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Il mondo degli exergames: tra potenzialità e ambiti di intervento?

Gli exergames sono nuovo genere di videogames e hanno lo scopo di promuove uno stile di vita attivo e dinamico. Il training neuromotorio che si compie giocando induce allo stesso tempo una modificazione della plasticità del cervello.

 

 Il termine exergaming è un vocabolo di origine inglese usato per indicare una categoria di videogames che è esplosa dopo la comparsa della Nintendo Wii.  

Questo nuovo genere, conosciuto anche come active games (Mears & Hansen, 2009), si riferisce a un ambito videoludico in cui l’attività fisica viene utilizzata come dispositivo di input (Marasso, D. 2015). Questo genere, nato allo scopo di rovesciare uno degli stereotipi che affliggono i videogiochi (vale a dire la promozione dell’attività sedentaria e della pigrizia), promuove uno stile di vita attivo e dinamico (Marasso, D. 2015). Attraverso un alternarsi di tentativi ed errori l’utente, grazie alla rilevazione dei propri movimenti del corpo combinati con l’ausilio di biofeedback visivi, viene portato ad esplorare innumerevoli strategie fino a trovare quella corretta che lo porta a completare il livello. Il training neuromotorio che si compie induce allo stesso tempo una modificazione della plasticità del cervello portando in breve al ripristino o creazione di corretti modelli motori. Mente e corpo vengono messi quindi in fortissima relazione. Fruibili da tutti, gli exergames si offrono a un target davvero ampio. Si va dal bambino in fase di sviluppo fino ad arrivare all’anziano che, se stimolato al movimento in maniera coinvolgente, trae benefici riabilitativi nonché cognitivi. Secondo uno studio (Anderson-Hanley, C. et al. 2018) apparso in Frontiers in Aging Neuroscience, alcuni ricercatori dell’Union College hanno dimostrato come attraverso la pratica degli exergames sia possibile rallentare il Mild Cognitive Impairment (MCI), ovvero quel lieve decadimento cognitivo precursore dell’Alzheimer.  Nello studio in questione erano stati coinvolti più di 100 anziani con un’età media di 78 anni e divisi in due gruppi.  Al primo gruppo veniva richiesto di svolgere un “exer-tour” mentre al secondo gruppo veniva richiesto di svolgere un “exer-score”, attività anche cognitivamente impegnativa. L’exer-tour consisteva nel pedalare su una cyclette tradizionale dove, montato su uno schermo, appariva l’avatar di un ciclista posto una pista ciclabile panoramica. La veloce progressione dell’avatar dipendeva dalla pedalata dell’utente stesso. L’avatar inoltre non poteva lasciare il percorso né tantomeno sbattere contro qualcosa. Poteva solo proseguire diritto. L’Exer-score al contrario richiedeva al partecipante di pedalare come nell’exer-tour, ma di giocare contemporaneamente a un videogames in cui si dovevano inseguire dei draghi e conseguire anche delle monete in uno spazio d’azione di ben 360 gradi. Il fine ultimo del videogioco era di segnare più punti possibili. Questi due gruppi dovevano praticare l’attività di exergaming con regolarità per la durata di 6 mesi (la durata della ricerca). I risultati ottenuti dai due campioni vennero poi confrontati con le risposte di altri due gruppi di anziani che giocavano a un videogames su un computer e da un altro che invece si affaticava con la cyclette. Nonostante gli stessi ricercatori ammettano che sia necessario un RCT più esteso per confermare i risultati, al termine della sperimentazione clinica si è visto come i primi due gruppi di partecipanti si sono ritrovati con una funzione esecutiva migliore, determinante per il processo decisionale e il multitasking. Un beneficio lo si era già visto dopo comunque già dopo i primi 3 mesi. (Anderson-Hanley, C., Barcelos, N. M., Zimmerman, E. A., Gillen, R. W., Dunnam, M., Cohen, B. D., Yerokhin, V., Miller, K. E., Hayes, D. J., Arciero, P. J., Maloney, M., & Kramer, A. F. 2018)

 Nei più piccoli invece gli active games si sono dimostrati un efficace strumento per indurli a svolgere attività fisica con regolarità, dimostrandosi un valido alleato nella prevenzione, cura e trattamento di dismorfismi (come ad esempio la scoliosi) o paraformismi (ovvero posture scorrette della schiena) che possono colpirli durante la loro crescita. Anche a livello cognitivo e sociale la pratica degli exergames ha dimostrato dei considerevoli giovamenti. Ricerche effettuate in ambito cognitivo hanno dimostrato come giocare agli exergames migliori anche le performance scolastiche. A livello cognitivo, per esempio, vengono stimolati alcuni aspetti quali l’attenzione, la consapevolezza spaziale o la comprensione delle relazioni causa-effetto (Höysniemi, J. 2006). Oltre all’ambito cognitivo la pratica degli exergames ha comportato effetti benefici anche a livello sociale. Alcuni studi hanno dimostrato infatti come la pratica degli exergames in ambienti di gruppo ha portato a un incremento dei legami amicali e una decrescita del pericolo di isolamento sociale (Mueller, F., Agamanolis, S., & Picard, R. 2003). Viste le diverse proprietà benefiche confermate dai vari studi, lo stato del Michigan ha introdotto nel 2003 il videogioco Dance Dance revolution all’interno del proprio programma scolastico.

Dunque, quali sono quindi gli exergames più consigliati a questo punto per allenarsi a casa? In questo periodo in cui allenarsi a casa è diventato obbligatorio, alcuni tra gli exergame più noti sono Just Dance, Ring Fit Adventure o Beat Saber. Praticare exergaming in realtà virtuale (o VR), come nel caso di Beat Saber, ha dimostrato come gli ambienti immersivi possono distrarre gli utenti dallo sforzo fisico dell’esercizio e possono nello stesso tempo motivarli a continuare a giocare. Nonostante il recente aumento della popolarità della realtà virtuale grazie anche al contributo di tecnologie come la PSVR e i vari Oculus, numerosi utenti continuano ancora a soffrire di cybersickness (McCauley, et all. 1992). La cybersickness o VR sickness è quel fenomeno i cui principali sintomi, dopo un periodo variabile di immersione attraverso l’HMD, sono l’affaticamento degli occhi, il disorientamento e la nausea (LaViola, J. R. 2000). Oltre a questi sintomi anche la percezione della profondità e la cognizione possono essere influenzate. Sebbene ci siano degli evidenti benefici negli exergaming in VR, è comunque utile identificare anche gli effetti negativi che ne limitano il suo potenziale e la sua continua diffusione. A tal proposito, presso  l’Università dell’Australia Meridionale, è stato recentemente svolto uno studio (Saredakis, D. et al. 2020) volto a investigare la VR sickness in 36 partecipanti che utilizzavano Beat Saber per sessioni di 10 e 50 minuti. Diversi sono stati i parametri analizzati, ovvero l’accomodazione, la vergenza, la velocità decisionale, la velocità di movimento e aspetti della cybersickness auto-denunciati in tre precisi momenti: prima dell’esperienza in VR, immediatamente dopo l’immersione in VR e 40 minuti dopo la VR (molto in ritardo). Dai risultati della ricerca è emerso che Beat Saber è stato ben tollerato. Per la maggior parte dei partecipanti, tutti gli effetti collaterali immediati sono stati di breve durata e sono tornati ai livelli basali dopo 40 minuti dall’uscita dalla VR. Sia per le esposizioni brevi che per quelle lunghe, ci sono state variazioni di accomodamento ( F 1,35 = 8.424; P = .006) e convergenza ( F 1,35 = 7.826; P = .008); tuttavia, nel periodo tardivo del test, i partecipanti sono tornati ai livelli di base. Le misure sulla cognizione non hanno rivelato alcuna preoccupazione. I punteggi ottenuti tramite il Simulator Sickness Questionnaire (SSQ) sono aumentati immediatamente dopo VR ( F 1,35 = 26,515; P <0,001) ed erano significativamente più alti per le esposizioni lunghe rispetto a quelle brevi ( t35 = 2,807; P = 0,03), ma non ci sono state differenze nella durata dell’esposizione nel periodo tardivo del test, con i punteggi che tornavano ai livelli basali. Solo il 14% dei partecipanti ha riportato ancora alti livelli di malattia nel periodo di test avanzato dopo aver giocato 50 minuti di Beat Saber.

Andando oltre tale ricerca è tuttavia interessante notare come la VR abbia fatto dei notevoli passi avanti rispetto al primo prototipo sviluppato da Ivan Sutherland nel 1986. La realtà virtuale oggi non è più uno strumento esclusivo, ma bensì alla portata di tutti e con una funzione non più esclusivamente ludica. Dal suo iniziale utilizzo esclusivo nella ricerca, la RV ad oggi è stata utilizzata anche in altri ambiti: clinico (per la cura di fobie specifiche e non solo), sportivo (Torkington, Smith et al. 2001), riabilitativo, formativo, nonché ospedaliero come nel caso di  Snow World. SnowWorld, sviluppato presso l’Università di Washington in collaborazione con Harborview Burn Center, è stato il primo software VR immersivo progettato specificamente per la riduzione del dolore. Esso sposta la concentrazione del paziente lontano dal dolore in un ambiente gelido e virtuale inondato di blu e bianchi freddi, dove il loro unico compito è lanciare palle di neve a un gruppo di pinguini e di pupazzi di neve che avanza all’infinito. Potrebbe sembrare sciocco, ma i risultati parlano da soli: i pazienti ustionati hanno avvertito dal 35 al 50% di dolore in meno quando sono stati immersi nella VR (Hoffman, H.G. et al. 2011), circa la stessa riduzione di una dose moderata di antidolorifici oppioidi. Oltre a ridurre la quantità di dolore, la distrazione in VR sembra modificare il modo in cui il cervello elabora i segnali in arrivo dai recettori del dolore. I pazienti immersi in SnowWorld non solo hanno riportato meno dolore sulla scala soggettiva del dolore, ma hanno anche mostrato circa la metà dell’attività cerebrale correlata al dolore mentre erano immersi in SnowWorld. Dopo aver sviluppato un auricolare MRI unico nel suo genere per due anni, il team di ricerca ha analizzato le scansioni cerebrali di pazienti con e senza VR, dimostrando che i recettori del dolore nel cervello sono molto meno attivi durante la VR (Hoffman, H.G. et al. 2006). Nello specifico la risposta del cervello ai recettori presenta una rimodulazione degli aspetti sia sensoriali che emotivi peculiari per l’elaborazione del dolore.

 

Il Gruppo come cura (2021) di Claudio Neri – Recensione del libro

Il gruppo come cura ha il chiaro intento di trasmettere le conoscenze maturate in tanti anni di terapia gruppale e rivelatesi efficaci, candidandosi ad entrare a pieno titolo nella cassetta degli attrezzi di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori, operatori di comunità, infermieri.

 

 Il gruppo come cura, scritto da Claudio Neri, Psicoanalista e Psicoterapista di Gruppo, segue la pubblicazione Gruppo (2017), ed è frutto di un sogno, al risveglio dal quale il Dottor Neri risulta illuminato circa la direzione da dare ai vari appunti presi: il narratore non doveva essere solo osservatore ma partecipe dei fatti.

Il libro ha il chiaro intento di trasmettere le conoscenze maturate in tanti anni di terapia gruppale e rivelatesi efficaci, candidandosi ad entrare a pieno titolo nella cassetta degli attrezzi di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori, operatori di comunità, infermieri, nonché aiutare gli studenti di psicologia e psichiatria ad approcciare l’analisi di gruppo.

Si intrecciano nel libro due modi di raccontare, uno prettamente concettuale, l’altro puramente clinico, volto ad esplicitare i contenuti teorici trattati: le 7 sequenze cliniche riportate, racchiudenti ognuna più sedute, coprono un periodo di dieci anni, dal 2005 al 2015, e non seguono, dunque, un ordine cronologico, quanto piuttosto rispondono alle esigenze del Dottor Neri di rendere il processo terapeutico maggiormente comprensibile.

Nella prima parte vengono presentati i protagonisti del testo, in particolare la narrazione inizia con la richiesta di Gianna di partecipare ad una terapia di gruppo. Da qui la differenziazione tra “candidato ideale” e “paziente possibile”: dai colloqui preliminari ci si accerta se il soggetto ha effettivamente bisogno di un percorso psicoterapeutico e se, nello specifico, può giovare di una terapia di gruppo rispetto ad una psicoterapia individuale. Il paziente possibile è una persona che realmente esiste:

È ogni uomo o donna che viene nel mio studio, chiedendomi aiuto per affrontare la sua sofferenza psicologica ed esistenziale (pag.22).

Gianna accederà al gruppo dopo un percorso individuale durato un anno, durante il quale si è lavorato sulla sintomatologia depressiva.

Obiettivo della psicoterapia di gruppo è riattivare il “progetto vitale” dell’individuo, tendenza evolutiva originaria che ciascuno cerca di perseguire lungo l’intero arco di vita: progetto vitale e psicoterapia di gruppo sono in un rapporto inversamente proporzionale, dal momento in cui l’impellenza del primo rende meno necessario il lavoro di gruppo.

Come sottolinea Kohut:

Il cuore del processo terapeutico, infatti, non consiste nel risolvere singoli meccanismi che sono disfunzionali, ma nel riattivare il potenziale evolutivo del Sé difettoso.

Il gruppo è un tutto in cui ciascuno mantiene la propria individualità: esso non esiste soltanto sul piano sociale, ma ha una propria connotazione nella psiche, essendo una presenza nella mente delle persone. Nel gruppo analitico i rapporti sono di natura egualitaria ed il compito è di conoscersi l’un l’altro, e di conoscere sé stessi nel rapporto con gli altri.

Il setting è di cruciale importanza: statico, immodificabile, luogo sicuro cui affidarsi. Il timing di una psicoterapia di gruppo ideale è bisettimanale, della durata di un’ora e quarantacinque minuti, favorendo il raggiungimento di un’ottimale intensità nella vita dei partecipanti.

 Il gruppo raggiunge maggiori benefici quando è formato da 7/8 persone: un numero inferiore andrebbe a favorire i rapporti duali ed un numero maggiore renderebbe difficoltoso seguire le vicende di ciascuno. Il gruppo analitico descritto nel testo è eterogeneo per sintomatologia e relativamente omogeneo per età e viene descritto dal Dottor Neri “ad alto funzionamento”. Trattasi di un gruppo “slow open”, ovvero a lento ricambio: ogni anno circa due persone concludono la terapia e altrettante la iniziano. Con la consapevolezza che i gruppi chiusi a lungo andare stagnano, l’autore sottolinea il delicato momento di ristrutturazione cui l’intero gruppo va incontro quando entra un nuovo partecipante-paziente: la fuoriuscita di uno dei membri viene vissuta come un lutto, ragion per cui si lavora su tale momento per mesi; di converso alle new entry si associano intense aspettative. Appartenere a un gruppo analitico corrisponde ad un lavoro di ri-definizione identitaria, ovvero si percorre la strada della soggettivazione. Più precisamente, rappresenta l’inizio di un processo che va in direzione opposta alla strada di solitudine e ripiegamento su di sé verso cui la persona si era precedentemente indirizzata, o verso cui era stata spinta.

Disposti in cerchio, i soggetti affidano i propri pensieri, fantasie, sogni, emozioni, al centro vuoto, venendo in contatto con l’ignoto. Il materiale portato in seduta viene così pensato e trasformato.

Nello stato del “gruppo nascente”, caratterizzato da speranza ed apertura al futuro, l’individuo sperimenta depersonalizzazione, ovvero perdita dei confini del sé, accompagnata da un cambiamento del proprio modo abituale di pensare e di porsi in rapporto con la realtà circostante: le sensazioni e le attese non sono più localizzate, ma diffuse in uno spazio comune. Il tempo non è più il tempo della quotidianità, bensì il tempo della seduta, ovvero un “presente esteso”. Tale disorientamento colpisce tutti i partecipanti, incluso il terapeuta. L’evoluzione di tale stadio è “la comunità dei fratelli”: i membri prendono consapevolezza delle potenzialità del gruppo come soggetto collettivo, come comunità capace di pensiero. In tale stadio ogni membro diviene maggiormente disponibile a mettersi in gioco. L’analista, conduttore del gruppo, è percepito meno distante, più umano e maggiormente partecipe: se nella fase precedente veniva costantemente atteso un suo intervento (di approvazione, disapprovazione o salvazione), nella comunità dei fratelli vi sono lunghe fasi della seduta dove il terapeuta non interviene; calibrando i suoi interventi, il terapeuta si colloca in posizione laterale, lasciando scorrere gli interventi dei pazienti.

Compito del terapeuta è fare in modo che vengano rispettati i tempi di ciascuno alla condivisione, proteggendo il diritto al riserbo. Specie nelle fasi iniziali, la sola presenza e l’accoglimento dei pensieri altrui nella propria mente, costituisce un momento di condivisione e trasformazione. Quando tutti riescono a partecipare al gruppo allo stadio della comunità dei fratelli, ogni membro si trova a essere contemporaneamente un paziente e un agente attivo che svolge una funzione nel trattamento degli altri.

Il pensiero di gruppo sviluppa le sue potenzialità terapeutiche soprattutto quando può lasciare da parte il ragionamento organizzato e il problema concreto, ed è libero di spaziare nell’immaginazione e procedere per rapide intuizioni. Il pensiero di gruppo è mimetico, ovvero capace di rappresentare qualcosa e renderlo emozionalmente e sensorialmente presente.

Il racconto delle sequenze di seduta si dispiega come un dialogo a più voci, mettendo in luce il processo veritativo che si realizza in analisi di gruppo: punti di vista diversi e diverse verità coesistono, si confrontano, si scontrano, favorendo un’evoluzione del discorso e delle persone che vi prendono parte. Gradualmente si forma il senso del “NOI” e un sentimento di interdipendenza, portando alla creazione della membrana protettiva, pelle psichica, denotante il senso di appartenenza.

Ogni membro deve impegnarsi non solo per raggiungere la sua meta personale, ma anche per creare e mantenere le condizioni di un buon funzionamento del gruppo come insieme.

Il problema del singolo diviene problema del gruppo: il dottor Neri utilizza il termine commuting per indicare tale processo.

Compito del terapeuta è focalizzare l’andamento di ciascun membro nel processo di cura, stando bene attento ad evitare l’attivazione dell’assunto di base della dipendenza, il cui risultato sarebbe la passivizzazione del gruppo. Rivolgendosi alla totalità del gruppo, piuttosto che al singolo individuo, egli favorisce le libere associazioni utilizzando immagini o piccoli racconti, promuovendo, in tal modo, la “buona socialità”. Un gruppo è dotato di buona socialità, quando è in grado di soddisfare almeno in parte il bisogno di riconoscimento delle persone che lo formano. Trattasi di un riconoscimento realistico: oltre alle capacità vengono focalizzati anche limiti e manchevolezze. Da ciò può dispiegarsi un discorso comune diretto verso una meta condivisa: l’autenticità, vista come conoscenza, sincerità, miglioramento individuale.

Il modello esplicitato non importa nel setting gruppale metodologie psicoanalitiche standard, quali transfert e controtransfert, che, seppur notate, vengono collocate sullo sfondo.

Centrale è il dispiegarsi della “capacità negativa”, individuata da Bion: l’esercizio del “non capire” fa sì che l’analista non dia prematuramente forma a ciò che sta evolvendo e che potrà emergere in modo più chiaro nel campo analitico. Ciò non equivale ad un atteggiamento di passività, quanto piuttosto al restare in contatto con l’incomprensibile, non uscendo dalla condizione di dubbio.

La funzione analitica non è prerogativa del terapeuta: è invece una funzione ruotante, che può venire assunta dal gruppo nel suo insieme e di volta in volta dal Genius loci, ovvero dalla persona che prende la parola e coglie in modo più creativo il senso della situazione in atto in quel dato momento.

Nel gruppo vengono elaborati e metabolizzati traumi, lutti, separazioni, conflitti: il modus operandi è dato dal racconto e dalla condivisione di sogni, di fantasie, di pensieri. Il racconto e il raccontare hanno finalità terapeutiche e i confini di ciascuno divengono via via più permeabili. Il paziente si lascia andare alla condivisione e alla compartecipazione esperendo il gruppo come luogo sicuro.

Particolarmente rilevanti sono i “sogni a tema”: serie di sogni con contenuto simile tra loro, contenenti piccoli cambiamenti, indice dello sviluppo personale che il sognatore sta compiendo.

Il processo terapeutico implica una trasformazione complessiva della persona e non soltanto un miglioramento della sintomatologia: il gruppo rappresenta la cura nel processo di soggettivazione.

Utilizzando il concetto di “zona di sviluppo prossimale” sviluppato da Vygotskij, si può affermare che l’appoggio e il sostegno dell’analista e del gruppo incidono sulla possibilità del paziente di sviluppare le sue potenzialità verso il miglioramento e la guarigione. Il primo passo di questo percorso è offerto dall’accettazione e dalla convalida dei pensieri e delle emozioni: solo sentendosi un umano, vedendo riconosciuto il proprio diritto all’errore, l’individuo può muovere i passi verso il cambiamento.

L’epilogo del libro coincide con la fine della terapia di Gianna, comunicato al gruppo diversi mesi prima: il processo di soggettivazione si è dispiegato e Gianna è diventata autonoma.

 

Affrontare il disturbo ossessivo compulsivo. Quaderno di lavoro (2021) di Paola Spera e Francesco Mancini – Recensione del libro

Affrontare il Disturbo Ossessivo Compulsivo di Paola Spera e Francesco Mancini, nasce e si presenta come un validissimo quaderno di lavoro in grado di fornire efficaci strumenti sia a chi soffre di tale disagio che al professionista.

 

 Scritti da eccellenti figure esperte e competenti in tema di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), Paola Spera e Francesco Mancini, con il contributo di altri validissimi professionisti, questo quaderno di lavoro offre informazioni e strumenti pronti all’uso sia per l’esperto che il non addetto ai lavori.

Si parte dall’offrire una panoramica circa il disturbo, il significato di ossessione e compulsione e varie forme e manifestazioni, perché come ormai oggi dovremmo sapere, il DOC è una forma di disagio psicologico molto ricco e complesso e – come scrivono anche gli autori – è un disturbo che nasconde molte insidie, tanto che può mettere in difficoltà sia i terapeuti alle prime armi sia quelli più esperti.

Immagine 1 – Scheda dei principi e caratteristiche delle ossessioni ripresa e adattata da Abramowitz (2006)

I primi capitoli consentiranno di conoscere il DOC e il modo di procedere della Terapia Cognitivo Comportamentale, arricchiti da schede per iniziare sin da subito ad individuare il proprio schema di funzionamento (vedi in foto scheda 10 tratto dal libro a pag. 33).

Immagine 2 – Schema del funzionamento del DOC

Lo schema di funzionamento del disturbo consentirà di individuare le variabili in gioco e, dunque, l’evento e situazione scatenante; come lo stesso viene valutato dalla persona; il significato attribuito allo stesso; i tentativi di soluzione di primo ordine (TS1) ossia tutto ciò che la persona fa o non fa, sia in termine di atti comportamentali che mentali, nel tentativo di prevenire, fronteggiare o neutralizzare la minaccia percepita (come ad esempio evitamenti, ricerca di rassicurazione, compulsioni, ruminazioni mentali); la seconda valutazione, in questo caso si fa riferimento alla critica che la stessa persona rivolge a se stessa in merito al fatto di non saper gestire il disturbo ed infine i tentativi di soluzione di secondo ordine (TS2), ossia le strategie che la persona applica nel tentativo di contenere il disturbo.

Un altro importante vantaggio derivante dallo schema di funzionamento, continuano a spiegare ed illustrare gli autori, è quello di identificare anche i processi ricorsivi che mantengono o aggravo il DOC. Tre quelli descritti dagli autori:

  • Primo processo ricorsivo: coinvolge gli eventi critici, la prima valutazione e i TS1;
  • Secondo processo ricorsivo: riguarda la prima valutazione, i TS1, la seconda valutazione ed i TS2;
  • Terzo processo ricorsivo: coinvolge i sintomi ossessivi, i TS1, la reazione dei familiari e gli effetti di queste reazioni sulla sintomatologia stessa.

 Tutti gli aspetti sopra citati diventano tematiche centrali approfondite nei vari capitoli del testo, accompagnati da suggerimenti, schede, ed esercizi a riguardo, compreso il lavoro con e sui familiari e la prevenzione delle ricadute.

Il testo, di matrice cognitivo comportamentale, si ispira e fa riferimento a tecniche e trattamenti validati dalle ricerche scientifiche che ne mettono a tutt’oggi in luce la validità relativa all’efficacia nel trattamento del DOC, e dunque si ritroverà il riferimento all’Esposizione e Prevenzione della Risposta (EPR), a esercizi ispirati all’ACT, alla terapia dell’Accettazione e dell’impegno e alla mindfulness.

Un testo ricco nella sua semplicità che concretamente consente anche ai non addetti ai lavori che soffrono di tale disturbo, di avere a portata di mano valide proposte alternative ai tentativi di soluzione finora messi in atto e che purtroppo non sono risultati risolutivi (ma spesso hanno peggiorato il problema) e una valida raccolta spendibile per il clinico, di ausilio al proprio lavoro.

 

Terapia EMDR auto-somministrata: rischio o opportunità?

Waterman & Cooper (2020) hanno revisionato la letteratura esistente, valutando i potenziali rischi e benefici della terapia EMDR auto-somministrata.

 

La terapia di desensibilizzazione basata su movimenti oculari (EMDR) è raccomandata da molti organismi nazionali e internazionali per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), tra cui l’Organizzazione mondiale della sanità (World Health Organisation, 2013) e l’American Psychiatric Association (American Psychiatric Association., 2004).

Sebbene non si è concordi sul meccanismo alla base che spieghi la sua azione sulla sintomatologia (Bisson et al., 2013), la ricerca individua l’EMDR come più efficace del trattamento farmacologico e della maggior parte delle altre psicoterapie per il trattamento del PTSD. In particolare, è superiore ad altre terapie rivolte al trauma, nella riduzione dei pensieri intrusivi ed abbassamento dell’attivazione (Khan et al., 2018).

Il PTSD è una patologia con prevalenza particolarmente elevata in occidente tra le popolazioni di rifugiati e richiedenti asilo, che spesso hanno sperimentato un trauma ad esempio nelle forme di reclusione, tortura o violenza sessuale (Firenze et al., 2016). Queste popolazioni non accedono alla terapia psicologica non solo perché molto costosa, bensì per una mancanza di consapevolezza del diritto, barriere dettate dal linguaggio, ricollocazioni ripetute all’interno del paese e soprattutto mancanza di fiducia negli operatori sanitari.

Anche nei paesi a medio e basso reddito, il rischio di trauma per conflitti e tortura subita aumenta (Kessler et al., 2017) ed, essendo contesti con poche risorse o distribuite iniquamente, non è garantito l’accesso a cure efficaci (Kohn et al., 2004; Saxena et al., 2007).

Barriere rilevanti all’accesso alla terapia psicologica, generalizzabili all’intera popolazione sono lo stigma percepito associato alla terapia stessa (Lannin et al., 2013), vincoli fisici (come vivere in territori isolati), agorafobia, scarsa mobilità fisica o mancanza di accesso ai mezzi di trasporto (Simblett et al., 2017). Anche il razionamento dei servizi secondo gravità sintomatologica o grado dell’impatto funzionale, insieme alle lunghe liste di attesa per la psicoterapia all’interno dei servizi sanitari nazionali, possono impattare notevolmente.

Date queste difficoltà, unite alla concomitante crescita di internet come fonte di informazioni mediche, si è reso urgente lo sviluppo, la valutazione e la regolamentazione, di tecnologie che aumentino l’accesso ad informazioni sanitarie di qualità, oltre che alle terapie psicologiche (Ruzek & Yeager, 2017). Infatti, molti individui potrebbero non capire come valutare l’affidabilità di un sito web o di un applicazione (Eysenbach & Köhler, 2002). Inoltre, nonostante alcuni siti vengano gestiti da agenzie sanitarie specializzate o si conformino a determinati standard di qualità, molti altri non sono regolamentati.

Per quanto concerne l’EMDR, diversi forum testimoniano il suo utilizzo in termini di terapia autosomministrata.

Mentre esistono 11 applicazioni Apple e 8 Android che offrono la possibilità di autosomministrarsi l’EMDR, diversi siti web non regolamentati pubblicizzano strumenti di auto-aiuto per questa terapia.

A partire dalle correnti evidenze, Waterman & Cooper (2020), hanno revisionato la letteratura esistente, valutando i potenziali rischi e benefici della terapia EMDR auto-somministrata, presentando evidenze di efficacia relative ad altre psicoterapie di auto-aiuto.

L’unica indagine sulla ricerca di efficacia, tollerabilità, fattibilità e sicurezza della terapia EMDR autosomministrata (Spence et al., 2013), includeva un trattamento fornito interamente online di sei lezioni, con elementi di EMDR e CBT affiancati ad un contatto settimanale con uno psicologo. Il 55% dei partecipanti, che soffrivano di PTSD, hanno riportato una regressione completa della sintomatologia post trattamento ed al follow up di tre mesi.

Tuttavia, il campione ridotto, l’elevato tasso di abbandono, l’assenza di un gruppo di controllo ed il contatto con lo psicologo, hanno impedito di trarre conclusioni definitive.

Nella valutazione post trattamento era emersa una moderata tolleranza della terapia tra i soggetti, suggerendo la possibilità di apportare modifiche al protocollo. Al fine di migliorare l’accettabilità dell’intervento, sarebbe utile includere elementi di interazione sociale, come un avatar umano virtuale di accompagnamento (Rehm et al., 2016).

Una problematica insorta riguardava la valutazione dell’idoneità dei pazienti alla terapia EMDR, nella capacità di utilizzare con successo tecniche di autocontrollo e rilassamento (Tien, 1997). Nonostante questo, insieme all’attuazione di una procedura standardizzata, non sia possibile, i rischi evidenziati puramente a livello teorico non trovano fondamento nella letteratura sulla terapia EMDR computerizzata di auto-aiuto.

Per quanto concerne le prove di efficacia relative ad altre psicoterapie di auto aiuto erogate su internet, evidenze in letteratura sostengono che oltre ad essere maggiormente accessibili, sono economiche e sicure nel trattamento dei disturbi dell’umore, d’ansia e del consumo di sostanze (Kumar et al., 2017).

Trattamenti interamente online, sia di esposizione a stimoli per la riduzione dell’ansia nelle fobie e nel panico, che nella riduzione del disagio psicologico legato a traumi in popolazioni di rifugiati, si sono dimostrati efficaci (Schneider et al., 2005); andando incontro ad un target che con poca probabilità avrebbe ricevuto un intervento psicologico diretto (Tol et al., 2020).

Ulteriori indagini hanno supportato l’efficacia delle applicazioni su smartphone nel trattamento del PTSD. In particolare, “PTSD Coach” scaricata da oltre 100000 utenti in 74 paesi del mondo, che comprende tecniche di auto-aiuto incluso il rilassamento (US Department of Veterans Affairs., 2013).

Nonostante siano promettenti nel poter raggiungere ad un basso costo un’ampia fetta della popolazione, nei trattamenti di auto-aiuto è complesso mantenere il coinvolgimento del paziente, come testimoniato dal completamento della CBT online solo dal 20% dei soggetti (Christensen et al., 2006).

Considerando le evidenze attuali, la terapia online non scoraggia né influisce sull’efficacia della terapia personalizzata diretta (McDonald et al., 2020), ma rende il supporto maggiormente accessibile nei paesi a medio e basso reddito, dato l’incremento in tutto il mondo dell’utilizzo della tecnologia (Hall et al., 2014; Ruzek & Yeager, 2017)

In conclusione, sia l’EMDR, che in generale gli interventi psicologici online per diverse forme di psicopatologia, possono aggirare alcune delle barriere all’accesso alla terapia. Ciò nonostante, si rendono necessarie ulteriori ricerche in questo ambito, ancora poco esplorato, per vedere se realmente i vantaggi superano gli svantaggi.

 

Recensione di Beastars, serie animata TV

Nella serie animata TV Beastars, i carnivori come gruppo hanno rinunciato alla carne ma alcuni individui si concedono la soddisfazione con metodi che non possono che essere criminali.

 

 Alcuni mesi fa le mie figlie e mio figlio mi hanno invitato a vedere Beastars, una serie animata e prima ancora un manga shōnen scritto disegnato da Paru Itagaki e pubblicato in Giappone dal 2016 al 2020. Non è uno spoiler rivelare l’idea di partenza: un mondo di animali parlanti e civilizzati in cui carnivori ed erbivori convivono in metropoli moderne. I primi hanno rinunciato a nutrirsi di carne ma la convivenza tra i due gruppi, svolgendosi tra sospetti sociali e crimini occasionali ma sanguinari, diventa una metafora facile ma efficace delle costrizioni del politicamente corretto in cui anche noi viviamo.

I carnivori come gruppo hanno rinunciato alla carne ma alcuni individui si concedono la soddisfazione con metodi che non possono che essere criminali. Il sospetto serpeggia nella società e tutti i carnivori inevitabilmente passano il tempo a misurare gli atti e le parole, a giustificarsi e a scusarsi con gli erbivori e a evitare ogni equivoco e ogni allusione spiacevole. Insomma, i carnivori vivono con il marchio della colpa addosso e gli erbivori con quello della vittima. Alcuni carnivori accettano la loro responsabilità con una certa tranquillità, altri giocano con la colpa diventando zelanti controllori sociali più corretti e giudicanti degli stessi erbivori, altri ancora mostrano nervosismo e irritazione verso gli erbivori, incolpandoli (non sempre a torto) di approfittare a tratti del loro ruolo di vittime potenziali, di gruppo da proteggere. Il problema è che i carnivori hanno rinunciato alla carne ma continuano tormentosamente a desiderarla e non tutti riescono a compiere la rinuncia. Avvengono così aggressioni e delitti. A qualunque erbivoro può capitare di essere azzannato improvvisamente in un vicolo buio, in una stanza isolata, magari da un compagno di classe: i personaggi principali sono studenti di una scuola e vivono insieme in un convitto.

Insomma, l’ambiguità morale incombe sul mondo della serie ma l’esito sanguinoso rimane raro e imprevedibile. In tal modo sono giustificate sia le paure vittimarie degli erbivori che il nervosismo dei carnivori, sempre moralmente controllati dal vittimismo sociale degli erbivori e al tempo stesso tormentati dal desiderio alimentare della carne proibita, dalla voglia continua ma impossibile -se non ricorrendo alla violenza e al crimine- di assaggiarla in qualche modo. È un dilemma alla Nietzsche tra civiltà e istinto, in cui la prima continuamente comprime il secondo con le sue ragioni e il secondo continuamente emerge con tutta la sua feroce spontaneità. Non sembra possibile una redenzione ma solo una tormentosa convivenza con la colpa. Non inganni però il termine “colpa”: il tormento della convivenza tra colpa e istinto non avviene secondo i canoni cristiani del peccato ma secondo quelli moderni della continua tensione all’autocontrollo verbale e sociale reciproco, insomma del politicamente corretto a cui la serie elegantemente allude. Anche se poi qua e là alcuni simboli cristiani compaiono, come del resto accade anche in altre serie animate giapponesi, come ad esempio Deathnote. Mi chiedo perché. Forse si tratta di una particolare curiosità giapponese verso la profondità del dilemma morale cristiano, visto con maggiore tranquillità di noi, la curiosità che si prova verso un’idea lontana mentre la nostra visione è sporcata della familiarità bimillenaria con l’idea cristiana. Del resto, è ammissibile ritenere che la radice del politicamente corretto sia cristiana. Non dico altro per non rovinare le sorprese della trama, che sono molte e benissimo calibrate. Sorprese mai fini a sé stesse ma tutte al servizio del dilemma morale della serie. Dilemma morale che però non diventa mai arte didascalica. Anzi.

 

BEASTARS – GUARDA IL TRAILER:

 

Cosa pensi dei tuoi pensieri? Che cos’è la metacognizione e come influenza le nostre emozioni e relazioni – VIDEO dal webinar del CIP di Modena

Quali sono le funzioni della metacognizione? Perché spesso le distorsioni metacognitive sono decisive nel mantenimento del malessere personale e interpersonale?

 

Sempre più prove di efficacia nella ricerca evidence-based in psicoterapia dimostrano che uno degli obiettivi fondamentali da perseguire all’interno di una psicoterapia per i disturbi di personalità, ma non solo, sia quello di incrementare le capacità metacognitive della persona. Quali sono le funzioni della metacognizione? Perché spesso le distorsioni metacognitive sono decisive nel mantenimento del malessere personale e interpersonale?

Nel corso dell’incontro è inoltre stato approfondito come l’incremento di competenze metacognitive sia fondamentale nella riduzione dei sintomi, nel miglioramento del funzionamento della personalità e dei problemi interpersonali.

Il webinar è stato condotto dal Dr. Stefano Tempestini, Psicologo – Psicoterapeuta. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’incontro:

Cosa pensi dei tuoi pensieri?

Guarda il video del webinar:

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Microbiota, arma segreta del sistema immunitario (2021) di Maria Rescigno – Recensione del libro

Microbiota, arma segreta del sistema immunitario. Conoscere e prendersi cura del migliore amico della nostra salute è un libro molto interessante e stimolante per più aspetti che cercherò di descrivere brevemente qui di seguito.

 

L’autrice, Maria Rescigno, è una nota ricercatrice di fama mondiale, che insegna presso l’Humanitas University di Milano e che si è distinta soprattutto per le sue ricerche particolarmente innovative relative alla natura della barriera intestinale.

La prof.ssa Rescigno si è specializzata in quell’ambito di studi che è stato definito “Microbiota Revolution” per l’alto impatto quasi dirompente che questo settore sta avendo nei confronti di alcuni paradigmi fondamentali delle scienze biomediche.

Il microbiota è il complesso ecosistema di microrganismi (principalmente batteri, virus e funghi) che coabitano il nostro organismo umano e che globalmente supportano il funzionamento e la fitness delle nostre cellule.

Il libro della prof. Rescigno, pur trattando una materia molto complessa e ricca di molteplici implicazioni per la nostra salute e per il nostro benessere, riesce ad essere molto scorrevole ed accessibile anche grazie al fatto che presenta delle metafore molto efficaci che rendono facilmente afferrabili alcuni complicati concetti biologici (si veda ad esempio la bellissima metafora della barriera intestinale in termini di staccionate, argini, etc.).

Il linguaggio che caratterizza il libro è preciso quanto fluido anche per coloro che si affacciano per la prima volta all’importante settore del microbiota e che, anche se molto curiosi, sono piuttosto repellenti ai tecnicismi propri delle scienze biologiche.

Affrontando concetti complessi supportati dalla solida ed aggiornata letteratura scientifica attualmente disponibile, il libro è rivolto proprio a coloro che non conoscono ancora l’argomento microbiota.

L’obiettivo del libro è quello di avvicinare queste persone, aumentarne la consapevolezza sull’argomento e far loro comprendere l’importanza di mettere in atto alcune semplici pratiche (si vedano ad esempio i vari consigli nutrizionali proposti verso la fine del libro) per migliorare l’equilibrio di questo ecosistema microbico con le molte positive conseguenze per l’intero organismo.

L’autrice del libro è riuscita a mettere insieme umilmente le conoscenze attuali sul microbiota (che pur essendo già così rivoluzionarie sono altrettanto parziali rispetto alla globalità di tutte le sue componenti ed implicazioni) con l’esigenza di fornire indicazioni pratiche quanto scientificamente solide a coloro che vogliono approfondire l’importanza di questo insieme di esseri viventi, della massa complessiva di circa un kilogrammo, che coabitano il nostro corpo.

A rendere ancora più piacevole la lettura del libro ci sono degli aneddoti personali della ricercatrice che sembrano descrivere ed accompagnare il rapido sviluppo stesso del settore del microbiota soprattutto degli ultimi 20 anni circa.

Grazie al recente sviluppo di una tecnologia di analisi genomica che prima non era disponibile, il microbiota rappresenta oggigiorno una vera e propria rivoluzione per tutti quei settori che coinvolgono le scienze biomediche ma anche, in maniera quasi sconcertante, di quelle psicologiche.

Le implicazioni che si possono già intravedere per il settore psicologico sono profonde quanto disorientanti perché permettono di valutare in una nuova prospettiva (molto più scientificamente fondata) alcuni paradigmi deterministici che anche attualmente rappresentano dei capisaldi relativi soprattutto alla psicologia dinamica.

Soprattutto per i colleghi psicologi che adottano una prospettiva psico-neuro-endocrino-immunologica integrata, l’ottimo libro della prof.ssa Rescigno, pur non trattando direttamente le implicazioni psicologiche di quella che viene comunemente chiamata “microbiota revolution”, pone solide basi anche per ravvisare le possibili conseguenze, profonde quanto apparentemente disorientanti, anche nelle scienze psicologiche.

 

Il contributo di Wilfred Bion agli sviluppi del concetto di identificazione proiettiva

Wilfred Bion ha rielaborato l’originario concetto kleiniano di identificazione proiettiva, trasformandolo da meccanismo psichico primitivo a concetto che delinea un processo interpersonale

 

Il concetto di identificazione proiettiva venne descritto nel 1946 da M. Klein, in “Note su alcuni meccanismi schizoidi”. Ipotizzando l’esistenza di una posizione schizoide normale già nei primissimi tempi dello sviluppo, M. Klein descrive una particolare fantasia attraverso la quale il neonato, per difendersi dall’angoscia, scinde e proietta all’interno della madre parti di sé intollerabili, in modo tale da poterle controllare.

Wilfred Bion ha rielaborato l’originario concetto kleiniano di identificazione proiettiva, trasformandolo da meccanismo psichico primitivo (qualcosa che il neonato faceva nei confronti di qualcuno) a concetto che delinea un processo interpersonale, nel quale il ruolo del destinatario delle proiezioni è significativamente importante.

Con Bion, l’identificazione proiettiva, oltre ad essere una difesa primitiva del bambino contro un’angoscia intollerabile, diventa un’importante modalità di comunicazione attraverso la quale l’organismo immaturo riesce a trasmettere sentimenti ed emozioni non ancora nominabili ad un oggetto recettivo. L’effetto che essa produce sull’oggetto che riceve la proiezione, ed il ruolo che esso ha nell’accoglierla e nel modificarla, determinano le basi per lo sviluppo del pensiero.

Bion (1962) descrive una relazione in cui la madre accoglie dentro di sé, attraverso l’identificazione proiettiva del neonato, esperienze sensoriali, emozioni, disagi fisici disorganizzanti e inelaborabili e, tramite la funzione alfa, li restituisce arricchiti di senso. Ciò che il neonato reintroietta, non sarà solo la propria originaria esperienza, resa tollerabile dalla mente materna, ma l’esperienza della relazione amorevole con un oggetto recettivo: è identificandosi in questa esperienza interpersonale creativa che il neonato apprende, a propria volta, a pensare.

Se la madre non riesce a tollerare le proiezioni del figlio, quest’ultimo aumenterà la frequenza e l’intensità delle identificazioni proiettive e ciò priverà le proiezioni del loro stesso significato, causando delle reintroiezioni massicce ed intollerabili per la rudimentale coscienza del neonato (Bion, 1961). In tal caso, per Bion, siamo in presenza di una forma di identificazione proiettiva patologica che si contraddistingue per la sua qualità onnipotente e per il grado di violenza con cui viene messa in atto.

Pazienti che, a livello di relazione primaria, hanno avuto l’esperienza di un oggetto chiuso alla comprensione e non recettivo rispetto alle proiezioni della propria sofferenza, ricorrono all’uso ipertrofico dell’identificazione proiettiva per negare la realtà e l’angoscia (Bion, 1961).

Modello contenuto/contenitore

Bion ipotizza l’esistenza di un rapporto dinamico contenitore/contenuto come modello attraverso cui guardare alla strutturazione della personalità. Egli ritiene che, affinché si formino pensieri, è necessario che si crei un contenitore mentale, al cui interno dei contenuti possano prendere forma.

In Bion il pensare viene concepito come conseguenza della pressione esercitata dai pensieri sulla psiche. In altre parole, i pensieri sono antecedenti al pensare stesso. Bion ipotizza, avendo in mente il concetto di identificazione proiettiva, che sofferenza fisica e psichica inizialmente sono indistinguibili per il bambino. Nel momento in cui il piccolo vive un’esperienza di angoscia che non è in grado di comprendere o gestire da solo, nello sforzo di trovare sollievo, cerca di espellere il dolore e sbarazzarsi di tutte le sensazioni angosciose. La presenza di una madre ‘sufficientemente buona’, in grado di accogliere le proiezioni del figlio, di non lasciarsi sopraffare da esse e di renderle gestibili, offrirà al bambino la possibilità di sentirsi reintegrato. In tale dinamica, la madre è il contenitore mentre l’angoscia del bambino è il contenuto. Ciò che viene re-introiettato nella relazione contenuto/contenitore, non è solo un contenuto modificato dall’elaborazione del contenitore, ma la capacità stessa di rielaborazione del contenitore.

Rêverie e Funzione Alfa

All’inizio è la madre che pensa per il neonato, ella favorisce la formazione delle strutture e delle funzioni mentali, ponendosi dapprima come contenitore degli elementi beta (afferenze sensoriali ed emotive grezze) che il bambino proietta in lei. Il bambino infatti evacua impulsi, sofferenze, desideri e sensazioni sconnesse e prive di significato; la madre, grazie all’accudimento, ma soprattutto grazie alla capacità di intuire lo stato emotivo del figlio, bonifica i momenti di terrore e cerca di dare un significato a tutti quegli stimoli che per il bambino sono incomprensibili. Bion utilizza il termine rêverie per indicare la capacità inconscia della madre di immedesimarsi, in modo empatico, nei vissuti del piccolo. Il concetto di rêverie indica lo stato mentale della madre aperto alla ricezione delle identificazioni proiettive del bambino e dunque la capacità di accogliere contenuti impregnati di odio o di amore. Si potrebbe dire che la madre sente nel suo corpo ciò che sente il bambino, con la differenza che ella sa darvi un senso e quindi una risposta adeguata. Ella tollera e mette insieme i frammenti del Sé angosciato del bambino, cercando di restituire a quest’ultimo un senso di coesione e coerenza.

Se le circostanze sono favorevoli, ovvero se il bambino è sufficientemente contenuto, a livello psichico e fisico, da una persona in grado di farlo, potrà avvertire un’esperienza di integrazione e dunque lui stesso acquisirà la sensazione di avere una capacità contenitiva interna. Questo avviene perché la mente del neonato non è in grado da sola di fare uso dei dati sensoriali, ma necessita di una mente che possa ‘masticare’ ogni elemento per poi restituirlo in forma ‘digerita’. A questo processo di contenimento attivo dello stato mentale del bambino e di bonifica degli elementi beta, Bion diede il nome di funzione alfa. Si tratta della capacità di contenere e conferire una figura e una forma ad emozioni che sono proprie del bambino, senza imporre sentimenti dall’esterno e senza limitarsi a rifletterli come uno specchio. Il bambino dunque apprende ed introietta, grazie alla madre, questa capacità di contenimento e, successivamente, sarà egli stesso in grado di metabolizzare sensazioni grezze per elaborare pensieri, pertanto sarà egli stesso in grado di trasformare gli elementi beta in elementi alfa grazie alla funzione alfa.

Qualora la funzione alfa dovesse essere alterata, l’esperienza non potrà essere assimilata e, pertanto, invece di diventare cibo per la mente, resterà un fatto ‘non digerito’, un elemento beta, il cui destino sarà quello di essere evacuato (Corrao, 1981). Il bambino, incompreso nei suoi bisogni primari, dunque privo della capacità di contenere le emozioni, introietta «non più una paura di morire resa tollerabile, ma un terrore senza nome» (Bion, 1962, p. 178). L’espressione terrore senza nome descrive la perdita di ogni traccia di significato e dunque l’esperienza di un bambino che, non solo non ha a disposizione una mente entro cui poter proiettare la sua ansietà, ma che vede anche la propria ansia accresciuta in modo spaventoso dalla scoperta di una situazione in cui non c’è una madre che allevia le sue spiacevoli sensazioni, bensì le aumenta.

I concetti di relazione contenitore/contenuto, funzione alfa e rêverie vengono impiegati, dallo stesso Bion, anche per definire l’assetto mentale dell’analista in seduta.

Disponendosi all’ascolto, «lo psicoanalista deve esercitare la sua intuizione in modo tale che essa non venga danneggiata dall’intrusione della memoria, del desiderio e della comprensione» (Bion,1970), egli si rende ricettivo verso le emozioni trasmesse dall’analizzando, mediante l’identificazione proiettiva, in attesa che il lavoro della propria funzione alfa produca in lui rappresentazioni spontanee, da cui potranno scaturire forme adeguate di comprensione e interpretazione. L’ingresso dei contenuti del paziente all’interno della mente-contenitore dell’analista produce, in quest’ultimo, una condizione mentale iniziale caratterizzata dalla non integrazione del significato, associata a sentimenti di angoscia persecutoria. Se l’analista riuscirà a tollerare questo stato di sofferenza, allora potrà, attraverso la funzione alfa, rielaborare i contenuti che il paziente ha proiettato in lui per poi restituirglieli in forma comprensibile e tollerabile. Nella mente dell’analista in stato di rêverie affioreranno, ad esempio, immagini visive ma anche rappresentazioni acustiche o di altri registri sensoriali, più o meno organizzate, da semplici flash istantanei a sequenze narrative di varia durata (Ferro, 2002). La capacità di tollerare l’ignoto è legata alla fiducia in un qualche cosa che va sviluppandosi attraverso il contatto emotivo con il paziente, sarà la possibilità di mettere in parole questo qualcosa, a produrre la possibilità di un cambiamento catastrofico nel paziente, ovvero un salto brusco nella crescita mentale (Corrao, 1981).

Conclusioni

Gli sviluppi teorici del concetto di identificazione proiettiva hanno contribuito a mettere in evidenza l’importanza di tale fenomeno, in quanto ponte e collegamento tra mondo intrapsichico e mondo sensibile, presente in tutte le forme di relazione e particolarmente visibile nella relazione di transfert/controtransfert tra paziente ed analista.

Alla luce del prezioso contributo di Bion, l’identificazione proiettiva ha assunto una valenza ‘terapeutica’ ed euristica, essenziale nel setting psicoanalitico, sia esso individuale o gruppale.

L’identificazione proiettiva può essere riconosciuta nei processi transferali e controtransferali ed essere utilizzata come chiave di accesso al mondo interno del paziente. Riconoscerne il valore significa lasciare aperto lo spazio alla possibilità di una esperienza emozionale di conoscenza e crescita per i protagonisti del campo analitico. Affinché ciò accada è necessario che l’analista sia disponibile ad accogliere il ‘sentire’ del paziente in casa propria e che quel sentire prenda casa nella propria casa per poi uscire ristorato e riposato (Guarinelli S., 2007).

 

 

L’importanza di un’educazione alimentare negli adolescenti

Per adottare uno stile di vita sano bisogna mangiare tanto, in modo salutare e bilanciato e per poter comprendere e fare proprie queste indicazioni è importante una vera e propria educazione alimentare.

 

È risaputo quanto l’adolescenza sia un periodo critico ricco di cambiamenti, soprattutto in relazione al corpo che muta velocemente. In tale fase della vita, il confronto con i coetanei diventa inevitabile, soprattutto in un mondo dominato dai social e dalla voglia di apparire sempre perfetti. È con queste premesse che comincia a farsi largo, insinuandosi, il pensiero martellante di non accettazione di se stessi fino ad arrivare all’odio verso il proprio corpo e inizia così il circolo vizioso delle diete drastiche, convinti che saltando qualche pasto si dimagrisca più velocemente e facilmente.

Purtroppo, diete eccessivamente restrittive o non bilanciate innescano il famoso “effetto yo-yo” (Contreras R. et al., 2019) che porta ad una importante riduzione del proprio peso (non sempre in modo corretto, diminuendo non solo massa grassa, ma anche massa magra e muscolare che invece dovrebbe essere preservata) per poi, nel giro di breve tempo, recuperare i kg persi e anche qualche interesse. Tutto questo non fa altro che peggiorare la gestione dei nutrienti da parte del nostro corpo con una possibile riduzione del metabolismo. Questo processo porta, quindi, a cicli di continua discesa e salita di peso, in modo innaturale e, ovviamente, frustrante.

Perdere peso correttamente significa dare al proprio corpo tutto ciò di cui ha bisogno, ovvero assumere tutti i macro e micro nutrienti (carboidrati, proteine, lipidi, fibre, sali minerali, vitamine e acqua), senza rinunce particolari ma bilanciando correttamente la loro distribuzione nella nostra alimentazione.

Per adottare uno stile di vita sano bisogna dunque mangiare tanto, in modo salutare e bilanciato (CREA, 2018).

Per questi motivi, è importante un’educazione alimentare. Troppo spesso, anche nei contesti scolastici, si dimentica l’importanza del corpo: i bambini, durante l’infanzia, utilizzano il corpo per comunicare, esplorare e scoprire il mondo circostante. Piano piano che il bambino cresce, la scuola inizia a centrare il focus sull’intellettualità, dimenticando la corporeità (Batini F., 2020).

E così, l’adolescente si ritrova con un corpo che continua a crescere e non rimane al passo con la rappresentazione di sé perché vi è “discontinuità tra come ci si sente e come ci si vede” (ibidem). Riteniamo sia fondamentale introdurre un’educazione alimentare per ridare centralità al corpo, per normalizzare i vissuti emotivi tipici adolescenziali, ma soprattutto per prevenire i Disturbi Alimentari. Non è un caso, infatti, che è proprio durante questo periodo che vi è maggiore rischio di sviluppare un Disturbo Alimentare, soprattutto perché si innescano diverse dinamiche sia con i pari che all’interno del sistema familiare: preponderanti diventano le tematiche di paura del giudizio e confronto con i pari (e non solo).

In generale, nelle famiglie con un adolescente con disturbo alimentare sembra prevalere quello che Valeria Ugazio chiama la semantica del potere: “dove c’è chi vince e chi perde, chi ha successo, chi sa imporsi in famiglia e nella comunità e chi invece si arrende. Accanto a ‘vincente/ perdente’, un’altra polarità caratterizza queste famiglie: ‘volontà/arrendevolezza’. Questa seconda polarità è subordinata gerarchicamente alla prima secondo un rapporto mezzo-fine: si è vincenti perché si è volitivi, determinati, efficienti, mentre si è perdenti perché si è passivi, arrendevoli, in balia delle sopraffazioni degli altri” (Ugazio V, 1998-2018).

Tuttavia, bisogna fare attenzione alla breve distanza che intercorre tra alimentarsi in maniera sana e alimentarsi in maniera patologica. Il mangiare sano, infatti, può diventare una vera e propria ossessione e ha il nome di ortoressia e sembra prevalere maggiormente negli uomini che nelle donne (Donini et al., 2004).

L’ortoressia è caratterizzata da un pensiero costante rivolto al cibo: cosa mangiare, come prepararlo, pianificare i pasti con largo anticipo, investendo un tempo elevato nella ricerca e acquisto degli alimenti sani. Se qualcosa non va secondo i piani, la persona è pervasa da sensi di colpa, rabbia e umore depresso (Brytek-Matera, 2012).

Dunque, è importante che vi sia più sensibilizzazione su tali tematiche in modo da aiutare i genitori ad aiutare i propri figli quando notano che il cibo sta assumendo sempre più centralità.

 

Conoscere e affrontare l’ansia: recensione del podcast “Ansia? Parliamone”

Si può parlare di ansia da un punto di vista non esclusivamente legato ai sintomi? Si può sfatare il mito della risoluzione immediata del problema e della risposta facile? Queste sono solo alcune delle domande che trovano risposta nel podcast Ansia? Parliamone della dottoressa Valeria Locati

 

 Nell’ultimo anno e mezzo, complice la pandemia mondiale, tutti noi siamo stati travolti dalle emozioni, alcune delle quali mai prima d’oggi avremmo pensato di poter vivere personalmente. Credo sia normale: questa situazione ha coinvolto tutti, in maniera differente e senza tralasciare nessuno. Viste le difficoltà del contesto, abbiamo cercato di svagarci nei modi più variegati possibili, provando a trarre qualche aspetto positivo da questa crisi sanitaria, economica, culturale, sociale e umana. E grazie alla tecnologia si è potuta ridurre la distanza interpersonale e alleviare l’isolamento sociale imposto, tenendo vivi i rapporti.

Credo che siano situazioni così complesse a ricordarci come sia importante fermarsi a riflettere sulle emozioni, per cercare di comprenderle e non farci, come dire, “sovrastare”. E ritengo sia questo uno dei principali obiettivi alla base del podcast Ansia? Parliamone a cura della dottoressa Valeria Locati. La psicologa e psicoterapeuta affronta questa tematica delicata in maniera semplice e chiara: ogni capitolo riesce ad analizzare il tema in oggetto ponendo domande utili per riuscire ad affrontarlo secondo vari punti di vista, così da permettere all’ascoltatore di potersi facilmente immedesimare e provare empatia per un sentimento che sembra essere ancora un tabù.

L’autrice spiega bene come con il termine ansia ci si riferisca

all’attivazione psicofisiologica scatenata in noi dall’anticipazione di un pericolo o di un evento futuro negativo.

Ed è già con il titolo del podcast che chiarisce subito come sia fondamentale parlarne, provare a esprimersi per riuscire a capire le difficoltà e le sensazioni annesse. Esternare le proprie emozioni, senza partire da un giudizio duro o comunque capace di mettere in difficoltà, così da poter comprendere il problema insieme e iniziare a costruire un percorso di crescita.

La struttura è ben definita: sei capitoli che parlano dell’ansia nelle sue più comuni forme e secondo la prospettiva relazionale, in cui vengono poste delle domande finalizzate a creare dei punti di vista diversi e utili a innescare un percorso personale evolutivo. A questi si aggiungono i consigli di lettura proposti dall’autrice al termine di ogni puntata, per permettere di continuare ad approfondire la tematica in maniera autonoma.

 Infatti, ogni puntata non è la classica lezione prettamente teorica sull’ansia, ma è un connubio tra parte narrativa e scientifica. Ascoltare il racconto dei soggetti coinvolti, i quali provano a esprimere le emozioni e le sensazioni che vivono, permette l’immedesimazione e la possibilità di ragionare su di sé grazie agli spunti di riflessione utili. La forte empatia dell’ascoltatore si fonda su un rapporto di rispetto nei confronti di chi si espone (visto che la privacy viene tutelata) e si garantisce la non riconducibilità a situazioni cliniche specifiche.

In sintesi, questo podcast ha il merito di coinvolgere l’ascoltatore e dargli degli strumenti utili a renderlo parte attiva, oltre che avvicinarlo a temi di natura divulgativa. Le domande vengono poste per scoprire nuovi orizzonti, punti di vista critici e facilitarne i pensieri, oltre a permettere di concentrare l’attenzione sul contesto e sulle relazioni, facendo cogliere come i sintomi ansiosi abbiano la loro origine nei rapporti. Quindi, il significato che viene dato all’ansia cambia a seconda del sistema di relazione in cui si è inseriti e, capire questa pietra miliare, permette di andare oltre alla fretta della risoluzione.

Per concludere con le parole dell’autrice, questo podcast è pensato

per tutti coloro che almeno una volta hanno vissuto un momento d’ansia o di panico, hanno sperimentato il timore di essere giudicati in pubblico, hanno rimuginato su possibili scenari catastrofici della vita quotidiana e che non sanno da che parte girarsi per trovare sollievo.

 

La relazione tra interessi parafilici e la soddisfazione sessuale in soggetti non clinici

Spesso si commette l’errore di equiparare i disturbi parafilici con gli interessi parafilici.

 

Un interesse parafilico consiste in un’eccitazione sessuale persistente verso oggetti o situazioni atipiche, mentre nei disturbi parafilici, tale eccitazione elicita un’angoscia clinicamente significativa, che determina un danno a sé o agli altri (American Psychiatric Association, 2013).

È bene sottolineare, dunque, che alcuni individui possono manifestare interessi parafilici senza incorrere in un vero e proprio disturbo mentale, e ciò dovrebbe suggerire che gli interessi e i comportamenti sessuali atipici non devono essere visti necessariamente come patologici (APA, 2013).

Lo studio degli interessi parafilici è divenuto man mano più rilevante in quanto lo sviluppo di Internet ha permesso agli individui di entrare a far parte di comunità composte da soggetti con i medesimi interessi atipici.

Attualmente, la ricerca ha suggerito che gli individui che possiedono specifici interessi parafilici non subiscono necessariamente un impatto negativo. Per esempio, secondo alcune ricerche gli individui interessati a comportamenti sadici e masochistici possiedono un maggiore adattamento psicologico (Wismeijer & van Assen, 2013) e si è visto come l’incorporazione di tali comportamenti in una relazione non determini conseguenze negative sul proprio rapporto (Rogak & Connor, 2018).

Tuttavia, dati i risultati limitati, sono necessarie ulteriori ricerche.

Sulla base della letteratura attualmente esistente, però, si potrebbe ipotizzare che sia possibile “convivere” con i propri interessi parafilici ma ciò determina la necessità di indagare le caratteristiche e i fattori protettivi che permettono ad alcuni individui di gestire i loro interessi parafilici nella vita quotidiana, senza subire conseguenze penali.

All’oggi, il filone di ricerca che ha indagato gli interessi parafilici in campioni non clinici è certamente cresciuto ma il modo in cui i suddetti interessi vengono valutati è ancora critico. Difatti, sia nelle valutazioni forensi che in quelle cliniche, si tende a concentrarsi prevalentemente sull’angoscia e sulla compromissione del soggetto. Ciò potrebbe distorcere le stime degli interessi parafilici nei campioni non clinici o portare a tralasciare informazioni rilevanti (Mundy & Cioe, 2019).

Sulla base di quanto appena esposto, Mundy e Cioe (2019) si son proposti di effettuare un’indagine che differenziasse sentimenti, pensieri e comportamenti. In particolare, lo studio ha cercato di identificare l’eccitazione sessuale relativa agli interessi parafilici, per poi indagare i comportamenti sessuali associati alla parafilia (come fantasie sessuali, fantasie di masturbazione, comportamenti sessuali) in cui gli individui si impegnano. Nel complesso, lo studio mirava a comprendere come gli interessi parafilici e i comportamenti sessuali siano collegati alla soddisfazione sessuale generale. In accordo con le ricerche precedenti, ci si aspettava che gli uomini avrebbero riportato livelli più elevati di interessi parafilici. È stato ipotizzato anche che, rispetto alla soddisfazione, non vi sarebbero state elevate differenze tra coloro i quali possiedono tali interessi atipici e chi non li ha.

Allo studio hanno preso parte 529 individui, di cui 173 uomini e 356 donne. Coerentemente con la letteratura precedente, i risultati dello studio hanno mostrato come gli interessi parafilici non siano infrequenti, o particolarmente angoscianti, nei campioni non clinici. Difatti, è stata riscontrata la presenza di almeno un interesse parafilico nel 56% del campione.

Masochismo, sadismo e voyeurismo erano gli interessi più comuni.

I tassi di interessi parafilici tra i sessi erano significativamente diversi; il 63% degli uomini ha riportato almeno un interesse parafilico, rispetto al 53% delle donne.

Sebbene la maggior parte dei partecipanti abbia riportato almeno un interesse parafilico, non tutti si sono impegnati in comportamenti sessuali associati alla parafilia. Molti di questi individui hanno riferito di aver sperimentato alti livelli di eccitazione sessuale associata alla parafilia, ma non hanno incluso questo interesse nelle loro fantasie sessuali, fantasie di masturbazione, o comportamenti sessuali. Mentre, la restante parte ha riferito di aver incorporato i propri interessi nelle proprie fantasie sessuali o durante la masturbazione, piuttosto che nel comportamento sessuale effettivo.

Inoltre, i partecipanti hanno raramente riportato di aver subito un impatto negativo legato all’esplicitazione di tali interessi. Questi risultati sono in linea con la ricerca esistente che ha mostrato come gli interessi parafilici (ad esempio, il masochismo) non determinino necessariamente disagio psicologico o danni relazionali (Rogak & Connor, 2018). Tuttavia, è importante riconoscere che il livello di compromissione o di distress può essere influenzato da altri fattori, come la personalità (van Bommel et al., 2018).

Per coloro i quali possiedono interessi parafilici “legali”, la soddisfazione sessuale era più elevata, il che potrebbe suggerire che l’etichetta legale o illegale, associata all’interesse parafilico, gioca un ruolo fondamentale nella soddisfazione sessuale. Difatti, è possibile che le preoccupazioni di impegnarsi in tali interessi differiscano notevolmente tra coloro i quali sono interessati a comportamenti legali o illegali.

Ulteriormente, i risultati hanno mostrato che gli individui che avevano condiviso con il proprio partner la propria perversione avevano livelli più elevati di soddisfazione sessuale, indipendentemente dalla fattibilità legale dell’interesse.

Nel complesso, questi risultati sono in linea con la letteratura esistente che ha rilevato che la presenza di un interesse parafilico non necessariamente esercita un impatto negativo sulla soddisfazione generale né su quella sessuale (Joyal & Carpentier, 2017).

 

 

Come reagisce il cervello all’ascolto della musica

Ascoltare della musica è un’azione naturale ma per farlo il nostro cervello si attiva mettendo in atto diversi passaggi.

 

Vi sarà sicuramente capitato, mentre ascoltate una canzone, di scandirne il ritmo battendo il piede con una certa cadenza.

Cambiando il ritmo della melodia, cambierà anche quello del nostro piede ed è stato dimostrato che cambierà anche quello delle nostre connessioni mentali.

L’ascolto ci coinvolge anche a livello inconscio ed esercita su di noi la sua influenza.

Come funziona il cervello durante l’ascolto di una canzone

Per capire quale può essere l’influenza della musica dobbiamo fare un breve viaggio alla scoperta del nostro cervello e del suo funzionamento.

Per farlo in modo semplice, schematizziamo questo processo in alcuni passaggi. Il nostro sistema nervoso è costituito da cellule, i neuroni, che comunicano fra loro attraverso dei neurotrasmettitori, piccole vescicole che restano inerti all’interno dei neuroni finché non sopraggiunge un impulso emotivo. A questo punto vengono rilasciate e vanno ad interagire con i neuroni limitrofi trasformando l’impulso nervoso iniziale in una risposta cellulare specifica.

Musica quali sono gli effetti dell ascolto e come reagisce il nostro cervello Imm. 1: Funzionamento del cervello durante l’ascolto di una canzone

Nel momento in cui ascoltiamo una musica, nel nostro organismo si produce un effetto simile a quello dell’assunzione di una droga psicoattiva che causa il rilascio di dopamina nel cervello. La dopamina è appunto uno di questi neurotrasmettitori. Compito della dopamina è di esercitare il controllo sul movimento, sulla capacità di attenzione e di apprendimento, su alcuni aspetti delle funzioni cognitive, sulla sensazione di piacere e sul meccanismo del sonno. In breve, questi neurotrasmettitori sono messaggeri chimici che gli impulsi nervosi rilasciano per indurre un certo meccanismo cerebrale.

L’effetto della musica

Ma l’effetto prodotto dalla musica non è solo sulle emozioni, bensì è stato dimostrato come sia in grado di influenzare anche il sistema cardio vascolare, il battito cardiaco e la pressione sanguigna.

Ad esempio, capita spesso di vedere degli sportivi che si isolano ascoltando musica con le cuffiette prima di scendere in campo per cimentarsi nella loro performance. In questo caso l’ascolto ha lo scopo di migliorare la loro concentrazione, ma anche di far acquisire forza ed energia, come abbiamo già visto.

Al contrario, in altre situazioni, la musica può essere utilizzata per rilassarsi. I diversi generi e stili musicali, infatti, sono in grado di provocare effetti molto diversi in chi li ascolta. Se una musica rilassante è in grado di ridurre i livelli di cortisolo (l’ormone dello stress) nel sangue, il crescendo di un’orchestra può determinare una vasocostrizione della pelle del viso con l’aumento della pressione sanguigna.

In generale possiamo dire che la musica classica e meditativa funziona nella riduzione di stress e dolore, mentre una musica ritmata ha effetti benefici nell’aumentare la concentrazione, le motivazioni e nel migliorare l’umore.

Inoltre, alcuni brani possono concretizzare specifici stati d’animo come calma e serenità, condizioni che permettono al potenziale del nostro cervello di essere sfruttato al massimo.

Oltre un discorso generale bisogna anche tenere in considerazione gli aspetti più soggettivi, ossia i gusti personali in conseguenza dei quali, ad esempio, un soggetto può essere infastidito dall’ascolto della musica classica ed avere più benefici in termini di rilassamento dall’ascolto della musica new age.

Come funziona il processo di ascolto

Ascoltare musica procura piacere, fa riaffiorare alla mente ricordi, fa nascere emozioni e ci aiuta a condividerle con chi ci sta intorno.

Un processo che sembra assolutamente naturale, quasi scontato, ma che in realtà mette in moto un meccanismo complesso, come abbiamo in parte già visto.

Va detto che la risposta che il nostro cervello fornisce agli stimoli musicali non dipende unicamente dai suoni stessi ma anche da un bagaglio di conoscenze che abbiamo acquisito. La reazione infatti sarà condizionata anche dalle nostre competenze musicali, da quello che avremo ascoltato in precedenza e che è stato immagazzinato nei nostri ricordi, dalle emozioni che abbiamo provato.

Ma veniamo a come si comporta il nostro cervello quando ascoltiamo una canzone.

Il suono è un fenomeno fisico, è la sensazione prodotta dalla vibrazione di un corpo in oscillazione che si propaga nell’aria. Quando ascoltiamo una canzone, la fase dell’ascolto si divide in due parti. Inizialmente si attiva la fase dell’udire che è un fenomeno periferico legato all’orecchio e al nervo acustico. Secondariamente, passando attraverso il talamo, il suono raggiunge il lobo temporale e da qui coinvolge il nostro sistema nervoso con le funzioni psichiche che gli sono proprie. A questo punto si dice che il suono musicale è stato “intellettualizzato”.

Ora il nostro cervello è in grado di distinguere il linguaggio dalla musica così che, durante l’ascolto, agisce servendosi di due sistemi neurali separati per il riconoscimento della melodia e per il significato delle parole.

Emisfero destro, emisfero sinistro

Quando ascoltiamo un brano, si attivano i due emisferi del cervello: quello sinistro (che si occupa della parte logica) si concentra sul linguaggio, quello destro (che gestisce le funzioni più intuitive) sulla parte musicale, creando connessioni fra loro. La parte destra del cervello attiva l’immaginazione dando vita alle emozioni più diverse, mentre la parte sinistra analizza aspetti quali la struttura del brano e le parole della canzone.

Interessante notare come alcuni studi hanno rilevato che i musicisti percepiscono la musica in due modi differenti a seconda delle intenzioni che guidano il loro ascolto. Se vogliono lasciarsi trasportare dal suono ascolteranno, in modo inconscio, con l’emisfero destro. Se invece vogliono analizzare la melodia da un punto di vista tecnico, l’emisfero sinistro prenderà il sopravvento.

Entrambi gli emisferi traggono benefici dalla musica. Se ci concentreremo maggiormente sulla parte sinistra, questi si manifesteranno in miglioramento della memoria, della motricità, del senso del ritmo, della coordinazione corporea. Se invece ci concentreremo maggiormente sulla parte destra, otterremo un maggiore sviluppo dell’immaginazione, un miglioramento della creatività e una maggiore armonia.

 

Dal metodo Tomatis alla Robotica: perché non vengono così spesso utilizzati nonostante siano utili per studenti con bisogni educativi speciali?

Il Bisogno Educativo Speciale è qualsiasi difficoltà evolutiva, permanente o transitoria, in ambito educativo e/o di apprendimento che necessita di educazione speciale individualizzata. Il Metodo Tomatis e la Robotica educativa possono rivelarsi utili?

 

Solo qualche decennio fa, nei discorsi delle “arene” didattiche per il benessere degli alunni, i maestri cadevano vittime di un giudizio classista.

Tre categorie dominavano il panorama scolastico:

  • alunni definiti intelligenti, volenterosi, motivati, svegli;
  • alunni svogliati, pigri, negligenti;
  • alunni che necessitavano di un sostegno.

Sotto questo paradigma, che sottometteva la “diversità”, si insediava un’affermazione contraddittoria, incerta, quasi incomprensibile ma collettivamente accetta dal corpus dei docenti: È intelligente ma non si impegna. Ignorata la “voce” di questi studenti nei processi decisionali che direttamente influenzavano le loro vite. Ignorati i livelli di comprensione o il modo in cui questi avvenivano durante il processo trasformativo/formativo scolastico. Ignorata qualsiasi opportunità educativa, da parte degli insegnanti, per accedere al “mondo degli alunni”.

Molti educatori non erano a conoscenza di apprendimenti differenti e personalizzati.

Questo punto di vista molteplice richiedeva un enorme sforzo e impegno ad un docente abituato a superare questa tipologia di ostacoli con la stessa logica con cui l’uomo primitivo costruì la clava: “se” / “allora”.

I riferimenti scientifici di quel periodo erano guidati da teorie sullo sviluppo delle capacità dei bambini in base a determinate età (per una rassegna: Komulainen, 2007), non si aveva una conoscenza al di là di queste classificazioni piagetiane.

Fortunatamente, in una sola generazione, si entra in un nuovo mondo: è la genesi di metodi e tecnologie in grado di intervenire sulle difficoltà di comprensione/acquisizione che richiedono immancabilmente un’istruzione speciale su bambini cosiddetti “speciali”, per i quali occorre una progettazione didattica personalizzata che si traduce in una “personalizzazione degli apprendimenti”, con metodologie e tecniche didattiche mirate.

La “voce” dei bambini con Bisogni Educativi Speciali (BES)

Il Bisogno Educativo Speciale (BES: ‘Special Educational Need’) «è qualsiasi difficoltà evolutiva, permanente o transitoria, in ambito educativo e/o di apprendimento, espressa in un funzionamento problematico, che risulta tale anche per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia e che necessita di educazione speciale individualizzata» (Iannes, 2005). Al loro interno sono ben noti i cosiddetti Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA: dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia) l’ADHD (Deficit del Disturbo di Attenzione, con o senza iperattività) nonché le disabilità motorie e le  difficoltà comportamentali e relazionali in genere.

In termini più profondi e comprensibili, il termine “bisogno” è utilizzato in senso lato. I tentativi per definire cosa si intenda per BES fanno riferimento ad una realtà dove osceno e sublime convivono. Da un lato, spesso questi bambini vengono etichettati (labeling) come pigri, svogliati, o poco intelligenti; dall’altro è fondamentale il metodo educativo/formativo utilizzato.

Il metodo non ha lo scopo di creare o imporre condotte o sistemi di studio ma di far emergere qualità inespresse, “affondate” dal peso del BES. Quando questo è assente la motivazione può non bastare.

I bambini con bisogni speciali spesso nascono, crescono e vivono con l’impellente bisogno di superare le difficoltà legate all’apprendimento, maturando, spesso, un eccezionale fronteggiamento di esse grazie a raffinate strategie di adattamento (quello che in psicologia viene definito coping): l’insistente voglia di trarre una conclusione necessaria da quel problema che si rivela dal contesto: è la motivazione di Gondrano – il cavallo descritto da G. Orwell in «La fattoria di Animali»–  riconoscibile nella sua ammirevole, e quasi spietata, asserzione: «Lavorerò di più»… fino al punto da portarlo all’esaurimento; questo è il lato osceno che può volgere a sublime solo ed esclusivamente se il “filtro” (il cosiddetto “metodo di studio”) che funge da catalizzatore è in grado di dare a questi bambini una “voce”.

Alcune metodologie e tecnologie, più di altre, riescono a facilitare tale condizione.

Il metodo Tomatis

Il Metodo Tomatis (TM) lavora sulle vie uditive a livello neuropsicologico e psicofisiologico. Nacque in ambito audiologico e foniatrico ad opera del Prof. Alfred Tomatis (1920-2001) medico ORL, foniatra, audiologo, scienziato e ricercatore, a partire dagli anni ’50.

E’ ormai largamente utilizzato come tecnica riabilitativa in psicologia in circa 70 Paesi, da oltre 60 anni. Il meccanismo d’azione basilare è quello di stimolare le vie uditive con particolari oscillazioni di frequenze inserite in un brano musicale, sia a livello fisiologico, migliorando l’efficienza meccanica dell’orecchio medio, che neurologico, mediante la trasmissione del suono anche a livello osseo, con una cuffia speciale dotata di trasduttore osseo, che bypassa eventuali problemi di ipoacusia trasmissiva (Krzysztof et al, 2018).

Questa particolare stimolazione fu concepita inizialmente proprio allo scopo di curare il sistema uditivo di cantanti d’opera, che avevano subito un danno causato dal loro stesso cantare, protratto per periodi eccessivi. Gli artisti conseguirono, in breve tempo, non solo un miglioramento ai tests audiometrici, ma anche benefici inaspettati a livello di riduzione dell’ansia e di maggior concentrazione e memoria. In seguito a tali inattesi risultati, Tomatis sperimentò con successo il Metodo in età evolutiva, tanto per i problemi del linguaggio che per tutti i disturbi dell’apprendimento scolare e più in generale del neuro-sviluppo.

Le vie uditive, che diventano una vera e propria “antenna” del sistema nervoso, sono utilizzate non solo per la terapia ma anche per la diagnosi.

Per quest’ultima si utilizza un audiometro appositamente tarato. Esso viene impiegato in modo diverso rispetto all’audiologia medica.

Nel corso di decenni di ricerca Tomatis pervenne ad alcune scoperte fondamentali sull’ascolto in relazione ad orecchio, linguaggio e comunicazione.

Ma com’è possibile “curare” col suono?

L’apparecchio messo a punto da Tomatis, denominato “orecchio elettronico” lavora con due meccanismi: i filtri e l’oscillazione delle frequenze del brano, detta “bascula”.

I filtri si basano su un meccanismo molto semplice. Filtrare una musica vuol dire eliminare i suoni sotto o sopra una certa frequenza, o lasciare passare solo una banda di frequenze.

Secondo le ricerche di Tomatis, le alte frequenze (sopra i 1000 Hz) rivitalizzano il sistema nervoso.

Inoltre, far udire ad un bambino musiche filtrate alle basse frequenze, quindi ricche di acuti, permette al suo sistema nervoso di ripercorrere le fasi dello sviluppo prenatale, con grandi benefici sui disturbi che si sono manifestati all’inizio della sua vita. Si tratta dunque di rivivere anche le fasi dello sviluppo della comunicazione e del linguaggio.

Il meccanismo di bascula, ovvero un ascolto alternativamente ricco di frequenze acute o di frequenze gravi, ottenuto con due equalizzatori ed alternato più volte al minuto, è ancora più importante della filtrazione. La pratica clinica infatti ha dimostrato di poter agire sull’efficienza dell’orecchio medio, migliorando i parametri audiologici e, con essi, le facoltà cognitive.

La chiave di tutto il metodo, in definitiva, è una sorta di “ginnastica dell’orecchio” e delle vie nervose uditive, che agisce sul sistema nervoso centrale in modo profondo e mirato.

Il trattamento, che è molto diverso rispetto ad una musicoterapia, ha numerose applicazioni. Negli adulti è molto efficace nel trattamento dell’ansia, depressione, stress e insonnia.

Infatti, i miglioramenti nei tests audiometrici che si manifestano con curve di ascolto di forma più regolare e senza scotomi (peggioramenti delle soglie uditive a carico di frequenze singole) sono correlati con miglioramenti dei disturbi citati. Ciò è stato verificato nei Centri Tomatis di tutto il mondo ed è riportato nel libro di uno dei più famosi allievi dello studioso (P. Sollier. Listening for wellness).

Nella pratica clinica si sono osservati anche miglioramenti sulla concentrazione e la memoria degli adulti, e più in generale sul benessere psicofisico e la creatività.

Le ricerche presenti in letteratura si sono però concentrate sull’uso strettamente terapeutico del Metodo.

Le fonti che raccolgono un maggior numero e varietà di studi sono il libro del già citato dr. Sollier e soprattutto il sito www.tomatisassociation.org

Tra le ricerche più citate c’è Gilmor Tim (1999) The efficacy of the Tomatis method for Children with Learning and Communication Disorders, International Journal of Listenings, 13,12.

Si tratta di una meta analisi basata su cinque studi che hanno coinvolto 231 bambini.

Lo studio mostrò che il Metodo migliora significativamente:

  • Abilità linguistiche ed uditive
  • Abilità psicomotorie
  • Abilità di adattamento personale e sociale
  • Abilità cognitive

Il Tomatis Center in Toronto, Canada, studiò i risultati della terapia di ascolto su oltre 400 bambini ed adolescenti, con una storia clinica di disturbi dell’apprendimento e di altro genere. I risultati del trattamento furono giudicati dai genitori. Il 95% di essi dichiarò che il programma aveva aiutato i loro bambini. Essi indicarono miglioramenti dal 70% ad oltre l’86% nelle seguenti aree: abilità comunicative, migliore attenzione, aumento di comprensione nella lettura, qualità del linguaggio, aumento della memoria, minori livelli di frustrazione.

Il TM ha dimostrato, altresì, di aiutare le persone con vari disturbi neuropsicologici anche gravi (autismo, dislessia, ADHD ecc.) (Jóźwiak et al., 2018).

La dr. Joan Neysmith-Roy (S. Afr. J. Psychology, 2001,31) del Dipartimento di Psicologia di Regina ha condotto uno studio con sei bambini severamente autistici. Metà dei bambini dimostrarono cambiamenti positivi nel comportamento entro la fine del trattamento. I miglioramenti riguardavano anche le capacità pre-linguistiche.

Attualmente sono stati realizzati studi che evidenziano effetti positivi del Metodo su severe disfunzioni neurologiche e psicomotorie con l’impiego di potenziali evocati uditivi ed EEG presso la clinica denominata Mozart-Brain-Lab di Saint Truiden, Bruxelles.

A questo indirizzo vi è un ampio elenco di studi e di casi clinici relativi a molti campi, tra i quali disturbi del linguaggio e balbuzie; disturbi dell’apprendimento e della comunicazione, anche in studenti universitari; dislessia; casi di ictus e psicopatologia, autismo, deficit di attenzione.

I principi dell’Educational Robotic Applications (ERA)

Le concezioni costruttiviste ipotizzano che la conoscenza sia costruita individualmente e socialmente co-costruite dagli studenti in base alle loro interpretazioni delle esperienze nel mondo.

Poiché la conoscenza non può essere trasmessa, le istruzioni dovrebbero consistere in esperienze che facilitano la sua costruzione (Jonassen, 1999, p.217).

Secondo tale concetto, la natura complessa del processo di costruzione della conoscenza richiede «l’immersione in un’esperienza di apprendimento in un contesto altrettanto complesso» di una ricca varietà di opportunità, stimoli e risorse che Jonassen et al. (1995) definiscono ambiente di apprendimento. Tale ambiente possiamo arricchirlo con i contribuiti della robotica.

I sistemi robotici possono essere uno strumento prezioso per i bambini con bisogni speciali di apprendimento attraverso le interazioni di gioco e può aiutarli a raggiungere le fasi evolutive della loro cronologia e / o ere mentali (Besio, 2001).

L’Interazione Uomo-Robot (HRI), infatti, è un campo in rapida evoluzione.

La robotica educativa è utilizzata in tutto il mondo come «strumento di apprendimento», ma sorprendentemente raramente per l’educazione speciale.

La tecnologia educativa non si riferisce solo a strumenti tecnologici e software che sono stati creati per supportare l’apprendimento ma a quei robot educativi che possono avere una gamma di comportamenti intelligenti e che consentono ai bambini di farli partecipare efficacemente alle attività educative.

Un’esplorazione di questo principio deve spiegare cosa intendiamo per:

  • Comportamento intelligente
  • Partecipazione effettiva

Ai nostri fini riconosciamo l’intelligenza come appartenente a uno spettro di comportamenti focalizzati su obiettivi intenzionali (Sternberg 1985, Stonier 1997, Freeman 2000, Sternberg et al 2008). Questo significa che il robot deve solo possedere un’intelligenza specifica del compito, che mira all’apprendimento esplicito degli obiettivi, piuttosto che una capacità generale di agire in situazioni non strutturate. In questo senso i robot educativi devono aiutare gli studenti ad acquisire conoscenze specifiche, indurli a pensare, sviluppare le competenze o fornire loro esperienze di situazioni e strutture di conoscenza che rispecchiano utili schemi di pensiero. Tutto questo avviene senza alcuna forma giudizio che, anche inconsapevolmente, potrebbe influire sul processo formativo dello studente, nello specifico sulle sue abilità.

Questa tecnologia è uno strumento per aiutare gli insegnanti, non per sostituirli, ma non tutti gli insegnanti mostrano la stessa attitudine per l’utilizzo di robot educativi, indipendentemente dalla loro abilità di insegnamento generale.

Tale alleanza (Robotica educativa / Insegnanti / Studenti) può creare emotional sharing and attunement (‘condivisione emotiva e sincronizzazione’) – e questo si ottiene per mezzo di qualcosa che può essere “mostrato, discusso, esaminato, esplorato e ammirato” (Papert, 1993).

L’uso di manufatti – e, in particolare, di manufatti tecnologici – consente di offrire l’apprendimento di maggior successo con un’attività didattica minima (Papert, 1980, 1993).

Ad esempio, i bambini con difficoltà di apprendimento e lievi disabilità intellettive possono trovare facilitatori dell’apprendimento nella robotica educativa e nell’attività manuale, mentre per i bambini con autismo (ASD) rappresenta un ambiente adeguato ai loro bisogni educativi e di insegnamento (Damiani, Ascione, 2017).

Una serie di ricerche, è stata svolta al fine di indagare se i bambini con ASD mostrano un maggiore impegno sociale quando interagiscono con un robot umanoide rispetto a un partner umano in un compito di imitazione motoria. Tali ricerche (Robins et al., 2004, 2006), non recentissime, sono state svolte con esisto positivo soprattutto per quanto riguarda l’attenzione congiunta, ovvero “seguire lo sguardo del genitore”, un’importante capacità che nei bambini autistici è carente.

Conclusioni

Le conclusioni in questa sede riguardano la possibilità di incentivare lo studente in maniera bidirezionale: il Metodo Tomatis offre una azione “dall’interno verso l’esterno” (dal sistema nervoso all’ambiente) laddove la Robotica educativa opera a latere “dall’esterno verso l’interno” (dall’ambiente al sistema nervoso).

Il Metodo Tomatis fornisce una procedura efficace per migliorare l’abilità di questi bambini di elaborare le informazioni sensoriali con maggiore rapidità e finezza.

In tale elaborazione il protagonista è il canale uditivo ed il linguaggio.

Quando la comunicazione tra orecchio e cervello non è limpida, ed il messaggio sonoro è compromesso da rallentamenti e distorsioni, vi è, altresì, una perdita di fiducia in sé stessi, sia di autostima che di assertività, che aggrava le difficoltà di comunicazione e apprendimento.

Gli strumenti robotici, dal canto loro, rappresentano una metodologia complementare una volta che lo studente ha lavorato su queste capacità con il Metodo Tomatis. Nella fattispecie, tali strumenti, hanno permesso agli studenti di esercitarsi e imparare molte abilità necessarie, come la collaborazione, sviluppare abilità cognitive, autostima, percezione e comprensione.

Poiché gli studenti non hanno avuto alcuna esperienza di fallimento o difficoltà quando si inizia il lavoro con questo tipo di tecnologia, erano pronti a pianificare, iniziare e continuare anche un progetto stimolante.

Tuttavia, come già scritto, la robotica educativa è stata utilizzata raramente in aule deputate all’educazione speciale. In generale, rappresenta un metodo per i laboratori didattici basati sul «learning by doing», secondo il matematico e informatico Papert, è più facile e quasi naturale imparare con un robot (Damiani, 2017).

Tuttavia, nonostante i vantaggi e l’esistenza di professionisti che hanno testato con eccezionali risultati il Metodo Tomatis, nonché gli studi che hanno avvalorato l’efficacia dei robot nelle scuole, tali sistemi non vengono utilizzati nonostante siano saldamente supportati da notevoli evidenze scientifiche.

Questo solleva una domanda importante: perché?

 

La Chirurgia Bariatrica funziona? Indagine con follow-up sugli effetti nel tempo dell’intervento di chirurgia bariatrica

L’articolo, nella prima parte, illustra le caratteristiche e il trattamento dell’obesità, con particolare riferimento al Binge Eating Disorder, al ruolo della famiglia e al vissuto durante la pandemia. Successivamente, si descrive una ricerca condotta su 102 persone sottoposte ad intervento di sleeve gastrectomy mirante a verificarne i risultati nel tempo.

 

1.1. L’obesità: caratteristiche fisiche e psicologiche. Un problema multifattoriale

 L’obesità è definita dall’OMS una condizione medica caratterizzata da un eccessivo accumulo di grasso corporeo che può avere effetti dannosi sulla salute e determina conseguenze negative circa la riduzione dell’aspettativa di vita, con genesi di comportamenti multifattoriali. Essa rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica oltre ad essere la prima causa di morte in tutto il mondo. Negli ultimi 40 anni si è stimato un aumento di tale patologia sia nei bambini che negli adulti; infatti, nel mondo, il numero di obesi è aumentato di circa 10 volte, mentre in Italia nel 2016 si è osservato un incremento di quasi 3 volte rispetto al 1975. Purtroppo questi dati non sembrano decrescere, anzi, la tendenza è di un ulteriore aumento nei prossimi anni. Dai dati dell’Italian Obesity Barometer Report emerge che nel 2017 venticinque milioni di italiani erano obesi o in sovrappeso, tra questi il 46% erano adulti e il 24% erano under 18, statisticamente le donne avevano un tasso di obesità inferiore (9,4%) rispetto agli uomini (11,8%) [1]. Il problema è più diffuso al sud ed emerge una significativa correlazione con il livello di istruzione. Nel tempo si è riscontrato come l’obesità sia strettamente correlata con il livello socio-culturale, infatti tra coloro che soffrono di tale patologia, è possibile osservare come la maggior parte abbia appena conseguito la licenza media. Ciò determina una cattiva valutazione sulle cause-effetto di un’alimentazione poco corretta.

Dalla stessa ricerca, emerge come vi sia inoltre un forte divario geografico tra nord e sud nel senso che si evidenzia un livello di obesità più alto nei soggetti appartenenti ad aree geografiche in cui la tradizione culinaria ha un impatto importante. La vita frenetica spinge la popolazione che vive nei centri urbani ad adattarsi a mangiare spesso fuori pasti semplici e sbrigativi, ciò fa sì che si riscontrino conseguenze differenti rispetto le zone rurali dove invece si mangia in modo più sano ma anche più ricco di proteine, carboidrati e zuccheri. I ritmi serrati delle città giocano un ruolo chiave nell’organizzazione del pranzo. L’ONU ha considerato l’obesità un problema a livello mondiale.

All’interno degli istituti scolastici si sta optando per mense, in cui vengono proposti cibi sani e una dieta variegata associata all’attività motoria, affinché gli studenti si abituino ad una dieta equilibrata e sana e siano stimolati a svolgere attività fisica.

L’aumento di peso comporta l’emergere di varie patologie fisiche oltre che mentali. Tra i disturbi e le malattie più comuni connesse all’aumento di peso vi sono il diabete mellito di tipo 2, l’ipertensione e quindi malattie cardiovascolari, sindromi delle apnee ostruttive del sonno, alcuni tipi di cancro e di osteoartrosi.

L’obesità influenza negativamente le aspettative di vita, che si abbassano di parecchio in quanto il più delle volte è accompagnata da altre patologie, per esempio di tipo cardiovascolare, che danneggiano lo stato generale di salute e che possono essere congenite o acquisite come l’ipotiroidismo e si possono associare ad una alimentazione incontrollata o notturna.

Nello specifico, tale aspettativa diminuisce di 2-4 anni nel caso di obesità moderata, mentre nell’obesità grave si riduce addirittura di 10 anni [2]. A livello individuale, nella maggior parte delle situazioni, l’obesità è la conseguenza della combinazione di un eccessivo apporto calorico e della scarsa attività fisica. Un numero limitato di casi invece, sono dovuti a fattori genetici o psichiatrici. I fattori predisponenti o che comunque facilitano l’obesità sono: mancanza di sonno, interferenti endocrini, riduzione del tabagismo, maggiore uso e consumo di farmaci, tra cui gli antipsicotici e gravidanze avute in età avanzata. L’obesità in quanto tale non è considerata un disturbo mentale e non è presente nel DSM-5 come malattia psichiatrica; tuttavia, recenti studi hanno dimostrato una correlazione tra il rischio di sovrappeso e di obesità, con la presenza di disturbi psichiatrici o comportamenti altamente disfunzionali. L’aumento ponderale è causato da alimentazione scorretta e dalla vita sedentaria; entrambi i comportamenti sono fortemente influenzati da condizioni sociali, economiche e culturali. A livello psicologico il soggetto obeso spesso viene isolato ed è sottoposto ad una vera e propria stigmatizzazione sociale, è oggetto di pregiudizi, stereotipi, discriminazioni, problemi occupazionali e relazionali, tutto ciò può ridurre fortemente la possibilità di avere legami affettivi soddisfacenti, stabili e duraturi. I soggetti obesi solitamente hanno bassa autostima, insicurezza, senso di inadeguatezza, idee auto-svalutanti circa l’immagine corporea. Vi è un luogo comune secondo il quale le persone obese o in sovrappeso sono considerate deboli, con scarso autocontrollo e con una bassa autostima.

Lo stigma verso questa categoria si può esprimere con vari atteggiamenti che vanno dalla derisione alla presa in giro. In alcuni casi, si utilizzano soprannomi negativi e denigratori o appellativi che squalificano fortemente l’obeso, il quale, a causa di questo comportamento, si chiude sempre più in sé stesso e trova sollievo e gratificazione solo nel cibo; ciò determina un circolo vizioso per cui la persona più vuole uscire dalla condizione nella quale si trova, più l’unica modalità che conosce, per stare bene, è quella di rifugiarsi nel cibo. Nei casi più gravi, dalla depressione, si passa al suicidio. Le critiche non sortiscono alcun effetto cosi come le prese in giro, entrambe non servono a motivare un soggetto obeso a perdere peso, anzi influiscono ancora di più sulla loro già bassa autostima; in realtà, non è assolutamente cosi: subire critiche e disaccordo, spinge a mangiare sempre più e a convincersi che chiedere aiuto non serva a nulla, in quanto nessuno sembra comprendere. Sul piano chimico, lo stress continuo a cui sono sottoposti aumenta la quantità di cortisolo, ormone che gioca un ruolo chiave favorendo l’appetito e la ricerca di cibi ricchi di zuccheri e grassi. Alla luce di quanto detto, si comprende come l’obesità non possa essere considerata una scelta, ma si tratti, invece, di una vera e propria malattia, determinata da fattori genetici, ambientali, biologici, comportamentali e psicologici. L’obesità risulta essere associata a un maggiore rischio di morbilità oltre che di mortalità e peggiore qualità della vita. È stato dimostrato come un’errata percezione corporea si associ all’aumento della probabilità di diventare obesi, soprattutto in due fasi cruciali: l’infanzia e l’adolescenza. Spesso i minori etichettati come obesi dai loro stessi familiari li inducono a mettere in atto la così detta “profezia che si auto-avvera” ossia è un meccanismo psicologico secondo il quale un individuo convinto o timoroso del verificarsi di eventi futuri, altera il suo comportamento in un modo tale da causare proprio gli eventi che teme è una sorta di cane che si morde la coda.

I personaggi televisivi spingono ad emulare modelli di estrema magrezza; questo stereotipo di magro uguale bello e sano influenza notevolmente le scelte dei giovani per quanto riguarda la preferenza di alcuni cibi. Vedersi in sovrappeso aumenta i livelli di stress che influiscono negativamente sul rispetto delle diete che proprio per questo il più delle volte risultano fallimentari [3].

Secondo Cuzzolaro (2009) [4], il legame di attaccamento svolge un ruolo importante e può portare anche a disfunzioni nell’area dell’alimentazione e determinare confusione tra stati fisiologici e stati emotivi, fino ad arrivare alla strutturazione dei disturbi alimentari. Dalla nostra ricerca è emerso che la maggior parte degli intervistati usa il cibo per gestire e controllare le emozioni di rabbia, noia, tristezza o delusione, pertanto non canalizza in modo corretto ciò che prova o sente. Il piacere provato nel momento in cui si approcciano al cibo è solo immediato perché a lungo termine ciò che prevale è il senso di colpa per non essere riusciti a resistere all’impulso [5].

1.2. Disturbo da Binge-Eating: differenze e aspetti comuni con l’obesità

Il Binge Eating Disorder (B.E.D.) può essere considerato una sottocategoria dell’obesità e a differenza di quest’ultima costituisce una patologia psichiatrica. L’obeso, infatti, assume una grossa quantità di introiti calorici durante la giornata, spinto da uno stimolo legato al senso di fame e di sazietà, mentre il soggetto affetto da B.E.D. si riconosce e si caratterizza per ricorrenti episodi di abbuffate che, secondo i criteri del DSM-5, devono verificarsi, almeno una volta a settimana, per tre mesi [6]. Un episodio di abbuffata è definito tale quando la persona mangia in un determinato periodo di tempo circoscritto (ad esempio due ore), una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che mangerebbe, nello stesso tempo e in circostanze simili, la maggior parte degli individui (DSM 5, APA, 2013) [7]. Tale soggetto esperisce la sensazione di perdita di controllo, nel senso che, una volta iniziato a mangiare, non riesce più a smettere, anche dopo aver soddisfatto il suo senso di fame. Altra caratteristica precipua è l’ingozzarsi, fino a sentirsi spiacevolmente sazi. Gli individui con disturbo da B.E.D. in linea di massima si vergognano e provano imbarazzo per le proprie abitudini alimentari malsane, motivo per il quale spesso consumano il cibo in solitudine e di nascosto. Il soggetto è in balia di: tristezza, paura, ostilità, solitudine, frustrazione e senso di colpa; quest’ultimo è spesso presente in modo eccessivo ed è accompagnato anche dalla rabbia verso sé stessi. Alcuni individui descrivono un senso di estraniamento durante o in seguito agli episodi di abbuffata che talvolta possono essere programmate. In genere, l’antecedente scatenante è un’emozione negativa, che può essere umore depresso o ansioso, ma anche tensione, noia o solitudine; altri fattori possono essere condizioni interpersonali stressanti o sentimenti negativi correlati al peso e alla forma del corpo. Le abbuffate possono minimizzare o attenuare nel breve termine i fattori scatenanti l’episodio ma in seguito subentrano autosvalutazione e disforia. Si crea un circolo vizioso irrefrenabile: mangiare per sentirsi meglio, sentirsi peggio dopo l’abbuffata, per poi tornare al cibo e, cercare in esso, sollievo. Il B.E.D. provoca sovrappeso e obesità; tuttavia, questa patologia psichiatrica va distinta dall’obesità vera e propria ed è opportuna una diagnosi differenziale: gli obesi non si abbandonano a ricorrenti abbuffate e non presentano una compromissione funzionale, inoltre manifestano minore disagio soggettivo, minore senso di colpa e minore comorbilità psichiatrica. La prevalenza di tale disturbo è dell’1,6% nelle donne e dello 0,8% negli uomini. Bisogna precisare come tra i soggetti obesi, soprattutto quelli con obesità grave, sono state riscontrate frequenti e diverse comorbilità psichiatriche quali disturbi dell’umore, tra cui disturbo depressivo maggiore o bipolare, disturbi d’ansia, disturbi del comportamento alimentare come bulimia, anoressia e B.E.D., disturbi di personalità come borderline, istrionico e schizotipico e disturbo da abuso di sostanze; inoltre sembrano essere accomunati da problemi di adattamento al ruolo sociale, tant’è che, l’obesità può fungere da capro espiatorio per le proprie difficoltà relazionali e può spingere a spostare il focus del problema dalla bassa autostima, per esempio, al sovrappeso. Tuttavia va sottolineato come la comorbilità psichiatrica sia legata alla gravità degli episodi di abbuffata e non al grado di obesità. L’emozione negativa provata ammanta tante altre emozioni e spinge alcuni individui a rifugiarsi nel cibo e a mettere in atto episodi di abbuffate compulsive. Si intraprende dunque una strada senza via d’uscita, perché la persona rivolgendosi al cibo non si confronta mai con le situazioni che gli provocano realmente sofferenza. In questo modo, le emozioni dolorose provate si riprodurranno all’infinito e favoriranno l’emergere di nuove abbuffate. Esse, a loro volta, determineranno altre emozioni negative che si aggiungeranno a quelle già vissute. Come detto, il disturbo di solito inizia dopo eventi stressanti che minacciano l’autostima, ad esempio fallimenti scolastici o lavorativi, problemi sentimentali o sessuali e infine difficoltà interpersonali. Gli individui che presentano obesità ma più in generale tutti coloro i quali manifestano disturbi del comportamento alimentare temono il cambiamento e sono certi che se abbandoneranno il loro disturbo disfunzionale si sentiranno ancora più indifesi, soli e incompresi Si tratta di soggetti chiusi in sé stessi, con bassa autostima e che vivono un forte senso di inadeguatezza. I seriali di abbuffate compulsive comunicano con tanta difficoltà le loro emozioni e le loro paure e ritengono di non riuscire a raggiungere gli obiettivi che si sono prefissati. I bingers si convincono dell’inevitabilità del loro stato e si ritengono incapaci di avere soddisfazioni che non siano legate al cibo, che così diventa l’unico sostituto affettivo. Gli “abbuffatori seriali” hanno una sensibilità maggiore verso le richieste altrui, sono fortemente condizionati da come gli altri li considerano, spesso sviluppano un’immagine negativa di sé, senza che questa abbia una base reale. Sia i bulimici che gli anoressici presentano disturbi legati al discontrollo degli impulsi.

Il binge è una modalità comportamentale disfunzionale utilizzata per canalizzare le emozioni.

I soggetti affetti da B.E.D. raramente sono riconosciuti come tali, perché spesso vengono confusi erroneamente con gli obesi o peggio ancora con i bulimici. La principale divergenza tra la Bulimia Nervosa e il B.E.D. consiste nella peculiarità che nella prima l’alimentazione restrittiva anticipa l’abbuffata, invece nel B.E.D. l’introito calorico pre o post abbuffata non viene ridotto. Ciò che caratterizza i soggetti bulimici o gli obesi è il ricorso a numerose diete, questo è il loro tentativo di provare ad esercitare un controllo sull’alimentazione e sul peso.

Dunque è possibile affermare che i soggetti con B.E.D. potrebbero presentare comorbilità psichiatrica. [8]

1.3. Il trattamento dell’obesità

L’obesità attualmente è curata facendo ricorso a diverse terapie tra cui va annoverata la sleeve gastrectomy o gastrectomia verticale parziale che consiste in un intervento di chirurgia bariatrica di tipo gastroresettivo che si ottiene tagliando una parte dello stomaco, riducendone così il volume. Questa tecnica viene eseguita in anestesia generale e rimuove una percentuale elevata dello stomaco. Lo scopo consiste nel far raggiungere al paziente un rapido e duraturo senso di sazietà al fine di ridurre la quantità degli alimenti ingeriti. I vantaggi sono abbastanza evidenti e riguardano il calo ponderale a breve termine e la bassa percentuale di complicanze. Tale opzione terapeutica è scelta sempre più frequentemente nel nostro paese. È chiaro che coloro che intraprendono questa strada, decidendo di sottoporsi all’intervento, debbano seguire un adeguato regime dietetico pre e post operatorio. L’intervento di sleeve gastrectomy non è assolutamente indicato per i soggetti affetti da disturbo del comportamento alimentare. Con questa categoria di pazienti si deve lavorare e puntare in primis sulla prevenzione cercando di trasferire dei concetti apparentemente banali ma che sono alla base della buona riuscita dell’intervento. Corretta alimentazione, movimento e un approccio psicoterapico sono fondamentali per raggiungere dei risultati a lungo termine.

Il rispetto della “compliance” è precipuo per mantenere stabile il peso raggiunto non solo nell’arco dei primi tre anni dall’intervento ma anche successivamente. È evidente che chi si sottopone a questi interventi oltre a dover essere seguito sotto tutti i punti di vista, dovrà seguire una corretta alimentazione, assumendo i giusti introiti calorici, in modo da non commettere più gli stessi errori e non compromettere i risultati ottenuti.

In Italia, per gli aspiranti all’intervento di chirurgia bariatrica è obbligatoria una valutazione psicologica o psichiatrica [9]. La conoscenza psicologica dei pazienti candidati ad intervento di sleeve gastrectomy richiede un’anamnesi accurata che riguarda la loro storia pregressa circa eventuali possibili disturbi alimentari, il ricorso a diete che evidentemente non hanno dato i risultati sperati, esclusione di patologie tiroidee o legate al metabolismo, familiarità all’obesità. In ogni colloquio con i soggetti obesi si valuta il loro livello di autostima, la loro resilienza, le strategie che utilizzano per arginare un problema, le loro capacità di problem solving, eventuale comorbilità con altre patologie, messa in atto di comportamenti disfunzionali con annessa deresponsabilizzazione, resistenza al cambiamento e strategie di coping. I pazienti vengono adeguatamente informati durante il colloquio dell’iter pre e post operatorio e dello stile di vita che dovranno rispettare subito dopo l’intervento [10].

Gli aspetti positivi dell’intervento riguardano una evidente diminuzione ponderale e una regressione della comorbilità psichiatrica, con netto miglioramento dell’umore, evidente riduzione della fame e relazioni intime e personali più soddisfacenti.

Il non rispetto di determinate regole tra cui una corretta alimentazione, movimento e il ricorso alla psicoterapia possono inficiare il buon esito dell’intervento. Il successo dell’intervento bariatrico dipende da molteplici fattori ed è strettamente legato alle caratteristiche di personalità del soggetto, ad aspetti sociali, emotivi oltre che comportamentali. Sarebbe importante capire quali sono gli aspetti in cui il paziente è più carente o mostra maggiori fragilità sì da intervenire tempestivamente, al fine di un miglioramento concreto dopo l’intervento. Proprio per questo si fa ricorso a interventi mirati e personalizzati.

Ciò implica che, in un percorso di cura globale, l’intervento chirurgico vada inteso come una fase, centrale ma non esclusiva, nel trattamento dell’obesità. Un adeguato sostegno psicologico, pre e post operatorio, sono necessari per garantire e aumentare il successo a lungo termine di questo intervento e ridurre il rischio di recidive. Va ricordato come i tratti di personalità dei pazienti giochino un ruolo importante nel determinare l’esito nel trattamento dell’obesità. La terapia chirurgica non va intesa come la soluzione ideale per la maggior parte delle persone affette da obesità, ma è indicata per un sottogruppo di pazienti selezionati e altamente motivati.

1.4. La collaborazione con i familiari del paziente obeso

Il sostegno familiare è risultato efficace nell’adozione di comportamenti funzionali per creare un ambiente idoneo a facilitare il cambiamento nello stile di vita del paziente obeso. Può risultare opportuna la presa in carico dell’intero nucleo familiare. L’intervento può essere focalizzato ad aiutare il paziente a gestire le crisi, fornendo supporto emotivo, soprattutto laddove si presentino cambiamenti umorali. Inoltre, va indagata la storia clinica del paziente, per individuare le cause principali che lo spingono a rifugiarsi nel cibo. Problematiche di tipo relazionale o comportamenti alimentari scorretti appresi in ambito familiare sono spesso presenti. In molti casi, proprio per questi motivi, può essere consigliata una psicoterapia di tipo familiare. La famiglia che in passato può aver avuto un ruolo per determinare le crisi, se non addirittura favorirle, può divenire in seguito un punto di riferimento importante, nel momento in cui viene intrapreso un percorso comune. Laddove siano sciolti alcuni nodi relazionale, la famiglia può costituire un importante supporto nella cura del soggetto obeso. In tal caso, i familiari forniranno sostegno emotivo attivo anche attraverso la messa in discussione dei loro legami ed eviteranno qualsiasi forma di critica.

1.5. L’Obesità al tempo del Covid-19

 L’esperienza connessa alla recente pandemia causata dal Covid-19 ha favorito in molti l’insorgenza di disturbi psicologici di diversa entità. In taluni casi, ha esacerbato la sensazione di perdita di controllo sperimentata dai soggetti che soffrono di disturbi alimentari. La quarantena vissuta ha creato limitazioni di movimento e ha contribuito al mantenimento della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione attraverso diversi meccanismi tra cui: limitata possibilità di camminare, aumento dello stress, aumento delle preoccupazioni e delle situazioni di noia, maggiore esposizione a cibi presenti in casa favorendo e scatenando gli episodi di abbuffata. L’isolamento a casa ha aumentato l’isolamento sociale già vissuto da questi pazienti e ha creato un ulteriore ostacolo al miglioramento del funzionamento interpersonale. L’appoggio, il sostegno e la vicinanza dei familiari sono risultati fondamentali per tutto il percorso dei soggetti che dovranno sottoporsi alla sleeve. I legami e dunque le relazioni sane giocano un ruolo chiave nella buona riuscita dell’intervento in un intervallo di tempo molto più lungo.

Nelle persone con disturbi dell’alimentazione e altre comorbilità psichiatriche, la ruminazione, la preoccupazione e l’ansia legate alla pandemia e al virus, nello specifico, hanno accentuato la condizione preesistente di disagio che ha interagito negativamente con il disturbo alimentare [11].

Per affrontare tali problematiche e continuare ad offrire un supporto sono stati incrementati i trattamenti psicologici, utilizzando la tecnologia online; inoltre, diversi centri clinici hanno implementato servizi ambulatoriali e attività di sostegno in rete, a cui hanno partecipato le figure di riferimento più significative. Sono sorte anche iniziative promosse da gruppi di ex pazienti, anche per contrastare l’inevitabile forte rallentamento delle attività chirurgiche che vi è stato in questi mesi.

La ricerca

2.1 Obiettivo

L’UOSD di Psicologia Clinica è da anni impegnata nella valutazione dei pazienti candidati all’intervento di Sleeve Gastrectomy, presso l’AORN Ospedali dei Colli (Na) [12][13]. Abbiamo condotto uno studio longitudinale rivolto a tali pazienti afferenti tra gli anni 2015 e il 2018 per verificare:

  1. La percentuale di candidati che effettivamente si sottopone all’intervento
  2. La percentuale di pazienti che dopo l’intervento riesce a perdere peso e a mantenere il risultato nel tempo
  3. Quanto e come cambiano le abitudini alimentari e di vita dopo l’intervento
  4. Se viene intrapreso/associato un percorso psicologico.

2.2. Metodo e partecipanti

Ricorrendo ad un’intervista telefonica semi-strutturata, nei mesi compresi tra settembre e dicembre 2019, sono stati contattati circa 200 pazienti candidati all’intervento di gastrectomia parziale che avevano sostenuto sia il colloquio psicologico che psichiatrico nel periodo compreso tra il 2015 e il 2018, secondo le procedure adottate presso l’AORN Ospedali dei Colli (Na) [14].

Il nostro campione finale è di 102 pazienti che hanno acconsentito all’intervista telefonica.

2.3. Risultati e discussione

Il campione è composto da 102 pazienti candidati all’intervento di Sleeve Gastrectomy.

Il 73,5% è costituito da donne e il 26,5% da uomini, con un’età compresa tra 18 e 65 anni.  In particolare il 35% degli intervistati ha un’età compresa tra 36 e 45 anni, il 26% ha un’età compresa tra i 46 e 55 anni, il 22% tra i 26 e i 35 anni, il 9% tra i 18 e i 25 anni e il 7% tra i 56 e i 65 anni.

Il livello culturale è medio basso. Infatti, il 12% ha conseguito solo la licenza elementare senza completare gli studi dell’obbligo, il 51% dei pazienti ha conseguito la licenza media, il 30% ha conseguito un diploma di scuola superiore e solo il 7% la laurea.

Inoltre il 54 % dei partecipanti risulta disoccupato.

Sul totale dei soggetti candidati all’intervento di chirurgia bariatrica è emerso che il 76,5% dei pazienti si è effettivamente sottoposto all’intervento, di cui il 79,5% sono donne e il 20,5% uomini.

Il restante 23,5% dei pazienti ha rinunciato all’intervento, di cui 54,2% femmine e 45,8% maschi.

Di questo sottogruppo circa il 21% riferisce di essere riuscito a perdere peso autonomamente o rivolgendosi ad un nutrizionista.

Tabella 1. Pazienti sottoposti e non all’intervento di chirurgia bariatrica

Riferendoci da questo momento esclusivamente ai pazienti che si sono sottoposti all’intervento di sleeve, osserviamo come la totalità dei partecipanti riferisce di esser riuscita, dopo l’operazione, a perdere peso e a mantenere il risultato nel tempo. Nel valutare questo risultato, oggettivamente eclatante, va tenuto conto della percentuale molto elevata di persone che si sono rifiutate di sottoporsi all’intervista telefonica e che, per ipotesi, potrebbero essere meno soddisfatte dei risultati raggiunti.

In particolare, le donne partendo da un peso medio di 93 kg riferiscono di aver perso in media 52 kg (moda 50 kg; mediana 50 kg), riducendo del 42% il peso iniziale.

Gli uomini partendo da un peso medio di 149 kg affermano di esser dimagriti in media di 67 kg (moda 70 kg; mediana 78 kg), riducendo del 44% il peso iniziale.

Se prendiamo in considerazione la distanza temporale tra l’intervento e l’intervista osserviamo che:

  • nel 2015 è stato operato il 5,2% dei partecipanti alla ricerca di cui il 25% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 50% ha perso dai 41 ai 60 kg e il restante 25% dai 61 agli 80 kg.
  • nel 2016 si è sottoposto all’intervento il 32% dei partecipanti di cui l’8% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 52% dai 41 ai 60 kg, il 36% dai 61 agli 80 kg e il restante 4% più di 81 kg
  • nel 2017 é stato operato il 24,3% dei partecipanti di cui il 26% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 63% dai 41 ai 60 kg, il 5% dai 61 agli 80 kg e il restante 5% più di 81 kg
  • nel 2018 si è operato il 33,3% dei partecipanti di cui il 4% ha perso da 0 a 20 kg il 12% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 54% dai 41 ai 60 kg, il 23% dai 61 agli 80 kg e il restante 8% più di 81 kg
  • nel 2019 si è sottoposto all’intervento il restante il 5,2% dei partecipanti alla ricerca di cui il 50% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 25% ha perso dai 41 ai 60 kg e il restante 25% più di 81kg.

Tabella 2. Range di kg persi in base all’anno di intervento

Da quanto riferito, quindi, sembrerebbe che il calo ponderale rimanga abbastanza costante nei primi anni dopo l’intervento, sia pure con delle differenziazioni.

Abbiamo poi indagato se i nostri pazienti, dopo l’operazione, avessero modificato le loro abitudini alimentari e di vita. Il 41% dei pazienti afferma di aver cambiato le proprie abitudini alimentari e di prestare maggiore attenzione agli introiti calorici, il 55% sostiene invece di mangiare di meno ma senza prestare particolare attenzione al quantitativo calorico, solo il 4% dichiara di non aver modificato le abitudini precedenti.

Per mantenere nel tempo i risultati ottenuti, solo il 21% dei pazienti operati ha seguito un percorso nutrizionale, mentre il 79% ha preferito adottare un regime alimentare più corretto in modo autonomo.

In merito alle abitudini di vita l’86% dei pazienti ha modificato il proprio stile di vita, aumentando l’attività fisica e talvolta associando dello sport, il 5% ha modificate parzialmente le proprie abitudini, mente il 9% non ha cambiato le abitudini precedenti.

Riguardo al livello di soddisfazione dei soggetti che hanno portato a termine il percorso di chirurgia bariatrica, ben il 96% dei pazienti sottoposti ad intervento di Sleeve Gastrectomy risulta pienamente soddisfatto. Infatti, il 95% rifarebbe lo stesso trattamento.

Infine, solo l’1% dei pazienti del nostro campione ha accompagnato l’intervento chirurgico con un percorso psicologico.

Provando a commentare i risultati della nostra ricerca, pur con tutti i limiti metodologici, essi ci portano a fare delle riflessioni su una serie di aspetti riguardanti l’obesità e il ricorso alla chirurgia bariatrica come modalità di “risoluzione” del problema.

Dall’analisi del nostro campione emerge innanzitutto che non tutti i pazienti che iniziano un percorso finalizzato all’intervento di Sleeve Gastrectomy lo portano a termine. Nel nostro caso più del 20% dei soggetti candidati non si sono più operati, sia per difficoltà connesse al loro stato di salute, sia perché sono riusciti a perdere peso senza ricorrere alla chirurgia, sia per una motivazione troppo incerta. Non va escluso che anche i colloqui psicologici e psichiatrici possano aver giocato un ruolo, in questo sottogruppo, nel valutare in modo più approfondito la propria motivazione all’intervento.

L’aumento ponderale risulta fortemente determinato da un’alimentazione inadeguata e da uno stile di vita sedentario, non è da sottovalutare l’influenza dei fattori culturali legati al consumo di cibo, soprattutto in una regione del sud Italia come la Campania, in cui, soprattutto nel periodo della prima infanzia, è ancora diffusa l’errata convinzione secondo cui il mangiare tanto è “segno di salute”.

Anche i nostri dati documentano una forte associazione tra status socio-economico (livello scolare e occupazionale) e prevalenza dell’obesità, almeno considerando il gruppo di obesi che vede nell’intervento di chirurgia bariatrica la risoluzione più idonea; infatti il 51% dei partecipanti alla ricerca ha conseguito solo la licenza media e il 54% di loro risulta disoccupato (con media significativamete più basse della media della popolazione campana).

2.4 Conclusioni

Negli ultimi anni la Sleeve Gastrectomy si sta affermando come una delle procedure bariatriche più diffuse, grazie anche a seguiti programmi televisivi, ma anche più efficace per il trattamento dell’obesità. Tuttavia diversi studi confermano la validità dell’intervento e con esso i buoni risultati a breve e medio termine ma non ci danno informazioni certe a lungo termine circa la stabilità del peso raggiunto in un arco temporale più ampio.

Sebbene un limite del nostro studio sia quello di non aver indagato un arco temporale più ampio, in ogni caso è molto rilevante osservare come la totalità dei nostri pazienti afferma di aver perso peso in modo significativo dopo l’intervento e di essere riuscita a mantenere il risultato nel tempo, anche dopo 4 anni (i miglioramenti riferiti al comportamento alimentare e alla perdita di peso, appaiono evidenti nei primi due anni dall’intervento). I nostri risultati, pur limitati quantitativamente e metodologicamente, sono comunque sorprendenti. Noi sappiamo che da solo l’intervento chirurgico non è in grado di modificare lo stile di vita e che le aspettative di una magica rinascita sono spesso esagerate. I pazienti che decidono di intraprendere la strada della chirurgia bariatrica devono acquisire consapevolezza degli errori alimentari commessi e devono seguire un regime dietetico adeguato pre e post operatorio. Dovranno assumere una corretta educazione alimentare diventando “esperti” nella scelta degli alimenti e nel calcolo degli introiti calorici. Coloro che riescono a seguire un regime alimentare rigoroso, praticare esercizio fisico e modificare il proprio stile di vita, hanno maggiori possibilità di mantenere i risultati ottenuti anche nel lungo termine. Eppure, il 96% dei pazienti intervistati afferma di esser riuscito a modificare le proprie abitudini alimentari, nello specifico il 41% presta particolare attenzione agli introiti calorici, il 55% ha ridotto le razioni alimentari. L’86% dei partecipanti alla ricerca ha modificato radicalmente il proprio stile di vita dedicando del tempo anche all’esercizio fisico.

Il 96% dei pazienti sottoposti ad intervento di Sleeve Gastrectomy appare pienamente soddisfatto dell’intero percorso.

Tuttavia, va pure segnalato che appare veramente esigua la percentuale di pazienti che ha richiesto un supporto psicologico. Noi riteniamo che il ricorso ad un supporto psicologico pre e post operatorio, sia comunque importante per identificare quali specifici fattori siano rilevanti nel rapporto con il cibo per ciascun paziente, spostando in questo modo l’attenzione dal corpo alle più profonde dinamiche psicologiche.

Concludendo, la nostra indagine segnala in maniera chiara che la buona riuscita dell’intervento e il conseguente calo ponderale (dovuto alla riduzione dell’appetito e al maggior senso di controllo sul cibo), sortiscono effetti positivi sulla qualità di vita e sulla percezione dell’immagine corporea.

Resta ferma la nostra convinzione secondo cui è necessaria la presa in carico globale del paziente, dal punto di vista medico, nutrizionale e psicologico, al fine di garantire il successo a lungo termine dei risultati ottenuti con il ricorso alla Sleeve Gastrectomy.

 

Fumare ti calma? Uno sguardo alla relazione tra ansia e fumo di sigaretta

I dati epidemiologici su larga scala indicano che gli individui con un disturbo d’ansia o elevati sintomi legati all’ansia hanno una probabilità significativamente maggiore di fumare sigarette e una minor probabilità di smettere

 

L’ansia è una delle condizioni di salute mentale più comuni a livello globale e ad essa è spesso associato il fumo di sigaretta. I dati epidemiologici su larga scala indicano che gli individui con un disturbo d’ansia o elevati sintomi legati all’ansia hanno una probabilità significativamente maggiore di fumare sigarette e una minor probabilità di smettere rispetto a quelli a coloro che non esperiscono sintomi ansiosi (Bandelow et al., 2015; Moylan et al., 2012; Piper et al., 2010). A conferma di ciò, alcuni studi mostrano che il 37.8% dei fumatori soddisfa i criteri diagnostici per un disturbo d’ansia, rispetto al 21.3% dei fumatori che non presentano un disturbo di salute mentale (Lawrence et al., 2010). Inoltre, i tabagisti con ansia mostrano tassi di abbandono del fumo più bassi rispetto ai fumatori della popolazione generale (Lasser et al., 2000). Di conseguenza, i fumatori con ansia presentano una quantità sproporzionata di malattie e disabilità legate al tabacco (Grant et al., 2004; Williams et al., 2013).

La robusta evidenza empirica e teorica della relazione tra ansia e fumo ha incoraggiato una proliferazione della ricerca sull’argomento (Tidey et al., 2015; Leventhal & Zvolensky, 2015). La revisione di Garey e colleghi ha sintetizzato queste evidenze, facendo un sunto della panoramica narrativa delle ricerche più importanti, significative e recenti sul relazione tra l’ansia e il fumo di sigaretta (Garey et al., 2020). I risultati degli studi hanno confermato che coloro che soffrono di ansia hanno maggiori probabilità di essere fumatori, evidenziando un alto tasso di co-occorrenza tra queste condizioni. In particolare, è stato trovato un supporto transculturale per questa associazione. La maggiore prevalenza di fumo tra gli individui con ansia è piuttosto allarmante considerando i sostanziali fattori di rischio sociali, psicologici e medici associati a ciascuna condizione (Bandelow et al., 2015; Leventhal & Zvolensky, 2015; Jiang et al., 2014).

Sono stati proposti diversi modelli teorici per spiegare l’alto tasso di co-occorrenza tra sintomi e disturbi d’ansia e fumo (Morrisette et al., 2007). Uno dei modelli più solidi è il modello di rinforzo negativo della dipendenza (Baker et al., 2004). Questo modello postula che l’autosomministrazione di una sostanza (in questo caso, la nicotina) sia condizionata dalla misura in cui essa serve a terminare o mitigare un evento avverso (per esempio, i sintomi dell’ansia) (Baker et al., 2004). Dato che la nicotina produce effetti ansiolitici acuti (Morrisette et al., 2007, Pomerlau et al., 1994) i fumatori che sperimentano sintomi di ansia elevati sono più inclini a usare il fumo come mezzo per regolare il loro umore (Morrell and Cohen, 2006). Quando questi individui diventano ancor più dipendenti dalla nicotina, possono usarla non solo per mitigare i fattori di stress quotidiani, ma anche in risposta ai sintomi di assuefazione alla nicotina (Baker et al., 2004). Tale associazione rinforzata negativamente crea un ciclo che consolida la relazione tra ansia e fumo, portando a un peggioramento dei sintomi legati all’ansia nel tempo attraverso l’astinenza e/o le conseguenze fisiche sulla salute che si sviluppano con il fumo. Ciò si può tradurre in una più grave dipendenza da nicotina (Piper et al., 2011; Breslau et al., 1992).

Sulla base di tali evidenze, sarebbe auspicabile che clinici e ricercatori considerino l’alto tasso di co-occorrenza tra queste condizioni (Zvolensky et al., 2005). Infatti, è probabile che attraverso l’integrazione di queste conoscenze in un protocollo unificato per il trattamento dell’ansia e del tabagismo si ottengano esiti più favorevoli in terapia (Tidey et al., 2015). Inoltre, mentre la revisione di Garey si è concentrata sull’ansia come fattore di rischio per la dipendenza da fumo di sigaretta, ci sono notevoli prove che il fumo rappresenti un fattore di rischio per un peggioramento dell’ansia (Bakhshaie et al., 2016); quindi, sarebbe importante che la ricerca studi il fondamento biologico di queste relazioni fornendo maggiore chiarezza in merito.

In attesa di ulteriori ricerche sul tema, è bene tener presente la stretta connessione tra sintomi ansiosi e dipendenza da nicotina, concependo questa relazione come un ciclo a due fattori che si alimentano a vicenda. Per questo motivo, sarebbe importante che gli interventi con soggetti che presentano queste due problematiche in comorbilità tengano conto di entrambe le componenti per massimizzare i risultati dei trattamenti.

Come gestire lo stress da Covid-19 (2021) di Laura Pisciotto – Recensione del libro

Come gestire lo stress da Covid-19 è un manuale di auto aiuto scritto da Laura Pisciotto, giovane psicologa siciliana ed istruttrice di Mindfulness.

 

La pandemia da Covid-19 ha fatto crescere il disagio mentale in tutto il mondo. Come evidenziato da Ghebreyeus T.D., direttore generale dell’OMS, in un editoriale pubblicato da World Psichiatry, esiste il rischio che si verifichi un’ondata di disturbi da stress post-traumatico nella popolazione (Tedros Adhanom Ghebreyesus, 2020). Lo stress da pandemia è generato da varie preoccupazioni legate alla salute, all’isolamento, ma anche al cambiamento delle abitudini di vita ed al timore di un peggioramento del proprio status socio-economico.

Generalmente, quando si verificano delle epidemie, gli interventi di soccorso vengono organizzati con una attenzione, quasi esclusiva, per la tutela della salute fisica. La società contemporanea sta tentando di compiere un passo avanti occupandosi del disagio psichico che, condizioni straordinarie, come quelle legate all’infezione da Covid-19, generano.

Il libro scritto dalla dottoressa Pisciotto è una testimonianza del cambiamento necessario, in questo momento storico, rispetto al tipo di azioni da mettere in atto per una tutela della salute intesa in senso globale.

La guida, di poche pagine, è una pubblicazione indipendente che utilizza per lo più un font caratterizzato da interlinee e spaziature più ampie del normale, inoltre le illustrazioni e gli schemi non interrompono le righe del testo favorendone una facile leggibilità. L’autrice propone una serie di esercizi di respirazione basati sulle tecniche della Mindfulness, particolarmente adatte al trattamento del disturbo da stress post-traumatico. Mindfulness è un termine inglese che significa consapevolezza intesa nel senso espresso dall’incipit di questo manuale di auto aiuto:

La guida ha l’obiettivo di aiutarti a disattivare il pilota automatico e iniziare a vivere più consapevolmente nel qui e ora, senza le angosce del passato o le ansie del futuro.

Gli esercizi proposti si rivelano efficaci se effettuati per un periodo di almeno tre settimane, inoltre occorrerà monitorare, attraverso la compilazione giornaliera di un diario, le sensazioni ed le emozioni provate.

In un’intervista rilasciata a telesudweb la dottoressa Pisciotto ha chiarito come il suo libro abbia come obiettivo, non quello di proporre tecniche di rilassamento, ma quello di raggiungere l’accettazione di ciò che attualmente si sta vivendo. La giovane autrice, in quest’occasione, descrive la pandemia come una bolla, all’interno della quale tutti ci troviamo, non possiamo modificarla ma possiamo e dobbiamo chiederci come ci sentiamo, quali sono le nostre emozioni  e cosa possiamo fare per accettarla, pur rimanendo al suo interno.

Il Dilemma della Gazzella

In Italia si stima che 2,8 milioni di persone sono affette da un problema di depressione cioè il 5,4% della popolazione adulta, la metà di questi casi è associato ad un problema di ansia cronica grave che interessa 2,2 milioni di cittadini sopra i 15 anni, cioè il 4,2% della popolazione.

 

 L’ultimo rapporto ISTAT sulla salute mentale riporta che solo il 15% della popolazione adulta con disturbo depressivo o di ansia cronica grave si è rivolta allo psicologo (Rapporto sulla Salute Mentale, 2018).

La domanda: come si comporta il restante 85%?

Cresce il ricorso a professioni non riconosciute e afferenti all’area psicologica:

Tale crescita avviene nonostante la credibilità e autorevolezza riconosciute a psicologi e psicoterapeuti è nettamente superiore a quelle riferite a professioni non riconosciute e afferenti all’area psicologica quali counselor, motivatori e life coach, ecc… Allo psicologo psicoterapeuta vengono attribuite capacità di “equilibrare” (57%), “curare” (49%), “guarire” (48%) e “migliorare” (44%) ben più alte che a figure quali Counselor (22%, 9%, 9%, 23%), Life Coach (21%, 10%, 10% e 34%) e Motivatore (23%, 11%, 13% e 40%) (Indagine di Mercato sulla Psicologia Professionale in Italia, 2016).

Cresce l’interesse per le discipline orientali o trascendentali:

Si stima che oggi lo yoga in Italia sia praticato da oltre 2 milioni di persone. Gli istituti che insegnano yoga – in una delle sue innumerevoli declinazioni (Viniyoga, Hatha, Ashtanga, Vinyasa, Bikram e così via) – sono circa 2.000, numero raddoppiato negli ultimi 10 anni (Yoga, una passione per 2,5 milioni di italiani, 20 Giugno 2019).

Cresce l’interesse per l’occultismo:

Ad oggi sono circa 13 milioni i cittadini italiani che ogni anno si rivolgono a maghi, astrologi, cartomanti e veggenti, oltre 3 milioni in più rispetto al 2001 (Occultismo: ogni anno 13 milioni di italiani consultano maghi e veggenti, 1 Ottobre 2017).

Cresce il consumo di farmaci antidepressivi o ansiolitici:

La media italiana di persone che assumono una dose giornaliera di antidepressivi è pari a 39,87 ogni mille persone. Il dato è in forte crescita rispetto a quello del 2006 quando era 30,08 con un aumento, quindi, del 32,5%.  Per quanto riguarda gli ansiolitici nel 2020 c’è stato un aumento dell’acquisto di ansiolitici pari al +12% (Uso dei farmaci in Italia Rapporto Nazionale, 2019).

Quali sono i bisogni ignorati dalla psicologia?

 La percezione della popolazione è che la psicologia/psicoterapia si occupi esclusivamente di malattie e non del male di vivere o di dolori esistenziali. Ed ecco che la conseguenza di tale ragionamento si manifesta nella convinzione che la figura dello psicologo/psicoterapeuta intervenga in una situazione di malessere e si prenda cura di un danno, mentre per risolvere problemi della sfera esistenziale e sentimentale o legati ad una sfera più ampia di benessere psico/fisico o dell’anima, è necessario rivolgersi altrove (Indagine di Mercato sulla Psicologia Professionale in Italia, 2016).

Se il disagio mentale è percepito come una malattia, si sceglie di curarlo attraverso lo strumento che più di tutti identifica la cura: il farmaco. Il medico diventa quindi colui che prescrive la cura: nessuna relazione diviene necessaria.

Se il malessere è percepito come esistenziale, sentimentale o comunque trascendente rispetto alle categorie della scienza, si preferiscono le discipline orientali, l’occultismo, le discipline pseudo psicologiche, ecc… prediligendo un approccio più olistico, carismatico, legato a una dimensione di fascinazione e mistero.

In conclusione la tesi di questo articolo è che le neuroscienze, la neurobiologia e il sempre crescente bisogno della psicologia di attenersi al metodo scientifico finirà inevitabilmente per escludere dal proprio campo di azione quell’universo di senso non misurabile e trascendente che indubbiamente caratterizza l’uomo e la relazione tra essere umani.

La sacralità del rito soggettivo ed esclusivo della relazione tra persone si trasformerà esclusivamente in un processo medico in cui il terapeuta cura il disagio attraverso protocolli a marchio registrato in una continua ed inesorabile materializzazione della dimensione mentale.

Qui non si contesta l’efficacia delle neuroscienze, che dimostrano di avere un potenziale enorme in molteplici campi applicativi, ma di certo tale approccio non risponde a quel bisogno di trascendenza e di senso che di fatto l’essere umano ricerca in ogni forma di relazione.

 

La depressione secondo le neuroscienze affettive

In tema di depressione, le neuroscienze si sono a lungo concentrate sui correlati fisiologici e sulle cause del comportamento depressivo nei modelli animali.

 

L’oggetto principale di ricerca degli ultimi trent’anni (anche se non certo l’unico) è stato quello della deplezione della serotonina (Harro, Oreland, 2001), tuttavia è altresì noto come la riduzione o bassi livelli di serotonina nel cervello non provochino di per sé la depressione e tanto meno possa questa avere un ruolo specifico per l’umore depresso, in quanto si tratta di un modulatore che interviene in tutti gli umori, non solo in quelli depressivi (Delgado et al, 1990). Infatti i farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) vengono utilizzati non soltanto per la depressione, ma anche per una quantità di altri problemi emotivi come nel caso degli attacchi di panico o per il disturbo ossessivo-compulsivo, e per lo stesso motivo questi farmaci non funzionano per tutti i tipi di depressione. Perciò, molto più probabilmente i correlati delle sindromi depressive vanno cercati in profondità nei meccanismi cerebrali specifici che generano i sentimenti depressivi. La specificazione “I sintomi non sono meglio giustificati da lutto” all’interno del quadro diagnostico del Disturbo Depressivo Maggiore nel DSM-5 suggerisce che la depressione sia caratterizzata da un complesso di sentimenti che ricordano molto quelli associati al lutto, avendo sempre a che fare con una perdita. Numerosi studi hanno mostrato come tra i fattori predisponenti alla depressione ci siano esperienze di separazione precoci; lo stesso Bowlby ha sostenuto che nella maggior parte dei casi un primo episodio depressivo possa essere innescato da una perdita sociale.

Da una prospettiva evolutiva, le emozioni si sono conservate per compiere azioni specifiche in situazioni biologicamente significative e di sopravvivenza. I diversi tipi di affetti che possiamo sperimentare hanno lo scopo fondamentale di motivare l’organismo a promuovere la propria sopravvivenza e il successo riproduttivo. Nella teorizzazione di Jaak Panksepp, il sistema SEEKING – regolato da diversi neurotrasmettitori, ma in modo principale dalla dopamina – è quello che incoraggia i mammiferi ad interagire con l’ambiente: quando è attivo, spinge gli animali a soddisfare i propri bisogni ma anche a ricercare sempre nuove opportunità di gratificazione, a esplorare con curiosità ed eccitazione (Panksepp, 1982). Viceversa, la ipoattivazione di tale sistema sarebbe associata a sensazioni di vuoto, mancanza di speranza e di interesse. Le disfunzioni del sistema SEEKING influenzerebbero il funzionamento psicobiologico dei mammiferi e ciò comporta implicazioni significative per la psicopatologia umana. L’iperattività di questo sistema affettivo potrebbe riflettersi in comportamenti di dipendenza, così come la sua inibizione causerebbe una totale mancanza di piacere durante l’attivazione dei sistemi di ricompensa.

L’altro sistema fortemente coinvolto nella depressione secondo questo punto di vista è il PANIC/GRIEF, cioè quello dello stress da separazione, la cui attivazione è facilmente identificabile nei modelli animali grazie ad esempio alle distress vocalization. Bowlby ha descritto questi comportamenti come appartenenti a una fase di ‘protesta’ acuta a cui segue una ‘disperazione’ cronica, che probabilmente si è evoluta per proteggere l’animale isolato (spesso, un cucciolo allontanatosi dalla madre) dall’esaurimento metabolico o per distogliere l’attenzione dai predatori. In pratica, quando un legame sociale viene spezzato, per via di un lutto o di una separazione, l’individuo cerca disperatamente il ricongiungimento (protesta – attivazione sistema PANIC/GRIEF). Se ciò non è possibile, entra in gioco un secondo meccanismo, che attenua lo stress da separazione e porta il soggetto ad arrendersi (disperazione – disattivazione sistema SEEKING). Il sistema dello stress da separazione viene sensibilizzato dal rilascio di ormoni e peptidi come prolattina e ossitocina, e questo sarebbe probabilmente il motivo per cui nelle femmine i meccanismi che mediano l’attaccamento e la separazione sono molto più sensibili (sono soggette alla depressione quasi il doppio delle donne rispetto agli uomini). La cessazione della fase di protesta è determinata dalle dinorfine, che bloccano l’aumento di dopamina e in termini di comportamento, sostituiscono comportamenti positivi di estroversione con comportamenti negativi di ritiro. Questo stato di intorpidimento può, come dicevamo, essere indotto da una perdita reale o ideale, ma tutte culminano in quella configurazione neurodinamica e nella stessa esperienza soggettiva. Nelle indagini psicoanalitiche emerge spesso come la depressione comprenda sentimenti di rabbia, che in ogni caso vengono inibiti o internalizzati come meccanismi autopunitivi. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che la frustrazione del sistema SEEKING normalmente provoca risposte di rabbia (sistema RAGE). La speranza, il senso di fiducia vengono rimpiazzati da un attacco al sé. Alcuni individui sono in grado di reagire piuttosto bene alle perdite, mentre altri soccombono al dolore e alla depressione (Panksepp, 2004).

Il vantaggio in termini di sopravvivenza di questo meccanismo così doloroso sarebbe quello di incoraggiare la formazione di legami di attaccamento, in particolare con le figure di accudimento precoce – ma anche con partner, pari e gruppi sociali. Nel momento in cui questi legami siano indeboliti o persi del tutto, lo stesso meccanismo ci indurrebbe ad abbandonare le speranze di un ricongiungimento se i tentativi superano un certo tempo limite di sopportazione della sofferenza (Watt, Panksepp, 2009).

 

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