expand_lessAPRI WIDGET

Primo amore (2004) – Cinema & Psicoterapia

Quante donne subiscono gli eccessi dei loro partner senza che essi arrivino alla patologia? Primo amore non è un film sull’anoressia, ma sulla patologia dell’amore, sul rapporto distorto di potere nella relazione uomo-donna. 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Trama

 Un orafo veronese ha un’ideale femminile: la sua donna deve essere molto magra e avere una testa che possa sostenere il comportamento da assumere per mantenere in termini perentori il peso ideale.

Incontra con un appuntamento al buio Sonia, è attratto, anche se si dimostra freddo e le chiede di dimagrire. La donna aderisce al folle progetto di Vittorio e inizia una dieta strettissima che la porta a essere schiava del suo aguzzino. Il suo è un gesto d’amore che si conclude in modo drammatico quando si rende conto della psicopatologia del suo compagno.

Motivi d’interesse

Quante donne subiscono gli eccessi dei loro partner senza che essi arrivino alla patologia?

Vittorio controlla Sonia, evita che lei si possa cibare di carboidrati e grassi. Il possesso dell’altro diventa esasperato e la prigionia della donna si fa sempre più dura e inaccettabile.

L’ossessione dell’uomo polarizza i suoi scopi al punto che lo porta a chiudere la sua attività; tutto ruota intorno all’alimentazione e al peso della sua compagna.

Sonia è costretta in situazioni sociali a fare delle brutte figure, oggetto di scenate e costrizioni di ogni genere, umiliata.

Esasperata, approfittando della distrazione del suo partner, lo colpisce con un attizzatoio mortalmente.

 Il finale è una provocazione che libera lo spettatore dall’inquietudine rabbiosa che accompagna il percorso narrativo. L’aumento dei femminicidi dimostra che le cose non vanno proprio come nel film. Il potere esercitato sulle donne ribalta l’epilogo della storia nella vita reale.

Primo amore non è un film sull’anoressia, ma sulla patologia dell’amore, sul rapporto distorto di potere nella relazione uomo-donna. L’amore di Sonia che arriva fino alla dipendenza affettiva si contrappone alla volontà di possesso di Vittorio che vuota il corpo della donna, lo cesella, lo modella, espropriandola da tutto ciò che circonda la sua mente per impadronirsene.

Indicazioni di utilizzo

Il film può essere un ottimo stimolo di riflessione lungo il percorso di una terapia di coppia o per uomini che non si rassegnano ad accettare l’indipendenza e l’autonomia della propria compagna.

Infedeltà. Scienza delle relazioni e psicoterapia (2021) di Lawrence Josephs – Recensione del libro

Il libro si rivolge agli psicoterapeuti che si occupano di pazienti alle prese con i conflitti che derivano dall’infedeltà, allo scopo di promuovere empatia e comprensione nei confronti di tutti coloro che vivono l’esperienza del triangolo amoroso.

 

L’infedeltà appartiene a quel tipo particolare di traumi prodotti dalle azioni consapevoli e determinate di un essere umano con il quale la vittima ha un legame profondo e significativo. L’autore propone, nel volume, un approccio di tipo integrato al trattamento, che unisce il punto di vista della scienza delle relazioni con ricerche di psicologia sociale, psicologia della personalità e psicologia evolutiva attraverso l’uso di tecniche e relazioni terapeutiche evidence-based.

Nel corso degli anni, le diverse branche della psicologia, si sono occupate dell’argomento anche se le loro intuizioni hanno trovato poca applicazione nella pratica; la svolta è arrivata grazie alle ricerche sugli stili di attaccamento adulto e sulla loro relazione con gli stili di comunicazione coniugale, dalle quali è emerso che i soggetti con attaccamento sicuro riescono ad attivare stili di comunicazione coniugale più costruttivi e hanno minori probabilità di essere infedeli. Le persone con patologie hanno maggiori difficoltà nel gestire i conflitti, per questo i tassi di prevalenza dell’infedeltà sono più alti tra i soggetti che hanno un attaccamento insicuro, oppure elevati livelli di narcisismo. L’infedeltà può essere, quindi, una conseguenza di disturbi di personalità latenti che producono pattern disadattivi di comunicazione all’interno delle relazioni intime.

I nuovi studi hanno anche collegato la presenza di uno stile di attaccamento insicuro con la compromissione della funzione riflessiva, ovvero della capacità di riflettere sui propri e altrui stati mentali. Il trattamento terapeutico dell’infedeltà può quindi consistere, da un lato, nel tentativo di facilitare la costruzione di un attaccamento sicuro tra i membri della coppia, e dall’altro, nell’incremento della capacità riflessiva.

Nelle coppie in condizioni di stress, i partner tendono ad incolparsi reciprocamente per la propria infelicità, come se l’altro ne fosse l’unica causa. In realtà, servirsi del partner come mezzo per ottenere una catarsi emotiva ha l’effetto di ostacolare l’empatia e contribuire all’esacerbazione dei problemi sui quali si recrimina, incrementando la propria disregolazione e sommergendo l’altro con sentimenti opprimenti che non sa affrontare.

Per avere successo in una relazione a lungo termine è utile possedere un particolare tipo di capacità riflessiva sia verso i propri stati mentali sia verso quelli del partner. Essa può essere sviluppata grazie all’aiuto del terapeuta e fa comprendere al paziente che, da una parte, i propri difetti caratteriali producono un impatto negativo sugli stati mentali del partner perché possono sollecitarne le caratteristiche peggiori, e dall’altra, che l’infedeltà infligge un danno psicologico difficile da sanare perché lede il valore personale e compromette la capacità di fidarsi delle altre persone.

Un’altra variabile fondamentale nella costruzione di positive relazioni a lungo termine è l’autenticità, cioè essere aperti ed onesti nelle relazioni intime. Essa è opposta al gioco relazionale narcisistico ed è, invece, associata ad un attaccamento sicuro e alla capacità di mettere in atto comportamenti relazionali sani, oltre che a maggiori capacità di mindfulness e a caratteristiche come una minore propensione all’argomentazione difensiva, la disponibilità ad apparire vulnerabili e il rifiuto all’inganno.

Le persone autentiche hanno difficoltà a tollerare i sentimenti spiacevoli prodotti dalla menzogna o dalla mancanza di onestà nei confronti di sé stessi poiché si crea un “sovraccarico cognitivo”, che può ridurre la capacità di regolazione dei processi emotivi.

Le credenze specifiche relative all’infedeltà spesso riflettono idee che appartengono alla cultura popolare ed esprimono i valori morali più diffusi: si instaura quello che gli psicologi cognitivi chiamano pensiero dicotomico e diventa molto difficile la promozione di un pensiero dialettico, cioè la capacità di tenere in considerazione entrambe le posizioni in una situazione di conflitto. Questo rende difficile il lavoro del clinico in quanto parte neutrale, infatti l’investimento dei pazienti nelle proprie credenze è rilevante e soprattutto essi si aspettano che il terapeuta le validi, invalidando, nello stesso tempo, le credenze di segno opposto. L’alleanza terapeutica può, quindi, risultare incrinata dalle relazioni negative dei pazienti ai tentativi dell’esperto di facilitare lo sviluppo di una metaprospettiva che permetta di prendere in considerazione tutti gli aspetti di un conflitto.

Trattare l’infedeltà significa indurre i pazienti a mentalizzare la psicologia dei triangoli amorosi e del tradimento sessuale tenendo conto della propria disregolazione emotiva e delle modalità difensive messe in atto per farvi fronte. Questo non significa necessariamente idealizzare la monogamia, ma riconoscere che un rapporto monogamico non consensuale configura un comportamento non etico che danneggia la relazione, indipendentemente dal genere e dall’orientamento sessuale. Il trattamento dell’infedeltà, sia individuale che di coppia, richiede un’integrazione tra psicoterapie differenti, che prevede la combinazione di approcci psicodinamici per incrementare il funzionamento riflessivo con approcci comportamentali che utilizzano l’accettazione mindful dei difetti del partner, l’addestramento delle capacità di comunicazione, e un intervento focalizzato sulle emozioni per sanare le ferite dell’attaccamento.

L’autore affronta, in ogni capitolo, il tema dell’infedeltà da un punto di vista differente:

  • nel capitolo 1 dal punto di vista della psicologia evoluzionista;
  • nel capitolo 2 come sinonimo di attaccamento insicuro e di un ridotto funzionamento riflessivo;
  • nel capitolo 3 analizza le differenze di genere rispetto alle cause del tradimento e come esse interagiscono con lo stile di attaccamento;
  • nel capitolo 4  si occupa dell’infedeltà come conseguenza della modalità narcisistica di gestione dell’attaccamento insicuro;
  • nel capitolo 5 considera l’infedeltà dal punto di vista della desiderabilità di un individuo in qualità di partner in una relazione sentimentale;
  • nel capitolo 6  tratta la psicologia della gelosia amorosa e l’infedeltà come vendetta;
  • nel capitolo 7 esamina l’evoluzione dei motivi dell’infedeltà nel corso della vita;
  • nel capitolo 8 illustra i problemi dei partner traditi o degli amanti quando il traditore non rinnova l’impegno verso la monogamia;
  • nel capitolo 9 descrive le difficoltà del trattamento dell’infedeltà quando è secondaria ad una dipendenza sessuale;
  • nel capitolo 10  esamina gli stili di comunicazione associati a fedeltà ed infedeltà;
  • nel capitolo conclusivo descrive gli elevati livelli di mentalizzazione, autenticità e generatività che sembrano essere gli ingredienti essenziali per il successo delle relazioni a lungo termine.

 

Cosa differenzia uomini e donne nella manifestazione della paura del dolore?

Negli anni i ricercatori hanno proposto numerose spiegazioni per giustificare le differenze di sesso nella tolleranza al dolore, motivazioni che si focalizzano per lo più su fattori biologici, genetici ed ormonali ma, al giorno d’oggi, è più evidente come anche i fattori psicologici, tra cui i tratti individuali, giochino un ruolo cruciale.

 

 La paura del dolore può essere definita come il timore estremo ed irrazionale del dolore fisico. Tale convinzione, propria di alcuni soggetti, talvolta raggiunge dei livelli così estremi da rivelarsi più invalidante del dolore stesso (Crombez, Vlaeyen, Heuts, & Lysens, 1999).

Infatti, quando il dolore è vissuto con poca paura, è probabile che i pazienti lo affrontino mantenendo l’impegno nelle attività quotidiane, attraverso le quali viene promosso il recupero funzionale. Al contrario, quando l’esperienza del dolore è temuta, le interpretazioni disfunzionali danno luogo a comportamenti associati alla ricerca di sicurezza, come l’evitamento e l’ipervigilanza, che possono portare a dolore cronico, disabilità e depressione (Leeuw et al., 2007).

I modelli che si focalizzano sui comportamenti connessi al dolore (Vlaeyen & Linton, 2000) delineano il ruolo cruciale svolto dalla paura di quest’ultimo nella comprensione del dolore cronico e forniscono un resoconto di come tale paura si sviluppi (Leeuw et al., 2007) ma, questi modelli, non tengono conto delle differenze di genere.

Difatti, quando soffrono, uomini e donne non reagiscono allo stesso modo.

Un corpus di letteratura indica che le donne, rispetto agli uomini, presentano soglie del dolore e livelli di tolleranza significativamente più bassi (Fillingim, 2003). Esse hanno infatti maggiori probabilità di riferire esperienze più intense e più frequenti di dolore clinico, tra cui tensione, emicrania o dolore muscoloscheletrico.

Negli anni i ricercatori hanno proposto numerose spiegazioni per giustificare queste differenze di sesso, motivazioni che si focalizzano per lo più su fattori biologici, genetici ed ormonali (Aloisi et al., 2009) ma, al giorno d’oggi, è più evidente come anche i fattori psicologici, tra cui i tratti individuali, giochino un ruolo cruciale nella minor tolleranza al dolore delle donne (Soric ́, Penezic ́, & Buric ́, 2013).

Nel contesto specifico della paura del dolore, il nevroticismo potrebbe ricoprire un ruolo rilevante. Difatti, secondo la maggior parte degli autori (Costa & McCrae, 1992; DeYoung & Gray, 2009), il nevroticismo implica una maggiore sensibilità alla minaccia, a cui consegue una serie di emozioni negative che accompagnano tali esperienze, tra cui ansia, depressione, rabbia ed irritazione.

Sembra dunque esserci un legame stabile tra nevroticismo e paura del dolore.

Secondo la teoria dei Big Five, il nevroticismo presenta sei sfaccettature: ansia, rabbia/ostilità, depressione, autocoscienza, impulsività e vulnerabilità. Di queste sfaccettature, l’ansia sembra essere più strettamente collegata alla paura del dolore (Keogh & Asmundson, 2004).

Inoltre, secondo la letteratura, le donne presentano tratti più elevati di nevroticismo, rispetto agli uomini (Vecchione, Alessandri, Barbaranelli, & Caprara, 2012).

I legami sopra esplicitati tra sesso, nevroticismo e paura del dolore suggeriscono dunque che il nevroticismo potrebbe mediare la relazione tra sesso e paura del dolore ma, tale modello di mediazione non è stato ancora verificato.

È per tal motivo che alcuni autori si sono proposti di verificare l’ipotesi che il nevroticismo possa mediare la differenza tra donne e uomini rispetto alla paura del dolore. Nello specifico, gli autori hanno ipotizzato che le donne avrebbero sperimentato più paura del dolore, rispetto agli uomini, in parte perché esse presentano tratti più elevati di nevroticismo.

Dato lo stretto legame tra paura, ansia e genere, ci si aspettava che la dimensione dell’ansia del nevroticismo avrebbe spiegato le differenze di sesso rispetto alla paura del dolore.

Allo studio hanno preso parte 227 soggetti, di cui 94 uomini e 133 donne, con un’età media di 23 anni. Al momento del reclutamento, i ricercatori hanno detto ai partecipanti che l’obiettivo dello studio era quello di comprendere le differenti percezioni che le persone hanno di loro stesse.

Al fine di poter valutare i tratti di nevroticismo e la paura del dolore, i soggetti hanno compilato rispettivamente il NEO-PI-R (Rolland, Parker & Stumpf, 1998) e il Fear of Pain Questionnaire (Albaret et al., 2004).

I risultati hanno supportato l’ipotesi del modello di mediazione; in altre parole, dati i livelli più elevati di nevroticismo, le donne hanno sperimentato più paura del dolore rispetto agli uomini.

Inoltre, nonostante le differenze significative tra i sessi sulle diverse sfaccettature del nevroticismo, era specificamente la sfaccettatura dell’ansia a mediare la relazione tra sesso e paura del dolore.

I risultati emersi sono coerenti con quelli di studi precedenti, nei quali è stato suggerito che l’ansia di tratto sia un antecedente distale della paura del dolore, che predice la sensibilità alla malattia (Vancleef et al., 2006).

 Le analisi hanno anche rivelato che le precedenti esperienze dolorose hanno contribuito negativamente alla paura del dolore: gli individui che hanno sperimentato esperienze dolorose dal punto di vista fisico, probabilmente sviluppano un’idea del dolore in sé più realistica, che fornisce la possibilità di sviluppare strategie di coping più adattive (Rokke et al., 2004).

Collocando il nevroticismo alla radice del processo della paura del dolore, questi risultati offrono alcune potenziali implicazioni nella gestione del dolore per gli operatori sanitari.

Secondo il modello del fear avoidance (Vlaeyen & Linton, 2000), quando il dolore acuto non è percepito come minaccioso, è probabile che i pazienti mantengano l’impegno nelle attività quotidiane, attraverso le quali viene promosso il recupero funzionale (Leeuw et al., 2007).

Al contrario, quando il dolore viene interpretato in modo catastrofico ed è vissuto con impotenza da parte del soggetto, ciò non fa altro che alimentare un circolo vizioso (Sullivan, Bishop, & Pivik, 1995).

Difatti, queste interpretazioni disfunzionali danno origine alla paura legata al dolore e a comportamenti associati di ricerca della sicurezza, come l’evitamento e l’ipervigilanza, che peggiorano il problema, soprattutto nel caso di un dolore di lunga durata.

Ciò detto, sarebbe necessario che gli operatori sanitari valutino più specificamente la questione dell’ansia nei pazienti che soffrono di dolore (acuto o cronico), in modo da poter svolgere interventi psicoeducazionali sulla paura del dolore e sul dolore stesso (De Peuter, de Jong, Crombez, & Vlaeyen, 2009), che potrebbero aiutare a prevenire l’ulteriore sviluppo della paura del dolore nei loro pazienti.

 

La stimolazione magnetica transcranica e il sollievo di una mente plastica 

Molti ricercatori hanno studiato gli effetti neurofisiologici della TMS sia nell’uomo che nel modello animale, traendo molte informazioni a supporto di un ruolo centrale della plasticità neurale nell’efficacia della sua azione.

 

 Un trattamento efficace e rapido, basato su sequenze di impulsi magnetici in grado di attivare i neuroni in precise regioni della corteccia cerebrale, capace di curare la sintomatologia connessa a stati depressivi, dipendenze, ossessioni: si tratta della stimolazione magnetica transcranica (TMS), metodica non invasiva utilizzata sia in ambito clinico che nella ricerca in neuroscienze e che permette di stimolare, attraverso differenti tipologie di bobine atte alla produzione di campi elettromagnetici, il tessuto corticale al di sotto delle ossa craniche. Ma quali sono i meccanismi cerebrali alla base del funzionamento terapeutico di questa tecnica in continua evoluzione? Molti ricercatori hanno studiato gli effetti neurofisiologici della TMS sia nell’uomo che nel modello animale, traendo molte informazioni a supporto di un ruolo centrale della plasticità neurale nell’efficacia della sua azione.

Come noto, la plasticità riguarda modifiche di vario tipo a carico del tessuto nervoso, che possono essere mantenute nel tempo alterando significativamente sia la struttura che la funzione dei circuiti neurali, con ovvie conseguenze in termini di funzionamento del cervello.

Tra queste modifiche possiamo trovare alterazioni morfologiche, in cui la forma dei neuroni e il numero delle loro diramazioni può cambiare notevolmente, così come modifiche funzionali, rappresentate da una maggiore o minore capacità di trasmettere gli impulsi attraverso la sinapsi, l’unità fondamentale che supporta la comunicazione tra neuroni, nonché da una variazione del numero di questi contatti. Tutte queste modifiche sono permesse da processi biochimici e molecolari finemente regolati che hanno luogo all’interno dei neuroni e che vanno dall’aumento dei livelli intracellulari dello ione calcio all’attivazione di differenti chinasi o fosfatasi (enzimi in grado di modificare le proprietà costitutive e funzionali di proteine target tramite l’aggiunta o la rimozione di gruppi fosfato da queste), fino ad arrivare all’attivazione di specifici geni codificanti per la sintesi ex novo di proteine necessarie a rendere stabili nel lungo periodo le modifiche sopracitate.

La gran parte delle modifiche plastiche possono essere indotte da periodi di attività neuronale molto particolari: brevi attività ad alta frequenza (ad esempio 100 stimoli al secondo per 1 secondo) sono generalmente in grado di potenziare la forza delle connessioni sinaptiche, mentre regimi di attività a bassa frequenza ma protratta nel tempo (1 stimolo al secondo per decine di minuti) sono noti deprimere l’efficacia di trasmissione.

Date queste premesse, non è difficile ipotizzare che l’attività neurale indotta dai protocolli TMS utilizzati nella pratica clinica sia effettivamente in grado di causare modifiche plastiche nei circuiti cerebrali sottostanti. Tuttavia, una dimostrazione diretta e inequivocabile di questa ipotesi deve ancora essere fornita.

Ma quali sono gli effetti plastici che la TMS produrrebbe nel cervello umano? Una delle evidenze più comunemente raccolte dagli studi scientifici si basa sull’aumentata risposta motoria. Tramite il posizionamento del coil su una precisa localizzazione in uno due emisferi (ad esempio il sinistro) corrispondente alla corteccia motoria primaria (M1) è infatti possibile evocare una risposta muscolare in un arto controlaterale (ad esempio il dito della mano destra). Questo semplice test permette di calcolare la minima ampiezza dello stimolo magnetico in grado di attivare in modo significativo i neuroni piramidali della corteccia cerebrale sottostante al coil, una procedura assolutamente necessaria per calibrare l’intensità di stimolazione nei protocolli terapeutici.

Data la facilità di misurazione, molti autori hanno sfruttato queste risposte, definite appunto potenziali evocati motori (PEM), anche per studiare gli effetti potenzianti indotti dalla TMS sull’attività cerebrale. È stato dimostrato infatti che differenti protocolli di stimolazione (TMS ripetuta e TMS “theta-burst” intermittente) aumentano a lungo termine l’ampiezza del PEM (Cash et al., 2016). Un’osservazione molto interessante riguarda la possibilità di potenziare la risposta motoria TMS-indotta per uno specifico arto dopo aver applicato la TMS sulla corteccia motoria mentre il soggetto “immagina” di muovere l’arto stesso (Foysal and Baker, 2020). Ma l’applicazione dei protocolli TMS su M1 è anche in grado di migliorare l’apprendimento motorio, velocizzando ad esempio il recupero delle funzioni motorie dopo un ictus (Volz et al., 2016).

 Anche altre regioni cerebrali possono essere “potenziate” dalla TMS: un’opportuna stimolazione della corteccia visiva primaria (V1), produce un miglioramento dell’acuità visiva in soggetti affetti da ambliopia (Thompson et al., 2008).

Le osservazioni sperimentali sopra discusse sicuramente suggeriscono che alla base dell’efficacia clinica della TMS possa esserci una modifica funzionale dei circuiti cerebrali coinvolti, probabilmente attraverso aumento dell’eccitabilità e/o della forza della trasmissione sinaptica.

Tuttavia, nessuno studio effettuato ad oggi su soggetti umani è stato in grado di dirci chiaramente se i meccanismi alla base di questi cambiamenti siano gli stessi coinvolti nella plasticità sinaptica.

Quello della plasticità sinaptica è infatti un fenomeno di fondamentale importanza per il funzionamento del nostro sistema nervoso: ne regola lo sviluppo embrionale e post-natale, è alla base di funzioni complesse quali l’apprendimento e la memoria, garantisce il recupero fisiologico dopo traumi. Tuttavia, la plasticità sinaptica è anche estremamente variabile nei processi molecolari e biochimici coinvolti e nelle componenti neurotrasmettitoriali e recettoriali necessarie alla sua induzione. Per questo motivo, diversi studi hanno indagato i meccanismi alla base delle modifiche indotte dalla TMS sul sistema nervoso di modelli animali, per lo più roditori, dove le tecniche di elettrofisiologia, biochimica e microscopia che possono essere applicate permettono di raccogliere una lunga serie di variabili biologiche e di analizzare in maniera più diretta e con maggior precisione la presenza di elementi molecolari coinvolti nei processi di induzione della plasticità.

Queste indagini hanno prodotto chiare evidenze a favore dell’ipotesi che la TMS possa reclutare o rendere più efficaci fenomeni di plasticità sinaptica in molte aree cerebrali, sia direttamente che indirettamente attivate dallo stimolo magnetico.

A livello della corteccia visiva, si è osservato come la TMS ripetuta (rTMS) possa aumentare la performance visiva nei ratti precedentemente deprivati sensorialmente (una condizione che, se applicata nelle prime fasi dello sviluppo, ne limita l’acuità visiva), e che questo fenomeno è accompagnato da una riorganizzazione delle proiezioni sinaptiche e coinvolge l’attivazione di fattori trofici quali BDNF (brain derived neurotrophic factor) e di specifiche chinasi (PKC) note essere coinvolte anche negli effetti plastici (e benefici) dell’arricchimento ambientale (Castillo-Padilla and Funke 2016).

Un esempio di grande interesse è rappresentato dalla corteccia prefrontale (PFC), target di molti protocolli clinici basati su TMS: applicando la stimolazione magnetica alla PFC di ratti, è stato osservato come i livelli di BDNF vengano aumentati sia nel sito di stimolazione che nell’ippocampo, e come in quest’ultimo venga significativamente promossa anche l’espressione dei recettori sinaptici per il glutammato, un chiaro segno di plasticità sinaptica a carico di circuiti eccitatori (Gersner et al., 2011).

Tuttavia, la più grande mole di evidenze prodotte dagli studi animali a proposito del collegamento TMS – plasticità è riconducibile a studi su circuiti e aree sensori-motorie.

In questo campo, alcuni risultati molto interessanti riguardano la capacità della TMS di produrre una riorganizzazione delle cosiddette “reti perineuronali”, una sorta di matrice extracellulare specializzata, contenente proteine e carboidrati, che raccoglie e modifica strutturalmente interi gruppi di neuroni, per lo più inibitori. Si pensa che questa struttura giochi un ruolo chiave nell’aprire e chiudere i cosiddetti “periodi critici”, finestre temporali ad alto potenziale plastico che caratterizzano le fasi precoci dello sviluppo cerebrale, permettendoci ad esempio di definire e affinare le nostre funzioni sensoriali e motorie al meglio. Da alcuni studi su modello animale emerge come la TMS, agendo su queste reti, modifichi il numero e l’eccitabilità dei neuroni coinvolti (detti interneuroni “fast-spiking”, a causa delle loro alte frequenze di scarica) (Mix et al., 2015). Per questo motivo, la TMS potrebbe rappresentare uno strumento per riaprire il periodo critico permettendoci di recuperare funzionalità cerebrali sviluppatesi in modo anomalo o perse, ad esempio in seguito ad ictus o ischemie. A questo proposito è stato dimostrato sempre in modelli animali di trauma cerebrale che la TMS migliora l’efficacia della riabilitazione e che questo effetto è accompagnato da un’aumentata attività della chinasi calcio/calmodulina-dipendente II (CaMKII), una delle più note intervenire nei meccanismi intracellulari di induzione di plasticità sinaptica (Lu et al., 2015).

Recentemente, alcuni ricercatori hanno iniziato ad applicare la TMS a modelli animali di disturbi mentali che hanno mostrato ricevere benefici terapeutici da questa tecnica di neuromodulazione. Un lavoro molto interessante dimostra l’efficacia della TMS in un fenotipo murino simil-depressivo basato sullo stress cronico, nel quale, oltre ad un alleviamento dei sintomi, la stimolazione magnetica produce anche un recupero della plasticità ippocampale, seriamente compromessa dalla condizione patologica (Yang et al., 2019).

Moltissimi altri esempi si possono reperire nella letteratura scientifica preclinica che utilizza il modello animale, e che evidenziano chiari segni a favore di un ruolo della plasticità sinaptica nel sottendere i miglioramenti funzionali prodotti dalla TMS.

Si spera che nel vicino futuro questo tipo di studi possano contribuire in modo importante a definire nuovi protocolli di stimolazione TMS, ancora più efficaci e mirati, in grado di recuperare la funzionalità fisiologica dei circuiti neurali compromessi dalle molte condizioni psichiatriche e psicopatologiche che, purtroppo, ancora non trovano una soluzione completa nell’utilizzo della psicoterapia e della psicofarmacologia.

 


Glossario:

Stimolazione magnetica transcranica (TMS): La stimolazione magnetica transcranica è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica del tessuto cerebrale effettuata posizionando dei potenti magneti in prossimità della cute. Mediante questa tecnica, è possibile stimolare e studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali del cervello, provocando una alterazione della attività elettrica piuttosto ridotta e transitorio e per lo più limitata ai tessuti più esterni del cervello (corticali)

Bobina/coil: componente della TMS atta a produrre la stimolazione elettromagnetica che viene generalmente poggiata sulla testa del paziente, a contatto con la cute. Esistono differenti tipologie di coil/bobine che determinano quanto lo stimolo possa essere concentrato su una data area dello scalpo e quanto in profondità possa penetrare

Plasticità neurale: Anche detta plasticità sinaptica. E’ la capacità del sistema nervoso di modificare l’intensità degli impulsi sinaptici, di instaurare nuove sinapsi e di eliminarne alcune. Questa proprietà permette al sistema nervoso di modificare la sua struttura e la sua funzionalità in modo più o meno duraturo e dipendente dagli eventi che li influenzano come ad esempio l’esperienza

Sinapsi: La sinapsi (o giunzione sinaptica) (dal greco synapses), composto da σύν (con) e ἅπτειν (toccare), (vale a dire “connettere”) è una struttura altamente specializzata che consente la comunicazione delle cellule del tessuto nervoso tra loro (neuroni) o con altre cellule (cellule muscolari, sensoriali o ghiandole endocrine)

Chinasi: Enzimi che catalizzano il trasferimento del gruppo fosfato dall’adenosintrifosfato (ATP) ai loro substrati

Fosfatasi: Enzimi che catalizzano la rimozione dei gruppi fosfato

Eccitabilità neurale: Proprietà biofisica fondamentale dei neuroni che consiste nella capacità di generare impulsi elettrici che si propagano lungo la membrana

Brain derived neurotrophic factor (BDNF): neurotrofina che agisce su determinati neuroni del sistema nervoso centrale e del sistema nervoso periferico, contribuendo a sostenere la sopravvivenza dei neuroni già esistenti, e favorendo la crescita e la differenziazione di nuovi neuroni e sinapsi

Periodo/i critico/i: Individuano fasi circoscritte dello sviluppo in cui la maturazione del sistema nervoso è guidata dalla stimolazione ambientale e i fenomeni di plasticità neurale si manifestano ai massimi livelli

Chinasi calcio-calmodulina dipendente (CaMKII): E’ una proteina chinasi regolata dal complesso Ca2 +/calmodulina. CaMKII è coinvolto in molte cascate di segnalazione e si ritiene che sia un importante mediatore dell’apprendimento e della memoria

 


 

CIP TMS evidenza

CONTATTI

  • Indirizzo: Foro Buonaparte 57, Milano
    Come raggiungere il Centro TMS: La sede è a pochi passi dalla stazione della metropolitana Cadorna e Cairoli (Castello Sforzesco)
  • Telefono: 02 36684872
  • E-mail: [email protected]
  • Orari della segreteria: dal lunedì al venerdì, dalle 09:00 alle 20:00

 

CENTRO TMS – VAI AL SITO 9733

CENTRO TMS – MODULO CONTATTI 9733

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER 9733

I ricordi del testimone di un incidente stradale

La ricostruzione testimoniale nel caso delle testimonianze di incidenti stradali, avvenimenti che peraltro in sé sono caratterizzati dal fatto di essere imprevedibili ed estremamente complessi, è molto complessa e generalmente è impossibile fare attenzione a ogni elemento dell’incidente e ricordarne ogni dettaglio.

Silvia Bosio – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

 La psicologia della testimonianza è un ambito di studi estremamente ampio. Essa volge il proprio interesse all’approfondimento di aspetti percettivi, attentivi e mnestici sottostanti la codifica degli eventi (es. l’identificazione di un volto) e all’analisi di caratteristiche personali (es. suggestionabilità) e del ruolo che esse giocano al momento della rievocazione e della testimonianza.

Altri fenomeni esaminati sono l’attendibilità e la veridicità della testimonianza, la valutazione della capacità di testimoniare; la costruzione di falsi ricordi, la menzogna intenzionale e le caratteristiche del mentitore (malinger); l’effetto degli interrogatori e delle interviste investigative sul teste e sulla sua testimonianza.

Tra le componenti cognitive che sono coinvolte nel processo della testimonianza è soprattutto la memoria a giocare il ruolo più importante: ricordare è un processo ricostruttivo e non riproduttivo (Mazzoni, 2003; Antonietti, Breda, & Fiorina, 2006). Un testimone, chiamato a ricordare, si dispone intenzionalmente a recuperare delle informazioni attraverso percorsi indiretti e inferenziali, collegando tra loro frammenti mnestici accessibili al fine di costruire una narrazione dotata di senso. In altri termini, spesso ci troviamo nella condizione di attivarci, mediante procedimenti che controlliamo direttamente, a recuperare informazioni che in maniera più automatica, meno consapevole, abbiamo immagazzinato in memoria.

Ciò si complica se pensiamo che un ricordo non è mai la fotografia esatta dell’evento che siamo chiamati a testimoniare:

Il modo in cui un evento è rappresentato nella memoria di un soggetto, infatti, non corrisponde ad una replica esatta dell’evento, ma riflette la modalità in cui questo evento è stato elaborato dal soggetto sulla base di un insieme di fattori psicologici e ambientali (Gulotta, 1987; Grey, 1997). La memoria che il testimone ha dell’evento cui ha assistito è piena di lacune, distorsioni, invenzioni. Infatti in generale l’essere umano non percepisce passivamente le informazioni, ma agisce su di esse, codificandole ed elaborandole sia consapevolmente (in modo tale da immagazzinarle in maniera logica, coerente e produttiva) sia inconsciamente (in tale processo concorrono infatti interferenze esterne, forti stati emotivi e/o stress) (Cavedon& Calzolari, 2005).

Pertanto, il ricordo non è mai completo e perfettamente aderente alla realtà: in memoria vengono immagazzinate informazioni distorte in funzione di vari fattori, tra i quali conoscenze preesistenti, presenza di informazioni disponibili al momento dell’evento, di informazioni seguenti allo stesso:

ci sono dati interessanti a questo proposito che dimostrano come le conoscenze più recenti possano influire e modificare la ricostruzione che facciamo di un episodio. Un fenomeno chiaro e da lungo tempo conosciuto è rappresentato dall’hindsight bias, o pregiudizio nel ricordo (Mazzoni, 2003),

il cosiddetto giudizio retrospettivo. Inoltre, fattori di personalità, credenze ed esperienze personali passate o recenti, modalità di fruizione dell’evento da testimoniare e altre variabili influenzano le memorie del testimone:

I processi costruttivi sono specificamente presenti nel momento in cui si tenta di recuperare elementi in memoria, ma non si trova niente. In questo caso, se la convinzione è che qualche cosa sia accaduto, ma che non possa essere ricordato al momento, si fa uso inizialmente degli elementi e delle informazioni disponibili […] e in base a queste si costruisce uno spazio mentale. Questo scenario mentale contiene quindi inizialmente schemi di avvenimenti, conoscenze e informazioni. In un secondo tempo esso attiva alcuni frammenti di ricordo che sono attinenti al tema che si vuole ricordare. In tal modo si elabora un vissuto che non è un ricordo vero, è uno pseudo-ricordo che naturalmente ricordo non è, ma che dopo tempo viene vissuto come tale. Si tratta della costruzione di un ricordo falso (Mazzoni, 2003).

Ognuno di noi, quindi, adatta i propri ricordi in base a schemi personali che possono sia distorcere sia accrescere la memorizzazione; ciò dipende da quanto la nuova informazione si adatti a questi schemi preesistenti. (Caso &Vrij, 2009)

Questo spiega come anche il testimone oculare, generalmente non intenzionato o non interessato a mentire, possa dare un resoconto testimoniale diverso dal reale svolgimento dei fatti (Cavedon& Calzolari, 2005). Ad esempio, gli stereotipi possono influenzare il ricordo sin dal momento in cui lo stiamo formando. In un famoso esperimento di Allport e Postman del 1947 veniva chiesto ai soggetti di riportare il contenuto di alcuni fotogrammi che ritraevano un uomo bianco con un coltello alla mano puntato contro un uomo di colore ben vestito. Nella resocontazione finale, più della metà dei soggetti sbagliò attribuzione, cioè asserendo che era l’uomo di colore quello mal vestito che impugnava l’arma.

Quanto finora considerato in merito alla ricostruzione testimoniale assume un aspetto specifico nel caso delle testimonianze di incidenti stradali, avvenimenti che peraltro in sé sono inoltre caratterizzati dal fatto di essere imprevedibili ed estremamente complessi: generalmente è impossibile fare attenzione ad ogni elemento dell’incidente e ricordarne ogni dettaglio. Anche solo la velocità dell’accadimento è un ostacolo alla percezione: l’occhio umano non è fatto per recepire informazioni che si svolgono in un lasso di tempo così breve. È stato stimato che non abbiamo consapevolezza di un input prima di 100-300 millisecondi (De Cataldo Neuburger, 1988).

 Le ricerche rilevano che una persona riferisce solamente un terzo dell’evento cui assiste e che, in parte, tale resocontazione risulta errata, soprattutto qualora venga integrata ad un interrogatorio (Rivano &Vangi, 2011). La testimonianza diviene inutilizzabile qualora presenti una fedeltà del 50%. Spesso numerosi errori testimoniali dipendono dal fatto che l’interrogatorio tende ad assumere i connotati di un colloquio suggestivo: anche involontariamente, l’investigatore non gestisce la relazione con il teste secondo modalità che consentano di favorire un ricordo quanto più accurato. Solitamente, infatti, il colloquio assume un’impostazione asimmetrica, poiché colui che interroga svolge un ruolo socialmente più “potente” dell’interrogato, il quale spontaneamente tende a modellarsi sulla base del comportamento verbale e non verbale dell’interrogante.

Una situazione di questo tipo inevitabilmente facilita lo sviluppo della compliance (Caso &Vrij, 2009) o della classica desiderabilità sociale, per cui il testimone risponde all’interrogante secondo quanto ritiene che quest’ultimo voglia sentirsi dire, solo per elevare la propria immagine agli occhi di colui che in quel momento percepisce come superiore a se stesso. Accanto a tale comportamento, intervengono regole conversazionali di base quali la tendenza a rispondere affermativamente o la propensione a modificare la propria risposta originaria qualora l’intervistatore ripeta altre volte la stessa domanda. Inconsapevolmente, capita che quest’ultimo trasmetta segnali non verbali che possono essere interpretati dal teste come feedback negativo oppure un rinforzo circa quanto sta esponendo. L’interrogante ha un proprio modo di vedere la situazione, sulla base del quale agisce ponendo domande coerenti con ipotesi soggettive che potrebbero non essere condivise dal testimone; il fatto che quest’ultimo risponda compliante alle domande rappresenta per l’investigatore una implicita conferma delle proprie ipotesi. Il ruolo “superiore” assunto dall’interlocutore porta il teste a modificare il proprio ricordo sulla base della expertise che attribuisce all’interlocutore stesso.

In riferimento agli incidenti stradali, principalmente, il numero di errori in una testimonianza è più elevato in ciò che il teste riferisce relativamente alle fasi pre-urto e peri-urto (gli elementi che peraltro interessano maggiormente agli operatori di giustizia), in quanto la durata degli avvenimenti che occorrono in tali lassi temporali è estremamente bassa: si parla di pochi decimi di secondo, una frazione di tempo talmente esigua che l’occhio umano non riesce né a vedere né, di conseguenza, a codificare completamente il fatto (Rivano &Vangi. 2011).

Vi sono inoltre differenze individuali nel modo di percepire, legate a esperienze e caratteristiche soggettive (De Cataldo Neuburger, 1988). Durante la ricostruzione si può notare che il teste tende a colmare le lacune che possiede circa la dinamica dell’incidente, cercando di costruire con ragionamenti causali cosa ha portato all’urto stesso (Antonietti, Breda, & Fiorina, 2006). A ciò si aggiunge la propensione degli investigatori a porre domande per provare a comprendere le lacune dei testimoni, conducendoli a ricercare e proporre spiegazioni che recano ulteriori danni al loro ricordo: in altri termini, la testimonianza richiesta può vertere su aspetti dell’incidente cui l’individuo non ha prestato attenzione, con conseguente inaccurata rilevazione degli stessi.

Anche qualora la testimonianza riguardi specifici elementi su cui si è realmente indirizzata l’attenzione del testimone, occorre considerare i limiti delle capacità percettive, come precedentemente descritto. Inoltre, gli studi in merito mostrano come il solo atto di immaginare qualcosa induca a credere che ciò sia accaduto realmente: ripensare agli eventi, raccontarli ad altri, ripeterli a se stesso, sentirli in televisione comportano la creazione di scene differenti e la credenza conseguente che essi abbiano assunto una piega effettivamente diversa da quanto si ricorda; si giunge pertanto a non poter più scindere ciò che si immagina e ciò che si è immagazzinato inizialmente in memoria.

Alla selezione necessaria ed involontaria che gli organi di senso attuano nel momento in cui la realtà viene codificata (Antonietti, Breda, & Fiorina, 2006) si aggiunge il meccanismo di attribuzione di significato a quanto viene elaborato, per cui il testimone produce una ricostruzione di quanto ha visto che, inevitabilmente, si distacca dalla reale dinamica dei fatti: l’errore consiste dunque in una scorretta significazione in merito a quanto la persona ha colto oppure in un’attribuzione di senso parzialmente adeguata, cui tuttavia fa da contraltare l’aver scambiato gli attori e gli elementi in gioco; oppure, ancora, aver prodotto una commistione tra conoscenze o esperienze di avvenimenti precedenti con il fatto attuale, al fine di rispettare le proprie esigenze di assegnazione di un significato (Antonietti, Breda, & Fiorina, 2006). Ad esempio, a seguito di un incidente tra un’auto proveniente da destra e un motociclista senza casco proveniente da sinistra, i testimoni potrebbero ricordare che la moto è giunta da destra, che il motociclista indossava il casco, che la moto si è scontrata con un piccolo camion anziché con un’auto e così via. La complessità dell’evento-incidente in sé e la cattiva interpretazione della situazione da ricordare possono creare false testimonianze non intenzionali.

L’interpretazione degli eventi codificati è maggiormente presente nel momento in cui si elaborano azioni compiute da esseri umani, ossia non meccaniche: in tal caso intervengono gestione, attribuzione ed assunzione di pensieri, emozioni, intenzioni guidati da ulteriori aspetti cognitivi, affettivi, sociali e culturali quali gli schemi mentali e, soprattutto, gli script. Gli aspetti considerati dissonanti dai suddetti copioni tendono a venire “normalizzati”, riportati dunque ad esperienze familiari (Antonietti, Breda, & Fiorina, 2006). Ad esempio, indossare il casco alla guida di una moto è una legge talmente radicata nella nostra cultura che abbiamo nella nostra mente lo script del motociclista che automaticamente indossa il casco: di conseguenza, potrebbe accadere che, nell’esempio precedente relativo all’incidente tra moto e auto, il testimone ricordi che il motociclista indossava il casco non per un ricordo concreto, bensì perché ciò rientra nello script per cui un motociclista indossa automaticamente un casco.

Anche la scelta dei termini dell’intervistatore può modificare la memoria del testimone. In un noto esperimento di Loftus e Palmer (1974), i partecipanti dovevano osservare un filmato di un incidente automobilistico. Nello specifico, l’elemento peculiare dello studio era incentrato sulla velocità con cui procedeva l’auto che ha generato lo scontro. Il campione era stato suddiviso in cinque gruppi ed a ciascuno di questi è stata posta la medesima domanda con una minima varietà: al primo gruppo si è domandata la velocità dell’automobile quando si è “scontrata” con l’altro veicolo; al secondo gruppo è stata richiesta la velocità della stessa nel momento in cui ha “colliso” con l’altro veicolo; con il terzo gruppo si è utilizzata l’espressione “ha urtato”; con il quarto “ha colpito”; con il quinto “è entrata in contatto”. Ogni verbo possiede una peculiare significazione ed i risultati dell’esperimento mostrano come le persone modifichino la propria risposta circa la velocità del mezzo a seconda della forma utilizzata: tra “entrare in contatto” e “scontrare” è emersa una differenza di 10 chilometri orari.

Molte ricerche si sono focalizzate sullo studio del post-event information effect, ossia dell’influenza che hanno informazioni successive all’incidente sul ricordo. Loftus, Miller e Burns (1978) e Bekerian e Bowers (1983) attuarono alcuni esperimenti dai quali emerse la conclusione che la memoria del testimone appare esposta all’influenza dell’informazione presentata successivamente all’avvenimento osservato. È stata addotta come spiegazione l’ipotesi che le domande vengono integrate nella rappresentazione mnestica dell’incidente, causando dunque una ricostruzione o una modifica delle informazioni originariamente immagazzinate in memoria (Loftus, Miller, & Burns, 1978): ad esempio, nell’esperimento di Loftus, pur avendo osservato in un filmato un cartello stradale di stop, i soggetti confermarono successivamente di aver visto un segnale di precedenza, in quanto ciò era suggerito dalle domande poste dallo sperimentatore. A distanza di tempo, ai soggetti venne richiesto di ricordare nuovamente il segnale stradale che avevano visto nel video e più della metà di costoro affermò che fosse un cartello di precedenza.

Molti autori (e.g. Hornby, 1974; Loftus, 1975; Loftus, Miller, & Burns, 1978) affermano che i presupposti inclusi nelle domande tendenziose generalmente influiscono sulla comprensione e sulla memoria, in quanto le persone tendono a considerarli come fatti realmente avvenuti, siano essi veri o fittizi. In un esperimento di Loftus (1975) era chiesto al gruppo sperimentale se avessero visto i bambini salire sullo scuolabus, sebbene non vi fosse alcuno scuolabus nel filmato di cui avevano appena preso visione. Una settimana dopo, sottoponendo nuovamente i soggetti ad ulteriori domande relative al suddetto filmato, il gruppo sperimentale ricordava il fatto erroneamente presupposto in misura maggiore rispetto al gruppo di controllo.

Ricerche recenti sono volte allo studio anche degli altri elementi percettivi coinvolti nella testimonianza di incidenti stradali: infatti, un testimone oculare non costruisce i propri ricordi solamente sulla base di informazioni visive. I segnali percettivi passano attraverso i differenti canali sensoriali e vengono elaborati ed integrati, costruendo una cornice dotata di senso. Alcuni autori mostrano particolare interesse per le informazioni prettamente uditive; ad esempio, uno studio di McAllister, Bregman e Lipscomb (2002) propone di analizzare il post-event information effect in funzione della natura uditiva oppure visiva delle informazioni. Nello specifico, gli autori intendono verificare quale delle due condizioni è maggiormente esposta a tale bias. Dai risultati della loro ricerca emerge che la condizione uditiva è meno accurata e maggiormente vulnerabile al post-event information effect e tali conclusioni sono state replicate in un esperimento successivo.

Approfondire gli studi in merito agli elementi non solo visivi della testimonianza permette di raccogliere informazioni più ampie sul fenomeno della testimonianza anche in funzione degli eventi da ricordare. Per esempio, la velocità dei veicoli non viene solamente osservata, in quanto si verifica un cambiamento nel volume e nella tonalità del suono nel momento in cui essi si avvicinano o si allontanano dal luogo in cui si trova il testimone: parametri uditivi possono dunque rivelarsi utili variabili stimatrici della velocità a cui andavano i mezzi eventualmente coinvolti in un incidente e possono consentire di raccogliere maggiori informazioni sulla testimonianza deposta.

È evidente quanto la ricerca in ambito di psicologia della testimonianza sia molto ricca e fornisca un ampio contributo, soprattutto poiché essa si configura quale fertile terreno di incontro multidisciplinare volto all’analisi di un fenomeno estremamente complesso, delicato ma anche profondamente affascinante.

 

La self-compassion. Il potere dell’essere gentili con se stessi (2019) di Kristin Neff – Recensione del libro

La self-compassion di Kristin Neff, un manuale non soltanto per gli addetti ai lavori ma anche rivolto all’ampio pubblico, che consente di imparare attraverso l’auto-compassione a gestire al meglio emozioni tossiche come l’autocritica, la vergogna, la rabbia, un modo apparentemente semplificato per imparare a relazionarsi alla sofferenza, sia la propria che quella degli altri.

 

Sacrificando noi stessi al dio insaziabile dell’autostima, stiamo barattando la meraviglia e il mistero in continuo divenire della nostra vita per uno sterile scatto di Polaroid. Invece di rivelare la ricchezza e la complessità della nostra esperienza, la gioia e il dolore, l’amore e la rabbia, la passione, il trionfo e la tragedia, cerchiamo di catturare e riassumere la nostra esperienza vissuta con una valutazione estremamente semplicistica del sé. Ma questi giudizi, nel vero senso della parola, sono solo pensieri. E più spesso che no, non sono neanche accurati. Il bisogno di vedere noi stessi come superiori ci fa anche enfatizzare la nostra separazione dagli altri piuttosto che la nostra interconnessione, che a sua volta porta a sentimenti di isolamento, disconnessione e insicurezza. Così uno si potrebbe chiedere: “Ne vale la pena?”.

 Questo ritaglio tratto dal libro di Kristin Neff, pioniera nel campo della self-compassion, racchiude dalla mia prospettiva una grande trappola per noi esseri umani e tra i vari capitoli, l’autrice ci aiuterà a capire il perché di tali dinamiche attingendo ai vari campi delle scienze e soprattutto spiegherà il vantaggio di sviluppare l’auto-compassione e come farlo.

Come scrive Nicola Petrocchi nella prefazione del libro, rappresentante italiano della Compassion Focused Therapy,

la compassione non è solo una virtù da contemplare ma un’abilità che può essere allenata con benefici immensi,

come dimostrato dalle evidenze scientifiche. In tal senso il testo rappresenta un validissimo manuale “d’istruzione”.

L’attuale società altamente competitiva, rischia di creare un’illusoria identità e valore personale che sempre di più ci allontana dalle nostre risorse interiori e dall’essere connessi agli altri in modo sano.

La compassione invece, promuove un atteggiamento gentile e non giudicante, in grado di rivolgerlo agli altri quanto a noi stessi, soprattutto nei momenti di dolore, di difficoltà, fallimenti che si incontrano nella vita, riuscendo a disinnescare alcuni meccanismi innati e per certi versi talvolta funzionali della nostra mente, come scappare, evitare un dolore o ciò che procura in noi un segnale di minaccia.

L’auto compassione diventa utile ad esempio, a disinnescare l’autocritica, responsabile di diverse forme di disagio psichico, che l’autrice spiegherà dettagliatamente nei vari capitoli del testo, offrendo un’ampia panoramica di riferimenti teorici e parti esperenziali.

 Il testo continua ad esplorare studi e ricerche in merito all’efficacia della self-compassion nel migliorare la qualità di vita delle persone e come la stessa si associ ad una maggiore intelligenza emotiva, concetto questo coniato da Daniel Goleman per descrivere la capacità di riconoscere ed utilizzare in modo abile ed adattivo le proprie emozioni, ed ancora migliori strategie di coping. Tutto ciò a sostegno del fatto che persone auto-compassionevoli sarebbero in grado di affrontare al meglio le prove che la vita inevitabilmente ci riserva.

La self-compassion si sarebbe rivelata anche utile alleata nel trattamento dei depressione, disturbo da stress post traumatico.

L’intento dell’autrice diviene dunque insegnare le tre componenti fondamentali della self-compassion ossia la gentilezza verso se stessi, sentirsi connessi agli altri e la mindfulness, intesa come la consapevolezza equilibrata che riconosce ed accetta anche il dolore, meglio intesa come equanimità emotiva.

La self compassion, continua a spiegare l’autrice, consente di sviluppare quella che lei chiama una resilienza emotiva, che consente infatti di accettare ed affrontare emozioni dolorose, non dunque una negazione delle stesse ma accogliendola e superandola, infatti come recitava Marcel Proust

si guarisce dalla sofferenza solo sperimentandola in pieno.

Altro aspetto approfondito dall’autrice è la correlazione tra self compassion ed autostima sana, infatti anche rispetto al tema dell’autostima Kristin Neff, illustrerà e spiegherà l’aspetto disfunzionale dell’eccessivo investimento sull’autostima senza accompagnare a quest’ultima alti livelli di auto-compassione.

Un manuale ricco di contenuti ed informazioni, utile per il terapeuta quanto all’ampio pubblico, impreziosito da esercizi accessibili a tutti, per consentire di mettersi all’opera nel sviluppare l’auto compassione, utile nel rapporto con noi stessi, gli altri e più in generale nella vita, in grado di fornirci una potente fonte motivazionale che ci consenta di accettare ciò che non può essere cambiato ma cambiare in meglio ciò che può esserlo per poter assaporare a pieno il piacere della vita.

 

Psichiatria territoriale. Strumenti clinici e modelli organizzativi (2021) a cura di Giuseppe Nicolò e Enrico Pompili – Recensione del libro

Il volume Psichiatria territoriale. Strumenti clinici e modelli organizzativi, curato da Giuseppe Nicolò ed Enrico Pompili è un compendio dell’esperienza che si è cumulata e sviluppata in questi lunghi anni intorno alla salute mentale, che si è avvalsa delle evidenze che la ricerca ha prodotto.

 

 Il momento difficile che stiamo attraversando per la pandemia da Covid 19 ha aperto gli occhi a molti decision maker che si occupano di sanità pubblica. Il modello territoriale è salito alla ribalta della discussione che si è aperta nel nostro paese come l’unico in grado di dare efficacia agli interventi sanitari, a differenza di quello che propone i presidi ospedalieri come centrali nel sistema di cure.

Nella salute mentale il modello territoriale è stato adottato sin dalla Riforma Basaglia che ha previsto già alla fine degli anni settanta del secolo scorso la chiusura degli ospedali psichiatrici, più comunemente conosciuti come manicomi, e la realizzazione di strutture alternative territoriali per la prevenzione, cura e riabilitazione della malattia mentale.

Il volume Psichiatria territoriale. Strumenti clinici e modelli organizzativi, curato da Giuseppe Nicolò ed Enrico Pompili è un compendio dell’esperienza che si è cumulata e sviluppata in questi lunghi anni intorno alla salute mentale, che si è avvalsa delle evidenze che la ricerca ha prodotto.

Nelle oltre mille pagine sono presentati modelli e tecniche d’intervento, nonché di organizzazione dei servizi e delle strutture deputate alla cura con una visione che non si basa più solo sull’Evidence Based Practice in relazione alla diagnosi con l’obiettivo di ridurre la sintomatologia, ma su concetti di resilienza e possibilità, partecipazione sociale e integrazione esistenziale, valorizzando un quadro transindromico che combina approcci categoriali, dimensionali e di rete.

I due curatori sono pubblici operatori della salute mentale con esperienza decennale: Nicolò dirige il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche della ASL RM5. Didatta della SITCC è docente in scuole di specializzazione in psicoterapia e presso la scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università “La Sapienza” di Roma. Pompili, psichiatra e psicoterapeuta è direttore dell’Unità Operativa Complessa presso il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche della ASL RM5 e docente in scuole di specializzazione in psicoterapia e presso la scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università “La Sapienza” di Roma.

Il libro è diviso in cinque parti.

La prima tratta della necessità d’integrazione dei servizi riguardo ai nuovi modelli dei disturbi mentali adottando la complessità come base degli interventi. In questa sezione sono presi in considerazione diversi aspetti: la prospettiva della salute pubblica; il concetto di diagnosi e le sue criticità; la recovery in termini di speranza, controllo, opportunità, e connessione.

 La seconda parte presenta l’organizzazione dei servizi in relazione alla costruzione della rete e dei principi dell’integrazione. Sono presenti notazioni sulla normativa in materia; le politiche per la prevenzione e la promozione della salute mentale; i fattori sociali che incidono sulla salute mentale; l’organizzazione dei vari servizi (CSM, Centro Diurno; SPDC; Day Hospital; Strutture Residenziali Psichiatriche; REMS) e dei trattamenti di prevenzione, cura e riabilitazione.

La parte successiva illustra le tecniche d’intervento. Una sezione questa molto importante, in cui ci si sofferma sulle procedure riconosciute efficaci sia in termini riabilitativi (Cognitive Remediation; Social Skills Training; Riabilitazione Psicosociale; Social Cognition Training; Interventi Psicoeducativi; Housing First; Individual Placement and Support, ecc.), sia d’interventi di sostegno per i familiari, di trattamenti psicoterapeutici, di psicofarmacologia, di brain modulation e gestione dell’aggressività.

La quarta parte prende in considerazione i modelli d’intervento integrato per popolazioni speciali in cui sono considerati i disturbi dell’alimentazione; la dual diagnosis; la doppia diagnosi; gli esordi psicotici in preadolescenza e adolescenza; gli esordi psicotici e l’intervento precoce; la popolazione LGBT; i migranti e i rifugiati; i disturbi gravi di personalità; il disturbo d’accumulo e ossessivo-compulsivo; l’ADHD nell’adulto; le emergenze epidemiche e calamità naturali.

L’ultima parte riguarda il lavoro in team che è la forma che deve necessariamente prendere il lavoro in salute mentale per favorire l’integrazione dell’intervento, una modalità essenziale per coinvolgere diverse professionalità e mettere al centro il paziente. La sfida della complessità di questo lavoro è trattata sotto diverse sfaccettature (la capacità di lavorare insieme e accanto; di visione condivisa e leadership generativa; di coinvolgimento degli enti territoriali; di utilizzo delle tecnologie, non ultime quelle digitali e di realtà virtuale).

Un testo Psichiatria territoriale che non dovrebbe mancare nella libreria non solo di chi opera nel settore pubblico, ma di chi a qualsiasi titolo si occupa di salute mentale.

 

“Aspetta.. ho preso le cuffie?”: musica, emozioni e mente che vaga

La musica è un fenomeno ubiquitario nella cultura umana, in quanto in grado di evocare e regolare le emozioni (Taruffi et al., 2017).

 

A livello cross culturale, le emozioni maggiormente suscitate dalla musica sono la felicità e la tristezza (Bowling et al., 2012). La musica “triste e felice” esiste fin dall’antichità, come testimoniato dal sistema musicale greco (VI secolo a.C; Taruffi et al., 2017) che attribuiva alcune qualità emotive al suono unico delle modalità musicali. Negli ultimi dieci anni, le neuroscienze hanno fornito numerose informazioni su quanto un tipo di musica allegra o triste riesca a modulare l’attività delle strutture cerebrali coinvolte nelle emozioni. Nonostante tali informazioni, gli effetti musicali che evocano diverse esperienze emotive, come felicità o tristezza, sono sconosciuti (Taruffi et al., 2017).

La mente vagabonda (Mind Wandering) è una forma di auto generazione del pensiero che porta al superamento del momento presente, del “qui e ora”, per immergersi nel proprio flusso di coscienza (James, 1890; Taruffi et al., 2017). Le persone trascorrono molto tempo a vagabondare con la mente, tendenzialmente su fattori personali (Smallwood et al., 2011), sociali (Mar, Mason e Litvack, 2012), ricordi autobiografici (Smallwood e O’Connor, 2011) e pianificazione futura (Baird, Smallwood e Schooler, 2011). Il mind wandering è associato a diversi vantaggi, come la creatività nella risoluzione dei problemi (Baird et al., 2012) e il ritardare la gratificazione (Smallwood, Ruby e Singer, 2013). D’altro canto, uno dei principali costi legato al mind wandering è l’interruzione delle prestazioni e delle attività in corso (Franklin, Smallwood e Schooler, 2011). Recenti ricerche evidenziano come i processi affettivi abbiano un notevole impatto sui pensieri spontanei: sebbene vi siano prove evidenti di un’associazione tra mind wandering e affetti negativi in persone sane (Killingsworth e Gilbert, 2010) e in persone depresse (Smallwood et al., 2007), è anche vero che questa relazione viene mediata dal contenuto dei pensieri. Nello specifico, i pensieri passati sono correlati ad alti livelli di infelicità negli individui (Smallwood e O’Connor, 2011; Ruby et al., 2013). Il mind wandering è supportato da un insieme di regioni nel cervello che tipicamente sono attive durante il periodo di riposo, regioni denominate come rete di default (Default Mode Network, DMN). Le zone coinvolte sono la corteccia prefrontale mediale (nello specifico, la corteccia prefrontale dorsomediale e ventromediale; dmPFC e vmPFC), la corteccia parietale mediale (PCC e PCu) e la corteccia parietale laterale (lobulo parietale inferiore posteriore; pIPL).

Attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), Taruffi e colleghi (2017) hanno indagato l’influenza della musica triste e felice in relazione alla mente vagabonda e ai suoi meccanismi neuronali sottostanti. Gli autori hanno condotto due esperimenti: nel primo sono stati reclutati 364 partecipanti online in due step (224 nel primo, 140 nel secondo). Nel secondo esperimento sono stati reclutati 24 partecipanti destrimani in salute (12 donne) e sono stati esposti a degli stimoli musicali (quattro brani “felici” e quattro brani “tristi”). I risultati ottenuti dagli esperimenti indicano come gli effetti musicali tristi sono correlati ad un tipo di mind wandering più intenso rispetto agli effetti musicali allegri. Inoltre, viene evidenziata una maggiore centralità dei nodi all’interno della rete di default (DMN). Tali risultati suggeriscono come l’attività della DMN possa essere modulata attraverso l’ascolto di canzoni che evocano tristezza o felicità (Taruffi et al., 2017).

Tali risultati richiedono un’indagine sistematica della relazione tra la musica e il pensiero, con vaste implicazioni per l’uso della musica in ambito educativo e clinico (Taruffi et al., 2017).

 

Adolescenti e musica. Un rapporto stretto che aiuta il processo di crescita

Ascoltare musica ha per gli adolescenti un grande valore sociale. Ascoltare la stessa musica fa sentire parte di un gruppo e il genere musicale che si condivide con il proprio gruppo finisce per diventare una parte del nostro senso di identità.

 

Una vita senza musica sarebbe come una primavera senza fiori (Susanna, 14 anni).

L’adolescenza, un periodo difficile

Quante volte ci capita di osservare ragazzi assorti nell’ascolto della musica, con le cuffiette collegate al cellulare? Se abbiamo figli o nipoti adolescenti ci sarà sicuramente successo di tentare di richiamare la loro attenzione sfilandogli un auricolare perché ascoltassero quello che cercavamo di comunicare loro.

Periodo difficile l’adolescenza! Si passa dalle certezze assolute dell’infanzia al rimettere in discussione qualsiasi cosa. A cominciare dalle figure più vicine, quasi sempre rappresentate da quelle genitoriali e dagli insegnanti, che da punti di riferimento indispensabili diventano quasi dei nemici, percepiti come limiti alla propria nascente autonomia.

Non si è più bambini ma non si è nemmeno adulti, non si hanno ancora gli strumenti per esserlo. Si va alla ricerca della propria identità, ci si sente confusi e fragili. Il bisogno degli adulti di riferimento e della loro approvazione è ancora forte ma contemporaneamente si tenta di sfuggire alle loro regole e di opporsi al loro modo di pensare nel tentativo di dimostrare a sé stessi che si è autonomi, che non si è condizionati dal giudizio degli adulti.

Come la musica viene in aiuto

In questa età la produzione di ormoni esplode e tutto quello che accade viene enfatizzato e recepito dal cervello come estremamente importante. Tutto ciò che si prova si crede assoluto. E così è la musica: amplifica le emozioni, esalta i desideri, mette le ali alla fantasia, fa sentire liberi di immaginare e sognare.

È in questa fase che la musica assume un valore enorme, consente di confrontarsi con i propri umori che spesso, proprio a questa età, risultano essere faticosamente gestibili e difficilmente decifrabili.

Tra i 12 e i 22 anni il cervello attraversa un veloce sviluppo neurologico, tipiche degli adolescenti sono le reazioni amplificate, le situazioni enfatizzate ed estremizzate: in questo contesto l’effetto della musica assume un’importanza enorme. È proprio la grande produzione degli ormoni della crescita che dice al nostro cervello che ogni cosa è incredibilmente importante. Ascoltare musica ha per un adolescente anche un grande valore sociale. È da ragazzi che cominciamo ad ascoltare musica scelta da noi e spesso lo facciamo insieme agli amici. Ascoltare la stessa musica fa sentire parte di un gruppo e il genere musicale che si condivide con il proprio gruppo finisce per diventare una parte del nostro senso di identità.

La musica dà voce a quelle emozioni che si fatica ad esprimere

È proprio nel confuso contesto a cui abbiamo accennato che la musica comincia a ritagliarsi uno spazio importante e ad assumere un grande valore, innanzitutto perché permette di confrontarsi con le proprie emozioni. Emozioni che spesso sono ancora sconosciute, che non si riescono a raccontare agli altri e che nemmeno a sé stessi sono chiare e decifrabili. In un certo senso si può dire che la musica è di aiuto agli adolescenti perché parla per loro, dà voce ai loro pensieri, alle loro paure, li aiuta a fare chiarezza nei loro sentimenti ottenendo un effetto rassicurante e tranquillizzante.

Per cercare di avere un quadro più completo, oltre a fare riferimento a studi e teorie sull’argomento, abbiamo chiesto l’opinione di un’adolescente e ascoltato il parere e l’esperienza personale di un giovane musicista di talento, nonché professore di lettere, che vive quotidianamente il contatto con gli adolescenti e la loro realtà guardando con un’attenzione particolare il loro rapporto con il mondo musicale.

Se penso alla mia adolescenza – ci racconta Mico Argirò, musicista e professore – penso a disagio, timidezza, alle pene d’amore… in quei momenti per me era naturale, nemmeno una scelta, mettere su della musica che mi aiutasse, magari anche a sprofondare nella tristezza, ma che mi sostenesse. La musica è principalmente questo nell’adolescenza: il primo sostegno. Paradossale che sia sostegno una cosa completamente immateriale ed eterea… dopo essere sostegno però diventa strumento, strumento di reazione (tanti sono gli adolescenti che producono musica, che gridano il proprio malessere o si sfogano contro qualcuno) e strumento di aggregazione (la musica fa gruppo e il nucleo sociale sempre e in ogni contesto, dalle tribù fino alle gang, dalle religioni fino ai radical chic, si riconosce nella musica che ascolta).

La musica allontana la solitudine

Ascoltare musica è un modo per estraniarsi dal mondo e concentrarsi su sé stessi e sui propri stati d’animo. Nelle canzoni si ritrovano i propri sentimenti e questo ha un duplice effetto positivo. Da un lato fa sentire meno soli: se qualcuno ha scritto una certa canzone in cui ci si rispecchia così bene significa che anche lui ha provato le stesse emozioni. Dall’altro, consente di guardare quella stessa situazione, quell’emozione, dall’esterno, da un altro punto di vista. Permette di assegnarle un significato simbolico e di riuscire a contenerla senza esserne travolti.

Da sempre la musica è una parte fondamentale della mia vita – ci dice Susanna – mi piace tantissimo e la ascolto sempre, ogni giorno, non immaginerei nemmeno una vita senza musica. Di solito la scelta di cosa ascoltare dipende molto del mio stato d’animo, non ascolterei mai una canzone allegra se sono giù di morale o una canzone super movimentata se sono stanca. La cosa bella della musica è che si adatta ad ogni umore, ogni pensiero, è capace di tenerti sempre compagnia, infatti la maggior parte delle volte che la ascolto sono sola. La musica però è anche un’ottima consolazione nei momenti difficili, c’è stato un periodo nella mia vita che è stato duro da superare e uno dei motivi per cui sono stata meglio è stata proprio la musica. Devo dire grazie musica!.

La funzione degli idoli musicali

Ascoltare una canzone aiuta a rivivere un’esperienza emotiva già provata, a restare in contatto con essa rafforzando l’esperienza stessa, e la presenza di questo amico simbolico, colui che canta la canzone, diventa un sostegno che aiuta ad agevolare l’accettazione delle emozioni.

Capita spesso che questi personaggi finiscano per assumere appunto il ruolo di idoli. Diventano dei modelli da seguire perché rappresentano dei valori che l’adolescente sente di condividere, o perché hanno raggiunto degli obiettivi desiderabili, o perché manifestano degli aspetti della loro personalità che l’adolescente ammira e dei quali avverte il bisogno. Quando si inizia a pensare a come si vorrebbe diventasse la propria vita e si incontrano momenti in cui si pensa di non farcela, queste figure arrivano in aiuto diventando fonti di ispirazione.

Possono diventare dannosi? Dipende. È necessario differenziare tra un processo di identificazione in cui l’idolo prende il sopravvento su tutto il resto, allontanando dalla realtà, accentrando su di sé tutte le attenzioni fino a far trascurare gli impegni (ad esempio lo studio) e portando all’isolamento sociale, e una sana imitazione, in cui un idolo è imitato in maniera positiva e non si sostituisce alla realtà e alla quotidianità di un ragazzo, ma costituisce solo un esempio verso il quale indirizzare i propri sforzi.

La musica offre un’occasione di confronto

Torniamo alla musica. Una delle sue funzioni principali è quella di favorire il confronto con gli altri. Con gli amici si condivide un genere musicale preferito che diventa parte della propria identità, permette di riconoscersi nel modo di comunicare, di rapportarsi, nelle idee trasmesse.

Generalmente il genere musicale preferito ha la funzione di favorire l’identificazione in una cultura diversa da quella dei genitori aumentando la coesione del nuovo gruppo di appartenenza, quello degli amici. In quella musica sono racchiusi i loro sogni e i loro sentimenti, è una dimensione con cui si convive continuamente e che consente di dare voce al proprio sentire, di raccontarsi attraverso le parole di una canzone.

L’idea di sé e il processo di rielaborazione dei propri valori in questa età in cui si sperimenta un tentativo di allontanamento dai familiari, la cui discreta presenza è comunque sempre desiderata, dipendono e sono fortemente influenzati dal rapporto con i coetanei che diventano un termine di confronto per sperimentare i cambiamenti in atto. Ma non solo, e non sempre. Può essere anche un modo per affermare la propria identità.

Non è importante avere gli stessi gusti degli altri oppure iniziare ad ascoltare un determinato genere di canzoni solo perché lo fanno tutti – sostiene Susanna – il bello della musica infatti è proprio che ce n’è di tutti i tipi apposta perché ognuno trovi il genere in cui rispecchiarsi. Non ho mai avuto gli stessi gusti musicali dei miei coetanei, sono sempre uscita fuori dagli schemi, adesso tutti ascoltano il nuovo genere che va di moda, la trap, ma a me non trasmette nulla, mi piacciono le canzoni che ti colpiscono semplicemente dalla colonna sonora, senza il bisogno di sentire o capire tutto il testo della canzone perciò ascolto anche musica straniera.

Musica e adolescenti: un mondo che esclude gli adulti

La musica che ascoltano si differenzia spesso da quella degli adulti perché una delle sue caratteristiche deve essere di diventare un luogo in cui gli adulti sono esclusi.

Su questo vertono spesso le preoccupazioni dei genitori, che a fatica riconoscono alla musica dei loro figli il potere di esercitare una qualsiasi influenza positiva. Sarebbe utile soffermarsi ad ascoltare quella musica, le parole di quelle canzoni, considerandole come un messaggio che i ragazzi mandano agli adulti, un tentativo di comunicare loro qualcosa che non si riesce a comunicare in altro modo. Spesso quelle canzoni sono mezzi per veicolare messaggi di un certo spessore, denunce sul mondo e su quello che non va nella società.

Problematiche che sono sentite e che creano apprensione ma che non si hanno gli strumenti per poter affrontare in concreto. E anche questo è un sentimento nuovo: nell’infanzia tutto era possibile, ora si avvertono dei limiti e sentirsi incapaci di affrontarli sgomenta. La musica offre un mondo virtuale in cui rifugiarsi, un mondo dove, se non altro, l’adolescente si sente capito.

Tu conosci una generazione che non si è sentita dire quand’era giovane che ascoltava musica schifosa? – continua Argirò – No. Non possiamo conoscerla perché non esiste… Il linguaggio cambia e gli adolescenti necessitano di qualcosa che possano sentire come loro e soltanto loro. Generalmente è una fase e l’ascolto delle scuole medie presto si ripudia per quello delle superiori, che a sua volta cederà il passo. Sono pochi gli artisti che accompagnano tutta la vita, gli altri mantengono un alone malinconico, ma passano. Io difficilmente posso capire perché i miei alunni ascoltino alcune cose, mi ci sforzo anche, ma non riesco a comprendere, e ci sta! Alcune cose sono anche pregevoli, altre sicuramente no. In alcune si vede chiara la voglia di reazione alla famiglia e all’educazione, in altre si vede tanto la moda, il gusto di massa. Molto di quello che fanno gli adolescenti è indirizzato dalla moda, da ciò “che va”, che non può non piacerti: così questa ossessione delle marche, scarpe, vestiti, così la trap o alcuni tipi di rap. Ma succede lo stesso anche per gli adulti, eh. Io, essendo molto curioso, ascolto tanto di questa musica, alcune cose mi piacciono, altre le trovo disgustose; probabilmente sarà perché sto invecchiando.

Nella musica si cercano delle risposte

Nell’adolescenza ci si trova a fronteggiare per la prima volta la domanda sul significato della vita. La faticosa ricerca del proprio posto nel mondo, del senso della propria esistenza. Per vivere un cambiamento di questa portata in modo costruttivo è necessario avere una motivazione, ossia individuare l’obiettivo verso cui indirizzare i propri sforzi. La società attuale presenta tante opportunità teoriche ma spesso manca un’effettiva occasione di realizzazione delle stesse. Si pensi per esempio al lavoro: scuole di ogni tipo sembrano offrire la possibilità di realizzare tutte le proprie aspirazioni, ma sappiamo purtroppo che rendere reali queste opportunità nel mondo del lavoro che ci si presenta oggi è impresa assai più ardua.

In questa realtà non c’è da stupirsi che un adolescente cerchi degli appigli, delle risposte, e quando pensa di averle trovate in una canzone, la ascolta e riascolta decine e decine di volte.

A tutti è capitato di sentire i nostri adolescenti che canticchiano la stessa canzone per giorni, settimane e forse anche oltre. Molto spesso anche mentre noi stiamo cercando di stabilire un dialogo con loro. Ma non si stancano di ascoltare sempre la stessa cosa? Esiste una risposta.

Ascoltare una musica che ci piace fa sì che il nostro organismo rilasci dopamina, l’ormone del piacere, che allieta il nostro cervello con un senso di felicità e appagamento. Questo consente di trasportarci in una sorta di zona protetta dove ci sentiamo sicuri e dove possiamo staccare dalle problematiche che dobbiamo affrontare quotidianamente. Facile capire perché si vorrebbe protrarre questa sensazione all’infinito, per poter godere sempre di quel senso di benessere e di tranquillità che solo una situazione che già conosciamo come piacevole ci può dare. Un po’ come quando, al ristorante, finiamo per ordinare sempre il nostro piatto preferito!

Non solo l’ascolto, anche la pratica è importante

Avvicinare i ragazzi alla musica non solo come fruitori ma anche come creatori di musica è un buon metodo per mettere alla prova il loro talento stimolandone l’impegno personale, aiutandoli a diventare veri costruttori della propria vita e non semplicemente utilizzando prodotti preconfezionati.

La musica oggi ha un bel ruolo nella scuola – spiega Argirò – sicuramente maggiore rispetto a quando fu il mio turno di sedere tra i banchi, è stato fatto tanto, ma tanto ancora si può fare. Credo che l’insegnante di musica abbia un ruolo importante anche umanamente, empatico, di comprensione, attraverso l’universo musicale ha la possibilità di raggiungere l’universo interiore dei ragazzi. Su questo si può fare ancora qualche passo in avanti, magari mischiando alla teoria musicale e allo strumento della musicoterapia dei dibattiti-scambi musicali nei quali i ragazzi non si sentano giudicati per la musica che ascoltano. Si potrebbe dare spazio anche alla produzione elettronica della musica (che oggi è essenziale), alla produzione intuitiva (che genera anche il piacere di suonare), alla composizione.

Anche se l’avvicinamento alla musica non avviene nei primi anni di età, diversi studi hanno evidenziato gli effetti benefici dello studio della musica sul cervello degli adolescenti soprattutto per quanto riguarda le competenze linguistiche, essendo in grado di fornire loro una maggiore sensibilità nel riconoscere i suoni e nel dare loro risposte più rapide ed immediate. Ne deriverebbe una maggiore facilità nello studio delle lingue straniere.

Per eseguire un brano serve memorizzare diversi passaggi, per esempio scegliere come suonarlo e anticipare mentalmente il risultato, elementi che esercitano il ragionamento analitico e la capacità di risolvere problemi. Con il conseguente effetto di aiutare a migliorare la concentrazione e la coordinazione.

Non solo, per suonare serve anche saper riconoscere schemi e strutture e questo stimola l’area del cervello dove ha luogo il pensiero logico-matematico.

Suonare favorisce la responsabilità sociale e la formazione della personalità

Eseguire dei brani, specialmente se si fa parte di un gruppo, ha effetti molto positivi anche sui rapporti sociali e lo sviluppo della personalità: insegna a stare con gli altri e a comunicare, insegna la collaborazione e l’autodisciplina, rafforza l’autostima attraverso il miglioramento che si ottiene con la pratica e la percezione dell’utilità del proprio ruolo all’interno del gruppo. Per finire, come ogni forma di arte, stimola la creatività e allevia lo stress.

Diversi studi si sono occupati di un tema caro ai genitori: studiare con la musica è utile o dannoso?

La musica è una mia routine e mi aiuta anche nei momenti di noia – dice Susanna – magari quando sto studiando da ore e non ce la faccio più, mi capita di finire sulla mia playlist e iniziare ad ascoltarla, basta questo per ridarmi energia!

L’utilità o meno di studiare con la musica è in effetti controversa. Secondo alcuni, se utilizzata come sottofondo, servirebbe a rilassarsi, prendere le distanze da ansie e preoccupazioni favorendo la concentrazione. Premesso che sarebbe da preferire musica strumentale, dove l’assenza di una voce ridurrebbe notevolmente l’effetto distrazione, il discorso è molto soggettivo e dipende da diversi fattori, non ultimo dall’abitudine o meno a studiare con dei rumori di sottofondo e dalla facilità con cui si tende a distrarsi. Anche il tipo di studio che si sta affrontando ha un suo peso, nello specifico la musica otterrebbe un effetto positivo in quegli studi che richiedono un ragionamento astratto.

Dipende, dipende tanto – conclude Argirò – Dipende dalla persona, dalla musica, dal momento. Io in alcuni momenti trovo fastidiosa la musica, non mi aiuta, in altri invece mi è essenziale. Credo che imparando a conoscersi e a sintonizzarsi sui propri gusti e ritmi si arrivi alla migliore soluzione. Per questo credo che i ragazzi debbano sperimentare, ma sperimentare sul serio. A me aiuta tanto quando studio o quando scrivo le colonne sonore dei film, mentre la classica mi distrae (tranne le suite di violoncello di Bach, non mi chiedere perché) e non mi aiuta nemmeno la mia musica preferita, quella che ho nelle playlist che ascolto invece in metropolitana o mentre cammino. Il suono è un materiale, lo dico sempre, per chi crea e per chi ascolta: la cosa migliore è giocarci, sperimentare e conoscere quanto più possibile.

Una curiosità è che se per gli estroversi la musica in sottofondo viene spesso sentita come un aiuto, gli introversi dimostrano più difficoltà di concentrazione e propensione ad esserne distratti.

Anche per questo esiste una spiegazione scientifica. Agli effetti della dopamina, a cui abbiamo accennato in precedenza, gli introversi preferirebbero quelli della acetilcolina, altro neurotrasmettitore che produce però una sensazione di benessere quando ci dedichiamo alla meditazione e all’introspezione: facile capire che in questo caso dover gestire la presenza di stimoli esterni, come la musica, possa essere avvertito come un elemento di disturbo.

 

La Demenza a Corpi di Lewy. Meccanismi patogenetici, caratteristiche cliniche, strumenti diagnostici e terapeutici

La Demenza a Corpi di Lewy (Dementia with Lewy Bodies, DLB) è considerata attualmente la seconda forma più comune di demenza su base degenerativa dopo la Demenza di Alzheimer.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

La diagnosi di Demenza a Corpi di Lewy (DLB), soprattutto nelle fasi iniziali di malattia, rappresenta una sfida diagnostica in quanto tale patologia può manifestarsi insidiosamente e presentare una sintomatologia in grado di mimare altre patologie neurologiche e psichiatriche. Tale aspetto è riconducibile al fatto che la DLB è inserita nell’ambito di gruppo variegato di entità cliniche, tra cui si annoverano la Malattia di Parkinson (Parkinson’s Disease, PD) e il complesso Parkinson-Demenza (Parkinson’s with Dementia, PDD), che condividono sia alcuni aspetti sintomatologici sia caratteristiche neuropatologiche, tra cui l’accumulo di corpi di Lewy. I corpi di Lewy, scoperti nel 1912 dai ricercatori Foster e Lewy nei pazienti affetti da Malattia di Parkinson, sono aggregati presenti all’interno delle cellule neuronali e gliali costituiti da una proteina, denominata alfa-sinucleina 3-7. Tutte le patologie che condividono l’accumulo intraneuronale di alfa-sinucleina sono pertanto classificate anche con il nome di sinucleinopatie. Nel corso dei decenni, la DBL è stata denominata in modi differenti, che talora ricorrono ancora oggi in alcune pubblicazioni: malattia diffusa a corpi di Lewy, demenza senile a corpi di Lewy, variante della demenza di Alzheimer a corpi di Lewy, demenza associata a corpi di Lewy corticali. Negli anni ’70, grazie al contributo dello psichiatra Kosaka, tale patologia viene descritta per la prima volta definendone specificatamente le caratteristiche anatomopatologiche ed è inizialmente considerata come una variante rara di demenza.

Al contrario, è attualmente documentato che la prevalenza della Demenza a Corpi di Lewy, seppur variabile, oscilla tra lo 0 e il 5% nella popolazione generale e dallo 0 al 30,5% nei pazienti affetti da demenza, rappresentando così una delle forme più frequenti. I principali fattori di rischio correlati alla patologia, quali sesso maschile, età avanzata, familiarità per demenza, anamnesi di depressione, sono i medesimi evidenziati per la Malattia di Parkinson e per la Malattia di Alzheimer (AD). La maggior parte dei casi di DLB è sporadica, ma sono riportate forme genetiche, caratterizzate da mutazioni dei geni SNCA, LRRK2, SCARB2 e GBA. Oltre all’anomalo accumulo di aggregati di alfa-sinucleina, tipicamente osservabili in sedi cerebrali specifiche, quali il nucleo motore dorsale del vago e l’adiacente zona reticolata, la sostanza nera, i gangli della base, il sistema limbico e la neocorteccia, sono evidenziabili anche differenti alterazioni neuropatologiche, comuni a numerose patologie neurodegenerative, come l’accumulo di beta amiloide e la presenza di degenerazione neurofibrillare,  tipiche anche della Malattia di Alzheimer.

Manifestazioni cliniche e strumenti diagnostici

L’età di esordio è tra i 50 e gli 85 anni, con una media di 68 anni. Il corteo sintomatologico, caratterizzato da disturbi cognitivi, comportamentali e motori, può variare notevolmente da individuo a individuo, soprattutto nelle fasi iniziali di malattia. I disturbi cognitivi si caratterizzano tipicamente per la presenza di ricorrenti episodi confusionali nel contesto di un progressivo deterioramento cognitivo. È caratteristica, inoltre, la fluttuazione delle performance cognitive, che possono peggiorare transitoriamente per un periodo variabile da alcuni minuti a ore o giorni. Tali fluttuazioni si verificano nel 50-75% dei pazienti con DLB e possono rappresentare un ostacolo alla valutazione e inquadramento del paziente. Tipico è il simultaneo coinvolgimento delle funzioni attentive, esecutive e della abilità visuo-spaziali con relativa conservazione delle capacità mnesiche, che risultano compromesse solo nelle fasi più avanzate di malattia.

I disturbi del linguaggio, quali la confabulazione, la perseverazione e la riduzione della fluenza verbale, possono presentarsi in tutte le fasi di malattia. Frequenti anche agnosia, prosopoagnosia, e aprassia ideomotoria.

Nelle fasi iniziali, tale profilo neuro-psicologico agevola una corretta diagnosi differenziale rispetto alle altre forme di demenza, che diventa maggiormente difficoltosa nelle fasi intermedie e avanzate, quando si manifesta una  compromissione globale delle funzioni cognitive.

I disturbi psichiatrici, quali le allucinazioni visive strutturate, i deliri, l’apatia e lo stato ansioso sono estremamente comuni nella Demenza a Corpi di Lewy e si presentano sin dalle fasi iniziali della patologia. Le allucinazioni visive, presenti dal 13 all’80% dei pazienti sono tipicamente vivide e includono spesso animali oppure oggetti tridimensionali. Numerosi studi riconducono la presenza di allucinazioni visive ad alcune caratteristiche patogenetiche specifiche, quali una diffusa riduzione dell’acetilcolina a livello delle aree corticali, alla presenza di un maggior numero di corpi di Lewy a livello lobo temporale e alla ridotta perfusione delle corteccia occipitale nelle aree visive primarie e secondarie.

I disturbi motori presenti nella Demenza a Corpi di Lewy sono simili a quelli della Malattia di Parkinson. Rispetto alla Malattia di Parkinson, tuttavia, è più frequente riscontrare rigidità, rallentamento motorio, instabilità posturale con frequenti cadute a terra, mentre il tremore a riposo si manifesta più raramente. Ricorrenti sono le alterazioni del sistema nervoso autonomo, con frequente compromissione dei meccanismi di regolazione della pressione arteriosa, e i disturbi del sonno.

I disturbi del sonno, così come nella Malattia di Parkinson, si manifestano durante la fase di sonno REM con sogni vividi e spaventosi accompagnati da movimenti motori complessi e “violenti” (REM Behavioural Disordes). Tali disturbi possono precedere di parecchi anni gli altri sintomi di malattia non solo nella DLB, ma in tutte le patologie che condividono il medesimo meccanismo patogenetico.

I criteri diagnostici della Demenza a Corpi di Lewy, formalizzati per la prima volta nel 1996 nel corso del First International Workshop del Consortium sulla Demenza con Corpi di Lewy e poi rivisti nel corso degli anni, prevedono una formulazione della diagnosi come probabile, possibile o definita sulla base di sintomi e segni clinici, dati strumentali e risposta alla terapia farmacologica (tipica è l’ipersensibilità ai neurolettici).

Gli esami di laboratorio, al momento, non consentono con sicurezza di porre diagnosi differenziali con altre forme di demenza, in quanto il dosaggio di beta-amiloide e proteina tau su liquor non appare significativamente differente da altre forme di demenza.

Al contrario, specifiche tecniche di neuroimaging, in particolare quelle afferenti al campo della Medicina Nucleare, possono dare un importante contributo per la diagnosi differenziale. TC ed RM encefalo, infatti, evidenziano atrofia cerebrale e alterazioni della sostanza bianca, comuni a molteplici patologie neurodegenerative, anche se è doveroso sottolineare che nella DLB l’atrofia temporale e frontale è tipicamente meno severa se confrontata, rispettivamente, con la Malattia di Alzheimer e la Demenza Frontotemporale.

SPECT (Single-Photon Emission Tomography) e PET (Positive Emission Tomography) rappresentano indagini di neuroimaging in grado di studiare la funzione delle aree corticali mediante la misurazione del flusso cerebrale e il metabolismo attraverso specifici biomarkers. Diversi studi in letteratura dimostrano che una riduzione della perfusione e del metabolismo del lobo occipitale, e in particolare della aree visive,  sono tipicamente più evidenti nei pazienti con Demenza a Corpi di Lewy rispetto alle altre patologie dementigene. La PET con marcatori specifici per l’amiloide ha invece scarsa rilevanza nel differenziare la Demenza a Corpi di Lewy (DLB) dalla Malattia di Alzheimer, risultando in entrambe alterata. La SPET-DAT SCAN, specifica per lo studio di alterazioni a carico delle vie dopaminergiche, evidenzia nella DLB una riduzione significativa dell’uptake di dopamina nel nucleo caudato e del putamen, cosi’ come si osserva nella Malattia di Parkinson e nei Parkinsonismi, ma non nella Malattia di Alzheimer. Medesimo significato ha il riscontro di un’alterazione dell’innervazione cardiaca post-gangliare alla scintigrafia cardiaca con meta-iodo-benzyl-guanidina, frequentemente osservabile nella Malattia di Parkinson e nella Demenza a Corpi di Lewy, ma non in altre forme di demenza primaria. L’insieme di tali dati strumentali, correlati al quadro sintomatologico e alla valutazione psicologica, rendono agevole la diagnosi, soprattutto nelle forme tipiche e conclamate di DLB.

Indicazioni terapeutiche

La terapia dei disturbi cognitivi nella Demenza a Corpi di Lewy prevede l’utilizzo di Inibitori dell’acetilcolinesterasi (AchEI), quali Rivastigmina e Donepezil, che appaiono parzialmente efficaci nel migliorare le performance cognitive, riducendo la fluttuazione e la progressione dei disturbi nel corso del tempo.

Il trattamento con Donepezil, in particolare, sembrerebbe favorire anche un maggior controllo dei disturbi comportamentali quali agitazione e aggressività, allucinazioni, deliri, apatia.

Dagli studi disponibili, l’efficacia della Memantina nel trattamento dei disturbi cognitivi e comportamentali della DLB è controverso.

Poiché la Demenza a Corpi di Lewy è tipicamente associata ad una ipersensibilità ai neurolettici, si raccomanda cautela nell’utilizzo degli antipsicotici, prediligendo nelle fasi iniziali e, ove possibile, la correzione dei fattori socio-ambientali eventualmente modificabili, gli interventi di tipo cognitivo-comportamentale a supporto del paziente e dei caregiver e l’utilizzo di AChEI. Qualora si rendesse necessaria una terapia neurolettica, è preferibile l’utilizzo di antipsicotici atipici, come l’olanzapina, iniziando da bassi dosaggi e seguendo una lenta e graduale titolazione.

L’approccio farmacologico di prima linea per il trattamento dei sintomi motori extrapiramidali è rappresentato, come nella Malattia di Parkinson, dalla terapia con Levodopa o dopaminoagonisti. Tuttavia, nei pazienti con  DLP, tali trattamenti risultano meno efficaci e il loro utilizzo, in particolare per quanto riguarda i dopaminoagonisti, è fortemente limitato dal maggior rischio di sviluppo di allucinazioni e disturbi psicotici. Pertanto, in caso di necessità, è possibile inserire il trattamento con Levodopa seguendo le medesime considerazioni già discusse per gli antipsicotici atipici: considerare il minimo dosaggio possibile e seguire una graduale titolazione del farmaco prima di raggiungere la dose terapeutica, monitorando l’eventuale esacerbazione di disturbi comportamentali, specie le allucinazioni visive.

 

Genitorialità e generatività: cosa vuol dire essere genitori adottivi?

Cosa vuol dire nello specifico divenire genitori adottivi? Con l’adozione la coppia riuscirà a rielaborare il concetto di genitorialità, crescere quel bambino, sentirlo come figlio proprio ed accettarlo come tale.

 

Capita spesso che all’interno della stessa comunità sociale convivono più forme di famiglia ed è per questo che si parla di “pluralizzazione familiare” (Gambini, 2007, 42-42). Di seguito verrà riportato un veloce elenco delle varie forme di famiglia presenti nel nostro Paese in questi ultimi decenni:

  • Famiglia nucleare;
  • Famiglia allargata;
  • Famiglia con coniugi senza figli;
  • Famiglia di fatto;
  • Famiglia monogenitoriale;
  • Famiglia ricomposta;
  • Famiglia multietnica;
  • Famiglia omosessuale;
  • Famiglia unipersonale;
  • Famiglia adottiva (ibidem)

In questa condizione di eterogeneità è evidente come diventi difficile ed urgente definire cosa si intende per genitorialità; in ambito scientifico individuare quali siano gli elementi che la caratterizzano diviene una necessità dettata dal bisogno. Seguendo la linea di Donati (2001) la risposta è che l’attuale complessità sociale e culturale fa sì che la famiglia si organizzi e strutturi in modi diversi, funzionale alle attuali e molteplici sfide: con ciò si intende dire che la maggior parte delle tipologie di famiglia elencate sopra non rappresentano differenti famiglie, ma sono la stessa organizzazione che per adattarsi alle molteplici situazioni assume forme diverse.

Alla luce di queste osservazioni possiamo definire la genitorialità come un processo relazionale co-determinato dal bambino e dall’adulto identificato come figura di riferimento, in una dimensione spazio-temporale e socio-culturale che determina lo sviluppo fisico e psico-socio-culturale ed educativo del bambino (Paradiso, 2015, 18-19).

Quindi se non è un semplice ruolo, ma connota un processo, allora il diventare genitore significa entrare in una linea evolutiva apprenditivo-trasformativa che continua per tutto il resto della vita, che varia e si rimodella nel corso del tempo, connotandosi come a long life learning process. In quanto processo trasformativo, la genitorialità implica una rivisitazione delle proprie rappresentazioni interne, con un passaggio dall’investimento su di sé a quello sul bambino, cui vengono attribuite quote dell’amore per se stessi e del proprio ideale dell’Io. In aggiunta, alla funzione genitoriale direttamente ed ai figli indirettamente, viene attribuita anche una aspettativa “ripartiva”, intesa come tentativo di risanare aspetti irrisolti o dolorosi della propria storia personale, rispetto all’immagine di sé, sia come figli che come genitori (Bastianoni-Taurino, 2007, 10).

Ma cosa vuol dire nello specifico divenire genitori adottivi?

La coppia adottiva all’inizio della sua storia è, come tutte le altre, impegnata a costruire la propria identità; il normale percorso viene, però, interrotto, quando si giunge alla consapevolezza della propria sterilità; questo può essere considerato un evento paranormativo nel ciclo di vita familiare e chiede di essere affrontato adeguatamente. Si tratta di una circostanza che porta la coppia in una situazione di profonda crisi, visto che scardina il comune progetto dei partner; la sterilità impone la separazione da un progetto desiderato, dall’immagine che ci si era fatti del proprio bambino e dall’immagine di sé (Gambini, 2007, 303); in relazione a questa fase vi sono dei compiti di sviluppo che la coppia dovrà seguire:

  • elaborare la sterilità;
  • separarsi dal progetto biologico e riprogettare, negoziare e condividere un altro progetto generativo di coppia
  • condividere l’evento sterilità e rendere partecipi i familiari della scelta adottiva (D’andrea,2000,471).

Con il termine di ciò e l’inizio della fase sociale (che va dall’indagine psicosociale all’assenso per l’abbinamento), la coppia riuscirà a rielaborare il concetto di genitorialità, ovvero crescere quel bambino, sentirlo come figlio proprio ed accettarlo come tale; con l’arrivo in casa del bambino vi sarà il passaggio dalla diade coniugale alla triade familiare, se la coppia non ha altri figli, oppure all’inserimento di un nuovo figlio nella famiglia, se già ce ne sono altri; quello sarà il momento della nascita adottiva che, come ogni altra nascita, avrà degli effetti sull’intero sistema familiare (Gambini, 2007, 308).

La scelta adottiva giunge così, quasi sempre, alla fine di un lungo travaglio: non deve, però, essere il prodotto della negazione della propria sofferenza e non deve, ancora meno, essere il risultato di un ripiego. Non si deve cercare nel figlio adottivo un surrogato di quello biologico, se così fosse l’adozione non avrebbe possibilità di riuscita; l’adozione può divenire un atto veramente “creativo” nel senso che genera, appunto, un nuovo legame. Se ci si apre ad una dimensione propriamente affettiva e mentale è possibile generare una relazione autentica genitori-figlio in grado di superare l’aspetto biologico (ibidem). Divenire genitori adottivi significa, quindi, collocare la nascita del proprio figlio adottivo in uno spazio che si discosta da quello usualmente fisico, per porlo all’interno di una realtà psichica composta principalmente dal coinvolgimento emotivo (Galli-Viero, 2006).

Quando questo si realizza, l’adozione viene elevata sullo stesso piano della procreazione, facendo sì che l’iter adottivo rappresenti, in senso figurato, quasi una forma di “gestazione” e l’emanazione della sentenza di adozione si raffiguri come la “nascita” del figlio tanto desiderato (Commerci, 2007).

Come in tutte le famiglia, anche in quella adottiva, si parla di ciclo di vita diviso in fasi:

  • Fase generativa
  • Fase sociale
  • Formazione della famiglia adottiva: con l’entrata del bambino risulta fondamentale riconoscere la storia di ciascuno ed integrare passato e presente del bambino con quello dei nuovi genitori. L’adozione, in questo stadio deve ruotare attorno al concetto di reciprocità, il quale si manifesta nello “scambio dei doni”. I genitori offrono al bambino cura, protezione ed una famiglia, mentre egli offre ai medesimi genitorialità e continuità familiare (Scabini-Cigoli, 2000, 232-233).

Concludo, sottolineando il fatto che troppe volte si parla del mondo dell’infanzia guardandola e pensandola da adulti, non chiedendosi se tale decisione o scelta sia la migliore possibile per “tale” bambino in “tale” situazione, non categorizzando e astraendo con la convinzione di sapere noi adulti cosa è meglio per lui. Se si parte dal bambino, allora tutto il percorso verso l’adozione e poi la costruzione della nuova famiglia prenderanno una via diversa più centrata sui bisogni del minore, che sulla rispondenza ai desideri degli adulti.

 

Ipnosi e integrazioni delle parti dissociate: verso una psicoterapia integrata

Attraverso l’ipnosi ho dato prima la possibilità a Marta di accedere ad un’immagine di sé come forte ed efficace per poi procedere alla rivisitazione dell’episodio traumatico favorendo l’ingresso nella scena della Marta adulta.

 

Gli ultimi decenni ci hanno insegnato molto sulla psicoterapia. Stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione esperienziale (G.Dimaggio, 2020)

Chi come me ha qualche anno di formazione e pratica clinica alle spalle può confessare di essere cresciuto perseguendo l’obiettivo primo di scegliere tra due modelli: una sinistra progressista, per la quale l’intervento era basato sulla rivisitazione delle credenze disfunzionali – da “sono convinto che la realtà sia questa” a “ora che mi ci fa pensare forse si tratta di una mia valutazione negativa della realtà”- e una destra tradizionalista, radicata in terapie sopravvissute al progresso delle neuroscienze che raccontano di mondi lontani inesplorati fatti di oggetti transazionali, invidia del pene e seni buoni e cattivi. Ogni riferimento a ideologie e/o orientamenti politici è puramente casuale.

Perdonate l’eccessiva semplificazione, per lo più caricaturale, delle prospettive formative offerte dagli atenei dell’epoca. Resta indiscusso il mio vissuto soggettivo: uno spaurito e nevrotico specializzando su di una biga alata trainata da un cavallo bianco (terapia cognitivo-comportamentale) e uno nero (la psicoanalisi) che puntano in direzione opposte. Ogni riferimento cromatico a ideologie e/o orientamenti politici è puramente casuale.

Lo scenario sembra complesso ma la soluzione appare semplice. Scendere.

Decido di avventurarmi in mondi non considerati abbastanza dai testi accademici e inciampo in un manuale con su ritratto un anziano, sguardo serafico, impegnato in un esercizio ginnico alquanto avventato -penso io- per la sua età. Sulle prime pagine si racconta che è possibile fare psicoterapia utilizzando il corpo. SI tratta di una copia di “espansione e integrazione del corpo in bioenergetica” e l’anziano snodato è Alexander Lowen.

Si susseguono scoperte sensazionali, dallo Psicodramma di Moreno all’ipnosi ericksoniana, o meglio, psicoterapia neo-ericksoniana. A quest’ultima ho dedicato il primo percorso quadriennale di formazione in psicoterapia.

Arriviamo al punto. La maggior parte dei grandi terapeuti ad oggi è perfettamente d’accordo che la migliore forma di psicoterapia è data dall’integrazione delle migliori scoperte ottenute dalle diverse scuole di pensiero. La triade cognizione-emozione-soma appare, indiscutibilmente, la scelta vincente. Le neuroscienze ci hanno svelato l’esistenza del cervello tripartito (neocorteccia-sistema limbico-rettiliano, P.Maclean 1970) e del corpo che registra gli eventi importanti della nostra vita in assenza di una reale memoria semantica: l’esperienza resta una memoria procedurale e, a volte, non integrata (P.Ogden, K.Minton, C.Pain, 2012). Il corpo ha riposto all’evento e continua a farlo allo stesso modo di fronte a stimoli attivanti, mentre la neocorteccia resta a guardare incredula.

Sia la psicoterapia ipnotica che la bioenergetica ne erano già a conoscenza e la loro pratica clinica era da subito orientata in questa direzione, ma questo è un altro discorso.

In una mano avevo la psicoterapia ipnotica, nell’altra un interessante testo intitolato “Guarire la frammentazione del sé” (J.Fisher 2017) e, davanti a me, Marta, plurilaureata disoccupata affetta da disturbo borderline di personalità.

Lavorare con le parti, nella mia pratica clinica, è risultato molto utile in diversi casi. In particolar modo con pazienti traumatizzati facilmente attivabili. Condizione per cui, l’iperarousal da un lato e il possibile stato dissociativo d’altro, non avrebbero permesso un accesso utile all’episodio traumatico. Sollecitare la paziente a recuperare uno stato di quiete attraverso la respirazione, attenzione esclusiva al presente e osservazione non giudicante dei pensieri -capisaldi della mindfulness– permetteva a Marta di rientrare parzialmente all’interno della finestra di tolleranza (D.Siegel, 1999). Non provava dolore, era spaventata.

Marta era cresciuta con una madre impegnata con il suo lavoro, anaffettiva e dedita a indagini meticolose utili a stanare l’adulterio. All’indizio rinvenuto seguivano agiti pantoclastici e perdita di coscienza. Il padre, assente. Fondamentale, per l’educazione di Marta, rinforzare e sostenere lo sviluppo intellettivo. Il perfetto connubio tra Montessori e l’alessitimia.

Dopo un’attenta ricostruzione dello schema interpersonale disfunzionale secondo il modello TMI (Terapia metacognitiva interpersonale -G.Dimaggio, A.Montano, R.Popolo, G.Salvatore 2013-) decido di intervenire attraverso un’esposizione immaginativa. Avevo l’episodio: Marta, all’età di 8 anni, vede sua madre seduta sul divano del salone, in lacrime, dedita a sfogliare scontrini. Marta, fin troppo sveglia per la sua età, capisce che si tratta dell’ennesima prova di tradimento di suo padre. Marta racconta il viso di suo madre, dolorante. Un’espressione che le provoca sofferenza ma, soprattutto, la spaventa. Le si avvicina e cerca di consolarla.

In un’altra occasione mi racconta del parto. Marta ha una bellissima bambina di 8 anni, Adele. Lei stessa mi confessa di quanto fosse orgogliosa di se stessa ripensando al modo in cui aveva affrontato quell’avventura: “sentivo che avrei potuto fronteggiare qualsiasi difficoltà”.

Perfetto. Avevo bisogno di un episodio nel quale Marta si fosse sentita efficace, efficiente. Non tranquilla, a suo agio nella verde prateria, ma in grado di affrontare il mondo.

Colleghi che lavorano concettualizzando il caso attraverso il “modello delle parti del sé” suggeriscono al paziente di sintonizzarsi con “la sua parte adulta”, presente, dando per scontato che questa parte sia in grado di accogliere la sofferenze delle “altri parti del sé” ferite. Marta sembrava non riuscire a rintracciare nessun aspetto di sé valido ed efficace. Avevo bisogno di costruirlo insieme a lei.

Importante sottolineare che Marta non è mai ricorsa a un’immagine di sé grandiosa, interpretabile come difesa narcisistica, e non ha mai impiegato coping disfunzionali di perfezionismo. Lavorare sull’efficienza in questi casi rischia di rinforzare il coping disfunzionale. (J.Young 2012)

Attraverso l’induzione ipnotica ho dato prima la possibilità a Marta di accedere ad un’immagine di sé come forte ed efficace (una “parte adulta” affiorata nella sua storia personale, vera, capace di affrontare il parto), per poi favorire l’ancoraggio (M.H. Erickson 1979). La paziente ora sarebbe stata in grado di rievocare l’immagine nucleare di sé positiva e funzionale.

Secondo step: rivisitazione dell’episodio traumatico attraverso l’induzione ipnotica, favorendo questa volta l’ingresso nella scena della Marta adulta, forte e sicura di sé, rievocata dall’ancoraggio. La paziente riesce a gestire la narrazione. Il suo corpo non mostra segni di iperarousal. Trapelano contenuti emotivi nuovi relativi al rapporto con sua madre; elementi indispensabili a delineare il ruolo che ha sempre avuto l’immagine interiorizzata di sua madre nel guidare le sue decisioni.

Sarebbe stato possibile ottenere lo stesso risultato senza l’utilizzo dell’ipnosi? Probabilmente sì. Sarebbe stato possibile raggiungere gli stessi obiettivi perseguendo esclusivamente i precetti della psicoterapia ipnotica o di altri modelli terapeutici evidence-based? Immagino di sì. Resto fermamente convinto che, a fronte della rivoluzione esperienziale che si trova ad affrontare il mondo della psicoterapia, scendere dalla biga vorrebbe dire rinunciare a partecipare ad un processo evolutivo senza eguali.

 

Buone ragioni per stare male. La nuova frontiera della psichiatria evoluzionistica (2020) di Randolph M. Nesse – Recensione

Se le emozioni di base ci avvisano e proteggono da eventi pericolosi, tuttavia non ci forniscono indicazioni su cosa fare nello specifico o su come comportarci. Questo uno dei temi affrontati nel testo Buone ragioni per stare male.

 

Emozioni caotiche e poco funzionali sembrano impedirci di vivere una vita piena e gratificante, tuttavia esistono buoni motivi per cui ancora oggi sopravvivono in noi queste risposte emotive spiacevoli e dolorose. Se da una parte ci sono tratti della nostra psiche, come lo stress e l’ansia, che vorremmo eliminare, dall’altra grazie a questi tratti manteniamo costante l’allerta nei confronti dei pericoli preservando così la nostra incolumità.

Questo il tema affrontato dal testo Buone ragioni per stare male dove gli autori illustrano, secondo una prospettiva evoluzionistica, le ragioni per cui le emozioni spiacevoli continuano a tramandarsi per via filogenetica.

Esse sarebbero il risultato di un lungo processo evolutivo che ha reso in passato le emozioni negative necessarie alla nostra sopravvivenza.

Tuttavia il nostro sistema interno di regolazione delle emozioni è rimasto invariato nel corso dell’evoluzione della specie e ad oggi non si è evoluto a sufficienza per riuscire a sincronizzarsi con le complessità a cui la vita contemporanea richiede di adeguarsi.

Le emozioni ci aiutano a sopravvivere pertanto si trasmettono per via genetica.

Le sensazioni di dolore fisico e le emozioni negative hanno un preciso ruolo nel nostro sistema di sopravvivenza. Alcune emozioni negative ci aiutano a evitare potenziali pericoli.

L’ansia ad esempio è un segnale di allarme che si lega alla percezione di un pericolo per il nostro benessere, allo stesso modo la tristezza ci dice che dovremmo evitare una perdita o una separazione. Allo stesso modo sentimenti positivi come l’entusiasmo ci aiutano a riconoscere una situazione nuova che, anche se inizialmente sconosciuta, può diventare nel futuro un’opportunità.

Se le emozioni di base ci avvisano e proteggono da eventi pericolosi, tuttavia non ci forniscono indicazioni su cosa fare nello specifico o su come comportarci. La complessità della vita moderna richiederebbe indicazioni più sofisticate rispetto a quelle fornite dalle emozioni di base. Per questo motivo l’evoluzione del nostro sistema di regolazione delle emozioni sarebbe asincrona rispetto al contesto moderno.

Comprendere le ragioni dell’ansia e degli attacchi di panico può essere di aiuto nel loro trattamento.

I nostri timori e ansie sono sopravvissuti lungo le generazioni nel corso della selezione naturale perché ci aiutano a riconoscere e reagire in modo automatico alle situazioni di potenziale pericolo. L’ansia ci aiuterebbe a sopravvivere, per questo motivo sarebbe un tratto che resiste e persiste nel tempo.

Ciò che appare meno ovvio è il motivo per cui, così spesso, ci sentiamo ansiosi senza un apparente motivo. Di base l’ansia agisce come un allarme antincendio: ci avvisa quando inizia a diffondersi il fumo. Sta a noi quindi decidere se provare a spegnere le fiamme o se invece fuggire per sottrarci al pericolo.

Proprio come un allarme a volte anche l’ansia si attiva anche in assenza di un reale pericolo. Gli eventuali falsi allarmi e la preoccupazione che ne consegue sono, secondo gli autori, il prezzo da pagare per un sistema che, in passato come oggi, ci potrebbe salvare la vita.

Sapere da dove ha origine la nostra ansia non solo favorisce una maggiore comprensione del processo in atto, ma apre anche una nuova prospettiva dal punto di vista del trattamento, nello specifico quello farmacologico.

I farmaci secondo gli autori silenziando il sintomo possono aiutare, per un certo periodo, a vivere liberi da attacchi di panico.

In questo frangente la mente può abituarsi a vivere in un ambiente che non è percepito sempre come pericoloso, ma prevalentemente come sicuro. Il mindset si accomoderà su questa percezione e anche quando sarà sospesa l’assunzione del farmaco l’ambiente che ci circonda continuerà ad essere percepito perlopiù come sicuro.

La depressione può derivare da una disfunzione nel sistema di regolazione dell’umore.

Secondo uno studio pubblicato su The Lancet nel 2013 la depressione è la causa del maggior numero di anni vissuti con una disabilità rispetto a qualsiasi altra malattia.

Nonostante la sua frequenza, la depressione è ancora difficile da diagnosticare. Quando un umore basso diventa una vera e propria depressione? Quanto lungo può considerarsi un periodo di lutto successivo a una perdita prima che lo si possa definire come depressione?

Gli autori partono dall’osservazione che l’uomo può vivere stati d’animo molto diversi fra loro: possiamo sentirci demoralizzati, ottimisti o entusiasti a seconda delle circostanze. Perché la nostra mente reagisce con emozioni diverse a seconda degli eventi?

Uno dei principali motivi per cui disponiamo di un repertorio di risposte emotive tanto ampio sarebbe quello di darci un vantaggio nell’immaginare quanto sforzo dovremmo fare quando ci troviamo in una situazione positiva o negativa.

Per comprendere meglio questo passaggio torniamo ai tempi in cui l’uomo per procacciarsi il cibo doveva o cacciarlo o raccoglierlo.

Proviamo a immaginare di vivere una situazione comune per un uomo dell’antichità.

Stai iniziando a raccogliere delle bacche. Mentre svolgi questo compito devi porti tre domande:

  • Quanta fatica dovrò fare per raccogliere le bacche?
  • Quando sarà il momento di lasciare quest’area e spostarmi in quella adiacente?
  • Quando sarà il momento giusto per smettere di raccogliere bacche e dedicarmi a un’altra attività?

La risposta a queste tre domande la ottengo prestando attenzione al mio stato d’animo. I cambiamenti del mio umore mi indicheranno quante bacche dovrò raccogliere per soddisfare il mio bisogno di cibo, e mi diranno quando fermarmi, prima che il carico delle bacche raccolte diventi troppo pesante da trasportare. Allo stesso modo un umore basso mi segnalerà che sto compiendo una fatica vana, e che è bene mi dedichi ad altro senza continuare a sprecare le mie energie.

La vita moderna ci confronta con complessità ben maggiori della raccolta del cibo dal punto di vista sociale. Possiamo sentirci confusi quando il nostro umore è condizionato dal nostro lavoro o dalle nostre relazioni interpersonali. Dovremmo lasciare il lavoro quando non ci soddisfa? Dovremmo rincorre un sogno anche quando consapevoli che difficilmente si realizzerà? Dovremmo rimanere sposati anche quando viviamo una relazione infelice?

Le emozioni ci danno un’indicazione sulla natura della situazione che stiamo vivendo, ma ben poche su cosa effettivamente fare.

L’ansia sociale sarebbe l’esito dell’importanza di amare e prendersi cura degli altri trasmessa filogeneticamente.

La nostra capacità di prenderci cura degli altri si crea in funzione delle connessioni emotive che stabiliamo con persone per noi significative ed è condizionata anche dall’opinione che gli altri hanno di noi. La nostra autostima si basa infatti anche sulla capacità di renderci amabili per altre persone.

Tuttavia oggi compiacere le persone è certamente più complesso che in passato: è possibile che una scelta appaghi una persona, ma ne faccia scontenta un’altra. La difficoltà nell’effettuare scelte che incontrino l’approvazione di molti potrebbe in parte spiegare alcune forme di ansia sociale contemporanea.

Il dolore del lutto ci impedisce le scelte che comportano perdite.

Il dolore legato al lutto avrebbe un significato evoluzionistico: di fronte a un potenziale pericolo come il rischio della perdita di un caro, l’infinito dolore che ne potrebbe derivare aiuta a dispiegare le energie necessarie per far fronte all’emergenza.

Allo stesso modo il dolore che segue a una perdita, fatto di continue rievocazioni dell’accaduto, avrebbe la funzione di indurre una riflessione maggiore sulle azioni sbagliate che hanno condotto a quella perdita L’obbiettivo definito filogeneticamente sarebbe quindi di essere equipaggiati nel caso si verifichi una situazione analoga nel futuro.

Il meccanismo che regola l’assunzione di cibo e droghe non è calibrato sulla facilità odierna di accesso al consumo.

Il mondo contemporaneo costantemente ci espone a nuovi pericoli: i cibi pieni di zucchero, sale e grassi saturi. In antichità questi elementi erano scarsi e pertanto il corpo li bramava in modo sano.

Non c’era la possibilità di assumerli frequentemente e pertanto il desiderio di essi era elevato. Oggi al contrario questi cibi sono presenti in abbondanza, tanto da causare alti livelli di obesità e malattie cardiache, oltre che disordini alimentari come bulimia e binge eating.

La ragione per cui oggi abbiamo problemi nel mantenere un peso adeguato sarebbe legata al fatto che il meccanismo di autoregolazione del peso corporeo è stato modificato dal mondo moderno.

Esso risale all’antichità, quando l’esigenza di sopravvivere doveva prescindere dalla quantità di cibo che era possibile cacciare o raccogliere.

Oggigiorno l’enorme disponibilità di cibo e la seduttività con cui viene proposto ci inducono ad assumerne in quantità di gran lunga superiori rispetto alle nostre reali esigenze. Sia la qualità del cibo che il tempo dedicato alla nutrizione sono aumentati nel corso dei secoli, ma il sistema di regolazione del peso corporeo è rimasto invariato dall’antichità, quando il cibo era scarso e l’esigenza di apporto calorico minima.

Una situazione analoga si verifica nella regolazione nell’assunzione di ciò che è fonte di piacere: le droghe.

Il piacere e la gratificazione di per sé non sono problematici: ci indicano le situazioni per noi gratificanti. Nella maggior parte dei casi l’esperienza piacevole inizia con un incremento di dopamina che rappresenta un incentivo a ripetere e trarre piacere dalla situazione che ci gratifica.

Questo tipo di esperienze tuttavia sono accompagnate da sensazioni, trasmesse filogeneticamente, che ci indicano quando fermarci: la nausea quando si è mangiato troppo è un segnale di questo tipo.

Per le droghe in uso oggi non esiste un analogo sistema di autoregolazione: la spinta della ricerca del piacere crea un desiderio infinito e una compulsione nell’assunzione che, quando non essendo sufficientemente inibiti, spingono fino all’autodistruzione.

 

Applicazione del protocollo cognitivo-comportamentale, potenziato con l’Acceptance and Commitment Therapy in un caso di disturbo reattivo dell’attaccamento dell’infanzia con presenza di parafilie

Il protagonista di questo caso clinico è un soggetto di 9 anni, istituzionalizzato, con ripetute esperienze di abbandono familiare in anamnesi; ciò che l’ha portato all’attenzione clinica è la manifestazione di comportamenti sessualizzati (parafilie).

 

In termini evolutivi il fenomeno dell’attaccamento si configura come un comportamento generato dall’acquisizione di modelli relazionali, esperiti in primis, con le figure genitoriali, che permettono al bambino di sviluppare un senso di sicurezza e accudimento, ma contemporaneamente di esplorare gradualmente la realtà circostante. L’attaccamento è, dunque, costituito dalla costante interrelazione di aspetti emotivi, cognitivi e comportamentali che favoriscono un sistema relazionale in continua evoluzione che garantisce all’individuo la possibilità di orientarsi nel mondo circostante con le figure significative e con il gruppo dei pari (Bowlby, 1996).

La mancata realizzazione di tale fenomeno implica conseguenze clinicamente rilevanti sul normosviluppo del bambino, il quale inevitabilmente continuerà a reiterare dei comportamenti relazionali disfunzionali e potenzialmente dannosi, oltre ad impattare sul riconoscimento dei suoi stati interni.

Il protagonista di questo caso clinico è un soggetto di 9 anni, istituzionalizzato, con ripetute esperienze di abbandono familiare in anamnesi; ciò che l’ha portato all’attenzione clinica è la manifestazione di comportamenti sessualizzati (parafilie), non in linea con la sua fase di sviluppo evolutiva. Per fronteggiare tale casistica complessa è stato implementato un protocollo, di matrice cognitivo-comportamentale, composto da interventi di Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ed esercizi di Mindfulness: per lavorare sincronicamente sulla sfera della consapevolezza cognitiva e corporea (Bassani, Marchi, Menotti & Canevisio, 2020).

L’ACT appartiene alle terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione e affonda le sue radici nell’analisi del comportamento e su un vasto programma di ricerca sperimentale sul comportamento verbale. È una forma di psicoterapia transdiagnostica, applicabile ad una vasta classe di disturbi, che fa ampio utilizzo di strategie di accettazione, al fine di incrementare la flessibilità psicologica (Hayes, 2005). Con il termine Mindfulness si fa, invece, riferimento ad una forma di pratica meditativa che focalizza l’attenzione sul momento presente, coltivando un atteggiamento aperto, curioso e non giudicante verso i propri stati interni. Il suo fulcro consiste nel prestare attenzione “momento per momento” a quello che accade nella propria esperienza, a osservare il naturale funzionamento della mente, senza ostacolare il normale fluire di pensieri, emozioni e sensazioni fisiche (Kabat-Zinn, 1994). Questo protocollo, potenziato con l’Acceptance and Commitment Therapy, è stato implementato attraverso incontri a cadenza settimanale, dalla durata di 60 minuti ciascuno.

L’assessment, eseguito in due fasi valutative (pre e post-trattamento, a due anni di distanza), è stato condotto attraverso la somministrazione delle seguenti scale cliniche, finalizzate a testare la dimensione del trauma, i comportamenti sessuali problematici e la psicopatologia dello sviluppo generale: Trauma symptom checklist for young children (TSCYC; Briere et al., 2001), nell’adattamento italiano del 2015 (Pessina et al., 2015); Child sexual behavior inventory (William et al., 2001) e Child Behavior Checklist (CBCL; Achenbach & Edelbrock, 1991). Nel corso del trattamento è stato osservato che il solo instaurarsi dell’alleanza terapeutica tra bambino e psicoterapeuta ha assunto la valenza di esperienza emozionale correttiva che ha permesso l’interiorizzazione di nuovi modelli comportamentali, estendibili anche agli altri contesti di vita, come ad esempio la scuola e la comunità residenziale in cui è collocato. Al termine del trattamento sono stati riscontrati esiti terapeutici, esigui, ma significativi; tra cui: lieve decremento della sintomatologia ansiosa e depressiva, riduzione dei livelli di rabbia e soprattutto diminuzione della preoccupazione connessa alle tematiche sessuali, nonché il comportamento problema esternalizzante che ha portato l’individuo all’attenzione clinica. Alla luce degli obiettivi terapeutici raggiunti, l’alleanza terapeutica si è configurata come fattore terapeutico aspecifico che ha inciso notevolmente sull’esito del trattamento: il bambino è riuscito ad interiorizzare i comportamenti messi in atto dal terapeuta, sino a raggiungere notevoli livelli di fiducia inaspettati (Bassani, Marchi, Menotti & Canevisio, 2020).

L’outcome clinico, emerso da questo protocollo applicato ad un single-case, si configura come l’acquisizione di abilità di controllo comportamentale, connesso allo sviluppo della sicurezza emotiva: il terapeuta, per la prima volta nella vita dell’individuo, ha offerto all’individuo la possibilità di esperire una relazione alternativa e correttiva con un adulto non trascurante e non abbandonico.

 

La cura di sé. Un percorso integrato verso il benessere

Prendersi cura di sé comprende: la cura del corpo, della mente, delle emozioni, dello spirito, del tempo e la compassione di sé.

 

Viviamo in un’epoca per molte persone caratterizzata da una diffusa difficoltà nel conciliare i tempi della cura di sé con quelli del lavoro, da ridotte risorse economiche, da un continuo affaccendamento, da pochi modelli di riferimento e da un’organizzazione sociale del lavoro impostata prevalentemente su adulti senza figli (Cicognani et al., 2005). Riguardo all’attenzione alla propria persona, sembra davvero essersi diffusa e consolidata l’opinione che un adulto responsabile debba quasi “dimenticare” sé stesso, evitando di mettere al primo posto i propri desideri per dedicare ogni suo sforzo unicamente alla crescita delle generazioni più giovani e al soddisfacimento dei bisogni lavorativi. Al contrario i professionisti della salute mentale, soprattutto negli ultimi anni, stanno studiando gli strumenti più efficaci per sostenere la popolazione adulta nell’organizzazione della vita quotidiana e nella definizione delle funzioni educative, evidenziando il principio che la prevenzione e la cura di sé rappresentano un metodo essenziale per migliorare la propria salute, la qualità di vita e costruire relazioni familiari e sociali serene e stabili.

In concreto, prendersi cura di sé comprende: la cura del corpo, della mente, delle emozioni, dello spirito, del tempo e la compassione di sé.

Lo stile di vita rappresenta un fattore decisivo per la salute. I dati dell’OMS relativi alle abitudini della popolazione appaiono preoccupanti, in quanto sempre più diffusi sono i disturbi del sonno, l’inattività fisica ed un’alimentazione incompleta, scarsamente equilibrata e causa di un eccesso ponderale (Trabucchi, 2014). Prendersi cura del proprio corpo rappresenta, pertanto, un prerequisito essenziale per conservare la salute cerebrale e comprende tre aspetti fondamentali: un’alimentazione completa e varia, un esercizio fisico regolare ed una corretta igiene del sonno. È importante anche saper dare spazio alle proprie emozioni e sentimenti, imparando a nominarle nel momento in cui si presentano, a gestirle con efficacia e a riconoscere gli stati affettivi altrui, abilità fondamentale nelle relazioni interpersonali (Goleman 182018).

La cura della mente si può realizzare ad esempio riscoprendo il valore del silenzio, della riflessione, e l’amore per tutto ciò che è esperienza intima e personale. Kabat-Zinn (2004) ha individuato otto “pilastri” indispensabili per favorire la consapevolezza di sé ed affrontare con efficacia le difficoltà quotidiane quali: la sospensione del giudizio, la pazienza, la mente del principiante (aiuta a vedere tutte le cose come se le notassimo per la prima volta), la fiducia nelle proprie intuizioni, non cercare risultati, l’accettazione di ogni esperienza, il lasciare andare, la costanza e l’autodisciplina rafforzata da un impegno quotidiano e continuo.

Anche la dimensione spirituale assume un ruolo importante in termini di benessere ed insieme alla mente e al corpo costituisce un’unica entità. La spiritualità comprende tre elementi: l’impegno alla ricerca di uno scopo di vita, l’aspirazione al trascendente verso qualcosa di più grande di sé oltre il qui ed ora, e il desiderio di vivere valori come l’amore, la verità, la bellezza, la fiducia e la creatività (Ross, 1995); costituisce pertanto una risorsa preziosa per dare senso alla vita ed offre conforto e speranza attraverso l’uso di strategie di coping funzionali alla riduzione dello stress (Park & Folkman, 1997).

Un’ulteriore elemento caratteristico della cura di sé è rappresentato dall’attenzione alla gestione del proprio tempo: una sua buona organizzazione, la rinuncia al multitasking e la consapevolezza delle priorità permettono, infatti, di evitare di sovraccaricare la mente in modo eccessivo e di raggiungere gli obiettivi prefissati, divenendo in questo modo persone più serene e produttive.

Inoltre, coltivare un atteggiamento compassionevole nei confronti di se stessi permette di essere toccati dalla propria sofferenza, senza evitarla o cercare di allontanarla, ma desiderando alleviare il proprio dolore e guarire sé stessi con gentilezza. Paul Guilbert (2012), uno dei massimi esponenti della Terapia Focalizzata sulla Compassione (TFC), evidenzia tre aspetti che caratterizzano questo atteggiamento: l’apertura alla propria sofferenza, la gentilezza verso sé stessi piuttosto che l’autocondanna e la consapevolezza di condividere con gli altri l’esperienza della sofferenza senza vergognarsi o sentirsi soli nel proprio dolore.

La cura di sé rappresenta, dunque, una sfida sempre più urgente per accrescere il benessere di ognuno; un percorso che spesso rischia di essere mal interpretato come egoismo, chiusura in se stessi o scarsa attenzione al prossimo. Tuttavia, solo imparando a stare bene con noi stessi, accettando le fragilità personali e valorizzando le nostre risorse riusciremo a prenderci meglio cura degli altri e ad affrontare con successo e pazienza le difficoltà che la vita riserva.

 

Acceptance and commitment therapy per il Disturbo Ossessivo Compulsivo

A seguito del riscontrato peggioramento generale dei sintomi DOC in soggetti che già presentavano la diagnosi (Prestia et al., 2020), e a seguito delle molte ricerche riguardanti le terapie di terza ondata, andiamo ad analizzare, nello specifico, l’utilizzo della Acceptance and Commitment Therapy (ACT) per trattare il Disturbo Ossessivo-Compulsivo. 

 

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è uno dei disturbi mentali più comuni e debilitanti ed ha una prevalenza internazionale dell’1,1- 1,8%. Il disturbo si caratterizza per la presenza di ossessioni, ovvero pensieri, impulsi o immagini ricorrenti, persistenti e indesiderati e di compulsioni, ossia tutti quei comportamenti o azioni mentali che vengono messi in atto allo scopo di regolare, ridurre o neutralizzare le ossessioni e di controllare l’ansia a esse associata. Molte persone che soffrono di DOC riconoscono la natura irragionevole e la qualità ripetitiva dei propri pensieri e comportamenti, nonostante ciò, però, riportano un’incapacità nel resistervi e questo comporta inevitabilmente una ripercussione significativa sulla qualità di vita di queste persone. Il disturbo infatti provoca un notevole distress personale e una compromissione nel funzionamento accademico, lavorativo e interpersonale. Il decorso del disturbo, se non trattato, è solitamente cronico, con tassi di remissione spontanea negli adulti molto bassi (American Psychological Association, 2013).

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e in particolar modo l’utilizzo della tecnica dell’esposizione in vivo con la prevenzione della risposta (ERP) è il trattamento di prima scelta raccomandato per il disturbo ossessivo-compulsivo (Abramowitz, Taylor & McKay, 2009; Olatunji, Davis, Powers & Smits, 2013), sia da sola che in combinazione con la terapia farmacologica basata sugli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRIs) (Romanelli, Wu, Gamba, Mojtabai & Segal, 2014). Nonostante una comprovata efficacia dei trattamenti cognitivo-comportamentali per il DOC, sussistono diverse limitazioni e problematiche, al di là dell’impatto clinico, per coloro che accedono alle cure: il 25-30% dei clienti introdotti all’ERP rifiuta il trattamento, si ritira prematuramente interrompendo la terapia (Ong, Clyde, Bluett, Levin & Twohig, 2016) o non aderisce alle istruzioni raccomandate e non porta a termine i compiti di esposizione previsti (Foa et al., 2005). All’individuo viene infatti richiesto di confrontarsi sistematicamente con triggers situazionali o stimoli mentali temuti che provocano le ossessioni senza mettere in atto alcun comportamento preventivo o protettivo e questo in parte spiega il rifiuto e l’avversione del cliente a proseguire la terapia. Inoltre l’ERP, associata o meno a interventi cognitivi, si configura come un trattamento intensivo che richiede molto tempo, in media 27.4 ore di contatto diretto col terapeuta in aggiunta alle dozzine di ore previste per lo svolgimento dei compiti prescritti per il cliente (Abramowitz et al., 2009). Va in aggiunta considerato come vi sono altri fattori intervenienti che contribuiscono a complicare il quadro e a influenzare la prognosi del trattamento: la motivazione del cliente, la presenza di condizioni di comorbilità come disturbi d’ansia e disturbi depressivi (Ruscio, Stein, Chiu & Kessler, 2010), la marcata inflessibilità psicologica del cliente e il ruolo delle interpretazioni maladattive riguardanti l’importanza e il significato dello stimolo ossessivo (il bisogno percepito di controllare i pensieri, l’importanza data ai pensieri e la responsabilità personale dei pensieri) (Ong et al., 2020).

Nel corso degli ultimi anni si è sviluppato un crescente interesse nell’esaminare ulteriori opzioni di trattamento dei disturbi mentali e sono state introdotte diverse nuove tecniche psicologiche classificate sotto il termine ombrello “terapie di terza ondata”. Queste ultime, a differenza delle terapie cognitive tradizionali, abbandonano i tentativi di cambiare i contenuti, la forma e la frequenza dei pensieri indesiderati e delle emozioni, mentre si focalizzano sulle funzioni delle cognizioni e sulla consapevolezza e accettazione degli eventi mentali. L’Acceptance and Commitment therapy (ACT) ricade nel dominio della “terza ondata” e ha ottenuto una considerevole attenzione da parte dei professionisti della salute mentale per la gestione e il trattamento del DOC (Hayes, 2004).

L’ACT fu introdotta per la prima volta da S. Hayes e le tecniche terapeutiche che la caratterizzano sono guidate dal paradigma filosofico chiamato “functional contestualism”, il cui sviluppo origina da un programma di ricerche sul linguaggio e sulla cognizione chiamato “Relational Frame Theory” (RTF; Hayes, Strosahl & Wilson, 2011). Uno dei contributi della ricerca sull’RTF è quello di aver messo in risalto il modo in cui i processi cognitivi consentano di attribuire funzioni e significati anche a stimoli ambientali dei quali non si ha avuto esperienza diretta. Per cui, ad esempio, se una persona con un DOC da contaminazione esperisce “lo sporco” come pericoloso, tutto ciò che è simile allo “sporco” acquisirà la funzione di “pericoloso”, in modo tale da far sì che molti stimoli ambientali arbitrari acquisiscano la funzione di “spaventoso e pericoloso” con una conseguente attivazione dell’ansia, nonostante la persona non abbia mai avuto a che fare con essi (Dougher, Hamilton, Fink & Harrington, 2007; Twohig, 2009).

Nonostante una grande utilità offerta dalle abilità cognitive di questo tipo, come ad esempio la possibilità di risparmiare energia mentale e di prevedere gli eventi, è anche vero che queste possono diventare limitanti se divengono troppo prevalenti e rigide. Questo perché un individuo che si fa guidare soltanto dalle contingenze cognitive non riesce ad adattare il proprio comportamento a quelle ambientali, anche nel caso in cui queste ultime dovessero cambiare. Questo processo si può osservare nel DOC, nel quale le contingenze cognitive sono molto diverse da quelle del mondo reale. In tale disturbo l’individuo è così influenzato dalle credenze circa la pericolosità e il bisogno di controllo delle esperienze interne negative da mettere in atto un comportamento protettivo reiterato e disfunzionale, volto ad alterare la forma e la frequenza dei pensieri, al di là di qualunque possibile disconferma proveniente dall’ambiente (Twohig, 2009).

L’approccio dell’ACT è quello di mirare al contesto funzionale entro cui hanno luogo gli eventi mentali, senza considerare il loro contenuto, così da lasciare che i pensieri esistano nella stessa forma, ma intervenendo sull’effetto che questi hanno sul comportamento e di conseguenza sulla qualità di vita (Hayes, Villatte, Levin & Hildebrandt, 2011).

I teorici cognitivisti sostengono infatti come i pensieri con un contenuto ossessivo siano comuni tra le persone, ma coloro che soffrono di DOC hanno un modo diverso di porsi e di reagire a questi pensieri: questi ultimi vengono trattati in maniera letterale, come se fossero dei fatti e dei pericoli concreti e vengono utilizzati per fornire un motivo che muove eccessivamente all’azione. Tale processo è conosciuto come “fusione cognitiva” (Hayes, Srosahl & Wilson, 1999). Per questo motivo chi soffre di DOC ricorre al cosiddetto “evitamento esperienziale”, ovvero il fenomeno che si verifica quando una persona è riluttante a rimanere in contatto con le proprie esperienze interne negative (emozioni, pensieri, ricordi, sensazioni) e prende provvedimenti al fine di alterare tali eventi e il contesto che li genera (Hayes, Wilson, Gifford, Follette & Strosahl, 1996). Tale evitamento può essere sia passivo, ovvero un certo stimolo o situazione viene evitato del tutto, oppure attivo, ovvero il soggetto si impegna in comportamenti ritualistici per diminuire il distress (Hannan & Tolin, 2005). Nel protocollo ACT il paziente viene indirizzato alla comprensione di come ciò che fa la differenza non è l’avere o meno determinati pensieri, ma come ci si rapporta ad essi: la messa in atto di comportamenti protettivi e controllanti ha infatti l’effetto paradossale di esacerbare la frequenza, l’intensità e la salienza delle esperienza interiori percepite negativamente. L’ACT ha dunque lo scopo di favorire la defusione cognitiva e l’accettazione esperienziale, al fine di aiutare il paziente a creare un nuovo modo di relazionarsi e di rispondere ai pensieri ossessivi e alle emozioni di ansia, semplicemente accettandoli per quello che sono, ovvero pensieri ed emozioni (Twohig, Hayes, & Masuda, 2006).

L’ACT aspira a incrementare la flessibilità psicologica del paziente, ovvero la capacità di stare in contatto col momento presente, consapevole delle proprie esperienze psicologiche così come si presentano, allo scopo di impegnarsi nelle azioni che permettono alla persona di raggiungere obiettivi importanti e significativi (Hayes, Luoma,Bond, Masuda & Lillis, 2006). I pazienti sono dunque incoraggiati a battersi per vivere la vita che desiderano, nonostante la presenza delle ossessioni, le quali vengono riformulate come “semplici pensieri che vanno e vengono” (Philip, & Cherian, 2020).

Il modello dell’ACT prevede sei processi attraverso i quali il paziente viene sollecitato al cambiamento: Accettazione, Defusione, Sé come contesto, Consapevolezza del momento presente, Valori e Azioni impegnate.

Adesso andremo a vedere, più nello specifico, i sei pilastri dell’ACT, cercando di fornire esempi pratici.

Twohig (2009) presenta il caso di Caroline, donna con un disturbo ossessivo-compulsivo; sperimenta ossessioni e autocritiche e si impegna in compulsioni, come evitare le persone, fare pugni o cerchi con le braccia o con le dita o mordersi la lingua come strategia di controllo e pensa o dice determinate cose per tenere al sicuro le persone.

Nell’ottica ACT, un buon risultato clinico sarebbe quello in cui Caroline è in grado di sperimentare le sue ossessioni e la sua ansia solo come pensieri e sentimenti; non dovrebbe impegnarsi in attività che vanno ad alterarne il contenuto.

Partiamo, quindi, dal primo pilastro: l’accettazione implica che le esperienze interiori si verifichino senza regolarle o controllarle, allo stesso modo di quando ci troviamo ad accogliere in casa un ospite indesiderato (Dèttore, Giaquinta, & Pozza, 2019): potrebbe non piacerci davvero, ma possiamo trovare un modo per convivere con lui senza che ci sia una guerra costante. Il target dell’accettazione è l’evitamento. Caroline si impegna in una notevole quantità di evitamento, cognitivo e comportamentale: si sforza di non sperimentare le sue ossessioni e di calmarsi dopo averle pensate ed evita situazioni che potrebbero innescarle. Dato che solitamente le compulsioni sono inefficaci sul lungo termine a diminuire le ossessioni, e visto che è probabile che più il paziente cerca di lottare contro le ossessioni e più queste diventano frequenti e intense, il terapeuta potrebbe indagare questo aspetto e chiedere in che modo la paziente cerca di regolare i suoi pensieri e come questa regolazione influisce sulla qualità della sua vita. Una volta che Caroline si rende conto che non può controllare le sue ossessioni e che i tentativi di farlo sono un problema, il terapeuta propone, come obiettivo del trattamento, i tentativi di controllo, in questo modo:

Terapeuta: ti faccio un esempio di quello che sta accadendo. Stai giocando a basket contro le tue ossessioni per la maggior parte del tempo. C’è qualcosa, però, di ingiusto nel gioco: tu stai giocando contro una squadra di professionisti e ovviamente la tua squadra non va bene, i punti sono sbilanciati, non vincerai mai. Vuoi continuare a giocare perché sembra che se vinci questa partita, le ossessioni si fermeranno e così potrai andare avanti a fare tutte le cose che per te sono importanti.

Caroline: come devo fare per batterle quindi? Ho provato molte cose per controllare le mie ossessioni, come rassicurarmi, evitare situazioni, acquistare libri, andare su internet e anche lavorare con una precedente terapia, ma sono sempre lì e stanno peggiorando. 

Terapeuta: c’è un altro gioco a cui la maggior parte delle persone non fa attenzione, simile al primo gioco, ma diverso. Questo gioco, innanzitutto, è giusto: la tua squadra gioca contro un’altra squadra brava quanto te. Un’altra cosa importante è che invece di giocare per il controllo delle tue ossessioni, giochi per la qualità della vita. E se il nostro lavoro insieme non fosse aiutarti a vincere la partita, ma aiutarti a smettere di giocare? (Twoigh, 2009, p. 22).

Ci sono molti modi per aumentare l’accettazione delle ossessioni: uno è lasciare che il paziente interagisca con il pensiero difficile (per esempio: sono una persona terribile). Il terapeuta può chiedere di scrivere il pensiero su un pezzo di carta, lo tiene e dice alla paziente di non lasciare che il pensiero la tocchi. Caroline tenderà le mani per impedire al foglio di toccarla; i due spingeranno avanti e indietro l’”ossessione”. Successivamente il terapeuta getta il foglio nel grembo di Caroline e le chiederà di lasciarlo lì. A questo punto il pensiero sta toccando la paziente in entrambe le situazioni. Quale delle due richiede più impegno e attenzione? (Twoigh, 2009, pp. 22-23). A questo diventa più chiaro il contrasto tra lottare e accettare quel determinato pensiero.

La defusione, invece, serve per rapportarsi ai pensieri in modo nuovo, in modo che abbiano un impatto e un’influenza minore, siano meno importanti e vengano presi meno “alla lettera”. Essere fusi cognitivamente, infatti, significa vivere in maniera dicotomica, in cui i pensieri vengono vissuti come “giusti/sbagliati” o “buoni/cattivi”.

Caroline è fusa cognitivamente, ha poca consapevolezza delle sue ossessioni come pensieri privi di significato verbale, sperimenta le sue ossessioni come eventi letterali, concreti, è spaventata sia dal pensiero che dagli effetti di questo. Per diminuire la fusione cognitiva, si dovrebbe creare una relazione terapeutica in cui le ossessioni vengano trattate per quello che sono, ovvero pensieri ed emozioni, non cose reali. Il terapeuta tratta le ossessioni e compulsioni come degli eventi separati, che si legano solo nella mente della paziente.

C: mi sento come se causassi miseria e morte ovunque vada. Pensi che io stia causando danni a chi mi sta intorno?

T: guarda come la tua mente va via di nuovo. Ringrazia la tua mente per quel pensiero (Twoigh, 2009, p. 23).

Esistono molti esercizi che supportano la defusione cognitiva: Caroline può essere aiutata a trattare i pensieri come una serie di cose diverse. Facciamo riferimento alla metafora dell’autobus (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999): il terapeuta aiuta la paziente a vedere se stessa come l’autista di un autobus che sta andando verso i suoi valori. Nell’autobus ci sono passeggeri che urlano e le dicono dove andare (ovvero le ossessioni); eppure l’autista fa quello di lavoro, sa dove deve andare. Oppure, l’esercizio dei pensieri letti a rallentatore o accelerati, dove la paziente sceglie il pensiero su cui lavorare. Lo scrive su un pezzo di carta e lo rilegge molto lentamente in modo prima ripetuto poi in modo veloce per tre minuti (nel mentre viene registrato). Dopodiché riascolta i due audio per vedere come reagisce la nostra mente (Dèttore, Giaquinta, & Pozza, 2019). Un ulteriore esercizio di consapevolezza è guardare le proprie ossessioni passare: alla paziente verrà chiesto di chiudere gli occhi e prestare attenzione alle sue esperienze interiori senza afferrare o respingere nessuna di esse. Guardare i pensieri e le sensazioni andare e venire come se qualcuno guardasse gli attori entrare e uscire da un palcoscenico, allo stesso modo di immaginarsi seduta sulla riva di un ruscello mentre appoggia sulle foglie depositate sull’acqua i propri pensieri, emozioni o sensazioni fisiche del momento e rimanere a osservarli scorrere, sempre per imparare a “lasciar andare” i pensieri (esercizio foglie sul ruscello; Dèttore, Giaquinta, & Pozza, 2019).

Il sé come contesto implica l’esistenza di una parte del sé che non cambia ed è sempre presente. Una parte del sé che va oltre i pensieri, le emozioni e le esperienze passate. Senza il sé come contesto, Caroline sperimenterà due processi problematici: risponderà alle sue ossessioni come se fosse definita da esse e cercherà di controllarle. La paziente potrebbe agire in modo coerente con il pensiero “sono una persona orribile”, evitando le persone per non danneggiarle o non cercando mai attività significative. Se Caroline sperimenta le sue ossessioni solo come pensieri, allora è in grado di non comportarsi in modo coerente con le stesse. Il terapeuta lavora per rafforzare la presenza del sé come contesto e per modellarlo come abilità, cercando di aiutare Caroline a vedere una separazione tra se stessa e le sue ossessioni. Per farlo, il terapeuta potrebbe rispondere al pensiero di Caroline (sono una persona orribile) dicendo: sei tu o hai il pensiero di essere una persona orribile?

Ci sono altri esercizi che possono essere fatti in questa fase, come l’esercizio della scacchiera (Hayes et al., 1999): il terapeuta aiuta la paziente a cercare di vedere se stessa come una scacchiera, con le ossessioni e le compulsioni come due squadre che giocano l’una contro l’altra sul tabellone, il quale non si preoccupa di quello che fanno le squadre, semplicemente tiene i pezzi. Il tabellone, infatti, non è influenzato dalle azioni dei pezzi o da chi vince la partita. L’esercizio serve per vedere le ossessioni come eventi che accadono dentro di sé piuttosto che come eventi che definiscono la persona. Se Caroline riuscisse a percepire una separazione tra le sue esperienze interiori e se stessa, allora riuscirebbe a non agire in base alle sue ossessioni. Esercizi di questo tipo mettono la persona in maggiore contatto con le contingenze del mondo reale.

Per contatto con il momento presente si intende connettersi completamente con ciò che si sta facendo e vivendo, nel qui ed ora, senza lasciare spazio alla valutazione o al giudizio. In questo modo, Caroline riuscirebbe a descrivere ciò che le accade come: “sto provando queste sensazioni corporee… sto pensando questo…” Ciò è utile, inoltre, per fare defusione cognitiva, in quanto la paziente riuscirebbe a vivere il mondo così com’è invece che plasmato dalle proprie cognizioni. Il contatto con il momento presente ha delle somiglianze con altre pratiche di consapevolezza, come la Mindfulness. Nel caso di Caroline, lei non risulta presente nel qui ed ora, in quanto è preoccupata per le sue ossessioni, teme il suo pensiero e si sforza per evitare di controllarlo. In casi come questo, è consigliato il focus sull’attenzione al momento presente rispetto alle proprie esperienze interiori. Più la persona è a contatto con le proprie esperienze interiori, più efficace è l’esposizione e più efficace è la terapia (Abramowitz, 1996). Ecco un esempio di esercizio di consapevolezza: il terapeuta invita la paziente a chiudere gli occhi e la istruisce a prestare attenzione a diversi elementi della sua esperienza attuale, come le sensazioni corporee (ad esempio il respiro), i diversi suoni della stanza, i pensieri o le emozioni. Viene chiesto alla paziente di osservare questi eventi come se si stessero svolgendo di fronte a lei, come delle immagini su uno schermo. Viene chiesto di fare caso alla differenza tra notare i suoi pensieri come un processo in corso, oppure esserne consumata e trascinata da essi. Spesso i pazienti possono trovare questo tipo di esercizi rilassanti. Un esempio di un altro esercizio è quello che prevede che la paziente cammini fuori dalla stanza mentre dice ad alta voce tutti i suoi pensieri, qualunque cosa le passi per la testa, spostando, quindi, all’esterno quello che è il suo dialogo interiore: è una bella giornata; dovrei fare qualcosa riguardo alle mie ossessioni, e così via; questi pensieri non vengono né contestati né verificati, semplicemente vengono vissuti come qualsiasi altro evento.

I valori sono il riflesso di ciò che è importante per la persona: che tipo di persona vuoi essere, che cosa ha valore e significato per te e per che cosa vuoi impegnarti in questa vita. I valori servono per tracciare la direzione della propria esistenza e motivano il soggetto a realizzare cambiamenti importanti. Caroline presenta valori sociali molti forti: ha a cuore i suoi amici e la famiglia e teme che il contatto con questi possa causare loro danni o addirittura la morte. Di fatto le sue ossessioni, prese alla lettera, le consentono di “fare la cosa giusta”, stando lontana da loro e proteggendoli. Nel momento in cui Caroline percepisce che lei non è un tutt’uno con i suoi pensieri, sarà in grado anche di capire che, nel tentativo di proteggere le persone a lei care, in realtà le perde.

Per indagare i valori del soggetto, si può chiedere semplicemente alla paziente qual è lo scopo del suo comportamento oppure come vorrebbe che fosse la sua vita.Questo tipo di discussione è utile per far sì che la paziente prenda consapevolezza rispetto al fatto che è possibile rendere meno importanti le ossessioni, cercando di indirizzare la propria vita verso il perseguimento di attività più in linea con i propri valori. In questo caso, l’esercizio di esposizione non ha come focus la riduzione dell’ansia o il controllo dell’ossessioni, bensì l’avvicinarsi ai suoi amici e alla famiglia.

Non si discute il contenuto delle ossessioni che Caroline porta in seduta, ma i costi che le servono per seguire queste ossessioni. Per discutere il ruolo che i valori hanno nel guidare il proprio comportamento è possibile dedicare intere sedute, le quali, solitamente, vengono effettuate dopo il lavoro sull’accettazione e sul contatto con il momento presente. Una volta che la paziente ha valutato quanto per lei siano importanti le varie aree che porta in seduta (ad esempio: amici, famiglia, occupazione), andrà a valutare quanto siano coerenti le sue azioni con i suoi valori. Infine, viene incoraggiata a discutere su ciò che le impedisce di seguire i suoi valori. Riuscirà a prendere consapevolezza del grande costo, anche in termini di energia, che usa per controllare e regolare le sue ossessioni a discapito di attività che per lei sono significative. Nell’ottica ACT, sono i valori a guidare le proprie azioni e non l’esperienza interiore.

L’ACT incoraggia a basare le azioni sui propri valori, ma non tramite un’azione qualsiasi. Ci vuole un’azione impegnata.

Caroline ha uno stile di vita piuttosto attivo; sebbene eviti alcuni contatti sociali, trascorre del tempo all’aria aperta. Si concentra in queste attività, però, a un livello e ad una qualità molto ridotti. Dopo che gli altri pilastri sono stati trattati, il terapeuta, insieme a Caroline, potrebbe lavorare per creare degli esercizi di impegno comportamentale settimanali che sono vicini ai valori della paziente. Ad esempio, Caroline potrebbe scegliere di parlare con un amico con cui non parla da un po’ di tempo, avendo una conversazione significativa senza lasciarsi andare in compulsioni, oppure potrebbe scegliere di non proteggere mentalmente le persone a lei care per una sola ora al giorno, in modo da praticare l’accettazione e la defusione.

Gli esercizi di impegno, nell’ottica ACT, sono eseguiti tenendo conto dei valori scelti dal paziente ed è il paziente stesso a scegliere l’esercizio, non il terapeuta. Gli esercizi vengono strutturati in base al tempo o all’attività e non in base alla gravità delle ossessioni; il paziente viene istruito a praticare gli altri processi ACT mentre è impegnato nell’esercizio scelto.

Nel caso del DOC, il focus è quello di aumentare l’accettazione delle ossessioni e notarle per ciò che sono. Nella maggior parte dei casi, ciò si traduce in una riduzione del comportamento compulsivo, in quanto questo comportamento solitamente interferisce con i propri valori.

Il cambiamento di Caroline sarà lento, così come per qualsiasi altra modalità di trattamento, visto l’alto coinvolgimento nelle sue ossessioni. Ovviamente il terapeuta lavorerà con lei, soprattutto per essere presente nei momenti di paura e incertezza. Una volta che Caroline inizia a lavorare all’interno di un sistema non basato sul controllo emotivo, il cambiamento avverrà entro tempi brevi. Questo nuovo sistema risulterà per lei rinforzante, in quanto sarà in grado di fare cose che sono importanti per lei senza dover prendere il controllo delle sue ossessioni.

Infine, per quanto riguarda le evidenze preliminari per l’utilizzo dell’ACT nel DOC, queste sono derivate in primo luogo da studi su casi singoli o su un numero ristretto di partecipanti. Tali studi hanno permesso di evidenziare come l’ACT sia stata efficace nel ridurre alcuni sintomi del DOC, tra cui i pensieri inerenti all’arrecare danno agli altri, l’aver commesso un peccato, i rituali di lavaggio (Vakili & Gharraee, 2014), i rituali religiosi, i pensieri blasfemi (Lee, Ong, An & Twohig, 2018; Dehlin, Morrison & Twohig, 2013), le ruminazioni ossessive in presenza di un deficit intellettivo ( Brown & Hooper, 2009), le compulsioni di controllo, di accumulo e di pulizia (Twohig, Hayes & Masuda, 2006a) e le ossessioni riguardanti la propria salute e quella altrui (Izadi, Asgari, Neshatdust & Abedi, 2012). Vi sono anche evidenze che supportano l’uso dell’ACT per i disturbi correlati al DOC, come per la tricotillomania (Twohig & Woods, 2004), il disturbo da escoriazione (Twohig, Hayes & Masuda, 2006b) e l’uso compulsivo della pornografia (Twohig & Crosby, 2010). Nonostante le ovvie limitazioni, dovute alla ridotta numerosità dei campioni, questi studi hanno aperto la strada agli studi randomizzati e controllati (RCT), i quali hanno messo in risalto la maggiore efficacia dell’ACT nel trattamento del DOC quando comparata al training di rilassamento muscolare progressivo (Twohig et al., 2010), all’utilizzo della sola terapia farmacologica basata sugli antidepressivi (Baghooli,Dolatshahi, Mohammadkhani, Moshtagh & Naziri, 2014; Vakili, Gharaee & Habibi, 2015; Rohani et al., 2018) e alla terapia narrativa di gruppo e a quella della prospettiva temporale di gruppo (Esfahani,Kjbaf & Abedi, 2015).

Purtroppo vi sono ancora pochi studi che pongono a confronto l’efficacia dell’ACT con quella dell’ERP nel trattamento del DOC. Tra questi, uno ha mostrato come l’utilizzo dell’ACT non abbia incrementato gli esiti primari del trattamento quando aggiunta al classico intervento di ERP. D’altronde va considerato come l’azione combinata di questi due trattamenti per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo può migliorare l’accettabilità della terapia, l’impegno nei compiti di esposizione (l’ACT favorisce la disponibilità a esperire i pensieri ossessivi) e riduce i tassi di drop-out o di rifiuto dell’ERP, non solo senza attenuarne gli esiti ma probabilmente rafforzandoli (Twohig et al., 2018).

 

Adolescenti oggi, fra vecchi e nuovi traguardi

L’incontro dei traguardi tipici dell’adolescenza e dei nuovi scenari apre una strada che può favorire sentimenti di ansia e di inadeguatezza ma anche di riconoscimento e possibilità di affermarsi.

 

L’amore, la malattia, alcuni incontri, un disturbo psicologico, una nuova passione, un percorso psicoterapeutico, la nascita di un figlio, sono eventi che possiamo considerare come potenziali portatori di cambiamento. L’adolescenza invece, di per sé, per le sue caratteristiche essenziali, costituisce un periodo della vita in cui si assiste ad un cambiamento significativo. Spinti dal desiderio di sentirsi visti, apprezzati e riconosciuti, stretti fra la ricerca di un partner e la comprensione di sé, fra cambiamenti fisici e psicologici, fra un allentamento nel rapporto con le figure parentali e la ricerca di autonomia, gli adolescenti si muovono nella relazione con i pari grazie a dimensioni di unicità e appartenenza, somiglianza e differenza, competizione e cooperazione.

Con le parole di Lancini (2020), ”I compiti evolutivi adolescenziali sono: il processo di separazione-individuazione, la mentalizzazione del sé corporeo, la nascita sociale e la definizione e la formazione di valori” (p.18). Compiti e obiettivi che si definiscono all’interno di ogni fase storica, di ogni area geografica. È anche vero che la giovinezza attraversa fasi storiche diverse e luoghi fisici differenti, configurandosi come un processo unico, un intreccio di variabili diverse, funzione di miti affettivi e culturali del tempo. Ogni adolescente inoltre, è adolescente a modo suo, per caratteristiche genetiche, relazioni familiari, incontri attuali e pregressi, sport, hobby, passioni, esperienza scolastica e per la lente attraverso la quale guarda il mondo. L’incontro dei traguardi tipici di questa fase dello sviluppo e i nuovi scenari apre una strada che può favorire sentimenti di ansia e di inadeguatezza ma anche di riconoscimento e possibilità di affermarsi. Fra le tematiche specifiche che caratterizzano l’adolescenza di oggi, quelle dal mio punto di vista più significative sono l’essere “onlife”, lo stile educativo genitoriale, l’impatto della pandemia, il concetto di benessere e infine le profonde differenze sociali e culturali anche all’interno dello stesso territorio.

Essere “onlife”

Il termine “onlife” è stato coniato da Luciano Floridi (2015) e fa riferimento al fatto che le persone sono contemporaneamente immerse nella realtà materiale e in quella digitale. È il tratto duplice dell’esperienza: connessi e non connessi. Quale ricaduta per gli adolescenti? In uno spazio di vita in cui si intensificano e cambiano forma le relazioni con i coetanei, in cui alla luce del processo di separazione-individuazione, i rapporti con i genitori si trasformano rispetto all’infanzia, la realtà digitale favorisce la possibilità di incrementare la vicinanza e le relazioni con i pari ma anche di rendere potenzialmente onnipresenti le figure genitoriali. L’esperienza della “solitudine” che ha caratterizzato le epoche precedenti, resa nota dai famosi flussi di coscienza tratteggiati anche dalla letteratura, si modifica, se WhatsApp e Instagram rendono i ragazzi reperibili dagli amici e dai genitori in qualsiasi ora del giorno. La realtà virtuale ha la capacità di potenziare le possibilità comunicative attraverso le parole e le immagini. Se gli adulti preferiscono l’uso della parola tipico di alcuni social network (Twitter, Facebook), gli adolescenti hanno maggiore familiarità con TikTok e Instagram, luoghi in cui l’immagine racconta, evoca, avvolge, suggerisce. Lontano da obiettivi di demonizzazione ci si chiede: quali effetti? Quali opportunità? Il corpo che in adolescenza muta e diventa oggetto della propria osservazione è anche mezzo per comunicare, ancora di più di quanto non lo fosse in epoche precedenti. Pensieri, emozioni, immagini e parole risultano così intrecciate in una realtà nuova, che rende i ragazzi di oggi per certi aspetti molto diversi da quelli di qualche generazione fa. Essere “onlife” ha anche una funzione protettiva nei confronti dell’adolescenza. Permette ad adolescenti che vivono in realtà in cui la minore età è meno tutelata di aspirare e di tentare un viaggio, un trasferimento, permette ai genitori di accedere rapidamente ai consigli di esperti che suggeriscono quali strategie, comportamenti e attenzioni rivolgere ai figli, favorisce la fruizione di strategie di difesa condivise, organizzate e approvate socialmente per affrontare fenomeni quali la tutela dei diritti, il bullismo, il cyberbullismo.

Stile educativo genitoriale

In qualità di psicoterapeuti ed educatori, non possiamo che rallegrarci davanti ad un cambiamento dello stile educativo che almeno nelle società occidentali sembra sempre più incentrato sulla comprensione, sull’accettazione e sulla difesa dei diritti piuttosto che sull’impartizione di regole e punizioni. L’evoluzione della civiltà, la diffusione delle attuali teorie pedagogiche e l’avvento di internet hanno fatto sì che lo stile educativo “autoritario” lasciasse il passo ad uno stile educativo “autorevole” permeato da dimensioni che hanno a che vedere con l’empatia, la comprensione di sé e dell’altro, il senso di responsabilità, l’importanza della condivisione ludica. Schiere di genitori, figli di una società autoritaria e convenzionale hanno compreso i limiti dell’educazione ricevuta e hanno lasciato spazio ad un passaggio che si muove dalla rigidità alla diversità, dall’impulsività agli spazi di riflessione. Genitori dogmatici, poco aperti all’ascolto e alla comprensione sono visti nella società attuale non come la regola da seguire, ma come l’eccezione problematica.

L’impatto della pandemia

Se l’intera popolazione dovrà fare i conti con una pandemia da superare, con una ripresa che segue la fase di emergenza, così come è stato in altri momenti, in altre epoche storiche, gli adolescenti avranno a disposizione forse maggiori capacità creative, minore esperienza, maggiore flessibilità. Avranno a disposizione una vita da costruire, avendo alle spalle un evento che li ha messi a dura prova, non tanto per una questione legata alla minaccia della loro incolumità o a quella dei genitori, ma per la paura di perdere i nonni, per l’irrigidirsi delle regole, per la restrizione della privacy, per l’intensificarsi della noia. Noia, privacy, rigidità delle regole sono tematiche significative per i giovani in generale, in primis per gli adolescenti. Ancorati alle relazioni amicali e all’esperienza digitale, sostenuti dalla capacità di adattamento, sono passati più volte dall’attività scolastica in presenza a quella a distanza e hanno cercato di guardare alla pandemia come a un passaggio, facilitati probabilmente dal fatto che ad un basso livello di consapevolezza loro stessi vivono l’incarnazione di un passaggio. Rabbia, impotenza, frustrazione ma anche gioia, entusiasmo, speranza, trasgressione o attinenza alla regola, sono state vissute da ciascuno di loro sulla base delle proprie caratteristiche personali e in funzione di come il contesto familiare si è andato modificando. L’elemento casuale dato dal fatto che alcuni genitori siano rimasti a casa o abbiano continuato a lavorare fuori, ha reso l’esperienza della pandemia variegata e molteplice. Che ne è dei loro stati d’animo e delle loro riflessioni? Come saranno integrati nella continuità dell’esperienza?

Il concetto di benessere

Scrive Lancini (2020) “Negli ultimi anni è stata posta un’enfasi particolare circa la necessità che i bambini incontrino ed esprimano quasi univocamente stati d’animo positivi (…). Nei cartoni animati, per esempio, sono scomparsi i temi depressivi che hanno tenuto compagnia alle generazioni precedenti. (…). Universi costellati di buonumore, allegria, risate, abitati da personaggi dotati di superpoteri, coetanei con cui intraprendere nuove sfide, adulti sempre disponibili, presenti e comprensivi” (p.43). Come se una società permeata dal trionfo del pensiero positivo, incoraggiasse nei giovani e nelle loro famiglie solo la ricerca di talenti, emozioni legate alla speranza, al coraggio, alla forza e all’autoaffermazione, ostacolando il riconoscimento di stati d’animo legati alla paura e alle difficoltà.

La possibilità di comunicare stati di disagio è veicolata dalla musica, dal lato più implicito della conversazione, dal corpo che diventa simbolo in alcuni disturbi, dall’immagine scelta per il proprio profilo virtuale. Una società in cui da qualche decennio vige la precarietà del mondo del lavoro e l’ostentazione del successo, la ricerca delle proprie possibilità di successo rischia di non lasciare spazio alla comprensione dell’ansia, al dubbio, all’indecisione, all’ascolto di sé, diventando così un percorso forzato dalla volontà e dalla determinazione, all’insegna dell’ottimismo. Il concetto di benessere è collegato anche al tema della scelta. Si ha sempre più la possibilità di scegliere amici al di fuori del gruppo obbligato della classe, gruppi spontanei che assumono un ruolo ricreativo, formativo, all’insegna della condivisione sportiva. Anche gli indirizzi scolastici sono più numerosi e diversificati così come la quantità di corsi da seguire il pomeriggio. Si è finalmente data l’opportunità soprattutto in alcuni contesti culturali, di esprimere la propria identità di genere, così come le proprie preferenze e i propri desideri sessuali. Più che in altri periodi storici, l’adolescenza sembra in questo momento, un mare aperto da navigare muniti di una buona bussola.

Differenze sociali e culturali

Di pari passo con il livello di innalzamento del grado di civiltà di una società, si modifica l’esperienza dell’infanzia e dell’adolescenza. Dal Friday For Future agli episodi di razzismo, la cronaca ci racconta però di una società in cui le differenze sono ancora troppo elevate. Ogni famiglia si caratterizza per tratti peculiari: comprensione di sé e dell’altro, uso di Internet, stile educativo, importanza attribuita alle emozioni, riconoscimento e rispetto delle differenze, livelli di impulsività e capacità riflessive, vitalità, fiducia, possibilità di affermazione, significato attribuito alle relazioni e alla possibilità di amare e di essere amati. Infine, la stessa possibilità per un giovane di rivolgersi ad uno psicoterapeuta cambia in funzione di quanto questa opportunità possa essere accolta, compresa o suggerita dai genitori.

 

Il coraggio delle emozioni (ai tempi del coronavirus) (2020) di G. Ciuffardi, T. Perissi – Recensione

La lettura del libro Il coraggio delle emozioni (ai tempi del coronavirus) equivale un po’ ad addentrarsi in una piccola fiaba: gli autori introducono ogni capitolo del testo con un aforisma della celebre storia del Mago di Oz.

 

Gli autori vogliono mettere in risalto il ruolo del cuore e delle emozioni, che a loro avviso hanno un notevole impatto sul cervello e sulla ragione.

Lo scopo del libro è alquanto singolare: depatologizzare la prospettiva con cui si guarda alle emozioni negative, restituendo loro la dignità persa per via del tentativo di medicalizzare qualsiasi cosa ritenuta in qualche modo fastidiosa o addirittura patologica.

Uno scopo in qualche modo quasi romantico, fiabesco, perché le emozioni, secondo gli autori, coinvolgono non solo il cervello, ma soprattutto il cuore, e quindi non vanno sempre controllate, ma bensì vissute, perché in ciò c’è del potenziale.

Non tutte le emozioni avverse sono infatti traducibili in disturbi patologici, tutt’altro hanno spesso una valenza positiva e adattiva.

Peccato però che l’individuo non sempre riconosce il potere positivo delle proprie emozioni sgradevoli quali la rabbia, la paura o la tristezza, anzi, soprattutto in un periodo come quello dall’emergenza da Covid19, la persona ne ha visto solo gli aspetti avversi, cercando di conseguenza un rimedio al negativo stato d’animo derivato.

Gli autori del libro parlano invece di “atteggiamento negativo verso alcuni tipi di emozioni”. Questo perché a loro avviso è proprio l’atteggiamento di chi esperisce l’emozione a determinare una reazione, trascurando quelli che potrebbero essere gli effetti positivi.

Con il trascorrere degli anni sono sorte nuove metodologie “curative” nei confronti delle emozioni definite negative: oltre alle tecniche psicofarmacologiche o psicoterapiche sono venute alla luce anche delle filosofie religiose o manuali di auto-aiuto, che hanno fatto sì che la persona potesse giungere ad un rimedio in totale autonomia.

Ma bisognerebbe capovolgere la visione dei fatti ed entrare nell’ottica che non vi è un miglioramento a cui giungere; le emozioni e il modo di viverle vanno a determinare il carattere individuale e le potenzialità della persona.

In un periodo come quello attuale, caratterizzato dalla pandemia da Coronavirus, non sempre è possibile porre un rimedio, e la persona deve divenire capace di fronteggiare la situazione riconoscendo quello che è il potere o il “coraggio” delle proprie emozioni.

Come il fenomeno della farfalla, il cui battito di ali sarebbe capace di scatenare un uragano dall’altro lato del mondo, nel testo gli autori parlano di “effetto pipistrello”, quel pipistrello che è stato in grado di determinare un contagio in ogni angolo del pianeta.

Secondo questa visione il fenomeno da Coronavirus ha una valenza enorme, che sembrerebbe impossibile da fronteggiare solo grazie al nostro personale modo di reagire alle emozioni.

Eppure bisognerebbe abituarsi a percepire le situazioni inaspettate come queste in ottica di imprevisti. Tutti gli imprevisti sono in qualche modo dei cambiamenti, ed essi hanno la funzione di fare uscire la mente da uno stato di stasi, o come definiscono gli autori “di autoipnosi”.

La troppa abitudine o quotidianità fanno sì che la persona giunga a compiere degli errori di ragionamento. Si genererebbe un cosiddetto circolo vizioso la cui via di uscita potrebbe essere rappresentata dal vivere appieno le emozioni negative, le quali ci allontanerebbero dalle certezze che condizionano il nostro agire quotidiano.

Gli autori del libro affiancano alla propria tesi una serie di testimonianze scientifiche che vanno a validare ciò da loro esposto.

E non solo: non mancano riferimenti mitologici come a Narciso, personaggio simbolo della personalità narcisista, e a Dante Alighieri e alla sua Divina Commedia, la cui punizione da scontare in uno dei gironi dell’inferno equivale un po’ all’attuale lockdown.

Le emozioni esperite di rabbia e paura nel corso di questa pandemia sono state senz’altro funzionali, perché hanno fatto in modo che potessimo reagire.

Perché cambiamento è sempre adattamento, e le emozioni negative, se ben canalizzate, hanno sempre una funzione adattiva.

Questo perché vivere ed esperire appieno anche le emozioni meno piacevoli è da coraggiosi, ma in fondo in una situazione di emergenza come quella attuale, tutti noi abbiamo mostrato un gran coraggio ad andare avanti.

Un libro da leggere in quanto genera ottimismo, focalizzandosi solo su quelli che sono gli aspetti positivi delle emozioni sgradevoli, soprattutto nell’ottica di una situazione pandemica, nella quale la persona potrebbe trascurare i benefici offerti dalla propria emotività.

 

cancel