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La relazione tra attività fisica ed aggressività

La letteratura riguardante la relazione tra l’esercizio fisico e l’aggressività è fortemente eterogenea (Williams & Gill, 2000) e ciò potrebbe essere dovuto all’interazione di una serie di fattori, ovvero variabili moderatrici, che hanno dato luogo a risultati differenti.

 

Esistono almeno due macro-categorie di moderatori che sembrano avere una rilevanza quando si analizza l’influenza dello sport sull’aggressività e sui sentimenti aggressivi, ovvero gli aspetti metodologici degli studi e le circostanze in cui l’esercizio fisico ha luogo come, ad esempio, le condizioni sociali o il tipo di movimento. Attraverso la considerazione di questi moderatori, è possibile chiarire i potenziali meccanismi attraverso i quali lo sport e l’esercizio fisico contribuiscono alla riduzione dell’aggressività.

Per quanto riguarda gli aspetti metodologici, la definizione della variabile dipendente è un moderatore chiave.

L’aggressione può essere definita come “qualsiasi comportamento diretto verso un altro individuo che viene messo in atto con l’intento di causare danno”, mentre, i sentimenti aggressivi possono influenzare l’aggressione in diversi modi, ad esempio aumentando i livelli di eccitazione (Anderson & Bushman, 2002, p. 28).

Per quanto riguarda le circostanze in cui l’esercizio ha luogo, le evidenze precedenti indicano che sia il tipo di movimento che le condizioni sociali possono agire come moderatori.

Rispetto al tipo di movimento, alcune attività sportive vengono tipicamente assunte come determinanti dell’aggressività, in particolare modo gli sport di combattimento (Jarvis, 2006). A sostegno di ciò, l’inizio di queste attività è stato associato ad un aumento di comportamenti antisociali, mentre l’interruzione determina una diminuzione dei suddetti (Endresen & Olweus, 2005). Tuttavia, esistono anche prove del contrario.

I risultati incoerenti in questo caso possono essere spiegati da ricerche successive che indicano che l’influenza degli sport da combattimento sull’aggressività dipende da come uno sport viene insegnato. Per esempio, l’allenamento moderno delle arti marziali porta a punteggi più alti di delinquenza (Trulson, 1986), mentre, le lezioni di taekwondo, che incorporano un’istruzione specializzata, promuovono più comportamenti prosociali rispetto alle lezioni standard di educazione fisica (Lakes & Hoyt, 2004).

Per quanto riguarda le condizioni del compito sociale, la ricerca suggerisce che la competizione potrebbe aumentare i sentimenti aggressivi. Alcuni autori concordano sul fatto che la competizione causi frustrazione, che, a sua volta, porta a punteggi più alti di aggressività, in quanto gli avversari interferiscono con il raggiungimento di obiettivi individuali (Tjosvold, 1998).

Al contrario, la cooperazione richiede uno scambio reciproco per raggiungere un obiettivo comune (Tjosvold, 1998), che determina la formazione di un’identità sociale positiva e, a sua volta, a una maggiore autostima (Luhtanen & Crocker, 1992), che riduce i sentimenti aggressivi. Di conseguenza, i giochi cooperativi si sono rivelati un’opzione di trattamento efficace per ridurre l’aggressività (Bay-Hinitz & Wilson, 2005).

Oltre al tipo di movimento e alle condizioni del compito sociale, devono essere prese in considerazione le condizioni quantitative, come l’eccitazione, per spiegare l’entità della riduzione dell’aggressività attraverso lo sport. Tuttavia, anche in questo caso la letteratura contiene una contraddizione: da un lato, l’ipotesi della catarsi afferma che un’elevata eccitazione durante un’attività comporti una riduzione della tensione psichica (Bushman, Stack, & Baumeister, 1999). D’altra parte, studi empirici hanno dimostrato che le attività eccitanti possono portare a un comportamento ancora più aggressivo (Lemieux, McKelvie, & Stout, 2002).

In sintesi, le ricerche e le considerazioni teoriche descritte in precedenza suggeriscono che i sentimenti aggressivi associati allo sport dipendono dal tipo di movimento e dalle condizioni in cui l’attività è condotta.

Dunque, sulla base di quanto appena esposto, alcuni autori hanno ipotizzato che gli individui presi in esame avrebbero riportato una riduzione dei sentimenti aggressivi a seguito di attività fisiche che non implicano movimenti aggressivi e, soprattutto, hanno supposto che vi sarebbero state delle differenze, rispetto ai sentimenti aggressivi, tra un’attività fisica condotta in modo cooperativo rispetto a un’attività condotta in presenza di un avversario.

Il campione preso in esame era composto da 60 studenti. I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale a sei diversi gruppi di trattamento. Difatti, i due sport presi in considerazione, il canottaggio e il combattimento, sono stati eseguiti in tre diverse condizioni: individualmente, in un ambiente competitivo e in un ambiente cooperativo.

All’inizio dello studio, al fine di indurre dei sentimenti aggressivi, tutti i partecipanti hanno ricevuto un feedback negativo da parte di un assistente.

In generale, si è assistito ad una significativa riduzione dei sentimenti aggressivi nel corso dei compiti sperimentali e, in particolar modo, si è assistito ad una riduzione significativa dei sentimenti aggressivi nei partecipanti che avevano preso parte al compito di canottaggio individualmente, rispetto alla condizione di combattimento.

Inoltre, nel corso delle attività da combattimento, non è stato rinvenuto nessun aumento dei sentimenti aggressivi, ciò significa che l’ipotesi che i movimenti assimilabili al combattimento inducano effetti negativi non può essere sostenuta.

Questi risultati supportano in parte l’ipotesi che i movimenti meno aggressivi determinino una riduzione dell’aggressività, rispetto ai movimenti altamente aggressivi.

Ulteriormente, va aggiunto che le due condizioni di cooperazione e competizione non differivano dalla condizione di esercizio individuale, in termini di cambiamenti nei sentimenti aggressivi.

Ciò può essere spiegato dal fatto che l’avversario della condizione competitiva non era un vero avversario e, al contempo, la relazione tra i due partner nel compito cooperativo non era abbastanza positiva.

Quanto appena detto mostra che se l’attività fisica di gruppo fosse messa in atto per ridurre l’aggressività all’interno del team, la qualità della relazione tra le persone coinvolte sarebbe più rilevante del contesto sociale stesso. Di conseguenza, sarebbe poco utile definire semplicemente un compito in cui i partecipanti devono cooperare o competere tra loro, bensì sarebbe importante formare e sviluppare le relazioni interpersonali nel corso del compito.

In altre parole, l’esercizio fisico è in grado di ridurre l’aggressività, in particolar modo nei casi in cui i partecipanti sperimentano i movimenti come soddisfacenti. Si può supporre che le attività fisiche, specialmente quelle che soddisfano i bisogni psicologici di base, sono in grado di ridurre i sentimenti di aggressività e frustrazione. Concludendo, i suddetti risultati suggeriscono che la riduzione dell’aggressività non sia tanto legata al tipo di movimento o al compito sociale, bensì che essa sia una questione di appagamento personale.

 

Apart of Me: la prima app che aiuta i giovani ad affrontare la morte – Psicologia Digitale

L’app Apart of Me è un gioco terapeutico che aiuta i più giovani ad affrontare il lutto fornendo supporto psicologico, strategie ed esercizi per elaborare la perdita.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 21) Apart of Me: la prima app che aiuta i giovani ad affrontare la morte

 

 Lo scorso Novembre è stata rilasciata la versione italiana di Apart of Me, un’app nata per offrire supporto psicologico a bambini ed adolescenti che affrontano un lutto. Attraverso giochi ed interazioni coi personaggi, l’utente viene aiutato a conoscere e riconoscere le emozioni, ascoltare storie di altre persone che hanno vissuto la perdita di una persona cara, fare meditazione ed avere uno spazio sicuro e sempre a disposizione (l’app è gratuita sia per Android che iOS).

Apart of Me nasce da un’idea di Louis Weinstock, psicoterapeuta infantile, che ha lavorato a lungo con famiglie e ragazzi che hanno affrontato un lutto. Assieme allo sviluppatore di software Ben Page, Weinstock ha fondato la Bounce Works, un’impresa sociale che crea prodotti e servizi digitali per il supporto dei più piccoli.

Il primo progetto della Bounce Works è proprio Apart of Me, un’app costruita a più mani grazie alla collaborazione con ragazzi, genitori, psicologi e game designers. Questo lavoro congiunto ha permesso di creare un’esperienza di gioco coinvolgente e basata sulle indicazioni e l’esperienza di professionisti qualificati.

Come funziona Apart of Me

Nella narrativa del gioco il protagonista arriva sull’isola dopo aver affrontato un evento tragico e, grazie all’aiuto della Guida e di altri personaggi, apprende abilità e informazioni che lo aiutano ad affrontare il dolore.

Progredendo nel gioco e attraverso alcune attività, l’utente viene aiutato ad esplorare l’esperienza del lutto: catturando le lucciole può conoscere cosa sono le emozioni (ogni lucciola corrisponde ad una emozione); nella grotta può ascoltare le storie di altri ragazzi che hanno subito una perdita; la cascata gli offre esperienze di meditazione; la guida gli dà delle missioni che lo incoraggiano a ricordare momenti piacevoli e significativi con la persona che è venuta a mancare. Non c’è un tempo determinato per ogni attività, ognuno può seguire il suo ritmo e fare le attività quando si sente di farlo.

Uno spazio virtuale sicuro

La perdita di una persona cara è un’esperienza che, se non affrontata adeguatamente e con gli strumenti giusti, può far sentire isolati e vulnerabili. In particolare quando non si ha accesso a servizi di supporto c’è il rischio che la sofferenza si tramuti in depressione, ansia, comportamenti antisociali e in casi estremi suicidio: per questo è fondamentale agire e dare supporto ai giovani che affrontano un lutto e aiutarli a sviluppare la propria resilienza emotiva.

L’esperienza di gioco è piacevole così come la grafica; le emozioni (cosa sono, come si manifestano) vengono spiegate in maniera semplice e chiara; gli esercizi di meditazione sono facili da eseguire; le storie esplorano diverse situazioni legate ad un lutto, esperienze in cui ci si può rispecchiare per sentirsi meno soli; grazie alle missioni della Guida si rievocano ricordi piacevoli da custodire nella ‘scatola dei ricordi’ digitale; nella capanna della Guida sono a disposizione anche contatti di associazioni impegnate nel sostegno professionale per bambini e adolescenti in lutto.

Nel complesso, Apart of Me ha tutte le qualità per essere uno strumento valido e utile per chi affronta un lutto. Per riuscire a catturare l’attenzione ed avere un impatto positivo sui nativi digitali un’app è sicuramente la via più immediata ed è proprio questo il grande pregio di Apart of Me: fornire supporto ai più giovani attraverso linguaggi e mezzi a loro più vicini.

 

Melatonina e depressione: fra false credenze e paradigmi scientifici

Negli ultimi anni si è diffusa la falsa credenza che la somministrazione della melatonina esogena possa essere un trattamento specifico ed efficace per il disturbo depressivo, considerando l’andamento ciclico giornaliero dei sintomi depressivi. Le numerose evidenze scientifiche suggeriscono, invece, un ruolo modesto di questa sostanza in tale disturbo.

 

La melatonina

 Negli ultimi anni la ricerca scientifica si sta occupando in maniera sempre più specifica di sondare gli effetti della melatonina, il suo ruolo in alcune psicopatologie e il suo razionale uso clinico.

La melatonina, come sostanza biochimica, è ascrivibile alla classe degli ormoni ed è prodotta principalmente dalla ghiandola pineale o epifisi ed esplicita la sua azione sull’ipotalamo. La produzione della melatonina non è costante nel ciclo di vita dell’individuo: infatti, essa raggiunge la maggiore quantità nella giovinezza per poi decrescere nel corso della maturità e della senescenza.

La sua sintesi nell’organismo umano è regolata dalla quantità di luce che giunge ai fotorecettori della retina. In altri termini, la sua produzione è esigua nel corso della giornata, mentre diviene massima nel corso della notte, raggiungendo il picco di produzione fra le due e le quattro del mattino. I recettori retinici, allorquando sono colpiti dai fasci luminosi, inviano un input inibitorio all’epifisi, che è responsabile della scarsa produzione dell’ormone. Al contrario, la mancanza di luce attiva la via neuronale che comincia dalla retina, si proietta sui nuclei soprachiasmatici dell’ipotalamo per arrivare all’epifisi, dove elicita la sintesi di melatonina.

Nell’ambito della produzione di questo ormone, un ruolo chiave lo svolgono i neurotrasmettitori: infatti, la sua secrezione viene stimolata dalla noradrenalina e richiede la serotina come precursore  (Simonneaux e al., 2003). In sintesi, la produzione di melatonina da parte della ghiandola pineale regola, quindi, le funzioni corporee e i comportamenti umani secondo il ritmo del giorno e della notte (ritmo circadiano).

Disturbi depressivi e melatonina

Considerando la natura ciclica dei disturbi depressivi, il loro andamento nel corso della giornata (i sintomi depressivi appaiono della massima intensità al mattino, mentre decrescono nel corso della giornata), la ricerca, nel corso degli anni, ha focalizzato la sua attenzione sulle connessioni che esistono tra melatonina e depressione.

La depressione può far parte del disturbo depressivo vero e proprio o essere una fase del disturbo bipolare. Essa si manifesta, secondo il DSM – 5 (2014), con umore depresso (sentimento di tristezza, vuoto esistenziale, disperazione), perdita di interesse per le attività quotidiane, diminuzione o aumento dell’appetito, con relativo dimagrimento o sovrappeso, insonnia o ipersonnia, agitazione o rallentamento psicomotorio, mancanza di energia, vissuti di autosvalutazione e senso di colpa, rallentamento ideatorio, con ridotta concentrazione, frequenti pensieri di morte.

Relativamente all’origine della depressione, in ambito biologico sono state proposte diverse ipotesi nel corso del tempo.

La prima ipotesi è stata quella neurochimica, che ha visto dapprima l’origine della depressione, secondo la teoria monoaminergica e la teoria recettoriale monaminergica, in una deplezione delle amine biogene (dopamina, serotonina e noradrenalina) o in una diminuzione della loro attività nell’ambito del Sistema Nervoso Centrale (Stahl, 2008), e successivamente, secondo l’ipotesi neurotrofica, come prodotto di un deficit nella produzione di BDNF (Brian Derived Neurotrophic Factor) nel SNC (Duman, 2006).

Ancora, in ambito biologico, è stata proposta l’ipotesi di una disfunzionalità del sistema ipotalamo – ipofisi – surrene, con livelli elevati di cortisolo plasmatico, come origine della depressione (Young, 2004).

Attualmente, nel contesto biologico, si sta facendo sempre più strada l’ipotesi della depressione come malattia infiammatoria cronica, nell’insorgenza della quale un ruolo chiave lo riveste l’attività delle citochinine proinfiammatorie (Dowlati e al., 2010).

 Le correlazioni fra produzione di melatonina e comportamenti legati ad un eventuale stato depressivo sono state studiate nei ratti. Infatti, a quanto si è detto, la diminuzione di melatonina sarebbe elicitata da una diminuzione delle ore di luce e proprio questa condizione è stata utilizzata a livello sperimentale per studiare tali collegamenti. I ratti, esposti per quattro settimane ad una luce di bassa intensità nel corso della giornata, hanno mostrato un incremento dell’immobilità, scarsa capacità di iniziativa, minore propensione ad alimentarsi e altre manifestazioni ascrivibili ai sintomi comportamentali depressivi (Ashkenazy-Frolinger e al., 2010; Deats e al., 2015). In aggiunta, in questi animali il trattamento con melatonina ha migliorato i sintomi depressivi summenzionati (Ali e al., 2020).

Nell’uomo non si è trovata questa corrispondenza: infatti, differenti ricerche hanno studiato l’utilizzo della melatonina esogena o di farmaci agonisti della melatonina nel trattamento della sindrome depressiva. Alcuni di questi studi hanno stabilito che la melatonina (ad un dosaggio che arriva fino a 10 mg al giorno) sembra incidere positivamente sull’insonnia che si manifesta nel disturbo depressivo, ma non sugli altri sintomi (Dolberg e al., 1998). Altre ricerche hanno sottolineato il benefico effetto della melatonina solo sul disturbo affettivo stagionale (SAD) (Lewy e al., 1998). Da qualche anno nell’ambito della cura della depressione si utilizza l’agomelatina, un antidepressivo di terza generazione, che ha un’azione agonista sui recettori melatoninergici M₁ ed M₂. In pratica, questa molecola simula l’azione regolatoria della melatonina (Mauri e Volonteri, 2017). Gli studi fin qui condotti, non hanno mostrato la superiorità di questo farmaco rispetto ad altri farmaci antidepressivi (paroxetina, fluoxetina, sertralina, escitalopram e venlafaxina) nel trattamento della depressione (De Berardis e al., 2013; Guaiana e al., 2013).

Attualmente, l’uso razionale della melatonina è indicato per il trattamento di alcune forme d’insonnia (difficoltà di addormentamento) (dosaggio fra 1 e 5 mg al giorno). Inoltre, essa è raccomandata nel trattamento aggiuntivo dell’insonnia dell’età evolutiva, che compare nel corso dell’ADHD e dell’autismo, nella cura dell’insonnia dei lavoratori che hanno frequenti turni di notte e in alcune sindromi da fuso orario (jet lag) (Tonon e al., 2021).

In conclusione, negli ultimi anni si è diffusa la falsa credenza che la somministrazione della melatonina esogena possa essere un trattamento specifico ed efficace per il disturbo depressivo, considerando l’andamento ciclico giornaliero dei sintomi depressivi. Le numerose evidenze scientifiche suggeriscono, invece, un ruolo modesto di questa sostanza in tale disturbo. Un uso razionale della melatonina è indicato per alcune forme d’insonnia dell’età adulta (difficoltà di addormentamento) e dell’età evolutiva (insonnia nel corso di ADHD e dei disturbi dello spettro autistico).

 

Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere (2019) di Michela Marzano – Recensione del libro

Volevo essere una farfalla, attraverso la storia di Michela, può insegnare che amarsi è una necessità e che, a volte, ascoltare quella vocina nell’orecchio che ci spinge a fare ciò che più desideriamo, non è sbagliato se ci fa stare bene.

 

Introduzione

Mi ero convinta che se fossi riuscita a diventare leggera come una farfalla, tutto sarebbe andato a posto. Sarei diventata forte, indipendente, libera. E non avrei mai più avuto bisogno di nessuno.

 Nel libro Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere, Michela Marzano, affermata filosofa e scrittrice, racconta la sua storia.

Michela è cresciuta in un ambiente familiare in cui «l’educazione consisteva nell’inculcare il dovere», quel forte senso di obbedienza, che da un lato le ha permesso di raggiungere i suoi obiettivi professionali, dall’altro l’ha fatta sprofondare nell’anoressia.

Michela, sempre obbediente e disciplinata, farebbe di tutto pur di sentirsi amata dal padre. Farebbe di tutto pur di sentirsi «piena» d’amore, quell’amore che probabilmente non ha sperimentato nella sua infanzia, perché sotterrato dalle troppe aspettative, dalle troppe attese. Solo che, quando si costruisce il proprio mondo sulla base delle aspettative altrui, non si vive mai appieno.

Michela racconta la tubercolosi che ha dovuto combattere, i tentati suicidi e i risvegli in ospedale, gli amori tossici e gli sguardi giudizievoli.

Descrive l’anoressia e le intense sedute di psicoanalisi a cui si è sottoposta, la paura di non farcela e il vuoto che l’ha attanagliata. Ed infine, come ha imparato piano piano a ricostruirsi e com’è riuscita a ripartire da

quella consapevolezza sottile e fragile di poter essere “altro” rispetto alle esigenze del “dover essere”.

La potenza del desiderio e l’arte dell’accettazione

Entrare nella logica per cui ci si ritiene degni d’amore solo se si compiace l’altro, solo se ci si uniforma a ciò che l’altro vorrebbe che noi fossimo, potrebbe scatenare conseguenze devastanti.

Ognuno di noi ha bisogni e desideri. Abbiamo bisogno di desiderare, perché il desiderio ci fa sentire vivi, anima il nostro corpo e ci spinge ad agire. Ogni desiderio deriva da una mancanza, e non sempre sappiamo esattamente cosa vogliamo; non sempre desideriamo veramente ciò che diciamo perché

i nostri desideri si trasformano, cambiano, si contraddicono. Soprattutto quando siamo combattuti tra un “Io ideale” che ci spinge a domandarci che tipo di vita condurre e un “Io reale” che ci interroga riguardo a ciò che vogliamo davvero. A volte siamo lacerati tra il desiderio di esporci, scegliere, costruire il nostro destino, e il bisogno di ritirarci in noi stessi, di non scegliere, di abbandonarci all’estro del momento. 

 Siamo esseri sociali: l’identità personale di ognuno di noi si origina dall’incontro con l’altro. L’empatia, l’accettazione, l’ascolto attivo dovrebbero essere alla base di ogni relazione tra individui, ma molte volte non è così. E quando le relazioni che viviamo non ci fanno sentire riconosciuti nella nostra soggettività, non ci fanno sentire accolti e accettati, iniziamo a vacillare, a perdere il controllo.

L’autrice, nella sua autobiografia, mette in risalto l’importanza dell’accettazione.

Accettare noi e l’altro diverso da noi, non è mai un’azione passiva: non significa rassegnarsi al cliché del “io sono fatto così” privandosi della possibilità di scoprire i motivi che ci spingono a mettere in atto determinati comportamenti, bensì imparare a rispettarsi nella totalità e unicità del proprio essere, comprese debolezze e fragilità, lasciandosi semplicemente il diritto di esistere.

Accettarsi è comprendere che ogni nostra emozione, non necessariamente piacevole, è espressione di noi stessi. È accettare che non possiamo scegliere quale emozione provare, ma possiamo cercare di capire il motivo per cui si è presentata e cosa vuole dirci, in quanto

ognuno di noi ha un percorso personale complesso. Nessuno può essere “programmato” come una macchina, per scegliere e agire solo dopo aver calcolato in modo esatto costi e benefici delle proprie azioni. Che piaccia o no, siamo tutti in balia delle nostre emozioni.

Siamo immersi in una cultura che esalta la verità, la bellezza, la positività, ma condanna il dubbio, le lacrime, la frustrazione. Tendiamo a nascondere le nostre sofferenze, «gettandoci nel vortice del “fare”» pur di evitare di vivere il dolore.

Come se le nostre fragilità fossero un virus da debellare. Come se potessimo scegliere come sentirci. Come se potessimo scegliere di vivere di sola luce.

Siamo contemporaneamente bene e male, luce e ombra perché

il pensiero […] è duttile, controverso, contraddittorio.

Ognuno di noi ha una propria rappresentazione della realtà che non è mai oggettiva, ma sempre filtrata dalle nostre credenze e dal nostro vissuto, da ciò che siamo e da ciò che ci è stato insegnato.

Consiglio vivamente la lettura di questo libro perché, attraverso la storia di Michela, possiamo imparare che amarsi è una necessità e che, a volte, ascoltare quella vocina nell’orecchio che ci spinge a fare ciò che più desideriamo, non è sbagliato se ci fa stare bene.

Piegarsi totalmente al dovere, annullando il proprio volere, è un pò come morire, lentamente.

Ciò che possiamo fare è smettere di scappare dalle nostre emozioni, ma fermarci ad ascoltarle per entrare davvero in contatto con noi stessi.

C’è sempre un modo per reinventarsi, c’è sempre un modo per “ricominciarsi”: ogni ferita e ogni «frattura» fanno parte di noi e del nostro vissuto, ed

è da lì che si deve ripartire. […] Senza passare il tempo a sperare che forse un giorno tutto sarà diverso. Perché tutto è già diverso, non appena si fa la pace con i propri ricordi.

 

La percezione del tempo nei pazienti a rischio suicidario

Nonostante decenni di ricerca, i tassi di suicidio al giorno d’oggi continuano ad aumentare.

 

Una prevenzione efficace del suicidio viene spesso ostacolata dalla limitata comprensione della neurobiologia e della storia del processo suicidario.

Difatti, la durata di quest’ultimo, e dunque del tempo disponibile per l’intervento, ha un grande impatto sulla prevenzione del suicidio ed è per tal motivo che la comprensione del processo suicidario, e dei fattori ad esso associati, appare fondamentale.

Rispetto alla fase pre-suicidaria è bene considerare due elementi: la contemplazione del suicidio e gli intervalli di azione suicidaria (Klonsky et al., 2017). Per intervallo di contemplazione suicida si intende il tempo che intercorre dall’inizio dell’ideazione suicida alla decisione di uccidersi, mentre, l’intervallo di azione suicida coincide con il tempo trascorso tra la decisione di uccidersi e il tentativo di suicidio.

Dunque, la durata del processo suicida potrebbe essere influenzata da come l’individuo elabora o giudica il tempo, dall’impulsività e da altri fattori cognitivi (Neeleman et al., 2004).

Il giudizio sul tempo coincide con la capacità oggettiva di un individuo di giudicare la lunghezza di un dato lasso di tempo, e può essere esaminato con compiti di stima del tempo, in cui si chiede al partecipante di valutare la lunghezza di un dato intervallo di tempo (Bschor et al., 2004).

Bschor e colleghi (2004) hanno constatato come i pazienti affetti da depressione percepiscono il tempo in maniera dilatata.

L’esperienza di un dolore psicologico travolgente, in combinazione con l’elaborazione distorta del tempo, potrebbe peggiorare i pensieri suicidi e portare all’autolesionismo impulsivo. Per esempio, la percezione anormale del tempo può influenzare il costo soggettivo dell’attesa, innescando l’impulsività (Cáceda et al., 2020).

Al fine di fornire una migliore comprensione del processo suicidario, alcuni autori hanno valutato la durata di quest’ultimo in relazione al giudizio sul tempo, alle variabili cognitive e alla gravità dell’ideazione suicidaria.

Allo studio hanno preso parte 287 soggetti, con un’età compresa tra i 18 e i 65 anni. I partecipanti sono stati divisi in quattro gruppi: tentati suicidi recenti, ideatori suicidari attuali, pazienti depressi non suicidi e controlli sani.

I risultati hanno mostrato come la dilatazione del tempo fosse correlata negativamente all’intervallo di azione suicidaria e, positivamente, con la gravità dell’ideazione e gli autori hanno suggerito che ciò potrebbe essere riconducibile a fenomeni di depersonalizzazione e derealizzazione. Difatti, i disturbi dissociativi sono associati a una storia di recenti tentativi di suicidio e di autolesionismo non suicida (Webermann et al., 2016) e a una storia di tentativi di suicidio multipli (Foote et al., 2008).

Dunque, si potrebbe concludere che l’esperienza del rallentamento o della dilatazione del tempo nei pazienti suicidi, probabilmente innescata da un dolore psicologico schiacciante, potrebbe a sua volta peggiorare la percezione di ineluttabilità del dolore psicologico. Si potrebbe ipotizzare che il culmine di una crisi suicidaria potrebbe coincidere con uno stato dissociativo, innescato da un dolore psicologico travolgente e caratterizzato da una percezione rallentata del tempo.

Al contempo, le correlazioni relativamente deboli tra la durata del processo suicidario e il rallentamento temporale suggeriscono la presenza di altri fattori rilevanti, oltre alle anomalie del giudizio temporale.

Difatti, almeno il 50% dei tentativi di suicidio sono considerati gesti impulsivi (Deisenhammer et al., 2009). L’impulsività è un costrutto che tende ad esplicitarsi in diverse modalità (Klonsky & May 2010). Così, non sorprende che la letteratura sull’impulsività, in relazione al comportamento suicida, sia estremamente eterogenea (Anestis et al., 2014; Jimenez et al., 2016).

Gli autori del presente studio hanno esaminato gli stati cognitivi che si verificano antecedentemente al comportamento suicida. L’aumento del delay discounting, ovvero la tendenza a preferire una ricompensa minore subito a discapito di una maggior ricompensa per la quale sarebbe necessario aspettare, è strettamente correlato all’impulsività (Anokhin et al., 2015).

In studi precedenti si è visto come in pazienti adulti a maggior rischio di suicidio il delay discounting sia estremamente elevato (Cáceda et al., 2014).

Ulteriormente, l’aumento dell’impulsività è stato correlato positivamente con la gravità dei tentativi di suicidio nel corso della vita nei pazienti bipolari (Swann et al., 2005).

Coerentemente con quanto appena esposto, anche i risultati dell’attuale studio hanno mostrato la presenza di specifiche anomalie nell’elaborazione dei guadagni o delle ricompense nei pazienti che recentemente avevano effettuato un tentativo di suicidio, mentre non vi erano differenze rispetto all’avversione alle perdite, tra i pazienti depressi suicidi e non suicidi. Ciò supporterebbe la nozione che coloro i quali avevano mostrato recenti tentativi di suicidio avrebbero agito più impulsivamente per ragioni legate all’edonismo, come la rimozione del dolore psicologico, pur agendo a discapito della loro vita futura.

Dunque, la depressione e gli stati suicidari potrebbero amplificare la valutazione dei guadagni e delle perdite (Alves et al., 2017).

Gli autori hanno dunque ipotizzato che gli individui impulsivi potrebbero essere così a causa di una percezione alterata del tempo. Gli individui impulsivi potrebbero scegliere ricompense più piccole e immediate perché il tempo viene percepito come troppo lungo, generando un costo troppo alto (Wittmann & Paulus, 2008).

I risultati dello studio appena presentato mostrano come il tempo per intervenire su questi pazienti sia molto limitato e ciò determina la necessità di prevedere un ampio spettro di strategie che mirino a fattori di rischio sovrapposti. Ad esempio, l’ampliamento dello screening e del trattamento delle malattie mentali potrebbe diminuire il numero di persone che presentano pensieri suicidi. Le strategie preventive specifiche per il suicidio includono la modifica dello stile di vita (Berardelli et al., 2018), la sensibilizzazione sulla gravità delle comunicazioni suicide (Pompili et al., 2016), la pianificazione della sicurezza (Stanley & Brown, 2012) e la restrizione dei mezzi di suicidio, come l’accesso alle armi da fuoco, ai pesticidi e alla recinzione dei ponti (Knipe et al., 2017).

Inoltre, le fasi che precedono il processo suicidario sono caratterizzate anche da un’incapacità di esprimere i propri turbamenti e da un’incapacità di chiedere aiuto (Wasserman et al., 2008) e ciò mette in luce la necessità di migliorare le capacità di comunicazione e la pianificazione della sicurezza (Stanley & Brown, 2012).

 

La polvere sotto al tappeto (2021) di Anna Paola Lacatena – Recensione del libro

Il bel libro di Lacatena La polvere sotto al tappeto è dedicato al complesso mondo della tossicodipendenza.

 

Il volume ha un taglio sociologico ed ha il pregio di affrontare in modo ampio un tema molto complesso. L’autrice lavora da molti anni in ambito pubblico come dirigente del Dipartimento Dipendenze Patologiche di un’Asl pugliese ed ha già affrontato l’argomento in altri scritti.

Il libro è apprezzabile nel suo tentativo di avere una posizione non ideologica su un tema che, invece, è spesso vissuto con estremismi teorici e contrapposizioni che alla fine producono poco. Il testo è completato da alcuni inserti, a cura di autorevoli personaggi del mondo della cultura (regista, scrittore, cantanti) che suggeriscono la loro opinione sul tema “droga”, allargando la visuale su un fenomeno così complesso.

La premessa fondativa dell’opera è la convinzione che sia proibizionisti che antiproibizionisti risultino entrambi portatori di un estremismo incapace di un confronto reale. Tra queste due posizioni va rintracciata un’area trascurata di considerazioni che richiamano ad un aggiornamento del sapere fatto di storia, ricerca, innovazione, evoluzioni. Le organizzazioni criminali fiutano la ricchezza, la inseguono con sapiente determinazione; spesso sono in grado di produrre cambiamenti, orientare tendenze, indurre bisogni. Per certi aspetti, sembrano avere una lettura del fenomeno più adeguata di quanto riesca a fare lo stato.

Il principale affare per le criminalità, la complessità di uno dei fenomeni più articolati della storia dell’uomo non possono essere ridotti a una mera questione di leggi e sanzioni. L’universo che ruota attorno alla cessione degli stupefacenti è diffuso e assai complesso. È puramente illusorio credere che l’arresto, la detenzione o anche la sola minaccia della stessa possano rappresentare un deterrente efficace. Analogamente, anche la posizione antiproibizionista sembra non tener conto fino in fondo dei danni connessi al consumo di sostanze psicotrope, talvolta escludendo aprioristicamente la malattia. Nel nostro paese, in particolare, il confronto scientifico sul tema è ostacolato dall’effetto negativo decuplicato dall’insieme del sensazionalismo dei media, il moralismo diffuso nella collettività e l’immobilismo della classe politica.

Il libro parte dalla descrizione della situazione attuale, in Italia e nel mondo, in merito alla diffusione delle principali droghe. Successivamente sono descritte le strategie adottate per contrastare il fenomeno, a partire dal proibizionismo americano dello scorso secolo. Ampio spazio è dedicato poi alle normative legislative italiane sino a giungere al fenomeno della vendita on-line.

È affrontato anche il tema delle carceri, ove una percentuale altissima di detenuti (circa il 28% del totale) sono tossicodipendenti. Viene anche osservato come la stragrande maggioranza di essi siano detenuti per possesso a fini di spaccio e si tratta sostanzialmente di piccoli spacciatori, mentre sono pochissimi gli arresti dei grandi trafficanti.

Il libro prende posizione e suggerisce di assumere a modello l’esperienza portoghese. La differenza sostanziale tra la loro depenalizzazione e quella italiana, secondo l’autrice, è nel guardare a chi fa uso di droghe non come un criminale. Dunque, una depenalizzazione ma più ancora una decriminalizzazione del consumo personale. Il libro intende dichiaratamente perorare tale posizione, ispirandosi al modello portoghese che esprime la volontà di riportare la questione nel suo più corretto ambito, ossia quello socioculturale e sanitario.

Volendo fare una critica al testo, probabilmente manca un approfondimento del significato psicologico della tossicodipendenza e delle terapie psicoterapiche di maggior comprovata efficacia.

Ad esempio, si entra nello specifico di una nuova dipendenza, dedicando alcune pagine al nuovo fenomeno del binge watching (eccesso di ore trascorse davanti allo schermo televisivo), ma non si parla proprio della terapia familiare e del significato relazionale del comportamento degli adolescenti.

In ogni caso, un volume interessante che ha il merito di riproporre un dibattito che purtroppo nel nostro paese tende troppo spesso a essere circoscritto a pochi “addetti ai lavori”.

 

Analogie tra il profilo neuropsicologico dell’anoressia nervosa e dei disturbi dello spettro autistico

Il profilo neuropsicologico dell’anoressia nervosa (AN) è caratterizzato da significative analogie con quello dei disturbi dello spettro autistico (ASD), nonostante la fenomenologia dei rispettivi quadri clinici presenti delle differenze sostanziali (Saure et al., 2020).

 

La sintomatologia di AN prevede: notevole restrizione dell’introito calorico, che conduce ad un peso criticamente sottosoglia; timore dell’incremento ponderale e alterata percezione del proprio corpo, che porta a basare la propria autostima quasi unicamente sulla propria forma fisica (APA, 2013). Il quadro sintomatologico dell’ASD è composto da: deficit nella reciprocità socio-emotiva; compromissione della comunicazione verbale e non (es. mancanza di espressività facciale e del contatto visivo), difficoltà interpersonali, limitazione degli interessi, stereotipie di vario genere e carenza di flessibilità cognitiva e iper/ipo-reattività a stimoli sensoriali (APA, 2013).

I deficit cognitivi, comuni ai due profili neuropsicologici, sono i seguenti: debole coerenza centrale e difficoltà di set-shifting; entrambi esito di una significativa inflessibilità cognitiva (Anckarsäter et al., 2012; Westwood, Stahl, Mandy, & Tchanturia, 2016). La scarsa coerenza centrale concerne uno stile di elaborazione cognitiva caratterizzato da un focus attentivo incentrato principalmente sui dettagli, a discapito dell’integrazione olistica dei fenomeni, implicando, dunque, difficoltà di contestualizzazione (Happé & Booth, 2008). È, inoltre, emerso che una debole coerenza centrale in AN può contribuire all’incapacità di beneficiare in toto del trattamento, in quanto è spesso correlata a tratti di personalità ossessivo-compulsivi e a un perfezionismo clinicamente significativo; che inficiano sulla motivazione al cambiamento e sull’alleanza terapeutica (Lang, Lopez, Stahl, Tchanturia & Treasure, 2014). Il set-shifting deficitario implica, invece, difficoltà nello spostare l’attenzione tra stimoli attentivi differenti in tempistiche relativamente rapide (Garret et al., 2014). A tal proposito, non sorprende che un sottogruppo di pazienti con AN soddisfi anche i criteri diagnostici dell’ASD (Huke, Turk, Saeidi, Kent, & Morgan, 2013). È stato, infatti, dimostrato che numerosi tratti dello spettro autistico nell’anoressia nervosa sono spesso connessi alle prognosi più severe e croniche del disturbo alimentare, caratterizzate da: prolungamento del parametro “durata di malattia”, necessità di implementare un trattamento farmacologico, sintomi da malnutrizione esacerbati e deficit neuropsicologici significativi (Nielsen et al., 2015; Stewart, McEwen, Konstantellou, Eisler, & Simic, 2017; Tchanturia, Adamson, Leppanen, & Westwood, 2017; Westwood, Mandy, & Tchanturia, 2017a, 2017b). La rigidità cognitiva è stata, infatti, definita come marcatore di tratto e come candidato endofenotipo nell’anoressia nervosa (Roberts, Tchanturia & Treasure, 2010): questo stile cognitivo sembra essere ereditabile e presente anche nella parentela non affetta da AN (Fossella et al., 2003; Treasure, 2007; Wade & Bulik, 2007; Grice et al., 2002).

Un’altra analogia tra i quadri clinici di AN e ASD concerne la dimensione dell’empatia e del riconoscimento emotivo: aspetti nucleari connessi alla teoria della mente (ToM), che si riferisce alla capacità di decodifica e interpretazione degli stimoli emotigeni, fondamentale per sviluppare una sfera interpersonale proficua (Kerr-Gaffney, Harrison, & Tchanturia, 2019; Oldershaw, Treasure, Hambrook, Tchanturia & Schmidt, 2011). L’evidenza scientifica suggerisce che l’inibizione della socialità e le difficoltà interpersonali costituiscono spesso un fattore prodromico di rischio e di mantenimento di AN (Cardi et al., 2018; Krug et al., 2012); oltre ad essere associati a una prognosi del disturbo più grave e duratura (Harrison et al., 2012). Inoltre, le difficoltà nel riconoscimento emotivo tendono a persistere anche a seguito del ripristino ponderale: questo dato suggerisce che le difficoltà nel riconoscimento emotivo costituiscono una variabile di tratto, piuttosto che di stato (Harrison et al., 2012; Oldershaw et al., 2011). In conclusione ciò che è stato rincontrato è che il profilo neuropsicologico dell’anoressia nervosa, sovrapponibile a tratti a quello dei disturbi dello spettro autistico, è associato a una prolungata durata di malattia, con un significativo impatto sulla prognosi e sull’efficacia del trattamento (Saure et al., 2020).

 

Disturbi alimentari e falsi miti da sfatare: (non) è tutta colpa dei genitori! – Report e VIDEO dall’evento del CIPda di Milano

Report e video del primo webinar appartenente al ciclo divulgativo dedicato a sfatare tre falsi miti che ruotano attorno ai disturbi dell’alimentazione. L’equipe multidisciplinare del CIPda, con questo intervento, ha affrontato una falsa credenza ricorrente e diffusa: l’eccessiva responsabilizzazione genitoriale. 

 

L’incontro si è aperto con un caloroso benvenuto da parte della Dott.ssa Rosaria Nocita, Direttrice Operativa della clinica, e la successiva presentazione dei professionisti coinvolti in questa sessione:

  • Dott.ssa Ilaria Riboldi: Medico Psichiatra
  • Dott.ssa Laura Ranzini: Psicologa, Psicoterapeuta
  • Dott.ssa Martina Tramontano: Psicologa, Psicoterapeuta
  • Dott.ssa Laura Zagarese: Psicologa
  • Dott.ssa Maria Luisa Colantonio: Psicologa
  • Dott.ssa Chiara Ramponi: Dietista

Tale incontro divulgativo si è articolato in due momenti principali: una prima parte dedicata all’esposizione teorica dei contenuti mediante un approccio multidisciplinare, garantito dal coinvolgimento di diverse figure professionali; secondariamente, grazie un confronto interattivo, si è cercato di rispondere agli interrogativi avanzati dagli spettatori.

Il razionale sotteso a questo ciclo di incontri, come spiegato dalla Dott.ssa Nocita, è stato quello di sfatare le numerose false credenze che si celano dietro la diagnosi di un Disturbo Alimentare (DA), assunzioni non veritiere spesso veicolate dai mass media e prive di una solida base scientifica.

L’eccessiva responsabilizzazione genitoriale, che segue nella maggior parte dei casi l’esordio della psicopatologia alimentare, è indubbiamente un falso mito che necessita di essere sfatato. 

Le cause dei DA, oggigiorno, non sono del tutto note. Pertanto, non è possibile stabilire alcun rapporto diretto di causa-effetto e, conseguentemente, attribuire un rapporto diretto tra stile genitoriale e modificazioni del comportamento alimentare.

I dati ottenuti dalla ricerca più recente sembrano indicare che questa complessa categoria diagnostica derivi piuttosto da una combinazione tra predisposizione genetica e fattori di rischio ambientali, psicologici e socioculturali.

L’incontro dunque, grazie all’intervento di ciascun professionista e mediante un linguaggio chiaro ed esempi concreti, si è proposto di spiegare la natura complessa e multifattoriale dei Disturbi Alimentari.

Dott.ssa Ilaria Riboldi (Medico Psichiatra) – Il contributo dei fattori genetici nell’esordio del DA

Il principale contributo relativo alla genetica dei Disturbi Alimentari proviene dagli studi condotti sui gemelli omozigoti, ricerche da cui emerge l’importanza di fattori di rischio di natura biologica.

Un’autorevole revisione della letteratura esistente sul tema (Yilmaz et al., 2015), focalizzatasi sulla componente genetica di Anoressia Nervosa (AN), Bulimia Nervosa (BN) e Binge Eating Disorder (BED), ci permette di disporre di molteplici dati provenienti da diverse tipologie di studi, così riassunti:

Studi su gemelli omozigoti e consanguinei: da tali evidenze emerge una probabilità 11 volte superiore di sviluppare una diagnosi di anoressia nervosa nei familiari di probandi con tale diagnosi. In aggiunta, in questi soggetti, è stata sottolineata una prevalenza di tale disturbo pari al 2% contro l’assenza nei familiari dei controlli; in merito alla bulimia nervosa si registra una prevalenza del 4,4% contro l’1,3% dei controlli, a testimonianza di una correlazione genetica tra differenti disturbi alimentari.

Studi genetici: tale branca di indagini ha sondato l’ipotesi biologica sottesa alla psicopatologia alimentare, provando ad individuare i geni responsabili della codifica di particolari recettori ed enzimi di sintesi o degradazione dei neurotrasmettitori. Nello specifico, relativamente ai DA, i geni candidati potrebbero essere quelli codificanti le varie proteine del sistema neurotrasmettitoriale serotoninergico, fondamentale mediatore relativo alla genesi dei DA.

Studi di epigenetica: più recenti rispetto ai precedenti, hanno analizzato le differenti modificazioni ereditabili che portano a variazioni dell’espressione genica in assenza di un’alterazione della sequenza del DNA.

Seppur la branca di studi sopracitata sia in perpetua espansione, oggigiorno non è ancora possibile identificare con certezza una linea comune: nonostante siano riscontrabili alcune similitudini geniche, ravvisabili ad esempio fra il Binge Eating e la Bulimia Nervosa, è importante considerare ciascun disturbo come a sé stante e la natura multifattoriale di tale categoria diagnostica.

L’utilizzo di campioni clinici più ampi e variegati, l’inclusione omogenea delle diagnosi all’interno delle ricerche empiriche e l’approfondimento di come la componente biologica si intrecci con aspetti sociali e psicologici, sono solo alcune delle sfide a cui la ricerca nell’ambito dei Disturbi Alimentari è chiamata a rispondere.

Dott.ssa Maria Luisa Colantonio (Psicologa) – I fattori predisponenti

Sebbene l’aspetto genetico ricopra un ruolo importante nel favorire una maggiore o minore predisposizione all’esordio di un qualsivoglia DA, dalla letteratura scientifica si riscontra la presenza di una serie di fattori che contribuiscono a creare un terreno fertile per la psicopatologia alimentare. Questi, come illustrato dalla professionista, sono:

Fattori socioculturali: seppur non ancora inquadrati con sistematicità, si presume che un ruolo centrale sia giocato dall’ideale di magrezza sviluppatosi negli ultimi 50 anni nei paesi occidentali ed enfatizzato dai media e social network. A supporto di tale considerazione, la netta preponderanza dei DA nei paesi occidentali rispetto a quelli orientali.

Ambiente familiare: anch’esso considerato un fattore predisponente, può contribuire in alcuni casi a veicolare messaggi disfunzionali quali l’eccessiva polarizzazione dell’attenzione verso la forma del corpo, il proprio peso e l’alimentazione. In aggiunta le abitudini alimentari familiari, siano queste orientate verso un consumo eccessivo o restrittivo di cibo, sono spesso correlate positivamente con condotte alimentari disfunzionali.

Caratteristiche individuali: fra queste rientrano il sesso femminile, in quanto il corpo della donna è soggetto a cicliche modificazioni date dallo sviluppo puberale ed eventuali gravidanze ed una pregressa condizione di sovrappeso, che si associa a sentimenti di inadeguatezza frutto dalla discordanza tra la propria forma fisica ed il prototipo ideale di bellezza promosso dalla società.

Variabili psicologiche: quali bassa autostima nucleare e perfezionismo clinico.

Dott.ssa Laura Zagarese (Psicologa) – I fattori precipitanti

Una volta definito il ruolo centrale giocato dalla componente biologica ed il contributo proveniente dai fattori di rischio predisponenti, si è proseguito inquadrando l’importante ruolo attribuito allo stress in rapporto alla manifestazione di comportamenti di controllo del peso e della forma del corpo. Primo tra i fattori precipitanti è indubbiamente l’inizio di una dieta ipocalorica, che aumenta di ben 8 volte la probabilità di esordio di DA. Seguono gli eventi di vita stressanti, quali trasferimenti, rottura di relazioni significative e cambiamenti della routine, così come la transizione evolutiva, spesso associata ad una persistente sensazione di perdita di controllo, gestita con l’aumento di controllo sul piano alimentare.

Dott.ssa Martina Tramontano (Psicologa, Psicoterapeuta) – I fattori di mantenimento

L’incontro prosegue con l’inquadramento, da parte dell’esperta, di tutte quelle variabili che mantengono e rinforzano il disturbo precedentemente innestato, ossia l’insieme di fattori psicologici ed ambientali che intrappolano la persona nel circolo vizioso del DA. Gli interventi terapeutici, in linea con la prospettiva transdiagnostica di Fairburn, si focalizzeranno dunque sulla rimozione di tali elementi di mantenimento.

Fattori di mantenimento specifici: primo fra tutti l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo che, in ottica transdiagnostica, rappresenta il nucleo psicopatologico cognitivo specifico dei Disturbi dell’Alimentazione. Da tale componente cardine conseguono le molteplici caratteristiche cliniche della categoria diagnostica analizzata, che concorrono in maniera unitaria a mantenere il disturbo. Fra queste rientrano le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo, la dieta ferrea, comportamenti di compenso quali vomito autoindotto, uso improprio di lassativi e diuretici, esercizio fisico eccessivo ed i sintomi da malnutrizione. Gli episodi di abbuffata, in quest’ottica, altro non sono che una conseguenza diretta delle regole dietetiche estreme. Inoltre, tale discontrollo alimentare, può instaurarsi come strategia disfunzionale di modulazione delle emozioni negative.

Fattori di mantenimento aspecifici: fra cui perfezionismo clinico, bassa autostima nucleare, intolleranza alle emozioni ed esperienze di vita avverse.

Anche i rinforzi positivi e negativi sono aspetti salienti da considerare quando si valuta questa tematica. Nello specifico, quelli positivi possono essere sia di natura cognitiva che sociale. I primi fanno riferimento, ad esempio, al sentimento di controllo ed onnipotenza che si esperisce successivamente al calo ponderale. I secondi, comprendono fattori come l’approvazione da parte del gruppo dei pari o una maggiore considerazione da parte delle figure genitoriali. In aggiunta, aspetti come la perdita di peso e l’acquisizione di un corpo con forme prepuberi, possono in essere mantenuti attraverso rinforzi negativi, tramite l’allontanamento o l’evitamento di situazioni temute quali contatti di natura sessuale, aspettative altrui elevate, conflitti familiari.

Dott.ssa Laura Ranzini (Psicologa, Psicoterapeuta) – Il ruolo esercitato dai social media come fattore ambientale predisponente

Come anticipato precedentemente, la pressione esercitata dai social media relativa all’ideale di magrezza e perfezione fisica, rappresenta tutt’oggi una delle principali sfide a cui il clinico è chiamato a rispondere, poiché rappresenta un importante fattore d’esordio e mantenimento della problematica alimentare. Con la pandemia di Covid19 ed i prolungati periodi di isolamento, si è assistito ad un uso massiccio dei social sia da parte dalla popolazione giovanile che adulta. Studi di ricerca hanno confermato quanto questi canali promuovano sensazioni di insoddisfazione corporea e favoriscano l’interiorizzazione di stereotipi di bellezza inverosimili e falsati. Di pari passo, dalla pratica clinica si evince quanto essi mantengano fervide le preoccupazioni relative al peso e alla forma del corpo, nucleo portante del Disturbo Alimentare, esponendo gli utenti a ripetuti confronti fra il proprio corpo e quello altrui. Pertanto, come esposto dalla Dott.ssa Ranzini, potrebbe essere utile a livello terapeutico promuovere, in maniera congiunta con il paziente, una discussione critica relativa alla poca veridicità delle immagini forniteci dai social, nella maggior parte dei casi soggette a manipolazioni e ritocchi di post-produzione.

Dott.ssa Chiara Ramponi – I fattori protettivi rispetto all’esordio

Prima di dedicare spazio alle domande degli spettatori, ci si è focalizzati sull’identificazione dei fattori protettivi, ossia quelle variabili che possono concorrere a diminuire le probabilità di esordio di un Disturbo Alimentare. Tra questi si annoverano:

Adozione di un sano stile alimentare sin dall’infanzia: poiché l’apprendimento vicario è fondamentale durante i primi anni di vita, presentare al bambino uno stile alimentare sano ne favorisce l’introiezione. Nel concreto, si suggerisce di coinvolgerli durante la scelta dei prodotti da consumare, nella preparazione delle pietanze, evitando di eliminare in maniera assoluta determinati cibi o, al contrario, consumarne selettivamente degli altri.

Promozione di un clima sereno durante i pasti: evitando quindi conflitti e scontri nel momento della convivialità

Evitare di utilizzare il cibo come premio o punizione: dalla ricerca scientifica emerge che tale pratica si associa, in età adolescenziale, a selettività alimentare e restrizioni.

Favorire il raggiungimento di un “peso ed un appetito salutare”: quindi permettere al bambino di arrivare adeguatamente affamato all’orario dei pasti e, al contrario, inibendo la fame durante il tempo che intercorre tra essi. Proporre cinque pasti giornalieri, che si articolano nei tre principali e due spuntini a metà mattina e metà pomeriggio, è una strategia utile per perseguire questi obiettivi.

Prestare attenzione ai segnali: quindi sollecitare il genitore ad adottare un atteggiamento moderatamente attento, non apprensivo; riconoscere comportamenti alimentari schizzinosi, problematiche legate ad una scorretta digestione e fobie associate a particolati cibi, e consultare prontamente un esperto per un consulto, è indubbiamente un importante fattore protettivo.

Le domande del pubblico

La seconda parte del webinar si è poi articolata attraverso la presentazione agli esperti delle domande degli spettatori, in particolare si è tentato di rispondere a due quesiti principali, così riassunti:

1) Quale risposta si offre in caso di Disturbo Alimentare di lunga durata?

Le Dott.sse Ranzini e Tramontano hanno sottolineato quanto sia importante attenersi all’evidenza scientifica per rispondere a questa domanda. Gli studi indicano infatti che è possibile assumere un atteggiamento moderatamente ottimistico, in quanto solo un 10% di persone affette da un DA non manifesta alcuna risposta al trattamento. Importante inquadrare i fattori prognostici positivi, quali esordio precoce e breve durata di malattia e quelli negativi, ossia la lunga durata, grave perdita di peso e presenza di condotte di abbuffata e vomito autoindotto. Sommariamente, un trattamento focalizzato sul nucleo psicopatologico e sui meccanismi di mantenimento sembrerebbe portare nella maggior parte dei casi ad una remissione del disturbo.

2) Quali sono le risposte territoriali a questa tematica?

Il territorio, come sottolineato dalla Dott.ssa Zagarese, offre molteplici risposte a questa problematica, sia sul versante pubblico che privato. Previo un rapido riconoscimento dei sintomi, a fini terapeutici ci sono due aspetti di vitale importanza: da un lato, un approccio multidisciplinare, dall’altro una concordanza teorica e metodologica sia a livello di formulazione della problematica alimentare, che nel relativo trattamento della stessa.

 

I 3 FALSI MITI SUI DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE:
FALSO MITO #1: (NON) È TUTTA COLPA DEI GENITORI

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Balbuzie: cause, disagio e nuove vie terapeutiche con la neurostimolazione

La balbuzie colpisce circa l’1,5% della popolazione mondiale, e quasi un milione di italiani balbetta.

 

La balbuzie riguarda particolarmente il sesso maschile, con un rapporto di 4 a 1, anche se, negli ultimi anni, la percentuale femminile è in costante aumento.

Nella primissima infanzia il 5% dei bambini è affetto da disfluenza, ed entro i 6 anni l’80% della popolazione guarisce spontaneamente, con una percentuale di 4 bambini su 5 (Yari & Ambrose, 1999). Le femmine tendono a guarire con una maggiore frequenza rispetto ai maschi, e questo sottolinea come il maschio possa essere più vulnerabile nell’evoluzione psicolinguistica.

Nella maggioranza dei casi, la balbuzie compare tra i 3 e i 7 anni. Può comparire anche in età pre-puberale (10-12 anni), e solo in casi rari potrebbe manifestarsi in età adulta dopo un evento traumatico, anche se ciò non è attualmente dimostrabile attraverso la letteratura scientifica.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce questo disturbo del linguaggio nel seguente modo:  “La balbuzie è un disordine nel ritmo della parola, nel quale il paziente sa con precisione ciò che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni o prolungamenti di un suono”.

La definizione ben sottolinea la mancanza di coordinazione tra i centri motori deputati al linguaggio ed i centri cognitivi che formulano la frase. I centri motori non seguono di necessità la formulazione del linguaggio. Tale mancanza di coordinazione viene esacerbata in particolari situazioni sociali, soprattutto quando alla persona con balbuzie viene richiesta una perfomance verbale.

Per Büchel & Sommer (2004) esistono due tipi di disfluenze:

  • balbuzie inerente allo sviluppo, definita “balbuzie primaria“, che compare tra due e cinque anni di età, senza cause apparenti e/o evidenti problematiche a livello del sistema nervoso centrale;
  • balbuzie inerente allo sviluppo persistente, definita “balbuzie secondaria”.

Nella balbuzie quindi si riconoscono degli “indici primari” (ripetizioni di suoni, sillabe, parole o frasi, blocchi silenziosi o prolungamento dei suoni), che si differenziano dalle disfluenze fisiologiche e tipiche di molti bambini all’inizio del loro percorso di apprendimento linguistico.

Si notano poi degli “indici secondari”, che sono meccanismi di evitamento su base psicogena, che si manifestano successivamente all’insorgenza della balbuzie. In questo caso, il balbuziente si troverà ad esempio a cambiare la parola su cui balbetta, a modificare continuamente la sintassi o la grammatica della frase, oppure cercherà di evitare situazioni o persone che sollecitano angoscia da prestazione.

Quando questi accorgimenti non funzionano, la persona con balbuzie si troverà ad esacerbare i blocchi con sincinesie (movimenti involontari del corpo), o con l’interruzione totale della parola (blocco tonico). A causa degli “indici secondari”, la persona con balbuzie sviluppa un linguaggio “protettivo”,  ovvero cercherà di parlare il meno possibile. Questo comportamento nell’arco degli anni potrà provocare altre problematiche, quali per esempio diminuzione della capacita semantica, sintattica e grammaticale, con difficoltà anche nella codifica della lettura a voce alta.

Per ciò che concerne gli studi italiani su tale materia, nel 1906 compare la prima pubblicazione di Antonio Sala dal titolo “Cura della balbuzie e dei difetti di pronunzia”. Dagli anni ‘60 in poi, a livello mondiale ci sarà un vasto proliferare di testi, e già nel 1950 lo statunitense Charles Van Riper conteggiava circa 8.000 lavori scritti in materia.

Secondo Kidd et al. (1981) all’interno di tale disordine è rinvenibile una predisposizione genetica che rimanda ad un problema organico di base, ma solo a partire dal 1997 la scienza ha effettuato i primi passi per isolare il gene della balbuzie.

Da un punto di vista linguistico, Pellowski & Conture (2005) sostengono che la disfluenza sia dovuta ad una diminuita capacità sintattica e semantica rispetto ai soggetti normofluenti. Si potrebbe quindi ipotizzare che le alterazioni rinvenute a livello genetico possano determinare una serie di alterazioni strutturali e funzionali, evidenti a livello del sistema nervoso centrale, alterando la capacità di elaborare correttamente i piani linguistici e quelli motori complessi, quali per esempio quelli necessari per la corretta realizzazione del linguaggio (si veda Etchell et al., 2018, per una esaustiva e recente revisione della letteratura).

Partendo da questi presupposti, la terapia quindi dovrà riguardare gli “indici primari” (in altre parole concerne la balbuzie dal punto di vista funzionale), intervenendo sulle aree deficitarie del linguaggio mediante la logopedia, preferibilmente aggiungendo un intervento psicologico proteso a ridurre i meccanismi di evitamento che esasperano il blocco.

Secondo molti ricercatori è necessario intervenire precocemente sul bambino: il trattamento dovrà essere proposto già al di sotto dei sei anni, prima che il soggetto in età evolutiva si confronti con la realtà scolastica, senza inutili attese che potrebbero facilitare il passaggio ad una balbuzie secondaria.

Nella comorbidità del bambino è facile rilevare solitamente la presenza di altri disturbi motori, così come la presenza di altri disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia), dell’attenzione ed iperattività. Nell’adulto con balbuzie è possibile anche rilevare alcune patologie di tipo psichiatrico, quali per esempio Disturbi Dell’Umore (depressione), Disturbo d’ansia, Disturbo Ossessivo Compulsivo e Disturbi di Personalità.

Infatti, diversi ricercatori sottolineano che spesso nell’adulto balbuziente si sviluppa un disturbo d’ansia specifico (Pravesh Arya & Geetha 2013), che s’innesca dalle esperienze negative scolastiche e sociali collegate al disturbo.

Compatibilmente, la quasi totalità degli adolescenti e degli adulti con balbuzie presenta frequente angoscia e fobia sociale.

Per questo motivo, specialmente negli adulti e nei casi più severi, la balbuzie potrebbe diventare gravemente invalidante: la ricerca di Klein & Hood (2004), effettuata su un campione di 232 persone con balbuzie in età adulta, ha messo in luce che oltre il 70% delle persone esaminate è del parere che la disfluenza interferisca negativamente sulla loro qualità di vita, ove il 20% del campione ha addirittura rifiutato un lavoro o una promozione a causa del disturbo.

Per ciò che concerne la terapia, la balbuzie è definita da molti operatori del settore come “la bestia nera della logopedia”, essendo una patologia mal compresa e poco trattata. In alcune regioni del nostro Paese, come nel sud Italia e nelle isole, diventa veramente difficile trovare una struttura pubblica che si occupi di persone con balbuzie.

Nel sistema pubblico la cura della disfluenza è riconosciuta solo per i soggetti in età evolutiva, mentre adolescenti ed adulti devono spesso ricorrere a centri privati. Nel nostro Sistema Sanitario Nazionale, dopo circa un anno o due di attesa, il bambino con balbuzie viene preso in carico dall’età di 6/7 anni con la somministrazione di un trattamento logopedico, a cui si può aggiungere un intervento psicologico.

In ambito privato, oltre alla presenza di una serie di professionisti sanitari validi che hanno dedicato la loro vita professionale alla cura della balbuzie, partendo da solide basi teoriche e scientifiche, ci troviamo molte volte alle prese con una “comunicazione mediatica selvaggia”, i cui contenuti possono essere basati su evidenze non scientifiche e non dimostrate, e soprattutto, non soggetti ad un controllo attento da parte delle autorità competenti.

Tutto il campo della terapia della balbuzie andrebbe perciò normato, dal tipo di pubblicità fino agli attori deputati alla riabilitazione, che dovrebbero essere operatori sanitari (medici, psicologi e logopedisti) che abbiano acquisito un’evidente esperienza nel trattamento della balbuzie.

Infatti, questo disturbo è un problema serio che va sempre trattato con cautela, sulla base di una diagnosi logopedica, foniatrica, neuropsichiatrica e psicologica.

Una procedura che tenga conto solo della balbuzie in quanto tale, senza considerare il quadro psicologico del soggetto, potrebbe determinare anche un peggioramento della sintomatologia con effetti collaterali.

La balbuzie è un problema di tipo multifattoriale, che abbraccia l’aspetto logopedico, psicologico e somatico, e quindi di necessità l’approccio terapeutico dovrebbe prevedere una metodologia multidisciplinare, in grado di sollecitare tutte le variabili comunicazionali.

La balbuzie non si può curare in tempi brevi: nella letteratura scientifica non esistono forti evidenze a favore di interventi che assicurano risultati istantanei; onde per cui è sempre meglio affidarsi nelle mani di professionisti accertati, che possano seguire il paziente nel tempo, verificandone i progressi.

In questo contesto, anche il contributo della ricerca scientifica è fondamentale per proseguire nella comprensione e nel miglior trattamento del disturbo. Anche in Italia, come in ambito internazionale, sono vari i filoni di ricerca impegnati nello studio della balbuzie, che stanno provando a tradurre le evidenze riscontrate in nuove proposte da sperimentare in ambito terapeutico.

Per esempio, nel nostro Paese, presso il Laboratorio di Balbuzie e Logopedia dell’IRCCS San Camillo di Venezia è attivo il Dott. Pierpaolo Busan (psicologo) che sostiene come la balbuzie possa essere il risultato di una serie di erronei processi di programmazione motoria, da ascrivere principalmente al non corretto funzionamento di un complesso circuito cerebrale cortico-striato-talamo-corticale, che comprende strutture quali i gangli della base e l’area supplementare motoria. Tale circuito è responsabile del corretto apprendimento motorio e del suo corretto recupero, funzione fondamentale per l’esecuzione di sequenze motorie complesse quali per esempio quelle collegate al linguaggio. La persona con balbuzie sembrerebbe perciò non riuscire ad attivare e a controllare nella maniera più funzionale tali circuiti cerebrali, favorendo perciò la comparsa delle disfluenze. Intervenire direttamente su tali processi potrebbe aiutare nel controllare con maggiore efficacia il disturbo.

A tal riguardo, il progetto di ricerca avviato presso l’IRCCS San Camillo di Venezia, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia (sede di Ferrara), sta cercando di verificare l’utilità di un protocollo di neuromodulazione non invasiva (tramite l’utilizzo di stimolazione elettrica transcranica) per migliorare l’attività del circuito cortico-striato-talamo-corticale e della corteccia motoria, in modo da potenziare l’efficacia di un intervento più classico (logoterapia) sulla fluenza verbale della persona affetta da balbuzie.

L’obiettivo di questo progetto di ricerca è perciò quello di implementare nuove modalità di intervento da affiancare alle terapie già esistenti, in modo da migliorarne l’efficacia (per maggiori informazioni al riguardo contattare l’indirizzo mail [email protected]).

In conclusione, la balbuzie è un problema complesso e, come tale, il trattamento di questo disturbo richiede una sempre migliore comprensione delle sue caratteristiche e delle sue cause. Di conseguenza, un approccio di tipo multidisciplinare, che richiede una piena collaborazione tra clinica e ricerca, ma anche delle Istituzioni atte a normare questo campo di intervento, è oggi più che mai necessario per individuare nuove vie di intervento per migliorare la qualità di vita delle persone affette da questo problema.

 

Il mondo degli exergames: tra potenzialità e ambiti di intervento?

Gli exergames sono nuovo genere di videogames e hanno lo scopo di promuove uno stile di vita attivo e dinamico. Il training neuromotorio che si compie giocando induce allo stesso tempo una modificazione della plasticità del cervello.

 

 Il termine exergaming è un vocabolo di origine inglese usato per indicare una categoria di videogames che è esplosa dopo la comparsa della Nintendo Wii.  

Questo nuovo genere, conosciuto anche come active games (Mears & Hansen, 2009), si riferisce a un ambito videoludico in cui l’attività fisica viene utilizzata come dispositivo di input (Marasso, D. 2015). Questo genere, nato allo scopo di rovesciare uno degli stereotipi che affliggono i videogiochi (vale a dire la promozione dell’attività sedentaria e della pigrizia), promuove uno stile di vita attivo e dinamico (Marasso, D. 2015). Attraverso un alternarsi di tentativi ed errori l’utente, grazie alla rilevazione dei propri movimenti del corpo combinati con l’ausilio di biofeedback visivi, viene portato ad esplorare innumerevoli strategie fino a trovare quella corretta che lo porta a completare il livello. Il training neuromotorio che si compie induce allo stesso tempo una modificazione della plasticità del cervello portando in breve al ripristino o creazione di corretti modelli motori. Mente e corpo vengono messi quindi in fortissima relazione. Fruibili da tutti, gli exergames si offrono a un target davvero ampio. Si va dal bambino in fase di sviluppo fino ad arrivare all’anziano che, se stimolato al movimento in maniera coinvolgente, trae benefici riabilitativi nonché cognitivi. Secondo uno studio (Anderson-Hanley, C. et al. 2018) apparso in Frontiers in Aging Neuroscience, alcuni ricercatori dell’Union College hanno dimostrato come attraverso la pratica degli exergames sia possibile rallentare il Mild Cognitive Impairment (MCI), ovvero quel lieve decadimento cognitivo precursore dell’Alzheimer.  Nello studio in questione erano stati coinvolti più di 100 anziani con un’età media di 78 anni e divisi in due gruppi.  Al primo gruppo veniva richiesto di svolgere un “exer-tour” mentre al secondo gruppo veniva richiesto di svolgere un “exer-score”, attività anche cognitivamente impegnativa. L’exer-tour consisteva nel pedalare su una cyclette tradizionale dove, montato su uno schermo, appariva l’avatar di un ciclista posto una pista ciclabile panoramica. La veloce progressione dell’avatar dipendeva dalla pedalata dell’utente stesso. L’avatar inoltre non poteva lasciare il percorso né tantomeno sbattere contro qualcosa. Poteva solo proseguire diritto. L’Exer-score al contrario richiedeva al partecipante di pedalare come nell’exer-tour, ma di giocare contemporaneamente a un videogames in cui si dovevano inseguire dei draghi e conseguire anche delle monete in uno spazio d’azione di ben 360 gradi. Il fine ultimo del videogioco era di segnare più punti possibili. Questi due gruppi dovevano praticare l’attività di exergaming con regolarità per la durata di 6 mesi (la durata della ricerca). I risultati ottenuti dai due campioni vennero poi confrontati con le risposte di altri due gruppi di anziani che giocavano a un videogames su un computer e da un altro che invece si affaticava con la cyclette. Nonostante gli stessi ricercatori ammettano che sia necessario un RCT più esteso per confermare i risultati, al termine della sperimentazione clinica si è visto come i primi due gruppi di partecipanti si sono ritrovati con una funzione esecutiva migliore, determinante per il processo decisionale e il multitasking. Un beneficio lo si era già visto dopo comunque già dopo i primi 3 mesi. (Anderson-Hanley, C., Barcelos, N. M., Zimmerman, E. A., Gillen, R. W., Dunnam, M., Cohen, B. D., Yerokhin, V., Miller, K. E., Hayes, D. J., Arciero, P. J., Maloney, M., & Kramer, A. F. 2018)

 Nei più piccoli invece gli active games si sono dimostrati un efficace strumento per indurli a svolgere attività fisica con regolarità, dimostrandosi un valido alleato nella prevenzione, cura e trattamento di dismorfismi (come ad esempio la scoliosi) o paraformismi (ovvero posture scorrette della schiena) che possono colpirli durante la loro crescita. Anche a livello cognitivo e sociale la pratica degli exergames ha dimostrato dei considerevoli giovamenti. Ricerche effettuate in ambito cognitivo hanno dimostrato come giocare agli exergames migliori anche le performance scolastiche. A livello cognitivo, per esempio, vengono stimolati alcuni aspetti quali l’attenzione, la consapevolezza spaziale o la comprensione delle relazioni causa-effetto (Höysniemi, J. 2006). Oltre all’ambito cognitivo la pratica degli exergames ha comportato effetti benefici anche a livello sociale. Alcuni studi hanno dimostrato infatti come la pratica degli exergames in ambienti di gruppo ha portato a un incremento dei legami amicali e una decrescita del pericolo di isolamento sociale (Mueller, F., Agamanolis, S., & Picard, R. 2003). Viste le diverse proprietà benefiche confermate dai vari studi, lo stato del Michigan ha introdotto nel 2003 il videogioco Dance Dance revolution all’interno del proprio programma scolastico.

Dunque, quali sono quindi gli exergames più consigliati a questo punto per allenarsi a casa? In questo periodo in cui allenarsi a casa è diventato obbligatorio, alcuni tra gli exergame più noti sono Just Dance, Ring Fit Adventure o Beat Saber. Praticare exergaming in realtà virtuale (o VR), come nel caso di Beat Saber, ha dimostrato come gli ambienti immersivi possono distrarre gli utenti dallo sforzo fisico dell’esercizio e possono nello stesso tempo motivarli a continuare a giocare. Nonostante il recente aumento della popolarità della realtà virtuale grazie anche al contributo di tecnologie come la PSVR e i vari Oculus, numerosi utenti continuano ancora a soffrire di cybersickness (McCauley, et all. 1992). La cybersickness o VR sickness è quel fenomeno i cui principali sintomi, dopo un periodo variabile di immersione attraverso l’HMD, sono l’affaticamento degli occhi, il disorientamento e la nausea (LaViola, J. R. 2000). Oltre a questi sintomi anche la percezione della profondità e la cognizione possono essere influenzate. Sebbene ci siano degli evidenti benefici negli exergaming in VR, è comunque utile identificare anche gli effetti negativi che ne limitano il suo potenziale e la sua continua diffusione. A tal proposito, presso  l’Università dell’Australia Meridionale, è stato recentemente svolto uno studio (Saredakis, D. et al. 2020) volto a investigare la VR sickness in 36 partecipanti che utilizzavano Beat Saber per sessioni di 10 e 50 minuti. Diversi sono stati i parametri analizzati, ovvero l’accomodazione, la vergenza, la velocità decisionale, la velocità di movimento e aspetti della cybersickness auto-denunciati in tre precisi momenti: prima dell’esperienza in VR, immediatamente dopo l’immersione in VR e 40 minuti dopo la VR (molto in ritardo). Dai risultati della ricerca è emerso che Beat Saber è stato ben tollerato. Per la maggior parte dei partecipanti, tutti gli effetti collaterali immediati sono stati di breve durata e sono tornati ai livelli basali dopo 40 minuti dall’uscita dalla VR. Sia per le esposizioni brevi che per quelle lunghe, ci sono state variazioni di accomodamento ( F 1,35 = 8.424; P = .006) e convergenza ( F 1,35 = 7.826; P = .008); tuttavia, nel periodo tardivo del test, i partecipanti sono tornati ai livelli di base. Le misure sulla cognizione non hanno rivelato alcuna preoccupazione. I punteggi ottenuti tramite il Simulator Sickness Questionnaire (SSQ) sono aumentati immediatamente dopo VR ( F 1,35 = 26,515; P <0,001) ed erano significativamente più alti per le esposizioni lunghe rispetto a quelle brevi ( t35 = 2,807; P = 0,03), ma non ci sono state differenze nella durata dell’esposizione nel periodo tardivo del test, con i punteggi che tornavano ai livelli basali. Solo il 14% dei partecipanti ha riportato ancora alti livelli di malattia nel periodo di test avanzato dopo aver giocato 50 minuti di Beat Saber.

Andando oltre tale ricerca è tuttavia interessante notare come la VR abbia fatto dei notevoli passi avanti rispetto al primo prototipo sviluppato da Ivan Sutherland nel 1986. La realtà virtuale oggi non è più uno strumento esclusivo, ma bensì alla portata di tutti e con una funzione non più esclusivamente ludica. Dal suo iniziale utilizzo esclusivo nella ricerca, la RV ad oggi è stata utilizzata anche in altri ambiti: clinico (per la cura di fobie specifiche e non solo), sportivo (Torkington, Smith et al. 2001), riabilitativo, formativo, nonché ospedaliero come nel caso di  Snow World. SnowWorld, sviluppato presso l’Università di Washington in collaborazione con Harborview Burn Center, è stato il primo software VR immersivo progettato specificamente per la riduzione del dolore. Esso sposta la concentrazione del paziente lontano dal dolore in un ambiente gelido e virtuale inondato di blu e bianchi freddi, dove il loro unico compito è lanciare palle di neve a un gruppo di pinguini e di pupazzi di neve che avanza all’infinito. Potrebbe sembrare sciocco, ma i risultati parlano da soli: i pazienti ustionati hanno avvertito dal 35 al 50% di dolore in meno quando sono stati immersi nella VR (Hoffman, H.G. et al. 2011), circa la stessa riduzione di una dose moderata di antidolorifici oppioidi. Oltre a ridurre la quantità di dolore, la distrazione in VR sembra modificare il modo in cui il cervello elabora i segnali in arrivo dai recettori del dolore. I pazienti immersi in SnowWorld non solo hanno riportato meno dolore sulla scala soggettiva del dolore, ma hanno anche mostrato circa la metà dell’attività cerebrale correlata al dolore mentre erano immersi in SnowWorld. Dopo aver sviluppato un auricolare MRI unico nel suo genere per due anni, il team di ricerca ha analizzato le scansioni cerebrali di pazienti con e senza VR, dimostrando che i recettori del dolore nel cervello sono molto meno attivi durante la VR (Hoffman, H.G. et al. 2006). Nello specifico la risposta del cervello ai recettori presenta una rimodulazione degli aspetti sia sensoriali che emotivi peculiari per l’elaborazione del dolore.

 

Il Gruppo come cura (2021) di Claudio Neri – Recensione del libro

Il gruppo come cura ha il chiaro intento di trasmettere le conoscenze maturate in tanti anni di terapia gruppale e rivelatesi efficaci, candidandosi ad entrare a pieno titolo nella cassetta degli attrezzi di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori, operatori di comunità, infermieri.

 

 Il gruppo come cura, scritto da Claudio Neri, Psicoanalista e Psicoterapista di Gruppo, segue la pubblicazione Gruppo (2017), ed è frutto di un sogno, al risveglio dal quale il Dottor Neri risulta illuminato circa la direzione da dare ai vari appunti presi: il narratore non doveva essere solo osservatore ma partecipe dei fatti.

Il libro ha il chiaro intento di trasmettere le conoscenze maturate in tanti anni di terapia gruppale e rivelatesi efficaci, candidandosi ad entrare a pieno titolo nella cassetta degli attrezzi di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, educatori, operatori di comunità, infermieri, nonché aiutare gli studenti di psicologia e psichiatria ad approcciare l’analisi di gruppo.

Si intrecciano nel libro due modi di raccontare, uno prettamente concettuale, l’altro puramente clinico, volto ad esplicitare i contenuti teorici trattati: le 7 sequenze cliniche riportate, racchiudenti ognuna più sedute, coprono un periodo di dieci anni, dal 2005 al 2015, e non seguono, dunque, un ordine cronologico, quanto piuttosto rispondono alle esigenze del Dottor Neri di rendere il processo terapeutico maggiormente comprensibile.

Nella prima parte vengono presentati i protagonisti del testo, in particolare la narrazione inizia con la richiesta di Gianna di partecipare ad una terapia di gruppo. Da qui la differenziazione tra “candidato ideale” e “paziente possibile”: dai colloqui preliminari ci si accerta se il soggetto ha effettivamente bisogno di un percorso psicoterapeutico e se, nello specifico, può giovare di una terapia di gruppo rispetto ad una psicoterapia individuale. Il paziente possibile è una persona che realmente esiste:

È ogni uomo o donna che viene nel mio studio, chiedendomi aiuto per affrontare la sua sofferenza psicologica ed esistenziale (pag.22).

Gianna accederà al gruppo dopo un percorso individuale durato un anno, durante il quale si è lavorato sulla sintomatologia depressiva.

Obiettivo della psicoterapia di gruppo è riattivare il “progetto vitale” dell’individuo, tendenza evolutiva originaria che ciascuno cerca di perseguire lungo l’intero arco di vita: progetto vitale e psicoterapia di gruppo sono in un rapporto inversamente proporzionale, dal momento in cui l’impellenza del primo rende meno necessario il lavoro di gruppo.

Come sottolinea Kohut:

Il cuore del processo terapeutico, infatti, non consiste nel risolvere singoli meccanismi che sono disfunzionali, ma nel riattivare il potenziale evolutivo del Sé difettoso.

Il gruppo è un tutto in cui ciascuno mantiene la propria individualità: esso non esiste soltanto sul piano sociale, ma ha una propria connotazione nella psiche, essendo una presenza nella mente delle persone. Nel gruppo analitico i rapporti sono di natura egualitaria ed il compito è di conoscersi l’un l’altro, e di conoscere sé stessi nel rapporto con gli altri.

Il setting è di cruciale importanza: statico, immodificabile, luogo sicuro cui affidarsi. Il timing di una psicoterapia di gruppo ideale è bisettimanale, della durata di un’ora e quarantacinque minuti, favorendo il raggiungimento di un’ottimale intensità nella vita dei partecipanti.

 Il gruppo raggiunge maggiori benefici quando è formato da 7/8 persone: un numero inferiore andrebbe a favorire i rapporti duali ed un numero maggiore renderebbe difficoltoso seguire le vicende di ciascuno. Il gruppo analitico descritto nel testo è eterogeneo per sintomatologia e relativamente omogeneo per età e viene descritto dal Dottor Neri “ad alto funzionamento”. Trattasi di un gruppo “slow open”, ovvero a lento ricambio: ogni anno circa due persone concludono la terapia e altrettante la iniziano. Con la consapevolezza che i gruppi chiusi a lungo andare stagnano, l’autore sottolinea il delicato momento di ristrutturazione cui l’intero gruppo va incontro quando entra un nuovo partecipante-paziente: la fuoriuscita di uno dei membri viene vissuta come un lutto, ragion per cui si lavora su tale momento per mesi; di converso alle new entry si associano intense aspettative. Appartenere a un gruppo analitico corrisponde ad un lavoro di ri-definizione identitaria, ovvero si percorre la strada della soggettivazione. Più precisamente, rappresenta l’inizio di un processo che va in direzione opposta alla strada di solitudine e ripiegamento su di sé verso cui la persona si era precedentemente indirizzata, o verso cui era stata spinta.

Disposti in cerchio, i soggetti affidano i propri pensieri, fantasie, sogni, emozioni, al centro vuoto, venendo in contatto con l’ignoto. Il materiale portato in seduta viene così pensato e trasformato.

Nello stato del “gruppo nascente”, caratterizzato da speranza ed apertura al futuro, l’individuo sperimenta depersonalizzazione, ovvero perdita dei confini del sé, accompagnata da un cambiamento del proprio modo abituale di pensare e di porsi in rapporto con la realtà circostante: le sensazioni e le attese non sono più localizzate, ma diffuse in uno spazio comune. Il tempo non è più il tempo della quotidianità, bensì il tempo della seduta, ovvero un “presente esteso”. Tale disorientamento colpisce tutti i partecipanti, incluso il terapeuta. L’evoluzione di tale stadio è “la comunità dei fratelli”: i membri prendono consapevolezza delle potenzialità del gruppo come soggetto collettivo, come comunità capace di pensiero. In tale stadio ogni membro diviene maggiormente disponibile a mettersi in gioco. L’analista, conduttore del gruppo, è percepito meno distante, più umano e maggiormente partecipe: se nella fase precedente veniva costantemente atteso un suo intervento (di approvazione, disapprovazione o salvazione), nella comunità dei fratelli vi sono lunghe fasi della seduta dove il terapeuta non interviene; calibrando i suoi interventi, il terapeuta si colloca in posizione laterale, lasciando scorrere gli interventi dei pazienti.

Compito del terapeuta è fare in modo che vengano rispettati i tempi di ciascuno alla condivisione, proteggendo il diritto al riserbo. Specie nelle fasi iniziali, la sola presenza e l’accoglimento dei pensieri altrui nella propria mente, costituisce un momento di condivisione e trasformazione. Quando tutti riescono a partecipare al gruppo allo stadio della comunità dei fratelli, ogni membro si trova a essere contemporaneamente un paziente e un agente attivo che svolge una funzione nel trattamento degli altri.

Il pensiero di gruppo sviluppa le sue potenzialità terapeutiche soprattutto quando può lasciare da parte il ragionamento organizzato e il problema concreto, ed è libero di spaziare nell’immaginazione e procedere per rapide intuizioni. Il pensiero di gruppo è mimetico, ovvero capace di rappresentare qualcosa e renderlo emozionalmente e sensorialmente presente.

Il racconto delle sequenze di seduta si dispiega come un dialogo a più voci, mettendo in luce il processo veritativo che si realizza in analisi di gruppo: punti di vista diversi e diverse verità coesistono, si confrontano, si scontrano, favorendo un’evoluzione del discorso e delle persone che vi prendono parte. Gradualmente si forma il senso del “NOI” e un sentimento di interdipendenza, portando alla creazione della membrana protettiva, pelle psichica, denotante il senso di appartenenza.

Ogni membro deve impegnarsi non solo per raggiungere la sua meta personale, ma anche per creare e mantenere le condizioni di un buon funzionamento del gruppo come insieme.

Il problema del singolo diviene problema del gruppo: il dottor Neri utilizza il termine commuting per indicare tale processo.

Compito del terapeuta è focalizzare l’andamento di ciascun membro nel processo di cura, stando bene attento ad evitare l’attivazione dell’assunto di base della dipendenza, il cui risultato sarebbe la passivizzazione del gruppo. Rivolgendosi alla totalità del gruppo, piuttosto che al singolo individuo, egli favorisce le libere associazioni utilizzando immagini o piccoli racconti, promuovendo, in tal modo, la “buona socialità”. Un gruppo è dotato di buona socialità, quando è in grado di soddisfare almeno in parte il bisogno di riconoscimento delle persone che lo formano. Trattasi di un riconoscimento realistico: oltre alle capacità vengono focalizzati anche limiti e manchevolezze. Da ciò può dispiegarsi un discorso comune diretto verso una meta condivisa: l’autenticità, vista come conoscenza, sincerità, miglioramento individuale.

Il modello esplicitato non importa nel setting gruppale metodologie psicoanalitiche standard, quali transfert e controtransfert, che, seppur notate, vengono collocate sullo sfondo.

Centrale è il dispiegarsi della “capacità negativa”, individuata da Bion: l’esercizio del “non capire” fa sì che l’analista non dia prematuramente forma a ciò che sta evolvendo e che potrà emergere in modo più chiaro nel campo analitico. Ciò non equivale ad un atteggiamento di passività, quanto piuttosto al restare in contatto con l’incomprensibile, non uscendo dalla condizione di dubbio.

La funzione analitica non è prerogativa del terapeuta: è invece una funzione ruotante, che può venire assunta dal gruppo nel suo insieme e di volta in volta dal Genius loci, ovvero dalla persona che prende la parola e coglie in modo più creativo il senso della situazione in atto in quel dato momento.

Nel gruppo vengono elaborati e metabolizzati traumi, lutti, separazioni, conflitti: il modus operandi è dato dal racconto e dalla condivisione di sogni, di fantasie, di pensieri. Il racconto e il raccontare hanno finalità terapeutiche e i confini di ciascuno divengono via via più permeabili. Il paziente si lascia andare alla condivisione e alla compartecipazione esperendo il gruppo come luogo sicuro.

Particolarmente rilevanti sono i “sogni a tema”: serie di sogni con contenuto simile tra loro, contenenti piccoli cambiamenti, indice dello sviluppo personale che il sognatore sta compiendo.

Il processo terapeutico implica una trasformazione complessiva della persona e non soltanto un miglioramento della sintomatologia: il gruppo rappresenta la cura nel processo di soggettivazione.

Utilizzando il concetto di “zona di sviluppo prossimale” sviluppato da Vygotskij, si può affermare che l’appoggio e il sostegno dell’analista e del gruppo incidono sulla possibilità del paziente di sviluppare le sue potenzialità verso il miglioramento e la guarigione. Il primo passo di questo percorso è offerto dall’accettazione e dalla convalida dei pensieri e delle emozioni: solo sentendosi un umano, vedendo riconosciuto il proprio diritto all’errore, l’individuo può muovere i passi verso il cambiamento.

L’epilogo del libro coincide con la fine della terapia di Gianna, comunicato al gruppo diversi mesi prima: il processo di soggettivazione si è dispiegato e Gianna è diventata autonoma.

 

Affrontare il disturbo ossessivo compulsivo. Quaderno di lavoro (2021) di Paola Spera e Francesco Mancini – Recensione del libro

Affrontare il Disturbo Ossessivo Compulsivo di Paola Spera e Francesco Mancini, nasce e si presenta come un validissimo quaderno di lavoro in grado di fornire efficaci strumenti sia a chi soffre di tale disagio che al professionista.

 

 Scritti da eccellenti figure esperte e competenti in tema di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), Paola Spera e Francesco Mancini, con il contributo di altri validissimi professionisti, questo quaderno di lavoro offre informazioni e strumenti pronti all’uso sia per l’esperto che il non addetto ai lavori.

Si parte dall’offrire una panoramica circa il disturbo, il significato di ossessione e compulsione e varie forme e manifestazioni, perché come ormai oggi dovremmo sapere, il DOC è una forma di disagio psicologico molto ricco e complesso e – come scrivono anche gli autori – è un disturbo che nasconde molte insidie, tanto che può mettere in difficoltà sia i terapeuti alle prime armi sia quelli più esperti.

Immagine 1 – Scheda dei principi e caratteristiche delle ossessioni ripresa e adattata da Abramowitz (2006)

I primi capitoli consentiranno di conoscere il DOC e il modo di procedere della Terapia Cognitivo Comportamentale, arricchiti da schede per iniziare sin da subito ad individuare il proprio schema di funzionamento (vedi in foto scheda 10 tratto dal libro a pag. 33).

Immagine 2 – Schema del funzionamento del DOC

Lo schema di funzionamento del disturbo consentirà di individuare le variabili in gioco e, dunque, l’evento e situazione scatenante; come lo stesso viene valutato dalla persona; il significato attribuito allo stesso; i tentativi di soluzione di primo ordine (TS1) ossia tutto ciò che la persona fa o non fa, sia in termine di atti comportamentali che mentali, nel tentativo di prevenire, fronteggiare o neutralizzare la minaccia percepita (come ad esempio evitamenti, ricerca di rassicurazione, compulsioni, ruminazioni mentali); la seconda valutazione, in questo caso si fa riferimento alla critica che la stessa persona rivolge a se stessa in merito al fatto di non saper gestire il disturbo ed infine i tentativi di soluzione di secondo ordine (TS2), ossia le strategie che la persona applica nel tentativo di contenere il disturbo.

Un altro importante vantaggio derivante dallo schema di funzionamento, continuano a spiegare ed illustrare gli autori, è quello di identificare anche i processi ricorsivi che mantengono o aggravo il DOC. Tre quelli descritti dagli autori:

  • Primo processo ricorsivo: coinvolge gli eventi critici, la prima valutazione e i TS1;
  • Secondo processo ricorsivo: riguarda la prima valutazione, i TS1, la seconda valutazione ed i TS2;
  • Terzo processo ricorsivo: coinvolge i sintomi ossessivi, i TS1, la reazione dei familiari e gli effetti di queste reazioni sulla sintomatologia stessa.

 Tutti gli aspetti sopra citati diventano tematiche centrali approfondite nei vari capitoli del testo, accompagnati da suggerimenti, schede, ed esercizi a riguardo, compreso il lavoro con e sui familiari e la prevenzione delle ricadute.

Il testo, di matrice cognitivo comportamentale, si ispira e fa riferimento a tecniche e trattamenti validati dalle ricerche scientifiche che ne mettono a tutt’oggi in luce la validità relativa all’efficacia nel trattamento del DOC, e dunque si ritroverà il riferimento all’Esposizione e Prevenzione della Risposta (EPR), a esercizi ispirati all’ACT, alla terapia dell’Accettazione e dell’impegno e alla mindfulness.

Un testo ricco nella sua semplicità che concretamente consente anche ai non addetti ai lavori che soffrono di tale disturbo, di avere a portata di mano valide proposte alternative ai tentativi di soluzione finora messi in atto e che purtroppo non sono risultati risolutivi (ma spesso hanno peggiorato il problema) e una valida raccolta spendibile per il clinico, di ausilio al proprio lavoro.

 

Terapia EMDR auto-somministrata: rischio o opportunità?

Waterman & Cooper (2020) hanno revisionato la letteratura esistente, valutando i potenziali rischi e benefici della terapia EMDR auto-somministrata.

 

La terapia di desensibilizzazione basata su movimenti oculari (EMDR) è raccomandata da molti organismi nazionali e internazionali per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), tra cui l’Organizzazione mondiale della sanità (World Health Organisation, 2013) e l’American Psychiatric Association (American Psychiatric Association., 2004).

Sebbene non si è concordi sul meccanismo alla base che spieghi la sua azione sulla sintomatologia (Bisson et al., 2013), la ricerca individua l’EMDR come più efficace del trattamento farmacologico e della maggior parte delle altre psicoterapie per il trattamento del PTSD. In particolare, è superiore ad altre terapie rivolte al trauma, nella riduzione dei pensieri intrusivi ed abbassamento dell’attivazione (Khan et al., 2018).

Il PTSD è una patologia con prevalenza particolarmente elevata in occidente tra le popolazioni di rifugiati e richiedenti asilo, che spesso hanno sperimentato un trauma ad esempio nelle forme di reclusione, tortura o violenza sessuale (Firenze et al., 2016). Queste popolazioni non accedono alla terapia psicologica non solo perché molto costosa, bensì per una mancanza di consapevolezza del diritto, barriere dettate dal linguaggio, ricollocazioni ripetute all’interno del paese e soprattutto mancanza di fiducia negli operatori sanitari.

Anche nei paesi a medio e basso reddito, il rischio di trauma per conflitti e tortura subita aumenta (Kessler et al., 2017) ed, essendo contesti con poche risorse o distribuite iniquamente, non è garantito l’accesso a cure efficaci (Kohn et al., 2004; Saxena et al., 2007).

Barriere rilevanti all’accesso alla terapia psicologica, generalizzabili all’intera popolazione sono lo stigma percepito associato alla terapia stessa (Lannin et al., 2013), vincoli fisici (come vivere in territori isolati), agorafobia, scarsa mobilità fisica o mancanza di accesso ai mezzi di trasporto (Simblett et al., 2017). Anche il razionamento dei servizi secondo gravità sintomatologica o grado dell’impatto funzionale, insieme alle lunghe liste di attesa per la psicoterapia all’interno dei servizi sanitari nazionali, possono impattare notevolmente.

Date queste difficoltà, unite alla concomitante crescita di internet come fonte di informazioni mediche, si è reso urgente lo sviluppo, la valutazione e la regolamentazione, di tecnologie che aumentino l’accesso ad informazioni sanitarie di qualità, oltre che alle terapie psicologiche (Ruzek & Yeager, 2017). Infatti, molti individui potrebbero non capire come valutare l’affidabilità di un sito web o di un applicazione (Eysenbach & Köhler, 2002). Inoltre, nonostante alcuni siti vengano gestiti da agenzie sanitarie specializzate o si conformino a determinati standard di qualità, molti altri non sono regolamentati.

Per quanto concerne l’EMDR, diversi forum testimoniano il suo utilizzo in termini di terapia autosomministrata.

Mentre esistono 11 applicazioni Apple e 8 Android che offrono la possibilità di autosomministrarsi l’EMDR, diversi siti web non regolamentati pubblicizzano strumenti di auto-aiuto per questa terapia.

A partire dalle correnti evidenze, Waterman & Cooper (2020), hanno revisionato la letteratura esistente, valutando i potenziali rischi e benefici della terapia EMDR auto-somministrata, presentando evidenze di efficacia relative ad altre psicoterapie di auto-aiuto.

L’unica indagine sulla ricerca di efficacia, tollerabilità, fattibilità e sicurezza della terapia EMDR autosomministrata (Spence et al., 2013), includeva un trattamento fornito interamente online di sei lezioni, con elementi di EMDR e CBT affiancati ad un contatto settimanale con uno psicologo. Il 55% dei partecipanti, che soffrivano di PTSD, hanno riportato una regressione completa della sintomatologia post trattamento ed al follow up di tre mesi.

Tuttavia, il campione ridotto, l’elevato tasso di abbandono, l’assenza di un gruppo di controllo ed il contatto con lo psicologo, hanno impedito di trarre conclusioni definitive.

Nella valutazione post trattamento era emersa una moderata tolleranza della terapia tra i soggetti, suggerendo la possibilità di apportare modifiche al protocollo. Al fine di migliorare l’accettabilità dell’intervento, sarebbe utile includere elementi di interazione sociale, come un avatar umano virtuale di accompagnamento (Rehm et al., 2016).

Una problematica insorta riguardava la valutazione dell’idoneità dei pazienti alla terapia EMDR, nella capacità di utilizzare con successo tecniche di autocontrollo e rilassamento (Tien, 1997). Nonostante questo, insieme all’attuazione di una procedura standardizzata, non sia possibile, i rischi evidenziati puramente a livello teorico non trovano fondamento nella letteratura sulla terapia EMDR computerizzata di auto-aiuto.

Per quanto concerne le prove di efficacia relative ad altre psicoterapie di auto aiuto erogate su internet, evidenze in letteratura sostengono che oltre ad essere maggiormente accessibili, sono economiche e sicure nel trattamento dei disturbi dell’umore, d’ansia e del consumo di sostanze (Kumar et al., 2017).

Trattamenti interamente online, sia di esposizione a stimoli per la riduzione dell’ansia nelle fobie e nel panico, che nella riduzione del disagio psicologico legato a traumi in popolazioni di rifugiati, si sono dimostrati efficaci (Schneider et al., 2005); andando incontro ad un target che con poca probabilità avrebbe ricevuto un intervento psicologico diretto (Tol et al., 2020).

Ulteriori indagini hanno supportato l’efficacia delle applicazioni su smartphone nel trattamento del PTSD. In particolare, “PTSD Coach” scaricata da oltre 100000 utenti in 74 paesi del mondo, che comprende tecniche di auto-aiuto incluso il rilassamento (US Department of Veterans Affairs., 2013).

Nonostante siano promettenti nel poter raggiungere ad un basso costo un’ampia fetta della popolazione, nei trattamenti di auto-aiuto è complesso mantenere il coinvolgimento del paziente, come testimoniato dal completamento della CBT online solo dal 20% dei soggetti (Christensen et al., 2006).

Considerando le evidenze attuali, la terapia online non scoraggia né influisce sull’efficacia della terapia personalizzata diretta (McDonald et al., 2020), ma rende il supporto maggiormente accessibile nei paesi a medio e basso reddito, dato l’incremento in tutto il mondo dell’utilizzo della tecnologia (Hall et al., 2014; Ruzek & Yeager, 2017)

In conclusione, sia l’EMDR, che in generale gli interventi psicologici online per diverse forme di psicopatologia, possono aggirare alcune delle barriere all’accesso alla terapia. Ciò nonostante, si rendono necessarie ulteriori ricerche in questo ambito, ancora poco esplorato, per vedere se realmente i vantaggi superano gli svantaggi.

 

Recensione di Beastars, serie animata TV

Nella serie animata TV Beastars, i carnivori come gruppo hanno rinunciato alla carne ma alcuni individui si concedono la soddisfazione con metodi che non possono che essere criminali.

 

 Alcuni mesi fa le mie figlie e mio figlio mi hanno invitato a vedere Beastars, una serie animata e prima ancora un manga shōnen scritto disegnato da Paru Itagaki e pubblicato in Giappone dal 2016 al 2020. Non è uno spoiler rivelare l’idea di partenza: un mondo di animali parlanti e civilizzati in cui carnivori ed erbivori convivono in metropoli moderne. I primi hanno rinunciato a nutrirsi di carne ma la convivenza tra i due gruppi, svolgendosi tra sospetti sociali e crimini occasionali ma sanguinari, diventa una metafora facile ma efficace delle costrizioni del politicamente corretto in cui anche noi viviamo.

I carnivori come gruppo hanno rinunciato alla carne ma alcuni individui si concedono la soddisfazione con metodi che non possono che essere criminali. Il sospetto serpeggia nella società e tutti i carnivori inevitabilmente passano il tempo a misurare gli atti e le parole, a giustificarsi e a scusarsi con gli erbivori e a evitare ogni equivoco e ogni allusione spiacevole. Insomma, i carnivori vivono con il marchio della colpa addosso e gli erbivori con quello della vittima. Alcuni carnivori accettano la loro responsabilità con una certa tranquillità, altri giocano con la colpa diventando zelanti controllori sociali più corretti e giudicanti degli stessi erbivori, altri ancora mostrano nervosismo e irritazione verso gli erbivori, incolpandoli (non sempre a torto) di approfittare a tratti del loro ruolo di vittime potenziali, di gruppo da proteggere. Il problema è che i carnivori hanno rinunciato alla carne ma continuano tormentosamente a desiderarla e non tutti riescono a compiere la rinuncia. Avvengono così aggressioni e delitti. A qualunque erbivoro può capitare di essere azzannato improvvisamente in un vicolo buio, in una stanza isolata, magari da un compagno di classe: i personaggi principali sono studenti di una scuola e vivono insieme in un convitto.

Insomma, l’ambiguità morale incombe sul mondo della serie ma l’esito sanguinoso rimane raro e imprevedibile. In tal modo sono giustificate sia le paure vittimarie degli erbivori che il nervosismo dei carnivori, sempre moralmente controllati dal vittimismo sociale degli erbivori e al tempo stesso tormentati dal desiderio alimentare della carne proibita, dalla voglia continua ma impossibile -se non ricorrendo alla violenza e al crimine- di assaggiarla in qualche modo. È un dilemma alla Nietzsche tra civiltà e istinto, in cui la prima continuamente comprime il secondo con le sue ragioni e il secondo continuamente emerge con tutta la sua feroce spontaneità. Non sembra possibile una redenzione ma solo una tormentosa convivenza con la colpa. Non inganni però il termine “colpa”: il tormento della convivenza tra colpa e istinto non avviene secondo i canoni cristiani del peccato ma secondo quelli moderni della continua tensione all’autocontrollo verbale e sociale reciproco, insomma del politicamente corretto a cui la serie elegantemente allude. Anche se poi qua e là alcuni simboli cristiani compaiono, come del resto accade anche in altre serie animate giapponesi, come ad esempio Deathnote. Mi chiedo perché. Forse si tratta di una particolare curiosità giapponese verso la profondità del dilemma morale cristiano, visto con maggiore tranquillità di noi, la curiosità che si prova verso un’idea lontana mentre la nostra visione è sporcata della familiarità bimillenaria con l’idea cristiana. Del resto, è ammissibile ritenere che la radice del politicamente corretto sia cristiana. Non dico altro per non rovinare le sorprese della trama, che sono molte e benissimo calibrate. Sorprese mai fini a sé stesse ma tutte al servizio del dilemma morale della serie. Dilemma morale che però non diventa mai arte didascalica. Anzi.

 

BEASTARS – GUARDA IL TRAILER:

 

Cosa pensi dei tuoi pensieri? Che cos’è la metacognizione e come influenza le nostre emozioni e relazioni – VIDEO dal webinar del CIP di Modena

Quali sono le funzioni della metacognizione? Perché spesso le distorsioni metacognitive sono decisive nel mantenimento del malessere personale e interpersonale?

 

Sempre più prove di efficacia nella ricerca evidence-based in psicoterapia dimostrano che uno degli obiettivi fondamentali da perseguire all’interno di una psicoterapia per i disturbi di personalità, ma non solo, sia quello di incrementare le capacità metacognitive della persona. Quali sono le funzioni della metacognizione? Perché spesso le distorsioni metacognitive sono decisive nel mantenimento del malessere personale e interpersonale?

Nel corso dell’incontro è inoltre stato approfondito come l’incremento di competenze metacognitive sia fondamentale nella riduzione dei sintomi, nel miglioramento del funzionamento della personalità e dei problemi interpersonali.

Il webinar è stato condotto dal Dr. Stefano Tempestini, Psicologo – Psicoterapeuta. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video dell’incontro:

Cosa pensi dei tuoi pensieri?

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Microbiota, arma segreta del sistema immunitario (2021) di Maria Rescigno – Recensione del libro

Microbiota, arma segreta del sistema immunitario. Conoscere e prendersi cura del migliore amico della nostra salute è un libro molto interessante e stimolante per più aspetti che cercherò di descrivere brevemente qui di seguito.

 

L’autrice, Maria Rescigno, è una nota ricercatrice di fama mondiale, che insegna presso l’Humanitas University di Milano e che si è distinta soprattutto per le sue ricerche particolarmente innovative relative alla natura della barriera intestinale.

La prof.ssa Rescigno si è specializzata in quell’ambito di studi che è stato definito “Microbiota Revolution” per l’alto impatto quasi dirompente che questo settore sta avendo nei confronti di alcuni paradigmi fondamentali delle scienze biomediche.

Il microbiota è il complesso ecosistema di microrganismi (principalmente batteri, virus e funghi) che coabitano il nostro organismo umano e che globalmente supportano il funzionamento e la fitness delle nostre cellule.

Il libro della prof. Rescigno, pur trattando una materia molto complessa e ricca di molteplici implicazioni per la nostra salute e per il nostro benessere, riesce ad essere molto scorrevole ed accessibile anche grazie al fatto che presenta delle metafore molto efficaci che rendono facilmente afferrabili alcuni complicati concetti biologici (si veda ad esempio la bellissima metafora della barriera intestinale in termini di staccionate, argini, etc.).

Il linguaggio che caratterizza il libro è preciso quanto fluido anche per coloro che si affacciano per la prima volta all’importante settore del microbiota e che, anche se molto curiosi, sono piuttosto repellenti ai tecnicismi propri delle scienze biologiche.

Affrontando concetti complessi supportati dalla solida ed aggiornata letteratura scientifica attualmente disponibile, il libro è rivolto proprio a coloro che non conoscono ancora l’argomento microbiota.

L’obiettivo del libro è quello di avvicinare queste persone, aumentarne la consapevolezza sull’argomento e far loro comprendere l’importanza di mettere in atto alcune semplici pratiche (si vedano ad esempio i vari consigli nutrizionali proposti verso la fine del libro) per migliorare l’equilibrio di questo ecosistema microbico con le molte positive conseguenze per l’intero organismo.

L’autrice del libro è riuscita a mettere insieme umilmente le conoscenze attuali sul microbiota (che pur essendo già così rivoluzionarie sono altrettanto parziali rispetto alla globalità di tutte le sue componenti ed implicazioni) con l’esigenza di fornire indicazioni pratiche quanto scientificamente solide a coloro che vogliono approfondire l’importanza di questo insieme di esseri viventi, della massa complessiva di circa un kilogrammo, che coabitano il nostro corpo.

A rendere ancora più piacevole la lettura del libro ci sono degli aneddoti personali della ricercatrice che sembrano descrivere ed accompagnare il rapido sviluppo stesso del settore del microbiota soprattutto degli ultimi 20 anni circa.

Grazie al recente sviluppo di una tecnologia di analisi genomica che prima non era disponibile, il microbiota rappresenta oggigiorno una vera e propria rivoluzione per tutti quei settori che coinvolgono le scienze biomediche ma anche, in maniera quasi sconcertante, di quelle psicologiche.

Le implicazioni che si possono già intravedere per il settore psicologico sono profonde quanto disorientanti perché permettono di valutare in una nuova prospettiva (molto più scientificamente fondata) alcuni paradigmi deterministici che anche attualmente rappresentano dei capisaldi relativi soprattutto alla psicologia dinamica.

Soprattutto per i colleghi psicologi che adottano una prospettiva psico-neuro-endocrino-immunologica integrata, l’ottimo libro della prof.ssa Rescigno, pur non trattando direttamente le implicazioni psicologiche di quella che viene comunemente chiamata “microbiota revolution”, pone solide basi anche per ravvisare le possibili conseguenze, profonde quanto apparentemente disorientanti, anche nelle scienze psicologiche.

 

Il contributo di Wilfred Bion agli sviluppi del concetto di identificazione proiettiva

Wilfred Bion ha rielaborato l’originario concetto kleiniano di identificazione proiettiva, trasformandolo da meccanismo psichico primitivo a concetto che delinea un processo interpersonale

 

Il concetto di identificazione proiettiva venne descritto nel 1946 da M. Klein, in “Note su alcuni meccanismi schizoidi”. Ipotizzando l’esistenza di una posizione schizoide normale già nei primissimi tempi dello sviluppo, M. Klein descrive una particolare fantasia attraverso la quale il neonato, per difendersi dall’angoscia, scinde e proietta all’interno della madre parti di sé intollerabili, in modo tale da poterle controllare.

Wilfred Bion ha rielaborato l’originario concetto kleiniano di identificazione proiettiva, trasformandolo da meccanismo psichico primitivo (qualcosa che il neonato faceva nei confronti di qualcuno) a concetto che delinea un processo interpersonale, nel quale il ruolo del destinatario delle proiezioni è significativamente importante.

Con Bion, l’identificazione proiettiva, oltre ad essere una difesa primitiva del bambino contro un’angoscia intollerabile, diventa un’importante modalità di comunicazione attraverso la quale l’organismo immaturo riesce a trasmettere sentimenti ed emozioni non ancora nominabili ad un oggetto recettivo. L’effetto che essa produce sull’oggetto che riceve la proiezione, ed il ruolo che esso ha nell’accoglierla e nel modificarla, determinano le basi per lo sviluppo del pensiero.

Bion (1962) descrive una relazione in cui la madre accoglie dentro di sé, attraverso l’identificazione proiettiva del neonato, esperienze sensoriali, emozioni, disagi fisici disorganizzanti e inelaborabili e, tramite la funzione alfa, li restituisce arricchiti di senso. Ciò che il neonato reintroietta, non sarà solo la propria originaria esperienza, resa tollerabile dalla mente materna, ma l’esperienza della relazione amorevole con un oggetto recettivo: è identificandosi in questa esperienza interpersonale creativa che il neonato apprende, a propria volta, a pensare.

Se la madre non riesce a tollerare le proiezioni del figlio, quest’ultimo aumenterà la frequenza e l’intensità delle identificazioni proiettive e ciò priverà le proiezioni del loro stesso significato, causando delle reintroiezioni massicce ed intollerabili per la rudimentale coscienza del neonato (Bion, 1961). In tal caso, per Bion, siamo in presenza di una forma di identificazione proiettiva patologica che si contraddistingue per la sua qualità onnipotente e per il grado di violenza con cui viene messa in atto.

Pazienti che, a livello di relazione primaria, hanno avuto l’esperienza di un oggetto chiuso alla comprensione e non recettivo rispetto alle proiezioni della propria sofferenza, ricorrono all’uso ipertrofico dell’identificazione proiettiva per negare la realtà e l’angoscia (Bion, 1961).

Modello contenuto/contenitore

Bion ipotizza l’esistenza di un rapporto dinamico contenitore/contenuto come modello attraverso cui guardare alla strutturazione della personalità. Egli ritiene che, affinché si formino pensieri, è necessario che si crei un contenitore mentale, al cui interno dei contenuti possano prendere forma.

In Bion il pensare viene concepito come conseguenza della pressione esercitata dai pensieri sulla psiche. In altre parole, i pensieri sono antecedenti al pensare stesso. Bion ipotizza, avendo in mente il concetto di identificazione proiettiva, che sofferenza fisica e psichica inizialmente sono indistinguibili per il bambino. Nel momento in cui il piccolo vive un’esperienza di angoscia che non è in grado di comprendere o gestire da solo, nello sforzo di trovare sollievo, cerca di espellere il dolore e sbarazzarsi di tutte le sensazioni angosciose. La presenza di una madre ‘sufficientemente buona’, in grado di accogliere le proiezioni del figlio, di non lasciarsi sopraffare da esse e di renderle gestibili, offrirà al bambino la possibilità di sentirsi reintegrato. In tale dinamica, la madre è il contenitore mentre l’angoscia del bambino è il contenuto. Ciò che viene re-introiettato nella relazione contenuto/contenitore, non è solo un contenuto modificato dall’elaborazione del contenitore, ma la capacità stessa di rielaborazione del contenitore.

Rêverie e Funzione Alfa

All’inizio è la madre che pensa per il neonato, ella favorisce la formazione delle strutture e delle funzioni mentali, ponendosi dapprima come contenitore degli elementi beta (afferenze sensoriali ed emotive grezze) che il bambino proietta in lei. Il bambino infatti evacua impulsi, sofferenze, desideri e sensazioni sconnesse e prive di significato; la madre, grazie all’accudimento, ma soprattutto grazie alla capacità di intuire lo stato emotivo del figlio, bonifica i momenti di terrore e cerca di dare un significato a tutti quegli stimoli che per il bambino sono incomprensibili. Bion utilizza il termine rêverie per indicare la capacità inconscia della madre di immedesimarsi, in modo empatico, nei vissuti del piccolo. Il concetto di rêverie indica lo stato mentale della madre aperto alla ricezione delle identificazioni proiettive del bambino e dunque la capacità di accogliere contenuti impregnati di odio o di amore. Si potrebbe dire che la madre sente nel suo corpo ciò che sente il bambino, con la differenza che ella sa darvi un senso e quindi una risposta adeguata. Ella tollera e mette insieme i frammenti del Sé angosciato del bambino, cercando di restituire a quest’ultimo un senso di coesione e coerenza.

Se le circostanze sono favorevoli, ovvero se il bambino è sufficientemente contenuto, a livello psichico e fisico, da una persona in grado di farlo, potrà avvertire un’esperienza di integrazione e dunque lui stesso acquisirà la sensazione di avere una capacità contenitiva interna. Questo avviene perché la mente del neonato non è in grado da sola di fare uso dei dati sensoriali, ma necessita di una mente che possa ‘masticare’ ogni elemento per poi restituirlo in forma ‘digerita’. A questo processo di contenimento attivo dello stato mentale del bambino e di bonifica degli elementi beta, Bion diede il nome di funzione alfa. Si tratta della capacità di contenere e conferire una figura e una forma ad emozioni che sono proprie del bambino, senza imporre sentimenti dall’esterno e senza limitarsi a rifletterli come uno specchio. Il bambino dunque apprende ed introietta, grazie alla madre, questa capacità di contenimento e, successivamente, sarà egli stesso in grado di metabolizzare sensazioni grezze per elaborare pensieri, pertanto sarà egli stesso in grado di trasformare gli elementi beta in elementi alfa grazie alla funzione alfa.

Qualora la funzione alfa dovesse essere alterata, l’esperienza non potrà essere assimilata e, pertanto, invece di diventare cibo per la mente, resterà un fatto ‘non digerito’, un elemento beta, il cui destino sarà quello di essere evacuato (Corrao, 1981). Il bambino, incompreso nei suoi bisogni primari, dunque privo della capacità di contenere le emozioni, introietta «non più una paura di morire resa tollerabile, ma un terrore senza nome» (Bion, 1962, p. 178). L’espressione terrore senza nome descrive la perdita di ogni traccia di significato e dunque l’esperienza di un bambino che, non solo non ha a disposizione una mente entro cui poter proiettare la sua ansietà, ma che vede anche la propria ansia accresciuta in modo spaventoso dalla scoperta di una situazione in cui non c’è una madre che allevia le sue spiacevoli sensazioni, bensì le aumenta.

I concetti di relazione contenitore/contenuto, funzione alfa e rêverie vengono impiegati, dallo stesso Bion, anche per definire l’assetto mentale dell’analista in seduta.

Disponendosi all’ascolto, «lo psicoanalista deve esercitare la sua intuizione in modo tale che essa non venga danneggiata dall’intrusione della memoria, del desiderio e della comprensione» (Bion,1970), egli si rende ricettivo verso le emozioni trasmesse dall’analizzando, mediante l’identificazione proiettiva, in attesa che il lavoro della propria funzione alfa produca in lui rappresentazioni spontanee, da cui potranno scaturire forme adeguate di comprensione e interpretazione. L’ingresso dei contenuti del paziente all’interno della mente-contenitore dell’analista produce, in quest’ultimo, una condizione mentale iniziale caratterizzata dalla non integrazione del significato, associata a sentimenti di angoscia persecutoria. Se l’analista riuscirà a tollerare questo stato di sofferenza, allora potrà, attraverso la funzione alfa, rielaborare i contenuti che il paziente ha proiettato in lui per poi restituirglieli in forma comprensibile e tollerabile. Nella mente dell’analista in stato di rêverie affioreranno, ad esempio, immagini visive ma anche rappresentazioni acustiche o di altri registri sensoriali, più o meno organizzate, da semplici flash istantanei a sequenze narrative di varia durata (Ferro, 2002). La capacità di tollerare l’ignoto è legata alla fiducia in un qualche cosa che va sviluppandosi attraverso il contatto emotivo con il paziente, sarà la possibilità di mettere in parole questo qualcosa, a produrre la possibilità di un cambiamento catastrofico nel paziente, ovvero un salto brusco nella crescita mentale (Corrao, 1981).

Conclusioni

Gli sviluppi teorici del concetto di identificazione proiettiva hanno contribuito a mettere in evidenza l’importanza di tale fenomeno, in quanto ponte e collegamento tra mondo intrapsichico e mondo sensibile, presente in tutte le forme di relazione e particolarmente visibile nella relazione di transfert/controtransfert tra paziente ed analista.

Alla luce del prezioso contributo di Bion, l’identificazione proiettiva ha assunto una valenza ‘terapeutica’ ed euristica, essenziale nel setting psicoanalitico, sia esso individuale o gruppale.

L’identificazione proiettiva può essere riconosciuta nei processi transferali e controtransferali ed essere utilizzata come chiave di accesso al mondo interno del paziente. Riconoscerne il valore significa lasciare aperto lo spazio alla possibilità di una esperienza emozionale di conoscenza e crescita per i protagonisti del campo analitico. Affinché ciò accada è necessario che l’analista sia disponibile ad accogliere il ‘sentire’ del paziente in casa propria e che quel sentire prenda casa nella propria casa per poi uscire ristorato e riposato (Guarinelli S., 2007).

 

 

L’importanza di un’educazione alimentare negli adolescenti

Per adottare uno stile di vita sano bisogna mangiare tanto, in modo salutare e bilanciato e per poter comprendere e fare proprie queste indicazioni è importante una vera e propria educazione alimentare.

 

È risaputo quanto l’adolescenza sia un periodo critico ricco di cambiamenti, soprattutto in relazione al corpo che muta velocemente. In tale fase della vita, il confronto con i coetanei diventa inevitabile, soprattutto in un mondo dominato dai social e dalla voglia di apparire sempre perfetti. È con queste premesse che comincia a farsi largo, insinuandosi, il pensiero martellante di non accettazione di se stessi fino ad arrivare all’odio verso il proprio corpo e inizia così il circolo vizioso delle diete drastiche, convinti che saltando qualche pasto si dimagrisca più velocemente e facilmente.

Purtroppo, diete eccessivamente restrittive o non bilanciate innescano il famoso “effetto yo-yo” (Contreras R. et al., 2019) che porta ad una importante riduzione del proprio peso (non sempre in modo corretto, diminuendo non solo massa grassa, ma anche massa magra e muscolare che invece dovrebbe essere preservata) per poi, nel giro di breve tempo, recuperare i kg persi e anche qualche interesse. Tutto questo non fa altro che peggiorare la gestione dei nutrienti da parte del nostro corpo con una possibile riduzione del metabolismo. Questo processo porta, quindi, a cicli di continua discesa e salita di peso, in modo innaturale e, ovviamente, frustrante.

Perdere peso correttamente significa dare al proprio corpo tutto ciò di cui ha bisogno, ovvero assumere tutti i macro e micro nutrienti (carboidrati, proteine, lipidi, fibre, sali minerali, vitamine e acqua), senza rinunce particolari ma bilanciando correttamente la loro distribuzione nella nostra alimentazione.

Per adottare uno stile di vita sano bisogna dunque mangiare tanto, in modo salutare e bilanciato (CREA, 2018).

Per questi motivi, è importante un’educazione alimentare. Troppo spesso, anche nei contesti scolastici, si dimentica l’importanza del corpo: i bambini, durante l’infanzia, utilizzano il corpo per comunicare, esplorare e scoprire il mondo circostante. Piano piano che il bambino cresce, la scuola inizia a centrare il focus sull’intellettualità, dimenticando la corporeità (Batini F., 2020).

E così, l’adolescente si ritrova con un corpo che continua a crescere e non rimane al passo con la rappresentazione di sé perché vi è “discontinuità tra come ci si sente e come ci si vede” (ibidem). Riteniamo sia fondamentale introdurre un’educazione alimentare per ridare centralità al corpo, per normalizzare i vissuti emotivi tipici adolescenziali, ma soprattutto per prevenire i Disturbi Alimentari. Non è un caso, infatti, che è proprio durante questo periodo che vi è maggiore rischio di sviluppare un Disturbo Alimentare, soprattutto perché si innescano diverse dinamiche sia con i pari che all’interno del sistema familiare: preponderanti diventano le tematiche di paura del giudizio e confronto con i pari (e non solo).

In generale, nelle famiglie con un adolescente con disturbo alimentare sembra prevalere quello che Valeria Ugazio chiama la semantica del potere: “dove c’è chi vince e chi perde, chi ha successo, chi sa imporsi in famiglia e nella comunità e chi invece si arrende. Accanto a ‘vincente/ perdente’, un’altra polarità caratterizza queste famiglie: ‘volontà/arrendevolezza’. Questa seconda polarità è subordinata gerarchicamente alla prima secondo un rapporto mezzo-fine: si è vincenti perché si è volitivi, determinati, efficienti, mentre si è perdenti perché si è passivi, arrendevoli, in balia delle sopraffazioni degli altri” (Ugazio V, 1998-2018).

Tuttavia, bisogna fare attenzione alla breve distanza che intercorre tra alimentarsi in maniera sana e alimentarsi in maniera patologica. Il mangiare sano, infatti, può diventare una vera e propria ossessione e ha il nome di ortoressia e sembra prevalere maggiormente negli uomini che nelle donne (Donini et al., 2004).

L’ortoressia è caratterizzata da un pensiero costante rivolto al cibo: cosa mangiare, come prepararlo, pianificare i pasti con largo anticipo, investendo un tempo elevato nella ricerca e acquisto degli alimenti sani. Se qualcosa non va secondo i piani, la persona è pervasa da sensi di colpa, rabbia e umore depresso (Brytek-Matera, 2012).

Dunque, è importante che vi sia più sensibilizzazione su tali tematiche in modo da aiutare i genitori ad aiutare i propri figli quando notano che il cibo sta assumendo sempre più centralità.

 

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