expand_lessAPRI WIDGET

Cybercondria: alcuni fattori di rischio nella tendenza ad autodiagnosticarsi malattie su web

La letteratura associa la cybercondria a variabili disposizionali e personologiche, in particolare ad altri tratti di nevroticismo.

 

Il 7% delle ricerche giornaliere su internet riguarda la richiesta di informazioni o di supporto di aspetti inerenti la propria salute. Sono un 1 miliardo le domande poste ogni giorno per informarsi sulle potenziali minacce, autodiagnosticarsi patologie o rassicurarsi sul proprio stato fisico (Murphy, 2019).

Sebbene questo fenomeno costituisca la normalità, un’esacerbazione di tali comportamenti potrebbe sfociare nella cybercondria, uno schema di condotte anomalo, costituito da ricerche ripetute ed eccessive di informazioni su internet inerenti la salute (Starcevic et al., 2019), che provoca ansia e cognizioni che riflettono tale atteggiamento problematico.

La cybercondria è stata definita come un uso problematico di internet correlato alla salute (Fergus & Spada, 2017), che può essere concomitante alla depressione (Barke et al., 2016), all’ansia per la salute (McMullan et al., 2019) e sintomi ossessivo-compulsivi (Fergus & Russell, 2016), poiché esacerba la componente di angoscia, interrompe la vita quotidiana, alimentando la ricerca di rassicurazioni (Fergus, 2014).

La letteratura associa la cybercondria a variabili disposizionali e personologiche, in particolare ad altri tratti di nevroticismo, che correla ad un uso problematico di internet (Kayiş et al., 2016; Koronczai et al., 2019) e ricerca di informazioni online sulla salute (Bogg & Vo, 2014).

Poiché il nevroticismo riflette la tendenza a provare emozioni negative, cognizioni e comportamenti disadattivi (Mccrae & Costa, 1994), indagini prospettiche lo hanno individuato come fattore di vulnerabilità generale per la maggior parte delle psicopatologie dell’età evolutiva (De Bolle et al., 2012) adolescenziale (Goodwin et al., 2003) e adulta (Hampson et al., 2006).

Inoltre, avendo un’elevata stabilità temporale, si associa prospetticamente a depressione, ansia, disturbi dell’umore (Jeronimus et al., 2016), ansia per la salute (Noyes et al., 2005) e sintomi ossessivo-compulsivi (Bergin et al., 2014).

Secondo la letteratura, individui con maggiori livelli di nevroticismo reagiscono allo stress in modo emotivamente saliente. Riportando un’elevata sensibilità alla minaccia, attuano comportamenti disadattivi come disregolazione comportamentale, impulsività e ricerca di sensazioni estreme (Allen & Deyoung, 2015).

Un fattore indagato in associazione al nevroticismo è l’incapacità disposizionale di sopportare una risposta avversiva innescata da una percepita assenza di informazioni salienti, ovvero l’intolleranza all’incertezza (Carleton, 2016).

L’incertezza, oltre ad innescare emozioni negative tra coloro con alto nevroticismo, ha un ruolo rilevante nel mantenimento di disturbi dell’umore e d’ansia (McEvoy & Mahoney, 2012) ed è stata individuata in associazione alla cybercondria (Fergus, 2015).

Tra coloro con elevata intolleranza all’incertezza, la possibilità incorrere in conseguenze negative a livello di salute, può provocare risposte comportamentali e cognitive disadattive (come interpretazione negativa della situazione) ma soprattutto ricerca frequente di informazioni mediche online che, anziché dare sicurezza, amplificano la preoccupazione e l’ansia (Starcevic et al., 2019).

Un ulteriore costrutto implicato nella cybercondria è il pessimismo difensivo; una strategia mentale impiegata per fronteggiare situazioni estranee incerte o minacciose, che costituiscono un rischio di fallimento (Norem, 2008).

Tale attenzione mentale negativa non è debilitante ma promuove un pensiero rivolto alla prevenzione di un disastro immaginario (Norem & Cantor, 1986a), consentendo l’elaborazione cognitiva dell’ansia e dell’incertezza inerente la salute. Costruire mentalmente uno scenario di salute, potrebbe aiutare a trasformare il problema in azione, e di conseguenza agire per prevenirlo (Norem, 2008).

Questa strategia, anziché consentire una buona gestione dell’ansia, la intensifica. Infatti, nel prepararsi a fronteggiare lo scenario peggiore, come un’ipotetica malattia, si ricercano assiduamente informazioni su internet per rassicurarsi sul proprio stato di salute, soffermandosi sugli aspetti negativi e riflettendo su tutto ciò che potrebbe andare storto (Norem & Chang, 2002).

Al fine di ampliare la letteratura nell’ambito, l’indagine di Bajcar & Babiak (2020), ha studiato il ruolo del nevroticismo nella cybercondria in un campione di 386 studenti, esaminando in questa relazione l’effetto di mediazione dell’intolleranza all’incertezza e del pessimismo difensivo.

Coerentemente con studi precedenti, il nevroticismo, ovvero il tratto di personalità più implicato nello sviluppo dei disturbi d’ansia, cognizioni disadattive e comportamenti coerenti con l’uso problematico di internet, correlava positivamente con la cybercondria (Koronczai et al., 2019; Noyes et al., 2005)

Anche l’intolleranza all’incertezza ed il pessimismo difensivo avevano un ruolo rilevante nella relazione tra nevroticismo e cybercondria, ponendosi come fattori di mediazione sia parallela che sequenziale.

Nella mediazione sequenziale, il nevroticismo rappresenta il fattore di vulnerabilità genetica, che precede temporalmente l’insorgenza dell’intolleranza all’incertezza e del pessimismo difensivo; fattori di vulnerabilità specifica che favoriscono, nella cybercondria, un un’eccessiva ricerca online di contenuti correlati alla salute.

Nel dettaglio, individui con alti livelli di nevroticismo sperimentano maggiore intolleranza di fronte a informazioni mediche incerte, minacciose e angoscianti, che possono innescare l’utilizzo di una strategia di pessimismo difensivo, protettiva ma che alimenta l’eccessiva ricerca di contenuti online, sfociando in cybercondria.

Nel modello di mediazione parallela, le preoccupazioni inerenti la salute tra coloro con nevroticismo, alimentano l’intolleranza all’incertezza, che a sua volta provoca l’insorgenza di cybercondria, ansia e ricerca eccessiva su internet di contenuti inerenti la salute. Ricorrere a fonti mediche online, oltre che conferire immediata rassicurazione, consente di ridurre lo stress e l’ansia elevata tra questi individui.

Separatamente, il nevroticismo alimenta il pessimismo difensivo come strategia di pensiero negativo per ridurre l’ansia nelle situazioni di minaccia (Lei & Duan, 2016), che a sua volta predispone alla cybercondria.

Anche in questo caso, pensieri e sentimenti negativi si interfacciano con la componente ansiosa legata al timore della malattia, che anziché ridursi mediante ricerca di informazioni rassicuranti su internet (Norem & Cantor, 1986b), viene esacerbata, generando preoccupazioni ulteriori che sfociano nella cybercondria (Fergus & Dolan, 2014).

Complessivamente, questi risultati offrono un contributo significativo alla comprensione della cybercondira e dei suoi potenziali fattori di rischio, individuando il ruolo del nevroticismo come fattore generale e dell’intolleranza all’incertezza e del pessimismo difensivo come ulteriori elementi chiave nella spiegazione del comportamento problematico.

 

“L’amore ai tempi del colera” … ops, del Covid!!

La letteratura e la psicologia, cooperando, pullulano di riflessioni e teorie riguardanti l’amore: sentimento eterno e primordiale, causa emozionale da anteporre alla nascita dell’individuo.

 

Rispondigli di sì, anche se stai morendo di paura, anche se poi te ne pentirai, perché comunque te ne pentirai per tutta la vita se gli rispondi di no (Gabriel García Márquez).

Introduzione

L’amore è il più potente dei virus. Volendo attribuire al termine “virus” un’accezione positiva, potremmo dire che è il sentimento verso il quale convergono le espressioni più alte del bene. L’amore si trasmette, diventa virale, colpisce chiunque, talvolta fa star male e non chiede il permesso prima di varcare la soglia della nostra persona. Fatta questa premessa, non è necessario sottolineare la connessione quasi ironica tra i due termini, il contesto storico in cui ci troviamo a vivere è l’ambiente più comodo per un parallelismo amore – virus.

Quando la psicologia incontra la letteratura: la personalità resiliente di Florentino Ariza

La letteratura e la psicologia, cooperando, pullulano di riflessioni e teorie riguardanti l’amore: sentimento eterno e primordiale, causa emozionale da anteporre alla nascita dell’individuo. D’altronde siamo nati grazie all’amore dei nostri genitori, siamo il frutto dell’evolversi di tale trepidazione affettiva. Osservando con occhi attenti il risultato della proliferazione di pensieri sull’idea di amore e sulla sua resa pratica (la relazione affettiva) è possibile definire quali siano le colonne portanti dello studio di questo favoloso sentimento.

Ad esempio, Florentino Ariza, il protagonista del celebre romanzo L’amore ai tempi del colera, si innamora perdutamente di Fermina Daza, con la quale ha avuto un rapporto epistolare. Si è dedicato anche all’ammirazione di altre donne, le quali sono state tutte attratte dal potere implicito dell’amore che Florentino ha sempre provato per Fermina.

Questo amore ha vissuto molte peripezie; l’attesa è durata cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni. Il protagonista ha dimostrato un forte coraggio, non si è mai arreso, neanche nel momento in cui la giovane amata ha sposato un altro uomo avente un ruolo più prestigioso nella società dell’epoca.

Il grande psicologo, sociologo, psicoanalista e filosofo, Erich Fromm è l’unico in grado di spiegare cosa sia successo a Florentino, cosa lo ha spinto ad aspettare per molto tempo Fermina, la donna della sua vita. Difatti, egli afferma che “amare qualcuno è una scelta, una promessa, un impegno”, il senso di responsabilità ha forme diverse che si individuano nel rispetto e nella conoscenza (E. Fromm, 2016).

Cosa spinge una persona ad aspettarne un’altra per un tempo così prolungato: ragione o istinto?

Erich Fromm considera l’amore come uno dei valori più intrinsecamente legati all’uomo, il quale, sin dalla sua nascita, ha imparato “L’arte di amare”, prima la sua mamma, la sua figura di attaccamento, poi i suoi fratelli e/o sorelle ed infine se stesso e Dio. Tutto questo per sopravvivere al senso di isolamento che lo pervade fin da subito. A differenza di Sigmund Freud, Erich Fromm afferma che è errato interpretare l’amore come una reciproca soddisfazione sessuale, in quanto si è completamente felici quando amore e pulsioni si relazionano reciprocamente (E. Fromm, 1997). La frenesia della vita quotidiana, ci porta, purtroppo, a non sforzarci di imparare cosa sia l’amore e quali elementi lo caratterizzano, quanto piuttosto ad essere felici per pochi attimi solo grazie alla soddisfazione effimera permessa dall’istinto sessuale (S. Freud, 2010). Secondo Erich Fromm, l’uomo dovrebbe accettarsi per quello che è e dimostrare valori e ideali che non appartengono al genere comune, unici nella sua sola specie (E. Fromm, 2016). Egli non è un contenitore sterile, ma è qualcosa di più, è una persona che necessita di rispettare, in primis, se stessa e ad essere rispettata dagli altri in quanto essere umano.

Nel periodo storico che stiamo vivendo, ci si chiede come possa essere possibile instaurare legami sociali e affettivi, In che modo l’individuo, costretto nelle quattro mura domestiche, abituato a non vedere che il suo riflesso allo specchio, possa tornare a sentire lo stimolo di creare rapporti quando tutto tornerà alla normalità.

Nel momento in cui un abbraccio e un bacio diventano probabili cause di contagio, la definizione personale di amore cambia, il bene non è più vicinanza bensì distanza di sicurezza. Il sorriso regalato alla persona amata è coperto da uno strato filtrante che maschera ogni gioiosa reazione. Cosa avrebbe fatto Florentino Ariza se non avesse potuto baciare la sua Fermina Daza dopo quasi cinquant’anni di trepidante attesa?

Florentino, di sicuro, è descritto come un uomo avente una personalità molto passionale, capace di resistere alle dure prove a cui la vita lo ha sottoposto ed è grazie a questo che gli è stato permesso di vivere il suo amore non corrisposto nei confronti di Fermina, in modo sofferente e resiliente. L’insegnamento che si può cogliere è di rimanere cognitivamente fermi su ciò che si desidera, al fine di non abbattersi se poi la fatica e la resa subentrano e/o non si raggiunge la meta. Nel romanzo, Fermina Daza è descritta come la figlia di una famiglia assai ricca e che desidera per lei un matrimonio molto più prestigioso di quello che potrebbe unirla con Florentino Ariza. Difatti, sposa il Dott. Urbino, un medico, un uomo considerato idoneo dalla famiglia a stare con lei. Nel frattempo, il “povero” Florentino si adopera per diventare un uomo di prestigio, degno di poter amare Fermina. Quando il dottor Urbino muore, Fermina e Florentino si uniranno, concretizzando il sogno dell’ormai “vecchio” uomo.

Questo ci porta ad una considerazione importante: la personalità, così come descritta da Erich Fromm, è l’insieme delle qualità genetiche ed acquisite, che permettono all’uomo di adattarsi all’ambiente tenendo presente quali siano i suoi scopi e/o desideri (E. Fromm, 2016). Il carattere dell’uomo è quindi inteso come un mix tra caratteri evolutivi ereditati e di accomodamento all’ambiente.

Rifacendosi a Jean Piaget, l’autore sottolinea come l’uomo si formi grazie a ciò che riesce ad acquisire dall’ambiente circostante e come lo accomodi nella relazione con l’altro, diverso da sé (J. Piaget, 2000). Questo determina la meta, il traguardo che ogni essere umano si pone quando ama e/o è interessato, una perfetta sincronia tra ragione ed istinto.

Conclusione

Quando troviamo l’amore in tutte le sue forme più disparate, non ci dobbiamo preoccupare di ciò che viene meno. Florentino Ariza ha pensato solo a quale fosse il suo desiderio, al momento in cui avrebbe potuto realizzare la sua voglia di amare Fermina. La consapevolezza che solo impegnandosi avrebbe ottenuto la sua amata lo ha reso resiliente, ossia in grado di affrontare un periodo più o meno lungo di difficoltà emotive e personali. La personalità descritta molto bene da Gabriel García Márquez, ci ha fatto capire quanto sia importante coltivare e incoraggiare l’amore, anche se all’inizio non è corrisposto o non è accettato. Ha raggiunto razionalmente la consapevolezza che il momento tanto desiderato prima o poi sarebbe arrivato e questo gli ha dato maggiore forza nell’affrontare gli ostacoli e le dicerie della gente del popolo. L’amore è uno dei rimedi che in questo periodo possono aiutarci a rendere le nostre vite migliori, a darci maggiore forza per affrontare gli ostacoli del nostro vivere quotidiano. Questa pandemia ci ha messo sotto sforzo, ci ha costretto ad utilizzare tutte le forze a disposizione per uscirne vivi. Attraverso la condivisione, nessuno si potrà sentire solo. Facciamo come Florentino Ariza, armiamoci di coraggio e di ottimismo, cerchiamo di rendere l’amore ancora più grande e di trasmetterlo agli altri senza paure e/o indugi.

 

Finché il caffè è caldo – Il passato, il presente e le seconde possibilità, dalla letteratura alla psicoterapia

Le quattro protagoniste di Finché il caffè è caldo intraprendono un viaggio nel tempo che permette loro di compiere un percorso interiore e di scoprire i propri obiettivi di vita, esattamente come capita ai pazienti attraverso la terapia.

 

 Finché il caffè è caldo, romanzo di esordio di Toshikazu Kawaguchi, incuriosisce poiché richiama l’idea di pausa come un momento di reale sospensione, un’interruzione nel flusso del tempo che proietta le protagoniste in un frammento definito offrendo loro una seconda occasione.

Ambientato in un caffè aperto da più di cento anni, seminterrato, senza finestre, avvolto da una leggenda secondo cui entrando sia possibile viaggiare nel tempo, il romanzo si articola attraverso le storie di quattro donne e delle loro scelte. Accomunate da una sedia al tavolino di un caffè sempre uguale, all’interno del quale non si sa mai se sia giorno o notte, né che ore siano, le protagoniste si scoprono a desiderare di trovarsi in un momento preciso della propria vita per conoscere, rimediare e concedersi una seconda possibilità. In un angolo del caffè, una caffettiera d’argento, su un vassoio anch’esso d’argento ed una tazzina bianca danno inizio ad un rito preciso, con regole precise, per ritrovarsi in un momento preciso della propria vita. Regole inflessibili, una fra tutte quella che qualunque cosa accada il presente non cambierà.

Anche nelle stanze dei nostri studi c’è una sedia, sempre la stessa per i pazienti che vi si avvicendano, un po’ come per gli avventori del caffè, quasi immutabile nel tempo. Anche sulla nostra sedia è possibile viaggiare nel tempo e proiettarsi in un momento preciso, anzi in un episodio specifico. Non abbiamo il rito del caffè, ma sulla nostra sedia chiudendo gli occhi, ancorandosi al proprio respiro, chiediamo alle persone di aprire una finestra per sbirciare nei propri ricordi e rivivere scene di vita incarnando nel momento attuale le emozioni che emergono. Anche nel nostro caso ci sono delle regole, anche nel nostro caso il presente non potrà cambiare.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

 Finche il caffe e caldo - viaggiare nel tempo psicoterpia

Ma allora perché rivivere una scena se non è possibile modificarne il seguito? E’ la protagonista della prima storia, Fumiko, a suggerirci che rivivendo un momento passato in fondo non si corrono grandi rischi, sappiamo già quello che ci aspetta, ma ci si concede la possibilità di dire le cose diversamente e di essere sinceri.

Ma nello spazio di terapia a cosa serve viaggiare nel tempo?

In psicoterapia il “viaggio nel tempo” si chiama immaginazione (imagery) e con tecniche immaginative può avere diversi obiettivi (Dimaggio et al, 2019), ad esempio quello di esplorare come ci siamo sentiti esattamente: quale immagine di noi si è palesata, quali emozioni abbiamo provato, quale desiderio è stato frustrato? In terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al. 2013) questo processo di osservazione facilita il riconoscimento dello stato mentale interno. Immaginare episodi e rivivere scene di vita può servire inoltre ad esplorare cosa accade se proviamo a fare qualcosa di diverso da come agiamo solitamente, astenendoci da comportamenti veloci e automatici (coping). Potremmo scoprire che contattando la sofferenza più intima forse decideremo inaspettatamente di assumere un atteggiamento diverso ed avere un comportamento in parte nuovo. L’uso dell’immaginazione in psicoterapia è senza tempo, come il caffè descritto nel libro. Essa permette al paziente di fronteggiare stati dolorosi, dandogli un significato diverso, di far emergere competenze sopite oppure sperimentare nuove abilità, favorendo l’apprendimento di comportamenti più inclini ai propri desideri (Neimeyer, 2016. Padesky e Mooney, 2012).

Fumiko ad esempio sa di essere troppo orgogliosa per riuscire a parlare apertamente e con sincerità a Goro. Sarebbe un costo troppo alto per lei esporsi al rifiuto (valore personale: schema di rango), ma prende coscienza del suo desiderio attivo in quel momento di costruire una storia d’amore e di non perdere il suo amato (desiderio di formare legami affettivi stabili) e si concede la possibilità di riscrivere (Imagery Rescipting, Arntz & Jacob, 2012) il passato con una trama più incline al perseguimento di una nuova aspirazione.

Ma chi decide dove dirigersi nel viaggio e per scoprire cosa?

 Le protagoniste del romanzo non sanno cosa aspettarsi esattamente, come spesso accade all’interno della terapia. Le persone talvolta hanno una vaga previsione di ciò che desiderano ricevere e del cambiamento che vogliono operare, immaginando che la terapia possa magicamente cancellare il loro dolore. A chi spetta stabilire come procedere e verso quali obiettivi puntare?

Kotane, ad esempio, la seconda protagonista, decide autonomamente quale ruolo assumere nella vita di coppia in seguito ad un evento traumatico. Kotane ignorava quale fosse il reale desiderio di suo marito Fusagi, poiché in fondo non ne avevano mai parlato. Nessuno dei due aveva avuto la forza di condividere il proprio dolore per proteggere se stesso e l’altro. Pertanto in modo del tutto naturale Kotane ha assunto il ruolo di infermiera, come nella quotidianità della sua vita reale, senza chiedersi se davvero lo volesse. Ugualmente in psicoterapia può accadere che ci siano fraintendimenti circa gli obiettivi di lavoro o che questi non vengano mai esplicitati o chiariti, compromettendo in alcuni casi l’alleanza terapeutica (Bordin 1979). Stabilire e rinegoziare i termini del lavoro (Benjamin 1990, Mitchell 1993), invece, permette a paziente e terapeuta di giungere al nucleo della sofferenza e di toccare il fondo del dolore per poi risalire verso la luce e riprendere fiato come dopo una lunga apnea.

Tuttavia, nonostante gli accordi, nonostante le regole, rivivere delle scene può essere doloroso, così tanto da avere la tentazione di perdersi e di abbandonarsi alla desolante tristezza, come accade ad Hirai, che nella storia è sconvolta dalla perdita e per un attimo desidera fortemente non muoversi dalla scena e restare ferma dove ancora nulla si è compiuto. In psicoterapia si parla di strategie di fronteggiamento cognitive perseverative (PCCS, Ottavi et al 2017, 2019), che limitano il cambiamento e favoriscono il mantenimento della sofferenza ed il perpetuarsi di stati di angoscia. Lavorare con tecniche immaginative serve anche a stanare queste insenature nascoste nella nostra mente, a far emergere i blocchi al cambiamento che ognuno di noi talvolta oppone, seppure inconsapevolmente. In fondo ci percepiamo deboli, ci pensiamo incapaci di far fronte alla situazione, soprattutto quando ci immergiamo in scene del passato in cui lo siamo stati davvero. In immaginazione il terapeuta può chiedere al paziente di far entrare nella scena una figura di riferimento positiva, come accade nella storia di Hirai. Nel momento più complesso una figura amica, Key, la supporta perché non si perda d’animo e mantenga salde le sue promesse, rimodulando i propri obiettivi di vita sulla base di una nuova conoscenza di sé e di nuove prospettive future.

In fondo sulla nostra sedia non è possibile cambiare ciò che è stato, ma è verosimile lavorare per mitigare gli effetti del passato sul presente, affrancandosene per favorire il futuro. Tuttavia ciò che è nuovo ed ignoto può spaventare e gettarci in uno stato di agitazione, in cui la mente comincia a pensare velocemente, rimuginando intorno ad uno scenario sconosciuto e spaventoso (rimuginio o worry, Sassaroli Ruggiero, 2003). Accade proprio questo nell’ultima storia, in cui la protagonista Key sebbene abbia chiaro il proprio destino e altrettanto chiari i propri scopi inizi a dubitare, ha paura delle conseguenze della sua scelta. Lavorare con l’immaginazione può avere la finalità di proiettarci nel futuro che idealmente è rappresentato nella nostra mente e vivendolo ridimensionare le nostre paure e verificare che siamo in grado di tollerare gli stati dolorosi da cui l’ansia anticipatoria ci tiene alla larga.

Vivere una scena, anche solo immaginata, attiva stati mentali ed emozioni tali per cui possiamo chiarire la natura delle nostre paure, ma allo stesso tempo scoprire le nostre risorse e sorprenderci di quanta forza, coraggio e determinazione possediamo.

Le quattro protagoniste intraprendono un viaggio nel tempo che permette loro di compiere un percorso interiore e di scoprire i propri obiettivi di vita, esattamente come capita ai pazienti attraverso la terapia. Mentre noi terapeuti prendiamo parte al viaggio stando semplicemente al loro fianco, talvolta a guidarli, talvolta a sostenerli, talvolta solo a ricordare loro di sentirsi, osservarsi e di avere il potere di scegliere. Spesso siamo silenziosi, rammentando a noi stessi quali siano gli obiettivi concordati, disciplinando e indirizzando il nostro intervento solo a ciò che i pazienti ci hanno chiesto e dato mandato di fare, più che a ciò che riteniamo giusto per loro. Non giudichiamo, ma diamo forma e concretezza alle richieste, semplicemente chiedendo la destinazione precisa: un luogo, un giorno, un’ora. Quello che accade dopo è il segreto e la potenza del viaggio in noi stessi, per cui cambiamo il mondo modificando gli occhi con cui lo vediamo, perché in realtà abbiamo operato la trasformazione più grande, lo sguardo con cui vediamo (percepiamo) noi stessi, talvolta come pazienti, altre come terapeuti.

Sulla sedia di panno verde di fine Ottocento del caffè dei viaggi nel tempo si avvicendano quattro donne, le loro storie di amore coniugale o familiare e il desiderio, il coraggio, la tenacia di tentare di cambiare qualcosa di immutabile, utilizzando uno spazio ed il solo tempo concesso “Finché il caffè è caldo”.

 

Uniche come me. Terapia cognitivo-comportamentale per ragazze nello spettro autistico (2021) di Sara Travaglione, Letizia Cavalli e David Vagni – Recensione

Uniche come me è un libro specifico per il trattamento delle bambine e le ragazze dagli 11 ai 19 anni con la sindrome di asperger tramite l’approccio cognitivo-comportamentale.

 

 L’aumento del numero di adolescenti con diagnosi dello Spettro Autistico (ASD) di grado lieve o Sindrome di Asperger, come è facilmente osservabile negli ultimi anni durante la pratica clinica, rende fondamentale un’attenzione mirata e una presa in carico specifica. Tuttavia ciò che potrebbe capitare ai meno esperti nell’ambito dell’autismo è che le diagnosi vengano mal formulate e, come spiegato nel manuale, talvolta confuse con altri disturbi quale, ad esempio, il disturbo borderline di personalità. Gli atti di autolesionismo, la disregolazione emotiva, le difficoltà relazionali, la sintomatologia depressiva, ansiosa e i disturbi alimentari richiedono le competenze adatte al fine di formulare il corretto inquadramento diagnostico.

Nel libro vengono inizialmente descritte le caratteristiche che riguardano le persone asperger (Aspie), dagli “interessi speciali,” alle difficoltà nello stare in gruppo, a quelle connesse con il proprio genere sessuale, al camaleontismo per sentirsi meno diverse, ma anche altre riportate di seguito. Le persone Aspie, come spiegano gli autori, potrebbero provare fastidio relativo a determinate sensazioni tattili ed essere abbracciate, toccate o baciate può essere doloroso. Può anche capitare che la persona in oggetto non abbia imparato a rispettare lo spazio altrui e non sia capace di differenziare le giuste modalità di espressione dell’affetto. Riguardo questo aspetto è più probabile che sia maggiormente incline a manifestare questo sentimento svolgendo compiti più pratici più che entrando in empatia con lo stato emotivo altrui. Il bisogno di vicinanza con il prossimo può essere molto diverso rispetto al resto della popolazione. Alcuni Aspie potrebbero infatti avere la necessità di instaurare rapporti che non abbiano una frequentazione assidua e avere bisogno dei propri spazi per stare soli.

 Rispetto all’area dell’attenzione è come se il meccanismo attentivo funzionasse in modo binario, ossia acceso o spento, senza che ci sia la possibilità di cogliere le sfumature tra i due opposti. Ad esempio le persone nello spettro dell’autismo possono stare a lungo focalizzate su uno stimolo e avere difficoltà a spostare l’attenzione altrove. Possono faticare a concentrarsi su qualcosa se sono presenti troppi stimoli distraenti nonché a filtrare le informazioni rilevanti tra quelle non rilevanti. Si evidenziano difficoltà nella pianificazione che possono riguardare le seguenti aree: obiettivi da raggiungere, previsioni realistiche, passi per raggiungere un obiettivo. Possono essere presenti inoltre difficoltà nel multitasking e cioè nel tenere a mente più informazioni. Altre difficoltà tipiche delle persone Aspie che vengono affrontate nel libro riguardano la gestione energetica nella quotidianità. Per ogni difficoltà descritta vengono riportati degli esercizi, o delle attività, che mirano a sviluppare determinate risorse e a migliorare quindi la qualità di vita delle persone Aspie. Il manuale Uniche come me è particolarmente utile ai professionisti della salute mentale che operano nell’ambito dell’autismo per attuare percorsi terapeutici specifici sia individuali, sia di gruppo. Il libro propone infatti, oltre all’accurata descrizione del funzionamento Aspie, anche il protocollo per sviluppare le varie abilità. Tale protocollo prevede 20 incontri di gruppo a cadenza settimanale.

Il libro è nato dall’esperienza dei tre autori specializzati nell’autismo, è corredato da approfondite spiegazioni teoriche, test per misurare i progressi, schede di lavoro e oltre cento attività da svolgere. La suddivisione in 16 sessioni guida le adolescenti attraverso la costruzione del senso di identità, la comunicazione e la scoperta delle proprie caratteristiche autistiche. Il manuale illustra come accompagnare nell’esplorazione e nella gestione delle emozioni le giovani Aspie aiutandole a costruire capacità assertive e relative alla socialità. Gli autori affrontano così le tematiche tipiche della delicata età adolescenziale adattandole alle esigenze specifiche delle ragazze “Aspie”. Una parte del libro viene anche dedicata alla comunicazione su internet. Il manuale mira quindi a portare le ragazze Aspie alla scoperta della loro unicità nella neurodiversità.

 

Narrazioni e storie in psichiatria (2020) di Piero Benassi – Recensione

Narrazioni e storie in psichiatria racconta storie che hanno la forma di schizzi, brevi ritratti, raccolta di appunti, impressioni, dalle quali intuiamo che senza relazione non c’è cura e che i pazienti non devono mai essere identificati con la malattia di cui sono portatori.

 

Narrate, uomini, la vostra storia
(Alberto Savinio)

 Nei modi in cui si cerca di definire che cosa sia la Medicina Narrativa capita spesso che si corra il rischio, in una deriva piuttosto riduttiva e semplicistica, di descriverla come un “prestare ascolto alle storie dei pazienti”. L’effetto indesiderato di una tale, frequente semplificazione è lo scetticismo che ancora oggi circonda questo approccio: in tempi dominati dalla ricerca di procedure e protocolli rigorosamente strutturati ed evidence-based, la scarsa chiarezza sui principi di un metodo, persino su che cosa si intenda precisamente per “narrazione”, accende il riflettore sulla presunta debolezza scientifica di uno strumento che si propone di integrare la narrazione al processo di cura.

In realtà la Medicina Narrativa, intesa come metodologia d’intervento clinico-assistenziale che favorisca la realizzazione di una presa in carico efficace, appropriata e condivisa, ha ricevuto nel 2015 un importante riconoscimento formale dall’Istituto Superiore di Sanità che, in occasione della Conferenza di Consenso promossa dal CNMR (Centro Nazionale Malattie Rare), ha stilato le linee di indirizzo per l’applicazione di questo metodo e aperto un percorso di ricerca relativo agli strumenti pratici più appropriati e alla raccolta delle prove di efficacia.

Non si parla infatti di una generica esortazione al paziente affinché si racconti o di una richiesta agli operatori perché aggiungano un ulteriore impegno alle loro attività consuete, che già solitamente saturano il poco tempo a disposizione; si tratta in realtà di un modo diverso di fare medicina, più attento a ritagliare gli interventi sulle caratteristiche uniche di ciascun paziente e della sua storia personale.

Nella cornice teorica della Medicina Narrativa si inserisce il testo Narrazioni e storie in psichiatria, un bell’album di storie cliniche raccolte dallo psichiatra Piero Benassi, docente di Psichiatria dell’Università di Bologna e che è stato per diversi anni direttore dell’Ospedale Psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia.

Sono storie che hanno la forma di schizzi, brevi ritratti, raccolta di appunti, impressioni, dalle quali intuiamo, insieme all’autore che ce le racconta, che senza relazione non c’è cura e che i pazienti non devono mai essere identificati con la malattia di cui sono portatori; al contrario è indispensabile avere uno sguardo attento sul loro ricco mondo interno, fatto di rappresentazioni e sfumature uniche, personali e attinenti il loro microcosmo individuale e famigliare.

Le narrazioni di questo piccolo diario di bordo contengono una serie di avvenimenti, illuminazioni, angosce, visioni, allucinazioni, deliri; nelle storie, spesso a carattere psichiatrico, la malattia diventa semplicemente una lente, uno strumento attraverso cui le persone malate leggono e interpretano (e a volte, ahimè, distorcono) la realtà.

Uno dei compiti del terapeuta diventa quello di stimolare il paziente a mettere per iscritto quanto è vissuto come pensieri ed emozioni spesso soverchianti e la scrittura diventa in questo modo un esercizio volto a pensare, ragionare e approfondire la conoscenza di sé, come antidoto contro la paura e lo smarrimento.

Scrive l’autore:

Si può partire da un bisogno di confessare sé stessi, di conoscersi, di auto valutarsi e quindi di identificarsi, al fine di risolvere un qualche problema personale o di rapporto con l’altro, o per avere la consapevolezza di affrontare le incognite e i doveri della vita, o per raggiungere la capacità di superare ciò che si ritengono i propri limiti. 

 Benassi descrive anche la sua personale esperienza di scrittura congiunta, ossia un dialogo scritto instaurato con i pazienti e le loro famiglie per tenere traccia dell’andamento delle cure e delle oscillazioni dello stato di salute, modalità che anticipa in maniera pionieristica quello che oggi perseguono i più moderni dispostivi e applicazioni della medicina digitale, per far sì che gli strumenti tecnologici favoriscano e supportino la raccolta dei dati e la condivisione delle storie di malattia e cura.

La psichiatria scende in questo modo nel cuore dei pensieri e delle emozioni malate, cerca di immedesimarsi nella vita del paziente, per comprenderne le più oscure istanze psicologiche e raggiungere quella reciprocità relazionale (o alleanza terapeutica) che costituisce il principale, insostituibile strumento davvero curativo (insieme allo psicofarmaco, che serve a ridurre, non annullare, certe ideazioni e la sofferenza più acuta).

Le storie dei pazienti, raccolte e custodite dall’autore, sono intervallate dal racconto di quelle di artisti, scrittori, pittori come ad esempio August Strindberg, Antonio Ligabue, Thomas Bernhard e Van Gogh le cui dolorose vicende personali si intrecciano alle fragilità emotive e psicologiche, così come succede agli studenti, imprenditori, insegnanti, commercianti incontrati da Benassi e le cui storie “comuni” assumono lo stesso pathos narrativo di quelle dei personaggi più famosi.

Forse la fase finale di revisione del testo avrebbe potuto essere più accurata e correggere alcuni refusi che, da un punto di vista prettamente editoriale, finiscono purtroppo per penalizzare nel suo complesso questo bel volume.

In conclusione, dalle narrazioni capiamo che né l’arte né la psichiatria sono necessariamente salvifiche, ma che, laddove ci siano dei mostri al nostro interno, l’arte, la scrittura, la narrazione li rende guardabili, qualcosa che possiamo approcciare e conoscere, e forse, perché no, imparare a governare.

 

Le differenze nello stile di attaccamento del disturbo evitante di personalità e della fobia sociale.

Il disturbo evitante di personalità (Avoidant Personality Disorder – AvPD) e la fobia sociale (Social Phobia – SP) sono due condizioni cliniche che presentano alcune caratteristiche comuni (Cox et al., 2009).

 

All’oggi non è ancora chiaro se i due disturbi debbano essere considerati condizioni distinte o manifestazioni dello stesso disturbo d’ansia sociale (Social Anxiety Disorder – SAD), aventi differenti livelli di gravità (Lampe & Sunderland, 2015).

Difatti, sia coloro i quali soffrono di disturbo evitante di personalità che i pazienti con fobia sociale presentano differenti problematiche dal punto di vista interpersonale (Cuming & Rapee, 2010).

Gli individui affetti da questi disturbi hanno meno probabilità di sviluppare relazioni sentimentali durature (Sparrevohn & Rapee, 2009) e presentano uno scarso supporto sociale e una minor espressione emotiva nelle proprie relazioni (Eikenaes et al., 2013).

Tali problematiche legate all’intimità potrebbero essere riconducibili a difficoltà legate all’attaccamento e potrebbero essere più pronunciate per il disturbo evitante di personalità.

Infatti, mentre la fobia sociale si manifesta come una paura dell’umiliazione e dell’imbarazzo generati dall’esposizione a persone non familiari, si è soliti definire il disturbo evitante più in termini esplicitamente legati all’attaccamento. Nello specifico, esso viene associato a un senso negativo di sé, ad un contenimento emotivo all’interno delle relazioni intime, compresa l’intimità sessuale, ed a una paura del rifiuto e dell’umiliazione (American Psychiatric Association, 2013).

Quando si utilizza il termine attaccamento si fa riferimento allo stretto legame emotivo esistente tra il bambino e chi lo accudisce, il quale dovrebbe rappresentare una base sicura per l’infante, promuovendo il suo sviluppo a livello della regolazione degli affetti, dell’autonomia e della fiducia in sé e negli altri.

Sulla base delle prime esperienze di attaccamento, il bambino sviluppa rappresentazioni mentali di sé e degli altri e di sé in relazione agli altri, i cosiddetti modelli operativi interni, che successivamente influenzano la capacità di saper stabilire relazioni strette in età adulta (Bowlby, 1969).

Naturalmente, le relazioni sentimentali degli adulti differiscono dai legami tra genitori e figli.

L’attaccamento degli adulti è stato studiato alla luce di due tradizioni di ricerca: l’approccio evolutivo (Ainsworth et al., 1978) e l’approccio sociale (Hazan & Shaver, 1994).

Il questionario Experience in Close Relationships (ECR; Brennan, Clark, & Shaver, 1998) appartiene al secondo filone di ricerca e, all’oggi, è ampiamente utilizzato.

Ad ogni modo, entrambi gli approcci hanno identificato due dimensioni fondamentali dell’attaccamento degli adulti: ansia ed evitamento, che combaciano con le due sottoscale componenti l’ECR.

Un’elevata ansia di attaccamento comporta la paura dell’abbandono, un eccessivo bisogno di approvazione da parte degli altri e l’angoscia, che tende a manifestarsi quando il proprio partner non è disponibile. Al contrario, un elevato attaccamento evitante comporta la paura della dipendenza interpersonale, la preferenza per l’autosufficienza e la riluttanza a rivelare sé stessi (Wei et al., 2007).

Nel complesso, pochi studi hanno esaminato gli stili di attaccamento nei soggetti con disturbo evitante di personalità e fobia sociale e, attualmente, le evidenze suggeriscono che entrambe le diagnosi potrebbero essere associate a problematiche legate all’attaccamento.

Dunque, uno studio preso in esame ha confrontato gli stili di attaccamento in pazienti con disturbo evitante di personalità e fobia sociale, al fine di esaminare le somiglianze e le differenze tra i suddetti. Gli autori hanno applicato l’ECR per indagare l’ansia e l’evitamento, così come i sottofattori suggeriti dal questionario: evitamento della vicinanza, scomodità nell’apertura, frustrazione legata alla separazione, ansia da abbandono e desiderio frenetico della vicinanza.

Allo studio hanno preso parte 90 pazienti che sono stati divisi in due gruppi sulla base della diagnosi ricevuta. Nello specifico, il primo gruppo era costituito da soggetti con disturbo evitante di personalità, con o senza fobia sociale, mentre, il secondo gruppo era composto da individui affetti unicamente da fobia sociale. I ricercatori hanno ipotizzato che il gruppo affetto da disturbo evitante di personalità avrebbe avuto punteggi più alti in entrambe le scale di ansia ed evitamento rispetto al gruppo con fobia sociale e, ulteriormente, che il gruppo con disturbo evitante di personalità avrebbe avuto punteggi più elevati per quanto concerne l’ansia dell’abbandono.

I risultati hanno mostrato che entrambi i gruppi diagnostici avevano alti livelli di ansia di attaccamento e di evitamento. Come ipotizzato, il gruppo disturbo evitante di personalità ha ottenuto punteggi più elevati nella dimensione dell’ansia rispetto al gruppo Fobia Sociale. Quanto detto è in linea con studi precedenti che mostrano che le relazioni strette e l’intimità sono più problematiche per i pazienti con disturbo evitante di personalità rispetto a quelli con fobia sociale (Eikenaes et al., 2013).

Contrariamente con quanto ipotizzato, invece, si è evinto che i due gruppi non differivano rispetto alla dimensione dell’evitamento. Questo risultato suggerisce che le aspettative negative nei confronti di persone non familiari possono riguardare anche le relazioni strette.

Le differenze tra i gruppi diagnostici erano più evidenti per quanto concerne i sottofattori dell’ansia per l’abbandono e la frustrazione legata alla separazione, rispetto ai quali il gruppo disturbo evitante di personalità aveva punteggi più alti rispetto al gruppo con fobia sociale. Dunque, l’ansia dell’abbandono sembra essere un aspetto fondamentale nella patologia del disturbo evitante di personalità, nonostante non rientri tra gli attuali criteri diagnostici esistenti, ma giustifica il contenimento attuato nelle relazioni intime (American Psychiatric Association, 1994).

Nella pratica clinica, vi sono spesso pazienti con disturbo evitante di personalità che affermano “se qualcuno sapesse chi sono veramente, mi abbandonerebbe”.

Questi risultati indicano la presenza di un conflitto emotivo interno nei pazienti con disturbo evitante di personalità, generato dal desiderio di attaccamento, da un lato, e l’elevata ansia di attaccamento, dall’altro, che comporta un evitamento dell’intimità, come difesa contro gli affetti potenzialmente dolorosi.

I risultati di questo studio indicano che i pazienti con disturbo evitante di personalità, nonostante il loro silenzio, la guardia emotiva e l’evitamento comportamentale manifestati nei contesti sociali, possono desiderare una relazione di fiducia e accettazione.

Dunque, anche in terapia, qualora il terapeuta dovesse sentirsi rifiutato o confuso dalle strategie di evitamento del paziente, dovrebbe essere più consapevole del fatto che i comportamenti manifestati da questi pazienti, altro non sono che strategie di difesa, volte a regolare una forte e intollerabile ansia di attaccamento. In questo modo, i drop-out potrebbero suscitare empatia, piuttosto che irritazione e, così facendo, i pazienti potrebbero sentirsi più compresi.

Concludendo, i presenti risultati indicano la necessità di valutare l’attaccamento nei singoli pazienti, affinché anche il terapeuta possa sentirsi più in sintonia con loro.

Il ruolo del sistema dei neuroni specchio nel disturbo dello spettro autistico

Un’ipotesi interessante circa l’eziologia dell’autismo si deve alla scoperta dei neuroni specchio.

Cinzia Marcuzzo e Ilaria Cester – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Sono un uomo imprigionato nei pensieri di libertà. Andrea vuole guarire. Ciao. (Ervas, 2012).

Queste sono le parole che Andrea, un ragazzo autistico, scrive al padre grazie al computer che usano per comunicare. Andrea si sente imprigionato e sogna la libertà, come se fosse possibile abbattere quelle barriere che lo separano dal mondo.

Bruno Bettelheim nel 1967 riferendosi all’autismo parlò di “fortezza vuota” ed effettivamente i soggetti autistici tendono a separarsi dal mondo e a rinchiudersi in se stessi, ma questa forma di protezione può comportare delle forti sofferenze che non sono in grado di esternare. L’incapacità di interagire di questi bambini determina frustrazione in essi, che capiscono e provano emozioni, ma non sanno come manifestarle. La loro fortezza, quindi, non può essere definita vuota, ma racchiude emozioni, gioie e dolori che non siamo in grado di vedere, ma che non per questo non esistono. Purtroppo il lavoro di ricerca in questo campo è molto indietro. Per riuscire ad abbattere le barriere tipiche dell’autismo è prima importante capire quali siano le sue cause.

Autismo, dal greco autòs, significa sé stesso. Il termine ‘autismo’ fu introdotto nel 1911 dal medico-psichiatra svizzero Bleuler (1857-1939) per indicare un comportamento, che si osserva in pazienti schizofrenici, caratterizzato da chiusura, evitamento dell’altro ed isolamento. Secondo Bleuler l’autismo consisteva in un ritiro in se stessi presente nei giovani affetti da presunta psicosi. Il termine autismo era quindi utilizzato per definire una caratteristica di una patologia, e non una patologia a sé stante (Caretto, 2007).

Il disturbo autistico fu descritto per la prima volta nel 1943 dallo psichiatra Leo Kanner. Kanner, nel corso di una ricerca clinica, notò in undici bambini dei comportamenti particolari che non potevano essere ricondotti a schizofrenia e chiamò la sindrome autismo infantile precoce, aveva infatti osservato che il bambino sin da piccolo bloccava l’accesso a qualsiasi cosa provenisse dall’esterno. Tutti gli undici bambini studiati da Kanner mostravano un’assenza relazionale e importanti deficit nella comunicazione e nel linguaggio. Kanner considerò la solitudine autistica, ovvero l’isolamento sociale tipico di questo disturbo, come sintomo principale.

Le cause del disturbo autistico non sono ancora del tutto note e nel corso degli anni si sono sviluppate diverse teorie. Inizialmente si riteneva erroneamente che l’autismo dipendesse da fattori psicologici e in particolare da carenze affettive imputabili alla madre (Bettelheim, 1967; Green e Schecter 1957; Kanner, 1943). Tali teorie psicologiche furono però screditate e solo recentemente la ricerca ha permesso di individuare fattori genetici (Curatolo et al., 2003; Gardener, Spiegelman & Buka, 2011; Muhle, Trentacoste & Rapin, 2004), neurologici (Curatolo et al., 2003) e ambientali (Gardener et al, 2011; Hertz-Picciotto, 2006; Landrigan, 2010) che potrebbero essere alla base dell’autismo. Attualmente è sempre più accettata l’ipotesi che il disturbo dello spettro dell’autismo sia legato ad un funzionamento mentale atipico, probabilmente a causa di deficit nello sviluppo del Sistema Nervoso Centrale dovuto sia a fattori ereditari che ambientali, che causa disfunzioni nell’elaborazione delle informazioni, e nell’integrazione dei comportamenti (Trevarthen & Aitken, 1994). È importante però sottolineare che non esiste un’unica causa accertata per l’autismo, sembra piuttosto che siano necessari una serie di fattori affinché esso si manifesti.

Un’ipotesi interessante circa l’eziologia dell’autismo si deve alla scoperta dei neuroni specchio fatta negli anni ’90 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma, coordinato da Giacomo Rizzolatti, che stavano effettuando degli studi sulle capacità motorie delle scimmie. Essi notarono che questi neuroni si attivavano sia quando la scimmia compiva un’azione sia quando la vedeva eseguita da qualcun altro (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006). Il gruppo di ricercatori li chiamò neuroni specchio (mirror neurons) dal momento che questi neuroni sembravano riflettere le azioni eseguite da un altro soggetto direttamente all’interno del sistema motorio dell’osservatore. Questi neuroni sarebbero quindi implicati nel riconoscimento e nella comprensione del significato degli atti eseguiti dagli altri. Molteplici esperimenti hanno dimostrato che un meccanismo specchio è presente anche nell’uomo (Fadiga et al., 1995), in particolare nella porzione rostrale del lobo parietale inferiore, nel settore posteriore del giro frontale inferiore e nel solco temporale superiore (Rizzolatti, Fogassi & Gallese, 2006) (Fig. 1). Tale sistema ha un ruolo fondamentale per quanto riguarda l’imitazione, lo sviluppo del linguaggio, la comprensione delle azioni e delle emozioni e il comportamento sociale (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006). I neuroni specchio, infatti, rendono possibile quella reciprocità di atti e d’intenzioni che consentono di riconoscere il significato dei gesti altrui.

Autismo quale ruolo riveste il sistema dei neuroni specchio Psicologia Fig 1

Fig.1: Aree che formano il sistema dei neuroni specchio nell’uomo. In rosa: la porzione rostrale del lobo parietale inferiore. In giallo: il settore posteriore del giro frontale inferiore. (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006).

 

Poiché i soggetti autistici presentano difficoltà empatiche e pioché i neuroni specchio sono coinvolti in queste ultime, alcuni studiosi si sono chiesti se vi fosse una disfunzione dei neuroni specchio alla base dei problemi empatici e relazionali che caratterizzano l’autismo.

Il sistema specchio ricostruisce una copia mentale delle azioni osservate, e proprio per questo si ritiene che possa essere considerato la base neurale dell’imitazione. Imitando, i bambini imparano a relazionarsi socialmente con gli altri. Molteplici studi hanno riportato la difficoltà dei bambini con autismo nell’imitazione rispetto ai bambini a sviluppo tipico (Lambiase, 2008).

Gallese (2006) propone che la precoce condivisione delle intenzioni e delle azioni altrui, che si sviluppa proprio attraverso l’imitazione, sia fondamentale per considerare gli altri come simili a sé. Il soggetto con autismo fallisce nel ricreare mentalmente in sé il comportamento di un’altra persona, quindi nell’identificarsi in essa, e di conseguenza nel proiettarsi mentalmente nella situazione dell’altro (Keller, Bugiani, Fantin & Pirfo, 2011). Poiché l’imitazione è un elemento critico per l’inizio dello sviluppo affettivo, sociale e comunicativo, un malfunzionamento in questo campo può avere conseguenze molto deleterie per un bambino in via di sviluppo.

Dapretto et al. (2005), usando la risonanza magnetica funzionale, hanno dimostrato che i soggetti autistici, a differenza dei soggetti di controllo, non presentavano un’attivazione nel giro frontale inferiore mentre osservavano o imitavano delle espressioni facciali. Inoltre, l’attività osservata in questa regione nei soggetti autistici, era inversamente correlata alla gravità dei sintomi. L’assenza di attivazione dei neuroni specchio nei soggetti autistici dà supporto all’ipotesi che la disfunzione dei neuroni specchio possa essere la causa di deficit sociali e affettivi.

Molti studi evidenziano una mancata tendenza nei soggetti autistici, durante le interazioni faccia a faccia, a imitare i gesti e le posture dell’altro (Keller, Bugiani, Fantin & Pirfo, 2011). Questo potrebbe essere strettamente collegato a un’incapacità di rispecchiamento che non rende possibile “mettersi nei panni dell’altro” ed entrare in sintonia con esso. Questa incapacità di rispecchiarsi nell’altro porta anche a difficoltà nella comprensione dell’azione altrui. Alla fine degli anni novanta un gruppo di ricerca dell’Università della California a San Diego, guidato da Ramachandran e Oberman, cercò di dimostrare che nei bambini autistici era presente una disfunzione dei neuroni specchio (Oberman et al., 2005; Ramachandran & Oberman, 2006). Per farlo sono ricorsi alla misurazione con elettroencefalogramma dell’onda mu, che è bloccata quando una persona compie un movimento volontario o quando osserva un altro compiere la stessa azione. Quindi l’onda mu sembrerebbe riflettere l’attività dei neuroni specchio. Rilevarono che l’onda mu nei soggetti autistici era bloccata solo durante il compimento dell’azione e non durante l’osservazione. Quindi il sistema di comando motorio era intatto, mentre il sistema dei neuroni specchio sembrava poter essere deficitario (Fig. 2).

Autismo quale ruolo riveste il sistema dei neuroni specchio Psicologia Fig 2

Fig.2: sia nei soggetti autistici che nei soggetti di controllo durante l’esecuzione di un movimento l’onda mu veniva soppressa. Quando invece i soggetti vedevano l’azione svolta da qualcun altro si registrava la soppressione dell’onda mu solo nei soggetti di controllo (Ramachandran & Oberman, 2006).

La scoperta che i neuroni specchio dei soggetti autistici non si attivano alla vista di un’azione eseguita da uno sconosciuto, sembrerebbe dimostrare la presenza di un disfunzionamento. Tuttavia è difficile capire se la mancanza di abilità nel relazionarsi agli altri, presente nei soggetti autistici, causi le compromissioni nel sistema dei neuroni specchio o se viceversa la compromissione del sistema specchio conduca ai deficit relazionali.

Oberman (2008) fornisce al riguardo un’interessante ipotesi. Per l’autore, il sistema dei neuroni specchio risponde a tutte le azioni umane nei soggetti neurotipici perché essi sono in grado di relazionarsi con tutti gli altri esseri umani ed è quindi proprio grazie ai neuroni specchio se riescono ad entrare in sintonia con gli altri. Alcuni studi dimostrano addirittura che il sistema dei neuroni specchio nei soggetti neurotipici risponde a movimenti eseguiti da dei robot, quindi a stimoli “antropomorfi” inanimati (Oberman & Ramachandran, 2007). Perciò, il sistema dei neuroni specchio umano non si attiverebbe solo in seguito alle azioni animate, ma potrebbe includere anche tutte le azioni alle quali l’osservatore è in grado di relazionarsi. Il sistema specchio, invece, non si attiva per azioni con le quali il soggetto non è in grado di relazionarsi, per esempio il rimbalzare di una palla. Allo stesso modo forse i neuroni specchio dei soggetti autistici non rispondono all’azione di un estraneo poiché essi non sono in grado di relazionarsi a quella persona.

Anche a livello anatomico sono state trovate delle prove per sostenere un malfunzionamento del sistema dei neuroni specchio nei soggetti autistici. Hadjikhani et al. (2006) hanno confrontato un gruppo di 14 adulti autistici ad alto funzionamento con un gruppo di controllo appaiati per sesso, età, quoziente di intelligenza e manualità. Attraverso una tecnica di analisi automatizzata, che misura con precisione lo spessore della corteccia cerebrale, gli autori hanno rilevato diminuzioni locali di materia grigia nei soggetti autistici nelle aree appartenenti al sistema dei neuroni specchio. Tale assottigliamento inoltre era correlato con la gravità dei sintomi.

La presenza di un collegamento tra neuroni specchio e autismo è probabile considerando le numerose prove a sostegno di questa teoria, ma per molti ricercatori non è realistico considerare i neuroni specchio come causa unica del disturbo autistico e addirittura alcuni autori riportano una corretta attivazione dei neuroni specchio nei soggetti autistici (Dinstein, 2010; Sebanz, et al., 2005).

Vi è inoltre una notevole variabilità nella capacità delle persone con autismo di imitare e il livello di quest’abilità non è strettamente correlato con gli altri deficit presenti nell’autismo, per esempio il linguaggio e il comportamento sociale, come invece ci si dovrebbe aspettare individuando il sistema dei neuroni specchio come unico meccanismo unitario responsabile di tali disfunzioni (Dinstein et al, 2008). Quindi, la disfunzione dei neuroni specchio non potrebbe spiegare l’eterogeneità dei sintomi associati al disturbo autistico.

Inoltre, bisogna considerare che buona parte degli studi eseguiti non utilizzano misure dirette dell’attività dei neuroni specchio. Infatti, l’attività registrata con la risonanza magnetica funzionale o la soppressione dell’onda mu non sono con certezza un segnale dell’attività dei neuroni specchio. Ma, anche se riflettessero realmente l’attività dei neuroni specchio, Dinstein e colleghi (2010) usando la fMRI hanno rilevato una normale attività dei neuroni specchio nelle persone con autismo.

Anche Sebanz e colleghi (2005) riscontrano una normale attività dei neuroni specchio in soggetti autistici durante l’osservazione di azioni dirette verso uno scopo.

Gli studi che si oppongono all’implicazione dei neuroni specchio nel disturbo autistico sono piuttosto esigui rispetto alle numerose evidenze sperimentali a sostegno di tale teoria, ma dimostrano come la teoria degli specchi infranti sia ancora incompleta e necessiti quindi di maggiori evidenze empiriche. Anche se imperfetta tale teoria resta comunque molto interessante e apre la strada a nuove prospettive di ricerca che forse saranno in grado, nei prossimi anni, di capire finalmente l’eziologia del disturbo autistico.

 

Pratica degli scacchi e demenza

Il gioco degli scacchi sembra ridurre il rischio di demenza e combatterne i sintomi.

 

Diversi studi dimostrano l’esistenza di una correlazione tra la pratica degli scacchi e la riduzione degli effetti di decadimento cognitivo associati alla demenza, in particolare uno studio recente reso noto dalla rivista The New England Journal of Medicine ha rilevato nei soggetti al di sopra di 75 anni impegnati nel gioco degli scacchi, un allenamento cognitivo tale da indurre in loro un minor rischio di sviluppare demenza rispetto ai coetanei non giocatori.

Il gioco degli scacchi costituisce una vera e propria disciplina sportiva riconosciuta dal CONI e in realtà può essere considerato molto più di un semplice gioco, in quanto è oramai noto che la pratica costante ha delle positive ripercussioni sull’allenamento e lo sviluppo di abilità cognitive, che attualmente sono prese in considerazione anche in ambito psicoeducativo. Basti pensare che in alcuni paesi come Francia, Germania e Regno Unito il gioco di scacchi è entrato anche nella didattica come materia scolastica che aumenta le capacità logiche. In termini pedagogici, la pratica degli scacchi comporta diversi benefici a livello di concentrazione, accettazione di regole con notevoli ripercussioni anche su autostima, responsabilità, autocontrollo, memoria, coordinazione, creatività e quindi consente di raggiungere nei bambini diversi obiettivi fondamentali per lo sviluppo della mente e del comportamento pro sociale. Possiamo quindi considerare il gioco di scacchi come una palestra della mente, ovvero un training cognitivo e come tale è stato attenzionato e applicato anche in altri ambiti sperimentali come ad esempio la riabilitazione neuro cognitiva rispetto a disturbi vari, tra cui in particolare la demenza. In Italia, ad esempio, la Brain Care, centro che si occupa di stimolazione e potenziamento cognitivo nei soggetti disabili ma anche in soggetti normo e iper-abili, di cui è direttrice dal 2011 la dottoressa Anna Cantagallo, nonché docente in diversi Atenei italiani e coordinatrice delle sezioni di Riabilitazione Neuropsicologica (GIRN) dal 2006 al 2014, ha mostrato notevole interesse per il gioco degli scacchi considerato anche come sorta di test di valutazione di processi cognitivi, quali risoluzione di problemi ed expertise (insieme di comportamenti generali e specifici associati al pensiero creativo). La dottoressa Cantagallo, infatti, spiega che il gioco degli scacchi “si basa principalmente sull’attivazione rapida e consapevole di vari processi come ad esempio la memoria a lungo termine, problem solving, autocontrollo e la teoria della mente”.

Nelle ricerche condotte, pare si sia evidenziata inoltre, un’attivazione bilaterale della corteccia frontale superiore, dei lobi parietali, dell’emisfero sinistro e della corteccia occipitale in tutte le fasi del gioco ed in misura direttamente proporzionale alla sua complessità. Tutto ciò sembra molto interessante anche come applicazione alla riabilitazione cognitiva e psichiatrica, soprattutto per via dell’ampio coinvolgimento del lobo frontale; si è visto come ad esempio il gioco degli scacchi abbia permesso di diminuire la frequenza di deliri e allucinazioni, disturbi formali del pensiero in alcune patologie psichiatriche come ad esempio la psicosi schizofrenica.

Invece, per quanto riguarda la pratica degli scacchi intesa come ‘fattore protettivo’ in altri disturbi come la demenza, che è molto diffusa nella popolazione, è interessante riportare una recente pubblicazione del 2019 di Crespo e colleghi (Crespo et al., 2019), nella quale si evidenzia una connessione tra gioco di scacchi e possibilità di prevenire l’insorgenza della demenza nella popolazione non diagnosticata. Gli autori hanno condotto una ricerca sulla base di 21 articoli selezionati in seguito all’applicazione di precisi criteri di inclusione e di esclusione, con l’intento di comprendere se gli scacchi potessero essere considerati fattore protettivo (inteso cioè come aspetto del comportamento o stile di vita personale, esposizione ambientale o innato o caratteristica ereditaria che, sulla base di evidenze epidemiologiche, è noto per essere associato con la prevenzione o mitigazione di una condizione correlata alla salute) e quali potessero essere i benefici per le persone con una diagnosi di demenza. Ricordiamo che tra i principali sintomi della demenza vi sono: perdita della memoria con forte ripercussione sulla vita quotidiana delle persone affette, senso di confusione spazio/tempo e difficoltà nella risoluzione di problemi. Il cervello di pazienti con Alzheimer, nello specifico, mostra la presenza di placche insieme ad un accumulo di proteine tra le cellule nervose, che normalmente si determina con l’avanzamento dell’età, ma che nei pazienti con la suddetta patologia neurologica è presente in modo maggiore rispetto alla media dei soggetti anziani. A tal proposito, è possibile citare un lavoro riportato sul New England Journal of Medicine (Coyle et al. 2003), che ha sottoposto 500 partecipanti di età superiore ai 75 anni, ad uno studio della durata di circa 5 anni, in cui gli stessi erano impegnati in svariate attività ricreative compresi gli scacchi e per i quali si è evidenziato che tali attività tendevano a ritardare lo sviluppo di segni di demenza, rispetto a quanto emerso per i soggetti che non vi avevano giocato. Il coinvolgimento dei partecipanti allo studio in circa 10 attività di esercizio della mente, compresi appunto gli scacchi, ha ritardato per la precisione i segni della demenza di circa 1,5 anni, pertanto, gli individui che giocavano a giochi da tavolo avevano oltre il 35% in meno di probabilità di sviluppare demenza rispetto a chi vi aveva partecipato occasionalmente o raramente.

La ricerca di Crespo ha considerato come criteri di inclusione degli studi revisionati, in primis l’inserimento di quelli riportati in articoli pubblicati su riviste scientifiche, revisioni sistematiche con o senza meta-analisi, studi sperimentali, descrittivi e revisioni bibliografiche. Sono stati invece esclusi i documenti relativi agli animali, limitandosi esclusivamente a considerare le indagini condotte su esseri umani. I risultati della revisione dei vari studi ha dimostrato quindi, quanto la promozione negli anziani di un loro coinvolgimento in attività cognitivamente stimolanti come la lettura, i giochi da tavola ma anche ad esempio il ballo, in quanto attività ricreative, possa migliorare la condizione della malattia e addirittura influenzarne il percorso di avanzamento, rafforzando le funzioni cognitive se praticate in fasi iniziali. Ciò sarebbe spiegato dal fatto che attività mentali che richiedono un certo sforzo producono e rafforzano le connessioni sinaptiche, stimolando la neuro genesi e la promozione di cambiamenti plastici a livello cerebrale, che inevitabilmente rallenterebbero i sintomi della demenza.

Anche altri studi come quello di Lin e colleghi (2003) conferma che il “GOgame”, ovvero una tipologia di scacchi cinese risalente a circa 5000 anni fa, può migliorare la qualità di vita di pazienti con demenza. In effetti questo tipo di gioco pare comporti modifiche associate a molte funzioni cognitive quali apprendimento, ragionamento astratto e autocontrollo che peraltro facilitavano la terapia cognitivo- comportamentale con cui i soggetti dello studio erano trattati. Un’altra interessante ipotesi riportata da studi epidemiologici riguarda invece l’affermazione secondo cui vi sia una associazione tra alti tassi di attività ricreative in età avanzata e un minor declino cognitivo basata sulla “teoria della riserva cognitiva”. Tale teoria sostiene che gli individui con una maggiore riserva cognitiva posseggano reti neurali più efficienti o che abbiano la possibilità di impiegare reti alternative, ritardando in tal modo l’incidenza della demenza.

Infine si può affermare che, nonostante tutti i vantaggi menzionati e la scarsa esistenza di dati che vadano contro gli effetti positivi del gioco di scacchi, le prove attualmente non sono abbastanza consistenti da sostenere un nesso causale diretto. Non vi è dubbio sul fatto che sarebbe necessario condurre ulteriori sperimentazioni più controllate a supporto di quanto detto e valutare meglio l’effetto protettivo delle attività cognitive sul rischio di demenza soprattutto sulla popolazione già con diagnosi acclarata.

 

Memo (2017) – Cortometraggio sull’Alzheimer

Memo, un cortometraggio realizzato dalla scuola di animazione Gobelins, rappresenta in maniera delicata e attenta le fasi iniziali della malattia, caratterizzate perlopiù dalla presenza di deficit in specifici domini cognitivi

 

Come vengono vissute dalla persona con malattia di Alzheimer le normali attività di vita quotidiana? E come sono gestite dal familiare le relative incombenze? Memo, un cortometraggio realizzato dalla scuola di animazione Gobelins, rappresenta in maniera delicata e attenta le fasi iniziali della malattia, caratterizzate perlopiù dalla presenza di deficit in specifici domini cognitivi (APA, 2013).

È proprio in questo stadio che si presenta il cosiddetto “fenomeno di facciata”, accuratamente rappresentato dal corto, ovvero l’assenza di difficoltà da parte dell’anziano nelle attività quotidiane di base (ADL), che in quanto abituali e automatiche non necessitano di un alto consumo di risorse attentive, accompagnata dalla presenza di ostacoli nelle attività strumentali di vita quotidiana (IADL).

“Memo” perchè spesso inizia proprio così, l’anziano ha difficoltà di memoria per eventi recenti e allora lo si agevola ricorrendo ad ausili mnesici esterni quali appunto bigliettini.

Nel filmato l’anziano protagonista finisce il caffè ed è intenzionato ad andare a comprarlo al supermercato presente nel suo quartiere: nulla di complicato. Vuole semplicemente andare a “fare la spesa”, una delle attività strumentali di vita quotidiana considerate nelle scale di valutazione delle autonomie funzionali dell’individuo (vedi IADL Scale, Lawton e Brody, 1969).

La figlia però, consapevole delle difficoltà cognitive del padre, tenta di dissuaderlo offrendosi di andare al suo posto. L’anziano, difendendo a spada tratta la propria indipendenza, si dirige al supermercato in cerca del prodotto e ad un tratto, però, tutto sembra svanire e confonderlo. Il protagonista, sconfortato, esce dal supermercato, assalito da un profondo senso di solitudine e disorientamento ma, improvvisamente, la figlia lo raggiunge e tutto si fa più chiaro. I due tornano a casa e si godono finalmente la colazione insieme, come da programma.

Il cortometraggio, in pochi minuti, rappresenta molto chiaramente la sensazione di smarrimento del malato, le strategie che in un primo momento possono sicuramente aiutare nello svolgimento della routine ma soprattutto l’enorme sollievo dato dalla presenza di una figura cara e familiare.

Il sopraggiungere della non autosufficienza è una situazione critica e delicata che mette in crisi equilibri precedentemente acquisiti: da una parte il nucleo familiare vede una riorganizzazione dei rapporti tra i membri e una inversione dei ruoli di accudimento, dall’altra l’anziano vive un momento di forte destabilizzazione a causa della perdita di autonomia, spesso manifestando rifiuto.

È proprio per questo che risulta necessario incoraggiare e preservare il più possibile le autonomie della persona, rispettando la capacità di autodeterminazione dell’anziano finché le sue condizioni lo permettono. Comportamenti di sostituzione non fanno altro che accelerare la perdita delle capacità dell’individuo e il processo di progressiva dipendenza funzionale, oltre che l’acutizzarsi di disturbi del comportamento (Kitwood, 1997).

Inoltre, è ormai dimostrata l’influenza del supporto emotivo da parte dei familiari sul benessere degli anziani (Merz & Consedine, 2009). In particolare, tale supporto sembrerebbe permettere all’anziano di affrontare più positivamente eventi stressanti.

Infine emerge una riflessione: se la figlia non fosse arrivata chi avrebbe rassicurato e compreso l’anziano? Dal filmato, ad esempio, i commessi sembrano del tutto indifferenti. Risulta, quindi, necessario sensibilizzare la comunità sui disturbi neurocognitivi e sulle strategie di supporto rivolte alle persone fragili, come sottolineato dal “Piano d’azione globale di salute pubblica in risposta alla demenza” pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2017). Un’iniziativa che sta prendendo sempre più piede è ad esempio la creazione delle Dementia Friendly Communities, ovvero comunità i cui abitanti sono debitamente formati sulla patologia e questo permette ai malati di essere compresi, rispettati, sostenuti, inclusi e coinvolti, continuando così ad avere possibilità di scelta e controllo sulla propria vita, mantenendo un ruolo attivo nella comunità in completa sicurezza e nonostante i deficit.

In conclusione, Memo risulta essere un ottimo strumento di sensibilizzazione pubblica nonché materiale di formazione per caregiver formali e informali che, in soli 4 minuti e mezzo, permette di sviluppare numerosi spunti di riflessione.

 

MEMO | Animation Short Film 2017 – GOBELINS:

 

Valutarsi in base all’aspetto fisico influenza i livelli di autostima? Il ruolo dell’auto-oggettivazione e dell’ansia legata all’apparenza

Sembra che chi associa la propria autostima all’aspetto fisico è probabile che sperimenti anche una maggiore auto-oggettivazione e ansia, ovvero percezioni negative legate alla propria apparenza, che comportano una riduzione dell’autostima generale. 

 

 Nella cultura occidentale, le donne non solo vengono prevalentemente viste dagli altri in termini di attrattività fisica (Swim et al., 2001), bensì anche loro stesse tendono a valutarsi rispetto alla propria attrattività personale.

Tuttavia, far dipendere la propria autostima dall’aspetto fisico può avere conseguenze deleterie sia per l’autovalutazione stessa, che per l’immagine corporea, oltre ad incrementare il rischio di sviluppare un disturbo mentale (Breines et al., 2008; Crocker et al., 2002).

Alcuni ricercatori hanno concettualizzato l’autostima all’interno di aree o domini specifici, nei quali le persone tendono ad autovalutarsi, connotati da standard specifici da soddisfare per mantenere una visione positiva di sé (Crocker et al., 2002).

Secondo questo criterio, l’autostima globale dipende dai successi o dai fallimenti all’interno di uno o più domini legati alle circostanze (come le capacità accademiche), mentre può non essere influenzata da eventi che si verificano al di fuori dei domini contingenti. Infatti, una persona può sentirsi devastata da un fallimento accademico, ma relativamente indifferente alla sua mancanza di abilità atletica.

La letteratura ha identificato una serie di domini rispetto ai quali le persone, comunemente, basano la propria autostima, tra cui; competenza accademica, aspetto fisico, approvazione da parte di altri, status relazionale e sostegno familiare (Crocker et al., 2003).

Specifici domini di contingenza esercitano effetti unici sulla motivazione e sul comportamento individuale (Crocker et al., 2003).

Infatti, sulla base del dominio specifico rilevante per la propria autostima, le persone trascorrono il tempo in modo differente (ad esempio: l’autostima legata alla competenza accademica predice in modo univoco il tempo trascorso a studiare, mentre l’autostima contingente al sostegno familiare prevede specificatamente il tempo trascorso con la famiglia (Crocker et al., 2003).

Oltre al fatto che avere un’autostima contingente in qualsiasi dominio, può incidere negativamente sulla motivazione ed il benessere; domini specifici si legano ad esiti negativi. Infatti, l’autostima contingente accademica si associa univocamente a problemi accademici durante il college (Crocker & Luhtanen, 2003; Crocker & Park, 2004).

Similmente, tra coloro che si valutano in relazione all’apparenza estetica, l’autostima dipende dal soddisfacimento di standard estetici culturali, e ciò comporta lo spendere tempo e sforzi per migliorare la propria attrattività fisica (Crocker et al., 2003).

 Tuttavia chi ricerca un continuo miglioramento estetico è scarsamente soddisfatto del proprio aspetto ed ha un rischio maggiore di sviluppare un’immagine corporea distorta o di disturbi alimentari concomitanti (Overstreet & Quinn, 2012; Phillips et al., 2011; Sanchez & Kwang, 2007).

Inoltre, secondo le evidenze, l’autostima basata sull’apparenza estetica si associa ancor di più, rispetto ad altri domini di autovalutazione, ad una bassa autostima (Crocker et al., 2004; Crocker & Luhtanen, 2003).

In relazione all’autostima, è stato indagato il costrutto dell’oggettivazione sessuale. L’oggettivazione sessuale che separa il corpo o alcune sue parti dalla personalità individuale (Bartky, 2015), include comportamenti offensivi, come commenti sessuali, catcalling e sguardi oggettivanti.

Nelle società occidentali è più comunemente sperimentata dalle donne (ad esempio, Swim et al., 2001), spesso ritratte dai media con modalità enfatizzanti il loro aspetto fisico, anziché la loro personalità (Archer et al., 1983; Harper & Tiggemann, 2008).

La teoria dell’oggettivazione (Fredrickson, B. L., & Roberts, 1997) spiega come vivere tali esperienze, possa influire sulla salute delle donne che sono condizionate ad impegnarsi in un processo di auto-oggettivazione, vedendosi attraverso la lente di un osservatore oggettivante. Questo processo, fortemente condizionato dall’interiorizzazione degli standard di bellezza culturale, comporta esiti negativi, come ridotta soddisfazione e ansia verso il proprio aspetto fisico che viene maggiormente monitorato, aumento della vergogna corporea, una generale diminuzione del benessere e rischio di insorgenza di alimentazione disregolata(Breines et al., 2008; Fredrickson et al., 1998).

Date le evidenze che legano l’autostima associata all’apparenza e l’oggettivazione di sé, a maggiori preoccupazioni per l’aspetto fisico ed una peggiore autovalutazione di sé; Adams et al. (2017) hanno indagato la relazione tra autostima legata all’apparenza contingente e auto-oggettivazione; e quali conseguenze comportano sull’ansia del proprio aspetto fisico e per l’autostima.

I risultati confermano che l’autostima legata all’apparenza si associa positivamente all’auto-oggettivazione nelle donne; in quanto autovalutarsi in base all’aspetto fisico, potrebbe aumentare non solo l’esposizione a segnali oggettivanti sessualmente, ma cambiare il modo con cui queste situazioni vengono vissute, modellando gli stessi standard di attrattività che le donne con questo tipo di autostima, si sforzano di raggiungere.

Inoltre, sia l’auto-oggettivazione che l’ansia per la propria apparenza, spiegano il legame tra autostima legata al proprio aspetto fisico e bassa autostima.

Infatti, per le donne che basano la propria autostima sul rispetto degli standard culturali di attrattività, qualsiasi preoccupazione e ansia legata all’apparenza, comporta minore autostima.

Chi associa la propria autostima all’aspetto fisico, è probabile che sperimenti anche una maggiore auto-oggettivazione e ansia; ovvero percezioni negative legate alla propria apparenza, che comportano una riduzione dell’autostima generale.

Secondo questi risultati, le percezioni negative focalizzate sulla propria esteriorità (cioè l’auto-oggettivazione e l’ansia), potrebbero ridursi scindendo la valutazione di sé dall’aspetto fisico (Breines et al., 2008), anche se questo andrebbe verificato ed implementato in un contesto terapeutico.

In conclusione, il presente studio ha favorito una migliore comprensione dei processi che collegano l’autostima legata all’apparenza, con gli aspetti più percettivi (ovvero auto-oggettivazione e ansia dell’apparenza) e l’autovalutazione globale di sé.

 

Tornare a dormire. Una guida pratica per dormire meglio e superare l’insonnia (2021) di Federica Farina – Recensione del libro

Come promette il sottotitolo, il volume Tornare a dormire rappresenta uno strumento semplice, utile e concreto per poter “conoscere” l’insonnia, ma anche per iniziare a gestirla.

 

La scrittura chiara e molto diretta dell’autrice guidano il lettore passo passo, fornendo non solo informazioni e dati derivanti da studi internazionali, ma anche esercizi di riflessione, analisi e contenimento.

Il testo ci aiuta anche a riflettere su come la nostra società attuale sembra essersi dimenticata dell’importanza di un ritmo di vita compatibile con il nostro benessere.

Orari di lavoro serrati, richieste pressanti, aspettative poco chiare e spesso non autodeterminate, contribuiscono ad un malessere che per molti si riflette in disturbi legati al sonno.

Il libro, infatti, si apre con un dato di sicuro interesse: lo Studio Morfeo (condotto in collaborazione tra i Centri del Sonno di tutta Italia e i Medici di Medicina Generale) ha rilevato che il 60% dei pazienti che si rivolgono al medico di base riferiscono problematiche di insonnia.

La peculiarità dei disturbi legati al sonno è forse l’impotenza appresa che li contraddistingue.

Ogni sintomo, certamente, ci fa sentire impotenti e succubi di qualcosa che non possiamo controllare; ma in particolar modo il sonno è qualcosa che “ci sceglie” e sul quale sentiamo a volte di poter fare poco o nulla.

Riprendere coscienza della parte “attiva” che “giochiamo” in questo caso è fondamentale per poter migliorare il nostro sonno.

Il circolo vizioso che rischia di crearsi, infatti, è quello di pensare di non avere speranza, innervosirsi per questo, sforzarsi di trovare una soluzione poco organizzata e perpetuare questa tensione che, chiaramente, non aiuterà a sciogliere il nodo.

La lettura fornisce riflessioni interessanti che consentono all’insonne, ma anche a chi magari semplicemente si interessa al fenomeno, di contestualizzarlo in una cornice sociale, così da comprendere quanto dinamiche esterne e interne siano intrecciate.

La sempre maggiore diffusione di tablet e smartphone (schermi a luce blu) rappresenta un ulteriore tassello che ci spinge verso la riduzione di sonno.

Senza demonizzare questi strumenti, ormai parte integrante della nostra vita quotidiana, vale la pena riflettere su quale spazio dare loro, sia concreto che metaforico.

Gli schermi a luce blu, infatti, riducono la produzione di melatonina (l’ormone che regola il ciclo sonno veglia) e producono un’attivazione cognitiva, che influenza il benessere del sonno.

Ma oltre a questo dato “oggettivo”, possiamo facilmente immaginare che l’utilizzo dei social network, invece, produca un’attivazione emotiva che altrettanto contribuisce o per qualcuno potrebbe equivalere ad un disturbo per il sonno.

Il manuale Tornare a dormire, come detto in apertura, contribuisce con riflessioni guidate a farci prendere coscienza del nostro ambiente circostante e dell’uso funzionale o disfunzionale di oggetti, ambienti e attività. Il passo successivo, utile e immediato, è quello di suggerire pratiche concrete per poter riorganizzare il proprio tempo e spazio per tutelare il benessere del proprio sonno.

Una riflessione importante, trasversale al contenuto del testo, è la necessità di fornire una linea di demarcazione tra sonno e veglia, tra on e off: dobbiamo poter rivendicare il diritto a spegnerci, a riposare.

Soprattutto in questo periodo peculiare, nel quale giustamente la riflessione si spinge sempre di più sulla qualità del tempo, degli spazi, sui confini reali e mentali (per alcuni troppo stretti delle quattro pareti di casa, per altri troppo labili di un orario di lavoro che sembra essere diventato fluido, inteso come onnipresente) dobbiamo ritornare ad apprendere che possiamo e siamo in grado di tutelarci.

Prendere coscienza di “un’invasione di stimoli” e di quanto questi poi “agiscono” al nostro interno è il primo passo per poter organizzare una giornata (e, di conseguenza, una nottata) che tenga conto un po’ di tutti gli aspetti in gioco: la performance che non solo ci viene richiesta, ma che vogliamo anche in linea con i nostri valori portare avanti, i nostri desideri e anche i nostri bisogni fisiologici.

Una cosa non esclude l’altra.

Certamente dovremo e potremo incappare in qualche rinuncia o in qualche riorganizzazione, ma impareremo – come ci insegna provocatoriamente Elizabeth Bishop – che “l’arte di perdere le cose non è difficile da imparare”.

Si impara, purtroppo, a perdere il sonno, ma si impara anche – se guidati – a perdere le cause che lo hanno fatto allontanare da noi.

È interessante anche prendere coscienza di alcuni determinismi genetici, che distinguono gli esseri umani in “allodole” o “gufi”: persone più attive nelle prime ore del giorno, e persone invece più produttive verso le ore serali. Comprendendo la propria natura si può iniziare a combattere una giusta battaglia: si potrà infatti dedurre come non ci sia una verità universale (“Devi dormire 8 ore a notte / devi andare a letto prima delle undici” e così via), ma una verità corretta per ciascuno di noi.

Proprio come quando si segue un percorso terapeutico, si possono mettere a fuoco parti di se stessi e imparare ad accettarle.

Questo non significa avere una scusa per non agire (“Sono fatto così, cosa ci posso fare?”), ma avere una leva per toccare i punti giusti (“Sono fatto anche così, quindi cosa posso fare?”) e avvicinarci ad un benessere che potrà essere fluttuante, ma che sicuramente segnerà un nuovo inizio.

Tra gli strumenti utili per gestire e trasformare l’insonnia, oltre a tabelle strutturate e guidate per prendere coscienza di come e cosa facciamo, l’autrice suggerisce anche alcuni semplici esercizi di rilassamento e Mindfulness, che condividono un punto fondamentale: la consapevolezza.

Come più volte abbiamo scritto, non solo in questo testo, il punto di partenza è sempre il mettere a fuoco (o essere aiutati a farlo) se stessi: da lì inizierà il primo passo che ci porterà verso il nostro obiettivo.

 

Non ci credo facilmente: il lato psicologico delle truffe online

Nelle truffe online sono coinvolti sia elementi cognitivi (ad esempio, un eccesso di fiducia in un argomento specifico), sia fattori emotivo-motivazionali (ad es. la truffa innesca emozioni positive).

 

È questo il mondo in cui viviamo: la gente confida negli errori altrui per manipolarsi a vicenda e usarsi a vicenda”. E’ questo un estratto di un episodio della serie televisiva Mr Robot, basata sulla storia di un ingegnere informatico avvicinatosi ad un gruppo di hacktivisti (‘hacker’ e ‘attivisti’), che usano il loro “saper fare” per liberare il mondo dai “potenti” manipolatori.

Internet, infatti, è come due facce di una stessa medaglia: da un lato crea opportunità, dall’altro genera spazi deputati al cosiddetto “dark web”. Nel dark web, invero, rientrano i crimini informatici, tra cui le truffe online. Le truffa sfrutta la potente viralità del web e raggiunge pool di “vittime” più ampie delle truffe tradizionali (Mann e Sutton, 1998; Shields 2005). Ma perché è facile cascare nelle truffe online, sebbene, a volte, ci si ritiene “immuni”?

Levi e Burrows (2008) rilevano che pochi studi sulle truffe online sono derivati da analisi accademiche o professionali (Levi e Burrows 2008: 296). Ad esempio, alcuni studi si sono focalizzati specialmente sulle tecniche persuasive impiegate da truffatori di massa. Non esiste, però, una teoria solida che esamina esplicitamente il fenomeno della truffa online di massa. Così, gli studiosi tendono a sostenere il fenomeno sulla base di teorie della psicologia sociale e della psicologia della comunicazione. In particolare, questi campi teorici sono utili nell’esaminare le tecniche persuasive alla base di una comunicazione fraudolenta online.

Lea et al. (2009) offre un approccio più completo per comprendere ciò che, ad ora, si potrebbe chiamare “la psicologia delle truffe”. Gli autori sostengono che, cadere in una truffa, è il risultato di un errore durante il processo decisionale, che scaturisce dalla creazione delle situazioni di truffa (la cosiddetta “offerta di truffa”) Nella loro serie di studi, gli autori hanno scoperto che sono coinvolti sia elementi cognitivi (ad esempio, un eccesso di fiducia in un argomento specifico), sia fattori emotivo-motivazionali (ad es. la truffa innesca emozioni positive). I risultati sono sorprendenti perché gli autori hanno riscontrato che persone più attente all’“autorità” e con emozioni positive legate a premi o benefici possono essere, con più facilità, potenziali vittime. Ad esempio, se nell’offerta si usano persone o istituzioni riconosciute, insieme a possibili vincite di premi, la suddetta truffa potrà agganciare più vittime sensibili all’autorità e con emotività positive legate al guadagno.

Alcuni degli errori decisionali, comunque, non sono altro che il risultato di strategie di marketing utilizzate anche da chi mette su una truffa online, come la strategia del “piede nella porta”, che consiste nel chiedere alla vittima un impegno, non troppo oneroso, per poi fare richieste sempre più impegnative. Essenzialmente, questa tecnica, etichettata da Freedman e Fraser (1966), spiega che le persone che rispettano la prima piccola richiesta sono inclini a soddisfare le richieste successive, quelle più onerose, a causa del loro desiderio di rimanere coerenti.

Sempre all’interno del processamento dell’informazione, con conseguente decisione, si inserisce il modello classico di Petty e Cacioppo (1986) sulla Probabilità di Elaborazione (ELM). Il modello di Probabilità di Elaborazione spiega, infatti, come si cambiano gli atteggiamenti attraverso due vie di persuasione: la via centrale e il percorso periferico. Il percorso centrale richiede una grande quantità di pensiero critico e favorisce quindi un’elevata elaborazione. I processi afferenti al percorso periferico, al contrario, non implicano un’elaborazione approfondita. Gli individui che elaborano le informazioni utilizzando la via centrale lo fanno perché il messaggio è importante e sono, quindi, motivati ad impiegare adeguate risorse cognitive. Coloro che utilizzano la via periferica lo fanno per motivi personali o a causa della debolezza dei canali di informazione. Attingendo a questo modello, Rusch (1999) sostiene che i truffatori si affidano alla via periferica, suscitando forti emozioni, come l’eccitazione e la paura.

A questo proposito, la domanda da porsi sarebbe: come si possono combattere le truffe online? Accanto al forte apparato legislativo, l’intervento della psicologia potrebbe essere quello di studiare quali sono quelle caratteristiche, non solo persuasive, ma anche linguistiche e comunicative per dotare le persone nell’acquisizione di competenze di pensiero critico, sempre più raffinato, in relazione all’evoluzione tecnologica.

 

Quale relazione intercorre tra DOC e Psicosi: una rassegna sistematica delle linee di pensiero ad oggi esistenti (2020)

La relazione che intercorre tra Disturbo Ossessivo Compulsivo e Psicosi è un argomento di dibattito psicopatologico e nosografico che risale al XIX secolo (Berrios, 1989). 

 

Le prime ipotesi di tale relazione risalgono alle osservazioni effettuate da Westphal (1878), il quale descrisse l’irrazionalità dei sintomi ossessivi, che talvolta sembravano veri e propri sintomi psicotici. Successivamente Bleuler (1911), affermò che la sintomatologia ossessiva poteva essere un fattore prodromico per l’insorgenza della Schizofrenia.

Da un punto di vista storico, secondo la prospettiva Psicoanalitica, i sintomi ossessivi compulsivi dei pazienti DOC, rappresenterebbero una barriera, una difesa, nei confronti dei sintomi psicotici, a fine di impedire una “disintegrazione psicotica” (Stengel, 1945; Dowling, 1995).

Karl Jasper (1913), uno psichiatra del 900, riportò che quando venivano a manifestarsi dei forti stati emotivi della Personalità Anancastica (Personalità Ossessiva), essi potevano trasformarsi in veri deliri per brevi periodi.

Sebbene l’emergere di tali ipotesi sia stato un notevole passo avanti nell’approfondimento di tale disturbo, per diverso tempo la Psichiatria e la Psicologia hanno utilizzato un approccio puramente categoriale per fornire una distinzione netta tra i vari disturbi; ad oggi, però, al fine di approfondire le complesse dinamiche che intercorrono tra i sintomi ossessivi e i sintomi psicotici, sta emergendo un approccio più dimensionale e dinamico (Giannelli, 1998), portando la letteratura odierna in contrasto. Di fatto, ai giorni odierni, non vi è ancora un pensiero unanime in merito alla demarcazione tra il Disturbo ossessivo compulsivo e i disturbi dello Spettro Schizofrenico, che include schizofrenia, altre tipologie di psicosi e Disturbo Schizotipico di Personalità (SPD) (Rasmussen, Nordgaard & Parnas, 2019).

Vi sono di certo determinate differenze che emergono tra i DOC con manifestazioni psicotiche e DOC puri, senza manifestazioni psicotiche. È emerso che i DOC con manifestazioni psicotiche, hanno un’età d’esordio della patologia DOC più precoce, sono caratterizzati da una maggiore sintomatologia depressiva, presentano un funzionamento nelle aree più importanti maggiormente più compromesso, all’interno del contesto familiare del paziente vi è una storia di DOC, la risposta al trattamento farmacologico scarsa e soprattutto un decorso generalmente cronico, inoltre, è stato notato che di norma sono specifiche tipologie DOC che manifestano psicosi, quali i DOC di accumulo, somatici e di controllo (Eisen & Rasmussen, 1993; Kishore et al., 2004; Bellino et al. 2005; Alonso et al., 2008). Inoltre, un altro fattore che caratterizza tale tipologia di pazienti, sarebbe la presenza di uno scarso insight (Marazziti et al., 2002; Turksoy et al., 2002). Con il termine insight, viene definita la capacità del paziente di giudicare e riconoscere come irrazionali i pensieri ossessivi e i comportamenti compulsivi, facendo sì che esso li riconosca come ego-distonici portandolo così a lottare contro di essi (Marazziti et al., 2002; Turksoy et al., 2002). Vi sarebbe inoltre un’alta comorbilità con il Disturbo di Personalità Schizotipico (DPS), che sembrerebbe essere presente all’interno della popolazione DOC con manifestazioni psicotiche (Jenike, 1986; Bear & Jenike, 1990). Oltretutto, a livello cognitivo, il DOC con manifestazioni psicotiche si differenzia anche per una maggiore presenza di disturbi cognitivi del pensiero e della percezione, in particolare in riferimento alla strutturazione logica del pensiero e all’elaborazione sensoriale (Ganesan, Kumar, & Khanna, 2001; Pelizza & Pupo, 2015).

Come riportato nel libro “La mente ossessiva” di Mancini (2016), vi sono attualmente tre linee di pensiero per quanto concerne la relazione che intercorre tra DOC e psicosi.

La prima linea suggerisce che il DOC psicotico possa rappresentare un sottotipo di schizofrenia. Pertanto il DOC con manifestazioni psicotiche, rientrerebbe nello spettro schizofrenico e non in quello DOC (Sevincok, L., Akoglu, A., & Arslantas, 2006). La seconda linea di pensiero sostiene che il DOC psicotico sia un sottotipo di DOC, ponendolo al limite del continuum tra forme lievi e forme gravi (Insel & Akiskal, 1989). La terza linea di pensiero è quella della comorbilità. Essa fa riferimento ai sistemi nosografici tradizionali, pertanto quando il disturbo ossessivo-compulsivo manifesta sintomi psicotici, prevalentemente deliri, è più opportuno porre una diagnosi di Disturbo Delirante o Disturbo Psicotico non altrimenti specificato in comorbilità con il DOC. Per riassumere, tale posizione implicherebbe che vi fosse la presenza contemporanea del Disturbo ossessivo-compulsivo e di una Psicosi, o tratti psicotici (Nelson, 2014). Attualmente, sembrerebbe che la linea di pensiero che maggiormente viene seguita è quella della comorbilità. Infatti una comorbilità tra il Disturbo ossessivo-compulsivo e Disturbi Psicotici o tratti di quest’ultimi, farebbero in modo che il DOC venisse a manifestare tratti accentuati della patologia psicotica, quali uno scarso insight, una maggiore bizzarria e credenze ossessive “anormali” (Mancini, 2016).

Uno studio svolto da Pelizza e Pupo, nel 2013, ha fornito la possibilità di indagare maggiormente le linee di pensiero sopra esposte e le differenze che emergevano tra i DOC con manifestazioni psicotiche e DOC puri. Di fatto, esso indagava i rapporti che vi erano tra ossessioni, sintomi psicotici, ansia, depressione e tratti di personalità, in un campione di DOC, a fine di verificare quali variabili differenziavano un DOC “tipico” (senza manifestazioni psicotiche), da un DOC “atipico” (ossia con manifestazioni psicotiche”). Inoltre, tale studio, indagava se la sotto-popolazione ossessiva che presentava manifestazioni psicotiche, fosse un sottotipo specifico di DOC. Il fine era quello di discutere la collocazione nosografica del Disturbo ossessivo-compulsivo con manifestazioni psicotiche, confrontando le due posizioni contrastanti di Insel e Akiskal (1986), i quali lo ponevano all’estremità clinicamente più grave dello spettro del DOC, con la posizione di Bogetto e colleghi (1999), i quali, al contrario, lo consideravano come una particolare condizione clinica appartenente all’area schizofrenica, posizione affine alla prima linea di pensiero esposta precedentemente.

Per quanto concerne la sintomatologia ansiosa, depressiva e i tratti della Personalità, è emerso quanto segue. Il gruppo di pazienti DOC atipici presentavano un sintomatologia depressiva maggiore. Vi sono due spiegazioni che vengono esposte per tale aspetto. La prima è che la sintomatologia depressiva sarebbe un fattore che favorirebbe l’insorgenza di deliri, di fatto a livello cognitivo, il pensiero malinconico, la bassa autostima, insieme al senso di colpa, che sarebbero alla base dei timori paranoidei di tali pazienti, aumenterebbero la probabilità di tale manifestazione (Insel & Akiskal, 1986; Cazzullo, 1993). Al contrario, la seconda spiegazione implicherebbe che la sintomatologia depressiva si manifesterebbe come conseguenza all’insorgenza di deliri, quindi vi sarebbe un’associazione maggiore tra l’insorgenza dei fenomeni psicotici e un aumento dei pensieri malinconici che vengono amplificati in seguito (Eisen & Rasmussen, 1993). Per quanto concerne la sintomatologia ansiosa, al contrario, i DOC atipici, presentavano minori livelli d’ansia (Pelizza e Pupo, 2013).

Questo aspetto viene spiegato da O’Dwyer e Marks (1999), in quanto i pazienti DOC atipici, vivrebbero in maniera distaccata i pensieri intrusivi che presentano, e per tale motivo, a causa dell’assenza di consapevolezza del controllo, tali pensieri vengono vissuti con poca ansia, non ponendo nessun tipo di resistenza o mettendo in atto comportamenti compulsivi. Per quanto concerne la Personalità, è emerso che tali pazienti presenterebbero principalmente una Personalità Schizotipica e anche Schizoide, pertanto riferibile allo Spettro Schizofrenico (Pelizza & Pupo, 2013). È importante riportare che, di fatto, le caratteristiche del Disturbo Schizotipico di Personalità, quali pensiero magico, idee di riferimento, sospettosità, ideazione paranoide ed esperienze percettive insolite, sono caratteristiche che aumentano la probabilità di sviluppare una sintomatologia psicotica, quali ad esempio deliri (Chapman & Chapman, 1988). Per concludere, l’obiettivo di ricerca di andare a indagare a livello nosografico la collocazione del DOC con manifestazioni psicotiche, ha portato i ricercatori a non supportare l’idea di Insel e Akiskal (1986) in quanto il Disturbo di Personalità Schizotipico viene riconosciuto all’interno dello Spettro Schizofrenico. Per tale motivo, è stata supportata maggiormente l’idea di Bogetto e colleghi (1999), collocando il DOC atipico come sottogruppo di Schizofrenia, considerando l’alta comorbilità con il DSP e la collocazione di quest’ultimo all’interno dello Spettro Schizofrenico. Per questo motivo la manifestazione ossessiva potrebbe essere considerata un fattore prodromico, antecedente all’insorgenza dei sintomi psicotici (Hoch & Polatin, 1949; Pelizza & Pupo, 2013).

Per quanto tale linea di pensiero potesse dimostrarsi veritiera, vi sono delle distinzioni tra il DOC e la Schizofrenia che non possono essere ignorate, marcando maggiormente la distinzione tra questi due disturbi. Determinate considerazioni pubblicate nell’Asian Journal of Psychiatry (2019) sostengono la presenza di una sovrapposizione tra DOC e Schizofrenia (Poyurovsky et al., 2012) evidenziando come, da un punto di vista fenomenologico, le ossessioni possano essere facilmente scambiate per deliri (e viceversa) e come determinati sintomi schizofrenici possano essere scambiati per compulsioni. Per questo motivo vengono proposti alcuni suggerimenti utili al fine di distinguere maggiormente le ossessioni, caratteristiche del DOC, e i deliri, presenti nelle psicosi. Essi si differenziano per: (1) Contenuto: un esempio possono essere le ossessioni di contaminazione vs. i deliri persecutori; (2) Insight: che è presente nel DOC e assente nella schizofrenia; (3) Convinzione: correlata all’ansia vs. convinzione paranoidea associata al delirio; (4) Percezione: intatta vs. delirante; (5) Comportamenti: rituali vs. deliri.

In egual modo l’articolo propone un’ulteriore differenziazione tra le compulsioni, tipiche del paziente con DOC, e le tipiche espressioni motorie presenti nel Disturbo Schizofrenico. Esse si distinguono in quanto le compulsioni sono caratterizzate da un controllo messo in atto dalla persona con una precisa funzione volta alla soppressione dell’ansia, al contrario, le azioni motorie tipiche del Disturbo Schizofrenico sono caratterizzate, invece, da una stereotipia priva di fondamento (Tonna et al., 2016; Bener et al., 2018). Per tale motivo, includere il DOC con manifestazioni psicotiche come sottotipo all’interno del Disturbo Schizofrenico sembrerebbe azzardato, in quanto come esposto in precedenza questi disturbi sarebbero caratterizzati da alcune peculiarità specifiche. Infatti, emerge con altrettanta veridicità, dallo studio di Pelizza e Pupo (2013), che i pazienti DOC con manifestazioni psicotiche, verrebbero inclusi come sotto-tipo di DOC, ma essi presenterebbero specifiche caratteristiche, come quelle elencate precedentemente, che possono portare l’individuo a manifestare una sintomatologia psicotica.

Come sopra esposto, l’ultima linea di pensiero è quella della comorbilità. È stato dimostrato che il 32-92% di pazienti che presentano una diagnosi DOC, presentano un disturbo in comorbilità, che generalmente è un Disturbo d’ansia, un Disturbo depressivo, Schizofrenia, o un Disturbo della Personalità (Lochner et al., 2014; Brakoulias et al., 2017). In merito a quest’ultimo aspetto, il Disturbo della Personalità Schizotipico, per quanto non sia il più frequente tra i vari DP, di certo presenta una notevole incidenza di percentuale con il DOC, che varia tra il 5-50% (Sobin, 2000; Mataix-Cols, 2018). Per tale motivo, e per quelli elencati in precedenza, tale comorbilità tra il DOC e DSP, merita una notevole attenzione.

Nel manoscritto ad opera di Attademo e Bernardini (2020) l’obiettivo è quello di analizzare i risultati presenti in letteratura riguardo al rapporto tra il Disturbo Schizotipico di Personalità (SPD) o tratti di esso (SPT) e il DOC. Questa revisione ha trovato differenze significative nelle caratteristiche cliniche e psicopatologiche dei pazienti con e senza SPD / SPT, supportando così la validità clinica di un “DOC Schizotipico”. In particolare, i pazienti DOC con SPD / SPT hanno mostrato tassi più elevati di ossessioni autogene, sessuali, religiose e di ordine o simmetria (Çeşmeci et al., 2017; Brakoulias et al., 2014; Rasmussen et a., 2013; Lee et al., 2010) e livelli più alti di ordinamento / organizzazione, conteggio e controllo (Brakoulias et al., 2014; Sobin et al., 2000). Hanno anche mostrato una maggiore gravità delle ossessioni (Dadashzadeh et al., 2013; Yamamoto et al., 2012) e una maggiore compulsività comportamentale in generale (Melca et al., 2015). Inoltre, la comorbidità con altri disturbi psichiatrici è risultata comune nel DOC Schizotipico con caratteristiche psicotiche o esperienze simil-psicotiche (Pelizza et al., 2013; Poyurovsky et al., 2008; Stanley et al., 1990), ridotto livello di funzionamento generale (Rasmussen et al., 2019; Poyurovsky et al., 2008) e psicopatologia generale più ampia (Brakoulias et al., 2014).

La maggior parte degli studi di questa revisione ha riportato che SPD / SPT ha avuto un impatto significativamente negativo sul decorso del DOC e ha predetto una scarsa risposta ai trattamenti psicofarmacologici e comportamentali standard nei pazienti con DOC.Quasi sempre SPD / SPT nei pazienti con Disturbo ossessivo compulsivo erano forti predittori clinici di decorso cronico, resistenza al trattamento, tasso di recupero inferiore o prognosi sfavorevole in generale (Perris et al., 2019; Çeşmeci et al., 2017; Dinne t al., 2014; Huang et al., 2011; Steketee et al., 2011; Poyurovsky et al., 2008; Capatano et al., 2006; Fricke et al., 2006; Pantusa et al., 2006; Moritz et al., 2004; Matsunaga et al., 2002; Dreessen et al., 1997; Ravizza et al.m 1995; Orloff et al., 1994; Eisen et al., 1993; Fals-Stewart et al., 1993; Maina et al.m 1993; Baer et al., 1992; Mavissakalian et al., 1990; Baer et al., 1990; Minichiello et al., 1987; Jenike et al., 1986). Uno studio condotto da Lee, Cougle e Telch (2005) ha dimostrato che una caratteristica principale del DOC è la credenza fusione pensiero-azione, e che tale credenza viene maggiormente irrigidita quando vi sono tratti schizotipici in comorbilità.

In uno studio condotto da Tulaci e collaboratori (2018) si è voluto analizzare il rapporto tra le abilità di Mentalizzazione (ToM) e il DOC caratterizzato da scarso insight, i risultati mostrano che: a) i punteggi ToM confrontati tra i gruppi di pazienti DOC e sani hanno mostrato che tutti i punteggi erano significativamente inferiori nei gruppi di pazienti DOC (p <.05); b) i punteggi del test ToM tra il gruppo con buon insight e i controlli sani non mostrano differenze significative per quanto riguarda la falsa credenza di primo e secondo ordine o i punteggi del test di lettura della mente negli occhi (p>. 05); c) in generale, tutte le prove ToM riportano risultati significativamente più bassi in soggetti con DOC rispetto al gruppo di controllo. Sayin e collaboratori (2010) hanno riportato che la performance dei pazienti con DOC è peggiore in tutti gli esercizi ToM rispetto al gruppo sano, arrivando ad essere significativamente peggiore negli esercizi avanzati (es “double-bluff test”), mentre nello studio attuale erano significativamente peggiori anche gli esercizi basici e non solo quelli avanzati. Si arriva dunque alla conclusione che se l’insight è compromesso, le capacità di mentalizzazione lo sono di conseguenza (Tulaci et al., 2018). Dalla prospettiva dei risultati di diversi studi annessi (Matsunaga et al., 2002; Catapano et al., 2010; Bellino et al., 2005; Catapano et al., 2001; Aigner et al., 2005; Poyurovsky et al., 2008) emerge che per i pazienti DOC con scarso insight, le carenze nelle abilità di ToM possono essere un endofenotipo caratteristico, proprio come lo sono per lo Spettro della Schizofrenia. Infatti, il tasso di Disturbi dello Spettro della Schizofrenia nelle famiglie del gruppo DOC con scarso insight, era nettamente superiore a quello del gruppo avente un buon insight, rispettivamente 29,2% confronto a 3,6% (differenza statisticamente significativa p = 0,002).

Uno studio del 2020 (Thamby, et al., 2020) riporta che fino alla metà dei pazienti con Disturbo ossessivo-compulsivo dimostrano alcuni tratti schizotipici. Lo stesso studio evidenzia inoltre, anche una certa sovrapposizione nei criteri diagnostici di DOC e SPD – Disturbo Schizotipico di Personalità. I due disturbi risultano avere i seguenti criteri diagnostici in comune: (1) Pensiero magico; (2) Ossessioni aggressive e/o sessuali; (3) Distorsioni dell’immagine corporea.

Uno studio di F. Perris (Perris et al., 2019) si propone di analizzare le caratteristiche cliniche e socio-demografiche dei pazienti con Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) in comorbidità con il Disturbo Schizotipico di Personalità (SPD), nonché il tasso di risposta ai trattamenti farmacologici. Risulta che i pazienti con DOC, in comorbidità con il SPD, abbiano un’età più giovane all’esordio, una maggiore probabilità di avere sintomi ossessivo-compulsivi più gravi, un più alto tasso di disturbi appartenenti Spettro della Schizofrenia nei loro parenti di primo grado, e una risposta più scarsa al trattamento rispetto ai pazienti con sola diagnosi di Disturbo ossessivo compulsivo. Durante il periodo di follow-up di 3 anni, questi pazienti hanno mostrato un tasso di recupero inferiore, richiedendo quindi un aumento della dose di diversi farmaci psicotropi, compresi gli antipsicotici. I risultati dello studio suggeriscono che la comorbidità di DOC e SPD provoca una scarsa risposta al trattamento e una ridotta probabilità di recupero utilizzando le strategie di trattamento farmacologico standard.

Per concludere, la letteratura odierna si trova ad oggi ancora in contrasto in merito alla relazione che intercorre tra DOC e Psicosi. Pertanto, sebbene l’ultima linea di pensiero, ossia quella della comorbilità, sembra essere attualmente quella maggiormente riconosciuta, si ipotizza che in futuro la relazione tra questi due disturbi verrà approfondita maggiormente.

 

Zimbardo: memorie di uno psicologo (2017) a cura di Daniel Hartwig – Recensione del libro

Ho impiegato diverso tempo a leggere il libro di Daniel Hartwig Zimbardo: memorie di uno psicologo. Non per la lunghezza del testo o per la noia, affatto, ma perché gli spunti di riflessione sono tantissimi.

 

Parla di esperimenti e teorie che vuoi andare a ricercare, conoscere, verificare. Impossibile quindi non appassionarsi ad uno dei tanti argomenti studiati dallo psicologo Philip Zimbardo, americano ma di origini siciliane, nel corso della sua carriera. Zimbardo stesso infatti dice di sé: “in un certo senso, sono sempre stato eclettico, forse addirittura eccentrico – l’aspetto positivo di tale atteggiamento è che fa di me un “generalista”, nel senso che sono sempre interessato a tutto”.

Il libro, trascrizione di un’intervista che rientra nel Programma di storia orale della Stanford Historical Society, ripercorre la vita del noto psicologo ricordando eventi sia privati che lavorativi mischiati a interessanti informazioni sulla storia e lo sviluppo della psicologia sociale.

La fama di Zimbardo, come molti sapranno, è riconducibile al famoso esperimento della prigione di Stanford che ha gettato le basi per la comprensione dei fenomeni sociali legati alla malvagità quali la Shoah o Abu Ghraib. Secondo Zimbardo le persone non nascono con predisposizioni malvagie ma, in determinate condizioni, chiunque di noi potrebbe impazzire. Inoltre, il ruolo che si ricopre nei vari contesti, spiega il comportamento messo in atto: se sei una guardia devi fare rispettare le regole che il sistema ha scritto. Oltretutto secondo Zimbardo “il potere è divertente. Il potere è dominio. Significa avere il controllo sugli altri. Dici alle persone cosa devono fare e loro lo fanno”; motivo in più per cui, anche persone “buone” potrebbero seguire, senza opporsi, quelle “cattive” specialmente se il potere è legittimato.

Nel corso degli anni Zimbardo ha cercato di sganciarsi dall’etichetta attribuitagli di Dr. Evil. Di certo i suoi capelli neri e il pizzetto a triangolo non l’hanno aiutato. Mancano solo gli occhi rossi e il forcone perché diventi l’incarnazione perfetta di Lucifero! E questo lo sa anche lui. E allora, giustamente, si è fermato a pensare: ma se si conoscono le dinamiche della malvagità magari si possono comprendere anche quelle della bontà. Da qui l’inizio del progetto Heroic Imagination Project (HIP), tutt’ora in atto. Si tratta di trasformare in positivo ciò che si è appreso dagli studi sui pregiudizi, sull’effetto spettatore, sulla discriminazione, sulle dinamiche di gruppo e tanti altri. Il programma ha l’obiettivo di allenare le persone ad agire in maniera eroica.

Tra i vari argomenti che lo psicologo di Stanford ha trattato sono da segnalare anche quelli sulla vergogna attraverso lo Stanford Shyness Project e sulla percezione del tempo con la Time Perspective Therapy.

Potete poi sbizzarrirvi ad approfondire i vari argomenti che semplicemente cita. Tra i tanti, le ricerche di Tversky e Kahneman sul processo decisionale, la storia di Jim Jones leader della congregazione del Tempio del Popolo o l’esperimento dell’insegnante Jane Elliot sulla discriminazione.

In tutta sincerità quello che ricordavo su Zimbardo era essenzialmente legato all’esperimento della prigione di Stanford e leggere l’intervista è stata veramente una bella scoperta. Forse è vero che il male vende più del bene e che essere un supereroe costa sicuramente fatica. Ma è possibile. Date un’occhiata al sito: troverete Zimbardo con una splendida t-shirt di Superman ma con la Z al posto della S… da Lucifero a Superman insomma.

 

Riprendersi la vita. Dal trauma della malattia al Ben Essere dopo la guarigione (2017) di Elisa Faretta

Elisa Faretta, psicologa e psicoterapeuta, vista la crescente richiesta di supporto a causa di patologie organiche di questi ultimi anni, illustra in questo testo divulgativo l’utilità della terapia EMDR nell’ambito della psiconcologia in maniera pratica e di facile comprensione anche per i non addetti ai lavori. 

 

 Qualsiasi forma di malattia, mentale o fisica, ha un impatto traumatico sulla persona. L’esordio di una patologia come il cancro comporta, nella maggior parte dei casi, una dolorosa frattura nella vita di una persona e di coloro che le sono vicini: è tipica la distinzione tra un prima ed un dopo per chi ha vissuto un evento traumatico, che modifica il modo in cui una persona percepisce sé stessa e il mondo. Numerose ricerche evidenziano come i soggetti colpiti da malattia neoplastica possano sviluppare disturbi riconducibili ad una sintomatologia post-traumatica, oltre che a forme di meccanismi di difesa come il diniego della malattia, spesso fonte di stress cronico. Quest’ultimo influenza, non solo il nostro benessere psicologico, ma anche quello fisico incrementando i processi infiammatori.

Il metodo EMDR, nell’ottica di una prospettiva di medicina integrata, potenzia la resilienza e le risorse interne del paziente, modula lo stress e, al contempo, attiva processi biologici che migliorano la risposta alle terapie; può inoltre aiutare il paziente oncologico a riallacciare un’alleanza con il suo quotidiano, le sue risorse e svelare un potenziale impensato nel qui ed ora. Anche se la sua applicazione in ambito oncologico è relativamente recente, ha dimostrato fin dal principio una grande efficacia.

 Il trattamento EMDR, che ha come nucleo fondante il modello dell’elaborazione adattiva dell’informazione (AIP), è una terapia “evidence-based”, cioè scientificamente validata da ricerche di tipo neuropsicologico attraverso varie tecniche come la TAC, la PET e la risonanza magnetica funzionale. Esso consiste nell’esplorazione delle pregresse esperienze soggettive e nell’elaborazione adattiva, tramite scomposizione e ricostruzione, di ricordi traumatici disadattivi che potrebbero altrimenti provocare ulteriori sofferenze ed un aggravamento del quadro sintomatologico. Al contempo modula la risposta del sistema immunitario, questo accade perché il sistema nervoso reagisce con notevole plasticità alle sollecitazioni a cui è sottoposto e si riorganizza migliorando le proprie funzioni.

Dato che la neoplasia, considerata come evento traumatico, presenta caratteristiche molto specifiche, l’autrice e i suoi collaboratori hanno ideato un protocollo EMDR appositamente studiato per le conseguenze psicologiche legate alla patologia tumorale che tenga conto dei diversi stadi della malattia. In tutte le fasi il supporto va ai pazienti oncologici, così come ai loro familiari e a tutti coloro che sono in stretto contatto con loro.

L’autrice accompagna il lettore verso la consapevolezza che si possa intervenire sulla sofferenza per ricercare una condizione di maggiore BenEssere. Il volume affianca ad una parte teorica numerose testimonianze dei pazienti: storie di malattia, di dolore, di rabbia, ma anche di rinascita, di speranza, di consapevolezza; storie di resilienza e coraggio, insomma storie di vita.

 

Il ruolo dello psicologo nella gestione dell’obesità

Nel trattamento dell’obesità la figura dello psicologo ha un ruolo sommariamente marginale: limitato unicamente alla fase di assessment, tramite colloquio clinico e valutazione psicometrica, e all’individuazione di eventuali fattori di controindicazione per la chirurgia bariatrica.

 

 L’obesità è definita come una patologia cronica multifattoriale di natura metabolica e neuroendocrina, non psicopatologica; motivo per cui spesso viene trascurato il ruolo cruciale dei fattori emotivi connessi a tale condizione clinica (Dalle Grave, Sartirana, El Ghoch & Calugi, 2019). La prevalenza di tale patologia nell’ultimo cinquantennio è triplicata: stimando circa 650 milioni di casi con obesità su scala mondiale (WHO, 2020) e con il 9,8% di soggetti maggiorenni nella popolazione italiana, con una notevole disparità di genere (28,3% maschi, 21,3% femmine; ISTAT, 2016).

La gestione preventiva e mirata del fenomeno risulta, dunque, essenziale sia per migliorare la qualità di vita dei pazienti, sia per ridurre le relative comorbilità psicofisiche e i conseguenti costi per la sanità pubblica (Schutz et al., 2019). Lo stato dell’arte attuale della letteratura scientifica sul trattamento dell’obesità attribuisce alla figura dello psicologo un ruolo sommariamente marginale: limitato unicamente alla fase di assessment, tramite colloquio clinico e valutazione psicometrica, e all’individuazione di eventuali fattori di controindicazione per la chirurgia bariatrica. Sia le linee guida internazionali evidence-based per il trattamento dell’obesità negli adulti (Semlitsch, Stigler, Jeitler, Horvath, & Siebenhofer, 2019), sia le indicazioni fornite dalla Società Italiana dell’Obesità (SIO), ribadiscono la necessità di un trattamento in équipe multisciplinare, all’interno della quale i vari specialisti possano operare in maniera mirata, sinergica e collaborativa (Sbraccia et al., 2016). Nonostante ciò, il ruolo effettivo attribuito allo psicologo non assume ancora la centralità necessaria; infatti in letteratura non sono ancora presenti pubblicazioni che attestino il consenso dello psicologo nel trattamento dell’obesità; in quanto questa figura viene coinvolta solo quando si presentano quadri clinici con comorbiltà conclamate (es. gravi disturbi alimentari), per interventi brevi e focalizzati (Donini et al., 2016).

La letteratura è concorde nell’affermare che una variabile cruciale, ai fini del trattamento, è la motivazione del paziente al cambiamento: al quale viene richiesto di scardinarsi dal suo precedente stile di vita e dalle consolidate abitudini quotidiane, vissute ormai alla stregua di automatismi. Risulta, dunque, fondamentale innescare un solido ingaggio terapeutico a partire dalle prime fasi (Dansinger, Gleason, Grifth, Selker, & Schaefer, 2005; Makris & Foster, 2011).

 Nei programmi riabilitativi attuali per il trattamento dell’obesità risulta totalmente carente l’analisi dei processi cognitivi sottostanti che possono inficiare l’aderenza del paziente al cambiamento. Si tratta di un limite estremamente impattante e iatrogeno, che può implicare la perdita d’efficacia di tutti gli altri interventi implementati all’interno di un’équipe multidisciplinare (Calugi et al., 2020). A tal proposito molteplici trial clinici, eseguiti in Italia nell’ultimo quindicennio, hanno dimostrato che molti processi cognitivi sono significatamene associati al drop-out; per svariate motivazioni tra cui: obiettivi terapeutici troppo elevati (es. aspettative perdite di peso maggiori o insoddisfazione dei risultati raggiunti), eccessiva restrizione cognitiva o difficoltà nel mantenimento del peso (Calugi, Marchesini, El Ghoch, Gavasso, & Dalle Grave, 2017; Marchesini, Marzocchi, & Dalle Grave, 2006).

Un fattore che si è rivelato notevolmente iatrogeno è stato la continua riduzione semplicistica alla mancanza di volontà del paziente come unico ostacolo alla buona riuscita del trattamento, senza minimamente analizzare le emozioni e le cognizioni connesse alla sua condizione; esacerbando, dunque, stigma e sensi di colpa preesistenti (Carels, Cacciapaglia, Douglass, Rydin & O’Brien, 2003). Negli ultimi anni la ricerca ha ripetutamente focalizzato l’attenzione su quanto l’incombenza dello stigma interiorizzato vada a incrementare la frequenza di comportamenti disfunzionali quali: episodi di abbuffate, riduzione dell’esercizio fisico, ritiro sociale e soprattutto evitamento della richiesta d’aiuto a specialisti (Puhl, Himmelstein, & Quinn, 2018).

Risulta, dunque, evidente che la mera psico-educazione sui comportamenti salutari da adottare non risulta sufficiente per affrontare la complessità di tali quadri clinici; a tal proposito risulta necessario ed urgente riconsiderare e nobilitare il ruolo dello psicologo nel trattamento multidisciplinare dell’obesità; in quanto è l’unico a detenere le competenze specifiche per comprendere, riconoscere e affrontare la complessità dei processi cognitivi sottostanti al quadro clinico. Risulta opportuno ribadire che le competenze richieste per il trattamento specifico dell’obesità non sono quelle di uno psicologo generico, bensì di chi abbia ricevuto una formazione specifica nell’ambito; finalizzata alla conoscenza approfondita del fenomeno e delle sue complicanze mediche e psicosociali. Tale formazione necessita un notevole dinamismo e costante aggiornamento, al fine di aiutare il paziente ad affrontare tutti gli aspetti di natura emotiva, cognitiva e comportamentale connessi alla perdita e al mantenimento del peso (Calugi et al., 2021).

 

La prevenzione del declino cognitivo: il ruolo delle nuove app

La maggiore aspettativa di vita degli ultimi decenni ha aperto una sfida per la sanità: garantire una buona qualità di vita durante l’invecchiamento. In questa sfida riveste un ruolo centrale la prevenzione ed il rallentamento del declino cognitivo.

 

 Recentemente sono stati pubblicati i risultati di una ricerca, coordinata dall’Università di Torino e finanziata dall’Unione Europea, che valuta i benefici della stimolazione cognitiva attraverso le app. Queste propongono esercizi mentali utilizzando vari giochi, inoltre incoraggiano l’attività fisica e consigliano un corretto stile di vita.

Il declino cognitivo è la perdita di una o più funzioni cognitive, cioè di quei processi del pensiero, fondamentali ed indispensabili, che si applicano alla comprensione ed all’apprendimento di una grande varietà di fenomeni e di compiti (Rosaleen A. Mc Carthy, Elisabeth K. Warrington 1990).

La maggiore aspettativa di vita degli ultimi decenni ha aperto una sfida per la sanità: garantire una buona qualità di vita durante l’invecchiamento. In questa sfida riveste un ruolo centrale la prevenzione ed il rallentamento del declino cognitivo.

Le malattie neurodegenerative che causano un’alterazione delle funzioni cognitive oltre ad essere molto diffuse, in Europa ci sono circa 9 milioni di pazienti con demenza, sono precedute da un periodo preclinico in cui i sintomi sono lievi ma i meccanismi patogenetici sono attivi.

Secondo quanto indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 2019 ha pubblicato le linee guida per la riduzione del rischio di declino cognitivo e di demenza, per la prevenzione e il rallentamento della neurodegenerazione sono fondamentali un buono stile di vita ed una adeguata attività fisica. Inoltre varie ricerche testimoniano l’efficacia degli esercizi mentali nel prevenire e rallentare il declino cognitivo (Ngandu T.,Lehtisalo J., Soloman A. et al. 2015) .

Recentemente sono stati pubblicati i risultati di un progetto di ricerca, sostenuto economicamente dall’Unione Europea e denominato My-AHA, guidato dall’Università di Torino, che si è concretizzato grazie alla partecipazione di diversi istituti di ricerca e società che si occupano di tecnologia dell’informazione e comunicazione. Questo studio ha portato alla creazione di una piattaforma che, includendo diverse app, permette di monitorare le condizioni di salute e suggerisce attività utili per prevenire e migliorare il deficit cognitivo.

Il progetto si è realizzato attraverso un’ampia scelta di soggetti in diversi paesi (Italia, Spagna, Austria, Giappone e Australia).  Successivamente, grazie ad un attento screening, sono stati selezionati per lo studio, 200 individui ultrasessantacinquenni che presentavano uno stato di pre-instabilità psicofisica e sociale. In una prima fase è stata validata la piattaforma, successivamente sono stati creati due gruppi ciascuno composto da 100 individui.

 I soggetti sono stati monitorati, tramite la piattaforma, rispetto a diverse variabili: l’attività fisica, cognitiva, sociale, l’alimentazione ed il sonno.

Per il primo gruppo l’uso della piattaforma è stato limitato al semplice monitoraggio, mentre i 100 partecipanti appartenenti al secondo gruppo, oltre ad essere monitorati, hanno avuto a disposizione sullo smartphone le app My-AHA così hanno potuto utilizzare i giochi pensati per stimolare le funzioni cognitive ed i programmi realizzati per incoraggiare un corretto stile di vita. Hanno partecipato, come suggerito dalle app, ad attività sociali, sono stati stimolati a realizzare una corretta alimentazione, attività fisica ed igiene del sonno.

Dopo un anno di attività è stata effettuata una prima comparazione dei dati raccolti in entrambi i gruppi. Utilizzando un’apposita scala di misurazione, è stato possibile dimostrare un peggioramento della qualità di vita nel primo gruppo di soggetti, che non aveva utilizzato le app della piattaforma. Invece per tutti coloro, appartenenti al secondo gruppo, che hanno seguito la stimolazione cognitiva ed i consigli di My-AHA si è evidenziato un buon mantenimento delle condizioni di vita. Inoltre, dal punto di vista statistico, la differenza registrata tra i due gruppi è risultata significativa. Infine, i soggetti del secondo gruppo oltre a raggiungere una maggiore appropriatezza nell’alimentazione hanno avuto anche una trasformazione in positivo dell’umore.

Questo progetto dimostra come la tecnologia dell’informazione e comunicazione può essere d’aiuto nell’assistenza all’anziano. Inoltre conferma come l’intervento precoce, nel decadimento cognitivo, permetta di mantenere più a lungo una buona qualità di vita, infine indica come la prevenzione ed il rallentamento del decorso delle malattie neurodegenerative, quali l’Alzheimer e le altre demenze, sia legato all’intervento su vari fattori: attività fisica, funzione cognitiva, stato psicologico e sociale.

 

Il corpo non dimentica. L’io motorio e lo sviluppo della relazionalità (2020) di Massimo Ammaniti e Pier Francesco Ferrari – Recensione del libro

Sottraendo terreno al divario tra corpo e mente, movimento e cognizione, psicoanalisi e neuroscienze, Il corpo non dimentica propone una prospettiva integrativa che tenta la strada di un audace e auspicabile dialogo proficuo.

 

Il corpo offeso, il mito e l’assenza di cure

 Il corpo non dimentica. L’io motorio e lo sviluppo della relazionalità, nato dall’integrazione degli interessi e delle competenze di Massimo Ammaniti e Pier Francesco Ferrari, è un testo sull’origine e sull’evoluzione della relazionalità, in cui il corpo assume la centralità a lungo negatagli. Sottraendo terreno al divario tra corpo e mente, movimento e cognizione, psicoanalisi e neuroscienze, il testo propone una prospettiva integrativa che tenta la strada di un audace e auspicabile dialogo proficuo.

Gli autori aprono l’itinerario che conduce a scandagliare le origini della relazionalità riconoscendo al mito l’abilità di narrare con perizia il posto assegnato dall’uomo all’“altro” e invitando il lettore a rintracciare nelle storie dei suoi illustri protagonisti un racconto del corpo alle prese con gli urti, i danni, le riparazioni e le possibilità evolutive biologico-sociali cui è andato incontro.

Come fanno notare Ammaniti e Ferrari (2020),

In essi la nascita è al centro dello scenario e nella maggior parte dei casi si tratta di una nascita traumatica segnata dai conflitti e dai misfatti della famiglia e della comunità, e resa ancor più drammatica dall’abbandono e dalla soppressione dei neonati. (p. 3)

In queste storie la nascita, una pericolosa minaccia per il potere paterno, costituisce la costante comune ed è accompagnata dagli abusi e dall’abbandono subiti dai nascituri, mentre non è affrontato l’impatto dell’assenza delle cure nel periodo neonatale.

Infatti, non solo nel mito, e per molto tempo a seguire, è stato piuttosto scarso l’interesse verso le prime interazioni madre-bambino. È stato il pioneristico contributo dello psicoanalista René Spitz ad aprire un interessante campo di osservazione sulla funzione svolta da questa precoce interazione. Segnalando la necessità delle cure materne per la loro capacità di regolare lo sviluppo fisico e psichico del bambino, Spitz denuncia le profonde e talvolta fatali ripercussioni causate dalla sua deprivazione, aprendo la strada a successivi studi.

Se quindi per un certo tempo il corpo non è stato un oggetto di studio attraente, soprattutto relativamente al ruolo ricoperto nella costruzione della relazione madre-bambino, essere riusciti a raccontare la vita che cresce nel grembo materno e il modo in cui si costruisce il nostro essere nel mondo e con l’altro è senz’altro un traguardo che non dobbiamo dimenticare.

Una spinta decisiva alla possibilità di avvicinarsi all’inavvicinabile è stata promossa dall’integrazione dei contributi di diversi ambiti di studio come la psicoanalisi, le neuroscienze, la psicologia dello sviluppo e l’Infant Research, che nello studio della diade umana, e non solo, hanno tentato di definire lo sviluppo, i processi biologici, le specifiche dinamiche interattive, nonché la loro universalità e i successivi adattamenti culturali.

Prendendo in considerazione il primo aspetto, quello che tenta di spiegare le basi e le trasformazioni della relazionalità, una prima considerazione importantissima da fare, prima di procedere oltre, è quella di tenere ben presente l’esistenza di una continuità tra la vita prenatale e post-natale. Ammaniti e Ferrari conducono, infatti, lo sguardo del lettore proprio in questa direzione, collocando in primo piano l’importanza che riveste lo sviluppo del sistema nervoso nella comprensione dello sviluppo motorio, cognitivo e sociale dell’uomo.

L’ambiente materno, lo sviluppo del sistema motorio e della relazionalità

Nel grembo materno il feto manifesta i primi comportamenti esplorativi dell’ambiente uterino, ma anche di se stesso e dell’altro, manifestando precoci abilità motorie che saranno imprescindibili nella vita neonatale. Ribaltando, infatti, le posizioni precedenti, che dichiaravano una presenza esclusiva di riflessi nel feto, l’impiego degli ultrasuoni ha reso possibile osservare la presenza di un’intenzionalità già a partire dalla vita fetale.

Gli studi condotti sull’attività motoria del feto, e in particolare quelli che riguardano la cinematica del movimento, come pure gli studi sulla risposta alla voce materna, hanno rilevato una precocissima ricerca di contatto da parte del feto, rintracciando in questi primissimi comportamenti i precursori delle successive competenze sociali del bambino.

Inoltre, non è passata inosservata la bidirezionalità e la complessità della comunicazione costruita e dunque l’influenza esercitata dall’interazione dei fattori psico-biologici materni e fetali sul successivo sviluppo del bambino.

Tuttavia, per quanto sia noto che le esperienze emotive e stressanti materne possano influenzare la maturazione del feto, membro attivo nella relazione e che manifesta di rispondere in modo specifico a queste esperienze, risultano da chiarire ancora molti aspetti circa i meccanismi responsabili.

Mostrare, dunque, una maggiore sensibilità e attenzione nei confronti del periodo gestazionale potrebbe senz’altro aiutarci a chiarire meglio quello che accade in questa condizione di reciproca influenza in cui sembra verificarsi, come fanno notare Ammaniti e Ferrari (2020), “una modulazione epigenetica dei sistemi sensoriali, scheletrici e cerebrali del feto che prepara la transizione all’ambiente postnatale” (p.36).

Nel passaggio dall’ambiente uterino a quello extra-uterino, infatti, è richiesta al neonato un’elevata e rapida capacità di adattamento che dimostra di possedere. Le modalità interattive ed esplorative sperimentate in utero lo sostengono nel suo processo di adattamento, diventando nel tempo sempre più coordinate e complesse.   Quest’aspetto ha inevitabilmente sollevato un crescente interesse verso l’importanza ricoperta dal sistema motorio nella costruzione delle basi dell’intelligenza sociale.

A questo proposito, è stata importantissima la scoperta del sistema dei neuroni specchio, da parte di Rizzolatti e della sua équipe – cui è seguita un’imponente mole di studi, che ha identificato un loro coinvolgimento nella comprensione delle emozioni e nell’apprendimento per imitazione – per aiutarci a comprendere il ruolo di questo, ormai sistema di cellule, nella costruzione delle nostre competenze sociali.

Un’efficace e sintetica spiegazione della profonda rilevanza di questa scoperta mi sembra ben illustrata nelle parole di Ammaniti e Ferrari (2020) quando sostengono:

Le azioni altrui non sono interpretate, come saremmo portati a credere, attraverso processi cognitivi basati sulla mera analisi sensoriale degli avvenimenti, una sorta di meccanismo inferenziale e induttivo degli stati e degli atteggiamenti altrui, ma attraverso un sistema di rappresentazioni motorie condivise che rimappano sul corpo azioni, emozioni e sensazioni. (p.111)

Quello che, infatti, possiamo facilmente osservare sulla vita postnatale è come l’interazione tra madre e bambino avvenga sin dall’inizio attraverso gli sguardi, le espressioni facciali, i sorrisi, le carezze e i vocalizzi che vanno a costituire quell’intimo dialogo che lega ciascun membro della diade all’altro.

Per aiutare il lettore a comprendere meglio i meccanismi sottostanti a questi primissimi scambi, nei quali possiamo osservare nel tempo una migliore sintonia tra madre e bambino, gli autori selezionano due modelli: il modello di Watson e il modello di Murray e Ferrari.  Il primo, colloca in primo piano la sensibilità dei bambini alla contingenza temporale dei genitori e come una maggiore o minore contingenza influenzerà il comportamento del bambino e la capacità di apprendere dall’esperienza. Il secondo, evidenzia la predisposizione dei bambini a rispondere ad alcuni comportamenti dei genitori, in particolare quelli imitativi e di marking. Quest’ultimo modello – che prende il nome di modello “dell’Architettura Funzionale” – attribuisce la costruzione delle competenze sociali all’integrazione tra la predisposizione del bambino verso specifici comportamenti del genitore e la capacità intuitiva del genitore di rispondere ai comportamenti del bambino.

Come ho anticipato in precedenza, se da una parte le espressioni facciali costituiscono una parte del flusso comunicativo tra madre e bambino che conosciamo, dall’altra, l’aspetto che potrebbe essere meno noto è il ruolo organizzativo di questi specifici comportamenti di rispecchiamento.

L’imitazione da parte della madre del comportamento del bambino, infatti, agisce come promotore di comportamenti sociali positivi come il sorriso. Diversamente, quando la madre invece rimarca il comportamento, è l’introduzione di una rielaborazione del comportamento stesso a consentire al bambino non solo di imparare a dare un significato al proprio comportamento e all’emozione associata, ma anche di comprendere che esiste una la differenza tra se e la madre.

 Le evidenze sino ad ora disponibili, raccolte anche da studi di etologia umana, infatti, hanno rilevato proprio nei sorrisi, negli occhi spalancati e nelle sopracciglia inarcate i comportamenti universali dell’interazione madre-bambino, per quanto la cultura, fattori socioeconomici e individuali possano incidere su di essi determinando la propensione per alcuni comportamenti, piuttosto che altri.

Si comprende bene, allora, quanto la qualità di questi primissimi scambi condizioni non solo lo sviluppo fisico, ma anche lo sviluppo emotivo del bambino e la sua capacità di autoregolarsi.

Più precisamente, in presenza di specifiche condizioni cliniche dei genitori o dei bambini è stata identificata un’alterazione negli scambi con conseguenze anche a lungo termine. Tuttavia, questi studi hanno individuato anche, pensiamo a condizioni come la cecità congenita dei bambini, un aspetto che trovo affascinante ed emozionante allo stesso tempo, e che riguarda l’impiego di altri canali di comunicazione da parte di entrambi membri della diade per compensare il canale deficitario, impedendo a quest’ultimo di compromettere la relazione.

Le interazioni madre bambino e la nascita dell’intersoggettività

Come anticipato in precedenza, la psicoanalisi ha avuto un ruolo sicuramente importante nel richiamare l’attenzione sul legame tra il corpo e la relazionalità. Già Freud aveva pensato all’Io come a “un derivato di sensazioni corporee”, ma la sua posizione, dominata dalla pulsionalità, aveva creato un terreno che si sarebbe rivelato stabile per molto tempo. Solo in un secondo momento, l’attenzione della psicoanalisi è mutata da un prevalente interesse nei confronti della dimensione intrapsichica verso una relazionale, portando alla nascita di nuove correnti che avrebbero nutrito e studiato con un crescente interesse proprio l’importanza delle primissime relazioni sullo sviluppo dell’uomo.

A partire dai contributi degli psicoanalisti Spitz, Mahler e Winnicott, per citarne solo alcuni, la psicoanalisi ha proposto contributi in cui l’intrecciarsi dei mondi soggettivi ha assunto una posizione sempre più dettagliata e centrale definendo la sua influenza sulla costruzione dello sviluppo del sé e nella conoscenza dell’altro.

È stata, però, la corrente intersoggettiva di Stern, Beebe e Lachmann, nata in un’area d’intersezione tra la psicoanalisi e la psicologia dello sviluppo, a richiamare, con una visione che non intendeva penalizzare l’influenza dell’ambiente sullo sviluppo, l’attenzione verso l’esistenza di un costante dialogo intersoggettivo tra madre e bambino. Descrivendolo come il risultato di un complesso coordinarsi di rispecchiamento, ritmo, sincronia, condivisione di stati affettivi, attese, rotture e riparazioni ha chiarito come ciascun membro della diade impara a fare esperienza di se stesso e dell’altro e la organizza per poterla utilizzare successivamente. Più nel dettaglio, quando questa prospettiva sofferma la sua attenzione sul bambino, segnala come quest’ultimo arrivi a questa possibilità interattiva sfruttando la sua capacità di tradurre gli stimoli percepiti in una modalità sensoriale, in una modalità sensoriale differente. In questo complesso scambio non verbale, riconosce la rilevanza rappresentata dall’affetto trasmesso, che viene immagazzinato in uno specifico schema d’interazione e a cui è possibile riconoscere un valore adattivo. Diventa, dunque, sempre più plausibile pensare a una caratteristica predisposizione alla relazione nell’uomo che inevitabilmente ci conduce a riflessioni di ordine ontogenetico, filogenetico ed epigenetico.

Lo sviluppo del sistema nervoso autonomo e il legame di attaccamento

Restando all’interno degli studi sulle interazioni precoci gli autori consegnano al lettore, nell’ultima parte del loro libro, l’analisi dello sviluppo della relazionalità da un punto di vista prevalentemente filogenetico. Non è difficile comprendere come in questo spazio l’attenzione si soffermi sul tema della sopravvivenza della specie e sul legame tra sicurezza e fiducia e attaccamento.

Studiare i primati ha permesso di individuare nell’allattamento, nel lento sviluppo del cucciolo e nel tempo impiegato per la cura parentale, importanti fattori che hanno contribuito allo sviluppo di relazioni sociali più complesse ed estese e che hanno condotto a comportamenti aggregativi e sociali sempre più evoluti.

Non solo, le competenze sociali sembrano essersi evolute in parallelo alla trasformazione del sistema nervoso autonomo e, a questo proposito, Ammaniti e Ferrari segnalano i contributi di Porges, il quale attribuisce al sistema vagale ventrale un importante ruolo nello sviluppo delle competenze sociali.

Per tornare agli studi sulle prime relazioni tra madri e cuccioli, in cui l’etologia ha avuto un ruolo assolutamente centrale, pensiamo alle ricerche condotte da Lorenz, Hinde, Harlow, Hofer, Bowlby è stato possibile osservare un comportamento comune nei cuccioli quando cercano la prossimità con la figura di riferimento o s’impegnano a mantenerla per proteggersi dalle situazioni di pericolo. Un tale comportamento, che non mostra di dipendere dal bisogno di nutrimento, ha consentito agli stessi studiosi di ipotizzare che sia implicato nella sopravvivenza. Non solo, il cucciolo mostra una risposta specifica di attivazione se separato dalla madre e che torna in equilibrio solo nel momento in cui si ricongiunge ad essa. Questi studi, e quelli condotti sull’uomo, hanno condotto Bowlby ad affermare che è possibile riconoscere in questi comportamenti di attaccamento, che accomunano gli uomini e gli animali, un sistema motivazionale innato necessario per la sopravvivenza e capace di segnare il successivo sviluppo.

Dopo questa ricca, e per certi aspetti complessa, rassegna di studi, sen non altro per la densità di dati che Ammaniti e Ferrari propongono al lettore, un ultimo spazio, prima di tradurre le scoperte biologiche sul piano clinico è riservato alla presentazione della trasformazione che ha investito i numerosi ambiti di studio, verso l’emergente interesse nei confronti dello sviluppo delle competenze sociali.

Raccogliendo i contributi provenienti dalla psicologia, dalla psicoanalisi, dalla biologia, dalla filosofia e dalle neuroscienze, gli autori presentano al lettore un vasto repertorio di studi in cui, il corpo “rappresenta il primum movens dell’uomo”, da cui nascono e si trasformano le competenze sociali.

In questo nuovo contesto di studi, che riconosce al bambino una predisposizione al contatto sociale molto precoce, il rapporto tra inconscio e la conoscenza implicita ha dato vita a visioni per certi aspetti contrastanti e in costante trasformazione, e coinvolte a richiamare l’attenzione verso le implicazioni cliniche di queste scoperte.  A tale scopo, Ammaniti e Ferrari terminano il loro testo offrendo al lettore la possibilità di cogliere i costrutti teorici presentati osservandoli, anche se solo attraverso un frammento clinico, nel contesto terapeutico.

Conclusioni e possibili aperture

Il corpo non dimentica. L’io motorio e lo sviluppo della relazionalità, nel suo modo di procedere, a mio avviso, costruito per catturare l’interesse di una platea di professionisti, condensa al suo interno l’intento di farsi promotore di un’attenzione più estesa e minuziosa verso le domande aperte, i punti fermi e le contraddizioni che riguardano, un campo d’indagine, come quello delle relazioni precoci e il suo legame con il corpo, che ha promosso il dialogo tra discipline con posizioni in taluni casi apertamente ostili, in altri più disponibili a un curioso incontro.

Con il suo focus sul legame tra corpo e sviluppo relazionale, Il corpo non dimentica, l’io motorio e lo sviluppo della relazionalità, rintraccia negli ultimi contributi della cognizione incarnata, una visione che, trasformando completamente le precedenti posizioni sullo sviluppo cognitivo e sociale dell’individuo, riconosce al corpo e alla sua relazione con l’ambiente il suo più affascinante ruolo autoregolatorio e relazionale, la cui conoscenza ha inevitabili ricadute anche nel contesto relazionale terapeutico.

 

cancel