconoscimento dello stato mentale interno. Immaginare episodi e rivivere scene di vita può servire inoltre ad esplorare cosa accade se proviamo a fare qualcosa di diverso da come agiamo solitamente, astenendoci da comportamenti veloci e automatici (coping). Potremmo scoprire che contattando la sofferenza più intima forse decideremo inaspettatamente di assumere un atteggiamento diverso ed avere un comportamento in parte nuovo. L’uso dell’immaginazione in psicoterapia è senza tempo, come il caffè descritto nel libro. Essa permette al paziente di fronteggiare stati dolorosi, dandogli un significato diverso, di far emergere competenze sopite oppure sperimentare nuove abilità, favorendo l’apprendimento di comportamenti più inclini ai propri desideri (Neimeyer, 2016. Padesky e Mooney, 2012).

Fumiko ad esempio sa di essere troppo orgogliosa per riuscire a parlare apertamente e con sincerità a Goro. Sarebbe un costo troppo alto per lei esporsi al rifiuto (valore personale: schema di rango), ma prende coscienza del suo desiderio attivo in quel momento di costruire una storia d’amore e di non perdere il suo amato (desiderio di formare legami affettivi stabili) e si concede la possibilità di riscrivere (Imagery Rescipting, Arntz & Jacob, 2012) il passato con una trama più incline al perseguimento di una nuova aspirazione.

Ma chi decide dove dirigersi nel viaggio e per scoprire cosa?

 Le protagoniste del romanzo non sanno cosa aspettarsi esattamente, come spesso accade all’interno della terapia. Le persone talvolta hanno una vaga previsione di ciò che desiderano ricevere e del cambiamento che vogliono operare, immaginando che la terapia possa magicamente cancellare il loro dolore. A chi spetta stabilire come procedere e verso quali obiettivi puntare?

Kotane, ad esempio, la seconda protagonista, decide autonomamente quale ruolo assumere nella vita di coppia in seguito ad un evento traumatico. Kotane ignorava quale fosse il reale desiderio di suo marito Fusagi, poiché in fondo non ne avevano mai parlato. Nessuno dei due aveva avuto la forza di condividere il proprio dolore per proteggere se stesso e l’altro. Pertanto in modo del tutto naturale Kotane ha assunto il ruolo di infermiera, come nella quotidianità della sua vita reale, senza chiedersi se davvero lo volesse. Ugualmente in psicoterapia può accadere che ci siano fraintendimenti circa gli obiettivi di lavoro o che questi non vengano mai esplicitati o chiariti, compromettendo in alcuni casi l’alleanza terapeutica (Bordin 1979). Stabilire e rinegoziare i termini del lavoro (Benjamin 1990, Mitchell 1993), invece, permette a paziente e terapeuta di giungere al nucleo della sofferenza e di toccare il fondo del dolore per poi risalire verso la luce e riprendere fiato come dopo una lunga apnea.

Tuttavia, nonostante gli accordi, nonostante le regole, rivivere delle scene può essere doloroso, così tanto da avere la tentazione di perdersi e di abbandonarsi alla desolante tristezza, come accade ad Hirai, che nella storia è sconvolta dalla perdita e per un attimo desidera fortemente non muoversi dalla scena e restare ferma dove ancora nulla si è compiuto. In psicoterapia si parla di strategie di fronteggiamento cognitive perseverative (PCCS, Ottavi et al 2017, 2019), che limitano il cambiamento e favoriscono il mantenimento della sofferenza ed il perpetuarsi di stati di angoscia. Lavorare con tecniche immaginative serve anche a stanare queste insenature nascoste nella nostra mente, a far emergere i blocchi al cambiamento che ognuno di noi talvolta oppone, seppure inconsapevolmente. In fondo ci percepiamo deboli, ci pensiamo incapaci di far fronte alla situazione, soprattutto quando ci immergiamo in scene del passato in cui lo siamo stati davvero. In immaginazione il terapeuta può chiedere al paziente di far entrare nella scena una figura di riferimento positiva, come accade nella storia di Hirai. Nel momento più complesso una figura amica, Key, la supporta perché non si perda d’animo e mantenga salde le sue promesse, rimodulando i propri obiettivi di vita sulla base di una nuova conoscenza di sé e di nuove prospettive future.

In fondo sulla nostra sedia non è possibile cambiare ciò che è stato, ma è verosimile lavorare per mitigare gli effetti del passato sul presente, affrancandosene per favorire il futuro. Tuttavia ciò che è nuovo ed ignoto può spaventare e gettarci in uno stato di agitazione, in cui la mente comincia a pensare velocemente, rimuginando intorno ad uno scenario sconosciuto e spaventoso (rimuginio o worry, Sassaroli Ruggiero, 2003). Accade proprio questo nell’ultima storia, in cui la protagonista Key sebbene abbia chiaro il proprio destino e altrettanto chiari i propri scopi inizi a dubitare, ha paura delle conseguenze della sua scelta. Lavorare con l’immaginazione può avere la finalità di proiettarci nel futuro che idealmente è rappresentato nella nostra mente e vivendolo ridimensionare le nostre paure e verificare che siamo in grado di tollerare gli stati dolorosi da cui l’ansia anticipatoria ci tiene alla larga.

Vivere una scena, anche solo immaginata, attiva stati mentali ed emozioni tali per cui possiamo chiarire la natura delle nostre paure, ma allo stesso tempo scoprire le nostre risorse e sorprenderci di quanta forza, coraggio e determinazione possediamo.

Le quattro protagoniste intraprendono un viaggio nel tempo che permette loro di compiere un percorso interiore e di scoprire i propri obiettivi di vita, esattamente come capita ai pazienti attraverso la terapia. Mentre noi terapeuti prendiamo parte al viaggio stando semplicemente al loro fianco, talvolta a guidarli, talvolta a sostenerli, talvolta solo a ricordare loro di sentirsi, osservarsi e di avere il potere di scegliere. Spesso siamo silenziosi, rammentando a noi stessi quali siano gli obiettivi concordati, disciplinando e indirizzando il nostro intervento solo a ciò che i pazienti ci hanno chiesto e dato mandato di fare, più che a ciò che riteniamo giusto per loro. Non giudichiamo, ma diamo forma e concretezza alle richieste, semplicemente chiedendo la destinazione precisa: un luogo, un giorno, un’ora. Quello che accade dopo è il segreto e la potenza del viaggio in noi stessi, per cui cambiamo il mondo modificando gli occhi con cui lo vediamo, perché in realtà abbiamo operato la trasformazione più grande, lo sguardo con cui vediamo (percepiamo) noi stessi, talvolta come pazienti, altre come terapeuti.

Sulla sedia di panno verde di fine Ottocento del caffè dei viaggi nel tempo si avvicendano quattro donne, le loro storie di amore coniugale o familiare e il desiderio, il coraggio, la tenacia di tentare di cambiare qualcosa di immutabile, utilizzando uno spazio ed il solo tempo concesso “Finché il caffè è caldo”.

 

Uniche come me. Terapia cognitivo-comportamentale per ragazze nello spettro autistico (2021) di Sara Travaglione, Letizia Cavalli e David Vagni – Recensione

Uniche come me è un libro specifico per il trattamento delle bambine e le ragazze dagli 11 ai 19 anni con la sindrome di asperger tramite l’approccio cognitivo-comportamentale.

 

 L’aumento del numero di adolescenti con diagnosi dello Spettro Autistico (ASD) di grado lieve o Sindrome di Asperger, come è facilmente osservabile negli ultimi anni durante la pratica clinica, rende fondamentale un’attenzione mirata e una presa in carico specifica. Tuttavia ciò che potrebbe capitare ai meno esperti nell’ambito dell’autismo è che le diagnosi vengano mal formulate e, come spiegato nel manuale, talvolta confuse con altri disturbi quale, ad esempio, il disturbo borderline di personalità. Gli atti di autolesionismo, la disregolazione emotiva, le difficoltà relazionali, la sintomatologia depressiva, ansiosa e i disturbi alimentari richiedono le competenze adatte al fine di formulare il corretto inquadramento diagnostico.

Nel libro vengono inizialmente descritte le caratteristiche che riguardano le persone asperger (Aspie), dagli “interessi speciali,” alle difficoltà nello stare in gruppo, a quelle connesse con il proprio genere sessuale, al camaleontismo per sentirsi meno diverse, ma anche altre riportate di seguito. Le persone Aspie, come spiegano gli autori, potrebbero provare fastidio relativo a determinate sensazioni tattili ed essere abbracciate, toccate o baciate può essere doloroso. Può anche capitare che la persona in oggetto non abbia imparato a rispettare lo spazio altrui e non sia capace di differenziare le giuste modalità di espressione dell’affetto. Riguardo questo aspetto è più probabile che sia maggiormente incline a manifestare questo sentimento svolgendo compiti più pratici più che entrando in empatia con lo stato emotivo altrui. Il bisogno di vicinanza con il prossimo può essere molto diverso rispetto al resto della popolazione. Alcuni Aspie potrebbero infatti avere la necessità di instaurare rapporti che non abbiano una frequentazione assidua e avere bisogno dei propri spazi per stare soli.

 Rispetto all’area dell’attenzione è come se il meccanismo attentivo funzionasse in modo binario, ossia acceso o spento, senza che ci sia la possibilità di cogliere le sfumature tra i due opposti. Ad esempio le persone nello spettro dell’autismo possono stare a lungo focalizzate su uno stimolo e avere difficoltà a spostare l’attenzione altrove. Possono faticare a concentrarsi su qualcosa se sono presenti troppi stimoli distraenti nonché a filtrare le informazioni rilevanti tra quelle non rilevanti. Si evidenziano difficoltà nella pianificazione che possono riguardare le seguenti aree: obiettivi da raggiungere, previsioni realistiche, passi per raggiungere un obiettivo. Possono essere presenti inoltre difficoltà nel multitasking e cioè nel tenere a mente più informazioni. Altre difficoltà tipiche delle persone Aspie che vengono affrontate nel libro riguardano la gestione energetica nella quotidianità. Per ogni difficoltà descritta vengono riportati degli esercizi, o delle attività, che mirano a sviluppare determinate risorse e a migliorare quindi la qualità di vita delle persone Aspie. Il manuale Uniche come me è particolarmente utile ai professionisti della salute mentale che operano nell’ambito dell’autismo per attuare percorsi terapeutici specifici sia individuali, sia di gruppo. Il libro propone infatti, oltre all’accurata descrizione del funzionamento Aspie, anche il protocollo per sviluppare le varie abilità. Tale protocollo prevede 20 incontri di gruppo a cadenza settimanale.

Il libro è nato dall’esperienza dei tre autori specializzati nell’autismo, è corredato da approfondite spiegazioni teoriche, test per misurare i progressi, schede di lavoro e oltre cento attività da svolgere. La suddivisione in 16 sessioni guida le adolescenti attraverso la costruzione del senso di identità, la comunicazione e la scoperta delle proprie caratteristiche autistiche. Il manuale illustra come accompagnare nell’esplorazione e nella gestione delle emozioni le giovani Aspie aiutandole a costruire capacità assertive e relative alla socialità. Gli autori affrontano così le tematiche tipiche della delicata età adolescenziale adattandole alle esigenze specifiche delle ragazze “Aspie”. Una parte del libro viene anche dedicata alla comunicazione su internet. Il manuale mira quindi a portare le ragazze Aspie alla scoperta della loro unicità nella neurodiversità.

 

Narrazioni e storie in psichiatria (2020) di Piero Benassi – Recensione

Narrazioni e storie in psichiatria racconta storie che hanno la forma di schizzi, brevi ritratti, raccolta di appunti, impressioni, dalle quali intuiamo che senza relazione non c’è cura e che i pazienti non devono mai essere identificati con la malattia di cui sono portatori.

 

Narrate, uomini, la vostra storia
(Alberto Savinio)

 Nei modi in cui si cerca di definire che cosa sia la Medicina Narrativa capita spesso che si corra il rischio, in una deriva piuttosto riduttiva e semplicistica, di descriverla come un “prestare ascolto alle storie dei pazienti”. L’effetto indesiderato di una tale, frequente semplificazione è lo scetticismo che ancora oggi circonda questo approccio: in tempi dominati dalla ricerca di procedure e protocolli rigorosamente strutturati ed evidence-based, la scarsa chiarezza sui principi di un metodo, persino su che cosa si intenda precisamente per “narrazione”, accende il riflettore sulla presunta debolezza scientifica di uno strumento che si propone di integrare la narrazione al processo di cura.

In realtà la Medicina Narrativa, intesa come metodologia d’intervento clinico-assistenziale che favorisca la realizzazione di una presa in carico efficace, appropriata e condivisa, ha ricevuto nel 2015 un importante riconoscimento formale dall’Istituto Superiore di Sanità che, in occasione della Conferenza di Consenso promossa dal CNMR (Centro Nazionale Malattie Rare), ha stilato le linee di indirizzo per l’applicazione di questo metodo e aperto un percorso di ricerca relativo agli strumenti pratici più appropriati e alla raccolta delle prove di efficacia.

Non si parla infatti di una generica esortazione al paziente affinché si racconti o di una richiesta agli operatori perché aggiungano un ulteriore impegno alle loro attività consuete, che già solitamente saturano il poco tempo a disposizione; si tratta in realtà di un modo diverso di fare medicina, più attento a ritagliare gli interventi sulle caratteristiche uniche di ciascun paziente e della sua storia personale.

Nella cornice teorica della Medicina Narrativa si inserisce il testo Narrazioni e storie in psichiatria, un bell’album di storie cliniche raccolte dallo psichiatra Piero Benassi, docente di Psichiatria dell’Università di Bologna e che è stato per diversi anni direttore dell’Ospedale Psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia.

Sono storie che hanno la forma di schizzi, brevi ritratti, raccolta di appunti, impressioni, dalle quali intuiamo, insieme all’autore che ce le racconta, che senza relazione non c’è cura e che i pazienti non devono mai essere identificati con la malattia di cui sono portatori; al contrario è indispensabile avere uno sguardo attento sul loro ricco mondo interno, fatto di rappresentazioni e sfumature uniche, personali e attinenti il loro microcosmo individuale e famigliare.

Le narrazioni di questo piccolo diario di bordo contengono una serie di avvenimenti, illuminazioni, angosce, visioni, allucinazioni, deliri; nelle storie, spesso a carattere psichiatrico, la malattia diventa semplicemente una lente, uno strumento attraverso cui le persone malate leggono e interpretano (e a volte, ahimè, distorcono) la realtà.

Uno dei compiti del terapeuta diventa quello di stimolare il paziente a mettere per iscritto quanto è vissuto come pensieri ed emozioni spesso soverchianti e la scrittura diventa in questo modo un esercizio volto a pensare, ragionare e approfondire la conoscenza di sé, come antidoto contro la paura e lo smarrimento.

Scrive l’autore:

Si può partire da un bisogno di confessare sé stessi, di conoscersi, di auto valutarsi e quindi di identificarsi, al fine di risolvere un qualche problema personale o di rapporto con l’altro, o per avere la consapevolezza di affrontare le incognite e i doveri della vita, o per raggiungere la capacità di superare ciò che si ritengono i propri limiti. 

 Benassi descrive anche la sua personale esperienza di scrittura congiunta, ossia un dialogo scritto instaurato con i pazienti e le loro famiglie per tenere traccia dell’andamento delle cure e delle oscillazioni dello stato di salute, modalità che anticipa in maniera pionieristica quello che oggi perseguono i più moderni dispostivi e applicazioni della medicina digitale, per far sì che gli strumenti tecnologici favoriscano e supportino la raccolta dei dati e la condivisione delle storie di malattia e cura.

La psichiatria scende in questo modo nel cuore dei pensieri e delle emozioni malate, cerca di immedesimarsi nella vita del paziente, per comprenderne le più oscure istanze psicologiche e raggiungere quella reciprocità relazionale (o alleanza terapeutica) che costituisce il principale, insostituibile strumento davvero curativo (insieme allo psicofarmaco, che serve a ridurre, non annullare, certe ideazioni e la sofferenza più acuta).

Le storie dei pazienti, raccolte e custodite dall’autore, sono intervallate dal racconto di quelle di artisti, scrittori, pittori come ad esempio August Strindberg, Antonio Ligabue, Thomas Bernhard e Van Gogh le cui dolorose vicende personali si intrecciano alle fragilità emotive e psicologiche, così come succede agli studenti, imprenditori, insegnanti, commercianti incontrati da Benassi e le cui storie “comuni” assumono lo stesso pathos narrativo di quelle dei personaggi più famosi.

Forse la fase finale di revisione del testo avrebbe potuto essere più accurata e correggere alcuni refusi che, da un punto di vista prettamente editoriale, finiscono purtroppo per penalizzare nel suo complesso questo bel volume.

In conclusione, dalle narrazioni capiamo che né l’arte né la psichiatria sono necessariamente salvifiche, ma che, laddove ci siano dei mostri al nostro interno, l’arte, la scrittura, la narrazione li rende guardabili, qualcosa che possiamo approcciare e conoscere, e forse, perché no, imparare a governare.

 

Le differenze nello stile di attaccamento del disturbo evitante di personalità e della fobia sociale.

Il disturbo evitante di personalità (Avoidant Personality Disorder – AvPD) e la fobia sociale (Social Phobia – SP) sono due condizioni cliniche che presentano alcune caratteristiche comuni (Cox et al., 2009).

 

All’oggi non è ancora chiaro se i due disturbi debbano essere considerati condizioni distinte o manifestazioni dello stesso disturbo d’ansia sociale (Social Anxiety Disorder – SAD), aventi differenti livelli di gravità (Lampe & Sunderland, 2015).

Difatti, sia coloro i quali soffrono di disturbo evitante di personalità che i pazienti con fobia sociale presentano differenti problematiche dal punto di vista interpersonale (Cuming & Rapee, 2010).

Gli individui affetti da questi disturbi hanno meno probabilità di sviluppare relazioni sentimentali durature (Sparrevohn & Rapee, 2009) e presentano uno scarso supporto sociale e una minor espressione emotiva nelle proprie relazioni (Eikenaes et al., 2013).

Tali problematiche legate all’intimità potrebbero essere riconducibili a difficoltà legate all’attaccamento e potrebbero essere più pronunciate per il disturbo evitante di personalità.

Infatti, mentre la fobia sociale si manifesta come una paura dell’umiliazione e dell’imbarazzo generati dall’esposizione a persone non familiari, si è soliti definire il disturbo evitante più in termini esplicitamente legati all’attaccamento. Nello specifico, esso viene associato a un senso negativo di sé, ad un contenimento emotivo all’interno delle relazioni intime, compresa l’intimità sessuale, ed a una paura del rifiuto e dell’umiliazione (American Psychiatric Association, 2013).

Quando si utilizza il termine attaccamento si fa riferimento allo stretto legame emotivo esistente tra il bambino e chi lo accudisce, il quale dovrebbe rappresentare una base sicura per l’infante, promuovendo il suo sviluppo a livello della regolazione degli affetti, dell’autonomia e della fiducia in sé e negli altri.

Sulla base delle prime esperienze di attaccamento, il bambino sviluppa rappresentazioni mentali di sé e degli altri e di sé in relazione agli altri, i cosiddetti modelli operativi interni, che successivamente influenzano la capacità di saper stabilire relazioni strette in età adulta (Bowlby, 1969).

Naturalmente, le relazioni sentimentali degli adulti differiscono dai legami tra genitori e figli.

L’attaccamento degli adulti è stato studiato alla luce di due tradizioni di ricerca: l’approccio evolutivo (Ainsworth et al., 1978) e l’approccio sociale (Hazan & Shaver, 1994).

Il questionario Experience in Close Relationships (ECR; Brennan, Clark, & Shaver, 1998) appartiene al secondo filone di ricerca e, all’oggi, è ampiamente utilizzato.

Ad ogni modo, entrambi gli approcci hanno identificato due dimensioni fondamentali dell’attaccamento degli adulti: ansia ed evitamento, che combaciano con le due sottoscale componenti l’ECR.

Un’elevata ansia di attaccamento comporta la paura dell’abbandono, un eccessivo bisogno di approvazione da parte degli altri e l’angoscia, che tende a manifestarsi quando il proprio partner non è disponibile. Al contrario, un elevato attaccamento evitante comporta la paura della dipendenza interpersonale, la preferenza per l’autosufficienza e la riluttanza a rivelare sé stessi (Wei et al., 2007).

Nel complesso, pochi studi hanno esaminato gli stili di attaccamento nei soggetti con disturbo evitante di personalità e fobia sociale e, attualmente, le evidenze suggeriscono che entrambe le diagnosi potrebbero essere associate a problematiche legate all’attaccamento.

Dunque, uno studio preso in esame ha confrontato gli stili di attaccamento in pazienti con disturbo evitante di personalità e fobia sociale, al fine di esaminare le somiglianze e le differenze tra i suddetti. Gli autori hanno applicato l’ECR per indagare l’ansia e l’evitamento, così come i sottofattori suggeriti dal questionario: evitamento della vicinanza, scomodità nell’apertura, frustrazione legata alla separazione, ansia da abbandono e desiderio frenetico della vicinanza.

Allo studio hanno preso parte 90 pazienti che sono stati divisi in due gruppi sulla base della diagnosi ricevuta. Nello specifico, il primo gruppo era costituito da soggetti con disturbo evitante di personalità, con o senza fobia sociale, mentre, il secondo gruppo era composto da individui affetti unicamente da fobia sociale. I ricercatori hanno ipotizzato che il gruppo affetto da disturbo evitante di personalità avrebbe avuto punteggi più alti in entrambe le scale di ansia ed evitamento rispetto al gruppo con fobia sociale e, ulteriormente, che il gruppo con disturbo evitante di personalità avrebbe avuto punteggi più elevati per quanto concerne l’ansia dell’abbandono.

I risultati hanno mostrato che entrambi i gruppi diagnostici avevano alti livelli di ansia di attaccamento e di evitamento. Come ipotizzato, il gruppo disturbo evitante di personalità ha ottenuto punteggi più elevati nella dimensione dell’ansia rispetto al gruppo Fobia Sociale. Quanto detto è in linea con studi precedenti che mostrano che le relazioni strette e l’intimità sono più problematiche per i pazienti con disturbo evitante di personalità rispetto a quelli con fobia sociale (Eikenaes et al., 2013).

Contrariamente con quanto ipotizzato, invece, si è evinto che i due gruppi non differivano rispetto alla dimensione dell’evitamento. Questo risultato suggerisce che le aspettative negative nei confronti di persone non familiari possono riguardare anche le relazioni strette.

Le differenze tra i gruppi diagnostici erano più evidenti per quanto concerne i sottofattori dell’ansia per l’abbandono e la frustrazione legata alla separazione, rispetto ai quali il gruppo disturbo evitante di personalità aveva punteggi più alti rispetto al gruppo con fobia sociale. Dunque, l’ansia dell’abbandono sembra essere un aspetto fondamentale nella patologia del disturbo evitante di personalità, nonostante non rientri tra gli attuali criteri diagnostici esistenti, ma giustifica il contenimento attuato nelle relazioni intime (American Psychiatric Association, 1994).

Nella pratica clinica, vi sono spesso pazienti con disturbo evitante di personalità che affermano “se qualcuno sapesse chi sono veramente, mi abbandonerebbe”.

Questi risultati indicano la presenza di un conflitto emotivo interno nei pazienti con disturbo evitante di personalità, generato dal desiderio di attaccamento, da un lato, e l’elevata ansia di attaccamento, dall’altro, che comporta un evitamento dell’intimità, come difesa contro gli affetti potenzialmente dolorosi.

I risultati di questo studio indicano che i pazienti con disturbo evitante di personalità, nonostante il loro silenzio, la guardia emotiva e l’evitamento comportamentale manifestati nei contesti sociali, possono desiderare una relazione di fiducia e accettazione.

Dunque, anche in terapia, qualora il terapeuta dovesse sentirsi rifiutato o confuso dalle strategie di evitamento del paziente, dovrebbe essere più consapevole del fatto che i comportamenti manifestati da questi pazienti, altro non sono che strategie di difesa, volte a regolare una forte e intollerabile ansia di attaccamento. In questo modo, i drop-out potrebbero suscitare empatia, piuttosto che irritazione e, così facendo, i pazienti potrebbero sentirsi più compresi.

Concludendo, i presenti risultati indicano la necessità di valutare l’attaccamento nei singoli pazienti, affinché anche il terapeuta possa sentirsi più in sintonia con loro.

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