expand_lessAPRI WIDGET

Caregiver burden: lo stress dei genitori con figli disabili

Il caregiver burden viene definito come una forma di disagio psicofisico che coinvolge numerosi aspetti della vita quotidiana.

 

Il termine “caregiver” significa letteralmente “colui che fornisce cure”: si riferisce alle persone che accudiscono chi ha subito una diminuzione o una perdita di autonomia e che, pertanto, necessita di assistenza. Molto spesso, soprattutto in questo ultimo periodo, sentiamo parlare di caregiving professionale, in cui chi presta aiuto è personale specializzato.

Una tipologia di caregiver – altrettanto fondamentale ma frequentemente sottovalutata – è quella familiare, relativa cioè alle persone care che supportano un parente in difficoltà. Nel linguaggio comune si fa riferimento quasi automaticamente alla condizione di assistenza alla vecchiaia: i parenti a cui si pensa quando si parla di caregiving familiare sono solitamente anziani affetti da demenza senile o, comunque, che hanno perso la propria autonomia nel prendersi cura di sé.

Oggi invece vogliamo parlare di una categoria troppo spesso ignorata, ovvero i genitori di figli affetti da disabilità. Essere genitore, soprattutto durante i primi anni di vita di un figlio, significa fornire cure ed assistenza quotidiana. Un impegno costante e faticoso che è destinato gradualmente a terminare con il trascorrere del tempo, al raggiungimento delle normali tappe evolutive di sviluppo, che prevedono l’acquisizione di sempre maggiore indipendenza. Essere genitore di un figlio diversamente abile contempla invece differenti incarichi: in alcuni casi l’autonomia viene raggiunta solo parzialmente dal minore e non in tutti gli ambiti della vita. Naturalmente, ne consegue che il caregiving si sviluppi in maniera maggiormente complessa e duratura: i padri e le madri diventano fornitori di assistenza quotidiana e continuativa, impegno che si aggiunge al profondo dolore e alla sofferenza sperimentate nel vedere il proprio figlio in difficoltà. Per tali ragioni è fondamentale analizzare il cosiddetto “caregiver burden”, letteralmente il peso dell’assistenza, sopportato da chi fornisce cure.

Il caregiver burden viene definito come una forma di disagio psicofisico che coinvolge numerosi aspetti della vita quotidiana; si caratterizza da un’ampia sintomatologia, composta da stati di ansia, umore depresso, disturbi del sonno ed un generale malessere emotivo che si ripercuote su ambiti personali, sociali ed economici, relativi all’assistenza. Una sofferenza che incide negativamente sulla qualità della vita globale del caregiver.

Negli ultimi anni, tale figura ha acquisito sempre maggiore importanza, tanto da essere inserita nell’Ordinamento Italiano: la Legge Finanziaria del 2017, infatti, per la prima volta qualifica giuridicamente il caregiver familiare; tale definizione è stata accompagnata da una previsione di risorse economiche dedicate alle persone che si prendono cura di parenti bisognosi di assistenza: è stato istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali un fondo per il sostegno del ruolo di cura del caregiver. Quanto inserito nel testo legislativo costituisce quindi la statuizione giuridica dell’esistenza della figura del caregiver familiare – precedentemente invisibile all’Ordinamento – riconoscendone il grande valore sociale ed economico. L’attività di cura non professionale viene dunque finalmente considerata come fondamentale, dichiarando l’immenso valore del lavoro svolto dai familiari per la società. Emerge chiaramente la situazione degli ingenti costi che il Sistema Sanitario Nazionale si troverebbe ad affrontare qualora queste figure venissero a mancare o fossero impossibilitate a fornire cure. Sarebbe dunque interesse comune, delle istituzioni sanitarie in particolare, prendersi cura non solo delle persone con disabilità ma anche della salute dei caregivers, che sopportano una vasta percentuale dei costi sanitari fornendo ai parenti assistenza non retribuita.

Il valore centrale dei familiari – nel nostro caso dei genitori con figli diversamente abili – va pertanto riconosciuto, tutelandone il benessere psicofisico globale. Allo scopo di preservare la salute mentale dei caregivers, padri e madri di bambini affetti da disabilità, ne vanno innanzitutto riconosciute le principali emozioni. Studi scientifici dimostrano come i caregivers familiari sperimentano in particolare stati d’animo di rabbia, senso di colpa, tristezza, vergogna e invidia.

La rabbia, legata a stanchezza psicofisica, sensazione di pesantezza, stati di frustrazione ed impotenza, sembra essere l’emozione che accomuna la maggior parte dei genitori di figli disabili: faticando ad accettare la condizione di handicap del minore, le madri e i padri tendono infatti ad esperire tensione, irrequietezza, sensazione di perdere il controllo e timore di esplodere con agiti aggressivi. La rabbia si unisce alla percezione di aver subito un danno ingiusto: la nascita di un bambino diversamente abile costituisce un evento traumatico in cui il caregiver può ritenere di essere stato ostacolato o privato di una positiva esperienza di genitorialità, con pensieri quali “non doveva succedere”, “perché è accaduto proprio a noi?”. Specialmente nei casi in cui la disabilità viene causata da un errore medico, i genitori tenderanno a pensare che il danno poteva essere evitato, attribuendo le colpe all’esterno ed aumentando l’intensità emotiva di tipo negativo. La rabbia diventa positiva qualora si trasformasse in grinta, energia necessaria al raggiungimento dei propri obiettivi.

Emozione tipicamente sperimentata è altresì quella del senso di colpa, con conseguente sensazione di inutilità e percezione di inefficacia. I genitori, infatti, possono ritenere di aver – seppur involontariamente – provocato al figlio un danno e, di conseguenza, tendere inutilmente alla riparazione di esso o all’espiazione del dolo. Sentirsi colpevoli, qualora si fosse deliberatamente causato pregiudizio, è un’emozione utile e funzionale al conseguente risarcimento; ma nel caso descritto la colpa provoca esclusivamente un rimorso afinalistico.

La tristezza viene descritta dai genitori di figli diversamente abili come un sentimento di “lutto” verso una mancata genitorialità così come la si era immaginata. L’umore deflesso si accompagna a pianto, apatia, scarsa energia e comportamenti di chiusura e ritiro. Lo scopo di vita dei padri e delle madri potrebbe infatti essere percepito come irrimediabilmente compromesso, con pensieri quali “non c’è più niente da fare”, “non sarò mai un genitore normale”. La tristezza può essere letta però anche come un’emozione con risvolti positivi: permette infatti una riorganizzazione mentale, imponendo una riflessione su quanto accaduto, che può essere utile e funzionale alla necessaria elaborazione cognitiva, per dare nuove interpretazioni agli eventi negativi vissuti.

L’emozione della vergogna può essere sperimentata dai caregivers familiari nei casi in cui la disabilità del figlio si renda apertamente visibile agli altri. Arrossire, sudare, desiderare di nascondersi e di distogliere lo sguardo sono alcune delle sensazioni percepite da coloro che provano vergogna: i genitori possono infatti sentirsi incapaci, falliti, inadeguati nell’autovalutazione di sé, giudicarsi non all’altezza nelle situazioni di esposizione sociale. Una elevata sensibilità alla critica e al giudizio rende maggiormente vulnerabili all’esperienza di tale emozione, così come il morboso desiderio di compiacere e di aderire a rigidi ed elevati standard esterni.

Infine, i caregivers familiari esperiscono l’emozione di invidia. Nel confronto con diverse famiglie, infatti, i genitori potrebbero tendere ad esaltare le condizioni degli altri bambini, situazioni da essi desiderate e impossibili da raggiungere. Tale emozione provoca una sensazione di perenne insoddisfazione e, seppur perfettamente comprensibile a livello emotivo, andrebbe gestita adeguatamente allo scopo di diminuire l’intensità del malessere, già presente nei caregivers.

Unitamente alle emozioni negative precedentemente descritte, si sottolinea la sensazione di profondo dolore provocato dalla nascita di un figlio con difficoltà. L’accumularsi di stati d’animo spiacevoli, reiterati nel tempo e non adeguatamente trattati, può condurre ad uno stress cronico nei caregivers. Se è vero che la nascita di un figlio disabile comporta sicuramente sofferenza, è altresì corretto sottolineare come di fronte ad un medesimo evento negativo esistano modalità molto differenti di interpretarlo e, di conseguenza, di fronteggiarlo.

Numerose ricerche hanno evidenziato come alcune caratteristiche individuali dei caregivers influenzano la capacità di tollerare la pesantezza dei compiti assistenziali a cui vengono chiamati. Nello specifico, requisiti di natura demografica e socio-economica – quali l’età, il genere, la cultura di appartenenza e lo status del caregiver – incidono nell’abilità di fronteggiare più o meno efficacemente lo stress della cura, così come lo stato di salute e benessere psicofisico in cui si trova il genitore nel momento della presa in carico. Inoltre, si rivelano importanti le caratteristiche psicosociali del caregiver, ovvero la personalità, le disposizioni caratteriali, il temperamento, la rete sociale ed il sostegno di cui dispone. Va sottolineato altresì che una variabile è costituita dalla relazione emotiva ed affettiva tra il genitore ed il care-reciver: non tutti i rapporti tra un caregiver ed un figlio, infatti, sono simili.

Studi scientifici rilevano l’importanza dell’autoefficacia percepita: nella prevenzione del caregiver burden, infatti, una caratteristica fondamentale è relativa alla sensazione di riuscire ad agire incisivamente nei diversi compiti a cui il genitore è chiamato, di avere potere e di essere utile nell’aiuto fornito al figlio diversamente abile. L’autoefficacia viene considerata ad oggi un moderatore della relazione tra stress e benessere, pertanto diventa fondamentale considerarlo un aspetto da potenziare. I caregivers meno resilienti, ovvero scarsamente resistenti nella tolleranza all’evento traumatico da cui sono stati investiti, hanno maggiore probabilità di istituzionalizzare il figlio disabile o, comunque, di mostrare difficoltà nella gestione della sua crescita; al contrario, alti livelli di resilienza si legano ad una migliore capacità di cura, in quanto sinonimi di maggiore fiducia in se stessi e sicurezza circa le proprie competenze nel fornire assistenza al minore. Inoltre, il supporto sociale e professionale di cui il caregiver familiare può beneficiare incide notevolmente sullo sviluppo dello stress psicofisico: disporre di una rete di sostegno, infatti, influenza il cosiddetto stile di attribuzione, ovvero la modalità con cui i genitori valutano le situazioni connesse alla disabilità del figlio.

Il possibile sviluppo di un elevato grado di caregiver burden dipende da molteplici fattori aggiuntivi: il carico di tempo, ovvero l’impegno che i genitori dedicano all’assistenza dei figli durante la giornata; il carico evolutivo, ossia la sensazione di perdere chances ed opportunità rispetto alla propria generazione, a causa degli oneri assistenziali a cui si è costretti; il carico fisico, che riguarda le ripercussioni sulla salute dei caregivers in termini di fatica, perdita di sonno, stanchezza; il carico sociale, relativo alle relazioni con gli altri membri della propria famiglia e, nello specifico, all’eventuale presenza di conflitti emersi in concomitanza alla condizione di disabilità del minore; il carico emotivo: la sperimentazione delle sensazioni negative del caregiver nei confronti del figlio e della sua disabilità.

Quali sono dunque le possibili strategie da adottare nella gestione di tali emozioni, allo scopo di prevenire lo sviluppo dello stress genitoriale?

La condizione di caregiver non può essere letta all’interno dei modelli classici dello stress: l’effetto dell’evento traumatico, infatti, non è diretto ma viene mediato da fattori di vulnerabilità e di risorse individuali. Esistono disposizioni cognitive e sociali capaci di agire come fattori di auto-regolazione nella gestione del “burden”. La nascita di un figlio diversamente abile non può essere considerato un processo unitario: è mutevole nel tempo e si caratterizza da situazioni e difficoltà notevolmente differenti tra loro, anche a seconda del grado di disabilità e della cronicità dei sintomi riportati dal minore. All’interno di un ventaglio così ampio di circostanze, nessuna strategia di coping può essere considerata sempre e comunque funzionale. Nella maggior parte dei casi, generalmente, si considera efficace la capacità di accettazione dell’evento subito: ciò implica il potere di non cadere in condizioni di ritiro, evitamento, negazione o tentativo di non affrontare quanto accaduto. Strategie che potrebbero rivelarsi efficaci a breve termine ma che, con il trascorrere del tempo, sono destinate a condurre verso il contatto con emozioni intense e dolorose.

Naturalmente, la mancanza di adeguati spazi e risorse per prendersi cura di se stessi costituisce un importante fattore di stress: l’assenza di tempo da dedicare al benessere personale può divenire deleteria per il genitore, provocando conseguenze negative a livello psicofisico ed emotivo. I caregivers familiari andrebbero infatti sostenuti nel ritagliarsi uno spazio di individualità e di condivisione con il partner e con eventuali altri figli, allo scopo di prevenire lo stress e di salvaguardare le relazioni interpersonali. Il sostegno sociale, ovvero la possibilità che il genitore ha di accedere a differenti tipi di aiuti e di risorse attraverso la comunità di cui fa parte, riveste funzioni importanti quali fornire un supporto emotivo ma anche informativo, con un effetto diretto sul benessere. A tale scopo, funzione importante è rivestita anche dalle numerose associazioni che si occupano di disabilità.

Studi scientifici sono concordi nell’indicare come intraprendere un percorso psicoterapeutico può assolvere lo scopo di interpretare differentemente la situazione negativa vissuta, attribuendogli nuovi significati per favorire un adeguato processo di regolazione emotiva. In conclusione, appare dunque fondamentale poter chiedere aiuto per fronteggiare funzionalmente la condizione di genitorialità con un figlio diversamente abile, allo scopo di vivere tale esperienza in maniera equilibrata e prevenendo la comparsa di un invalidante “peso dell’assistenza”.

 

L’adolescenza e la rottura del processo adottivo

Con il termine “rottura dell’adozione” si è soliti far riferimento a tutte quelle situazioni caratterizzate da una separazione definitiva tra genitori e figli adottivi (Palacios et al., 2018).

 

Le rotture adottive sono il risultato di una commistione di fattori legati al bambino adottato, ai genitori adottivi, alla relazione bambino-genitore e al sostegno fornito dai servizi professionali che si occupano di adozione.

La ricerca ha evidenziato che la maggior parte delle rotture adottive avviene durante i primi anni (Palacios et al., 2015; Rolock & White, 2016). Tuttavia, il più delle volte, queste informazioni sono state fornite a livello puramente descrittivo e non è stata effettuata alcuna analisi approfondita.

È noto che il passaggio all’adolescenza è un periodo delicato sia per i minori adottati che non, un intervallo caratterizzato da cambiamenti che possono innescare comportamenti disadattivi e problematici. Sia le ricerche sulle adozioni nazionali (Miller et al., 2000) che quelle sulle adozioni internazionali (Bimmel et al., 2003) hanno rilevato una maggiore insorgenza di problematiche tra gli adolescenti adottati rispetto ai loro coetanei non adottati. Sono le esperienze di preadozione e i problemi specifici affrontati dagli adottati al raggiungimento dell’adolescenza, come l’intensificazione dei sentimenti di perdita e di ricerca della propria famiglia biologica, a determinare le differenze osservate rispetto ai giovani non adottati (Brodzinsky, Schechter & Henig, 1992).

Uno studio preso in esame, basandosi sulla letteratura esistente che identifica come età media della rottura i 13-14 anni, si è proposto di verificare se esistessero delle differenze tra le rotture precoci, ovvero quelle che si verificano prima dell’adolescenza e, quelle che avvengono più tardi, ovvero durante l’adolescenza, con l’obiettivo di analizzare nello specifico il ruolo giocato dall’adolescenza in questo fenomeno.

Al fine di effettuare la suddetta analisi, sono stati identificati 69 casi; di questi, il 49,3% ha lasciato la famiglia adottiva prima della legalizzazione dell’adozione e il 50,7% a seguito della formalizzazione del processo.

I risultati hanno mostrato aspetti comuni tra i due gruppi, ma hanno evidenziato anche alcune differenze.

In relazione alle somiglianze osservate, è interessante notare che non sono state trovate differenze in relazione ad alcune variabili tradizionalmente considerate come fattori di rischio per la rottura. La più sorprendente è l’età di collocamento che è risultata simile sia nelle rotture preadolescenziali che in quelle post-adolescenziali. Ciò non deve però essere interpretato come un’indicazione che l’età di collocamento non sia rilevante per l’esistenza della rottura stessa. Infatti, all’interno del gruppo delle adozioni interrotte, indipendentemente dall’età in cui si è verificata la rottura, l’età di collocamento era significativamente più alta rispetto al gruppo delle “adozioni intatte”.

Ulteriormente, i risultati dello studio hanno confermato che, alla base della rottura dell’adozione, vi è una commistione di diversi fattori.

In primo luogo, è stato osservato che le interruzioni precoci si verificano per lo più nel periodo preadottivo. Inoltre, la durata dei collocamenti è molto più breve nei casi di interruzione precoce rispetto ai casi di interruzione tardiva.

L’ulteriore differenza tra i due gruppi riguarda le aspettative dei genitori adottivi, che risultano essere spesso irrealistiche (Randall, 2013). A ciò si aggiungono anche problematiche legate all’attaccamento, che sembrano essere più frequenti nelle rotture precoci.

Nelle casistiche in cui l’adozione riguardava gruppi di fratelli è stata riscontrata una maggior frequenza di interruzioni precoci. In questi casi, le rotture sono apparse più brusche e, a seguito dell’allontanamento del bambino, i tentativi di ricongiungimento da parte dei genitori adottivi erano molto più scarsi.

Quanto appena detto sembra confermare il fatto che i genitori adottivi di questo gruppo abbiano avuto maggiori difficoltà a sviluppare un impegno emotivo nei confronti del bambino adottato che non era all’altezza delle loro aspettative e la presenza di fratelli ha verosimilmente esacerbato il problema.

Inoltre, è anche probabile che i genitori adottivi delle famiglie in crisi precoce non si siano sentiti legalmente vincolati, in quanto il processo di adozione non era ancora stato formalizzato.

Il gruppo di famiglie in crisi tardiva è risultato significativamente diverso. Il fattore principale in questo gruppo sembra essere rappresentato per lo più da problemi comportamentali, che in questo caso sono stati più diffusi rispetto al gruppo delle rotture precoci e la presenza di episodi di violenza da parte del bambino nei confronti del genitore nel gruppo di età superiore ai 13 anni è stata quattro volte più frequente rispetto ai casi in cui la rottura è avvenuta prima di tale età. Una possibile spiegazione di questi risultati è che la violenza che viene messa in atto da parte degli adolescenti è più difficile da gestire rispetto alla violenza dei bambini. Gli adolescenti crescono e diventano abbastanza forti e spesso i genitori non sono in grado di controllarli fisicamente. I risultati appena esposti relativi alla rottura durante l’adolescenza coincidono con il modello di insorgenza precoce identificato da Selwyn e Meakings (2015), che descrive l’insorgenza della violenza tra adolescenti e genitori all’interno delle famiglie adottive. Questo modello è caratterizzato dalla presenza di problemi durante l’infanzia, con una graduale escalation della loro intensità dopo l’inizio dell’adolescenza.

Per comprendere meglio la relazione tra adolescenza e rottura dell’adozione, è importante ricordare che l’adolescenza è anche il momento in cui i bambini adottati iniziano a sentirsi più padroni della propria vita e per loro la rottura non è vista solo come un fallimento, ma anche come un’opportunità di ricominciare o di tornare dalle loro famiglie di origine.

Lo studio presentato determina alcune implicazioni necessarie al miglioramento della pratica professionale.

In primo luogo, è importante che i problemi rilevati all’inizio del processo adottivo non vengano sottovalutati, perché in molti casi, i problemi hanno origine durante l’infanzia e tenderanno ad esacerbarsi durante l’adolescenza, determinando una rottura. Inoltre, le valutazioni di idoneità dovrebbero essere eseguite tenendo presente i bisogni degli adottati e le competenze degli adottanti.

In secondo luogo, i risultati suggeriscono che le pratiche di adozione non dovrebbero essere chiuse a seguito della formalizzazione del processo. Il sostegno fornito dai professionisti dovrebbe essere continuo. È particolarmente importante che questo supporto professionale venga fornito durante l’adolescenza, che risulta dunque essere il periodo in cui vi è un maggior rischio di rottura.

 

Rape Culture

La rape culture appare intrinsecamente collegata al fenomeno del victim blaming, in quanto costituisce il suo retroterra socioculturale. Nei casi di violenza sessuale, la donna che sporge denuncia è spesso costretta ad abbandonare i legittimi panni di vittima per rivestire il ruolo di oggetto d’indagine.

 

La “cultura dello stupro” – dall’inglese rape culture – costituisce un retroterra culturale, ampiamente condiviso, in base al quale la violenza è percepita come sexy e la sessualità come violenta, per cui si abbraccia l’idea che l’uomo sia strutturalmente un predatore e la donna una preda sessuale (Buchwald et al. 1993: v). La rape culture affonda le sue radici in una società di natura patriarcale con un sistema di giustizia penale fallocentrico, sia a livello professionale che criminale, nel quale la credibilità della donna che denuncia viene continuamente messa in dubbio, a favore di una revittimizzazione – o vittimizzazione secondaria – della stessa.

Origine del termine

L’origine del termine è incerta. La prima definizione viene comunemente attribuita al premiato documentario Rape Culture, realizzato da Margaret Lazarus nel 1975, che esamina la relazione tra le fantasie sessuali statunitensi e la rappresentazione dello stupro nei film, nella musica e in altre forme d’intrattenimento.

In quegli stessi anni anni, è la giornalista Susan Brownmiller, a darne una definizione, nel libro Against our will: Men, women and rape (1975), sostenendo che lo stupro ha la funzione di “mantenere tutte le donne in un costante stato di intimidazione” (1975, p. 209).

Più tardi, nel 1993, Pamela Fletcher, Emilie Buchwald e Martha Roth diedero una definizione più estesa di “cultura dello stupro”, nel libro Transforming a Rape Culture:

«Un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne […] e che normalizza il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne.”

Alla luce di questa spaventosa minaccia di stupro, costantemente in sospeso sulle loro teste, le donne hanno paura di avventurarsi fuori la sera, di viaggiare da sole, di bere alcolici, di partecipare alle feste.

L’espressione “cultura dello stupro” è in realtà molto ampia perché fa riferimento a “un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso” (Buchwald, Fletcher, and Roth, 1993). Infatti, si manifesta e concretizza mediante l’adozione quotidiana di un lessico misogino, attraverso l’oggettivazione sessuale dei corpi femminili, operata dai media, e grazie a un massiccio processo di normalizzazione della violenza.

Dati allarmanti

Nel mondo, la violenza contro le donne interessa 1 donna su 3. Similmente, i dati Istat descrivono una situazione preoccupante: in Italia, una donna su tre afferma di aver subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita (il 31,5%), in particolare il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, e il 5,4% le forme più gravi di violenza sessuale, come lo stupro e il tentato stupro. Se gli sconosciuti, nella maggior parte dei casi, sono autori di molestie sessuali, le forme più gravi di violenza sono perpetrate da partner (62,7%), amici (9,4%), e parenti (3,6%).

Victim blaming

La cultura dello stupro appare intrinsecamente collegata al fenomeno del victim blaming, in quanto costituisce il suo retroterra socioculturale. Nei casi di violenza sessuale, la donna che sporge denuncia è spesso costretta ad abbandonare i legittimi panni di vittima per rivestire il ruolo di oggetto d’indagine per l’abbigliamento indossato in quel momento, la strada percorsa, l’orario d’uscita, il numero di partner sessuali avuti nella vita, tutti interrogativi volti a trasferire su di lei la responsabilità di quel che le è accaduto. Nella maggior parte dei casi, coloro che incolpano la vittima non dicono esplicitamente “voleva essere violentata ed è stata colpa sua”, piuttosto fanno commenti del tipo “beh, la sua gonna era piuttosto corta …” o “Stava bevendo un sacco …”, affermazioni che, pur non attribuendo esplicitamente la responsabilità alla vittima, sottintendono che se la sia, in qualche modo, cercata (Thacker, 2017). Si realizza così un processo di vittimizzazione secondaria, sia all’interno del sistema giudiziario che tende a contestare le vittime di stupro, sia all’interno della cornice mediatica, che veicola rappresentazioni irrealistiche dello stupratore e della ipotetica vittima.

Il ruolo dei media

Le modalità di cui si servono i media per ritrarre lo stupro sono spesso inadeguate, infondate e di parte (Mukhopadhyay, 2008). Infatti, si tende a raffigurare gli stupratori come bestie impazzite, sessualmente frustrate, che saltano fuori di notte, nascosti dietro ai cespugli, per attaccare donne indifese, una descrizione che inquadra lo stupro quale crimine commesso soltanto da uomini “malati”. Non a caso a livello cinematografico e letterario l’aggressione sessuale è spesso descritta come uno stupro compiuto da uno sconosciuto, nonostante il 73% delle aggressioni sia in realtà commesso da qualcuno che la vittima conosce, come il partner o un amico (Filipovic, 2008, p. 21).

Ciò risulta piuttosto dannoso perché informa l’opinione pubblica su chi sarebbe o meno in grado di commettere una violenza sessuale e insinua una credenza tanto sbagliata quanto culturalmente pericolosa ossia che l’uomo della porta accanto, magari marito e padre, che non agisce mediante queste losche modalità, non potrebbe mai violentare qualcuno (Taslitz, 1999).

I media tendono a ritrarre in modo fuorviante anche le vittime di violenza sessuale, di solito descritte come “bugiarde, ipersessuali ed egoiste” (Taslitz, 1999), e colpevoli di quanto accaduto, in quanto accusate di aver “provocato”, in qualche modo, l’abuso con i propri comportamenti, definiti dai media “carini” e “civettuoli”. Si costruisce, così, una pericolosa cornice di vittimizzazione mediatica, all’interno della quale vengono forniti consigli alle donne su come evitare lo stupro mediante l’adozione di una serie di “regole comportamentali” – come uscire sempre in gruppo, non essere mai sole la notte e non lasciare mai il proprio drink incustodito  – che implicano una responsabilità personale delle donne, vittime di violenza, sprovvedute e incoscienti, in quanto non sufficientemente preparate a scongiurare una possibile aggressione sessuale.

La copertura mediatica di casi di stupro reali non solo mette in discussione ciò che le donne hanno fatto o meno per provocare quell’aggressione sessuale (Mukhopadhyay, 2008), ma propone una netta distinzione tra “brave” ragazze e “cattive” ragazze, una dicotomia di genere che offre agli uomini il beneficio del dubbio nella corte dell’opinione pubblica (Humphries, 2009): le “brave ragazze” sono quelle pudiche, non sessualmente promiscue, che non erano ubriache al momento dell’aggressione e che hanno seguito tutte le “regole” per evitare di essere violentate; al contrario, le “cattive ragazze” sono quelle che hanno violato una o più delle linee guida per “scongiurare le aggressioni sessuali” che la cultura dello stupro ha stabilito per loro.

È bene sottolineare, invece, che lo stupro costituisce un crimine violento, inscrivibile all’interno di una cornice patriarcale dove regna l’egemonia maschile che facilita l’uso di comportamenti violenti contro le donne, un atto commesso allo scopo di esercitare il proprio potere maschile e imporre il controllo sull’altra persona, non motivato dalla ricerca del mero piacere sessuale (Benedict, 1993, p.104).

In conclusione, il victim blaming, così diffuso nei media, sembrerebbe sostenere fortemente l’affermarsi di una cultura dello stupro, grazie all’insidiosa capacità che i mezzi comunicativi hanno di raggiungere e influenzare un numero enorme di persone, ma al contempo è la cultura dello stupro a costituire il terreno fertile per il diffondersi di atteggiamenti colpevolizzanti verso le vittime di violenza.

Il sistema giudiziario

Gran parte dell’incapacità del sistema giudiziario di gestire efficacemente i casi di stupro risiede nel sospetto della vittima e delle sue motivazioni, sostenuto dall’influenza dei media che diffondono scorrette rappresentazioni dello stupro e alimentano falsi pregiudizi.

Ad esempio, una precedente storia sessuale di qualsiasi tipo genera una forma di riluttanza nel condannare presunti stupratori e qualsiasi prova del consumo di alcol o droghe da parte della vittima porta i giurati a dubitare che si sia verificato uno stupro (Allison e Wrightsman, 1993).

Sulla rivittimizzazione operata dal sistema giudiziario, nel 1998 McLeer scriveva: “Le azioni della polizia, che spesso fanno sentire una donna come una criminale, e i tribunali, dove molte donne riferiscono di sentirsi violate per la seconda volta dal processo legale, così come la difficoltà di procurarsi una condanna, partono dal presupposto che la donna è da biasimare per essere stata violentata” (p.45). È come se la vittima fosse sotto processo per aver accusato l’autore dello stupro, piuttosto che l’autore stesso per aver commesso l’atto di violenza sessuale, nel tentativo continuo di contestare la veridicità della testimonianza della vittima.

Nella maggior parte dei casi, le vittime sono trattate con sufficienza e guardate con diffidenza; i loro racconti e i danni conseguenti alla violenza subita non sono affrontati in modo soddisfacente, in quanto la vittima viene chiamata a testimoniare e successivamente abbandonata (Bensimon, Jaishankar e Ronel, 2008). Difatti, le condanne che gli stupratori ricevono spesso non riflettono la gravità dei loro crimini, ma in molti casi sono il risultato di patteggiamenti che ignorano la sofferenza delle vittime (Bensimon, Jaishankar e Ronel, 2008).

In nome della risoluzione dei loro casi, alcune donne sono anche costrette a sottoporsi forzatamente a valutazioni di salute mentale (Taslitz, 1999), che contribuiscono alla loro rivittimizzazione in quanto spesso non vengono effettuate allo scopo di valutare o trattare il trauma, ma piuttosto come un altro mezzo per analizzare la veridicità della denuncia della vittima (Mazza, 2012); in particolare, quando tali valutazioni sono disposte dal giudice su richiesta dell’aggressore imputato, ciò può far sentire la vittima come se la propria credibilità fosse ulteriormente messa in dubbio (Mazza, 2012). Mazza (2012) aggiunge che “anche quando le vittime cercano volontariamente la consulenza post-stupro da professionisti della salute mentale, se tali persone esprimono dubbi sulla veridicità delle loro storie, le vittime si sentono ‘violate e nuovamente stuprate” (p.765).

Alcuni sostengono che la persecuzione del sistema di giustizia penale nei confronti delle vittime di stupro è necessaria perché le donne spesso mentono sullo stupro (Palmatier, 2013); tuttavia, gli studi dimostrano che soltanto tra il 2 e l’8% delle accuse di stupro sono false (Lisak, Gardinier, Nicksa e Cote, 2010).

Concludiamo citando le parole di Peterson che, in merito alla sua esperienza nell’affrontare il tipico trattamento riservato alle vittime di stupro da parte del sistema giudiziario, scrive: “Quello che è successo in aula è un sottoprodotto della rape culture – quando ciò che accade alle donne è messo da parte, quando “senza ombra di dubbio” non è ancora abbastanza, quando il tuo passato, il modo di vestire, la media dei voti o lo stato di ebbrezza sono usati per giustificare gli atti spregevoli di violenza sessuale inflitti da un altro” (2008).

 

Un paradigma per indagare l’inibizione: lo Stop Signal Task

Nel paradigma Stop Signal Task il soggetto è posto davanti a uno schermo sul quale si presenta un “segnale di avvio”, a cui è istruito a reagire il più velocemente e accuratamente possibile con una particolare risposta comportamentale.

 

L’inibizione di una risposta è un aspetto fondamentale del controllo cognitivo ed esistono numerosi paradigmi sperimentali adottati nei laboratori di psicologia per studiare come persone e animali controllino i loro movimenti o qualsiasi altra risposta comportamentale.

In letteratura, il paradigma definito Stop Signal Task (SST) risulta essere il principale compito per studiare l’inibizione di una risposta motoria. Quest’ultimo nasce, infatti, per indagare il controllo del pensiero e dell’azione mettendo alla prova l’abilità dei soggetti nel trattenere un movimento pianificato in risposta ad un segnale di stop (Logan & Cowan, 1984).

Ma in cosa consiste questo compito così diffuso in psicologia sperimentale?

Tipicamente il soggetto è posto davanti a uno schermo sul quale si presenta un “segnale di avvio” o “Go target”, a cui è istruito a reagire il più velocemente e accuratamente possibile con una particolare risposta comportamentale, ad esempio premere un tasto (del mouse oppure della tastiera) in risposta a uno specifico stimolo visivo (Van Belle et al., 2014; Meyer & Bucci, 2016).

In una percentuale minore di prove, in seguito alla presentazione del target GO, viene presentato un segnale di stop (ad esempio un suono o un ulteriore stimolo visivo): in questo caso, la risposta deve essere interrotta dal soggetto, inibendo la risposta precedentemente pianificata (Duque et al., 2017).

Quindi, in breve, questo paradigma sperimentale consiste in un compito a tempo con due possibilità di risposta, con un compito primario di scelta (ad esempio “premi in tasto quando compare il target GO”) occasionalmente interrotto da un segnale di stop (ad esempio “non premere il tasto quando compare il segnale di stop”), il quale indica ai partecipanti di trattenersi dal rispondere in quella specifica prova (Matzke, Verbruggen & Logan, 2018).

Per comprendere meglio la struttura di questo paradigma, possiamo citare un esempio come lo studio di Gaillard e collaboratori (2020), rappresentato graficamente nella seguente immagine (Fig.1).

Stop Signal Task un paradigma per indagare l inibizione Psicologia Fig 1

Fig. 1: Esempio del paradigma Stop signal task: nello studio di Gaillard et al. (2020) è presentato un punto di fissazione, al quale segue uno stimolo go e successivamente, in una percentuale minore di prove, uno stimolo sonoro, al quale i soggetti sono istruiti a non rispondere. (Immagine di Gaillard et al. 2020).

L’abilità del soggetto di inibire la risposta è probabilistica e dipende dallo Stop Signal Delay (SSD), ossia l’intervallo temporale tra il segnale go e il segnale di stop: generalmente, all’aumentare dell’SSD diminuisce la probabilità che il soggetto sia in grado di inibire l’output comportamentale, ossia la risposta.

Una misura di interesse nel paradigma in questione è il tempo di reazione del segnale di arresto (SSRT), cioè una stima quantitativa del tempo necessario per interrompere una risposta ormai avviata: SSRT più brevi sono associati a un migliore controllo inibitorio (Meyer & Bucci, 2016). Questa misura è stata utilizzata per esplorare non solo i meccanismi cognitivi e neurali dell’inibizione della risposta (Logan & Cowan, 1984), ma anche  sviluppo e declino delle capacità inibitorie nel corso della vita (Chevalier, Chatham & Munakata, 2014).

In ambienti di laboratorio, lo Stop Signal Task deve la sua popolarità al modello sottostante, ossia l’Horse-race Model (Logan & Cowan, 1984) che facilita la stima della latenza dell’inibizione della risposta altrimenti non osservabile (Matzke, Verbruggen & Logan, 2018).

Questo modello si basa sulla teoria dell’inibizione di Logan e Cowan (1984), in cui si propone che un segnale di controllo, come un segnale di stop, avvii un processo di arresto che si scontra con i processi alla base dell’azione in corso. Quando il processo di arresto arriva prima al suo completamento vince la gara contro il processo di risposta precedentemente innescato e l’azione viene correttamente inibita. Se, invece, è il processo di risposta a terminare prima (quindi “vince la gara” contro il processo di arresto), l’azione prosegue fino al completamento (Logan & Cowan, 1984).

Questo paradigma sperimentale si è rivelato utile perfino nella pratica clinica, in cui lo Stop Signal Task ha contribuito a caratterizzare i deficit nell’inibizione comportamentale in condizioni patologiche come la malattia di Parkinson, la schizofrenia, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e nelle dipendenze da alcol e droghe (Duque et al., 2017).

 

Influenza social network: il mito degli Influencer

Gli influencer sono “utenti Internet ordinari che accumulano un numero relativamente grande di follower tramite blog e social media, per mezzo della narrazione testuale e visiva delle loro vite personali e dei loro stili di vita.”

 

Nei gruppi e fra i gruppi la comunicazione concerne, innanzitutto, l’influenza sociale, ovvero quella modalità di orientare e dirigere in modo reciproco il sistema delle credenze, dei desideri, degli atteggiamenti e degli scopi dei membri di un gruppo (Turner, 1991). All’interno della psicologia sociale, si distinguono due tipologie di influenza sociale:

  • informativa, che concerne la disposizione ad accettare un’informazione proveniente da un altro come vera, riducendo l’ambiguità nella valutazione di una situazione;
  • normativa: induce l’individuo a conformarsi alle norme e agli standard vigenti nel gruppo.

Per spiegare le tipologie di influenza sociale, lo psicologo Solomon Asch (1951) crea una condizione sperimentale per illustrare la combinazione tra influenza sociale informativa e normativa: ai soggetti vengono mostrate diverse configurazioni formate da 3 linee confrontate con una linea campione; i partecipanti devono indicare quale linea ha la stessa lunghezza della linea campione. I risultati dimostrano che il 76% dei partecipanti si adegua alle risposte del gruppo.

La nascita del web, e in particolare dei social network, crea nuove opportunità di messa in atto dell’influenza sociale, che, da sociale diventa social network. I nativi digitali e gli immigrati digitali, infatti, possono conformarsi a tre tipologie di influenza social network (Anagnostopoulos et al., 2008).

La prima è l’influenza per “induzione”, che si sviluppa quando l’utente svolge un’azione che corrisponde all’attività recente dei suoi amici. La seconda è l’“omofilia”, il che significa che gli individui spesso fanno amicizia con altri che sono simili a loro, con i quali, quindi, eseguire azioni simili. La terza tipologia è l’influenza dipendente da fattori esterni o ambientali, che si sviluppa in relazione a motivazioni diverse da quelle individuali. Si può, infatti, sostenere che l’influenza sociale si diffonde attraverso il social network come “il virus dell’influenza”. Ed è proprio per questa potenzialità del web, ovvero, la viralità, che sono nate figure, come gli Influencer. Ma chi sono gli Influencer? Sono “utenti Internet ordinari che accumulano un numero relativamente grande di follower tramite blog e social media, per mezzo della narrazione testuale e visiva delle loro vite personali e dei loro stili di vita, impegnandosi con i loro seguaci in spazi digitali e fisici” (Abidin, 2016, p. 3).

Grazie al corretto personal branding questa persona riesce a migliorare la propria reputazione. Il potere degli influencer è proprio quello di essere state persone “comuni”, questo può generare nei follower le cosiddette interazioni parasociali (Mininni, 2004). Invero, il messaggio che si passa è che qualsiasi persona che ha queste abilità può diventare un influencer, non è necessario entrare in uno star system. Come si può immaginare, la figura dell’influencer nasce soprattutto nel contesto del marketing, quindi per influenzare comportamenti d’acquisto, ma ciò che trasmettono gli influencer sono soprattutto ideali, motivo per cui, esistono Influencer impegnati in diverse sfide socio-culturali. Da Chiara Ferragni, esempio di empowerment femminile e della corrente della “body positive” ai book e travel influencer, questo ruolo sta diventando sempre più una figura professionale su cui investire, conoscendo, però, i principi dell’influenza sociale per aumentare negli utenti la pro-socialità.

 

Tradire o non tradire: questo il problema – Recensione del libro ‘Infedeltà: Scienza delle relazioni e psicoterapia’

Nel suo saggio, edito da Raffaello Cortina e a cura di Franco Del Corno per la sua edizione italiana, Lawrence Josephs tratta dello spinoso tema dell’infedeltà.

 

In particolare, l’autore sceglie di affrontare questo tema descrivendo le motivazioni che lo indurrebbero, le specifiche dinamiche emotive e comunicative che lo identificherebbero, per offrire al lettore una concettualizzazione complessa e dettagliata del fenomeno dell’infedeltà più radicata teoricamente ed empiricamente fondata.

Unitamente a questo scopo, Joseph mirerebbe a colmare lo iato tra le teorie più sociali, delle relazioni, quelle sugli stili di attaccamento ed evoluzionistiche, con le pratiche cliniche e terapeutiche dal momento che egli ritiene che ad oggi vi siano pochi strumenti evidence-based per persone ansiose, depresse o arrabbiate a seguito di esperienze di infedeltà.

Il titolo originale del saggio è abbastanza chiaro: The Dynamic of Infidelity. Applying Relationship Science to Psychotherapy Practice, come lo è altrettanto lo scopo dell’autore, in doppia veste di ricercatore e psicoterapeuta, di delineare nuovi interventi e modalità relazionali a partire da dati empirici e dalla specificità della sofferenza riportata dalla persona.

Come è possibile accogliere e aiutare efficacemente con la terapia, senza giudizi o moralismi, una persona che ha vissuto o sta vivendo un tradimento?

La risposta a tale domanda non è semplice né banale in quanto l’infedeltà per sua stessa definizione porta spesso nella stanza del terapeuta una triade: il tradito, il traditore e l’amante.

La risposta si complica ulteriormente se si considera l’enorme quantità ed eterogeneità delle evidenze scientifiche prodotte sull’argomento, ognuna facente riferimento a modelli teorici e paradigmi peculiari che scompongono l’infedeltà in molteplici facce.

Ad esempio, alcuni autori come Baumeister e colleghi riportano dati a sostegno del fatto che gli uomini avrebbero una maggiore propensione al tradimento perché sperimenterebbero maggiori livelli di desiderio sessuale rispetto alle donne.

In aggiunta, diversamente da esse, i maschi sono meno monogami e meno selettivi nella scelta del partner per aumentare le probabilità riproduttive (Baumeister, Catanese, Vohs, 2001).

Altri invece sottolineano come le persone abbiano strategie riproduttive diverse a seconda degli stili di attaccamento sviluppati; in particolare Belsky (2000) evidenzia come gli stili ansiosi ed evitanti siano maggiormente propensi a creare relazioni caratterizzate da infedeltà poiché nel primo caso le persone tendono a costruire ansiosamente legami intimi con eccessive richieste nei confronti del partner e nel secondo caso invece questi si evitano e si ricerca più libertà sessuale e indipendenza.

Tuttavia, tralasciando le diverse teorie che si sono occupate nel tempo delle ragioni che porterebbero ad essere monogami piuttosto che infedeli, teorie che vengono trattate dettagliatamente nel saggio, da un punto di vista psicologico viene rimarcato quanto sia spesso difficile accettare che il proprio partner abbia il diritto di pensare e fare ciò che vuole, soprattutto quando le sue credenze o azioni hanno a che fare con l’infedeltà.

Tali credenze infatti sono spesso dicotomiche: o siamo completamente a favore della monogamia, come pilastro necessario per l’accudimento e la protezione della prole o versiamo al suo polo opposto che vede nell’infedeltà e nella poligamia l’unico modo per risolvere tutta l’ambivalenza e la frustrazione affettiva e sessuale data da una condizione oppressiva imposta dalla cultura e dalla società.

Inoltre, il significato e l’investimento intimo ed emotivo che precedono e si accompagnano a queste nostre credenze sono rilevanti e complicano il lavoro terapeutico che sarà principalmente centrato sulla promozione di un pensiero più dialettico e integrato e sull’adozione di una modalità terapeutica che lo favorisca e non ceda a (pre)giudizi o prese di posizione.

A parere di Joseph, la riunione e l’integrazione di tutti gli aspetti – evoluzionistici, sociali, culturali e psicologi –  che definiscono l’infedeltà sotto un unico cappello, quello della scienza delle relazioni, potrebbero essere la risposta a tutte le domande e alle molteplici caratteristiche dell’infedeltà che sono state studiate separatamente le une dalle altre.

Infatti per comprendere appieno tutti gli aspetti del conflitto tra infedeltà e fedeltà, riportati anche dai pazienti, occorre sviluppare una visione globale che non sottovaluti né ignori alcuna variabile.

Questa la ragione per la quale nei primi capitoli del saggio viene affrontato il tema dell’ambivalenza fra monogamia e poligamia integrando diversi aspetti, biologici, evolutivi, sociali e culturali.

Si passa poi ad una rassegna delle differenze di genere legate alle ragioni e agli effetti del tradimento negli gli uomini e nelle donne, con interessanti passaggi in cui l’autore fa risalire l’infedeltà anche alla presenza di specifici tratti di personalità e alla gestione dei propri stili di attaccamento insicuro ed evitante all’interno della relazione.

Gli ultimi capitoli invece sono riservati agli stili comunicativi legati alla fedeltà e all’infedeltà e all’individuazione degli ingredienti essenziali per il successo delle relazioni a lungo termine, sia tra partner sia tra terapeuta e paziente coinvolto in un’esperienza di tradimento, ovvero autenticità, affidabilità e cooperazione.

 

Rabbia e aggressività: quali sono i trattamenti più efficaci per gestirle?

Questo articolo nasce per rispondere ad un interrogativo sempre più frequente: quali trattamenti si sono mostrati più efficaci nella gestione della rabbia e dell’aggressività?

 

Negli ultimi decenni, i ricercatori hanno iniziato a riconoscere la rabbia disregolata come un problema psicologico comune e debilitante. Di conseguenza, il trattamento della rabbia e dell’aggressività ha ricevuto una crescente attenzione in letteratura. La ricerca di Lee e DiGiuseppe esamina le meta-analisi esistenti sui possibili interventi per la gestione di queste due problematiche, con l’obiettivo di sintetizzare le attuali evidenze su tali trattamenti e di identificarne l’efficacia (Lee & DiGiuseppe 2017).

L’espressione “gestione della rabbia” è diventata un luogo comune nella cultura occidentale. A conferma di ciò, ricercando questa dicitura su Google nel giugno 2021, otteniamo 2.920.000 risultati. In contrapposizione a ciò, la letteratura scientifica sull’argomento realmente attendibile è purtroppo circoscritta a pochi studi, i quali suggeriscono che la rabbia non sempre porti all’aggressività, né che la rabbia sia necessariamente una causa dell’aggressività. Sembrerebbe, infatti, non solo che possa esistere rabbia senza aggressività, ma che possano verificarsi episodi di pura aggressività svincolati dall’emozione della rabbia. Tuttavia, una recente review, ha portato alla luce una solida relazione tra rabbia e comportamento violento (Cheriji, Pintea & David, 2012); allo stesso modo, una recente valutazione di un trattamento per la rabbia somministrato individualmente ha rilevato che le riduzioni dei comportamenti aggressivi erano associate a una diminuzione della rabbia (Novaco & Taylor), evidenziando una stretta connessione tra i due fattori. Questi studi forniscono supporto all’ipotesi che il trattamento della rabbia possa tradursi in una riduzione dell’aggressività, per cui trattando una problematica, si tratta indirettamente anche l’altra.

Lee e DiGiuseppe (2017), autori della ricerca di riferimento, hanno identificato 21 meta-analisi, delle quali sono stati integrati i risultati per fornire una panoramica definitiva del trattamento di tali problematiche. Queste ricerche rappresentano una base di dati sostanziale su cui valutare se tali trattamenti funzionano e quali trattamenti sembrano avere maggior successo.

Per ciò che concerne la rabbia, è emerso che nel confronto tra tecniche di rilassamento, apprendimento di abilità sociali, trattamenti cognitivi e interventi cognitivi e di rilassamento per la rabbia, i trattamenti di rilassamento sono risultati i più efficaci, seguiti da potenziamento di abilità sociali, tecniche cognitive combinate a rilassamento e pure terapie cognitive (Edmondson & Conger, 1996). Tra le tecniche risolutive, spiccano dunque trattamenti di natura comportamentale e cognitivo-comportamentale (CBT, Cognitive-Behavioral Therapy). Tuttavia, è bene citare una specifica meta-analisi che ha evidenziato come anche la terapia psicodinamica abbia prodotto buoni risultati, e un’ulteriore meta-analisi che ha individuato discreti esiti nel trattamento della rabbia, sia con metodi di CBT, sia non-CBT (Saini, 2009; Kusmierska, 2011). Questi studi suggeriscono che sia gli approcci CBT, sia altri approcci per il trattamento della rabbia sono comparabilmente e almeno moderatamente efficaci.

In merito all’aggressività, nella letteratura esistente sono disponibili pochi studi che pongono a confronto i differenti tipi di trattamento. Tra gli studi sull’argomento, una meta-analisi in particolare ha individuato la terapia comportamentale come più efficace rispetto ad altri modelli (Fossum et al., 2008). Ad ogni modo, sembra che i tentativi di districare gli effetti di ciascuno dei differenti tipi di trattamento siano stati in gran parte infruttuosi a causa della mancanza di studi.

Sebbene ci fossero solo pochi studi sulla terapia familiare, anche i risultati per questo tipo di tecnica sono promettenti. Il campo della psicoterapia è impantanato nei dibattiti teorici tra modelli concorrenti, ma tali dibattiti sono notevolmente assenti nei trattamenti per rabbia e aggressività. Ciò si verifica perché i sostenitori di altri orientamenti teorici non hanno nulla da offrire per il trattamento della rabbia e dell’aggressività? Improbabile. La citazione di Carl Sagan, “L’assenza di prove non è prova di assenza”, spinge a suggerire che sia necessaria maggior ricerca sul trattamento in altri approcci teorici, in quanto essi potrebbero fornire componenti preziose nel trattamento di tali problematiche (Lee & DiGiuseppe 2017).

In conclusione, prove sostanziali supportano l’efficacia dei protocolli di intervento per rabbia ed aggressività. Tra le varie terapie, i risultati dimostrano che i trattamenti cognitivo-comportamentali rappresentano attualmente l’intervento più efficace, nonché più comunemente diffuso, sia per la rabbia, sia per l’aggressività.

 

Ruminazione e cascate emotive… pensare meno per pensare meglio – Video dal webinar di CIP Modena

Durante l’incontro, tenuto dal Dott. Gabriele Caselli, sono state presentate le caratteristiche della ruminazione e i modi in cui questa può ostacolare attivamente un naturale processo di regolazione emotiva e comportamentale.

 

La ruminazione può essere costituita da una miscela di diversi pensieri: analizziamo il perché dei nostri e degli altrui comportamenti, valutiamo e giudichiamo in modo critico e autocritico noi e gli altri, immaginiamo come avremmo potuto comportarci diversamente.

Il nostro scopo può essere quello di capirci meglio, di trovare soluzioni, tuttavia la persistenza di questo pensiero tende a prolungare e intensificare la sofferenza emotiva nei suoi colori di rabbia, colpa, vergogna e depressione. Questo avviene soprattutto quando abbiamo idea di non aver modo di interrompere e regolare il nostro pensare.

Diversi studi recenti (Anestis & Joiner, 2008; Selby, Anestis, Bender & Joiner, 2009; Selby & Joiner, 2009, Denson, 2012; Martino et al., 2013) hanno mostrato come questo circuito può essere responsabile di comportamenti impulsivi e controproducenti, spesso ultimo tentativo di interrompere la ruminazione e trovare un po’ di pace o sollievo. Se da una parte questi comportamenti rappresenterebbero un vantaggio momentaneo, dall’altra, rischiano di attivare una nuova cascata emotiva, favorita delle emozioni di colpa e vergogna e da una serie di altri problemi che possono causare nelle nostre vite, facilitando l’innesco di nuova ruminazione.

Il CIP Modena ha organizzato il webinar “Ruminazione e cascate emotive” per aiutare i partecipanti a riconoscere la ruminazione e i suoi meccanismi disfunzionali. L’incontro, di cui pubblichiamo il video per i nostri lettori, è stato condotto dal Dott. Gabriele Caselli.

 

RUMINAZIONE E CASCATE EMOTIVE
Guarda il video del webinar:

SCOPRI I PROSSIMI EVENTI IN PROGRAMMA >> CLICCA QUI

CIP MODENA >> SCOPRI DI PIU

La migrazione degli gnu – Neuroeconomia VS Consapevolezza

Obiettivo di questo articolo è offrire una riflessione sullo sviluppo delle applicazioni della neuroeconomia e sulle possibili implicazioni dell’utilizzo delle strategie di neuromarketing sulla consapevolezza di scelta dei consumatori.

 

Il neuromarketing è una branca di riferimento della cosiddetta neuroeconomia e indica una recente disciplina volta all’individuazione di strategie di comunicazione rivolte ai processi decisionali d’acquisto mediante l’utilizzo di metodologie legate alle scoperte delle neuroscienze. Tale pratica ha l’obiettivo di determinare le dinamiche comportamentali che spingono all’acquisto una persona in risposta ad alcuni stimoli. Gran parte degli stimoli citati fanno riferimento a bisogni, emozioni, istinti, automatismi per lo più inconsci che sfuggono alla consapevoleza dello stesso consumatore (Lindstrom M. Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto. Apogeo. 2009).

Le strategie utilizzate sfruttano gli studi delle neuroscienze, ossia quell’insieme di studi scientificamente condotti sul sistema nervoso che sfruttano le conoscenze di discipline quali: medicina, psicologia, matematica, statistica e linguistica.

Il presupposto da cui parte l’analisi neuroeconomica è che l’uomo non è un animale razionale, bensì agisce sotto l’impulso di processi neuronali automatici e molto spesso inconsci, quindi indipendenti dalla propria volontà. Ciò fa sì che il comportamento economico umano sia frutto di un conflitto neuronale tra razionalità ed emotività, automatismo e consapevolezza (Stefano Santori, Neuroeconomia in azione, Bruno Editore, 2011)

I fatti fin qui enunciati invitano ad un interrogativo: un consumatore che agisce in un contesto controllato e strutturato al fine di “orientare” le scelte di acquisto può considerarsi consapevole?

All’inizio del 2016, la Direzione Generale della Commissione Europea di Giustizia e dei Consumatori (DG Justice and Consumers) ha pubblicato uno studio sulla vulnerabilità dei consumatori in Europa a seguito di una risoluzione del Parlamento Europeo del 2012 in cui si invita la stessa Commissione Europea a considerare il rafforzamento dei diritti dei consumatori vulnerabili come una priorità chiave. Per consumatore vulnerabile si intende colui che sulla base di caratteristiche socio-demografiche, situazioni personali e/o situazione del mercato è più suscettibile ad essere danneggiato dai propri processi di scelta commerciale (Consumer vulnerability across key markets in the European Union. 2016).

Se lo sviluppo della neuroeconomia porterà ad una sempre maggiore capacità di intervenire sui processi neuronali automatici e molto spesso inconsci del consumatore, è lecito pensare che tale pratica abusi dei bisogni e delle passioni di un individuo sfruttando le implicazioni comportamentali e psicologiche che l’individuo stesso ignora?

In Italia l’articolo 643 del Codice Penale prevede già questa possibilità seppur limitata ad alcune specifiche fattispecie: il reato di Circonvenzione di Incapace prevede una pena per “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o dell’inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso” (Articolo 643 del Codice Penale).

Nel 2011 l’Advertising Research Foundation (associazione di pubblicitari nata nel 1936 con l’obiettivo di migliorare le pratiche pubblicitarie e creare un marketing più efficace) ha intrapreso il primo progetto per unificare la disciplina del neuromarketing ed elaborare degli standard per permettere una fruizione più consapevole (Develops Standards for Neuromarketing Research. 2011. Advertising Research Foundation). Tale iniziativa dimostra che anche da parte di una delle più importanti associazioni di categoria vi sia una preoccupazione rispetto al tema della consapevolezza.

Per concludere, la mia riflessione non condanna i tentativi della neuroeconomia di comprendere ed utilizzare le strategie citate ma invita alla previsione di un parallelo piano informativo e formativo al fine di accrescere il livello di consapevolezza dei consumatori.

Occorre affiancare alle più recenti iniziative legislative e di protezione dei consumatori (intervento esterno), azioni di formazione e comunicazione che offrano al consumatore quelle informazioni e quegli strumenti necessari al fine di promuovere e favorire lo sviluppo di un senso critico maturo che lo accompagni nei propri personali processi di scelta (intervento interno).

 

Il corpo per sé – La perdita del contatto ai tempi del covid-19

Una delle conseguenze più pesantemente occorse dall’inizio della pandemia è la limitazione del contatto fisico. La possibilità di relazionarsi, di stare vicini godendo di una reciproca presenza, dopo il diffondersi del COVID-19 ha assunto connotazioni di rischio. L’ombra del contagio si è impadronita del sentire collettivo, contribuendo a privare la vicinanza corporea di ogni possibile valore relazionale, per attribuirle soltanto quello ben poco auspicabile di mezzo di trasmissione della malattia.

L’impatto della pandemia: privati del corpo

 Il Covid ha disegnato una sorta di minaccia relazionale che impone la lontananza in ogni tipo di rapporto. Il confine spaziale utile ad impedire il contagio si è tramutato in una barriera psichica: di colpo, tutte le gestualità prima svolte con naturalezza hanno assunto un significato minaccioso che la psiche ha finito con l’interiorizzare, assieme ad un senso di allarme collettivo imposto talvolta con oculatezza e prudenza, talvolta in maniera avventata e inconsapevole.

La sfera relazionale è completamente compromessa, decurtata di quella componente tattile che la rende autentica, confermante, solida. Capace di trasmettere, con immediatezza rassicurante, qualsiasi tipo di messaggio.

Perché non c’è cosa che non si possa comunicare e apprendere con il corpo, così come non c’è affetto che non possa venir espresso tramite il canale somatico. Le esperienze affettive preverbali e i contatti sperimentati con la madre nelle prime fasi della vita lo dimostrano ampiamente: la comunicazione gestuale e il contatto corporeo non sono elementi integrativi della comunicazione verbale, ma modalità comunicative dotate di un proprio valore referenziale, autentico e insostituibile, e dall’indubbia valenza evolutiva (Stern, 1985; Beebe e Lachmann, 2003).

L’emergenza sanitaria si è sovrapposta a significati consolidati, creando una realtà in cui la limitazione del contagio viene imposta attraverso uno stato di semi-isolamento, una sorta capsula esistenziale finalizzata a proteggere da un mondo in cui il virus si aggira a piede libero, e può colpire i meno accorti come i più sfortunati.

L’unico modo per combattere questo nemico insidioso è cercare di prevenirlo, di proteggersi dai suoi effetti prima che possano manifestarsi.

Da qui la necessità di una distanza inviolabile che ha letteralmente sconvolto la dimensione relazionale, modificandone le strutture e le finalità. Tutto viene svolto a distanza: il lavoro, la scuola, riunioni, gli eventi sociali, mentre le manifestazioni culturali, artistiche e sportive sono costrette a continui rinvii e cancellazioni.

I rapporti, più che liquefatti, hanno subito un congelamento, e la siderazione sociale che ha coinvolto l’umanità intera, si riflette nella modalità comportamentali che vedono i soggetti sempre più tesi alla solitudine. Al ritiro.

L’utilizzo suppletivo dei mezzi di comunicazione informatici ha snaturato l’intima dualità del legame, costringendolo alla presenza di elementi che diluiscono la vicinanza e il senso dell’altro: inevitabilmente il computer, il telefono, gli schermi, vengono avvertiti come elementi intrusivi, terzi incomodi che svigoriscono il contatto diretto nello stesso momento in cui provano a costruirlo: la percezione che ci sia un’interfaccia, tra il Sé e l’altro, dà l’impressione che al rapporto si sia aggiunto un fattore invasivo, incistato nella dimensione egoica fin tanto da modificarne le percezioni.

Il corpo è stato sostituto da un’immagine proiettata sullo schermo, e i pochi contatti relazionali sono consentiti solo attraverso l’utilizzo di strumenti di protezione, posti come filtro o linea invalicabile in grado di far capire quante e quanto grandi distanze questo virus abbia contribuito a creare. La stessa mascherina, ponendosi sul volto fin tanto da nasconderne i tratti distintivi, mortifica il senso dell’identità, creando una dimensione soggettiva omologante che incrementa il senso di isolamento e diffidenza.

Sempre meglio di niente, viene da dire, dato che l’alternativa sarebbe ben meno appagante. Ma il prezzo si fa sentire, sul breve e lungo termine: Il COVID-19 ha disegnato una situazione traumatica che sta costringendo a sperimentare esperienze di lutto e di perdita. Lo sforzo adattivo alla realtà, pur presente in ciascuno, subisce differenziazioni basate sulla personalità, sulle esperienze maturate e sulla capacità di resilienza del singolo, e in molti casi l’impatto con la psiche non si rivela di facile gestione, soprattutto per quei soggetti penalizzati da situazioni di solitudine, di vuoto affettivo o di patologie pregresse.

Proprio in queste persone, definite fragili, la risposta allo stimolo stressogeno ha manifestato la propria disfunzionalità a mezzo di meccanismi di difesa spesso immaturi (Freud, 1936), e dunque inadeguati ad un progetto di ripresa e resilienza. Negazione, meccanismi schizoidi, dissociazione, scissione, convinzioni paranoidi, sono alcuni degli strumenti psichici con cui l’Io sta cercando di dominare impulsi ansiogeni continui e reiterati, e dunque di far fronte a situazioni di instabilità che hanno portato alla deriva il senso di continuità esistenziale, interrompendolo bruscamente.

La diffusione di un’oscura ambivalenza spinge alla costruzione di una realtà sincretica, in cui le diverse scelte, i diversi obiettivi e i differenti ruoli hanno assunto una posizione dicotomica. La scissione risponde al richiamo di un’emergenza regressiva con cui combattere il senso di incertezza e creare dimensione valutative inconfutabili, in cui esiste soltanto il tutto buono e il tutto cattivo, il giusto e lo sbagliato, il colpevole e l’innocente. E proprio in questa suddivisione, estrema e per certi aspetti forsennata, si ricerca un possibile effetto salvifico che non conceda spazio alla distruttività del dubbio.

La limitazione del contatto e il sistema di attaccamento

Bowlby (1969) ha dimostrato come l’attaccamento rientri tra i sistemi motivazionali innati e biologicamente  predisposti nell’essere vivente. La sua funzione è nello specifico volta ad ottenere la vicinanza fisica di un soggetto reputato in grado di difenderci, in tutti i casi in cui viene avvertita una situazione di pericolo da cui si potrebbe ricevere detrimento.

Il bambino ricerca il genitore sin dalle prime fasi della vita, al fine di garantire non soltanto la propria sopravvivenza, ma altresì di sentirsi amato e protetto. Sensazione rassicurante e confermante del Sé che può essere ottenuta anche e soprattutto attraverso una prossimità corporea che annulla la distanza destando quella sensazione di calore capace di attivare sensazioni di rilassamento e sicurezza. Già Harlow (1959) aveva dimostrato l’importanza del senso di protezione che la vicinanza corporea si mostra in grado di trasmettere.

Il cucciolo di scimmia rhesus coinvolto nel suo esperimento, pur avendo la possibilità di restare tra le braccia di una madre di fil di ferro dotata di un biberon colmo di latte, preferiva passare tutto il suo tempo in braccio ad una madre di peluche, il cui calore era maggiore e maggiormente percepibile. La madre in fil di ferro veniva utilizzata soltanto come fonte di alimentazione: ma non appena la piccola scimmia aveva terminato di abbeverarsi al biberon, ella veniva di nuovo abbandonata in favore della mamma peluche. Ciò sta a dimostrare quanto il bisogno di vicinanza affettivo sia intenso sin dalla nascita, e come la sua gratificazione risulti indispensabile alla sopravvivenza, come accade con i bisogni fisiologici.

Ma proprio in un momento in cui il bisogno di affetti è maggiore, e la percezione di pericolo è imperante, il sistema motivazionale di attaccamento è costretto a subire una costante de-attivazione. Uno tra i primi provvedimenti conseguenti alla diagnosi positiva è infatti l’isolamento del paziente e di tutti coloro che hanno avuto un contatto con lui. Scattano le quarantene, gli ammalati ricoverati non possono ricevere neppure le visite dei propri cari, ma sono costretti a trascorrere una degenza, spesso lunga e sofferta, assolutamente isolati nei reparti dedicati alla cura del virus.

Stati di isolamento non possono che mostrarsi uno stimolo stressogeno in grado di indebolire ulteriormente il sistema immunitario, direttamente deputato nella prevenzione e nella difesa dal virus e anche nella lotta allo stesso, una volta avvenuta la contrazione dello stesso. La psiconeuroimmunologia ha dimostrato quanto stretto risulti il legame tra un buon funzionamento immunitario e una dimensione emotiva funzionale.

Al contempo la psicologia evolutiva evidenzia quanto dannose possano risultare, ai fini del corretto svolgimento del processo maturativo, i vuoti relazionali cui i bambini sono quotidianamente costretti a far fronte, senza avere le capacità emotive e cognitive per comprenderne pienamente il senso.

Sono numerosi i lutti con cui le nuove generazioni hanno dovuto obbligatoriamente familiarizzare, in tempo di COVID, a partire dalle lezioni scolastiche, radicalmente mutate, ove non del tutto sospese.

Con quanto dispiacere vediamo le aule scolastiche-in quelle poche scuole che possono ancora permettersi lezioni in presenza- popolate di alunni distanti gli uni dagli altri, con i banchi disposti singolarmente e il volto coperto da mascherine che aumentano il senso di lontananza reciproca. Nuove norme hanno preso il posto del libero divertimento, in cui ci si poteva toccare e rincorrere, e in cui la pelle, lungi dal costituire un rischio di contagio infettivo, era uno strumento di esplorazione e di comunicazione emotiva. Lo stesso concetto di gruppo ha perso ogni connotazione evolutiva e relazionale, tanto da venir decurtato persino del proprio significato originario e sostituito con il termine assembramento: definizione che è sufficiente, da sola, a destare un allarme collettivo e una necessità di immediata repressione.

E se gli adulti, con una buona dose di nostalgia, possono almeno ricordare certe modalità di vicinanza di cui hanno potuto godere, lo stesso non vale per i giovani d’oggi, di colpo privati dell’accesso ad una relazionalità corporea così essenziale per la formazione del Sé, la cui assenza darà luogo ad vuoto evolutivo potenzialmente dannoso.

Il corpo per sé

 Il corpo rappresenta il campo di battaglia in una lotta tra pulsioni contrapposte, aggressività inespresse ed emozioni non simbolizzate, tipiche di un tempo in cui la paura, non disponendo di un tempo di rielaborazione adeguato, viene incorporata come un elemento beta, e si trasforma in un elemento invasivo, non digerito, refrattario ad ogni tipo di metabolizzazione psichica (Bion, 1967). L’iperinvestimento somatico viene utilizzato come mezzo di conferma esistenziale e di regolazione emotiva, vissuto come un appiglio al quale aggrapparsi mentre tutto intorno è soggetto a minacciose e frastornanti modifiche.

Da qui il continuo monitoraggio dei sintomi corporei, richiesto da esigenze inter e intra individuali sempre più pressanti: l’accesso ai luoghi pubblici è consentito solo in assenza di temperatura elevata, i tamponi si susseguono con finalità preventiva e diagnostica, e ciascuno di noi, nel timore di aver contratto il virus, è pronto ad allarmarsi al primo sintomo sospetto. Ma uno stato di buona salute assume anche un significato di lasciapassare sociale, di nulla osta allo svolgimento di attività e di spostamenti, in assenza del quale ci si può soltanto rinchiudere tra le pareti domestiche, ostaggio di quarantene dal vago sapore stigmatizzante, o altrimenti “scomparire” all’interno di reparti ospedalieri inaccessibili ai non malati, dove i volti e le identità si disperdono dietro le mascherine, e il Sé si fa quanto mai vulnerabile.

Il paradosso è che, ad una grande attenzione verso il Sé somatico, fa da contraltare la mortificazione di quello relazionale; nel tentativo di difendere la dimensione biologica del corpo è questo stesso a venir disconosciuto nelle sue connotazioni naturali, nelle sue necessità imprescindibili: la componente somatica viene protetta e tuttavia “sconfessata”, in una sorta di negazione psicotica che mentre afferma una realtà ne disconosce l’esistenza (Freud, 1927).

Il corpo non è più mezzo di incontro e  condivisione, ma è per Sé soltanto. È un mezzo di isolamento, con il quale abbiamo persino paura di relazionarci, perché può rivelarsi fonte di pericolo. Può comunicare la presenza del contagio. Può spingerci a ricordare che quello stesso corpo che non possiamo utilizzare per raggiungere l’altro rischia di allontanare anche dal Sé, rendendolo ostaggio di una dimensione fantasmatica in cui la realtà prende la sembianze di un percetto allucinatorio.

Possibili rischi e auspicabili resilienze

Certe situazioni di stanno normalizzando: condotte che da mesi ripetiamo ricorsivamente stanno diventando un’abitudine, una prassi che ha saturato ogni nostra risorsa percettiva e cognitiva, diventando il solo elemento discriminante. Il rischio è che tutto ciò finisca col tramutarsi in un rifugio autistico in cui le emozioni vengono negate, frenate e infine ibernate, e costruisca intorno a noi una capsula protettiva che serva ad isolare, più che a proteggere. A scarnificare la corporeità delle relazioni più che ad evitare il rischio di un contagio, dissolvendo il valore esplorativo e affettivo del corpo, a creare una irrimediabile non comunicabilità tra Sé somatico e Sé relazionale.

Circostanze d’emergenza -ab origine definite provvisorie- rischiano di impattare in maniera duratura con tradizioni culturali consolidate, lasciando una traccia indelebile. Eppure la voglia di tornare a quella normalità, che oggi appare straordinaria, è grande e crescente.

Nell’attesa ci stiamo affidando al pensiero creativo: a quella capacità di divergere dalla contingenza attuale quel tanto necessario a smussarne gli angoli, a stemperarne le asperità e i limiti. Come spesso avviene in situazioni di estrema privazione di uno stimolo, quello stimolo stesso torna a manifestare con cogenza la propria necessità espressiva. È dunque possibile che la pandemia il virus ci abbia insegnato l’importanza della vicinanza reciproca, forse prima ignorata o misconosciuta nel suo effettivo valore.

La necessità di incontrare l’altro ha potenziato altri canali di contatto, grazie ai quali è stato possibile creare una vicinanza fantasticata, che anche senza il supporto dello stimolo tattile regala il calore salvifico della vicinanza. Abbiamo cercato di dar vita ad un pensiero flessibile e resiliente, ponendolo come una sorta di compromesso tra il prima e il dopo, uno spartiacque con cui stemperare questa inattesa dicotomia tra sicurezza e contatto, tra relazione con l’altro e salvaguardia del Sé.

Le soluzioni suppletive hanno tamponato, più o meno adeguatamente, inattese emergenze di indubbio impatto socio-emotivo.

Ma per non rendere questa lontananza dall’altro un’autentica prigionia interiore gli obiettivi da perseguire sono ancora tanti. In primo luogo quello di combattere le emozioni parassite, che vivono a spese delle nostre risorse positive compromettendone la produttività. E dunque guardare in avanti e non perdersi d’animo, dando spazio a speranze realistiche, a dolori mai troppo distruttivi, a distanze non definitive, ad ipotesi di ripresa flessibili e ostinate.

Credere che questa stasi di intenti e attività non sarà definitiva, ma reputarla un periodo di attesa per tempi più costruttivi, un momento di proficua riflessione da dedicare alla costruzione di progetti futuri, non soltanto lavorativi, ma anche esistenziali. Vivere il tempo di crisi come possibile tempo trasformativo, capace di modificare l’attuale in vista del futuro, creando nuovi significati e valori, mobilitando risorse cognitive e relazionali in grado di renderci qualcosa di nuovo e possibilmente migliore. Accettare il presente in ogni sua forma, e saperne cogliere quella componente di attesa che lo rende vivo, malgrado l’immobilità apparente.

Ma soprattutto non cedere al dispotismo dell’isolamento: raggiungere l’altro nonostante gli spazi di sicurezza è la sfida di questo tempo. Trovare canali di contatto ulteriori, in grado di creare legami e reti di relazioni con modalità prima impensabili. Per colmare la distanza può bastare uno sguardo, un sorriso, talvolta il calore di una voce amica. È il solo abbraccio di cui possiamo giovarci in questo momento, ma abbiamo il diritto e il dovere di non farne a meno.

Affinché l’isolamento emergenziale non si tramuti in una spinta motivazionale da assecondare anche dopo la pandemia, e stare distanti non implichi anche l’allontanarsi l’uno dall’altro. Affinché il senso di protezione dalla malattia non divenga un’esigenza parossistica di difesa del corpo, e dunque della materialità, volta a sopravvalutare una dimensione in cui la sopravvivenza fisica è la priorità saliente, da proteggere a spese di un mutismo relazionale in grado di mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza psichica.

 

Humor e pensiero laterale (2021) di Filippo Losito – Recensione

L’umorismo, per l’autore di Humor e pensiero laterale, è un «atto creativo, che collega fra loro le idee in modo originale». 

 

In letteratura sono ormai numerosi i contributi che attestano la funzione dell’umorismo per il miglioramento del benessere. Ridere è un’attività universale che muta la biochimica del nostro cervello. Alla base dell’umorismo c’è l’esperienza personale e il modo con cui guardiamo a noi stessi, al mondo, agli altri e grazie a esso, come sostiene l’autore, possiamo imparare a gestire le relazioni, rialzarci dai fallimenti, migliorare la qualità dei rapporti sociali. Losito, nei nove capitoli del volume Humor e pensiero laterale, esamina i processi mentali che stimolano la creatività e ci inoltrano, come sostiene il sociologo Schutz in un’enclave transitoria in grado di provocare choc emotivo.

Il libro analizza dettagliatamente i processi che portano alla creatività, alla fluidità cognitiva, al lateral thinking, ai pensieri e alle azioni in grado di scardinare gli schemi della logica, alle provocative operations. Il testo è ricco di esempi e di esercizi utili a imparare le tecniche descritte che hanno l’obiettivo di ristrutturare e rielaborare intuitivamente le informazioni per sfuggire ai rigidi modelli stabiliti dall’esperienza e costruire nuovi scenari, modelli inusuali e alternative agli schemi logici.

L’umorismo, per l’autore, è un «atto creativo, che collega fra loro le idee in modo originale». A differenza del problem solving il pensiero laterale non cerca la soluzione ma le possibilità; la sua funzione è quella di aprire tracce inedite, individuare percorsi e soluzioni non considerate.

Un capitolo specifico è dedicato alle teorie dell’umorismo. Sono illustrate le teorie dell’incongruenza (relativa alla giustapposizione di elementi incongrui); la teoria freudiana del sollievo (riguardante il rilascio di energie accumulate); lo slittamento cognitivo (un’aspettativa tradita sposta l’attenzione e modifica l’oggetto dell’interpretazione iniziale); la teoria evoluzionistica (tutte le tipologie di risata si sono sviluppate a partire da un comportamento primitivo: il grido di vittoria in un arcaico combattimento); la teoria della norma sovvertita (la comicità fa leva su due elementi per ribaltare il sistema di valori: l’overstatement e l’understatement).

In conformità a queste teorie, sono poi illustrati una serie di processi alla base dell’umorismo: il meccanismo del cliffhanger, l’atto di sospendere la narrazione nel momento di massima tensione; lo switchover, generato da un pattern di partenza costituito da un’aspettativa, una scatola che nasconde e un pattern di chiusura sorprendente che rappresenta la soluzione alternativa che permette di uscire dalla scatola. E ancora, è descritto il meccanismo relativo allo scarto tra la serietà del setup e lo svelamento comico sorprendente che genera la risata; la neotenia, dovuta alla connessione tra l’umorismo e il gioco del «far finta che»; la percezione cognitiva di un’incongruità; il meccanismo delle due logiche, coerenti nella loro integrità, che si rivelano inconciliabili tra loro; le finzioni dello storytelling; il sovvertimento di un ordine; l’inversione di senso; l’insight legato al pensiero che Khanemann definisce pensiero 1, intuitivo, non consapevole; la defamiliarizzazione dell’ordinario.

Tutti questi meccanismi che producono umorismo sono descritti con esempi che rendono la lettura del libro piacevole e divertente.

Disturbo bipolare e disturbo borderline di personalità: diagnosi differenziale e implementazione di nuovi strumenti di screening

La diagnosi differenziale tra disturbo bipolare (DB) e disturbo borderline di personalità (DBP) è sempre stata oggetto di diatribe e controversie per clinici e ricercatori, considerata la fenomenologia a tratti sovrapponibile dei rispettivi quadri clinici (Bolton & Gunderson, 1996; Paris, 2004; Paris & Zweig-Frank, 2001).

 

I domini sintomatologici comuni sono: impulsività marcata, labilità timica e instabilità affettiva (IA); tale sovrapposizione ha costantemente generato un dibattito sulla concettualizzazione dei due disturbi: quella spettrale che pone la relativa sintomatologia lungo un continuum indistinto e quella che mantiene le due categorie diagnostiche separate (Kernberg & Yeomans, 2013; Siever & Davis, 1991; Zimmerman & Morgan, 2013). Uno studio relativamente recente ha mostrato anche una sovrapposizione genetica tra i due disturbi, nonostante ciò questo tema costituisce tuttora una frontiera clinica che necessita ulteriori approfondimenti ed esplorazioni (Witt et al., 2017).

I dati epidemiologici riportano una comorbilità tra DB e DBP di circa il 15% (Zimmerman & Morgan, 2013): quando sono presenti quadri comorbidici è stata riscontrata una esacerbazione della sintomatologia, che presenta notevoli acuzie in termini di frequenza degli episodi di impulsività, instabilità affettiva e ideazione suicidaria (Riemann et al., 2017). Nonostante i notevoli tassi di co-occorrenza, un risultato chiave emerso da studi longitudinali riporta che la comorbilità con il disturbo bipolare comporta un impatto minimo sul decorso del disturbo borderline di personalità (Frias, Baltasar & Birmaher, 2016); mentre, al contrario, il DBP ha un impatto modesto sul decorso del DB (Gunderson et al., 2006, 2011). Questi dati suggeriscono, dunque, che anche quando si presentano quadri di comorbilità ciascun disturbo necessita un trattamento specifico; motivo per cui in ambito clinico un’accurata diagnosi differenziale tra DB e DBP è essenziale, considerato l’impatto della diagnosi sull’esito del trattamento (Palmer et al., 2021). Le linee guida per il trattamento suggeriscono per il disturbo bipolare una terapia farmacologica primaria (stabilizzatori dell’umore) combinata a una psicoterapia (secondaria), mentre per il disturbo borderline di personalità la psicoterapia è indicata come trattamento d’elezione e conseguentemente la farmacologia risulta un eventuale coadiuvante secondario; infatti il trattamento a base di litio ha dimostrato un’efficacia inequivocabile per il DB, mentre non è ancora chiaro il suo potenziale ruolo nel DBP (Bellino et al., 2011; Ghaemi et al., 2014).

Di seguito viene presentato un confronto dettagliato di analogie e differenze tra i due quadri sintomatologici:

  • 1) l’instabilità affettiva è condivisa da entrambi i disturbi, ma il passaggio dalla rabbia alla eutimia è maggiormente associato al DBP, mentre quello dall’eutimia alla depressione è associato al DB (Reich et al., 2012);
  • 2) l’impulsività, misurata attraverso la Barratt Impulsiveness Scale (BIS; Patton et al., 1995), è risultata maggiore nel DBP rispetto al DB (Henry et al., 2001; Wilson et al., 2007);
  • 3) gli stati di deflessione timica nel DBP sono spesso caratterizzati da una sensazione di vuoto, rispetto alla diminuzione dell’autocritica e dell’autostima nel DB (Bayes et al., 2014; Meares et al., 2011);
  • 4) gli sbalzi d’umore tendono a essere più spontanei nel DB, mentre nel DBP tendono a essere più reattivi e innescati da un evento interpersonale critico, come abbandono e rifiuto (Kernberg & Yeomans, 2013);
  • 5) nel DB gli episodi psicotici prevedono una durata maggiore, ma raramente si estendono oltre diversi mesi, mentre nel DBP possono essere presenti sintomi dissociativi e paranoici transitori e reattivi a fattori stressogeni (Adams & Sanders, 2011).

Considerata la notevole labilità tra i due confini diagnostici, l’implementazione di strumenti di screening innovativi si configura come una chiave di svolta ai fini della prognosi e del trattamento.

Verranno di seguito illustrati due reattivi psicometrici utilizzati per effettuare la diagnosi differenziale tra DB e DBP: il Mood Disorder Questionnaire (MDQ; Hirschfeld et al., 2000) e il McLean Screening Instrument for Borderline Personality Disorder (MSI; Zanarini et al., 2003). Sono entrambi questionari di screening auto-somministrati, su risposta dicotomica e con buone proprietà psicometriche (Carvalho et al., 2015; Zimmerman, 2021). Dalla somministrazione di tali strumenti, su popolazione clinica con DBP e DB, sono emersi risultati clinicamente significativi:

  • il MDQ ha dimostrato che l’umore elevato, la grandiosità e l’iperattività sono predittivi dell’esordio di DB e dell’assenza di DBP
  • il MSI ha mostrato che gli agiti autolesivi e l’ideazione suicidaria possono predire l’esordio di DBP e l’assenza di DB.

Si tratta, dunque, di due strumenti potenzialmente utili e mirati ai fini dello screening tra DB e DBP (Palmer et al., 2021). Per quanto dalla letteratura recente sul tema siano emersi dati incoraggianti, lo stato dell’arte sulla diagnosi differenziale tra disturbo borderline e disturbo bipolare di personalità si colloca ancora a uno stadio preliminare, con l’auspicabile obiettivo di implementare tecniche e strumenti sempre più specifici, a fini dell’inquadramento diagnostico e del trattamento più adeguato.

 

Sindrome da Alienazione Genitoriale: combattere le strumentalizzazioni delle relazioni genitori-figli – Comunicato Stampa

Comunicato stampa

L’Ordine degli Psicologi della Lombardia interviene nel dibattito sulla PAS (Sindrome da Alienazione Genitoriale) e richiama l’esigenza di proteggere i minori dagli effetti della conflittualità tra i genitori

 

 I minori vanno protetti dagli effetti che una esasperata conflittualità tra genitori separati può produrre su di essi. Il dibattito in corso sulla sindrome da alienazione genitoriale o parentale (PAS), alimentato anche da alcune forzature mediatiche, rischia di generare strumentalizzazioni del  rapporto genitori-figli, a scapito delle nuove generazioni.

Per questo, l’Ordine degli Psicologi della Lombardia intende portare il suo punto di vista. Nei giorni scorsi un’ordinanza della Corte di Cassazione cita il

controverso fondamento scientifico della sindrome PAS cui le CTU hanno fatto riferimento senza alcuna riflessione sulle critiche emerse nella comunità scientifica circa l’effettiva sussumibilità della predetta sindrome nell’ambito delle patologie cliniche. 

La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (PAS, Parental  Alienation Syndrome) è una controversa dinamica psicologica disfunzionale che, secondo le teorie del medico statunitense Richard Gardner, si attiverebbe sui figli minori coinvolti tanto in contesti  di separazione e divorzio dei genitori, definiti conflittuali, quanto in contesti di presunta violenza intrafamiliare. La PAS è oggetto di dibattito ed esame ― sia in ambito scientifico sia giuridico ― fin dal momento della sua proposizione nel 1985; essa non è, infatti, riconosciuta come un disturbo mentale dalla maggioranza della comunità scientifica e legale internazionale, fatta eccezione per alcune sentenze del 2010 e del 2011 pronunciate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.

L’Ordine degli Psicologi della Lombardia, proprio per contribuire in un’ottica costruttiva al dibattito pubblico in corso sul tema della PAS, ritiene utile sottolineare che – indipendentemente dallo statuto scientifico di tale sindrome – i tentativi di strumentalizzazione della relazione con uno o più minori da parte di un genitore a danno dell’altro rappresentano purtroppo un’esperienza professionale riscontrata sia dagli psicologi forensi, specialmente nei procedimenti di affido caratterizzati da alta conflittualità, sia dai colleghi che si occupano di clinica e psicoterapia.

Da anni infatti ci si occupa della conflittualità genitoriale post separazione arrivando ad identificare situazioni molto specifiche e diffuse di grave conflittualità.

In queste situazioni i genitori, al termine del progetto familiare, iniziano una battaglia che coinvolge tutto e tutti: i ricordi, gli oggetti, i beni delle famiglie di origine, le relazioni amicali e certamente anche i figli.

In questi casi i figli rappresentano in parte il progetto familiare fallito e vengono utilizzati per ferire o “vincere” l’ex-partner. La contesa relazionale diventa aperta e incurante degli effetti collaterali possibili o manifesti anche al più comune buon senso.

 L’Ordine degli Psicologi della Lombardia, infine, non intende in alcun modo entrare nel dibattito sull’eventuale esistenza, scientificità e definizione della cosiddetta PAS (Parental Alienation Syndrome) – operazione questa che spetta alla comunità scientifica internazionale – ma intende sottolineare che l’esito di tale dibattito non dovrebbe in alcun modo essere utilizzato nel tentativo di negare l’esistenza di situazioni gravemente pregiudizievoli dello sviluppo psichico e relazionale dei minori coinvolti in procedimenti di separazione e/o affido.

L’OPL intende contribuire a mantenere l’attenzione del pubblico sul delicato e complesso lavoro necessario a costruire il più alto grado di benessere per i minori e le loro famiglie in ogni fase del  loro ciclo di vita, dunque anche nei procedimenti di separazione e di affidamento

ha dichiarato Laura Parolin, presidente OPL.

Nelle separazioni altamente conflittuali è imprescindibile una valutazione attenta e imparziale degli equilibri relazionali tra i membri della famiglia – in primis per accertare l’assenza di qualunque forma di violenza, maltrattamento o abuso intrafamiliare – e conseguentemente per fornire al giudice un quadro utile all’assunzione di provvedimenti promossi da una buona comprensione del funzionamento di quel sistema familiare specifico. Polarizzare il dibattito pubblico attorno alla “PAS” rischia di mettere in secondo piano la questione più importante: la resistenza o il rifiuto di un minore a incontrare uno dei genitori è un grave indizio di disagio relazionale e un fattore di rischio evolutivo la cui comprensione deve essere al centro di ogni intervento clinico, sociale e giuridico

ha aggiunto Davide Baventore, vicepresidente OPL.

Psicodinamica e letteratura: Rosso Malpelo (1880) di Giovanni Verga

Rosso Malpelo tratta la storia di un ragazzo destinato a lavorare nelle cave, dove si sporca di terra e di polvere, ingoiate insieme alla tristezza, alla rabbia e al pane secco che addenta, proprio come una bestia, durante le poche interruzioni dal lavoro. 

 

Scrivendo di Rosso Malpelo il Verga deve aver pensato ad uno di quei figli di nessuno che popolavano le cave di rena rossa della Sicilia, lavorando dalla mattina alla sera per guadagnarsi un tozzo di pane. E così vuole presentarlo ai lettori, forse peggiore di quello che era in realtà: sporco, violento e riottoso, cattivo persino nell’aspetto, con quel suo sguardo maligno, gli occhiacci biechi sotto la smorfia delle labbra tese in un ghigno balordo. Ma l’intenzione è ben diversa: più che deprecare il Malpelo e i suoi capelli rossi, Verga vuole denunciare la condizione di estremo disagio, che oggi definiremmo di sfruttamento, riservata ai giovani siciliani destinati al lavoro nelle cave. Vessati da condizioni di estrema povertà essi venivano costretti, spesso dagli stessi genitori, a sgobbare notte e giorno nelle miniere, dove imparavano a diventare grandi troppo presto, così come troppo presto apprendevano il dolore, la sofferenza, il senso amaro della vita.

Sono bambini strappati all’infanzia: gli “adulti d’emergenza”, di cui la Sicilia di fine ‘800 era tristemente colma.

È proprio il caso di Rosso Malpelo, destinato a lavorare anche lui nelle cave, dove si sporca di terra e di polvere, ingoiate insieme alla tristezza, alla rabbia e al pane secco che addenta, proprio come una bestia, durante le poche interruzioni dal lavoro.

Malpelo è uno di quei frutti maturati anzitempo e senza sole, se è vero che i bambini maltrattati possiedono una sofferenza che li porta a crescere prima degli altri (Ferenczi, 1929). Della vita ha conosciuto gli aspetti più duri: la fame, la sporcizia, la violenza e la solitudine. Ma soprattutto la crudezza del lavoro.

Tutti lo sfuggono e lo disprezzano. La sua stessa madre non lo può soffrire: lo considera un ragazzaccio ingrato, inutile e ladro, visto che lo accusa di rubare i pochi denari che riesce a guadagnare col lavoro.

Solo il padre gli vuol bene, ma muore presto, in quella maledetta cava dove lavora anche lui, sepolto da un grosso pilastro che cercava di estrarre nel tentativo di riportare più soldi a casa. Nonostante i disperati tentativi il ragazzo non riesce a salvarlo, e questo fallimento semina in lui un vissuto colpevolizzante persecutorio.

Malpelo si sente in colpa per aver lasciato morire l’unica persona che gli abbia mai dimostrato un po’ d’affetto, ma come al solito non riesce ad esternare questa profonda sofferenza. Il suo dolore, “agito” più che vissuto, è frutto di un’ analfabetizzazione emotiva, un deficit simbolico generato a sua volta da legami affettivi inattendibili, che lo hanno spinto a far fronte solo su stesso per superare problemi e difficoltà.

Nel mondo di questo ragazzaccio non c’è astrazione né pensiero. Ma soprattutto non esistono parole. Tutto è concretezza e azione: lo stesso dolore diventa un pugno, la lacrima si trasforma in un ghigno, l’angoscia si fa tracotanza, la voglia d’affetto finisce sepolta sotto una pala di rena, gettata giù nella cava dove il sole non sorge e non tramonta, e tutto è sempre uguale a se stesso.

I suoi lutti si tramutano così in voragini psichiche, vuoti incolmabili cui li Malpelo non avrà mai il coraggio di avvicinarsi, non del tutto e non come vorrebbe, nel terrore di venirne inghiottito.

Un “forte” amico dei deboli

Malpelo è un duro, uno che ha imparato a dare botte alla vita e a riceverne altrettante, senza lagnarsi, tanto alla fine è sempre il più forte che vince, e il debole deve rassegnarsi a subire in silenzio il dolore.

In un mare di sopraffazione e arroganza la forza-intesa come vigore fisico- gli appare l’unico mezzo di sopravvivenza.

Solo a sapersi difendere dai duri si riesce a sopravvivere

è solito dire. La violenza rappresenta un’esperienza appresa, uno stile di vita che si impara da piccoli e che si finisce con l’interiorizzare, consapevoli che si tratta dell’unica possibilità di restare a galla.

In questa concezione di forza prettamente fisica e prevaricatrice anche i sentimenti rivestono un ruolo inutile, se non dannoso, poiché impediscono il raggiungimento di ben più salienti obiettivi. Ma pur rifuggendo la debolezza e la vulnerabilità come fossero sciagure, Malpelo si imbatte in un autentico paradosso: gli unici soggetti con cui riesce ad in instaurare un seppur minimo legame sono proprio due deboli, figure di cui il Verga enfatizza la condizione di estrema inferiorità, rispetto alla gerarchia della cava e del mondo. Uno è un asino grigio, una povera bestia che trasporta pesanti sacchi di rena avanti e indietro per la cava, e l’altro è un compagno di lavoro piccolo e malaticcio, la cui andatura zoppicante gli è valsa il soprannome di Ranocchio. Due nullità cui Malpelo non risparmia un trattamento violento e livoroso, del quale si compiace persino: l’asino va picchiato perché non vale niente, e perché tanto non può picchiar lui, mentre Ranocchio deve imparare a difendersi in un vita in cui a vincere è sempre chi mena più forte, e il debole è destinato a soccombere.

È su questi deboli che il ragazzo può proiettare tutta la sua aggressività, la frustrazione, la rabbia abbandonica, e mentre scaglia contro di loro la violenza delle mani e del cuore riesce ad identificarsi con gli aggressori che prima hanno colpito lui, e si sente forte al loro pari. Picchiare gli restituisce un breve sollievo interiore, disegna una tregua nella vessazione di quell’oggetto abbandonico che ha perduto da piccolo- la madre- e che continua a cercare con pulsioni d’affetto e rivalsa (Bion, 1958). Al contempo queste vittime opportune costituiscono la rappresentazione concreta di quella debolezza che odia in se stesso e che cerca di punire evacuandola all’esterno, nel disperato tentativo di controllarla, e dunque di liberarsene.

Ma la violenza è anche il solo stile relazionale che gli sia mai stato insegnato, in famiglia e nella cava; così non è insensato credere che dietro tanta aggressività sia sotteso il tentativo di costruire una vicinanza affettiva, magari con quello stesso asino che tanto rimbrotta e con quel ragazzino malaticcio che non sa sostenere i pesi della cava come quelli della vita, e che deve imparare a difendersi prima che il mondo se lo inghiottisca.

Gli opposti di Malpelo: La “moralità immorale” e la forza vulnerabile

In apparenza Malpelo ci appare un ragazzaccio senza morale, uno di quelli che se ne va in giro a menar le mani contro i più deboli per sopraffarli ed appagare pulsioni narcisistiche frustrate. Lo si direbbe privo di un Super-Io, tanto si mostra lontano dall’ etica, dall’ empatia e dal rispetto per l’altro.

E tuttavia non si tratterebbe di un’affermazione veritiera, poiché è pur visibile in lui il residuo di una dimensione superegoica. Certo non si tratta del Super-Io moralizzante creatosi al termine di una triangolazione funzionale, non è certo l’erede di un’evoluzione edipica (Freud, 1905) ma è piuttosto il frutto di un oggetto persecutorio interiorizzato, che gli impone il sopruso quasi fosse un dovere. È il Super-Io crudele tipico della depressione introiettiva, nella quale l’Io, non sopportando la separazione dall’oggetto abbandonico, decide di introiettarlo per mantenere con esso una simbioticità avida e maligna che lo perseguita, svuotandolo di ogni risorsa (Spitz, 1945). Diventando una compagine indistinta con l’oggetto cattivo l’Io si rende cattivo a sua volta, e nel tentativo di dominare un vissuto carico di distruttività (Klein, 1935) si anima di una malvagità persecutoria che rivolge ora verso se stesso ora verso l’altro, svuotandosi di ogni potenzialità evolutiva.

Ma quello di Malpelo non è il vuoto emotivo tipico dei narcisisti; non è neppure la freddezza utilitaristica degli antisociali, né l’aggressività invidiosa dei paranoidi. È piuttosto l’operato di un Sé alieno e sabotante (Fonagy e Target, 2001; Gazzillo, 2012) che gli ricorda l’affetto di cui è stato privato e di cui va costantemente alla ricerca, pur illudendosi di non averne bisogno (Winnicott, 1970).

E dopo tanto dibattersi, alla fine questo ragazzaccio si arrende: rimasto solo al mondo dopo la morte del padre e degli unici amici che abbia mai avuto- Ranocchio è morto di una malattia buscata alla cava e l’asino ha ceduto sotto il giogo delle botte e della fame- decide di raccogliere l’ultima sfida che gli lancia il destino, e si avventura nel ventre tetro della caverna per esplorare una vecchia galleria che raggiunge un pozzo.

È un compito rischioso, che richiede di addentrarsi all’interno di cunicoli stretti e bui. E nessun cavatore accetta il pericolo. Perlomeno nessuno che ha famiglia, o che lascerebbe qualcuno a piangerlo, laddove morisse. Ma non è il caso di Malpelo: la sorella si è sposata, così come la madre, che ha un nuovo marito, ed entrambe si ricordano appena di lui. Può anzi immaginare il loro sollievo al pensiero di liberarsi di quel ragazzaccio dai capelli rossi che tira calci e ruba il pane, e non conclude nulla di buono. Nessuno piangerebbe la sua scomparsa, perché nessuno può amare chi non è mai esistito.

E Malpelo, che una sfida con la morte l’ha da sempre cercata, alla fine decide di darsi in pasto al proprio istinto di autodistruzione, urlando quel grido di disperazione che per troppo tempo gli è rimasto in gola, chiuso in un silenzio ringhioso: con i suoi attrezzi, un tozzo di pane e i calzoni sdruciti si avventura nel pancione della cava, profondo e minaccioso come il ventre materno che non ha mai conosciuto.

Egli ne ha paura, ma al contempo lo desidera profondamente, così come teme e desidera la madre. Quella miniera che lo nutre e lo affama, che gli dà vita mentre lo uccide, è alla fine la simbolizzazione del seno buono e del seno cattivo, quell’oggetto materno -ora presente ora abbandonico- da cui Malpelo si lascia distruggere (Klein, 1928). Forse nel tentativo di abbracciarlo.

Una storia senza lieto fine: il vuoto psicotico e la disgregazione del Sé

Malpelo non è riuscito a superare il dolore per la perdita dell’oggetto primario, e a questo stesso oggetto è rimasto inconsapevolmente legato, in un rapporto maligno e captativo da cui si è lasciato sabotare, dando vita ad un’aggressività dai connotati psicotici che finisce col sopraffarlo (Freud, 1917; Gazzillo, 2012).

La sconfitta di questo vinto è anche la disfatta del suo tempo; è il grido letterario che Verga concede ad una realtà sotterranea e sepolta che portare alla luce è doloroso, per certi aspetti inutile, e che quindi si preferisce ignorare, rimuovere o negare, proprio come si fa con un trauma.

I protagonisti di questa storia non sono dei veri personaggi. Nessuno riconosce loro un’identità, perché non si meritano neppure quella, laggiù nel buio della cava dove tutto si confonde con tutto e il niente regna sovrano. Così, se persino l’asino è grigio come il colore del vuoto e del nulla, il vero nome di Malpelo non se lo ricorda più nessuno. Neppure la sua stessa madre che glielo ha imposto, e che preferisce chiamarlo, anche lei, con quell’appellativo tanto bieco e dispregiativo.

Sembra un’esposizione cronachistica, nuda e senza cuore. Ma la storia di questo aggressore impotente che a modo suo vince la battaglia contro la solitudine e il dolore lascia un po’ di amaro in bocca. Il suo è un pessimismo cosmico: non c’è speranza di redenzione perché non c’è bontà nel cuore degli uomini, ma solo intento di reciproca sopraffazione.

Se non picchi vieni picchiato, il debole è destinato a soccombere, vince chi picchia più forte.

Per lui gli uomini sono uguali alla terra, traditori pronti a schiacciarti quando meno te lo aspetti.

Può sembrare un pensiero paranoide, quasi delirante, un’invettiva contro il genere umano in toto. Ma dietro questa convinzione si nasconde la muta speranza di imbattersi prima o poi in una smentita; qualcosa in grado di dimostrargli che merita qualcosa di diverso dalla polvere della cava, che gli affetti esistono e che anche lui è degno di riceverli.

Lo attenderà l’ennesima delusione, perché Malpelo non troverà mai l’amore. La sua storia finisce inghiottita dal ventre senza luce di una grotta, posta a metafora di una dimensione psichica inesplorata, fatta di oggetti scissi, spezzati, frammenti mnestici e  vuoti affettivi (Klein, 1928; 1935), in cui la realtà perde ogni valore oggettivo e l’imperante dominio della scissione provoca la polarizzazione degli estremi, la dicotomia inesplorabile degli opposti.

Lo scenario evocativo della lotta tra Eros e Tanatos costituisce il filo conduttore di tutta l’esistenza del ragazzo, ponendosi a vessillo della lotta infinita che gli si agita nel petto: quella tra il rosso dei suoi capelli e il buio della caverna, tra la luce della passione e il nero dell’inerzia, e dunque tra vita e morte, due dimensioni che, non potendo conciliare in un tutto sintetico e armonioso, Malpelo scinde sincreticamente nel disperato tentativo di salvarsi dal pericolo che percepisce in entrambi.

La sua stessa scomparsa nella caverna appare il sofferto compromesso tra l’angoscia di fusione e di separazione verso quegli affetti che per tutta la vita ha rifuggito, pur andandone disperatamente alla ricerca.

Non sappiamo neppure cosa abbia trovato al termine del suo viaggio, né se lo abbia mai concluso davvero. La novella non lo racconta, né l’autore fa menzione della sua morte, limitandosi piuttosto a lasciarla intuire, nemmeno fosse una verità troppo paurosa da pronunciare.

Ciò che alla fine ci resta di lui sono i suoi capelli rossi e quegli occhiacci grigi che i lavoratori della cava, pur tanto tempo dopo la sua scomparsa, hanno ancora paura di incontrare, esattamente come si teme di imbattersi in un fantasma, in un’angoscia senza nome, in un pensiero mortifero che di tanto in tanto attraversa la mente, rendendola ora onnipotente, ora vulnerabile.

La verità è che Malpelo non può morire perché non è mai vissuto. Questo antieroe dai capelli rossi è piuttosto un’angoscia rabbiosa costruita su abbracci negati, su speranze fallite, su sogni traditi. È un’esistenza al margine che, prigioniera di un dolore grezzo e troppo ruvido per le parole, trova in un silenzio psicotico l’unica redenzione possibile. E per sempre lascia il dubbio di come avrebbe potuto essere, se così non fosse stato.

Freud aveva ragione? Le Neuroscienze alla ricerca dell’origine e significato del sogno

L’interpretazione dei sogni ha una storia millenaria, ce ne parla già Artemidoro di Daldi nel II secolo dopo Cristo come di una pratica antica di secoli (Prada, 2015).

 

Il padre della psicoanalisi però fu il primo, o comunque tra i primi, a considerare scientificamente il sogno come un’attività originale della nostra mente e non un’infusione divina, un messaggio di una qualche entità superiore.

Tutti noi, almeno una volta abbiamo sognato, o più correttamente: abbiamo ricordato il sogno che abbiamo fatto. È infatti ormai condiviso da tutta la comunità scientifica che mentre dormiamo, prevalentemente nelle fasi REM (Rapid Eyes Movement), il nostro cervello svolge, fra le varie attività, anche quella onirica. C’è da precisare che la frequenza del richiamo dei sogni, ossia del loro ricordo, diminuisce rapidamente a mano a mano che i risvegli sono ritardati oltre la fine di un periodo REM (Goodenough et al., 1965; Wolpert &  Trosman, 1958).

Abbiamo detto che il sogno avviene prevalentemente nelle fasi REM poiché risultati di laboratorio (ad esempio: Dement, 1990; Dement & Kleitman, 1957) dimostrano che l’80-90% dei soggetti risvegliati durante periodi REM di sonno ha riportato memorie di sogno. Tuttavia altri studi hanno trovato ricordi di sogno anche nelle prime tre fasi del processo del sonno, in fasi Non REM. Da ciò si può desumere che “il sogno si verifica quindi [anche] in assenza di REM” (Foulkes & Vogel, 1965 p. 239 cit. in Domhoff & Fox, 2015 p. 353). Vale la pena ricordare poi che è tuttora aperto il dibattito sulle eventuali differenze qualitative del sogno durante i periodi REM rispetto a quelli in periodi NonREM (Hobson, 2000).

Ma che cos’è un sogno?

Diciamo subito che non c’è consenso in letteratura sulla definizione di sogno. A volte il sognare è stato considerato un’attività mentale che produce, durante il sonno, pensieri o immagini isolate oppure esperienze più articolate, vere e proprie storie, che vengono richiamate al risveglio (Domhoff & Fox, 2015).

Foulkes (1985), definisce il sogno sempre un’attività mentale, specifica che è involontaria ma organizzata e che genera simulazioni credibili del mondo reale; mi permetto di dissentire soltanto sul termine “credibili” in quanto è esperienza di ciascuno di noi quanto i sogni a volte abbiano dei passaggi, delle situazioni, completamente avulse dalla logica formale (razionale) e anzi abbiano caratteristiche di “impossibilità” e illogicità. Infatti, a seconda dei criteri di punteggio utilizzati è stato stimato che tra il 32% (Schredl, 2010) e il 71% (Stenstrom, 2006) dei sogni abbia contenuti di illogicità. A questo proposito è forse utile ricordare che alcuni ricercatori adottano il parametro della “bizzarria” (situazioni fisicamente impossibili o socialmente improbabili, luoghi e personaggi fantasiosi, grandi discontinuità di tempo e/o spazio e così via) per distinguere il sogno da altre esperienze mentali esperite durante l’insorgenza del sonno o immediatamente prima del risveglio oppure attività quali il cosiddetto “vagabondaggio mentale” (mind wandering), argomento su cui si tornerà oltre nel testo e che sarà oggetto di un successivo articolo.

La definizione di Foulkes (1985) tuttavia ci conduce a un’ulteriore considerazione fatta da studi più recenti: le immagini mentali prodotte nel sogno possono essere considerate “simulazioni incarnate” (Domhoff & Fox, 2015), concetto che, anche questo, verrà ripreso più avanti.

Al di là delle molteplici definizioni che sono state date nel tempo all’esperienza onirica, Nir e Tonioni (2010) considerano i sogni “un interessante e unico esperimento in psicologia e neuroscienze, condotto ogni notte da qualsiasi persona che dorme” (Nir & Tonioni, 2010, p. 20).

Gli autori qui focalizzano l’attenzione sulla “capacità del cervello [loro si riferiscono espressamente a quello umano, ma chiunque conviva con un cane potrà probabilmente dissentire da tale limitazione di specie], scollegato dall’ambiente, di generare da solo un intero mondo di esperienze coscienti” (Nir & Tonioni, 2010, ibidem p. 20).

Per concludere questo necessariamente rapido excursus sulle varie definizioni di sogno occorre ricordare che esso è stato talvolta considerato un tipo di allucinazione, nell’accezione di percezione senza oggetto. In questo caso, osservano Domhoff & Fox. (2015), la definizione porta all’idea che il sogno sia una forma di psicosi, così come affermato dallo psichiatra J. Allan Hobson: “[sognare è] uno stato psicotico come abbiamo mai provato mentre siamo svegli” (2002, p. 99).

Allo stesso modo, i teorici freudiani Mark Solms e Oliver Turnbull (2002, p. 213) sostengono che “l’anatomia funzionale del sogno è quasi identica a quella della psicosi schizofrenica”, che è caratterizzata da frequenti attività allucinatorie.

Ma la posizione di questi ultimi due autori appare non condivisibile, se non in minima parte, soprattutto alla luce degli studi del neurologo Oliver Sacks (2013, pp. xiii, 26-27, 80, 209, 214), al quale si rimanda per una specifica trattazione, e che, in estrema sintesi, sottolinea come le allucinazioni di soggetti psichiatrici sono molto spesso udibili, con figure persecutorie che irrompono e bloccano i loro pensieri e frequentemente  impartiscono ordini; aspetti e caratteristiche ben diverse dalle simulazioni incarnate dell’esperienza onirica che include spesso personaggi coinvolti in attività e interazioni di vita ed esperienza quotidiana del soggetto che sta sognando.

Qual è il substrato e il correlato neurale del sogno?

Esiste una vasta ricerca scientifica che attraverso diverse strumentazioni quali protocolli elettroencefalografici (EEG) e polisonnografici (PSG), registrazioni video-PSG con risvegli provocati, neuroimaging funzionale, come la tomografia a emissione di positroni (PET), la risonanza magnetica funzionale (fMRI); la stimolazione magnetica transcranica, ha studiato le basi neurali del sogno, sia in soggetti sani (tra i molti: Takeuchi, et al., 2003; Esposito, et al., 2004; Chellappa, et al., 2011; De Gennaro, et al., 2011; Scarpelli, et al., 2017;  Zhang & Wamsley, 2019;  Siclari, et al., 2017) o campioni clinici (De Gennaro, et al.,  2016; D’Atri, et al.,  2019).

Nel complesso questi lavori, seppur con alcune differenze che in questa sede non possono essere affrontate, suggeriscono che prevalentemente ci sono due reti corticali impegnate nei processi onirici: un sistema posteriore e uno anteriore. Più in dettaglio, questi due sistemi riguardano: le aree parieto-occipitali (Siclari, et al., 2017), le aree temporo-parietali (Scarpelli, et al., 2017), la corteccia prefrontale ventromediale (mPFC), in particolare quella sinistra (Scarpelli, et al., 2017 ibidem), il lobo temporale mediale, la giunzione lobulare/temporo-parietale inferiore bilaterale, la corteccia cingolata posteriore (Domhoff & Fox, 2015) e anche la giunzione temporo-parietale (TPJ) (Scarpelli, et al., 2021). Quest’ultima struttura sappiamo essere responsabile delle immagini visive durante lo stato di veglia ma, come ha potuto verificare Solms (2000), una lesione bilaterale anteriore di questa provoca la cessazione del sogno, e la cosiddetta “anoneria” ossia l’incapacità di ricordare il sogno (Scarpelli, et al., 2021).

Altri studi hanno evidenziato che il processo onirico coinvolge anche una rete subcorticale: le strutture limbiche e paralimbiche, il talamo, il proencefalo basale e il tegmento pontino che sono significativamente attivati durante il sonno REM (Braun, et al., 1997; Maquet, et al., 1996; Nofzinger, et al., 1997).

Inoltre, come messo in luce dal lavoro Domhoff e Fox (2015), durante il sogno il nostro cervello attiva un insieme di strutture collegate che è sostanzialmente sovrapponibile con la rete neurale DMN (Default Mode Network) attiva durante il vagabondaggio mentale in stato di veglia (Fox,  2013,  pp. 6,  11-12).

Sogno come simulazione incarnata

L’ipotesi/definizione che le immagini mentali prodotte nel sogno possano essere considerate simulazioni incarnate, ossia incorporazioni di stimoli (vedremo più avanti se “soltanto” interni, “soltanto” esterni o di entrambe le modalità), è sostenuta da molteplici studi basati su prove sperimentali. Questi hanno rivelato che le aree cerebrali implicate nell’elaborazione visiva e sensorimotoria durante la veglia, vengono attivate anche quando, durante il sogno, si producono immagini o si vivono esperienze di movimento, in questo caso quindi in assenza di input percettivi esterni.

Inoltre, le immagini coinvolte nell’esperienza onirica sono soggettivamente sentite (vissute) dall’organismo nella sua interezza, e maggiormente dalle strutture neurali preposte, come esperienze concrete (ad esempio, Bergen, 2012, pp. 13-17; Gibbs, 2006, pp. 27 – 28; Niedenthal,  et al.,  2009).

A conferma della fondatezza di tale ipotesi Voss, Holzmann, Hobson et al. (2014) hanno indagato la possibilità di influire sui sogni attraverso stimoli esterni.

Incorporazione di stimoli esterni nel sogno

Una parte della ricerca psicologica sull’attività onirica si è rivolta all’incorporazione di stimoli esterni nel sogno non soltanto per verificare, come si è accennato, la fondatezza dell’ipotesi/definizione del sogno come “simulazioni incarnata” ma ha anche cercato conferme alla “Ipotesi di continuità”. Questa ipotesi, proposta da Bell & Hall (1971), suggerisce che le preoccupazioni e le convinzioni personali presenti durante la veglia si riverberino, abbiano la loro continuità, nel sonno e quindi anche nel sogno. Da allora sono state apportate diverse reinterpretazioni e modifiche alla teoria originale; tuttavia tale ipotesi è stata sostanzialmente confermata dal relativamente recente lavoro di Domhoff (2017).

Uno dei primi tentativi di influenzare il sogno con stimoli esterni prima del sonno è stato prodotto da Dement e Wolpert (1958). Gli autori hanno privato i soggetti di liquidi un giorno prima di dormire e hanno ottenuto 5 sogni REM su 15, con contenuti correlati alla sete. Successivamente Goodenough, et al. (1975) hanno utilizzato film stressanti durante un periodo pre-sonno, dimostrando che lo stimolo visivo può aumentare i sogni caratterizzati da un tono emotivo negativo.

In effetti, molti ricercatori hanno concluso che i sogni riflettono la vita da svegli e hanno affermato che i contenuti dei sogni potrebbero rappresentare l’incorporazione dell’esperienza quotidiana. E in quest’ottica verrebbero interessate, come realmente lo sono, anche le strutture limbiche, in particolare l’ippocampo, così come dimostrato da Moroni, et al. (2007).

Ma allora il sogno è semplicemente il riflesso degli stimoli ricevuti?

Non proprio, anzi, ma le cose sono un po’ più complesse.

Massimini, et al. (2005), hanno usato la stimolazione magnetica transcranica insieme all’elettroencefalografia ad alta densità per studiare come l’attivazione di un’area corticale (nell’esperimento l’area premotoria) viene trasmessa al resto del cervello. Durante la veglia una risposta iniziale (circa 15 millisecondi) nel sito di stimolazione è stata seguita da una sequenza di onde che si sono spostate verso aree corticali collegate, a diversi centimetri di distanza. Durante il sonno con movimenti oculari non rapidi, specificatamente in fase NREM3, la risposta iniziale ha avuto un’intensità maggiore ma si è rapidamente estinta e non si è propagata oltre il sito di stimolazione. Quindi Massimini, et al. (2005) hanno concluso che durante in sonno NREM3 le aree cerebrali sono funzionalmente disconnesse tra loro, diversamente da ciò che accade durante la veglia e, come vedremo, durante gli episodi di sogno.

Dal lavoro di Siclari, et al. (2017) sappiamo che possiamo sognare sia in NREM1 che NREM2, sia in periodi REM; ma l’aspetto rilevante che ha messo in luce il loro studio è che durante il sogno in N1 e N2 abbiamo una desincronizzazione dell’attività neuronale (rilevata dai tracciati elettroencefalografici) nelle regioni parietali/posteriori del cervello così come durante il sogno in periodo REM, mentre di regola, per le altre strutture neurali non c’è una tale corrispondenza. Questa analisi quantitativa è stata calcolata per mezzo dell’algoritmo che calcola la trasformata di Fourier veloce.

In sintesi, per chiarezza: durante il sonno NonREM l’attività registrata dall’elettroencefalogramma, per le varie componenti coinvolte nell’attività neuronale, è (prevalentemente) sincronizzata in tutte le strutture encefaliche, sebbene, come abbiamo visto grazie al lavoro di Massimini e colleghi (2005), tali strutture in fase NREM3 siano funzionalmente disconnesse; mentre durante il sonno REM è (prevalentemente) desincronizzata in tutte le strutture encefaliche, così come lo è durante lo stato di veglia. Lo studio di Siclari, et al. (2017) ha invece appurato che durante il sogno: in periodi NREM1 o NREM2 l’attività neuronale (rilevata dai tracciati elettroencefalografici) nelle regioni parietali/posteriori del cervello (corteccia perietale/posteriore visiva) è desincronizzata; in periodo REM l’attività neuronale (sempre rilevata dai tracciati elettroencefalografici) nelle regioni parietali/posteriori del cervello (corteccia perietale/posteriore visiva) è ugualmente desincronizzata, con una intensità maggiore di desincronizzazione rispetto a momenti nei quali non si sogna e ad altre regioni encefaliche (Siclari et al.,  2017).

Per tentare di semplificare in maniera opportuna per questa sede possiamo dire che un tracciato elettroencefalografico sincronizzato dei neuroni di una particolare struttura rappresenta l’equivalente neurofisiologico di un’attività semplice in quella stessa struttura; un tracciato elettroencefalografico desincronizzato dei neuroni di una particolare struttura rappresenta l’equivalente neurofisiologico di un’attività complessa in quella stessa struttura (Imeri & Mancia, 2006), “I risultati di questo esperimento ci riportano all’isomorfismo Mente-cervello, Psiche-struttura organica: “sogno” uguale desincronizzazione delle regioni cerebrali posteriori, “non sogno” uguale sincronizzazione delle regioni cerebrali posteriori” (cit. prof. Luca Imeri, Dip. Di Scienze della Salute – Università degli studi di Milano, lezione Neurofisiologia del sonno, del 21 marzo 2021).

Un’ulteriore e forse più chiara risposta alla nostra domanda ce la fornisce lo studio ormai storico di Hobson (1989).

Dove si originano i sogni

Hobson (1989) propose un’ipotesi/modello di attivazione del sogno in sonno REM, successivamente revisionato e dettagliato (Hobson et al., 2000), attraverso l’integrazione di dati neurofisiologici, neuropsicologici e di neuroimaging. Semplificando molto la trattazione e il complesso di interazioni fra le diverse strutture coinvolte, possiamo dire che per questi autori l’attivazione del sogno origina dai nuclei del Ponte, nel tronco encefalico, dove i neuroni che sono attorno al penduncolo cerebellare superiore proiettano (ossia trasmettono potenziali d’azione), a seconda dei tipo di stimoli (uditivi, olfattivi, sensomotori, etc), ai nuclei talamici intralaminari, ai gangli basali, ai nuclei talamici ventromediali e, per gli stimoli visivi, proiettano onde ponto-genico-occipitali (PGO) al corpo genicolato laterale (NGL) del talamo (struttura, l’NGL, che durante la veglia raccoglie l’informazione visiva direttamente dalla retina e le invia alla corteccia visiva primaria V1) e da qui alla corteccia parieto-occipitale, ossia le aree visive V3, V3a e V4 ma non V1, V5 o V6 (Solms, 1997). L’attenuazione dell’attività della corteccia visiva primaria è confermata anche da Braun et al., (1998). Possiamo quindi osservare che: a) gli imput alla corteccia visiva non provengono dalla retina, così come durante la veglia, e d’altronde sarebbe inutile, considerato che mentre si dorme si hanno le palpebre abbassate; b) le aree della corteccia visiva che vengono attivate sono quelle deputate all’elaborazione superiore (associative) delle immagini, aree di Brodmann 37 e 19 (Hobson et al., 2000).

Contemporaneamente all’attivazione di questa rete ascendente, prima gli studi di Braun et al. (1998) e poi quelli di Hobson, (2000), hanno trovato che durante il sonno REM sono inibite le afferenze sensoriali al livello del tronco encefalico.

Conclusioni

Tutti questi studi e altri che qui per brevità sono stati omessi, dimostrano l’assoluta specificità del sogno, un’attività organica che si origina da una ben definita struttura del cervello e coinvolge numerose sue aree per costruire una realtà personale costituita da contenuti, inconsci e/o variamente indotti (in questo caso successivamente rielaborati e filtrati attraverso la memoria di esperienze passate).

Il sogno è perciò, anche per l’indagine scientifica, una elaborazione personale, originale ed unica. Un elemento quindi, una produzione, del nostro essere nella sua interezza biopsicosociale, imprescidibile per conoscere e conoscersi. E come il sogno, medesimo valore e stessa attenzione merita anche il mind wandering, il “vagabondaggio mentale” o il sogno ad occhi aperti, in determinate e controllate situazioni. Ma di questo parleremo in un’altra occasione.

Naturalmente è d’obbligo ricordare che tutte le teorie/ipotesi/modelli fin qui riportati, si basano sull’osservazione e lo studio del cervello, un insieme di strutture connesse del nostro organismo, che Leonard E. White all’inizio di ogni sua lezione di Neuroanatomia alla Duke University definisce: “l’elemento più complesso che esista nell’universo conosciuto” e del quale, finora, conosciamo, secondo Helene Marie, una delle ricercatrici di punta dell’Ebri, l’European Brain Research Institute, forse soltanto il 20-25% (Marie, 2010) o ancor meno, intorno al 15%, secondo Aniello Iacomino, docente di Neuropsicologia all’università Guglielmo Marconi di Roma.

Tali teorie, inoltre, a differenti livelli, sono appunto teorie, e come tali, citando Popper (1963), attendono soltanto di essere confutate.

 

Esiste una correlazione tra il nevroticismo e il morbo di Parkinson?

Un recente studio dell’Università della Florida, realizzato in collaborazione con due istituti italiani del CNR, ha stabilito l’esistenza di una correlazione tra un aumento del rischio di sviluppare il morbo di Parkinson ed il tratto di personalità detto “nevroticismo”.

 

Il morbo di Parkinson appartiene al gruppo di patologie definite disturbi del movimento ed è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da disturbi motori progressivi, tremori a riposo e disturbi dell’equilibrio a cui si possono associare decadimento delle funzioni cognitive e sintomi ansiosodepressivi (Jacob E, Gatto N, Thompson A, Bordelon Y, Ritz B.2010). Si tratta di una sindrome extrapiramidale dovuta alla depauperazione di dopamina a livello di specifici neuroni che vanno incontro a degenerazione cellulare. Il Parkinson è presente in tutti i paesi del mondo, il suo esordio è generalmente intorno ai 60 anni, ma esistono anche casi giovanili con esordio tra i 20 ed i 40 anni.

L’incidenza nella popolazione generale è dell’1%-2% (Buchaman A.S., Leurgans S.E., Yu L. et al. 2016).

Le cause di questo morbo non sono del tutto conosciute, tuttavia si ritiene che possa essere considerato una patologia a genesi multifattoriale, al cui sviluppo concorrono fattori genetici ed ambientali (Bush K, Rannikmae K, Wilkinson T, Schnier C, Sudlow C,  Group UBOA.  2018).

Un recente studio multicentrico che ha coinvolto circa mezzo milione di persone, realizzato dall’Università della Florida in collaborazione con il CNR-IRIB di Cosenza e il CNR-IBFM di Milano, ha evidenziato l’esistenza di una correlazione tra l’aumento del rischio di sviluppare il morbo di Parkinson e la presenza del tratto di personalità definito “nevroticismo” (Terracciano A., Aschwanden D., yannick S. et al.  2021).

Esistono numerose teorie che propongono modelli in grado di spiegare la personalità e il suo sviluppo. Attualmente si ritiene che la teoria dei tratti sia quella che meglio illustra le differenze interindividuali di personalità (Sutin AR, Stephan Y, Luchetti M, Artese A, Oshio A, Terracciano A.2016).

Il termine “tratti” indica delle caratteristiche di personalità di origine genetica che influenzano il comportamento, le emozioni e i pensieri dell’individuo.

Il nevroticismo è uno delle cinque categorie utilizzate per descrivere la personalità, secondo la teoria dei “big five”, che rappresenta una classificazione sistematica dei tratti di personalità. Secondo questa teoria il nevroticismo spazia tra due punti opposti: da un lato, questo fattore corrisponde all’instabilità emotiva, dal lato opposto, alla sicurezza e stabilità emotiva.

Questo, e gli altri tratti di personalità, si acquisiscono fin dalla nascita e possono essere modificati nella loro espressione quantitativa nel corso della vita.

Il nevroticismo è stato collegato allo sviluppo di varie patologie quali la depressione, i disturbi d’ansia ed il morbo di Alzheimer. (Terracciano A, Sutin AR.2019)

I ricercatori dell’Università della Florida grazie ai dati raccolti dalla UK Bio-bank hanno potuto monitorare, per 12 anni, circa mezzo milione di individui di cui 1142 affetti da Parkinson. Lo studio longitudinale ha evidenziato che i soggetti con livelli elevati di “nevroticismo” manifestavano un rischio dell’80% in più, rispetto a chi possiede bassi livelli  di questo stesso tratto, di sviluppare il  morbo di Parkinson.

Questa ricerca ha permesso di rilevare che ansia e depressione non sono semplicemente legate allo sviluppo del morbo di Parkinson, ma che esiste una vulnerabilità emotiva, caratteristica del “nevroticismo”, che precede di anni la comparsa del Parkinson (Terracciano A., Aschwanden D., yannick S. et al.  2021).

Studi precedenti a quello pubblicato recentemente da Moviment Disorders hanno portato inizialmente a ritenere che la connessione tra “nevroticismo” e Parkinson fosse legata a un eccesso di attività dopaminergica con conseguente esaurimento dei neuroni che producono questo neurotrasmettitore (Sieurin J, Gustavsson P, Weibull CE, et al. 2016). Successivamente è stata avanzata l’ipotesi che, nei soggetti nevrotici, si realizzi una compromissione del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene responsabile della comparsa di stress ossidativo e susseguente danno cellulare a livello neuronale (Biondi M., Accini T., FojanesiM., Papadogiannis G. 2016 ; Carver C.S., Connor-Smith J. 2010).

 

Falsi abusi e conflittualità familiare

Da un punto di vista relazionale, il sospetto abuso, che sia esso confermato, presunto o “architettato”, tende sempre a recidere i legami, provocando conseguenze dannose tanto quanto un vero abuso. La convinzione che una cosa sia accaduta la rende psicologicamente reale e vissuta come tale.

 

 Sempre più spesso accade che l’accusa di abuso sessuale intrafamiliare emerga durante o subito dopo una separazione. Vittima ed unico testimone del fatto è il minore, che oltre ad essere risucchiato all’interno di un turbinio di situazioni a lui nuove, vede anche mutare la frequentazione tra il minore stesso e il presunto abusante (Cialdella M., 2018). Esiste sul tema degli abusi sessuali sui minori in casi di separazione conflittuale un’ipersensibilità evidente. All’interno di una così elevata attenzione finiscono spesso per nascondersi quei genitori che, resi ciechi dal conflitto relazionale, scatenano ogni arma a disposizione e inseriscono nel contenzioso della coppia in separazione ogni elemento che ai loro occhi possa essere dannoso per l’altro (Rosoni I., 2011).

Da un punto di vista relazionale, il sospetto abuso, che sia esso confermato, presunto o “architettato”, tende sempre a recidere i legami, provocando conseguenze dannose tanto quanto un vero abuso. La convinzione che una cosa sia accaduta la rende psicologicamente reale e vissuta come tale. Sono minori abusati se l’abuso sessuale c’è stato; ma non va dimenticato che sono comunque abusati se, nella convinzione che l’abuso ci sia stato, sono stati privati di una delle figure genitoriali (Cialdella M., 2018).

È necessario ricordare che le denunce possono essere anche le proiezioni e le attribuzioni fatte da uno dei due coniugi sull’altro, delle proprie fantasie o paure, in alcuni casi percepite come reali, in altri finalizzate a danneggiare ed allontanare l’altro (Montecchi F., 2016). In questi casi, infatti, il conflitto può essere alimentato dal bisogno di vendicarsi dell’altro, penalizzandolo come genitore, oppure da un’intenzionalità nel mantenere il legame nel tempo, seppur in una forma disfunzionale: in questo caso possiamo parlare di “legame disperante” (Cingoli V., Galimberti C., Mombelli M., 1988).

 All’interno di un sistema familiare così conflittuale può strutturarsi una tipologia di triade molto rigida, la coalizione. Essa viene definita come l’unione tra due persone a danno di un terzo. Uno dei genitori si allea con un figlio in una coalizione rigidamente definita e di tipo transgenerazionale contro l’altro genitore. L’unico o prevalente interesse comune tra i due membri coalizzati è il tentativo di produrre un danno ad un terzo (Minuchin S., 1976). Il minore coinvolto nelle coalizioni di questo tipo sperimenta forti conflitti di lealtà, dovuti alla sensazione di essere conteso e, secondo molti ricercatori, sarebbe proprio questa condizione a mediare l’effetto del conflitto sull’adattamento del minore stesso (Buchanan C.M., Maccoby E.E., Dornbusch S.M., 1996). Spesso il figlio accetta di allearsi con un genitore perché lo vede più potente o perché si sente rifiutato dall’altro, o ancora perché teme di essere abbandonato. Tali scelte comportano, sul piano psichico, costi molto elevati che si manifestano attraverso sensi di colpa o di abbandono per la perdita del genitore rifiutato, adultizzazione precoce, vissuti depressivi e difficoltà di svincolo durante l’adolescenza (Dell’Antonio A., 1993).

Inoltre, si può verificare anche una inversione di ruoli, per cui il figlio si assume il compito di consolare la madre, soprattutto se depressa. Tale ruolo costituisce un serio fattore di rischio per il proprio sviluppo psico-emotivo, in quanto ne deriva un forte senso di inadeguatezza, dovuto al fatto che il figlio non riesce a soddisfare pienamente i bisogni del genitore e soffre di ansia da prestazione, ovvero si sente incapace di raggiungere gli obiettivi che si è prefissato (Ritucci A., Grattagliano I., Orsi V., 2009).

I falsi abusi collegati ai minori in una coppia, il più delle volte, vengono strumentalizzati dalla madre. Quasi sempre è proprio la madre, nell’86% dei casi, a denunciare i falsi abusi, condizionando il bambino, facilmente suggestionabile. Nel 90% dei casi, queste denunce risultano infondate, ma purtroppo quasi mai la procura dà avvio al procedimento penale per il reato di calunnia (Colantuono C., Berenato C., 2019).

 

Gioco d’azzardo in adolescenza: tra narcisismo, ipercompetizione ed impiego di strategie di coping disadattive

Da hobby innocuo e divertente, il gioco d’azzardo può divenire una dipendenza problematica e provocare esiti negativi.

 

Il disturbo da gioco d’azzardo è classificato dal DSM-5 come un comportamento di dipendenza non correlato alle sostanze (American Psychiatric Association, 2013) che, sebbene principalmente limitato agli adulti, coinvolge sempre di più giovani ed adolescenti, con una variabilità di tassi dal 21 al 90% nel mondo (Volberg et al., 2010).

In particolare, i ragazzi sembrerebbero più coinvolti nelle attività di gioco delle loro controparti di sesso femminile (Calado et al., 2017), anche se il divario di genere diminuisce con l’insorgenza dell’età adulta.

Le vaste opportunità di gioco attuali rendono vulnerabile la generazione degli adolescenti e giovani adulti di oggi (Gupta & Derevensky, 2000). Da hobby innocuo e divertente, può divenire una dipendenza problematica e provocare esiti negativi (Calado et al., 2017), come scarso rendimento scolastico, lesioni e incremento della violenza nella relazione con il partner (Afifi et al., 2010).

Dati i costi sociali e la gravità del gioco d’azzardo, la ricerca ha indagato i meccanismi psicologici sottostanti negli adolescenti e adulti, inclusi i domini di personalità (Passanisi et al., 2019; Tackett et al., 2014), gli atteggiamenti relazionali (Pace et al., 2013), l’impulsività (Grant et al., 2016) e le distorsioni cognitive emergenti (Johansson et al., 2009).

Tra i tratti di personalità negli adolescenti, il narcisismo e la tendenza alla competizione influenzano la propensione al gioco d’azzardo. In particolare, i tratti di grandiosità narcisistica sono emersi in associazione a comportamenti esternalizzanti, come il crimine e il gioco problematico (Miller et al., 2010).

Per comprendere come le caratteristiche personologiche possano influire nell’insorgenza di una dipendenza comportamentale, è stato proposto il ruolo di variabili mediatrici, come la tendenza all’eccessiva competizione tra pari, ovvero l’esigenza di ricercare continue prove della propria grandezza, e l’adozione di modalità di coping autoreferenziali.

Oltre all’estrema competizione, che sostiene il gioco d’azzardo poiché motiva a vincere per mantenere o incrementare i livelli di autostima (Ryckman et al., 1997), tale comportamento viene reiterato come meccanismo di coping disfunzionale (Kardefelt-Winther et al., 2017). Infatti, in risposta ad eventi o circostanze stressanti, aiuterebbe i giocatori stessi a regolare le emozioni, il comportamento e gli stati di attivazione fisiologica, distraendo dai problemi e dalle emozioni spiacevoli (Nower et al., 2004). Come supportato dalla ricerca, gli adolescenti giocatori d’azzardo adottano maggiormente strategie di coping orientate all’evitamento, rispetto ai loro coetanei sani (Bergevin et al., 2006).

Lo studio di Pace e colleghi (2020) ha esplorato in un gruppo di 273 adolescenti giocatori tra i 15 e 19 anni, un modello esplicativo del rischio, verificando se l’ipercompetitività ed uno stile di coping evitante agissero come mediatori nella relazione tra narcisismo e gioco d’azzardo.

Il 40% del campione era costituito da giocatori problematici, per la maggioranza di sesso maschile, confermando il tasso di incidenza significativo e la disparità di genere evidenziata dalla letteratura.

I risultati supportano la validità di un quadro teorico che comprende le caratteristiche di personalità disadattive (ovvero presenza di rivalità narcisistica), nella predizione del gioco problematico. Inoltre, la presenza di strategie di coping disadattive (cioè evitamento) e l’ipercompetitività, assumevano un ruolo rilevante nella relazione, come fattori di mediazione.

Nel dettaglio, i soggetti che presentavano alti livelli di strategie di coping disadattive, narcisismo grandioso ed estrema tendenza alla competizione, avevano un rischio maggiore di insorgenza della dipendenza comportamentale.

Gli elevati livelli di narcisismo rimandano ad una motivazione intrinseca legata al gioco tra i maschi adolescenti, ovvero affermare la propria superiorità rispetto ai coetanei.

Anche in letteratura sono emerse associazioni tra costrutti simili alla rivalità narcisistica, come bassa stabilità emotiva, impulsività, machiavellismo, psicopatia e i comportamenti di gioco (Vecchione et al., 2018)

Infatti, il gioco d’azzardo aiuta a respingere stati affettivi negativi (Blaszczynski & Nower, 2002) consentendo il soddisfacimento impulsivo dei bisogni (Passanisi & Pace, 2017).

Nel contesto della rivalità narcisistica, gli individui estremamente competitivi giocano per il piacere intrinseco della sfida agonistica, che li coinvolge maggiormente a livello emotivo rispetto ai giocatori motivati ​​dalla semplice vincita di una somma di denaro (Burger et al., 2006).

Inoltre, tra questi soggetti, il gioco diviene occasione per evitare di affrontare alcune problematiche. Oltre ad essere una strategia di coping per gestire le difficoltà personologiche che hanno incentivato tale condotta (ovvero il desiderio di aumentare la propria autostima e senso di padronanza), consente l’evitamento delle conseguenze spiacevoli e negative emerse a seguito dell’insorgenza del comportamento di dipendenza, come una difficoltà nelle relazioni sociali e problemi economici.

In conclusione, è importante andare ad indagare il significato del comportamento di gioco problematico nel contesto dello sviluppo adolescenziale, fase di vita nella quale ogni condotta ha una valenza comunicativa ed esprime significati e lo sviluppo dell’identità individuale viene regolato in particolar modo dal confronto continuo con l’altro. In questo senso, il gioco d’azzardo problematico potrebbe essere legato ad uno scarso sviluppo di strategie adattive per fronteggiare i problemi, che rimandano a loro volta ad un elevato narcisismo, sentimenti di superiorità e tendenza alla competizione estrema tra pari.

 

cancel