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Perfezionismo. Un approccio relazionale alla comprensione, alla valutazione e al trattamento (2020) di Paul L. Hewitt, Gordon L. Flett, Samuel F. Mikail – Recensione del libro

Il libro Perfezionismo offre una panoramica di varie teorie psicologiche su ciò che si cela dietro questo fenomeno per poi proseguire con la descrizione di come si sviluppa.

 

Frutto di oltre vent’anni di studi e ricerche sul perfezionismo, il testo di Paul L. Hewitt, Gordon L. Flett e Samuel F. Mikail, rappresenta a mio avviso, la stato dell’arte in tema di perfezionismo, che consente di addentrarci nei vari aspetti e tratti, nelle origini, nelle cause e nelle funzioni che lo stesso perfezionismo ha nella vita della persona, nei costi e vantaggi per lo stesso soggetto o per chi si relaziona ad esso. Gli autori ci descrivono il loro modello di concettualizzazione (Modello Comprensivo del Comportamento Perfezionistico, CMPB, e Modello della Disconnessione Sociale del Perfezionismo) e le relative indicazioni di trattamento.

Il testo, il cui titolo originale è Perfectionism. A Relational Approach to Conceptualization, Assessment, and Treatment, viene tradotto in italiano e realizzato grazie al supporto scientifico di Tages Onlus e pubblicato da Giovanni Fioriti Editori.

Il primo capitolo offre una panoramica storica dei contributi di varie teorie psicologiche tutte confluenti verso il considerare che ciò che si cela dietro al perfezionismo sia alla base un bisogno di nascondere, correggere e controllare aspetti di sé ritenuti e giudicati come imperfetti.

Segue poi la descrizione del Modello Comprensivo del Perfezionismo, dove il perfezionismo viene descritto come uno stile di personalità con diversi aspetti e sfumature, che opera su diversi livelli (motivazionali, cognitivi, emotivi, comportamentali, relazionali), distinguendone tre dimensioni di tratto:

  • Perfezionismo autodiretto, caratterizzato dal bisogno di essere perfetti agli occhi degli altri;
  • Perfezionismo eterodiretto, dove l’esigenza consistente nel percepire gli altri attorno a sé come perfetti, con relativi atteggiamenti ipercompetitivi, aspetti narcisistici;
  • Perfezionismo socialmente prescritto, (la perfezione che si pensa che venga pretesa dagli alti e soprattutto in specifici settori come ad esempio a lavoro).

Per ognuna della tre dimensioni, gli autori offrono un ricco approfondimento circa gli stili cognitivi, emotivi, comportamentali e relazionali accompagnati da casi clinici.

Ma come si sviluppa il perfezionismo?

Partendo dai diversi contributi teorici ad oggi presenti in letteratura, uniti a studi, approfondimenti e ricerche degli stessi autori del libro, lo sviluppo del perfezionismo viene spiegato mediante il Modello della Disconnessione Sociale del Perfezionismo (PSMD). All’interno del modello vengono individuate variabili correlate e spesso riscontrabili in persone in cui i tratti tendono ad essere esasperati, quali una marcata sensibilità presente sin da bambini, stili di attaccamento insicuro, esperienze traumatiche precoci, parenting autoritario o trascurante. In tal senso il perfezionismo viene considerato come una sorta di risposta a bisogno di attaccamento e bisogni relazionali insoddisfatti.

Ma le variabili, continuano ad argomentare gli autori, sono molteplici ed ogni persona è unica, pertanto il successo di una terapia consiste anche nell’adeguata comprensione del professionista circa il ruolo che il perfezionismo ha nella vita di quella specifica persona.

Segue nel capitolo settimo la trattazione dell’assessment psicodiagnostico, dove gli autori metteranno in luce ciò che dalla loro prospettiva diventano aspetti rilevanti da indagare a partire soprattutto da ciò che accade in seduta e all’interno della relazione terapeutica, accompagnata da suggerimenti circa strumenti da poter utilizzare durante tutto il processo terapeutico.

Appositi link riportati all’interno del manuale consentono di accedere a strumenti di assessment sviluppati dagli autori del testo e validati in lingua italiana da Cavalletti e Cheli.

L’ultima parte del testo approfondisce due protocolli di trattamento, condividendo con il lettore gli aspetti centrali della terapia individuale e della terapia di gruppo, proposta dagli autori secondo il loro modello dinamico-relazionale. Anche in questo caso vengono fornite ricche argomentazione degli aspetti sui quali si lavora, casi clinici appositamente diversi fra loro, dati attuali di efficacia proprio per non considerare il lavoro degli autori un punto di arrivo ma, come dicevo ad apertura, lo stato dell’arte di un lavoro ancora in crescita, che invita ad andare oltre il sintomo per accogliere la complessità della persona ed adattare la psicoterapia all’individuo e non il contrario.

Un manuale senza dubbio ricco ed interessante, completo ed accurato, utile per il professionista al di là del suo orientamento teorico di riferimento, fonte di riflessione ed ispirazione per la pratica clinica.

 

Psichiatria territoriale. Strumenti clinici e modelli organizzativi – Recensione

Il manuale Psichiatria territoriale mette a fuoco pregi e limiti dell’attuale modello organizzativo dei servizi della salute mentale per poi approfondirne l’organizzazione, occupandosi infine della descrizione delle diverse tecniche di intervento

 

Il libro Psichiatria territoriale. Strumenti clinici e modelli organizzativi affronta e risponde a quesiti importanti sullo stato attuale dell’intervento nell’ambito della salute mentale e su come migliorarne le pratiche e l’efficacia, soprattutto nell’ambito pubblico; esso fornisce tuttavia utili indicazioni anche per pratica clinica privata, sia per il suo potere informativo che formativo.

Disponendo di una bibliografia molto recente con puntuali e ampi riferimenti a esperienze nazionali e internazionali, a linee guida, a trattamenti evidence based (EBP) e soprattutto alla real world, il manuale si attesta nella letteratura scientifica come preziosissimo strumento e importante punto di riferimento.

La prima parte del manuale mette a fuoco pregi e limiti dell’attuale modello organizzativo dei servizi della salute mentale, basato sulla diagnosi e sugli interventi evidence based per la riduzione dei sintomi, sottolineano l’importanza di prestare attenzione anche a ciò che sembra più rilevante per i pazienti: risultati esistenziali, sociali e somatici, aspetti che riguardano la resilienza, la riabilitazione, la recovery. Specificamente, un capitolo è dedicato alla diagnosi e uno alla recovery dal punto di vista di vari approcci metodologici.

Tutto ciò richiede inedite iniziative su servizi nuovi, come un istituto di riabilitazione, il sostegno strutturale dei pari, l’assegnazione di alloggio, il collocamento e il sostegno individuale e il dialogo aperto, che potrebbero essere difficili da attuare negli SSM tradizionali.

La complessità costituisce la lente di lettura attraverso cui avviene la valutazione delle vecchie e nuove strategie di intervento, delle diagnosi e della recovery: un approccio e una analisi che fanno continuo riferimento tanto ai costrutti teorici quanto alla vita reale, con i rispettivi punti di forza e debolezza.

La seconda parte è dedicata all’organizzazione dei servizi della salute mentale in Italia, a confronto con il contesto europeo. Viene preso in esame il ruolo dei fattori sociali nella malattia mentale e le implicazioni per la prevenzione e per il trattamento. Nonostante la tendenza nella psichiatria moderna si orienti verso l’incremento degli interventi territoriali e la diminuzione dei ricoveri, la situazione italiana deve ancora affrontare alcuni punti critici che vengono presi in esame nel testo per poi proporre nuovi modelli possibili.

Viene anche individuata con chiarezza la necessità di innovazione rispetto alla misurazione dell’efficacia dei trattamenti: in luogo della check-list dei sintomi viene indicata l’opportunità di riferirsi a advocacy e recovery, connessione, ottimismo, identità personale, significato personale nella vita, empowerment, assunzione responsabile dei rischi e capacità di fronteggiare le sfide.

In questa prospettiva, viene dedicato un capitolo per l’organizzazione di ogni forma di servizio: DSM, servizi territoriali CSM, interventi riabilitativi sul territorio, SPDC e day hospital, REMS, salute mentale in carcere, con attenzione particolare alle raccomandazioni evidence based.

La terza parte del manuale si occupa della descrizione di diverse tecniche di intervento, introdotte dall’analisi del concetto di integrazione in medicina e psichiatria e dalla descrizione degli interventi psicosociali integrati evidence based e i loro outcome, in paragone con gli interventi singoli: con riferimento sia alla teoria che al mondo reale. Il testo espone i nuovi modelli di training delle abilità sociali per la schizofrenia.

Viene inoltre dedicato spazio alla Cognitive Remediation nelle sue più recenti forme, agli interventi psicoeducativi per le malattie mentali gravi (in particolare la schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo depressivo, disturbi gravi di personalità). Un ruolo importante nell’outcome dei disturbi mentali gravi è quello del clima familiare, per cui sono messi in luce diversi interventi di supporto per i familiari dei pazienti, con focus particolare sulla psicoeducazione.

Anche il concetto di integrazione in psicoterapia è descritto attraverso l’indicazione di alcuni criteri terapeutici ed organizzativi che possano essere utilizzati in maniera flessibile in diversi e specifici contesti: in tal senso vengono indicati gli ostacoli che possono insorgere.

Un capitolo è dedicato alla psicofarmacologia dal punto di vista dell’operatore, il quale si trova a valutare vari fattori nella scelta del farmaco in una prospettiva clinica eppure considerando anche gli aspetti organizzativi e gestionali.

Un argomento correlato trattato è la farmacoresistenza, con puntualizzazioni sui disturbi psicotici e depressivi. È inoltre presente una presentazione degli interventi non farmacologici di brain stimulation, dal punto di vista clinico e biologico.

Un altro tema importante cui viene dato spazio – sia in termini descrittivi che operativi – è la gestione dell’aggressività in ambito psichiatrico, con preziose indicazioni sulla prevenzione, tecniche di de-escalation e la tranquillizzazione.

L’integrazione degli interventi viene esemplificata nella quarta parte del manuale, con modelli di intervento per popolazioni speciali.

Sui disturbi dell’alimentazione viene presentato il quadro della ricerca attuale al riguardo, con le terapie consigliate dalle linee guida e sostenute dalla ricerca, i livelli di assistenza in Italia, nonché le problematiche riscontrate nel nostro paese e alcune proposte di miglioramento dei servizi.

Viene affrontato anche il concetto di “doppia diagnosi”, con esemplificazioni delle doppie diagnosi più riscontrate e un excursus sulle psicosi da sostanze. Altri argomenti trattati sono gli stati mentali a rischio, gli esordi psicotici in preadolescenza e adolescenza e l’organizzazione di un servizio per tali esordi psicotici, gli aspetti specifici dell’intervento sui migranti e rifugiati, gli elementi di base per l’ascolto di persone LGBT, i disturbi severi di personalità, il disturbo da accumulo, il disturbo ossessivo compulsivo, l’ADHD nell’adulto.

Troviamo inoltre utili chiarimenti sull’argomento delle emergenze epidemiche/calamità naturali, con la descrizione dei servizi e tecniche di intervento specifiche.

L’ultima parte del libro è dedicata al lavoro in team introducendolo dapprima come teoria – con riferimenti alla teoria dei giochi e alla leadership generativa – per poi scendere sul campo e presentare aspetti concreti dell’interazione complessa tra i servizi psichiatrici e altre agenzie territoriali.

Un capitolo viene dedicato anche alla sicurezza delle cure in psichiatria, con riferimento alla legge Gelli-Bianco e le sue implicazioni operative.

Gli ultimi capitoli ci illustrano le nuove sfide della psichiatria in ambito computazionale, l’utilizzo/implementazione delle applicazioni digitali e della realtà virtuale in ambito psichiatrico.

Il libro contiene molti schemi sintetici che facilitano la comprensione e aiutano ad avere uno sguardo anche panoramico, oltre che analitico.

Consiglierei vivamente Psichiatria territoriale. Strumenti clinici e modelli organizzativi a tutti i professionisti della salute mentale nel loro aggiornarsi a livello tanto teorico quanto nelle metodologie e nelle pratiche di approccio alle varie specifiche casistiche.

 

Food addiction: analogie e differenze tra i disturbi da addiction e gli episodi di binge-eating

L’espressione food addiction ha raggiunto negli ultimi anni una significativa diffusione mediatica, generando una conseguente proliferazione di dibattiti nella comunità scientifica circa la validità e l’utilità clinica di tale dicitura e concettualizzazione.

 

 Nonostante siano evidenti e dimostrabili analogie tra gli episodi di binge-eating e la fenomenologia dei disturbi da addiction; vi sono anche delle differenze intrinseche significative, riguardanti: psicopatologia, epidemiologia e fattori di rischio (Dalle Grave, 2019). La prima comparsa in letteratura del concetto di food addiction risale al 1890 (Meule, 2015), con riferimento al consumo di cioccolata; l’espressione è stata, però, ufficialmente coniata dal ricercatore americano Theron Randolph per descrivere il consumo, analogo alla dipendenza pura, di alimenti quali: caffè, latte e patate (Randolph, 1956).

Tale concettualizzazione si è concretizzata nel modello della food addiction i cui sostenitori ritengono che alimenti processati, colmi di grassi e zuccheri, siano caratterizzati da proprietà che potrebbero innescare il meccanismo della dipendenza, in soggetti biologicamente più vulnerabili (Schulte, Avena, & Gearhardt, 2015). Negli ultimi anni è stata postulata l’ipotesi secondo cui tali alimenti possano assumere la valenza di trigger circa l’esordio della psicopatologia alimentare (Treasure, Leslie, Chami, & Fernandez-Aranda, 2018). Oggigiorno permane un disaccordo intrinseco anche nei sostenitori del modello stesso della food addiction: chi ritiene che si tratti di una dipendenza da sostanza, in maniera analoga ai canonici disturbi da uso di sostanze e chi sostiene l’ipotesi di una dipendenza comportamentale, come ad esempio il gioco d’azzardo. Altri autori ribadiscono la scarsità dell’evidenza scientifica sulle proprietà di dipendenza intrinseche nei cibi, motivo per cui hanno proposto una nuova dicitura: eating addiction (Hebebrand et al., 2014). Per favorire maggiore chiarezza sul confine di demarcazione tra episodi di abbuffata e disturbo da uso di sostanze, vengono di seguito riportate le relative analogie e differenze. Le similitudini: il craving (desiderio propulsivo e inarrestabile di ricercare la sostanza), la sensazione di perdita di controllo, la preoccupazione per il comportamento attuato, la finalità immunizzante dell’atto, il tentativo di mantenere segretezza a riguardo, la persistenza del comportamento nonostante le conseguenze avverse e infine i ricorsivi tentativi fallaci di eliminare il comportamento problema (Fairburn, 2013).

Risulta, però, opportuno rivolgere il focus attentivo sulle altrettante divergenze tra i due fenomeni:

  1. Gli episodi di abbuffata non implicano necessariamente il consumo di categorie specifiche di alimenti e l’elemento discriminante, in termini diagnostici per definire un episodio di abbuffata, non è la qualità del cibo, bensì la quantità e il tempismo (Wilson, 2010).
  2. Gli individui con disturbi dell’alimentazione hanno una spinta repulsiva ad evitare gli episodi di abbuffata, a differenza di quelli con disturbo da addiction che devono essere motivati a resistere all’assunzione della sostanza (Fairburn, 2013).
  3. Gli individui soggetti ad abbuffate sono spesso vittime del circolo restrizione-abbuffata che inevitabilmente li rende più vulnerabili a cedere all’impulso (Fairburn, 2013), contrariamente al disturbo da uso di sostanze che non prevede una maggiore vulnerabilità all’abuso della sostanza quando si cerca di evitarla (Benton, 2010).
  4. L’eziologia del disturbo da binge-eating è multifattoriale: caratterizzata dall’interrelazione tra fattori di rischio biopsicosociali e ambientali, dunque non esclusivamente connessa alla malnutrizione (Fairburn et al., 1998).

 La relazione tra uso di sostanze ed episodi di abbuffata non è, dunque, propriamente specifica (Wilson, 2010): sebbene sia stato osservato che l’età di insorgenza della psicopatologia alimentare sia antecedente a quella dei disturbi da addiction; i dati epidemiologici indicano che i pazienti che riducono gli episodi di binge-eating non li sostituiscono con l’abuso alcolico o con altre sostanze stupefacenti (Karacic et al., 2011). Sostenere, dunque, i modelli di food addiction o eating addiction in toto risulterebbe inappropriato e impreciso, in quanto renderebbe il concetto di addiction riduttivo e onnicomprensivo; in quanto applicabile a qualunque manifestazione di comportamento ricorsivo caratterizzato da una ricerca costante; come ad esempio l’attività sessuale. In conclusione è fondamentale ribadire che, nonostante venga escluso il modello della food addiction nell’eziologia della psicopatologia alimentare, è comunque raccomandabile l’implementazione di interventi di natura preventiva, che possano favorire l’adozione di un’alimentazione salutare, cercando di ridurre al minimo la sedentarietà e il consumo massivo di cibi processati (Dalle Grave, 2019).

 

Psicopandemiano: diario emotivo di una psiche in pandemia (2021) di Umberto Maria Cianciolo – Recensione del libro

Psicopandemiano: diario emotivo di una psiche in pandemia ha l’obiettivo di parlare attraverso il linguaggio delle emozioni, come si evince dal titolo e dall’indice stesso. I capitoli, infatti, prendono infatti i nomi delle emozioni primarie: Rabbia e Paura, Tristezza e Gioia, Sorpresa e Attesa, Disgusto e Accettazione.

 

 Psicopandemiano: diario emotivo di una psiche in pandemia è la prima opera di Umberto Maria Cianciolo. Umberto, dopo aver completato brillantemente il ciclo di studi previsto nella lunga strada per diventare psicologo, si trova ormai a metà dell’ultima, decisiva tappa che lo separa dalla meta: il tirocinio professionalizzante, obbligatorio per ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione.

Come per molti, tuttavia, questo importante rito di passaggio non è come lo aveva immaginato (ma come prevederlo, d’altronde?), in quanto capitato nel bel mezzo di quella che, a pieno diritto, possiamo definire la peggiore crisi sanitaria del XXI secolo: un virus, che corre all’impazzata in qualsiasi parte del globo, miete incessantemente vittime e sradica dalle nostre vite tutto ciò che abbiamo creduto più stabile e, spesso, scontato.

L’intento dell’Autore, con il suo scritto, si focalizza proprio su quest’ultimo punto, nel processo della decostruzione della vita così come l’abbiamo vissuta fino ad ora; non lo fa, tuttavia, stando seduto sull’elevato scranno di Colui che Sa, ma dalla più umile sediolina di Colui che Impara. Umberto, infatti, si è dovuto misurare, purtroppo, con la nemesi di quest’anno, il “SARS-CoV-2”, ormai amichevolmente chiamato “Coronavirus”.

Sradicato dai suoi affetti più cari, con i quali, pur sotto lo stesso tetto, comunicava attraverso lo schermo del telefono, l’Autore ha deciso di inforcare una penna e farsi conoscere dal nemico che aveva deciso di abitare il suo corpo a suon di riflessioni, nella forma di un diario.

Ciò che si può apprendere prima dal titolo e poi dall’indice stesso è l’obiettivo di parlare attraverso il linguaggio delle emozioni. I capitoli del diario prendono infatti i nomi delle emozioni primarie, come individuate dallo psicologo Plutchik (1980) Rabbia e Paura, Tristezza e Gioia, Sorpresa e Attesa, Disgusto e Accettazione. La scelta, come si può immaginare, non è casuale: il nostro Paese – ma la nostra epoca tutta, d’altronde – sembra essere particolarmente analfabeta nella grammatica delle emozioni, che tende a declassare o a sottovalutare come entità poco concrete o, quantomeno, poco influenti nelle questioni “serie”. Tutt’altro che concrete o poco serie, le emozioni dominano la nostra stessa materia grigia da parte a parte: una su tutti, si pensi all’amigdala, piccola struttura nelle profondità del nostro cervello, gestisce gran parte del traffico emotivo sulle corsie di neuroni dell’encefalo. Si può dire che nulla sfugga al suo sguardo: l’amigdala è, infatti, la nostra fonte di apprendimento emotivo, classicamente attraverso la paura. Il necessario bisogno di questa funzione risulta evidente quando manca: che ne sarebbe di noi, se non provassimo paura davanti, per esempio, a un orso che carica verso di noi? Abbiamo appreso da molte notizie di cronaca la pericolosa tendenza di gruppi di “No-Mask” e “No-Vax” a fare come se nulla succedesse, come se tutto fosse rimasto uguale a prima. La mancanza di paura ci renderebbe un buon banchetto per orsi.

Se questo solo non basta a rendere le emozioni importanti e interessanti: gli studi di Ekman e Friesen (1971) hanno dimostrato che tutti condividiamo un set unico di emozioni a cui sono collegate determinate espressioni facciali. Queste, a loro volta, hanno avuto e hanno una cruciale funzione per la comunicazione. Risulta, allora, più profonda la scelta dell’Autore: non importa chi o dove tu sia, se leggerai la parola “rabbia”, saprai come mi sono sentito e riusciremo a capirci. Noi nasciamo con le emozioni e nelle emozioni: Stern (1998), voce eminente all’interno dell’Infant Research, che studia le dinamiche in gioco nello sviluppo psichico del bambino, sottolineava con forza l’importanza di una sintonizzazione affettiva tra i genitori e i propri bambini, in uno scambio di emozioni connotate da vitalità: solo in questo modo il bambino ha modo di capire che ciò che sente dentro di sé e dentro gli altri è vivo e va valorizzato. E sulla base di questa vitalità, di questa vita interna che abita il nostro corpo e gli dà senso, noi significhiamo il mondo, lo raccontiamo agli altri e a noi stessi.

Una connessione del tutto peculiare e personale, frutto di un vortice che coinvolge gli elementi prima elencati. Un vortice sinestetico che mescola, mette insieme e amalgama esperienze passate e aspettative future, rabbia e felicità, tristezza ed euforia, pensieri e dati di fatto. Un vortice che alla fine risulta in un significato, in delle coordinate specifiche e ordinate. (Sinestesia del presente, cap. 7, pag. 42).

 In cosa, dunque, differisce Umberto Cianciolo dalla pletora di suoi coetanei, anche colleghi, nel parlare di questo periodo? Nell’ascolto. L’evento pandemico ha fatto calare sul mondo un grande silenzio, che si è scoperto essere mal tollerato, temuto, scansato; questo silenzio è stato, per un anno, riempito parossisticamente di parole che, in fin dei conti, si sono rivelate vacue, limitate e limitanti. L’Autore, invece, è stato al gioco del silenzio, scoprendone la grande potenzialità trasformativa.

Tristezza e ascolto si comportano in modo curioso, sono necessarie l’una all’altra. Quando siamo tristi, abbiamo bisogno di qualcuno che ci ascolti. Una persona a noi cara, uno sconosciuto, una figura di riferimento e anche noi stessi. Sì, quando siamo tristi abbiamo bisogno di essere ascoltati, anche da noi stessi. (La Tristezza della consapevolezza, cap. 3, pag. 23).

Nel concludere, emerge chiaramente un concetto che, sebbene non esplicitato dall’Autore stesso, prende forma pagina dopo pagina: l’integrità fisica che il mondo si sta ponendo – giustamente – come unico obiettivo, non sarà mai totale se la sua componente psichica non viene ugualmente “immunizzata”. Già Seneca, vissuto nel I secolo dopo Cristo, scriveva all’amico Lucilio “Non vivere bonum est, sed bene vivere”, tradotto: “non è un bene vivere [a lungo], ma vivere bene” (Epistulae ad Lucilium, 40, 4). Va fatta, allora, una riflessione provocatoria, le cui conclusioni possono farci capire se in quest’anno abbiamo fatto davvero passi in avanti rispetto a quanto detto sulla salute psichica: Umberto Cianciolo è un giovane psicologo, che attraverso lo studio ha avuto il modo di ricavare quegli strumenti utili per imparare a conoscersi meglio e a “leggere” determinate situazioni; grazie a ciò, Umberto è riuscito ad adattarsi ai rapidissimi e allarmanti cambiamenti della nostra realtà quotidiana, affrontando con ottimismo e fiducia il futuro, per se stesso e, soprattutto, per chi ama. Ha, alla fine, superato la logorante sfida della quarantena, del confinamento tra quattro strette mura; da ciò è derivato questo scritto, la testimonianza della sua ripresa e del suo cambiamento.

Adesso, la domanda è: di quanti si potrà raccontare questo percorso con lieto fine? Quanti avranno modo di “costruire” sulle macerie di quest’anno, come ha fatto l’Autore?

 

Terapia cognitivo comportamentale potenziata (CBT-E) e la sua efficacia nel trattamento dell’anoressia nervosa

Il presente articolo ha lo scopo di definire cosa sia la Terapia Cognitivo Comportamentale Potenziata (CBT-E) e la sua applicazione nel trattamento dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, per maggiore chiarezza verrà preso in esame uno specifico disturbo, l’Anoressia Nervosa (AN). 

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale Potenziata (CBT-E)

La CBT-E affonda le sue radici nella CBT-BN, ovvero la Terapia Cognitivo Comportamentale specificatamente indirizzata al trattamento della Bulimia Nervosa (Fairburn, Marcus, & Wilson, 1993). Il trattamento è stato originariamente progettato per essere somministrato in ambiente ambulatoriale (Fairburn et al., 1993) e al suo interno è previsto anche un protocollo finalizzato al trattamento del Binge Eating Disorder (BED) per gli individui affetti da obesità (Fairburn et al., 2003).

La teoria transdiagnostica riconosce che ci sono elementi condivisi tra i disturbi alimentari, vale a dire la sopravvalutazione del peso e della forma, la restrizione alimentare e diversi processi di mantenimento (Fairburn et al., 2003). Inoltre possono essere presenti alcune variabili aggiuntive allo specifico disturbo alimentare che potrebbero interagire con la psicopatologia di base andando a creare ulteriori ostacoli al cambiamento: perfezionismo clinico, bassa autostima, difficoltà interpersonali e intolleranza dell’umore (Fairburn et al., 2003). Il razionale alla base della CBT-E ipotizza che affrontare questi fattori aggiuntivi si tradurrà in una percentuale maggiore di pazienti che risponderanno meglio al trattamento.

L’intervento psicoterapeutico CBT-E ha i seguenti tre obiettivi principali: (1) rimuovere la psicopatologia del disturbo alimentare (alimentazione disturbata, peso insufficiente, comportamenti estremi di controllo del peso e preoccupazioni su alimentazione, forma e peso); (2) correggere i meccanismi che hanno mantenuto la psicopatologia specificata nella formulazione del caso del paziente; (3) assicurare che i cambiamenti siano duraturi nel tempo (Fairburn, 2008).

Secondo il protocollo sono raccomandate 20 sessioni di trattamento per le persone con un indice di massa corporea (BMI) di 17,5 kg / m2 e superiore, in caso questo dato fosse inferiore a quanto indicato, vengono raccomandate 40 sessioni (Fairburn, 2008).

La CBT-E si articola in 3 fasi principali: la fase iniziale ha l’obiettivo di coinvolgere i pazienti e di aiutarli a prendere la decisione di riprendere peso, affrontando la psicopatologia del disturbo alimentare (Frostad et al., 2018). La seconda fase si concentra sul raggiungimento del recupero del peso e allo stesso tempo si rivolge ai meccanismi chiave che mantengono la psicopatologia del disturbo alimentare. L’obiettivo è aiutare i pazienti a raggiungere un peso corporeo che possa essere mantenuto senza restrizioni dietetiche, con conseguentemente miglioramento della qualità di vita, anche sociale (Frostad et al., 2018). La terza ed ultima fase si concentra sull’aiutare i pazienti a mantenere il proprio peso. L’obiettivo è garantire che i progressi siano mantenuti e che il rischio di ricaduta sia ridotto al minimo (Frostad et al., 2018).

Introduzione DCA

I Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione sono definiti come patologie caratterizzate da un persistente disturbo dell’alimentazione o da comportamenti collegati ad essa, che generano un alterato consumo o assorbimento di cibo, compromettendo varie aree della vita delle persone che ne soffrono (APA, 2013). Tali individui sarebbero caratterizzati a livello cognitivo da perfezionismo patologico, una bassa autostima, da un senso di responsabilità eccessivo e da rimugino (Vitousek & Hollon, 1990; Rachman & Shafran, 1999). Attualmente, la società odierna sta vivendo un aumento elevato di tali disturbi, soprattutto nei paesi occidentali, in particolare per quanto concerne l’Anoressia Nervosa e la Bulimia Nervosa. I soggetti che maggiormente manifestano tali disturbi sono giovani donne, caratterizzate da uno standard socio-economico elevato, e influenzate dal livello socioculturale e dalla trasformazione industriale di tali paesi (Gabbard, 1994).

Anoressia Nervosa

L’Anoressia Nervosa è stata definita uno dei disturbi psichiatrici più difficile da trattare (Halmi, et al., 2005). Attualmente a livello epidemiologico, nelle giovani donne, l’AN è presente nello 0,4% (APA, 2013). Questo disturbo è caratterizzato da sentimenti di disgusto per il cibo, provocando comportamenti quali il rifiuto di mangiare (Peruzzo, 1990). I soggetti che soffrono di Anoressia Nervosa presentano un’intensa paura dell’aumento di peso e un’immagine corporea disturbata, che li porta a diete ferree, restrizioni alimentari gravi, e anche ad utilizzare comportamenti compensatori per perdere peso, quali vomito auto-indotto, lassativi o attività fisica eccessiva (Zipfel et al., 2013; Gümmer et al., 2015). Tale disturbo genera gravi effetti negativi sul funzionamento fisico, psicologico e sociale, ed inoltre vi è un elevato rischio di complicanze a livello medico e di mortalità (Arcelus, Mitchell, Wales & Nielsen, 2011). Il decorso dell’Anoressia Nervosa è prolungato, con varie recidive (APA,2013), spesso cronico (Wentz et al., 2009) e con scarse risposte al trattamento (Arcelus, Mitchell, Wales & Nielsen, 2011). All’interno del DSM 5 (APA, 2013) sono esposte tre caratteristiche considerate chiavi che caratterizzano l’Anoressia Nervosa: la prima è un’intensa paura di aumentare di peso, che generalmente non fa riferimento solamente alla semplice perdita di peso; la seconda è una percezione distorta del peso corporeo, o della forma di quest’ultimo; la terza caratteristica è un peso corporeo considerato significativamente basso, rispetto all’età o all’altezza dell’individuo. Suddivise nel DSM 5 (APA,2013), vi sono due tipologie di AN: con restrizioni o con abbuffate e condotte di eliminazione. Un indice importante per la diagnosi di Anoressia Nervosa è il Body Mass Index, ossia l’indice di massa corporea (BMI) (APA, 2013), tale parametro serve per calcolare il peso forma del proprio corpo. Esso viene misurato dividendo il proprio peso per l’altezza alla seconda (kg/ m2). Per quanto concerne l’Anoressia Nervosa, il DSM 5 (APA,2013), afferma che un BMI lieve, inteso come leggero sottopeso, è un BMI ≥ 17 kg/m2; un BMI che indica un moderato sottopeso è considerato un BMI di 16-16,99 kg/m2; un grave sottopeso viene considerato quando il BMI misura 15-15,99 kg/m2; un estremo sottopeso, viene considerato un BMI di <15 kg/ m2. In merito ai criteri diagnostici, con l’uscita del DSM 5 (APA, 2013), è stato eliminato il criterio di Amenorrea. Per quanto concerne l’eziologia di tale disturbo, vi sono molteplici cause, di fatto è definito un disturbo multifattoriale. I fattori genetici, sono tra le principali cause d’insorgenza, di fatto è stata notata una forte componente familiare (Strober, Freeman, Lampert, Diamond, & Kaye, 2000) e un’alta ereditabilità che varia dal 28% al 74% (Yilmaz, Hardaway, & Bulik, 2015). Un ulteriore fattore che inciderebbe è il genere, di fatto di norma questa patologia è caratteristica del genere femminile (Jacobi et al, 2004). Eventi avversi prenatali, perinatali e neonatali (Jacobi et al., 2004; Tenconi, Santonastaso, Monaco, & Favaro, 2015), ma anche difficoltà nell’alimentazione infantile e problemi ricollegabili al ciclo sonno-veglia, aumenterebbero la probabilità di sviluppo di tale disordine alimentare (Jacobi et al., 2004). Per quanto concerne carattere e personalità, sono anch’essi fattori predisponenti. La personalità dell’individuo viene anche essa considerata fattore di insorgenza per il disturbo; di fatto durante lo sviluppo della personalità nell’età infantile, individui ansiosi, depressi, con tratti perfezionistici e con Sindrome dello Spettro Autistico, hanno maggiore probabilità di sviluppare la malattia (Jacobi et al., 2004). In merito a quest’ultimo aspetto, vari studi dimostrano che alcuni tratti caratteriali e alcuni tratti di personalità dell’infanzia, quali ansia, ossessioni e perfezionismo, potrebbero essere fattori rilevanti per l’esordio di tale disturbo (Kaye et al., 2013; Wierenga et al., 2014). Gli individui con questa patologia tendono a negare la loro condizione, infatti ci vuole tempo prima che si rendano conto che hanno a che fare con questo disturbo, poiché spesso vivono tale insorgenza in maniera positiva e vantaggiosa (Fox & Diab, 2015). La letteratura odierna ha riscontrato che il funzionamento familiare svolge un ruolo importante per quanto concerne l’insorgenza e il mantenimento di tale disturbo (Laghi et al., 2012a, 2012b). Le pazienti che soffrono di AN vedono le proprie famiglie come meno comunicative, meno coese, con maggiore rigidità e una minore flessibilità e con una maggiore difficoltà di problem solving, questi aspetti però non sono stati riscontrati nella percezione dei genitori delle pazienti (Emanuelli et al., 2004; Cook-Darzens et al., 2005; Vidovic, Juresa & Begovac, 2005; Ciao et al., 2015). Ciao e colleghi (2015) hanno riscontrato una scarsa chiarezza delle regole all’interno del nucleo familiare e un coinvolgimento affettivo inappropriato, quali ad esempio una mancanza di interesse e preoccupazione reciproca, soprattutto nei confronti della figura materna. Vista la complessità e la gravità di questo disturbo, negli ultimi anni, si sono venuti a sviluppare nuovi trattamenti (Berg & Wonderlich, 2013), soprattutto per gli adolescenti affetti da AN (Murray & Grange, 2014). È stato condotto uno studio ospedaliero con l’utilizzo della CBT-E in un campione di 27 pazienti adolescenti, ed è emerso che il 96% ha completato il programma, e ha ottenuto non solo un notevole miglioramento del peso corporeo, ma anche un miglioramento nelle caratteristiche dei disturbi alimentari e della psicopatologia in generale di quest’ultima, e tale risultato che è stato mantenuto in maniera ottimale fino a 12 mesi dal follow-up dello studio (Dalle Grave et al., 2014).

La CBT-E è valida?

Una caratteristica comune che contraddistingue le persone affette da un Disturbo Alimentare è la tendenza a cedere alle precedenti cattive abitudini. Queste ricadute vengono percepite come fallimenti e possono gravare fortemente sulla ripresa del paziente. Da numerosi studi presenti in letteratura emergono tassi di ricaduta fortemente inferiori in pazienti a cui è stato somministrato il protocollo CBT-E (Riesco et al., 2018).

Negli ultimi anni una migliore conoscenza dei meccanismi coinvolti nel mantenimento della psicopatologia dei disturbi alimentari ha portato allo sviluppo di una forma “specifica” di CBT, denominata CBT-E (E = enhanced), progettata per trattare tutte le forme di disturbi alimentari, compreso AN, dalle strutture ambulatoriali a quelle ospedaliere. I dati indicano che in ambito ambulatoriale è sia fattibile che promettente per adulti e adolescenti con AN. Risultati incoraggianti stanno emergendo anche dalla CBT-E ospedaliera, in particolare negli adolescenti (Dalle Grave et al., 2016).

Uno studio del 2018 (Stein Frostad et al., 2018) ha analizzato i tassi di remissione in pazienti con Anoressia Nervosa trattati con il protocollo CBT-E. La metà (n = 22) dei 44 pazienti che hanno iniziato la CBT-E ambulatoriale non ha completato il trattamento. Nel campione rimanente si è verificato un aumento di peso statisticamente significativo, dopo 12 mesi. La percentuale dei pazienti che hanno raggiunto il BMI target di> 18,5 kg / m2 era 36,4% dopo 3 mesi, 50% dopo 6 mesi e 77,3% dopo 12 mesi. Questo lavoro mostra l’efficacia della CBT-E nel trattamento dell’Anoressia Nervosa. Sebbene la metà dei pazienti non abbia completato la terapia CBT-E, i restanti pazienti hanno ottenuto un aumento significativo del BMI a 1 anno dall’inizio della terapia.

In uno studio di Dalle Grave e collaboratori, svolto nel 2019, è stata testata l’efficacia della CBT-E nel trattamento di una coorte di adolescenti con Anoressia Nervosa. Sono stati presi in osservazione e trattamento 49 pazienti affetti da AN e sono stati registrati il BMI di ciascuno e i punteggi nelle seguenti scale: Eating Disorder Examination Questionnaire, Brief Symptom Inventory e Clinical Impairment Assessment . Lo studio prevede un disegno longitudinale, con registrazioni in 3 differenti momenti: al momento del ricovero, alla fine del trattamento e al follow-up d i20 settimane. I risultati mostrano che il 71,4% dei completers ha mostrato sia un considerevole aumento di peso, sia punteggi ridotti per compromissione clinica e disturbo alimentare e psicopatologia generale, fino all’ultima valutazione al FU (Dalle Grave et al., 2019).

A sostegno dell’efficacia della CBT-E viene riportato un articolo dell’anno corrente (2020) il cui obiettivo è di esaminare l’andamento del percorso terapeutico di 150 pazienti adolescenti e adulti affetti da AN. La valutazione del BMI, la psicopatologia dei disturbi alimentari e la psicopatologia generale sono stati valutati in 3 momenti differenti, seguendo un disegno longitudinale, alla baseline, a fine trattamento, al FU di 20 settimane e FU a 60 settimane post-trattamento. L’85% dei partecipanti ha concluso il trattamento con punteggi significativamente migliorati in tutte le aree valutate, presentando solo un lieve, ma non significativo, peggioramento al secondo FU. Non è stata trovata alcuna differenza tra pazienti adolescenti e adulti in termini di accettazione del trattamento, abbandono o qualsiasi misura di esito (Dalle Grave et al., 2020).

Conclusione

In conclusione, dai risultati emersi dalla revisione di letteratura si evince che la CBT-E è adatta per curare tutte le categorie diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione in adulti e adolescenti, in particolare ha dimostrato risultati promettenti per il trattamento dei pazienti adulti e adolescenti affetti da anoressia nervosa. Può essere usata a livello ospedaliero e in day-hospital e, per ottenere effetti ottimali, i terapeuti necessitano di ricevere una formazione adeguata nella CBT-E.

 


 

Disabilità intellettiva e disturbi dello spettro dell’autismo (2021) di Giuseppe e Mariarosaria Battagliese – Recensione

In questo volume, gli autori, supportati da ricerche e letteratura internazionale, illustrano due disturbi del neurosviluppo di cui si è registrata una sempre maggiore diffusione nella popolazione negli ultimi decenni, analizzando in particolare le problematiche correlate ad essi e le possibili strategie da adottare per fronteggiare le difficoltà.

 

 Gli autori, psicoterapeuti, illustrano nel libro due deficit sempre più diffusi: la Disabilità Intellettiva (DI) ed i Disturbi dello Spettro Autistico (DSAu).

Il primo, detto anche disturbo dello sviluppo intellettivo, presuppone un’incapacità del soggetto di raggiungere alcuni obiettivi relativi all’intelligenza ed è caratterizzato da un deficit nel funzionamento adattivo che ha ripercussioni negative sulla vita quotidiana. Esso si presenta, solitamente, durante il periodo dello sviluppo ed è spesso correlato ad altre patologie come la depressione, il deficit dell’attenzione e iperattività e DSAu. Per molto tempo gli studiosi si sono concentrati solamente sugli aspetti cognitivi di tale patologia, solo dagli anni Settanta è stata presa in considerazione la sofferenza emotiva che la caratterizza. Le ricerche a livello internazionale hanno dimostrato una correlazione tra la gravità della disabilità intellettiva e la possibilità della presenza di disturbi d’ansia, paure e fobie. Vi è oggi una crescente consapevolezza dell’impatto che una cattiva salute mentale ha nella vita di queste persone, il malessere psicologico contribuisce infatti ad incrementare lo sviluppo di comportamenti problema che impattano sulla quotidianità, rappresentando un ostacolo reale allo sviluppo affettivo, intellettivo, interpersonale e fisico del soggetto. Per quanto riguarda le strategie d’intervento, è stato dimostrato che la partecipazione a programmi che prevedevano l’allenamento delle abilità sociali nei soggetti con problemi cognitivi, relative alla comunicazione, all’assertività e alla cooperazione, facilitavano l’interiorizzazione di comportamenti corretti ed una contemporanea regressione di quelli non adeguati migliorando la qualità di vita.

I Disturbi dello Spettro Autistico (DSAu) rappresentano una categoria diagnostica molto ampia che comprende età e livelli di funzionamento molto diversi tra loro. Ciò che accomuna i diversi soggetti sono i deficit relativi all’interazione sociale e all’abilità di comunicare sentimenti con presenza di manifestazioni tipiche come comportamenti ripetitivi, stereotipati e comportamenti problema. All’interno di questa categoria diagnostica rientrano:

  • il disturbo autistico;
  • la sindrome di Asperger;
  • il disturbo Disintegrativo dell’Infanzia;
  • il disturbo Pervasivo dello Sviluppo non Altrimenti Specificato.

L’eziologia di tali deficit non è ancora del tutto chiara anche se forti evidenze lasciano ipotizzare che vi sia un’influenza concomitante di fattori genetici, costituzionali e ambientali. Gli autori sottolineano la necessità dell’implementazione di strategie adeguate a favorire il benessere emotivo dei soggetti, ponendo in primo piano le difficoltà gestionali ed emozionali a cui vanno incontro i caregivers dato che il carico assistenziale è, infatti, persistente e continuo. La messa in atto di precisi programmi articolati su basi psicologiche ed educative, seppur con una certa limitatezza, può fornire un grande contributo nel miglioramento della qualità di vita; in particolare sono suggeriti approcci di tipo comportamentale e di tipo evolutivo.

 Vengono descritti, nello specifico, gli aspetti applicativi in ambito scolastico sottolineando in particolare le strategie che favoriscono l’acquisizione di nuove abilità affettivo-relazionali e di gestione dei comportamenti problema, nonché gli elementi utili a cui prestare attenzione come l’accoglienza, l’apprendimento, le difficoltà di interazione. Questi casi sono un’importante sfida per gli insegnanti poiché spesso questi soggetti manifestano comportamenti oppositivi, crisi di collera, mancanza di rispetto, aggressività, autolesionismo: alla base di tutte queste manifestazioni ci sono problemi di comunicazione e di comprensione sociale che ostacolano, non solo l’apprendimento, ma anche la presenza stessa dell’alunno nel contesto.

Un aspetto che merita particolare attenzione all’interno dell’ambito scolastico, a cui è dedicato un apposito capitolo, è il bullismo. Numerose ricerche hanno dimostrato come i DSAu siano maggiormente vulnerabili al rischio di vittimizzazione, allo stesso tempo tuttavia gli studiosi spiegano che tali soggetti possono ricoprire il ruolo di bullo, o di bullo e vittima contemporaneamente; ciò avviene solitamente quando questo disturbo si presenta in comorbilità con il disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

In affiancamento alla terapia tradizionale, tra le strategie più o meno strutturate che possono essere adottate per migliorare la qualità di vita nei diversi contesti, gli autori si soffermano in particolare sugli Interventi Assistiti con Animali (IAA). Grazie all’ampia esperienza acquisita in questo campo, descrivono nello specifico l’attività ed i benefici della riabilitazione equestre in cui, grazie all’attività realizzata con il cavallo, il soggetto è stimolato a livello motorio, psichico, intellettivo e sociale ed apporta benefici in tute queste aree, oltre che sviluppare una maggiore autostima.

Nel volume vengono inoltre analizzati i Comportamenti Problema (CP), cioè aggressività e autolesionismo, che possono essere difficili da gestire per gli operatori socio-psico-pedagogici e per i familiari. L’attenzione verte poi sulle strategie di fronteggiamento delle difficoltà e della sofferenza dei soggetti che presentano i problemi descritti, anche se non esiste un intervento che risponda alla complessità di tali patologie ma viene richiesto un approccio multidisciplinare in cui siano integrati vari metodi e che sia individualizzato in base alle caratteristiche ed alle necessità di ogni individuo.

Vengono infine descritti in modo specifico gli effetti dei comportamenti problema sul nucleo familiare, i diversi tipi di coping per migliorare la qualità della vita dei genitori, il sostegno e l’aiuto alla genitorialità.

 

Vecchie e nuove teorie sull’incongruenza di genere

Poiché gli studi sulle possibili alterazioni genetiche e ormonali non hanno mai dato risultati significativi, negli ultimi decenni, molte ricerche hanno cercato di fornire un’interpretazione neurobiologica della disforia di genere.

 

Classicamente le teorie eziologiche sull’identità e sulla disforia di genere si dividono tra quelle a carattere più socio-psicologico, che sottolineano il peso dei fattori psicosociali, quali l’educazione ricevuta e l’ambiente di vita familiare e culturale, e quelle che privilegiano fattori biologici come la genetica e il funzionamento neuroendocrino. Le prove di un contributo genetico alla transessualità sono molto limitate: vi sono poche segnalazioni di studi familiari e gemelli sui transessuali, e nessuno offre un chiaro sostegno al coinvolgimento di fattori genetici.

Per quanto riguarda gli ormoni prenatali, le prove a sostegno del fatto che possano influenzare lo sviluppo dell’identità di genere sono un po’ più forti ma è tutt’altro che provato. Un’indicazione che l’esposizione al testosterone prenatale ha effetti permanenti sull’identità di genere proviene dallo sfortunato caso di David Reimer. Altri studi clinici hanno riportato che l’identità di genere maschile emerge in alcuni bambini XY nati con genitali mal formati: questi individui sono stati esposti al testosterone prenatalmente, sottolineando un potenziale ruolo per gli androgeni nello sviluppo di genere e sollevando dubbi sul fatto che i bambini siano psicosessualmente neutri alla nascita. D’altra parte, gli individui XY nati con una mutazione del recettore degli androgeni che causano completa insensibilità agli androgeni (androgen insensitivity syndrome – AIS) sono fenotipicamente femminili, si identificano come femmine e sono più spesso androfili.

È chiaro che nessuno di questi fattori può essere considerato singolarmente, ma più probabilmente sarebbe la loro interazione a determinare lo sviluppo di una Disforia di Genere, tant’è che oggi queste teorie sono ritenute obsolete o sono state integrate in modelli eziologici più complessi.

Teorie psicologiche

  • Processi anomali di identificazione primaria o secondaria (Freud, 1921): l’identità di genere verrebbe acquisita tramite due processi di identificazione, primaria e secondaria. Quella primaria avviene nei primi mesi di vita del bambino, e caratterizza la relazione con la madre, con la quale il bambino tende ad identificarsi instaurando un rapporto fusionale ed indifferenziato. A questo segue il processo di identificazione secondaria, che porterà alla strutturazione del complesso edipico, in cui il bambino si identifica con il genitore dello stesso sesso. Nei bambini il processo avverrà grazie alla sostituzione dell’oggetto di identificazione: il padre verrà preso come modello da imitare, la madre rappresenterà la meta delle pulsioni sessuali; si svilupperanno così la mascolinità e l’attrazione verso le donne. Analogamente, nelle bambine la madre verrà mantenuta quale oggetto di identificazione e il padre rappresenterà l’oggetto libidico; da qui, lo sviluppo della femminilità e dell’attrazione verso gli uomini. La Disforia di Genere si svilupperebbe in seguito ad anomalie in uno dei processi di identificazione;
  • Identificazione conflittuale del bambino con la madre (Stoller, 1968): l’origine del transessualismo maschile risiederebbe in un mancato emergere da parte del bambino dalla fase di fusione simbiotica con la madre e, di conseguenza, in un’identificazione conflittuale con essa, magari facilitata da un eccessivo contatto fisico che ostacolerebbe il normale processo di separazione. Sebbene Stoller si sia occupato perlopiù di transessualismo maschile, è interessante che nella sua analisi, l’autore ha individuato una costellazione familiare tipica dei soggetti transessuali caratterizzata da eccessiva vicinanza con la madre, spesso portatrice di nevrosi e conflitti, e assenza della figura paterna. Tuttavia, anche se rispetto alla psicoanalisi classica qui vengono introdotti fattori di natura transgenerazionale, la situazione familiare da lui individuata è comune a molteplici condizioni patologiche e non certo caratteristica per lo sviluppo della Disforia di Genere;
  • Transessualismo come esito di una reazione difensiva (regressione) messa in atto dal bambino per contrastare l’angoscia di separazione (Person e Ovesey, 1974): quest’angoscia sarebbe così intensa da rappresentare una minaccia di frammentazione del Sé, e spingerebbe il bambino verso una fantasia regressiva di fusione simbiotica con la madre allo scopo di annullare la separazione. Questo determinerebbe l’ambiguità di genere. Anche Person e Ovesey riconoscono un padre emotivamente assente nelle storie familiari dei soggetti studiati; rispetto all’atteggiamento materno, osservano che questo può assumere tre diverse qualità: simbiotico, intrusivo o ostile;
  • Assegnazione del sesso alla nascita ed educazione ricevuta dai genitori (John Money, 1975): sarebbero i fattori maggiormente predittivi dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. A sostegno di tale ipotesi, Money fece riferimento a un suo caso, diventato celeberrimo, ovvero quello dei gemelli Reimer: in seguito ad una procedura di circoncisione ad uno dei due gemelli, a David venne erroneamente amputato il pene all’età di 7 mesi, per cui Money raccomandò la riattribuzione al sesso femminile, seguita da terapia ormonale, decretandone il successo sulla base del follow – up fino all’età di 9 anni. Questa fu però successivamente criticata da Diamond (1997) che scoprì che, nonostante David fosse stato allevato come una bambina, sviluppò un’identità di genere maschile e durante la pubertà rifiutò la terapia ormonale con estrogeni, ricorrendo poi alla terapia con androgeni e ad un’operazione chirurgica per la ricostruzione del pene. Di fatto Diamond non solo ha smentito l’ipotesi di Money, ma ha anche potenzialmente avvalorato le teorie che sostengono invece un maggior peso delle componenti biologiche;
  • Eventi traumatici nella prima infanzia possono scatenare una disforia di genere (Di Ceglie, 1998): Di Ceglie sostiene che, nel tentativo di riuscire ad affrontare situazioni traumatiche relative alla separazione dalla figura genitoriale, il bambino metterebbe in atto un meccanismo di difesa di tipo dissociativo sviluppando un nuovo concetto di sé e identificandosi con il genitore del sesso opposto, per reagire in maniera onnipotente alla minaccia di perdita e salvaguardare la propria integrità psichica. Questo nuovo concetto assume la forma “io sono la mamma” / “io sono il papà”. Questa re-identificazione però non si limita al ruolo genitoriale, ma si estende al concetto di genere “io sono una femmina/io sono un maschio”. In tal senso Di Ceglie ha proposto il concetto di “organizzazione atipica dell’identità di genere”

Teoria multisenso

Poiché gli studi sulle possibili alterazioni genetiche e ormonali non hanno mai dato risultati significativi, negli ultimi decenni, molte ricerche hanno cercato di fornire un’interpretazione neurobiologica della disforia. A partire dalle prime analisi post-mortem del cervello di soggetti transessuali, una ventina di anni fa, l’attenzione si è focalizzata su uno specifico nucleo dell’ipotalamo chiamato letto della stria terminale (BNST). In particolare, questo nucleo sembra avere una dimensione media nelle transwoman (MtF) più simile alle donne cisgender che agli uomini cisgender; questi dati supportano la teoria secondo cui il distress caratteristico della disforia di genere dipende da un’incongruenza anatomica tra il cervello e il corpo sessuato – gli individui transgender avrebbero un cervello di sesso opposto al genere che gli viene assegnato alla nascita. In accordo con questi studi e altri che hanno messo in relazione la disforia di genere con i cambiamenti di body ownership nei soggetti transgender, Stephen Gliske, del dipartimento di neurologia dell’Univerità del Michigan, ha sviluppato una nuova teoria della Disforia di Genere che definisce “multisenso”. In pratica, secondo questa teoria, la Disforia di Genere non sarebbe causata da anomalie neuroanatomiche bensì da cambiamenti sistemici in alcuni network funzionali, che provocherebbero quell’incongruenza tra senso del proprio genere e genere assegnato alla nascita. Gliske considera 3 dimensioni:

  • il distress cronico
  • non-conformità di genere e comportamento sociale
  • incongruenza e body-ownership

che sono costantemente in interazione tra di loro e genererebbero il senso del genere. Alterazioni nelle attivazioni o nelle loro interazioni porterebbero a cambiamenti dinamici nell’attività del network, e sarebbero la causa della soggettiva esperienza di disforia di genere e, probabilmente, anche dei contestuali cambiamenti neuroanatomici che si osservano negli studi summenzionati. Sembrano coinvolti in particolare cambiamenti a livello del BNST, ipotalamo anteriore, insula anteriore, solco intraparietale, lobulo parietale superiore e corteccia orbitofrontale.

Lungi dal voler proporre una teoria meccanicistica di un’esperienza così soggettiva come la Disforia di Genere o l’identità di genere stessa, Gliske sottolinea che i network neurobiologici sottostanti questo modello integrato influenzano quanto un certo individuo percepisce e soffre rispetto a uno stress cronico, quanto desideri agire in coerenza con il suo ruolo di genere e quanto percepisca gli aspetti “genderizzati” del suo corpo come appartenenti a sé. Tutti questi aspetti concorrono alla sensazione di matching (o meno) tra la propria identità di genere e il sesso assegnato alla nascita. Il peso dei fattori socio-comportamentali e di body-ownership può chiaramente essere diverso in individui diversi.

 

Spettro autistico: un excursus di miti e controversie sull’eziologia

Nonostante i significativi progressi di natura epidemiologica e genetica nella ricerca scientifica sull’autismo, l’eziologia e la patogenesi di questa condizione sono lungi dall’essere chiarite e attualmente non esiste alcun trattamento curativo (Davidson, 2017).

 

 Con la classificazione dimensionale “disturbi dello spettro autistico” si fa riferimento a una vasta gamma di manifestazioni sintomatologiche di disturbi del neurosviluppo, caratterizzati da una notevole eterogeneità in termini di gravità/pervasività del sintomo e compromissione del funzionamento, ma accomunati dai seguenti pattern: reciprocità socio-emotiva deficitaria, comunicazione non verbale inficiata (es. mancanza di espressività facciale e anomalie del contatto visivo), difficoltà interpersonali, interessi limitati, stereotipie, mancanza di flessibilità cognitiva e iper- o iporeattività a stimoli sensoriali (APA, 2013). Nonostante i significativi progressi di natura epidemiologica e genetica nella ricerca scientifica sull’autismo, l’eziologia e la patogenesi di questa condizione sono lungi dall’essere chiarite e attualmente non esiste alcun trattamento curativo; considerata la prognosi sfavorevole che non contempla la reversibilità della condizione, ma soltanto dei miglioramenti significativi in alcune aree dello sviluppo, a fronte di interventi precoci e mirati (Davidson, 2017).

La prima definizione e concettualizzazione dell’autismo risale al 1943, ad opera del medico psicanalista Leo Kanner: il quale descrive la fenomenologia di tale condizione in maniera similare a quella attuale (Kanner, 1973); in termini eziologici, però, era predominante la credenza secondo cui una scarsa responsività materna al soddisfacimento immediato dei bisogni primari evolutivi del bambino, sarebbe potuta esserne la causa. “Madre frigorifero” era l’espressione utilizzata per descrivere quel prototipo di madre assente e non responsiva ai bisogni emotivi basilari del bambino: questa era la spiegazione vigente, a metà del secolo scorso, per descrivere il senso di autoisolamento e di distanziamento sociale del bambino con autismo dal mondo esterno (Bettelheim, 1956). All’inizio degli anni ’80, grazie alla pubblicazione della terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-III; APA, 1980), il fenomeno dell’autismo viene per la prima volta concettualizzato come un disturbo del neurosviluppo; divenendo oggetto di ricerca scientifica, oltre che di assistenza clinica e sociale (Davidson, 2017).

 Negli stessi anni è, però, concomitante la proliferazione totalmente infondata e priva di alcuna base scientifica dell’eziologia dell’autismo spiegata dalla somministrazione dei vaccini; postulando un erroneo rapporto di causalità tra autismo e vaccino (DeStefano, 2007). Il criterio con cui tale “mito causale” si è diffuso è una mera coincidenza temporale tra l’esordio della prima manifestazione sintomatologica del disturbo e la somministrazione dei vaccini per parotite, morbillo e rosolia (MMR), tra i 12 e i 18 mesi (Davidson, 2017). L’attribuzione di un legame causale a una semplice sovrapposizione temporale costituisce un bias cognitivo, senza alcun fondamento logico e soprattutto clinico. Fortunatamente negli anni successivi il rapporto diretto di causalità tra autismo e vaccino è stato demistificato da studi scientifici finalizzati all’analisi sia dell’epidemiologia dell’autismo, sia degli effetti indotti dai vaccini MMR (Maglione et al., 2014; Taylor, Swerdfeger & Eslick, 2014). Di fatti, nonostante fossero sempre più numerose le rinunce alla vaccinazione MMR, i tassi di autismo erano in aumento (Modabbernia, Velthorst & Reichenberg, 2017). Nonostante il passare del tempo e il significativo incremento delle evidenze scientifiche a favore della varianza fenotipica del disturbo spiegata da fattori genetici, il mito causale tra vaccino e autismo ha continuato a essere radicato nelle menti di molti, i quali hanno preferito privarsi degli effetti benefici del vaccino; per tutelare i loro figli da un eventuale esordio della sintomatologia (Offit, 2014). Anche dopo decenni dalla diffusione mediatica di tali credenze infondate sull’eziologia dell’autismo, all’interno di tale rassegna è possibile rivolgere il focus attentivo su un tema estremamente attuale: la tendenza a lasciarsi trasportare acriticamente dal luogo comune verso spiegazioni illogiche di un fenomeno e delle sue conseguenze, fomentate dalla continua ricerca di prove confermative fallaci, ma che nell’immediato possono risultare convincenti; anziché orientare le proprie scelte sulla base di dati empiricamente dimostrati.

 

Il bambino e l’importanza dell’ambiente affettivo primario: il pensiero di Donald Winnicott

Winnicott spiega come i bambini hanno bisogno della madre: in senso assoluto nei primi anni di vita, per poi passare alla separatezza fisica e psichica che caratterizza ciascuno di noi per tutto il resto della nostra vita.

 

Non c’è una cosa che si può chiamare un bambino, nel senso che, se volete descrivere un bambino, vi troverete a descrivere un bambino con qualcuno. Un bambino non può esistere da solo, ma è essenzialmente parte di un rapporto – scriveva Winnicott nel 1964.

 Pediatra e psicoanalista, egli ha concentrato il suo interesse nell’osservazione dei bambini e delle loro madri, partendo dal presupposto, centrale in tutta la sua opera, che il bambino è un fenomeno che non può essere isolato: questo all’inizio vive in un mondo soggettivo, pervaso da un senso di onnipotenza, pur essendo, in realtà, la sua vita estremamente precaria e strettamente dipendente dalla figura materna (Winnicott, 1970).

I bambini hanno, infatti, bisogno della madre: ne hanno bisogno in senso assoluto nei primi anni di vita, quando gradualmente sono costretti a passare da uno stato simbiotico, di unicità madre bambino, in cui “il bambino non esiste” (Winnicott, 1961), alla separatezza fisica e psichica che caratterizza ciascuno di noi per tutto il resto della nostra vita. Il bisogno della presenza della madre – il legame fondamentale madre figlio – è, pertanto, nei primi anni, assoluto (Viorst, 2014). Solo successivamente, per maturazione, attraverso un processo graduale, duraturo e non privo di difficoltà, il bambino diventa un Sé separato.

Questa pianta vorrebbe crescere ed anche essere embrione; svilupparsi ed anche fuggire la condanna a prendere forma… (Richard Wilbur)

perché l’unicità è beatitudine e la separazione fa paura; essere separati significa riconoscere i propri confini e i confini degli altri, riconoscere il proprio Sé come unico, riconoscere che “Io sono Io” e trovare conferma negli altri significativi che “Sì, tu sei tu” (Viorst, 2014). Separarsi significa diventare indipendenti, significa essere. Essere genitori, allo stesso tempo, significa promuovere e supportare lo sviluppo fisico, emotivo e mentale del bambino (De Carli et al., 2018): è grazie alle prime relazioni che egli può costruire mappe interiori di sé e del mondo, sulle quali si plasma il senso di sé.

Nel suo articolo L’esperienza di mutualità tra madre e bambino (Winnicott, 1969) l’autore pone l’attenzione sul progresso che la psicoanalisi ha fatto in questo senso: si è passato dall’affrontare, ad originem, lo sviluppo infantile in termini di conflitto di Edipo e di

complicazioni che sorgono dai sentimenti di maschi e di femmine ormai divenuti persone intere in relazione con altre persone intere (Winnicott, 1969),

  ad attenzionare l’esperienza e i conflitti interni alla psiche dei bambini, fino ad occuparsi prevalentemente dei processi di influenza ambientale e di dipendenza: nel bambino, secondo Winnicott, esistono sì dei processi maturativi innati, ma questi si svolgono esclusivamente in un quadro di dipendenza dall’ambiente, ed è proprio questa presa di coscienza che la psicoanalisi non può più ignorare. Quando osserviamo un bambino, osserviamo un bambino oggetto di cure: la tendenza ereditaria all’integrazione, alla ricerca dell’oggetto, all’indipendenza da sola non basta. Lo sviluppo ha luogo perché c’è una madre sufficientemente buona che, attraverso un comportamento adattivo e di identificazione con i bisogni del bambino, attraverso il sostegno e il contenimento fisico e psichico (holding), le cure corporee (handling) e la capacità di mettere a disposizione al bambino l’oggetto al momento giusto (object – presenting), fa sì che questo gradualmente possa procedere lungo la propria linea di sviluppo e conquistare i processi di integrazione, di separazione e la capacità di vivere il proprio corpo in relazione agli oggetti (Winnicott, 1961). Nel periodo immediatamente prima della nascita e per le successive settimane, infatti, la madre è affetta da quella che Winnicott chiama preoccupazione materna primaria, uno stato che, in condizioni psichiche normali, le permette di abbandonare temporaneamente le proprie identificazioni maschili – quando anche supportata nel processo dal padre del bambino – e di identificarsi completamente con i bisogni del piccolo. Quando la madre – e il padre in supporto – sono in grado di offrire questo tipo di ambiente, il bambino può vivere per il periodo necessario nel proprio mondo soggettivo, protetto dalle pressioni di una realtà esterna che per lui non esiste: è così che sviluppa un sentimento di prevedibilità che gli permette di gettare le basi dei primi stadi di crescita personale. In questo modo, gradualmente, si stabiliscono le condizioni necessarie affinché il processo ereditario di crescita possa attuare le sue potenzialità, consentendo al bambino di arrivare a vivere un’esistenza integrata e separata, costruita su un Vero Sé (Winnicott, 1970). Dice Winnicott (1970):

sebbene ogni bambino che viene al mondo abbia, diciamo così, un bastone da primo ministro nel pannolino, questo bastone può rimanere qualcosa che avrebbe potuto essere,

egli necessità cioè, in modo imprescindibile, di un apporto ambientale sufficientemente buono, che gli consenta

di diventare sempre più indipendente, pur conservando un buco in cui rifugiarsi.

Vale a dire, come scriveva J.K. Rowling nel romanzo Harry Potter e la pietra filosofale (1997) che

Essere stati amati tanto profondamente ci protegge per sempre. È una cosa che ci resta dentro, nella pelle.

 

Il controllo cognitivo e la corteccia prefrontale

I processi su cui si basa e attraverso cui viene implementato il controllo cognitivo vengono definiti funzioni esecutive, le quali sono coinvolte nella pianificazione dell’azione e nel monitoraggio del comportamento.

 

Il controllo cognitivo

Cosa intendiamo quando parliamo di “controllo cognitivo”?

In letteratura con questo termine si indicano quei processi necessari per coordinare pensieri e azioni al fine di ottenere un comportamento flessibile e orientato allo scopo, che sia in linea con gli obiettivi del soggetto e le richieste dell’ambiente che lo circonda (Gazzaniga, 2009; Chiew & Braver, 2017).

Il primo lavoro sul controllo cognitivo è di Posner e Snyder (1975), in cui emerge come i processi di controllo cognitivo siano in antitesi rispetto a quelli automatici (come i riflessi), i quali si manifestano solitamente in assenza di consapevolezza o intenzione da parte dell’individuo che li sta attuando. Più nello specifico, tre aspetti distinguono i processi controllati da quelli automatici: i processi controllati sono più lenti da eseguire, sono soggetti a interferenze da processi automatici concorrenti e si basano su un meccanismo di elaborazione centrale a capacità limitata.

Le funzioni esecutive

I processi su cui si basa e attraverso cui viene implementato il controllo cognitivo vengono definiti funzioni esecutive, le quali sono coinvolte nella pianificazione dell’azione e nel monitoraggio del comportamento.

Le tre funzioni esecutive principalmente presentate in letteratura sono shifting attentivo, updating delle informazioni e inibizione della risposta (Miyake et al.,2000).

Lo “shifting” riguarda lo spostamento dell’attenzione tra compiti diversi ed è considerato importante per la comprensione dei deficit nel controllo cognitivo in pazienti con lesioni cerebrali durante l’esecuzione di specifici compiti in cui si richiede di alternarsi tra due compiti (Monsell, 1996).

L’ “updating” della memoria di lavoro richiede il monitoraggio e la codifica delle informazioni rilevanti per lo svolgimento di un compito (Morris & Jones, 1990), questa funzione esecutiva interviene in un gran numero di attività della vita quotidiana, come l’apprendimento o l’organizzazione delle informazioni acquisite recentemente (Collette & Van der Linden, 2002).

Infine, con inibizione della risposta si intende la capacità dell’individuo di impedire il verificarsi di una risposta dominante o automatica quando necessario (Miyake et al., 2000).

Le basi neurali del controllo cognitivo

Per quanto riguarda le basi neurali del controllo cognitivo, risultati convergenti dimostrano un importante coinvolgimento della corteccia prefrontale (PFC) (Fiore, 2017).

L’importanza di tale area per il controllo cognitivo è stata largamente investigata e confermata attraverso diversi approcci sperimentali: ad esempio, Jacobsen e colleghi (1936) hanno condotto uno studio sul modello animale, asportando bilateralmente l’omologa area cerebrale in due scimmie e osservando che alla lesione non segue una demenza generale, bensì il fallimento di alcuni comportamenti specifici, soprattutto nella soluzione di problemi in cui è richiesto il coinvolgimento di processi esecutivi.

Vi sono studi anche sull’uomo che mostrano come danni a livello della PFC conducano a deficit di comportamento orientato all’obiettivo senza ulteriori danni a livello di capacità sensoriali, in particolare si hanno deficit in compiti che richiedono un’elaborazione controllata: un paziente con danni alla PFC mantiene alcune capacità, come eseguire compiti cognitivi di base o memorizzare informazioni, ma le sue prestazioni orientate al raggiungimento di un obiettivo risultano compromesse (Luria, 2012).

Vi sono inoltre numerosi studi di neuroimaging che forniscono evidenze della relazione tra questa regione cerebrale e le funzioni esecutive, il lavoro di Thomsen e collaboratori (2004) è uno tra questi: gli autori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per indagare le basi cerebrali coinvolte nello shifting attentivo durante un paradigma di ascolto dicotico, evidenziando un’attivazione significativa della PFC bilaterale durante lo shifting attentivo rispetto a un compito di controllo. Gli autori hanno concluso che tale regione giochi un ruolo importante nella selezione top-down degli stimoli rilevanti per il compito e correlati all’inibizione dell’elaborazione di stimoli irrilevanti per l’obiettivo.

Perché proprio la corteccia prefrontale?

La PFC ha il ruolo di sintetizzare le informazioni provenienti da varie aree cerebrali corticali e sottocorticali per produrre un comportamento diretto all’obiettivo attraverso un processo di tipo top-down: ad esempio, per selezionare le risposte motorie più adatte deve integrare le informazioni sensoriali provenienti sia dall’ambiente esterno che dall’interno dell’organismo stesso. Ciò è permesso dalle numerose interconnessioni della PFC con le altre strutture cerebrali.

Dunque, le aree associate al controllo cognitivo coinvolgono il circuito corticale della PFC e i circuiti corticali e sottocorticali ad essa connessi, come i gangli della base (Fuster, 2015).

Felicità cercasi. Pratiche personali e collettive (2020) di Sergio Sorgi e Francesca Berté – Recensione del libro

Il titolo del libro Felicità cercasi. Pratiche personali e collettive è assolutamente fedele al suo contenuto: la felicità va cercata, non solo tramite l’impegno necessario, ma anche attraverso le modalità più adatte.

 

Sorgi e Bertè, basandosi su vari dati empirici, propongono classificazioni e tesi con l’obiettivo di sensibilizzare i lettori al bisogno di felicità. La soddisfazione di tale bisogno, secondo gli autori, non riguarda solamente il singolo individuo, ma la collettività, pertanto la felicità comune dovrebbe coincidere con lo scopo della società e, in particolare, delle istituzioni. È evidente che noi esseri umani, in quanto animali sociali, siamo costantemente in qualche modo interconnessi. Un capitolo del testo viene infatti interamente dedicato alla valenza delle relazioni umane spiegandone la funzione nel trovare, o ritrovare, la felicità sia propria che condivisa. Tale ricerca risulterebbe pertanto fondamentale per il bene della collettività e per l’avvenire. “Una cosa è per noi certa: essere felici non è un destino, né un accadimento casuale e neppure l’esito di un approccio ingenuo”. È qualcosa che viene infatti descritto dagli autori come un’abilità che va sviluppata attraverso le modalità adatte.

Secondo Sorgi e Berté, occuparsi di felicità dovrebbe essere naturale, oltre che necessario, in particolare in un periodo storico come questo in cui è facile confondersi tra ciò che rende e non rende felici.

Tramite il riferimento al famoso esperimento di Mischel, in cui vengono utilizzati i Marshmallow, gli autori spiegano come la capacità di posticipare la gratificazione si riflette nell’abilità di mettere in ordine le proprie priorità. Attraverso l’esempio riportato viene quindi messa in luce la funzionalità di una determinata modalità di presa di decisione: una ricerca del benessere continuo a discapito di quello immediato. Secondo gli autori infatti essere felici non è una mera abilità intrinseca, bensì una capacità che va appunto sviluppata tramite uno sforzo costante, delle scelte adatte e delle prese di posizione chiare.

Tutto ciò, secondo Sorgi e Bertè, dovrebbe essere noto alle istituzioni e far riflettere chi governa i territori.

Amori violenti. Cosa significa amare? (2015) di Mirella Baldassarre – Recensione del libro

L’autrice, psicologa e psicoterapeuta, scrive questo libro allo scopo di riflettere sul processo che conduce la coppia alla distruzione delle due personalità, ripercorrendo il cammino che da evolutivo verso la crescita, si trasforma in un percorso degenerativo che persegue il crollo dell’autonomia e dell’individualità, sfociando spesso in atti di vera e propria violenza.

 

 L’amore è fonte di ricchezza, gioia, creatività e sostegno ma è anche in grado di scatenare i bisogni primitivi della persona che, pur di soddisfarli, nega il rispetto e la libertà dell’altro fino ad annullarlo mentalmente e, talvolta, anche fisicamente. Quando è guidato dal bisogno di possesso, non si tratta più di amore e conduce alla distruzione dell’autostima e della voglia di vivere.

La pratica clinica evidenzia come un legame di coppia struttura una nuova sfera mentale condivisa, in cui i due partner sono insieme ma distinti ed in cui confluiscono le caratteristiche strutturali della personalità di entrambi: ciascuno contribuisce con il proprio bagaglio emotivo, conscio ed inconscio. Da questo processo non è esente la psicopatologia che conduce ad una catena di soprusi e di prevaricazione: l’altro diventa un oggetto da possedere in modo esclusivo, che non può fare richieste né, tantomeno, andarsene.

L’autrice evidenzia come la capacità di strutturare relazioni d’amore soddisfacenti o, al contrario, instabili e violente, è strettamente collegata alle esperienze emotive che ognuno sperimenta nel passato. In quest’ottica assume un rilievo primario la famiglia in cui si cresce ed il carico emotivo che ne deriva, poiché influisce sul modo di sentire e di comportarci da adulti. È infatti dai legami che esperiamo da piccoli che dipende la capacità di vivere la reciprocità tollerando frustrazioni e delusioni, imparando a riconoscere i bisogni e i desideri dell’altro, di considerarlo insomma una persona autonoma senza che la sua diversità venga percepita come una minaccia. Non è solo il trauma di per sé, ma il vivere in uno stato di trauma continuo che rende vulnerabile il nostro narcisismo, lede la nostra autostima e ci rende privi della capacità di controllare emozioni e reazioni, rendendoci fragili e svalutanti: il linguaggio della violenza è, infatti, predominante quando non si è in grado di condividere e si è incapaci di sopportare le differenze di opinioni e di comportamenti.

È soprattutto la mancanza di elaborazione delle esperienze che lascia immutati i vissuti violenti subiti, molto spesso le dinamiche che legano i partner ripropongono quelle del passato poiché nessuno dei due ha elaborato in modo consapevole il fallimento. Ogni coppia che vive un contesto di violenza si trova a dover compiere un lavoro psichico, ma spesso gli operatori della salute mentale vengono consultati solo quando la situazione è ormai degenerata e la violenza è diventata l’unico codice di comunicazione tra due persone. Quando questo accade, il clima emotivo è pervaso da umiliazione, svalutazione, annullamento dell’altro e del suo essere persona, senza che ci siano sentimenti di colpa o rimorso da parte del partner violento. Egli è guidato esclusivamente dal bisogno di distruggere l’altro trasformato in oggetto, ritenendolo responsabile della propria infelicità, senza nessuna considerazione per la gravità delle proprie azioni.

È innegabile che esista una stretta connessione anche con la società, perché l’equilibrio mentale di ciascuno di noi è collegato all’interazione continua di fattori biologici, psicologici e sociali, al contesto ambientale ed emotivo in cui viviamo.

 Le trasformazioni sociali dell’ultimo secolo hanno sicuramente condotto a diversi cambiamenti: in primo luogo nel ruolo della donna; in secondo luogo nella visione dell’amore, che costituisce oggi quasi un deterrente perché emerge il bisogno di dare alla propria immagine connotati di forza e successo; infine, nell’ideale consumistico, che è diventato predominante favorendo una mentalità del tutto e subito. Questo tipo di vita amplifica il vuoto interno, la mancanza di significato e di progettualità; troppo spesso acquista valore il possesso che investe non solo le cose ma anche le persone.

Il libro, attraverso il racconto di storie ed esperienze di famiglie, coppie, adulti, bambini e adolescenti, oltre ad analizzare i risvolti di amori degenerati, cerca di riflettere anche sulle cause che maggiormente conducono a comportamenti violenti che non vengono regolati da limiti e divieti.

 

Apprendere con i profumi: memoria olfattiva come mezzo per potenziare la memoria visuo-spaziale

Olofsson e collaboratori (2020) hanno ideato uno studio in grado di rilevare se un particolare esercizio che stimolava la memoria attraverso l’olfatto avesse effetti positivi anche sull’orientamento nello spazio.

 

Il sistema olfattivo è caratterizzato da un alto livello di plasticità biologica e funzionale, essendo uno dei sensi che è maggiormente in grado di modificare il nostro cervello e che è più facile modificare se sottoposto a ripetuti stimoli, come profumi e odori (Li et al. 2008; Fletcher, 2012; Kass et al. 2013). È infatti noto che sia possibile migliorare le prestazioni olfattive semplicemente per mezzo di un addestramento basato su stimolazioni, e i sommelier ne sono un esempio (Mainland et al. 2002, Hummel et al. 2009; Damm et al. 2014; Morquecho-Campos et al. 2019). Studi recenti hanno infatti appurato che gli esperti del settore, ottengono risultati migliori dei non esperti nelle valutazioni olfattive (Royet et al. 2013), e che la loro competenza è correlata a riorganizzazioni strutturali nelle aree cerebrali associate alla memoria avvenute mediante allenamento ripetuto (Delon-Martin et al. 2013). Al contrario, non sono stati riportati effetti analoghi nel sistema visivo, che risulta pertanto poco allenabile.

Alcune ricerche mostrano quindi come l’olfatto sia strettamente associato all’apprendimento, e suggeriscono che le abilità sensoriali olfattive possano giocare un ruolo chiave nelle prestazioni della memoria visiva. In merito a quest’ultimo caso, è stato dimostrato che l’addestramento alla discriminazione di differenti odori porta a un miglioramento dell’apprendimento visuo-spaziale nei ratti (Zelcer et al. 2006). Attraverso la memoria olfattiva, i ratti possono quindi potenziare la memoria visiva.

In seguito a tale scoperta, Olofsson e colleghi hanno ipotizzato che questa abilità valesse anche per soggetti umani, e che quindi l’addestramento alla memoria basato sull’olfatto in partecipanti adulti potesse avere effetti positivi sia sulla memoria visiva, sia sulle prestazioni percettive olfattive (Olofsson et al., 2020). Di conseguenza, gli autori hanno ideato uno studio in grado di rilevare se un particolare esercizio che stimolava la memoria attraverso l’olfatto avesse effetti positivi anche sull’orientamento nello spazio, nonché sulla stessa qualità dell’olfatto in partecipanti umani. Gli autori dello studio hanno inoltre ipotizzato che, viceversa, l’allenamento visivo non portasse particolari benefici nelle prestazioni olfattive. Per testare queste ipotesi, gli autori hanno ideato due differenti giochi da tavolo che esplorassero le due diverse sfere sensoriali, noti nell’implicazione delle reti di codifica della memoria (Rasch et al. 2007; Kunz et al. 2015).

Il cuore dell’intervento consisteva nella modifica di una canonica sperimentazione incentrata sulla memoria escludendone le componenti visive per confrontare gli effetti di trasferimento generati dall’implicazione della memoria olfattiva e visiva. I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale allo svolgimento di compiti olfattivi o visivi, con livello di difficoltà simile, per l’allenamento quotidiano della memoria pre-test in un periodo di circa 40 giorni. L’addestramento è stato svolto con esercizi giornalieri di discriminazione e riconoscimento degli odori, e con l’utilizzo degli Sniffin’ Sticks, striscioline di carta pregne di differenti aromi, che permettono di individuare la capacità di identificazione degli odori, di discriminazione e di determinazione della soglia olfattoria.

Se chi sta leggendo ha mai giocato a Memory, il gioco da tavola in cui si devono individuare coppie di immagini identiche nel tabellone, potrà comprendere appieno le procedure dell’esperimento in questione, in quanto pressoché simili. Le sperimentazioni olfattive e visive sono infatti state svolte proprio con lo stesso principio. Il gioco relativo alla memoria olfattiva comprendeva 24 lattine, contenenti 12 diversi tipi di tè aromatizzati, che costituivano, quindi, 12 coppie di stimoli a due a due identici. Gli aromi sono stati posti in sacchetti di cotone per arginare l’identificazione visiva degli stessi. Le lattine sono state poi distribuite casualmente su una tavola di 24 caselle. In ogni prova, il giocatore aveva l’obiettivo di campionare due lattine a scelta e confrontarne il contenuto, accoppiando quelle con lo stesso aroma. Al rilevamento di una corrispondenza, gli oggetti venivano rimossi dalla tavola. L’esercizio terminava quando non rimaneva alcuna lattina in tavola.

Per ciò che concerne invece la memoria visiva, è stato ideato un gioco piuttosto similare al precedente come compito di controllo. Questa seconda sperimentazione, ancor più simile a Memory, consisteva nell’individuazione di 12 coppie di immagini identiche collocate all’interno delle 24 lattine, e poste in due differenti tavole. Le immagini rappresentavano diversi simboli linguistici, ottenuti dal coreano e dal cinese mandarino. I due compiti di addestramento erano simili in tutti gli aspetti, per questo motivo le performance dei soggetti di ciascuno dei due esperimenti sono state misurate osservando il numero di prove impiegate per svuotare la tavola: ça va sans dire, meno prove indicavano una miglior performance.

I risultati dello studio hanno mostrato che mentre l’addestramento visivo non ha prodotto il trasferimento al compito di memoria olfattiva, esattamente come previsto, l’addestramento olfattivo ha prodotto il trasferimento di memoria al compito visivo non precedentemente addestrato. Ciò significa che mentre nel secondo compito i soggetti hanno utilizzato esclusivamente la memoria visiva, che ha loro permesso svuotare il tabellone attraverso molteplici tentativi, nel primo compito i soggetti hanno utilizzato entrambi i sensi ed entrambi i tipi di memoria per accoppiare oggetti con le stesse caratteristiche olfattive. Questo studio ha inoltre dimostrato che l’addestramento olfattivo precedentemente esercitato, ha anche migliorato le prestazioni dei partecipanti nei compiti di discriminazione degli odori e di denominazione, tanto che il gruppo che ha svolto il primo esperimento ha raggiunto lo stesso livello di prestazioni di un gruppo di sommelier con prestazioni elevate, che ha svolto lo stesso esercizio con lo stesso numero di tentativi ed identiche tempistiche (Olofsson et al., 2020).

I risultati di cui sopra indicano che il sistema olfattivo è altamente reattivo all’allenamento e fanno strada all’ipotesi che l’olfatto possa facilitare il trasferimento dell’apprendimento ad altri domini sensoriali. Queste informazioni potrebbero essere utilizzate non solo nelle aree clinica e medica, ma anche nei settori lavorativi e scolastici, implementando le tecniche di apprendimento già esistenti.

 

Comuni-CARE, il corpo e la cura oltre le parole (2021) di Valentina Di Ludovico – Recensione del libro

Il libro “Comuni-care. Il corpo e la cura oltre le parole. Guida pratica: come progettare un training di gruppo sulla comunicazione assertiva” (2021), scritto da Valentina Di Ludovico, Edizioni Alpes, è una guida agile e accessibile a tutti, che connette ed integra il tecnicismo dell’agire professionale a dei mini racconti, offrendo così importanti spazi di riflessione al lettore.

a cura del Dott. Domenico De Berardis – Psichiatra Psicoterapeuta, ASL 4 Teramo

 

Valentina Di Ludovico, Tecnico della riabilitazione psichiatrica, accompagna il lettore verso il mondo della comunicazione sottolineando che la natura tecnica e strutturata della parola non basta per essere “buoni comunicatori”. Bisogna tornare alle origini, alle sensazioni primordiali, al “porre orecchio” al mondo interno per non rischiare di essere sommersi da una società accelerata, che impone prestazioni e modelli perfetti, avulsi dal prendersi cura dell’essere umano. Una guida agile e accessibile a tutti, una guida che connette ed integra il tecnicismo dell’agire professionale a dei mini racconti che si pongono come spazi di riflessione per il lettore.

Si fa un gran parlare del termine assertività, ma spesso questo termine viene abusato oppure usato in contesti che non sono necessariamente corretti. L’assertività è una caratteristica che a che fare non solo, ovviamente, con la pura e semplice “comunicazione” (cosa peraltro ovvia per chi lavora con la salute mentale), ma anche con una caratteristica intima e propria di sé stessi che ci permette di auto affermarci, di interagire col mondo e con gli altri, in modo sempre rispettoso e coerente. Va da sé che l’assertività non è una caratteristica che può essere completamente appresa nel corso della vita. È vero che può essere affinata, può essere implementata, può essere addirittura imitata, ma essa è una caratteristica profondamente umana con la quale, a mio giudizio, si nasce e che si modella a partire dalle esperienze precoci di vita, dalle relazioni genitoriali e amicali, dal clima ambientale più o meno positivo e da tutte le esperienze che si fanno nel corso dell’esistenza.

La comunicazione assertiva presume un’assertività personale, su questo credo non ci siano dubbi. Inoltre presuppone sempre anche il rispetto dell’altrui opinione, per quanto questa possa essere, entro certi limiti, disfunzionale e fonte di malessere. Non possiamo essere comunicatori assertivi se non rispettiamo l’altrui opinione, anche se consideriamo quest’ultima un’espressione psicopatologica oppure un’idea che noi personalmente non condividiamo o rifiutiamo. Per essere efficaci comunicatori assertivi bisogna innanzitutto avere autoconsapevolezza, livellare la propria autostima, aspettarsi sempre una sorpresa dall’interazione con l’altra persona, cercare di non travalicare i propri limiti, di non essere kamikaze e di conservare sempre una caratteristica che nel mondo moderno spesso è negletta o ignorata, cioè l’empatia. La comunicazione assertiva, inoltre, serve anche per modulare il modo di veicolare le informazioni a seconda del contesto in cui noi ci troviamo: è possibile, in alcuni casi, che di fronte a determinate situazioni possiamo anche usare una comunicazione non troppo assertiva, modulandola a seconda del contesto.

L’errore che si fa spesso nella comunicazione è quello di sembrare “ex cattedra”, con atteggiamenti giudicanti e sprezzanti, quasi a voler ribadire che il mio modo di voler veder le cose è il modo corretto, mentre il modo altrui è assolutamente sbagliato e da cambiare. Questa non è in nessun modo una comunicazione assertiva, perché l’essere giudicanti presuppone che io, a priori, non rispetti l’opinione altrui, pur dissentendo da essa. Sono intimamente anche convinto che la comunicazione giudicante, non rispettosa, maldestra sia esattamente ciò che bisogna evitare in qualunque contesto e a maggior ragione quando si ha a che fare con la salute mentale e la sofferenza psichica.

La comunicazione assertiva, a mio modesto avviso, presuppone inoltre una consapevolezza delle proprie emozioni, dei propri sentimenti, stati d’animo e la capacità di poterli comunicare all’altro, non solo verbalmente ma anche usando tutti gli strumenti del linguaggio non verbale e dunque del non detto. Per di più noi sappiamo perfettamente che porsi in contrapposizione assolutamente ferma e mai opinabile porta molto raramente a risultati efficaci quando si comunica con un’altra persona che ha opinioni o pensieri che divergono dai nostri. La capacità di modulare la nostra opinione, senza ovviamente risultare falsi o fintamente accondiscendenti, è una capacità fondamentale nella vita umana per avere sane relazioni che possono in qualche modo permettere sia a noi stessi che agli altri di raggiungere i propri obiettivi e trovare punti di condivisione a volte assolutamente inaspettati.

Naturalmente la comunicazione assertiva è un qualcosa che tutti gli operatori della salute mentale conoscono sin troppo bene quando hanno a che fare con i disturbi psichiatrici gravi. Basti pensare agli errori di comunicazione che si fanno con le persone affette da depressione maggiore quando si dice loro “…tirati su dai, ce la devi fare da solo, hai tutte le possibilità per farcela, non essere triste, hai tutto dalla vita, eccetera”: questa comunicazione, che apparentemente potrebbe sembrare assertiva, in realtà è l’esatto contrario perché nasconde una totale irrispettosità di quella che è la situazione dell’altra persona e adombra il presupposto che il mio punto di vista sia assolutamente quello giusto e che l’altro sia semplicemente un errore. Sappiamo quanto questo genere di comunicazione possa creare problemi e peggioramenti proprio nei casi di depressione, per fare un esempio che sia facilmente comprensibile a tutti. In realtà la comunicazione assertiva noi la usiamo sempre molto finemente, gestendola a volte in modo inconsapevole anche in tante altre occasioni. Basti pensare a quelle situazioni in cui ci ritroviamo a gestire, ad esempio, un episodio psicotico in una persona con disturbo di personalità, forse uno dei più impegnativi e stressanti quadri che possiamo incontrare nella pratica clinica.

Sono fermamente convinto che l’assertività e la comunicazione assertiva non possono prescindere poi da una caratteristica fondamentale che sempre più viene trascurata: il buonsenso. Il buonsenso ci guida nelle scelte quotidiane, ci rende capaci di affrontare le complesse interazioni umane di tutti i giorni, ci restituisce il valore e il significato delle cose vere e della vita. Il buonsenso stesso è un valore fondante di ogni azione che noi facciamo, di ogni colloquio che intraprendiamo, di ogni gesto quotidiano. Dunque, nella comunicazione assertiva, il buonsenso è assolutamente un punto fermo. Ci può stare anche l’impulsività nella comunicazione, anche in presenza di buon senso, ma ove essa sia esagerata bisogna rimodularla, ammettere i propri sbagli, cambiare opinione ove possibile e necessario, riuscire a comprendere che dobbiamo imparare dall’esperienza e che gli errori, come esseri senzienti e umani, possiamo commetterli, ma che da essi dobbiamo trarre insegnamenti fondamentali.

Il volume di Valentina di Ludovico rappresenta una innovazione importante nel panorama dei tanti testi dedicati alla comunicazione e all’assertività per una serie di ragioni. L’autrice parte dal presupposto che fare riabilitazione non possa avvalersi di schemi rigidi e di manuali applicati e già questo consente di affermare che si entra in un campo in cui la comunicazione assertiva svolge un ruolo fondamentale: quanto può essere difficile capire gli schemi mentali dell’altro, mettersi nei panni dell’altro, risuonare emotivamente con l’altro, intercettarne i bisogni e i desideri, capire cosa egli desideri della vita e cosa in realtà gli manchi? È molto semplice: in realtà snobbare unificazione con l’altro e imporgli forzatamente quello che è nella nostra mente, quello che noi riteniamo giusto, quello che per gli studi che abbiamo fatto pensiamo sia una verità assoluta. Questo ci allontana molto spesso dall’altra persona perché non ci consente di entrare in comunicazione empatica con essa: quando abbiamo a che fare con una persona che soffre, e che magari è affetta da un disturbo psichiatrico grave, ci si rende conto nella pratica clinica quanto il seguire modelli standardizzati sia spesso fallace e fonte di incomprensioni.

L’autrice introduce il personaggio di Mindy, la quale porta la propria esperienza in prima persona, con tutte le difficoltà di comprensione dell’altro e di instaurazione di una comunicazione efficace e assertiva. Questo è un altro grande vantaggio del libro che permette una sorta di percorso guidato, permettendoci a nostra volta di empatizzare con gli utenti e, di fondo, con la stessa Mindy. Un altro aspetto di grande importanza è dato dal fatto che la comunicazione assertiva presuppone la conoscenza di quel complesso mondo fatto di infinite sfumature che appartiene all’altro e che non può essere riduttivo o ridotto a pura e semplice deduzione dall’alto. L’immedesimarsi è capacità centrale e in qualche modo anche, entro certi limiti, affinabile.

Potrei citare tanti altri valori e vantaggi che possiamo trarre dalla lettura di questo libro, ma mi piace soffermarmi soprattutto su uno di essi: la creatività. Comunicazione assertiva significa attingere alle proprie risorse interne e, principalmente, alla creatività personale, caratteristica presente in modo più o meno sfumato in tutti noi. Attenzione però, creatività non intesa nel senso che ogni cosa è permessa ma bisogna essere creativi sempre nel rispetto altrui, di alcuni protocolli e della validità scientifica di essi. Esercitare la comunicazione assertiva usando la creatività e l’accesso al proprio mondo emotivo è sempre fonte di illuminazione e di guida, per dirimere schemi maladattativi, fornire risposte capaci di comprendere la sofferenza ed evitare di entrare in circoli interpersonali disfunzionali che sappiamo bene essere alla base di molti quadri di cronicizzazione.

Il “fare” non corrisponde al “saper fare”, lo sappiamo bene, e certe volte lo dimentichiamo convinti che non abbiamo più nulla da imparare e che si possa fare, senza necessariamente dovere continuamente apprendere dalle nostre esperienze e dalla lettura di testi fondamentali. Il libro di Valentina Di Ludovico aiuta a saper fare e dunque, forse, tra tutti, questo è il miglior pregio che può derivare dalla sua lettura.

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Comuni-care (2021) di Valentina Di Ludovico - Recensione del libro

L’utilizzo della realtà virtuale in pazienti affetti da fobia sociale

La fobia sociale (social anxiety disorder – SAD) è caratterizzata da un’eccessiva paura del giudizio e delle reazioni degli altri e da intensa paura dell’imbarazzo e dell’umiliazione provati in contesti sociali (APA, 2013).

 

Tali individui, infatti, provano ansia in una vasta gamma di contesti sociali e nelle situazioni in cui devono compiere una performance (es. parlare in pubblico); la prevalenza di tale disturbo si attesta tra il 2 e il 13% (De Graaf, Ten Have & Van Dorsselaer, 2010; Kessler, Petukhova, Sampson, Zaslavsky & Wittchen, 2012)

In accordo con le linee guida NICE (National Institute for Health and Care Excellence, 2013), la terapia cognitivo-comportamentale risulta un trattamento d’elezione per la fobia sociale e una componente centrale di tale terapia risulta essere l’esposizione. Tale tecnica prevede che i pazienti si confrontino direttamente con quegli stimoli che generano ansia e paura, così da sperimentare in prima persona che le conseguenze negative temute in realtà non si verificano. Le teorie alla base sono due: l’Emotional processing theory (Foa & Kozak, 1986) e l’Inhibitory learning model (Craske et al., 2008), ed entrambe ipotizzano che il confronto con lo stimolo temuto consenta all’individuo di apprendere un nuovo tipo di informazione corretta e non spaventosa. Tuttavia, data la natura stessa del disturbo e la tendenza alla messa in atto dell’evitamento come comportamento di sicurezza, le situazioni sociali in cui praticare l’esposizione sono considerate spaventose per il paziente e, in alcuni casi, difficili da riprodurre per l’impegno e il tempo richiesto ai terapisti, anche in funzione della personalizzazione degli eventi trigger (Krijn, Emmelkamp, Olafsson & Biemond, 2004; Vanni et al., 2013). Infine, le esposizioni vengono spesso eseguite come esercizi a casa, sui quali viene fornito un feedback retrospettivo e fortemente dipendente dai report soggettivi del paziente. Per questo l’esposizione mediante realtà virtuale (VRET) è diventata un importante strumento terapeutico, utile per simulare quei contesti sociali che provocano un distress al paziente e che permettono così al terapeuta di mettere in atto un intervento efficace (Kampmann, Emmelkamp & Morina, 2016; Freeman et al., 2017).

Benché negli ultimi anni siano stati sviluppati numerosi ambienti sociali, utilizzabili con la realtà virtuale, gli studi che hanno valutato l’efficacia della VRET nel trattamento della fobia sociale sono esigui. Klinger e collaboratori (2005) sono stati i primi a valutare l’efficacia della VRET; nello specifico i pazienti con fobia sociale sono stati divisi in due gruppi: il primo ha ricevuto 12 sessioni con VRET, esponendosi a 5 diversi ambienti virtuali che simulavano differenti situazioni sociali, mentre il secondo gruppo è stato trattato con la terapia cognitiva comportamentale (CBT) standard. I risultati hanno dimostrato che la VRET è risultata efficace tanto quanto la CBT standard.

A questo primo studio pilota ne sono seguiti altri. Bouchard et al., (2011) hanno comparato l’utilizzo dell’esposizione “in vivo” con quella virtuale nel trattamento con terapia cognitivo-comportamentale; i ricercatori, infatti, hanno suddiviso i pazienti con fobia sociale in tre gruppi sperimentali: il primo gruppo è stato trattato con la CBT e con sessioni di esposizioni “in vivo”, il secondo gruppo con CBT con l’aggiunta di esposizione in realtà virtuale e l’ultimo gruppo non ha ricevuto alcun trattamento, fungendo da gruppo di controllo. I risultati hanno dimostrato che entrambi i trattamenti con CBT sono risultati significativamente più efficaci rispetto al gruppo di controllo e non sono state trovate differenze rilevanti tra l’esposizione in vivo e quella virtuale. Tali evidenze sono state confermate da una ricerca condotta due anni dopo, dimostrando che sia l’esposizione condotta con realtà virtuale che quella sperimentata in vivo hanno prodotto miglioramenti nella percezione negativa di sé e degli altri, nella regolazione emotiva, nella ruminazione e nel porre obiettivi realistici durante le situazioni sociali (Anderson et al., 2013); risultati che sono stati poi confermati nei follow-up condotti a distanza di 4 e 6 anni.

Nel 2018 è stato pubblicato da Chesham, Malouff e Schutte uno studio su due meta-analisi, riguardante l’efficacia della VRET nella riduzione dei sintomi dell’ansia sociale. Nella prima è stata comparata l’efficacia della tecnica di esposizione con la realtà virtuale rispetto al gruppo di controllo, mentre nella seconda rispetto ai trattamenti standard con esposizione in vivo e in immaginazione. Nello specifico le ipotesi di ricerca sono che il trattamento con esposizione con la tecnica di realtà virtuale sia più efficace nel ridurre i sintomi dell’ansia sociale rispetto al gruppo di controllo e che gli interventi CBT standard siano più efficaci nel ridurre i sintomi dell’ansia sociale rispetto alla VRET.

Dai risultati è emerso che per quanto riguarda la prima ipotesi di ricerca, l’analisi effettuata su sei studi con 233 partecipanti totali conferma una significativa riduzione di ansia sociale con VRET rispetto al gruppo di controllo. Per quanto riguarda, invece, il confronto tra VRET e trattamento CBT standard, l’analisi effettuata su sette studi con 340 partecipanti totali rileva una riduzione di ansia sociale maggiore nel trattamento standard con esposizione in vivo o immaginativa ma non di valore significativo, in contrasto con quanto ipotizzato. Tale risultato è in linea con due precedenti meta-analisi (Opris et al., 2012; Kampmann, Emmelkamp & Morina, 2016) ma rispetto a queste ultime, la ricerca in oggetto risulta più generalizzabile e affidabile in quanto ha confrontato un numero maggiore di studi, ha allineato il bias da pubblicazione, ha riportato risultati sia per RCTs che per studi ben controllati.

Più recentemente, Geraets e colleghi (2019) hanno effettuato un’ulteriore ricerca per evidenziare la fattibilità e i potenziali effetti della VRET-CBT in pazienti con fobia sociale, utilizzando un software che ha consentito ai terapisti di manipolare gli ambienti visualizzati dai partecipanti. Durante le 15 sessioni di VRET, i pazienti hanno testato le loro credenze, sono stati sollecitati i comportamenti di approccio sociale e sono stati forniti feedback su cognizioni e comportamento. I risultati hanno mostrato che l’ansia e il rimuginio durante l’interazione sociale e i sintomi depressivi sono stati significativamente ridotti dopo il trattamento con la realtà virtuale, migliorando notevolmente la qualità della vita dei partecipanti, anche nel successivo follow-up.

In conclusione, è possibile affermare che le ricerche condotte sull’utilizzo della realtà virtuale, abbinata alla CBT, nel trattamento della fobia sociale ha prodotto risultati promettenti, specialmente se tale realtà risulta interattiva; infatti da una successiva review condotta nel 2020 da Emmelkamp e colleghi, è emerso che tanto più l’ambiente virtuale è interattivo (es. dialogo con gli avatar, modificazione delle espressioni facciali dei personaggi, avere un’audience) tanto più l’esposizione è percepita immersiva e quindi efficace.

 

Mindfulness: psicologia buddhista e scienza. Le conoscenze essenziali per istruttori e terapeuti (2021) di Christina Feldman e Willem Kuyken – Recensione del libro

Mindfulness: psicologia buddhista e scienza. Le conoscenze essenziali per istruttori e terapeuti mantiene le promesse, ossia parlare della Mindfulness e delle sue caratteristiche essenziali nell’ottica integrata di Scienza e Tradizione.

 

 Chistina Feldman e Willelm Kuyken sono gli autori del libro Mindfulness: Psicologia Buddhista e Scienza curato da Antonio Cammellato e Fabio Giommi.  Un testo destinato a istruttori e terapeuti che tratta, con successo, di Mindfulness nella sua accezione più completa e ampia integrando i contributi della Psicologia come Scienza e della Psicologia Buddista. Un libro di Mindfulness scritto e curato da chi pratica e conosce la Mindfulness da molti anni e che cerca di farsi un posto tra gli scaffali degli ormai tantissimi libri che riempiono le librerie parlando di “consapevolezza” e “qui ed ora”.

Chistina Feldman è un’insegnante di meditazione e una figura di riferimento nell’ambito dell’Insight Meditation, conduce ritiri a livello internazionale, è cofondatrice del progetto Gaia House, è docente al Bodhi College, entrambi nel Regno Unito e autrice di numerosi libri. Willelm Kuyen è Professor of Mindfulness and Psychological Science all’Università di Oxford e direttore dell’Oxford Mindfulness Center. Si occupa, tra le altre cose, del ruolo della Mindfulness nella prevenzione delle ricadute, autore di numerosi articoli scientifici.

Le impronte di entrambi permeano la scrittura fatta di costanti rimandi alla tradizione della Psicologia Buddista da un lato e a cenni altrettanto importanti ai programmi basati sulla Mindfulness. Dalla loro sinergia nasce la possibilità di questo libro che integra aspetti legati alla tradizione con i contributi della Psicologia come Scienza rispecchiando l’attualità e l’esigenza di coinvolgere entrambi gli aspetti quando si parla di Mindfulness.

Alcuni Istruttori potrebbero non avere conoscenze nel campo della Scienza e alcuni terapeuti potrebbero aver bisogno di entrare nella profondità della Psicologia Buddista pertanto il libro nasce proprio con il fine di parlare ad entrambi; parlare un linguaggio che sempre più naturalmente si rivela compatibile e perfettamente amalgamabile come rivelano ormai i sempre più numerosi contributi che integrano pratiche contemplative e neuroscienza.

Raccontare la Mindfulness nel terreno laddove nasce in origine, amplia la prospettiva del suo significato. Nel testo viene prestata la dovuta attenzione alla filosofia e ai significati che costituiscono il substrato della pratica Mindfulness che non può rischiare di passare in secondo piano costituendone le basi stesse. L’incontro tra Psicologia Buddista e Scienza moderna è il presupposto per coltivare il cammino dalla sofferenza ad un miglioramento del proprio benessere. Il libro di 357 pagine è denso e ricco di informazioni, concetti, esercizi, pratiche, ma si fa leggere con estrema fluidità.

Ci sono molti testi che aprono il loro indice con il titolo “Cos’è la Mindfulness?” ma questo testo sicuramente risponde in modo non ovvio e integrato alla domanda, inglobando sia le conoscenze relative all’emergere e al proliferare dei programmi Mindfulness Based, sia sottolineando la “saggezza antica” (pp.8) che risulta quanto più attuale e contemporanea. I contenuti e le modalità in cui questa viene trattata sono originali e non scontati. Nei trafiletti tra le pagine si imparano a conoscere 4 personaggi che si dispiegheranno lungo il corso del libro, ognuno con la propria storia, la propria inevitabile sofferenza e il proprio percorso di consapevolezza e di come questa li abbia aiutati mano mano a (ri)conoscere e liberarsi dalle loro catene: Mohamed perso nella resistenza ai suoi dolori cronici, Ling recidiva alla depressione, Sophia in lotta con la sua voce autocritica e Sam con problematiche di dipendenza. 4 vite che si svelano mano a mano nei capitoli che esplicitano la pragmaticità degli insegnamenti che vengono raccontati nei vari capitoli.

Più definizioni, ma soprattutto un focus più preciso su cosa sia La Consapevolezza intesa come uno stato mentale dell’essere presenti, un processo di dispiegamento dell’esperienza e una facoltà che si può, pertanto, addestrare. Grande importanza, a ragion veduta, viene data all’intenzione e alle qualità attitudinali come la gentilezza, la curiosità e la pazienza, che permeano il terreno di chi pratica (e di chi insegna) la Mindfulness.

Si parla di Mappe, un minimo comune denominatore che si snoda nella parte centrale del libro: “la Mappa della mente” e la “Mappa della Psicologia Buddista”, la “Mappa della Sofferenza” e la “Mappa della Trasformazione”.

La parte del libro dedicata alla Scienza Psicologica affronta tematiche relative ai processi cognitivi, primo fra tutti l’attenzione, alla differenza tra emozioni, cognizioni e sensazioni fisiche e al loro costante integrarsi e influenzarsi nell’esperienza. Argomenti che possono risultare familiari ad un lettore del settore ma non per questo risultano in alcun modo banali poiché vengono affrontati nell’ottica degli insegnamenti Mindfulness Based. Utili all’Istruttore che ha familiarità, fondamentali per chiunque si voglia avvicinare all’insegnamento. Sempre da questa prospettiva si parla del pilota automatico, della mente giudicante e del suo costante vagare, ma non come spesso accade per “convincere” come la Mindfulness possa essere d’aiuto quanto piuttosto per “spiegarlo”. Accenni agli studi più importanti nel campo delle Neuroscienze e rimandi costanti ai programmi Mindfulness Based (con particolare riferimento al programma MBCT Mindfulness based Cognitive Therapy, Segal, Williams, Teasdale,) si snodano lungo le pagine in modo da chiarire con un senso incredibilmente pratico a accurato i vari aspetti che poi vengono trattati nelle sessioni di gruppo.

 La parte seguente, dedicata alla Psicologia buddista, con un linguaggio chiaro e immediato affronta tematiche relative alla sofferenza e alla sofferenza della sofferenza, al potere della resistenza e del desiderio, all’impermanenza, e ai modi per stabilire la consapevolezza (i quattro fondamenti: consapevolezza del corpo, tonalità edonica delle sensazioni, stati mentali e stati d’animo e esperienze del mondo). Questi quattro punti vengono raccolti e raccontati ancorandosi sempre alle pratiche dei programmi Mindfulness Based e quindi con un focus proprio su quelle pratiche formali ed informali che vanno a lavorare sui diversi fondamenti. Come ogni libro sulla pratica Mindfulness che si rispetti non mancano momenti di invito alla pratica stessa con esercizi di consapevolezza guidati.

Vengono utilizzati, come accennato in precedenza, termini della tradizione e della Psicologia Buddista, finemente raccontati nell’ottica dei Programmi di Mindfulness. I due linguaggi permeano l’uno nell’altro rendendo difficile categorizzare il testo, non appare come un vero e proprio manuale per la fluidità delle pagine che scorrono anche se la qualità e la quantità delle informazioni lo renderebbe tale. Il testo scorre in modo davvero intuitivo raccontando come le pratiche della Mindfulness che vengono proposte durante i percorsi di due mesi sostengano la via verso un miglioramento del benessere della persona in tutte le varie sfaccettature.Tabelle riassuntive spiegano gli insegnamenti nelle varie sessioni dei programmi. Il libro non si sostituisce ad un vero e proprio manuale di insegnamento di queste, ma ne racconta le parti essenziali, come cita il sottotitolo del testo stesso. Un approfondimento per chi conosce già, una lettura necessaria per chi vi si approccia in prima battuta.

Anche per chi anche avesse già dimestichezza con i programmi, infatti, il libro risulta comunque fluido ed interessante legando tutti gli aspetti che vengono affrontati di sessione in sessione sia dal punto di vista della Psicologia sia della Tradizione.

Un bellissimo capitolo affronta le essenziali qualità di Benevolenza, Compassione, Gioia ed Equanimità attraverso una semplice e profonda spiegazione delle loro caratteristiche, di cosa siano davvero (e non assomiglino) e di cosa NON siano davvero. Ed è questo capitolo che apre la strada agli ultimi, dove rilievo viene dato all’importanza di rispettare la figura dell’Istruttore o Insegnante di Mindfulness nella sua accezione più completa. E quindi anche nella sua formazione.

Si affronta dapprima il concetto di “Embodiment” quindi della continuità tra i nostri valori, il modo in cui pensiamo, agiamo e parliamo per proseguire a disquisire sulle non affatto banali tematiche di Etica e Integrità che non possono non essere parte integrante delle persone coinvolte nell’insegnamento di questa delicata attitudine che difficilmente passano da corsi di formazione “fast food “ che rischiano di snaturare la complessità e la natura stessa della Consapevolezza Mindfulness. Il libro si completa con due Appendici, una prima con una raccolta di definizioni essenziali e la seconda che sottolinea l’importanza di comprendere cosa sia l’addestramento alla consapevolezza e quali sono le caratteristiche che definiscono un programma Mindfulness Based.

In definitiva un testo che è stato scritto e curato non solo da chi conosce l’argomento dal e nel profondo, ma anche da chi ha a cuore che gli insegnamenti vengano proposti con la giusta delicatezza e il giusto rispetto. Si parla tanto di “stare nel presente” e di quanto i suoi benefici siano ormai oggetto di evidenza scientifica, ma per parlare di Mindfulenss occorre vestirla, conoscerla, praticarla, e fare il bagno in tutto il passato radicato al di sotto, per poterlo poi portare nei vari programmi Mindfulness Based ormai noti in tutto il mondo.

Si tratta pertanto di un testo che mantiene le promesse, ossia parlare della Mindfulness e delle sue caratteristiche essenziali nell’ottica integrata di Scienza e Tradizione. Non è il primo che si lancia nell’impresa ma sicuramente uno dei più completi e appaganti in tal senso.

 

Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti (2021) di Pietro Roberto Goisis- Recensione del libro

Nella stanza dei sogni è un’opera emozionante e coinvolgente. Lo psicoanalista Pietro Roberto Goisis si mette a nudo e con straordinaria maestria apre le porte del suo studio. Cosa accade una volta varcata quella soglia?

 

Lo psicoanalista Pietro Roberto Goisis si mette a nudo e con straordinaria maestria apre le porte del suo studio, ci conduce dietro le quinte dei colloqui con i suoi pazienti e, prendendoci per mano, ci accompagna proprio lì, in quella stanza. Cosa accade una volta varcata quella soglia? Quali sono le narrazioni, i pensieri, le emozioni che caratterizzano l’analista? E i pazienti? Alternando la narrazione in prima persona, alla voce dei pazienti, veniamo accompagnati in un viaggio fatto di incontri, di prime volte, di attese, di scoperte, di emozioni e sentimenti.

I primi capitoli affrontano il tema del primo incontro tra analista e paziente, dando voce alla storia di Anita, Alessandra e Simona, e il tema dell’adolescenza con le narrazioni di Annibale, Greta, Antonio e Matteo. I capitoli successivi trattano temi universali come il senso della vita, il suicidio, la morte, l’omosessualità, il cambiamento e la crescita, non solo del paziente ma anche del terapeuta nel corso della pratica clinica. Il racconto di stralci di vita dell’autore si alterna alle storie dei pazienti offrendo una lettura scorrevole, profonda, toccante. La narrazione porta il lettore ad empatizzare profondamente con ogni singola voce, provando emozioni di dolore e sorpresa, gioia e commozione. Emergono la complicità, l’energia e il potere dell’incontro tra due persone che si parlano intimamente e si trasformano. Affiorano le riflessioni, i dubbi e le emozioni di un analista appassionato, profondamente umano. Per essere aiutati i pazienti hanno bisogno di affezionarsi al proprio terapeuta ma è altrettanto importante che il terapeuta voglia bene a chi si accomoda di fronte a lui.

Cosa accade quando una terapia giunge al termine? Come si salutano analista e paziente? Cosa si dicono? La parte finale del libro è dedicata proprio alle chiusure, ai saluti, agli arrivederci, agli addii attraverso le storie di Sara, Paula ed Eleonora. Citando l’autore per poter aiutare chi giunge in terapia a riscrivere la propria storia è necessario raggiungere un altissimo livello di intimità relazionale, a volte addirittura paragonabile a quello di un legame affettivo; quando poi la persona esce per sempre dalla vita del terapeuta è come se un figlio che è stato amorevolmente accompagnato nella crescita, se ne andasse di casa “orgoglio e dispiacere al tempo stesso”. Il paziente, che si prepara a salutare il proprio analista, sa che il viaggio della vita continua con maggiori consapevolezze, un nuovo equilibrio e con la voce del proprio terapeuta dentro di sé che riecheggia amorevolmente, in una sorta di dialogo interno, lungo le strade della vita.

Trasparenza e autenticità accompagnano tutta la narrazione rendendo l’opera una guida preziosa per tutti, un libro da leggere più volte, su cui continuare a riflettere nel tempo.

 

Questionario online SatisFACE: percezione dell’immagine digitale di sé – Survey Online

Il progetto SatisFace nasce dalla collaborazione tra la Facoltà di Psicologia dell’Università Vita Salute S. Raffaele e l’Università Sigmund Freud di Milano e mira ad indagare la percezione dell’immagine del sé in diversi contesti e costrutti psicologici.

 

 La costruzione dell’immagine di sé è un processo complesso e dinamico, costituito dall’equilibrio tra la percezione di sé e la percezione che gli altri hanno di noi. La prima si riferisce a come noi stessi ci vediamo e riconosciamo, deriva da riflessioni sul nostro sé. La seconda è legata al modo in cui gli altri ci vedono e da come pensiamo di essere visti e percepiti dagli altri.

A causa dell’emergenza sanitaria e delle restrizioni anti-COVID, indispensabili per la salute pubblica, le comunicazioni online virtuali si sono necessariamente intensificate e il modo in cui interagiamo con gli altri si è trasformato.

La rappresentazione di sé online risulta differente rispetto a quella faccia a faccia, le interazioni virtuali sono senza dubbio più soggette a distorsioni dovute alla desiderabilità sociale: gli utenti hanno la possibilità di decidere quali caratteristiche fisiche e caratteriali esibire per aumentare l’approvazione sociale.

Sui social media non è infrequente imbattersi in foto o selfie accuratamente modificati tramite filtri, applicazioni di fotoritocco o make-up virtuale. La continua ricerca della perfezione, accessibile solo tramite fotoritocco o addirittura con il ricorso alla chirurgia plastica, promuove un modello di bellezza distorto e irraggiungibile, provocando un gap tra corpo reale e corpo ideale che altera l’autostima e il benessere personale e sociale.

La soluzione che ha permesso il rispetto del distanziamento sociale, pur assicurando una continuità lavorativa, educativa e relazionale sono le videochiamate. Le piattaforme digitali, utilizzate per favorire smartworking, didattica a distanza, e mantenere le relazioni interpersonali, ci sottopongono ad un costante confronto con l’immagine speculare del nostro stesso viso, permettendoci di vedere e alterare la naturale mimica facciale durante la conversazione o modificare la posa in modo da ottenere una miglior rappresentazione di noi nell’inquadratura. Il nostro volto diviene così lo stimolo più efficace e quello più esposto del nostro corpo, non solo agli occhi degli altri ma anche al nostro stesso sguardo.

Questa costante visione del proprio volto attraverso uno specchio virtuale può rappresentare una fonte di ansia e stress, in quanto induce a interrogarsi su sé stessi e sulla percezione che gli altri hanno di noi, generando così una possibile insoddisfazione dell’immagine di sé: oltre il 30% delle persone in videochiamata ha notato un difetto del proprio volto mai identificato prima (Pikoos, 2021).

Anche lo stato di salute personale può influenzare diversi atteggiamenti e comportamenti nel processo della costruzione dell’immagine di sé.

All’interno del contesto clinico, l’indagine si concentra sui pazienti con attuale o antecedente diagnosi di cancro, in quanto i pazienti oncologici comunemente sperimentano cambiamenti significativi a seguito delle terapie che mutano la relazione con l’immagine di sé.

L’associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) riporta che oltre il 50% dei pazienti oncologici si rivolge ai social per ulteriori informazioni sanitarie, per condividere la propria esperienza e ricevere supporto. Negli ultimi anni sono aumentati profili personali, gruppi e pagine dedicate alla condivisione e informazione oncologica.

 Il progetto SatisFace nasce dalla collaborazione tra la Facoltà di Psicologia dell’Università Vita Salute S. Raffaele e l’Università Sigmund Freud di Milano e mira ad indagare la percezione dell’immagine del sé nei contesti sopra descritti e costrutti psicologici quali l’autostima, l’ansia e la depressione. La soddisfazione rispetto all’immagine di sé, così come declinata ed esplorata nel progetto SatisFace, si concentra sul viso, protagonista delle interazioni virtuali e sui social network. Questo è un aspetto estremamente innovativo dal momento che gran parte della letteratura sulla soddisfazione con l’immagine di sé prende in considerazione prevalentemente l’intero corpo.

Le attività previste dal progetto di ricerca sono volte ad approfondire, a livello teorico e pratico, come e se è cambiato il rapporto con il proprio viso nell’era digitale, come l’innovazione tecnologica ha portato ad una evoluzione dell’immagine digitale e se ci sono stati o meno risvolti e ripercussioni per i fruitori.

Il questionario, strutturato per tutte le persone maggiorenni, ha una parte specifica dedicata solamente ai pazienti che hanno affrontato un percorso di malattia oncologica per indagare il ruolo dello stato di salute nella relazione con l’immagine di sé mediata dalle tecnologie digitali.

 

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La ringraziamo per il tempo che ci ha dedicato e per aver contribuito allo sviluppo della nostra ricerca.

Autori:

 

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