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Una vita degna di essere vissuta (2021) di Marsha Linehan – Recensione del libro

Una vita degna di essere vissuta è la storia personale e professionale di Marsha Linehan, psicologa nota per aver ideato la Dialectical Behaviour Therapy (DBT).

 

Studiamo ciò che ci fa soffrire

Qualunque terapeuta abbia accolto nel proprio studio un paziente con disturbo borderline di personalità conosce bene la fatica, la frustrazione, il vertiginoso caos dei vissuti, il senso di impotenza, la turbolenza emotiva, a volte lo stupore di fronte alla disperazione e al dolore raccontati.

Tutto questo è rievocato dalla lettura di Una vita degna di essere vissuta, storia personale e professionale di Marsha Linehan, psicologa nota per aver ideato la Dialectical Behaviour Therapy (DBT), un trattamento destinato principalmente proprio ai pazienti con disturbo borderline.

Una testimonianza molto particolare, perché svela come la stessa Linehan sia stata, prima che una visionaria accademica e terapeuta, una persona profondamente disturbata, con condotte autolesive e forti tendenze suicidarie.

Nel libro c’è il racconto dell’intima storia di follia e disperazione dell’autrice, dagli anni della giovinezza, prima del baratro, vissuta con genitori distanti, criticisti e vagamente anaffettivi, poi il suo sentirsi sola in una famiglia di otto persone, gli standard materni percepiti come irraggiungibili, il padre conformista e assente: tuttavia viene da chiedersi, leggendo, come sia possibile che tutto ciò possa giustificare la successiva caduta nell’angoscia più assoluta e determinare la perdita totale del controllo di sé, il desiderio irresistibile di mutilarsi e di morire.

Avviso ai lettori: nel testo non si trovano risposte che facciano davvero luce sulle origini di una così feroce disperazione. La stessa autrice non ne ha, addirittura dichiara di aver dimenticato (rimosso?) lunghi periodi del proprio passato, per un’amnesia quasi totale che riguarda la sua vita tra i 18 e i 25 anni, la fase più buia.

Parallelo al racconto del tormento, dei ricoveri, dei recuperi e delle ricadute, c’è il resoconto della nascita di un nuovo modo per affrontare e trattare il disturbo borderline.

Nei primi anni settanta la terapia comportamentale era agli esordi e ancora minoritaria rispetto all’approccio psicodinamico; Linehan, dopo la specializzazione alla Loyola University, aderisce nel 1972 ad un programma post-dottorato in terapia comportamentale, il che sancisce il suo prendere le distanze sia da un approccio troppo incentrato sugli aspetti biologici (psichiatria) che sulle immagini e processi mentali (psicoanalisi) a favore dell’interesse per i comportamenti effettivi delle persone, per ciò che concretamente fanno nella loro vita quotidiana.

Occorrerà aspettare però fino alla metà degli anni Ottanta perché la DBT assuma i contorni che conosciamo oggi e si distingua anche dal comportamentismo, da cui nasce; il libro, che descrive gli assunti principali del trattamento, è anche una preziosa occasione per i clinici di ripercorrere gli aspetti salienti del programma terapeutico.

Difficile riassumere ciò che ha reso unico e rivoluzionario questo approccio, di certo uno degli aspetti più emblematici è l’integrazione tra pratica orientale (Zen) e psicologia occidentale, insieme all’assunto che affinché i pazienti possano davvero cambiare non devono essere solo ascoltati e compresi, ma occorre che apprendano anche delle nuove abilità.

Come dice il Dalai Lama, la cui influenza è dichiarata da Linehan: “Non basta essere compassionevoli, bisogna agire”. Il programma include quindi l’insegnamento di abilità concrete, che si possono raggruppare in quattro categorie (Mindfulness, Tolleranza della sofferenza, Regolazione delle emozioni, Efficacia interpersonale).

“Oggi dico alle persone di non comportarsi da impotenti se non lo sono davvero, più lo si fa più ci si sente tali”; essere efficaci, agire in modo più funzionale e competente, è considerato la chiave del cambiamento, che non può tuttavia prescindere da una prima, autentica e radicale accettazione di sé.

Non solo, è fondamentale (e per niente scontato) che prima di tutto sia il terapeuta ad accettare il paziente, perché spesso si tratta di persone difficili, molto rabbiose, aggressive, disperatamente e tragicamente infelici. Aiutarle non è facile, a meno che non le si accetti (appunto) radicalmente e per come sono.

Per i pazienti, la dialettica tra accettazione e perseveranza significa che per cambiare la realtà bisogna prima di tutto accoglierla per ciò che è, e se non piace agire per modificarla.

Scrive Linehan: “Se sei un tulipano, non cercare di essere una rosa. Vai a cercare un’aiuola di tulipani”.

Tra gli aspetti più delicati e controversi (per la DBT ma per la psicoterapia in generale) rimane l’approccio ai comportamenti suicidari. Non a caso Linehan racconta di un corso di specializzazione da lei guidato per psicologi e psichiatri in cui agli studenti era chiesto per prima cosa di rispondere a tre domande: “Cos’è la morte? Le persone hanno il diritto di suicidarsi, voi avete questo diritto? Qualcuno ha il diritto di impedire ad un’altra persona di suicidarsi?”

Questo per sottolineare che un clinico deve avere le idee ben chiare su cosa pensa rispetto a questi temi, o diventa difficile e confusivo supportare persone che minacciano sistematicamente di togliersi la vita; se si ritiene che possano esserci situazioni che giustificano il suicidio, vite non degne di essere vissute (per parafrasare il titolo del libro) è bene esserne consapevoli.

Esistono lucide riflessioni sulla sensatezza del togliersi la vita, come ad esempio le parole del regista Mario Monicelli a proposito del suicidio del padre, il giornalista Tomaso Monicelli: “Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena. Il cadavere di mio padre l’ho trovato io. Verso le sei del mattino ho sentito un colpo di rivoltella, mi sono alzato e ho forzato la porta del bagno. Tra l’altro un bagno molto modesto”.

Una questione insomma, quella sulla decisione personale di togliersi la vita, niente affatto di facile soluzione se ci si chiede quanto effettivamente il suicido debba essere considerato o meno una negazione dei propri doveri verso sé stessi, gli altri o una qualche divinità.

Linehan, che ben conosce lo stato d’animo di chi intravede nel suicidio il fascino di una via d’uscita dal proprio dolore, stabilisce di ritenere che le persone abbiano a tutti gli effetti questo diritto, ma che il proprio lavoro di terapeuta sia quello di sostenere, sempre e comunque, la vita.

 

Strutture di personalità e alcol: possono i disturbi di personalità mantenere e alimentare il disturbo da uso di alcol compromettendone i trattamenti?

Le persone affette da disturbo da uso di alcol (ing. Alcohol Use Disorder, AUD), possono essere bevitori a rischio, bevitori eccessivi, o alcoldipendenti.

 

Tutte e tre queste condizioni, affinché siano tali, producono disagio, determinando danni alla salute psicofisica propria e/o di altri individui, conflitti interpersonali, problemi legali, o conseguenze sociali negative, come la mancata osservazione di obblighi di famiglia, lavoro o scuola. Tra i sintomi che caratterizzano questo disturbo, troviamo: assunzione di alcol in quantità maggiori o per periodi prolungati rispetto a quanto previsto; desiderio di ridurre o controllare le bevute; molto tempo speso in attività necessarie a procurarsi, assumere, e riprendersi dalla sostanza; forte desiderio di alcol; uso ricorrente di alcolici che causa fallimento nell’adempimento dei principali obblighi quotidiani; uso continuativo nonostante la presenza di problemi sociali o interpersonali; abbandono o riduzione di attività sociali, lavorative o ricreative; uso ricorrente di alcol in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso; uso continuato nonostante la consapevolezza di un problema fisico o psicologico; tolleranza; astinenza (American Psychiatric Association [APA], 2013).

L’AUD comporta quindi una condizione cronica invalidante, che spesso contribuisce significativamente al carico globale di altre psicopatologie che possono presentarsi in concomitanza con esso (Rehm et al., 2009). Nonostante le campagne diffuse per prevenire e gestire l’AUD, i tassi di prevalenza non sono diminuiti nella maggior parte dei paesi del mondo. Ad esempio, recenti dati relativi alla popolazione statunitense hanno portato esperti del settore a descrivere questa come una crisi di salute pubblica (Grant et al., 2017). Ciò è alimentato dalla reperibilità dei prodotti, infatti il consumo totale di alcol e i tassi di AUD sono fortemente influenzati da pubblicità, prezzo e disponibilità degli alcolici (Babor, 2010).

Un primo passo per gestire la diffusione dell’uso problematico di alcol è osservare da cosa esso è scaturito e mantenuto. Per comprendere quali cause innescano e mantengono questa tipologia di disturbo, è importante volgere lo sguardo ai fattori individuali caratteristici del bevitore, ponendo particolare attenzione alle strutture di personalità. L’alcolismo e la personalità hanno una storia comune che risale al Diagnostic and Statistical Manual-I, prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, in cui l’alcolismo era definito come un sottotipo di disturbo sociopatico della personalità, oggi definito disturbo di personalità antisociale (APA, 2013; Sellman et al., 2014). Tuttavia, studiando l’alcolismo, diventato più prominente durante il 20° secolo, gli scienziati hanno eliminato l’idea di alcoholic personality (lett. personalità alcolica). Al suo posto, è stato proposto un modello consistente in una sindrome multidimensionale mediatizzata, la cui caratteristica principale era la perdita del controllo volitivo sul bere. Recentemente, l’attenzione si è invece concentrata sulla ricerca dei profili di personalità delle persone con AUD, concettualizzando l’interazione tra problemi di personalità, tratti, e uso problematico dell’alcol.

Nella loro review, Newton-Howes e Foulds hanno esaminato le prove esistenti sulla comorbilità tra disturbi di personalità e AUD, ponendo particolare attenzione ai recenti sviluppi nella comprensione dell’impatto della personalità sul trattamento dell’AUD (Newton-Howes & Foulds, 2018). A tal fine, la revisione presa in analisi considera l’effetto delle variabili di personalità sugli esiti del bere. Il team di scienziati ha quindi scelto di realizzare una ricerca sull’argomento con lo scopo di fornire una panoramica aggiornata della recente letteratura scientifica che esaminasse l’impatto del disturbo di personalità e dei tratti di personalità sull’esito del trattamento degli AUD.

I risultati dello studio hanno evidenziato una significativa comorbilità tra disturbo di personalità e AUD, che si è avvicinata al 50%. Inoltre, secondo le evidenze, i pazienti con AUD e un disturbo di personalità in comorbilità hanno sostanzialmente più probabilità di bere durante giorno e meno probabilità di rimanere in cura per trattare il disturbo da uso di alcol (Newton-Howes & Foulds, 2018). Da questi primi dati si può evincere che, come ipotizzato in precedenza, i soggetti con uso problematico di alcol tendono a presentare disturbi di personalità, i quali alimentano e mantengono l’AUD e compromettono la buona riuscita dei trattamenti.

Ulteriori risultati della ricerca in questione hanno evidenziato come la ricaduta nel bere fosse più comune nei pazienti con punteggi alti nella dimensione di personalità del novelty seeking, che indica un’alta ricerca della novità, e basse reward dependence e persistence, ovvero dipendenza dalla ricompensa e persistenza (Cloninger, Svrakic, & Przybeck, 1993; Newton-Howes & Foulds, 2018). La ricerca della novità è considerata come una spiccata tendenza a stati allegri ed euforici, tipicamente alta in soggetti portati a sperimentare un forte eccitamento in caso di stimoli nuovi e inaspettati, e in soggetti tendenti all’esplorazione, all’evitamento della routine e della monotonia, all’impulsività nelle decisioni, e alla bassa resistenza in caso di persistenti frustrazioni. Osservando le caratteristiche di questa dimensione della personalità, è possibile notare come queste siano in linea con i tratti che caratterizzano il bevitore patologico, nonché che possano predisporlo a mantenere il disturbo e a compromettere la buona riuscita delle terapie.

In conclusione, dalla revisione di Newton-Howes e Foulds è emerso che sia il disturbo di personalità, sia una maggiore attitudine alla ricerca di novità, hanno un impatto negativo sull’esito del trattamento dell’AUD. Pertanto, poiché il disturbo di personalità è comune nelle persone con disturbo da uso di alcol, è auspicabile che i clinici che si occupano di questi soggetti svolgano uno screening per i disturbi di personalità, sia per il disturbo in sé, sia per la dimensione della ricerca di novità. Indagare le strutture di personalità dei pazienti con AUD può quindi essere un importante passo nel lavoro terapeutico incentrato sulla cura di questo tipo di problematiche.

 

Mental (2020): una serie tv sui disturbi psichiatrici fra gli adolescenti – Recensione

La serie tv Mental nasce con il proposito di abbattere lo stigma che purtroppo ancora oggi aleggia sui disturbi della salute mentale, per far sì che sempre meno persone debbano sentirsi “rotte”, rifiutate e incomprese.

 

 A dicembre 2020 è uscita su RaiPlay la serie tv Mental, prodotta da Rai Fiction in collaborazione con Stand by Me, basata sul format finlandese Sekasin. La versione italiana si avvale della consulenza della dottoressa Paola De Rose, dell’Unità di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, in modo da poter basare le vicende raccontate su storie reali. Si tratta, infatti, di una serie di otto episodi in cui sono rappresentate le esperienze di quattro ragazzi in una clinica psichiatrica.

La prima con cui facciamo conoscenza è Nico (Greta Esposito), detta il Pesce dai compagni di scuola che la tormentano perché se ne sta sempre in disparte e non parla mai. La vediamo da subito alle prese con forti attacchi d’ansia e allucinazioni che la porteranno, appunto, ad essere ricoverata con una diagnosi di schizofrenia. Nella clinica Nico stringe amicizia con la sua compagna di stanza, Emma (Federica Pagliaroli), la quale nasconde la sua anoressia nervosa e i segni sul corpo, dovuti a frequenti atti di autolesionismo, dietro una maschera di colori vivaci, a partire dai capelli rosa. Attraverso il personaggio di Emma vengono indagate le dinamiche tra adolescenti e social, tra vita reale e vita virtuale. Emma ha infatti una vera e propria dipendenza dal suo cellulare e dal mondo che in esso è contenuto: un posto dove può scegliere cosa mostrare e come mostrarsi, dove può fingere con gli altri e con se stessa di essere un’adolescente come tutte le altre, la ragazza spensierata che ama a tal punto il proprio corpo da insegnare agli altri come valorizzarlo con tutorial di make-up ed osare, addirittura, immortalarlo in atteggiamenti provocanti, con conseguenze che si riveleranno poi catastrofiche.

La componente maschile della serie è invece rappresentata da Michele (Romano Reggiani) e Daniel (Cosimo Longo), l’uno proveniente da una casa-famiglia, alle prese con un problema di tossicodipendenza, l’altro con un disturbo bipolare e l’ossessione di essere trattenuto nella clinica senza alcun motivo, nella convinzione di essere assolutamente in salute. La clinica è vista e vissuta attraverso i loro occhi: dalla difficoltà di essere tagliati fuori dalle vite dei loro coetanei, a quella di assumere farmaci che rendono faticoso restare ancorati al mondo reale; dalla lotta contro medici e infermieri che li vogliono tenere lontani dai loro consueti mezzi di autodistruzione, alla lotta con se stessi per provare a non perdersi, giorno dopo giorno.

 Di grande importanza è lo spazio dato alla rappresentazione dei familiari: spesso assenti, distaccati, incapaci di comprendere la condizione dei figli e, in alcuni casi, complici di comportamenti disfunzionali che stanno alla base del disagio adolescenziale. Pur con la consapevolezza che molti atteggiamenti sono involontari e che andrebbero a loro volta indagati, risulta abbastanza evidente quanto troppo spesso il ruolo genitoriale non sia svolto in modo adeguato o non sia preparato ad affrontare situazioni di difficoltà. Altro elemento di interesse consiste nella raffigurazione del personale della clinica: non individui immuni dal dolore e dalla sofferenza per il solo fatto di essere esperti in materia, ma persone a tutti gli effetti, con le proprie fragilità e le proprie dinamiche familiari, a testimonianza del fatto che siamo tutti esseri umani.

L’immagine forte che resta dopo la visione di questa serie tv è quella di un gruppo di ragazzi che trovano l’uno nell’altro la forza per andare avanti, il coraggio per sognare ancora una vita diversa, l’appoggio e il sostegno familiare che nessuno, prima, era stato in grado di fornire loro. Come dice Nico,

un giorno trovi qualcuno che non ha paura di prendersi la tua malattia perché è già rotto come te, sono gli unici che ti capiscono perché per gli altri tanto è tutta colpa tua, allora devi trovare il modo per non lasciarli mai, farli diventare la tua realtà.

Mental nasce con il proposito di abbattere lo stigma che purtroppo ancora oggi aleggia sui disturbi della salute mentale, per far sì che sempre meno persone debbano sentirsi “rotte”, rifiutate e incomprese. Per questo motivo la serie tv è stata accompagnata da una campagna social che ha visto protagonisti gli hashtag #davicinonessunoènormale (da una frase di Franco Basaglia, fautore della chiusura dei manicomi), #fuoridime (dall’omonima canzone di Coez, presente nella colonna sonora della serie), #èoknonessereok e #mental.

 

Conseguenze a lungo termine dell’abuso di alcol: la Sindrome di Korsakoff

I sintomi della Sindrome di Korsakoff includono la confabulazione (Kopelman et al., 2009), l’amnesia retrograda ed anterograda, nonché la presenza di disfunzioni esecutive e di alterazioni affettive e socio-cognitive (Arts et al., 2017).

 

Introduzione

Descritta per la prima volta da Lawson (Lawson, 1878) come una sindrome contraddistinta dalla perdita di memoria e quasi sempre conseguenziale all’assunzione cronica di alcol, la sindrome di Korsakoff (KS) è stata successivamente studiata e valutata approfonditamente dallo studioso dal quale prende il nome (Korsakoff, 1887) ed è attualmente definita come una condizione caratterizzata da deficit mnemonici e cognitivi, causati dall’interazione tra le caratteristiche neurotossiche dell’alcol, la predisposizione individuale allo sviluppo del disturbo e la carenza di Tiamina (Kopelman, 1995; Zubaran et al., 1997). Tale vitamina, anche nota come B1, costituisce un nutriente essenziale per diversi tessuti del corpo incluso il cervello, ma è spesso presente in quantità deficitarie nei soggetti caratterizzati da un eccessivo consumo di alcol (Martin et al., 2003): ciò è dovuto sia al fatto che la dieta dei soggetti alcolisti risulta essere mediamente più povera di nutrienti, sia alla riduzione delle capacità di assorbimento delle sostanze fondamentali per il corpo, secondaria ai danni intestinali provocati dall’alcol (Ijaz, et al., 2018). Sebbene la sindrome di Korsakoff non legata all’alcolismo sia rara, tale condizione può talvolta comparire come conseguenza di condizioni quali la “Ipermesi gravidica” (Yoon et al., 2005), HIV, trattamenti chemioterapici (Martin et al., 2003), anoressia nervosa o gravi disturbi o interventi gastrointestinali (Scalzo et al., 2015). La frequente compresenza della KS con una forma di encefalopatia descritta per la prima volta da Carl Wernicke nel 1881, caratterizzata da atassia, disfunzioni vestibolari e nistagmo (Nahum, 2014), è implicabile al fatto che il deficit di Tiamina e l’alcolismo siano fattori di rischio comuni ad entrambe le condizioni: in caso di comorbidità, si applica la diagnosi di sindrome di Wernicke-Korsakoff (WKS) (Zubaran et al., 1997). L’incidenza della sindrome di Korsakoff, nei soggetti alcolisti, è stimata aggirarsi intorno al 12-13% (Torvik et al., 1982, quoted by Cook, 2000).

Sintomatologia e diagnosi

I sintomi della sindrome di Korsakoff includono la confabulazione (Kopelman et al., 2009), l’amnesia retrograda ed anterograda, nonché la presenza di disfunzioni esecutive e di alterazioni affettive e socio-cognitive (Arts et al., 2017), oltre alla possibile comparsa, sebbene meno frequente, di manifestazioni allucinatorie e paranoidi e di comportamenti aggressivi (Gerridzen, Goossensen, 2014): tali sintomi, uniti alla frequente mancanza di consapevolezza per la propria condizione (Gerridzen, Goossensen, 2014), rendono tali pazienti difficili da trattare in un contesto domestico, ragion per cui non è raro che essi rimangano ospedalizzati in reparti d’emergenza per lunghi periodi di tempo (Kopelman et al., 2009).

L’ampio spettro di sintomi cognitivi e comportamentali costituisce il riflesso delle sottostanti alterazioni neuronali. Uno studio pubblicato nel 1999 (Visser et al., 1999), condotto con la metodologia della Risonanza Magnetica, evidenzia, mediante il confronto con un gruppo di soggetti di controllo e con un gruppo di soggetti alcolisti ma privi di diagnosi di KS, la presenza di alterazioni cerebrali nei pazienti con Sindrome di Korsakoff: tali soggetti mostrano un decremento lieve nel volume ippocampale (6%) e nel volume del Talamo (10%), mentre una riduzione maggiore è identificabile nei corpi mammillari (29%), coinvolti nelle funzioni mnemoniche ed emotive. Rispetto ai soggetti di controllo, i soggetti con diagnosi di sindrome di Korsakoff presentano anche un incremento del 72% del volume del terzo ventricolo cerebrale, differenza che si riduce al 38% nel confronto con i soggetti alcolisti privi di diagnosi (Visser et al., 1999). Tali alterazioni strutturali sono accompagnate da anomalie funzionali: uno studio condotto con Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) con fluorodesossiglucosio (18-FDG) ha evidenziato un generale ipometabolismo nella materia grigia sottocorticale nei pazienti con KS (Reed et al., 2003) ed un ipermetabolismo nella materia bianca, caratteristica condivisa con l’autismo e con la schizofrenia e probabilmente imputabile a un fenomeno compensatorio conseguente ad un’inefficiente connettività funzionale (Mitelman, 2018).

Per la valutazione del disturbo, ai fini diagnostici, è possibile avvalersi del MMSE (Mini-Mental State Examination, Folstein et al., 1975), utile ai fini della quantificazione della compromissione cognitiva e degli stati confusionali; tale strumento si è però rivelato poco efficiente nel misurare le alterazioni mnemoniche, ragion per cui la sua somministrazione dev’essere integrata con domande volte a testare la memoria del paziente, relative alle notizie recenti e ad eventi sportivi, familiari o personali (Kopleman et al., 2009).

Nonostante la diagnosi sia favorita dall’ausilio sia di test standardizzati, sia di metodiche di neuroimaging, l’ambiguità dei sintomi clinici della sindrome di Korsakoff la rende confondibile con altre condizioni, quali lo stato d’ebrezza, disturbi mentali di vario tipo o manifestazioni secondarie a traumi cerebrali (Kopelman et al., 2009), fatto che conduce spesso ad una sotto-diagnosi del disturbo, la cui presenza viene frequentemente appurata solo in seguito all’esame autoptico (Nisson & Sonne, 2013).

Trattamento e prognosi

A causa dell’elevata incidenza della sindrome di Korsakoff e di Wernicke-Korsakoff, nonché del rischio di mortalità ad esse associato, risulta fondamentale stabilire la profilassi preferenziale per tali condizioni (Cook, 2000): in primo luogo, si rende necessaria la somministrazione di elevate dosi di vitamina B, in particolare B1, preferibilmente per via parentelare, fondamentali per evitare il cronicizzarsi della sintomatologia (Kopelman et al., 2009): in seguito al trattamento intensivo con Tiamina, il 25% dei pazienti con Korsakoff presenta una remissione sintomatologica, il 50% mostra un miglioramento graduale e solo il 25% non mostra miglioramenti (Victor et al., 2017, quoted by Kopelman, 2009). All’integrazione alimentale è utile affiancare, per favorire il recupero delle abilità lese, training finalizzati alla riabilitazione cognitiva, quali la “Errorless Learning”, che ha dimostrato un’elevata efficacia nel trattamento dei pazienti con sindrome di Korsakoff (Rensen et al., 2017). Il solo intervento sul deterioramento cognitivo, mediante la somministrazione di integratori e l’attuazione di training, tuttavia, pur essendo necessario non è sufficiente: i soggetti affetti da Sindrome di Korsakoff sono esposti ad un aumentato rischio di sviluppare sintomi secondari affettivi, ansiosi e psicotici, per affrontare i quali possono risultare necessari sia i trattamenti psicofarmacologici (Gerridzen, Goossensen, 2014), sia interventi di stampo clinico, integrabili con sedute di gruppo che permettano ai soggetti di beneficiare del confronto con altri individui affetti da dipendenza da sostanze (Kopelman et al., 2009).

Conclusioni

Sebbene la somministrazione di Tiamina (Kopelman et al., 2009) ed i training cognitivi (Rensen et al., 2017) si siano rivelati efficaci ai fini della remissione dei sintomi nei pazienti affetti da sindrome di Korsakoff o Wernicke-Korsakoff (Victor et al., 2017, quoted by Kopelman, 2009), la mancanza di un intervento precoce, favorita dall’ambiguità sintomatologica della KS, rischia di favorire la progressiva cronicizzazione del disturbo (Kopelman, 2009). Una soluzione a tale problema potrebbe risiedere nell’attuazione di interventi preventivi, specialmente sui soggetti a rischio, al fine di diminuire le percentuali di istituzionalizzazione, con effetti positivi a lungo termine sia sul benessere della popolazione, sia sulle finanze relative alla salute pubblica (Centerwall, Criqui, 1978; Yellowlees, 1986). Oltre ai possibili programmi di educazione alimentare rivolti ai soggetti a rischio (Ijaz, et al., 2018), finalizzati a stimolare una maggior consapevolezza sull’importanza di un’alimentazione variegata e ricca di nutrienti, un modo per ridurre l’incidenza dei disturbi legati ai deficit di Tiamina potrebbe consistere nell’addizione di tale vitamina alle bevande alcoliche in commercio (Centerwall, Criqui, 1978), o agli alimenti di utilizzo comune, come il pane e la farina (Yellowlees, 1986).

Oltre all’importanza di favorire la prevenzione, effetti positivi potrebbero derivare anche da un’estensione ed integrazione delle modalità di intervento sui soggetti con sindrome di Korsakoff conclamata: ad oggi la letteratura scientifica, concentrandosi quasi esclusivamente sugli interventi volti a ridurre i deficit nutritivi e cognitivi e, in minor misura, sugli interventi psicofarmacologici, riporta pochi studi sulla validità degli approcci psicologici nel trattamento della Sindrome di Korsakoff. Data l’elevata comorbidità di tale sindrome con disturbi psicosomatici (68%) e con altre manifestazioni psichiatriche (66%) (Gerridzen, Goossensen, 2014), l’auspicio per il futuro è che venga posta una sempre maggior attenzione all’importanza del sostegno psicologico nei confronti dei soggetti affetti da tale condizione, sia per favorirne l’adesione al trattamento, sia per affrontare le problematiche sottostanti il comportamento di abuso da alcol.

Introduzione al test di Rorschach secondo il metodo R-PAS

Il Rorschach Performance Assessment System (R-PAS) raccoglie l’eredità del Sistema Comprensivo (C.S.) di Exner, ancorandosi agli elementi diagnostici più validi e sviluppando prassi e tecniche innovative, alla luce di una costante ricerca scientifica.

 

 Il test di Rorschach (1921) vanta una lunga tradizione clinica e scientifica e rappresenta un costante punto di riferimento per i professionisti della salute mentale di tutto il mondo.

Il Rorschach Performance Assessment System (R-PAS) raccoglie l’eredità del Sistema Comprensivo (C.S.) di Exner (Exner, Eldberg, 2005), ancorandosi agli elementi diagnostici più validi e sviluppando prassi e tecniche innovative, alla luce di una costante ricerca scientifica (Meyer, Viglione, Mihura, Erard, Erdberg, 2011)

Ideato dai membri più importanti del Rorschach Research Council (l’organo istituito da Exner al fine di garantire un continuo aggiornamento e perfezionamento del C.S.), il metodo R-PAS costituisce l’aggiornamento più sofisticato e scientificamente fondato del metodo C.S., al passo con i tempi e con le nuove concettualizzazioni psicopatologiche (Giromini e Zennaro, 2019).

Nella sua essenza, il test di Rorschach consta di dieci tavole sulle quali sono riportate alcune macchie d’inchiostro rifinite artisticamente. Tutti i sistemi Rorschach utilizzano il medesimo set di dieci stimoli a macchie d’inchiostro originariamente progettato, testato e perfezionato da Hermann Rorschach in persona un secolo fa (Mihura and Meyer, 2018). Questo set presenta cinque macchie con colori salienti e stimolanti, in particolare due macchie sono nere e rosse (II e III tavola), mentre le ultime tre tavole sono interamente colorate, e altre cinque caratterizzate da sfumature di nero e grigio; tutte sono posizionate su uno sfondo di colore bianco. La sfumatura cromatica e acromatica delle macchie non fu frutto della diretta volontà di Rorschach, bensì la conseguenza di un difetto di produzione del tipografo, che si rivelò poi molto utile e per questo mantenuto.

Le macchie costituiscono degli stimoli ambigui, complessi e suggestivi, ma anche incompleti e indefiniti. All’interno di ciascuna macchia, sono presenti elementi grafici, definiti da Exner (1996) critical bits, in grado di elicitare la visione di alcuni percetti specifici – è questa la “struttura intrinseca” delle macchie –, ma al contempo ciascuna macchia presenta stimoli visivi contraddittori e idiosincratici, che suscitano il libero costituirsi di differenti e incongruenti immagini visive – è questa la ricchezza “idiografica” delle macchie (Giromini e Zennaro, 2019).

Immagine 1 – Le dieci tavole del Rorschach

Il compito a cui il soggetto esaminato è sottoposto consiste nel guardare ciascuna tavola e rispondere alla domanda: “Che cosa potrebbe essere?”.

 La risposta conseguente fornisce informazioni preziose circa i processi percettivi, comunicativi e di attribuzione di significato adottati dal soggetto nella visione della macchia di inchiostro.

Contrariamente a quanto spesso sostenuto, il test di Rorschach non è un test proiettivo, ma un test di performance, in quanto costituisce una prova di problem-solving di natura visiva, cognitiva e percettiva (Giromini e Zennaro, 2019).

Nella sua essenza, quindi, il Rorschach è un compito comportamentale che permette all’esaminatore di vedere quello che la persona fa (e non quello che dice di fare, come nel caso dei self-report), cioè di osservare la “personalità in azione” (Meyer et al., 2011)

Le soluzioni che l’esaminato trova e offre per rispondere al compito proposto rappresentano i comportamenti messi in atto durante il compito e sono diretta espressione delle proprie caratteristiche di personalità e del proprio stile di elaborazione dello stimolo ambiguo costituito dalle tavole Rorschach (Meyer et al., 2011).

Risulta auspicabile l’utilizzo integrato del test di Rorschach con altri strumenti di assessment psicologici, come i test self-report, per delineare un quadro completo della persona. Infatti, se i punteggi Rorschach identificano caratteristiche implicite di personalità, basate su quello che le persone fanno, le informazioni ricavate dai self- report o accertate da metodi introspettivi colgono soltanto ciò che le persone consapevolmente riconoscono e intenzionalmente riportano durante la somministrazione (Meye et al., 2011). Quindi, il contributo offerto dal test di Rorschach alla conoscenza dell’esaminato è complementare a quanto proviene dai risultati dei test self-report.

A partire dall’osservazione in vivo del comportamento, il Rorschach consente di accedere al mondo implicito e procedurale dell’esaminato, rilevando informazioni uniche:

  • le sue capacità di percezione e di problem solving;
  • le sue strategie di coping e di elaborazione delle informazioni;
  • il suo stile di pensiero;
  • la rappresentazione di sé e le configurazioni relazionali sé- altro.

Il Rorschach risulta capace di cogliere anche eventuali distorsioni nell’esame di realtà o, a livello più intimo, timori e preoccupazioni rilevanti per l’individuo, riuscendo così a tratteggiare una descrizione ricca, multidimensionale e idiografica del soggetto esaminato (Meyer et. al., 2011).

 

Il Memory Training: metodi che sfruttano la memoria implicita

Il Memory Training è una metodologia riabilitativa utilizzabile con pazienti con deficit lievi o con smemoratezza benigna.

 

Tale tecnica è composta da alcune prove per la memoria ed ha alla base la teoria della neuroplasticità secondo cui il cervello può subire delle modifiche in seguito a stimolazioni esterne o interne (Kimberley et al., 2010; Belleville et al., 2011).

L’allenamento può proporre delle strategie che sfruttano la memoria implicita come:

  • il sistema dello Spaced Retrieval, che esercita il richiamo di un’informazione nel tempo lungo degli intervalli crescenti (Wilson, 2009). Può essere utilizzato con varie mnemotecniche e, interventi riabilitativi che adottano questa tecnica, si sono dimostrati efficaci nell’identificazione di oggetti, nell’associazione nome-faccia, nella collocazione spaziale di oggetti, nonché nella programmazione di attività quotidiane (Backman, 1996).
  • la tecnica di Errorless Learning, che previene gli errori durante la fase di acquisizione delle informazioni (Clare & Jones, 2008). Le persone con disturbi mnesici hanno la tendenza ad affidarsi alla memoria implicita, che non consente di discriminare in modo consapevole gli errori dalle risposte corrette, consentendo agli errori commessi in fase di apprendimento di poter emergere poiché indistinguibili dagli stimoli corretti. Eliminando gli errori in fase di apprendimento, i pazienti hanno una minore possibilità di fallire (Roberts et al., 2018).
  • Il metodo del Vanishing Cues, che propone la riduzione progressiva di suggerimenti finalizzati al retrieval dell’informazione (Glisky, Schacter & Tulving, 1986).

Bier e colleghi (2008) hanno confrontato diverse tecniche, tra cui quelle citate, per l’apprendimento dell’associazione volto-nome in pazienti con Demenza di Alzheimer.

I soggetti con AD sono stati visti due volte a settimana per cinque settimane consecutive, per un totale di 10 sessioni di 45 minuti. I partecipanti hanno osservato le foto di cinque persone associate ai loro nomi e gli è stato chiesto di imparare tali associazioni, per poi recuperarle alla fine della sessione. A prescindere dalla metodologia utilizzata, ad ogni partecipante era richiesto di produrre una risposta, poi corretta in caso di errore.

Per tutte e tre le modalità sono state presentate le seguenti istruzioni: “Ecco la foto di un uomo, il cui nome è il signor X. Puoi ripetere questo nome e cercare di ricordarlo?”.

Nel caso della prova con metodo Errorless Learning è stata ripresentata immediatamente la foto a cui associare il nome ed è stato chiesto di ricordare il nome abbinato. Gli autori si aspettavano pochissimi errori con questa procedura dato che le informazioni sono state presentate e recuperate immediatamente dai partecipanti.

Con il Vanishing Cues è stata ripresentata la foto dello stesso volto con alcune lettere del nome come ausilio e, alle successive richieste di rievocazione, gradualmente, sono stati ridotti i cue. In caso di errore era aggiunta man mano una lettera, fino alla rievocazione del nome.

L’uso dello Spaced Retrieval ha previsto la ripresentazione della foto dopo 0 secondi, poi dopo 10 secondi, 20 secondi, 30 secondi, 1 minuto, 2 minuti, 3 minuti e infine dopo 5 minuti.

Le conclusioni dello studio non possono raccomandare, dal punto di vista clinico, un metodo rispetto agli altri. I risultati hanno mostrato come i pazienti con malattia di Alzheimer abbiano ottenuto vantaggi nell’apprendimento delle associazioni faccia-nome con tutti i metodi presi in considerazione e sono concordi nell’affermare che possono esserci anche altri aspetti che concorrono a favorire l’apprendimento, per esempio legati al ruolo attivo dei partecipanti durante le fasi dell’apprendimento.

Questo è un aspetto importante per la futura ricerca clinica e dovrebbe essere esplorato in ulteriori studi.

 

La pragmatica della comunicazione digitale. Agire con efficacia online (2020) di Giorgio Nardone, Stefano Bartoli e Simona Milanese – Recensione del libro

Nel 1967 Paul Watzlawick insieme ai suoi collaboratori scriveva La pragmatica della comunicazione, oggi il suo degno erede Giorgio Nardone insieme a due suoi validissimi collaboratori, Stefano Bartoli e Simona Milanese, scrivono La pragmatica della comunicazione digitale.

 

Il libro nasce in piena era digitale e nel bel mezzo della pandemia da Covid 19 dove mesi e mesi di lockdown  hanno reso il digitale l’unico mezzo per comunicare, studiare, continuare a formarci, lavorare, incontrare pazienti.

L’intento dunque degli autori è quello di recuperare gli aspetti pragmatici della comunicazione rivisitandoli all’era digitale, al fine di agire con efficacia online.

Ma cosa cambia nella comunicazione digitale?

Inevitabilmente una riduzione dell’aspetto non verbale, ma ciò nonostante anche la comunicazione digitale può essere resa efficace ed efficiente se viene curata nei suoi vari aspetti. Partendo dai cinque assiomi della pragmatica della comunicazione, gli autori ce ne forniranno una precisa e preziosa descrizione. Ma rivediamo sinteticamente i cinque assiomi della comunicazione:

  • Non si può non comunicare. Qualsiasi comportamento, compresa la mancanza di comunicazione è di per sé un atto comunicativo;
  • Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi meta-comunicazione, e nella comunicazione digitale tale aspetto risulta ancora più decisivo in quanto ascoltare una persona parlare attraverso lo schermo del pc è più faticoso rispetto a farlo dal vivo, in tal senso sapere come comunicare diviene indispensabile tanto per riuscire a tenere l’attenzione del nostro interlocutore quanto per gestire noi stessi durante l’atto comunicativo;
  • La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti; come recitano gli autori del testo in altre parole il flusso comunicativo è influenzato dal punto di vista delle parole che comunicano le quali tendono a interpretare il proprio comportamento non come causa, ma come conseguenza del comportamento dell’altro;
  • Gli esseri umani comunicano sia in maniera digitale che analogica;
  • Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza, in tal senso parliamo della relazione tra gli interlocutori.

Nel capitolo 2 si continua ad approfondire singolarmente ogni aspetto essenziale per una comunicazione digitale efficace come l’importanza di creare un adeguato setting digitale, di curare il nostro aspetto per dare una buona prima impressione, ed ancora suggerimenti su come usare al meglio gesti, sguardo, postura, mimica facciale, voce, pausa, sorrisi, la scelta e l’utilizzo di parole per riuscire ad evocare sensazioni, perché come ricordano gli autori, già Pascal recitava che prima di convincere l’intelletto occorre toccare e predisporre il cuore, e dunque quando, come e con chi utilizzare analogie, metafore, aneddoti, come porre domande, riassumere il contenuto di quanto emerso durante il colloquio, riuscire a creare e mantenere relazione…

Le parole sono lo strumento più potente che un medico possiede, ma le parole, come una spada a doppio taglio, possono mutilare così come guarire. Bernard Lown

Bellissimo e profondamente vero l’aforisma sopracitato ripreso dal testo, che accompagna il lettore al capitolo in cui gli autori sottolineano l’importanza della relazione e della parola all’interno delle professioni che curano, siano esse più specificatamente mediche o psicoterapeutiche.

Ma un aspetto sottolineato dagli autori del libro è come, sempre di più, si stia dimenticando che anche nella medicina la parola e la relazione (che determina l’aderenza del paziente alle prescrizioni del farmaco e a uno stile di vita più sano) diventano essenziali anche nella cura del corpo. Ricordiamo infatti che lo stesso padre della medicina, Ippocrate, considerava il tocco, il rimedio e la parola i tre pilastri dell’agire medico.

Psicoterapia online, formazione a distanza, l’online sta offrendo sempre più opportunità ma non bisogna puntare solo alla quantità ma alla qualità e, su questa scia, il testo offre validi spunti di riflessione su come usare in modo efficace la parola, sia dal vivo oppure, come in questo periodo, sempre più online, soprattutto per noi addetti ai lavori. Mi piacerebbe concludere con un pensiero di Freud sulla parola; pensiero questo, riportato dagli autori all’interno del testo:

Originariamente le parole erano magiche e, ancora oggi, la parola ha conservato molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l’altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole l’oratore trascina con sé l’uditore e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano effetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra di loro. Non sottovaluteremo quindi l’uso delle parole nella psicoterapia (Freud, 1933).

 

 

L’utilizzo dell’Emotional Schema Therapy nel trattamento dell’emicrania

Le persone con emicrania sperimentano differenti problemi nella gestione delle loro emozioni e, pertanto, la gestione e la regolazione dei principali fattori scatenanti l’emicrania, come lo stress e le esperienze emotive, potrebbero essere loro molto utili.

 

L’emicrania è un disturbo neurovascolare cronico ed è il più riconosciuto tra disturbi della cefalea. La sua prevalenza tra gli adulti varia in tutto il mondo, dal 9,3% a oltre il 30% e, a causa delle influenze ormonali, le donne hanno più probabilità di esserne vittime (Steiner, 2019).

Sono molteplici gli aspetti cognitivi ed emotivi, che possono influenzare lo sviluppo, il decorso e la gravità dell’emicrania (Bonavita et al., 2018). Di fatti, le emozioni sono funzionali per diversi motivi ma, talvolta, possono essere anche disfunzionali, soprattutto quando tendono a manifestarsi con una intensità o una durata inadeguate, rispetto ad una data situazione (Ekman, 2016).

La regolazione emotiva può essere definita come il processo attraverso il quale gli individui cercano di gestire o modificare il loro comportamento, sulla base delle emozioni prevalenti (Sheppes et al., 2015).

Alcuni studi hanno dimostrato che le persone che soffrono di emicrania tendono ad essere più sensibili alle espressioni facciali rispetto a coloro i quali non manifestano questo disturbo (Szabó et al., 2019). Studi recenti hanno esaminato gli effetti degli interventi mirati alla regolazione emotiva su differenti disturbi (Sheppes et al., 2015) ma, attualmente, c’è stata una scarsa attenzione rispetto ai loro effetti sui disturbi della cefalea e, soprattutto, sull’emicrania (Wolf et al., 2019).

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è considerata il trattamento terapeutico più comunemente utilizzato per bambini e adulti con emicrania (Kroon Van Diest & Powers, 2019). Gli obiettivi primari della suddetta terapia per il trattamento del sopracitato disturbo implicano di insegnare ai pazienti come utilizzare le strategie di coping per la gestione del dolore derivante dal mal di testa quando esso si manifesta, per la prevenzione e per alleviare la disabilità correlata e/o i sintomi che si presentano in comorbilità, come manifestazioni ansiose e depressive (Harris et al., 2015).

L’Emotional Schema Model è un modello socio-cognitivo che si focalizza su come gli individui percepiscono, interpretano, valutano e rispondono alle loro e alle altrui emozioni. Esso sostiene che gli individui presentano differenti schemi emotivi, ovvero diverse credenze di base sulle emozioni e sulle esperienze emotive (Leahy, 2002). I suddetti schemi possono dar origine a strategie disfunzionali per affrontare le emozioni stesse, come la soppressione, la ruminazione, l’evitamento, la colpevolizzazione e l’abuso di sostanze.

L’Emotional Schema Therapy (EST) è un approccio psicoterapeutico di stampo cognitivo comportamentale che si basa sul modello dello schema emotivo (Leahy, 2019). Essa si concentra su una serie di tecniche di regolazione emotiva tra cui l’identificazione, la differenziazione e l’accettazione delle emozioni, il riconoscimento della transitorietà di quest’ultime e la concentrazione sulle azioni dirette all’obiettivo, necessaria quando si tollera un’emozione. Inoltre, la terapia si concentra sulla valutazione dei pensieri automatici negativi legati alle emozioni e incoraggia l’utilizzo della mindfulness.

L’ Emotional Schema Therapy si è rivelata efficace per il trattamento di differenti disturbi, tra cui il disturbo depressivo maggiore (Rezaei et al., 2016), il disturbo d’ansia sociale (Morvaridi, Mashhadi & Shamloo, 2019), il disturbo d’ansia generalizzato (Emam Zamani et al., 2019) e il disturbo da stress post-traumatico (Naderi Rajeh & Zarghami, 2017).

Eppure, solo uno studio ha valutato gli effetti di questo trattamento sulle persone che soffrono di emicrania.

Come si è detto, le persone con emicrania sperimentano differenti problemi nella gestione delle loro emozioni (Wolf et al., 2019) e, pertanto, la gestione e la regolazione dei principali fattori scatenanti l’emicrania, come lo stress e le esperienze emotive, potrebbero essere molto utili e gli approcci cognitivo comportamentali della terza ondata, incentrati sull’identificazione e la moderazione delle emozioni, potrebbero aiutare questi pazienti.

Shahsavani e colleghi (2020) si sono proposti di esaminare l’effetto della EST sull’emicrania. Nello specifico, gli autori hanno ipotizzato che tale trattamento sarebbe stato efficace nell’alleviare la gravità dell’emicrania e che avrebbe influenzato le strategie di regolazione emotiva.

Allo studio hanno preso parte 16 donne con un’età compresa tra i 20 e i 40 anni.

Il gruppo sperimentale ha ricevuto 12 sessioni da 120 minuti di terapia. I ricercatori si sono concentrati sull’identificazione, la convalida e la gestione delle strategie di regolazione, tentando al contempo di modificare le credenze negative connesse all’attivazione emotiva. Inoltre, essi hanno incoraggiato l’utilizzo di strategie utili come la rivalutazione cognitiva, l’accettazione e la consapevolezza.

I risultati di questo studio hanno mostrato come la gravità dell’emicrania, a seguito del trattamento, si sia considerevolmente ridotta. Ciò è in linea con i risultati di studi precedenti che hanno dimostrato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale per l’emicrania e la cefalea (Kroon Van Diest & Powers, 2019; Lee et al., 2019). Inoltre, si è anche assistito ad un miglioramento per quanto concerne le strategie adattive di regolazione.

Quest’ultima riveste dunque una considerevole importanza nella manifestazione e conseguente gestione dell’emicrania (Wolf et al., 2019).

L’Emotional Schema Therapy, concentrandosi sull’esperienza e sulla valutazione delle emozioni – piuttosto che sul contenuto del pensiero – in modo non giudicante e consapevole, riduce il disagio emotivo e ottimizza le strategie di coping (Leahy, 2015, 2019).

Gli individui che soffrono di emicrania tendono ad essere cauti nella manifestazione delle proprie emozioni e spesso tendono a sopprimerle, piuttosto che a darne voce. L’evitamento emotivo a lungo termine fa credere a queste persone che se sperimentano emozioni come tristezza o rabbia, potrebbero esserne sopraffatti.

Gli schemi emotivi delle persone con emicrania rendono dunque difficile percepire, interpretare, valutare e rispondere alle proprie e altrui emozioni.

L’attivazione di questi schemi può comportare un peggior processo decisionale e aumentare la probabilità di errori. Di conseguenza, i sentimenti di biasimo e colpa possono aumentare in questi individui.

Concentrando il trattamento sulla modifica di queste convinzioni, i pazienti potrebbero imparare a sperimentare correttamente le loro emozioni, piuttosto che ignorarle. Come risultato di questi cambiamenti, non solo i soggetti otterrebbero il controllo sulle loro emozioni, ma potrebbero assistere anche ad una riduzione dell’emicrania.

 

Languishing e Covid-19

Sono trascorsi ormai molti mesi dall’inizio della pandemia di COVID-19, che ha avuto un impatto drammatico sulla società contemporanea e ha cambiato in modo significativo le abitudini di tutti noi. Nonostante si sia assistito ad un incremento della competenza relativa alla gestione della convivenza forzata con il COVID-19 e benché i paesi di tutto il mondo stiano gradualmente provando a riconquistare, mediante le riaperture, la tanto agognata normalità perduta, sembra permanere nella popolazione una sensazione inspiegabile, caratterizzata da un’assenza di benessere, che prende il nome di “languishing” (languore).

Cosa vuol dire Languishing

Languishing è un termine inglese adottato dal sociologo e psicologo Corey Keyes e che in lingua italiana può essere liberamente tradotto come “languire”.

Si configura come uno stato di vuoto e stagnazione, che può caratterizzare alcuni individui. Si colloca a metà tra il benessere e la patologia; non indica, infatti, un disturbo psicologico, ma è tipico di chi mostra bassi livelli di benessere (Keyes, 2002).

Keyes ha avuto la possibilità di constatare in uno studio empirico da lui condotto e che ha coinvolto 3032 adulti, sia uomini sia donne, di età compresa tra i 25 e i 74 anni, come ben il 12,1 % del campione della ricerca presentasse il languishing: si tratta di individui che non manifestavano nessun disagio psichico specifico, ma che, nonostante l’assenza di disturbi, non stavano comunque “fiorendo” e prosperando.

Languishing nell’epoca del COVID-19

Come siamo giunti al languishing?

Prima di “languire”, abbiamo vissuto collettivamente l’angoscia per l’inizio della pandemia, la quale ci ha posti a confronto con varie forme di perdita: perdita di una persona cara, del lavoro, degli amici, dei momenti di svago… Le nostre “vecchie” vite sono state temporaneamente messe a riposo e, mese dopo mese, ci siamo arenati fino a raggiungere una condizione di stallo caratterizzato da indifferenza e rassegnazione, che rappresentano terreno fertile per l’insorgenza del languishing (Pope, 2021).

Lo psicologo statunitense Adam Grant ha identificato il languishing come l’emozione che dominerà in modo prevalente il 2021 (Grant, 2021).

Le sensazioni che stiamo già provando oggi e che probabilmente ci accompagneranno nei mesi seguenti non sono tristezza e assenza di energie, bensì mancanza di gioia e di scopi. Ciò a cui stiamo andando incontro, infatti, non sono né il burnout né la depressione, ma, piuttosto, il languishing. È come, scrive Grant, confondersi tra i giorni, come osservare le nostre vite attraverso un vetro appannato. Non siamo depressi, ma, al tempo stesso, non stiamo funzionando al massimo delle nostre potenzialità. Ciò avviene perché stiamo sperimentando ormai da molti mesi l’assenza di una serie di aspetti positivi: programmazione di obiettivi, raggiungimento di soddisfazioni, socializzazione e interesse per la vita (Keyes, 2002).

Il languishing determina difficoltà di concentrazione e spegne la motivazione e, di conseguenza, influenza negativamente il rendimento scolastico e/o lavorativo e le relazioni sociali.

Nessuno è immune dal “languire”, tuttavia i soggetti che risultano più competenti nella gestione dello stress sono meno inclini ad esso, in quanto si mostrano più resilienti e si lasciano sopraffare meno dagli eventi. Coloro che sono geneticamente predisposti a condizioni psichiatriche o hanno una storia di ansia o depressione hanno, invece, maggiori probabilità di soffrire di languishing rispetto ad altri, così come i soggetti estroversi, che si sentiranno più frustrati a causa della riduzione, determinata dalle restrizioni subentrate all’inizio della pandemia, delle occasioni di socializzazione (Gillespie, 2021).

Languishing: possibili interventi

Il languishing rappresenta un vuoto penetrante nell’anima, difficile da riempire, il che significa che questo stato di stagnazione è in realtà una forma di sofferenza, anche se non lo riconosciamo molto. Ciò che rende subdolo il languishing è che, per chi lo sta vivendo, è difficile identificarlo: spesso non si riesce a individuare questa forma di sofferenza latente e, quindi, si rimane indifferenti, non chiedendo aiuto.

Cosa si può fare quindi?

  • Alcuni consigli (Grant, 2021) per affrontare il senso di vuoto del languishing sono:
  • dare un nome alle sensazioni percepite: aiuta a prendere coscienza del problema e a rendere più chiara una condizione inizialmente ambigua e confusa;
  • ricordarsi che non si è soli: il languishing è uno stato d’animo comune e sono molte le persone in tutto il mondo che stanno provando in questo momento le emozioni ad esso riferite;
  • focalizzarsi su piccoli obiettivi giornalieri: sono un modo per “rinnovare” l’entusiasmo partendo da piccoli passi.

Ma il principale antidoto contro il languishing è il flow, il flusso, ossia quello stato di piacevole abbandono che fa perdere temporaneamente la cognizione del tempo e dello spazio e che si prova quando si viene “assorbiti” da qualcosa. Lasciarsi andare e immergersi nella realizzazione di progetti personali che ci gratificano “accende” la motivazione e contrasta il senso di vuoto, con conseguente innalzamento dei livelli di benessere percepito. Portare a termine un lavoro o dedicarsi ad un hobby sono dei semplici esempi di attività che, coinvolgendo il soggetto, riescono ad allontanarlo dalla negatività (Betti, 2021).

Prospettive per il futuro

Non siamo attualmente in grado di prevedere se il languishing si evolverà con certezza in disturbi depressivi negli anni futuri, anche se una ricerca condotta da Keyes ha mostrato che le persone che hanno maggiori probabilità di sperimentare grandi ansie e depressioni nei prossimi 10 anni sono in realtà quelle che languiscono in questo momento (Keyes, 2010). Quel che è certo è che si tratta di un fenomeno dilagante che non deve essere sottovalutato. Ecco perché è importante non trascurare gli effetti sulla psiche di quella che, ormai è evidente, non è più solo una emergenza sanitaria ma anche psicologica.

Conclude, infatti, Grant: “non depresso non significa non essere in difficoltà. Non essere in burnout non significa essere entusiasti ed eccitati. Riconoscere che molti di noi vivono uno stato di languore è il primo passo per dare voce a questo quieto malessere e illuminare un percorso per uscire dal disagio.

Occorre, pertanto, che i professionisti della salute mentale come psicologi, psichiatri e psicoterapeuti siano pronti ad intervenire sul territorio a supporto di quelle persone che ne hanno più bisogno. La speranza è che “quando torneremo a una certa normalità, le persone potranno rinnovare il loro apprezzamento per la vita, in quanto ha doni sorprendenti che ci permettono di prosperare se siamo disposti a prenderli” (Pope, 2021).

L’incontro con l’altro: capacità di accogliere e sviluppare una relazione di lavoro efficace nel colloquio psicologico

Il colloquio si configura come un incontro in cui il processo di conoscenza dell’altro avviene attraverso la creazione di una relazione. Lo sviluppo di una relazione che sia efficace risulta, per la ricerca, strettamente legato al buon esito di un trattamento. 

 

Il termine colloquio, che deriva dal latino cum loqui, parlare insieme, evidenzia già la natura relazionale di questa pratica. Del colloquio psicologico si può sottolineare l’aspetto di facilitazione della comunicazione, data anche dall’uso di tecniche non direttive da parte del conduttore che possono permettere al soggetto di sentirsi accolto, valorizzato, non sottoposto a giudizio e trattato come persona da un’altra di cui percepisce la disponibilità (Lis, Venuti & De Zorzo, 1995, p. 8).

Il colloquio si configura come un incontro in cui il processo di conoscenza dell’altro avviene attraverso la creazione di una relazione. Lo sviluppo di una relazione che sia efficace risulta, per la ricerca, strettamente legato al buon esito di un trattamento.

Gelso e Carter (1994) definiscono la relazione terapeutica come “l’insieme dei sentimenti e degli atteggiamenti che il terapeuta e il paziente hanno l’uno verso l’altro, e il modo in cui questi vengono espressi” mettendo in luce anche la dinamicità del costrutto. Questa relazione deve avere l’obiettivo di facilitare l’espressione di sé nell’altro, non a caso, solitamente, le persone preferiscono sondare la qualità della relazione terapeutica prima di aprirsi (McWilliams, 2009, p. 6). Tutto ciò deve essere favorito anche dal contesto specifico in cui la relazione avviene; si rivelano importanti i fattori ambientali esterni ai due interagenti e ne consegue che una condizione confusa, ostile, che non garantisce la necessaria riservatezza, potrebbe compromettere il risultato del colloquio, ma non solo, ogni messaggio scambiato tra clinico e paziente entrerà a far parte di un particolare “contesto interpersonale” che influenzerà l’interazione successiva (Baldoni, Baldaro & Ravasini, 1994, p.7).

Imprescindibilmente legato al contesto è il setting, che rappresenta la cornice all’interno di cui avviene l’incontro. Questo è costituito dal set, dalle regole del “contratto professionale” e dalle regole della relazione; dunque, da condizioni materiali (luogo, tempo, modalità di pagamento ecc.), ma anche dall’atteggiamento del professionista che, con la propria presenza, contribuisce a determinare l’intera gestalt dell’ambiente. Ascoltare e dialogare in maniera attiva, valorizzando l’esperienza dell’altro è fondamentale da parte del professionista che, se distratto o superiore, reticente o ambiguo, seduttivo e manipolatorio, potrebbe non agevolare la relazione (Baldoni et al., 1994, p.7-10). Nell’ambito dell’incontro, quindi, è fondamentale che il paziente senta valorizzata la sua narrazione e che vi sia un clima relazionale che autorizzi a esprimere sinceramente aspetti di sé.

Per McWilliams (2009) all’inizio di un percorso è importante che il clinico domandi al potenziale paziente come si sente a parlare con lui in modo da trasmettere l’interesse rispetto a come questo esperisca la relazione. Si palesa la natura collaborativa della terapia e viene dato spazio a movimenti transferali sottostanti non evidenti (p. 29).

Riguardo all’atteggiamento del clinico, le dimensioni dell’ascolto e della sospensione del giudizio risultano fondamentali al fine di basare questa relazione sulla fiducia. È importante che l’ascolto sia attivo e finalizzato alla comprensione dell’altro. Tale modalità si basa sulla capacità empatica e su un’apertura affettiva che permette non solo la sintonizzazione sugli stati emotivi, cognitivi e somatici del soggetto, ma anche la comprensione degli elementi affettivi che circolano all’interno della diade e che riguardano sé e l’altro; spesso la valutazione del proprio affetto permette al professionista di fare inferenze critiche anche sull’altro. Di contro, modalità di ascolto selettivo e passivo si rivelano controproducenti.

Risulta fondamentale saper sostare nella sofferenza dell’altro e accettare la sua diversità in modo che il richiedente possa sperimentare la sensazione di essere accolto nella sua individualità e sentirsi lontano da qualsiasi dimensione di tipo valutativo. L’asimmetria relazionale tra richiedente il colloquio e il professionista non deve richiamare infatti uno squilibrio in termini di potere o di valore, ma solo una diversità strutturale in termini di ruolo: l’uno richiede una prestazione esprimendo in varie modalità una domanda d’aiuto, l’altro ha una funzione di ascolto e favorisce l’emergere di significati. La mal interpretazione di questa asimmetria potrebbe comportare atteggiamenti disfunzionali alla relazione, guidati talvolta da difese narcisistiche del professionista o tendenze idealizzanti da parte del paziente, che, se comprese e contenute, potrebbero comunque essere utili in una prima fase dell’incontro per formare quella che viene definita alleanza terapeutica.

La sospensione del giudizio è un’altra condizione imprescindibile affinché l’altro possa aprirsi, percepire l’accoglienza ed esprimere aspetti di sé, ma configura un’opportunità anche per il professionista poiché permette di ampliare l’esperienza e instaura una dinamica e comprensione reciproca che valorizza al tempo stesso i propri bisogni e quelli dell’altro. Tale sospensione necessita di una certa professionalità da parte del clinico tesa allo sforzo di diventare un contenitore sufficientemente vuoto da poter ascoltare il paziente con mente sgombra e libera, senza fretta di intervenire ed essere in grado di evitare di proiettare in lui cose che “già pensa di sapere”, non aspettandosi che l’altro cambi nella direzione che si desidera. Viene compiuta un’epochè in modo che si configuri un ascolto che Bion definirebbe “senza memoria né desiderio”; questo è un atto etico per eccellenza, poiché consente all’altro di dispiegare la propria soggettività.

Le dimensioni della sospensione del giudizio e dell’ascolto sono inoltre strettamente legate all’analisi della domanda, che si rivela importante nell’ottica di costruzione di un’efficace relazione di lavoro poiché fornisce da subito informazioni essenziali legate alle aspettative, alla motivazione, alla dinamica dell’invio, alla consapevolezza, così come alla capacità relazionale (esplicativa delle dinamiche di alleanza) e alle fantasie. Già dal primo contatto con il paziente, che solitamente avviene in maniera telefonica o telematica, iniziano ad affacciarsi fantasie che riguardano anche il professionista, si può dire che emergano operazioni di pre-controtransfert e pre-transfert.

Il tono globale del transfert del paziente permeerà dal primo colloquio e darà modo di valutare le identificazioni primarie (McWilliams, 2009, p.134). I dati sulle interiorizzazioni hanno implicazioni significative e da subito segnalano all’intervistatore come può entrare in contatto con il paziente.

L’instaurarsi di clima relazionale idoneo allo scambio comunicativo e all’espressione di sé è favorito dalla messa in campo da parte del professionista di una sensibilità e delicatezza volte a instaurare un contatto emotivo. Avverrà così il tentativo di cogliere indicatori verbali e non verbali che possano esprimere gli stati emotivi del paziente in modo da valorizzarli esprimendo accoglienza, ma sarà altresì essenziale che il conduttore si concentri ed elabori anche gli stati emotivi propri. All’affacciarsi di eventuali manifestazioni di disagio o ansia è importante che il conduttore non colluda, ma si dimostri comunque aperto, disponibile ed empatico.

Nella conduzione del colloquio il professionista si sforzerà di fare domande adeguate che possano rafforzare la relazione e che, a seconda della modalità con cui vengono poste, possano offrire un clima di lavoro aperto e sereno, quindi dare la possibilità al cliente di rilassarsi, esprimersi ed eventualmente verbalizzare l’origine della propria ansia immediata, stabilendo un contatto emotivo. Il vissuto di comunicazione reciproca che ne deriva permetterà al paziente di “accettare il dialogo e di sentirsi sempre più a suo agio nel parlare” (Baldoni et al., 1994, p.25).

Le persone hanno bisogno di sentirsi capite, rispecchiate, accettate e convalidate nelle loro esperienze soggettive. McWilliams (2009) traccia alcune linee del modo in cui sarebbe opportuno procedere durante una prima fase di incontro, sottolineando gli sforzi per stabilire un rapporto sicuro, minimizzare l’angoscia, comunicare comprensione, suscitare e valutare le reazioni del paziente nei confronti del professionista, dare speranza e affrontare e chiarire tutti gli aspetti pratici del contratto terapeutico.

Data la rilevanza dello sviluppo di una relazione di lavoro efficace ai fini del trattamento, negli ultimi anni sono state indagate, con i metodi della ricerca empirica e per mezzo di strumenti di valutazione costruiti ad hoc, le dimensioni fondamentali della relazione terapeutica e il loro rapporto con il processo e l’esito delle psicoterapie. Tra queste ricordiamo innanzitutto la già citata alleanza terapeutica, il transfert e il controtransfert, ma a connotare la relazione partecipano anche le caratteristiche del paziente, quelle del terapeuta, i sistemi di attaccamento e i sistemi motivazionali interpersonali (Colli & Lingiardi, 2014, p. 626). La necessità di brevità della trattazione non mi permette di descriverle in maniera esaustiva, ma solo di tracciare alcune linee.

Bordin (1979) dà una definizione panteorica di alleanza terapeutica secondo cui risulta come un fattore comune a tutti i modelli psicoterapeutici a prescindere dal modello operativo e l’orientamento teorico e che consiste nel “reciproco accordo riguardo agli Obiettivi (Goals) del cambiamento e ai Compiti (Task) necessari per raggiungere tali obiettivi, insieme allo stabilirsi di un Legame (Bond) che mantiene la collaborazione tra i partecipanti al lavoro terapeutico” (Bordin, 1979, p.16).

È importante cogliere la natura dinamica dell’alleanza, un qualcosa di co-costruito e suscettibile di cambiamento, negoziato anche attraverso momenti di tensione, rotture e riparazioni che risultano fisiologiche e diventano a loro volta “finestre relazionali”. La mutevolezza delle qualità dell’alleanza è considerata oggi il fulcro del lavoro terapeutico, le mancate sintonizzazioni o le rotture assumono una connotazione relazionale e diventano uno strumento prezioso per promuovere il cambiamento (Colli & Lingiardi, 2014, p. 629). La rottura può così essere un punto di partenza potenzialmente trasformativo, da riconoscere e gestire adeguatamente; il terapeuta deve essere in grado di cogliere feedback diretti e indiretti dei pazienti per poi agire favorendo la relazione.

Ackerman e Hilsenroth (2001;2003) hanno proposto nelle loro ricerche una serie di fattori in grado di favorire o inibire l’alleanza. Tra i tanti fattori predisponenti si trovano anche la capacità di assumere un ruolo collaborativo, la tendenza a favorire l’espressione di emozioni in un’atmosfera di sostegno e la capacità di esplorare temi interpersonali, mentre giocano un ruolo negativo lo scarso coinvolgimento emotivo, la tendenza a criticare e l’autoreferenzialità del conduttore.

Altri studi hanno individuato ulteriori variabili: Norcross (2011) evidenzia lo stile di attaccamento del terapeuta come fattore capace di influenzare l’alleanza terapeutica e, di riflesso, l’outcome del lavoro clinico. Ma la relazione stessa che si presenta nel colloquio clinico potrebbe configurarsi come un legame di attaccamento; questa condizione potrebbe essere utile in quanto permetterebbe potenziali esperienze relazionali correttive volte a risolvere relazioni esterne disfunzionali. Va da sé che i pattern relazionali dei soggetti, le loro relazioni oggettuali interiorizzate, influenzano la relazione clinica e si configurano tramite l’esperienza transferale del paziente e contro-transferale del clinico.

In conclusione, possiamo dire che il colloquio si fonda sulla relazione e che questa funga da “termometro” del colloquio stesso; la sua efficacia risulta fondamentale nell’ottica della cura e dell’esplorazione. A questo fine il professionista dovrà essere in grado di orientare il setting, gli obiettivi e le tecniche di colloquio, in modo da favorire un clima relazionale che permetta uno scambio comunicativo fluido, in cui il paziente viene messo nelle condizioni di percepire un’accoglienza priva di valutazione, e da poter organizzare liberamente il modo di relazionarsi ed esprimere il proprio Sé. Lo scopo deve rimanere sempre quello di “costruire, innanzitutto, un ‘canale’ di comunicazione entro il quale dovrà poi essere fatta fluire la maggior quantità (e la miglior qualità) di contenuti informativi che, infine, potranno essere trattati in qualche modo, per essere riproposti, così mutati, al paziente o semplicemente memorizzati dall’operatore” (Del Corno, 2014, p.221).

 

Il piccolo paranoico (2020) di Bernardo Paoli – Recensione del libro

Nel libro Il piccolo paranoico, Filippo sarà invitato a lavorare sulle sue pene d’amore, a liberarsi dalla rabbia, confermare o disconfermare le credenze circa un mondo che cospira contro di lui, a trasformare le lamentele in desideri ed i desideri in obiettivi.

 

Tra le ultime pubblicazioni di Bernardo Paoli, psicologo e psicoterapeuta, ipnotista, coach, formatore e scrittore, troviamo Il piccolo paranoico, una simpatica ed interessante raccolta dei dialoghi terapeutici dello stesso autore del libro con Filippo, un paziente alle prese con le sue ansie, rabbie e “paranoie” che decide finalmente di voler risolvere muovendo una richiesta di aiuto.

Accompagnato anche da piacevoli illustrazioni e vignette ispirate al “Piccolo principe” di Saint-Exupéry, le stesse le troviamo ad apertura di ogni singolo capitolo che raccoglie il dialogo tra paziente e terapeuta, tema del giorno, relative prescrizioni e compiti per casa e obiettivi raggiunti di volta in volta.

Il piccolo paranoico 2020 di Bernardo Paoli Recensione del libro Imm 1

Capitolo 7 – Il piccolo paranoico

Scorrevole e leggero, il libro consente al lettore di assaporare le capacità dell’autore di padroneggiare uno stile di comunicazione efficace, suggestiva, evocativa, attraverso ad esempio il ricorso alle metafore, similitudini, aforismi calzanti all’argomento trattato, in modo di riuscire a far breccia nel cuore e all’attenzione di Filippo.

Filippo sarà invitato a lavorare sulle sue pene d’amore, a liberarsi dalla rabbia, confermare o disconfermare le credenze circa un mondo che cospira contro di lui, a trasformare le lamentele in desideri ed i desideri in obiettivi con una serie di compiti che di volta in volta gli verranno assegnati, consentendo allo stesso di fare nuove scoperte…

Scoprire ad esempio che forse il mondo può anche cospirare per il suo bene, che la rabbia offre sempre tre segnali. Il primo: se ti arrabbi è perché quella questione per te è molto importante. Il secondo segnale è: devi compiere un’azione. E il terzo: mai però la prima che ti è venuta in mente.

La rabbia infatti, ricorda Bernardo Paoli, è un’ottima motivatrice ma una pessima consigliera.

Scoprirà il dono della gratitudine e della valorizzazione totale, specie dei suoi legami familiari, come sia più utile e vincente assumersi la responsabilità delle proprie scelte, non ricorrendo all’auto -giustificazione, auto- protezione, che la gelosia, come lui stesso ricorderà in seduta, è una paranoia travestita d’amore…

Il piccolo paranoico 2020 di Bernardo Paoli Recensione del libro Imm 2

Capitolo 9 – Il piccolo paranoico

Ed ancora faremo insieme a Filippo una seduta con il ricorso all’ipnosi ed accompagneremo lo stesso lungo il suo breve ma intenso percorso di cambiamento.

Ed infine, a chiusura del libro, anche lui ci omaggerà di un aforisma: quando fai fatica a ricevere, è perché fai fatica a dare.

Un bel libro dunque che ritengo possa essere interessante e rivolto all’ampio pubblico e che riesce a mantenere ricchezza di contenuti facendo ricorso ad uno stile semplice.

 

Recharge in nature, recuperare il rapporto con la natura

Le evidenze scientifiche sull’impatto positivo della natura sull’uomo sono numerose, ed il progetto Recharge in Nature si è concentrato su alcune di esse.

Alberto Fistarollo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Recharge in Nature, il progetto

Recharge in Nature è un’iniziativa di Dolomites Maadness, un progetto di marketing con obiettivo di sviluppo locale e valorizzazione del territorio del Medio Alto Agordino finanziato dal Fondo Comuni Confinanti (Rocca Pietore, Alleghe, Colle Santa Lucia, Livinallongo del Col di Lana, Arabba, Cencenighe, San Tomaso Agordino, Taibon Agordino). Un modo per aiutare questi luoghi, duramente colpiti dalla tempesta Vaia dell’ottobre 2018, ad avere visibilità e ripartire, anche turisticamente.

Il progetto ha così ideato un concorso, nel quale dieci persone selezionate avrebbero vinto un soggiorno gratuito di 5 giorni (dal 13 al 17 settembre) nel Rifugio Falier di Val Ombretta, nel Comune di Rocca Pietore. Il risultato dell’iniziativa è andato oltre ogni aspettativa, superando le 19.000 iscrizioni da tutto il mondo.

Un’unica regola durante il soggiorno: l’impossibilità di utilizzare smartphone, computer, tablet. Una disconnessione totale dalla vita virtuale.

L’idea complessiva, al di là del piano di marketing, contiene anche un importante messaggio sociale: stando nella natura è possibile imparare a disconnettersi, rilassarsi, riprendere il controllo sulla tecnologia e utilizzarla con maggior consapevolezza. Un ritorno alla semplicità, fatta di ritmi più umani e relazioni reali; questo l’aspetto psico-sociale che ha permesso la mia partecipazione al progetto come psicologo.

Il rapporto uomo-natura

Il mio primo passo all’interno del progetto è stato quello di approfondire gli effetti della natura sull’uomo, in maniera da poter ispirarmi ai risultati di alcune ricerche per ottimizzare l’effetto del soggiorno sui partecipanti.

Il tema è attualmente molto vivace, anche in virtù del dibattito sulle questioni ambientalistiche, l’inquinamento e il riscaldamento globale; oltre alle discussioni sull’impatto dell’uomo sulla natura, recentemente viene molto indagato anche l’impatto della natura sull’uomo, principalmente in relazione allo stress.

L’argomento è particolarmente attuale nelle società caratterizzate da ambienti artificiali, ritmi frenetici, tendenza alla prestazione e alla produttività, pressioni sociali, uso sfrenato della tecnologia. Se un tempo si parlava comunemente di “esaurimento nervoso”, oggi la parola passepartout è stress.

Il termine viene comunemente utilizzato in modo da indurre a fraintendimenti: si usa affermare “il lavoro mi stressa”, “il traffico è stressante”, “il capo mi stressa”, come se lo stress fosse esclusivamente un fattore esterno di fronte al quale la persona è passiva. In realtà, i fattori esterni citati rappresentano stressors, ovvero potenziali fattori di stress, ai quali la persona però ha una capacità di reagire in maniera più o meno funzionale (da qui i concetti di eustress e distress); infatti Hans Seyle, il primo studioso che si occupò approfonditamente di stress nel lontano 1936, definì lo stress come una “Sindrome Generale di Adattamento”.

Lo stress dunque non è qualcosa di oggettivo e immodificabile, ma rappresenta la modalità individuale di reagire alle richieste ambientali. In sostanza, siamo soggetti attivi nella percezione dello stress e ciò significa che possiamo imparare a reagirvi in maniera più funzionale.

Un fattore importante dello stress odierno, che i nostri dieci partecipanti hanno riportato come il principale, è l’iperconnessione, la perenne presenza della vita online.

Mail, notifiche, chat, telefonate, è come se una parte di noi fosse continuamente in allerta ad attendere stimoli provenienti da… altrove. Il meccanismo di ricompensa legato alle notifiche, in particolare il rinforzo intermittente, crea di fatto un condizionamento molto potente che impedisce di concentrarsi su un’unica attività ignorando l’impulso a dare un’occhiata allo smartphone. Vita reale e vita online scorrono così in parallelo, rendendo davvero complesso stabilire delle priorità per la nostra attenzione.

Tutto ciò affatica il nostro cervello, comporta continue distrazioni e sottrae tempo e attenzione per il qui e ora. Ne risentono così le nostre relazioni, la qualità del sonno, l’efficacia sul lavoro, l’apprendimento, l’umore e la salute complessiva (per una rassegna sul tema si veda il riferimento Goleman, 2013).

Tali concetti sono risultati rilevanti per i partecipanti a RIN poiché uno degli obiettivi, oltre al rilassarsi e disconnettersi, era che riuscissero ad acquisire degli strumenti che li rendessero maggiormente resilienti rispetto allo stress della vita quotidiana.

Ad un livello puramente intuitivo, la natura viene considerata una sorta di antidoto nei confronti dello stress. E’ infatti esperienza comune che uscire dalle città per immergersi nel verde faccia sentire meglio; più rilassati, più calmi e di buon umore. Non è un caso che in vacanza si vada perlopiù in luoghi meno trasformati dall’uomo, che abbiano la natura come soggetto principale: mare, montagna, colline, lago e altri paesaggi naturali. Vari fattori contribuiscono a rendere l’ambiente naturale favorevole al benessere: il clima, il silenzio, i colori. Stando nella natura ci si rilassa, e pure la mente sembra farsi meno affollata. Effettivamente, molti personaggi illustri del passato (come Socrate, Kant, Rousseau, Ghoethe, Kafka) sottolineavano l’effetto benefico sulla mente del semplice passeggiare in mezzo alla natura, come se il verde avesse una sorta di potere calmante e chiarificatore sui nostri processi mentali.

Eppure, nonostante una certa consapevolezza di tali effetti, secondo un interessante ricerca dell’E.P.A. -Environmental Protection Agency- il tempo che trascorriamo all’aperto nel mondo occidentale rappresenta solamente il 5% delle nostre giornate (Environmental Protection Agency, 2011); una percentuale inferiore rispetto al tempo che un capodoglio passa in superficie per respirare!

Inoltre, uno studio ha stimato che le persone trascorrono circa il 25% di tempo in meno nella natura rispetto a vent’anni fa (Pergams & Zaradic, 2007).

Se stare nella natura comporta realmente dei benefici, è evidente che questo stile di vita impatta sulla nostra salute psico-fisica. In sostanza, la natura ci manca! Quest’ultima constatazione, che potrebbe apparire semplicistica, in realtà viene confermata da diverse ricerche che si sono occupate di indagare lo stato di salute psicofisica di chi vive in ambienti naturali e chi invece in grandi metropoli.

Le evidenze scientifiche sull’impatto positivo della natura sull’uomo sono davvero numerose, tra cui le più aderenti al progetto Recharge in Nature sono le seguenti:

  • Basta un breve periodo passato tra i boschi per sentirsi “ricaricati”. Stare nella natura aumenta la voglia di fare e fa sentire più attivi, come se ricaricasse rapidamente la nostra riserva di energia (Ryan et al., 2010). Questa ricerca (Ryan et al., 2010) in particolare, condotta su un campione di 498 soggetti, ha mostrato che coloro che avevano praticato Shinrin-yoku (in sostanza, un “bagno nella foresta”) percepivano ridotti i livelli di ansia e depressione e sperimentavano un maggior senso di vitalità rispetto ai soggetti del gruppo di controllo.
  • La natura consente di incrementare la creatività e la capacità di problem solving (Atchley et al. 2012). Lo studio ha mostrato che quattro giorni di totale immersione nella natura e di completa assenza di tecnologia hanno incrementato la creatività e l’abilità di risolvere problemi dei partecipanti fino al 50%.
  • Riduce lo stress (Morita et. Al, 2006) e funge da fattore protettivo rispetto a eventi stressanti (Van de Berg, 2010).
  • Favorisce la capacità di memorizzare (Berman, Jonides & Kaplan, 2008).

Ai partecipanti dello studio sopracitato veniva inizialmente chiesto di ripetere in ordine inverso alcune sequenze di numeri (digit span backward). Dopo questo compito, i partecipanti uscivano per fare una passeggiata: un gruppo camminava in un bosco, mentre il gruppo di controllo in città. Una volta ritornati, ripetevano il test di memoria precedentemente eseguito. I risultati hanno dimostrato che la capacità di rievocare le cifre era aumentata del 20% per il gruppo che aveva camminato nel bosco, mentre non hanno evidenziato cambiamenti significativi per il gruppo di controllo.

  • Promuove benessere personale, felicità e tendenza prosociale (Passmore & Holder, 2017). Lo studio ha esaminato gli effetti di una sperimentazione di due settimane, in cui 395 studenti universitari erano assegnati casualmente a tre condizioni: ambiente naturale, ambiente artificiale o gruppo di controllo. Ai partecipanti veniva chiesto di prestare attenzione a come la natura o gli oggetti costruiti dall’uomo, a seconda dell’assegnazione, li facessero sentire in termini emotivi.
    I risultati hanno dimostrato che il gruppo sperimentale, che prestava attenzione a elementi naturali, manifestava un livello significativamente incrementato di benessere generale, connessione con gli altri, verso la natura e una maggiore tendenza prosociale.
  • Fare attività nel verde incrementa l’autostima (Barton & Pretty, 2010). Una revisione ha analizzato i dati di 1.252 soggetti che hanno partecipato a dieci studi differenti. La review ha rilevato che anche solo 5 minuti quotidiani di esercizio nella natura sono sufficienti per notare un incremento del livello di autostima.
  • Vedere attorno a sé immagini naturali promuove le connessioni neurali e infonde uno stato di tranquillità (Hunter et al., 2010). Pare che il semplice fatto di osservare immagini naturalistiche permetta a differenti aree del cervello di lavorare in maggior sincronia, a differenza di quanto accade osservando paesaggi artificiali.
  • Stare nella natura promuove una miglior salute mentale complessiva (Alcock et al, 2014) (Kuhn, S.,2017).
  • Vivere in un ambiente naturale migliora la qualità del sonno (Johnson et al., 2018) (Grigsby-Toussaint et al., 2015).
  • Riduce gli stati ansiosi, depressivi e la ruminazione mentale (Bratman et al., 2015), (Collingwood, 2018).
  • Promuove la salute cardiovascolare (Lee et al., 2013) e riduce il rischio di ipertensione (Shanahan et al., 2016).
  • Riduce il mind wandering, incrementando il controllo attentivo e la creatività (Williams et al., 2018).
  • Riduce l’impulsività (Repke et al., 2018).
  • Chi vive in aree verdi gode complessivamente di una miglior salute psico-fisica (Health council of the Netherlands, Nature and the Environment Nature and health, 2004), (Maas et al., Green, 2006), (Maas et al., 2009), (Maller, et al., 2002), (Ulrich, 1984), (De Vries, Verheij & Groenewegen, 2003), (Verheij, 1996).

Recharge in Nature: il ruolo dello psicologo

Gli obiettivi principali della mia presenza in qualità di psicologo nel team sono stati:

  • Contribuire alla realizzazione e organizzazione del progetto, anche tramite la ricerca bibliografia sui benefici psicologici dello stare in natura.
  • Monitorare i livelli di stress e presenza mentale pre/post esperienza.  Per effettuare le rilevazioni sono stati utilizzati due strumenti: il SOS (Stress Overload Scale, J. H. Amirkhan 2012) per conoscere il livello di carico percepito (event load) e i fattori personali di vulnerabilità allo stress (personal vulnerability) e il FFMQ (Five Facet Mindfulness Questionnaire, Baer et al., 2006) per conoscere il livello di mindfulness dei partecipanti, inteso nelle cinque componenti: osservazione, descrizione, consapevolezza, non-giudizio e non-reattività.
  • Presenziare durante l’intero soggiorno, proponendo delle attività ai partecipanti e osservando le dinamiche del gruppo.

Una delle finalità dell’esperienza era quella di disconnettersi dalla vita online e provare per cinque giorni a portare la propria attenzione nel momento presente, incrementando la consapevolezza sensoriale e imparando a stare semplicemente con ciò che era presente.

Le attività psicologiche proposte hanno riguardato principalmente una pratica di mindfulness (come meditazione sul respiro, body scan, pratica dell’uva passa), utili a mantenere l’attenzione nel qui e ora e dare ai partecipanti degli strumenti per gestire lo stress.

I partecipanti inoltre redigevano ogni sera il loro personale Diario della Gratitudine in cui indicavano tre momenti vissuti durante la giornata che avevano particolarmente apprezzato e per i quali potevano definirsi grati (un esercizio ripreso da diversi autori in ambito self-compassion e psicologia positiva; un esempio in Emmons & Stern, 2013).

Altre attività proposte durante il soggiorno sono state yoga, stone balancing, shrinin-yoku, escursioni e altre attività sempre volte a ripristinare l’attenzione nel qui e ora, riscoprire la valenza dei sensi, del movimento e delle relazioni vis-a-vis.

Risultati dell’esperienza Recharge In Nature

Nonostante le evidenti limitazioni sul piano empirico-sperimentale, si presenta in tale paragrafo uno studio pilota per verificare l’effetto dell’esperienza complessiva Recharge in Nature.

Ovviamente il progetto non aveva le caratteristiche per essere considerato rilevante sul piano scientifico, principalmente per l’impossibilità di isolare le variabili (a cosa è davvero attribuibile l’effetto? Il contesto? le relazioni? le attività svolte ecc..?), per l’assenza di un gruppo di controllo e altre limitazioni.

Inoltre, la lingua parlata dal gruppo era l’inglese (anche ai partecipanti italiani era stato richiesto una buona competenza in merito), pertanto sono stati utilizzati i test validati in versione inglese. I risultati dunque vanno interpretati con estrema cautela e sono da considerarsi principalmente come spunto di riflessione e non come evidenze scientifiche.

La rilevazione dello stress, percepito nell’ultima settimana di lavoro, è stata eseguita mendiante la Stress Overload Scale (Amirkan, 2011), che si compone di 30 item pertinenti a 3 cluster: 1) Event Load (carico percepito) fa riferimento alla percezione di essere sopraffatti dai propri impegni 2) Personal Vulnerability (fattori personali di vulnerabilità) si riferisce alla valutazione di non essere competenti nella gestione dei propri impegni. Infine, sono stati inseriti alcuni item di riempimento (filler) a valenza positiva, per interrompere la sequenza di item negativi ed evitare risposte automatiche; queste affermazioni si riferiscono a caratteristiche di personalità che il soggetto è chiamato ad autovalutare.

Il confronto fra i punteggi riguardanti lo stress dei partecipanti prima e dopo RIN è stato effettuato mediante un test non parametrico (test di Wilcoxon), in considerazione delle caratteristiche del campione (distribution-free e ridotta numerosità). Si è verificata, dunque, l’ipotesi che le due misurazioni fossero statisticamente differenti assumendo una probabilità di errore inferiore a .05.

Per ciascuna delle tre classi di item (curiosamente anche per il filler, a indicare che anche la percezione personale complessiva è migliorata durante il soggiorno) è stata rilevata una differenza significativa nelle due somministrazioni con valori di significatività inferiori a p .05. Infatti, per la categoria “event load”, p è .005; per la “personal vulnerability” p è .006 e anche per gli item di Filler è stata evidenziata una differenza significativa con p .006.

In conclusione, l’esperienza ha prodotto una significativa riduzione del carico di stress esperito dai partecipanti, in termini di percezione del carico degli eventi stressanti e di valutazione delle proprie incapacità di fronteggiarli. Quello che emerge è un incremento nell’autovalutazione delle abilità di coping e un decremento della sensazione di essere sopraffatti dagli stressors.

Per quanto riguarda il questionario FFMQ(Five Facet Mindfulness Questionnaire, Baer et al., 2006), è stato utilizzato il t di Student poiché è il test che solitamente si applica per verificare l’effetto sul gruppo pre-post nei percorsi di mindfulness.

Il gruppo ha visto un incremento davvero notevole, mai notato da noi in altre esperienze, su tutte le cinque componenti (observing, describing, acting with awareness, non-judging of inner experience, and non-reactivity to inner experience) con una significatività davvero molto elevata (p .00001) ed effetto sul gruppo “huge” secondo il D di Cohen (1,6397).

A livello puramente qualitativo, al termine dell’esperienza i partecipanti hanno dichiarato di sentirsi maggiormente rilassati, concentrati e focalizzati su quanto li circondasse. Se prima la loro attenzione tendeva spesso ad andare alla componente online (social network e chat, principalmente) con immediato ricorso allo smartphone, successivamente il contenuto dei loro pensieri era più contestualizzato nel qui e ora.

L’aspetto maggiormente apprezzato dai partecipanti è stata la componente sociale dell’esperienza: il fatto di passare molto tempo assieme, senza distrazioni, ha concesso loro di beneficiare pienamente delle relazioni, parlare guardandosi negli occhi, potersi conoscere, esprimere pensieri ed emozioni in diretta.

Da un insieme di persone sconosciute e provenienti da tutto il mondo, si è rapidamente creato un gruppo coeso e desideroso di mettere in discussione importanti temi di vita, chiacchierare e confrontarsi fino a tarda sera.

Concludendo, ecco le parole di una delle partecipanti che ha brevemente raccontato l’esperienza RIN nel suo blog:

Per 5 giorni ci siamo isolati dal mondo ma ci siamo connessi con la natura, con noi stessi e tra di noi (…). Con quella semplicità e leggerezza che tanto mi mancavano. Adolescenti degli anni ’90, che trascorrevano il tempo a conoscersi, giocare, ridere, piangere, abbracciarsi, brindare ai nostri desideri. (…).

Non abbiamo mai affrontato veramente il tema “cellulare”. Non eravamo lì per “disintossicarci dallo smartphone”, noi avevamo bisogno di riconnetterci con noi stessi. Con il presente. Con le vite che ci passano accanto e che spesso nemmeno notiamo. (…).

Ed ecco cosa mi è rimasta di questa esperienza. Mi è rimasta un’attenzione maggiore del qui ed ora, un amore per me stessa e la mia vita che avevo perso. Accendo il telefono più tardi la mattina, non ho più la necessità di condividere tutto quello che faccio perché preferisco viverlo, assaporarlo. Mi sento forte.

 

Viola che stava sulla montagna. Guai in casa e una casa per aggiustare i guai – Recensione

Uno dei temi affrontati in Viola che stava sulla montagna è come i bambini siano interlocutori sensibili e attenti che recepiscono tutto quello che succede e per questo con loro si può e si deve parlare in modo veritiero.

 

Roberta Balsamo e Flavia Sottoriva, psicologhe e psicoterapeute sistemico-relazionali, scrivono questa favola in seguito alla loro esperienza decennale nell’ambito della tutela del minore a “La Casa di Elena”, una comunità che accoglie mamme con bambini quando non sono garantiti, per questi ultimi, adeguati livelli di cura e protezione.

La storia, illustrata da Samira Parasole, racconta la vicenda di Viola, una bambina coraggiosa, che un giorno chiede aiuto alla luna per capire come mai sotto la sua casa fosse cresciuta pian piano una montagna che aveva allontanato lei e la sua famiglia dal resto del mondo senza che nessuno se ne accorgesse, né i suoi genitori, né i vicini. La bambina, scavando alla ricerca di una spiegazione, capisce che là sotto sono racchiuse tutte le fatiche vissute dalla famiglia che sono cresciute negli anni allontanandoli sempre di più da tutti.

Attraverso questa favola le autrici espongono alcuni elementi chiave di questi vissuti così difficili, sempre ponendo il minore come figura centrale e privilegiata.

Esse sottolineano innanzitutto che, nonostante spesso gli adulti pensino il contrario, i bambini sono interlocutori sensibili e attenti che recepiscono tutto quello che succede. Per questo con loro si può e si deve parlare in modo veritiero, così da favorire l’instaurarsi di un legame di fiducia con le figure che li affiancano. Rendere il bambino protagonista consapevole di ciò che accade intorno a lui, inoltre, gli consente di superare la passività di chi non comprende e pertanto rimane fermo ad aspettare cambiamenti che solo gli adulti possono promuovere al suo posto.

È importante poi che i più piccoli siano protetti dalla fonte di potenziale pericolo: quando l’allontanamento non rende possibile il mantenimento del legame con la madre o con le figure di attaccamento significative, devono essere sostenuti da altri caregiver nelle attività formative e ricreative, dentro e fuori il contesto scolastico. Gli operatori devono essere in grado di assumere un atteggiamento empatico non giudicante e colpevolizzante nei confronti degli adulti coinvolti, per cercare di promuovere una genitorialità consapevole e responsabile. Questo arduo risultato è possibile solo grazie ad un lavoro d’equipe che segua le diverse fasi della presa in carico.

Il libro, corredato di schede che ne facilitino la comprensione e l’elaborazione, ha l’intento di aiutare i bambini che si trovano nella difficilissima fase di allontanamento dalla propria famiglia a scopo di tutela. La storia di Viola è, quindi, pensata per essere letta assieme al bambino in modo che l’adulto lo guidi tenendo conto del suo vissuto, lasciando tempi e spazi affinchè egli possa esprimersi. Può inoltre essere un utile strumento sia per i genitori che possono essere facilitati nel condividere l’esperienza terapeutica con il figlio, sia per gli operatori che si occupano di minori e delle loro famiglie.

Emicrania: come dolore e umore influenzano il benessere sessuale nelle donne

Emicrania e cefalea di tipo tensivo costituiscono le forme più comuni di cefalee primarie e sono molto frequenti nella popolazione femminile.

 

La prevalenza dell’emicrania è simile sia nelle ragazze che nei ragazzi in età prepuberale ma, a partire dalla pubertà, le prime tendono a soffrire di emicrania due volte più spesso, raggiungendo un picco di prevalenza attorno ai 30-40 anni. Le donne hanno cefalee più lunghe e più intense, mostrano una maggiore ipersensibilità sensoriale complessiva, subiscono un numero di attacchi mensili maggiore rispetto agli uomini della stessa età e, circa il doppio rispetto agli uomini, progredisce verso una forma cronica di cefalea con più di 15 mal di testa al mese (Finocchi & Strada, 2014; Wilcox et al., 2018).

La malattia cronica e il dolore cronico possono avere profondi effetti negativi sulla relazione e sulla soddisfazione sessuale sia dei pazienti che dei partner (Ifergane et al, 2008). La percezione del disagio sessuale diventa una delle componenti rilevanti ed è descritta come quell’insieme di emozioni negative (inadeguatezza, senso di colpa, preoccupazione, stress, rabbia e imbarazzo) che coinvolgono la vita sessuale della persona e la influenzano negativamente concorrendo alla disfunzione.

La disfunzione si presenta come un problema multicausale e multidimensionale che include diversi fattori e coinvolge desiderio sessuale, eccitazione genitale, orgasmo e cambiamenti della soglia del dolore (McCabe et al., 2016). Relativamente a quest’ultimo, il dolore ricorrente può essere caratterizzato da un’elevata paura e dall’evitamento di comportamenti che, per chi soffre del disturbo, potrebbero condurre all’esordio o alla perpetuazione della cefalea. Questo processo disadattivo potrebbe promuovere la problematica ed essere la ragione alla base della maggiore paura del rapporto sessuale per i pazienti con emicrania. Il talamo e l’ipotalamo sono le strutture che hanno un ruolo importante nella modulazione della sensazione di dolore veicolata attraverso il sistema trigeminovascolare (vie trigeminali) e le stesse strutture hanno un ruolo importante per le attività sessuali e gli ormoni (Rossi & Recober, 2015).

È nota la presenza di diverse alterazioni legate alla disfunzione sessuale nelle pazienti con cefalea ma è possibile che non siano il risultato diretto della patologia, piuttosto possono essere moderate da altri fattori. I disturbi dell’umore, tra cui ansia e depressione sono comuni in soggetti con cefalea ed in particolar modo quest’ultima, concorre ad influenzare le funzioni sessuali e generali (Antonaci et al., 2011)

Recenti ricerche hanno studiato la correlazione diretta tra desiderio sessuale e depressione/ansia nelle donne affette da cefalea mostrando, però, risultati discordanti. Una ricerca italiana, condotta da Nappi e collaboratori (Nappi et al., 2012), ha portato avanti uno studio pilota osservazionale volto a valutare la relazione tra desiderio sessuale e sexual distress in 100 donne trattate per emicrania.

Per la valutazione della disfunzione sessuale e del sexual distress sono stati utilizzati il Female Sexual Function Index (FSFI) e il Female Sexual Distress Scale-Revised (FSDS-R); per la valutazione della sintomatologia ansioso/depressiva sono stati somministrati, invece, i questionari self-report Stai Y-1 e Y-2 (State Trait Anxiety Inventory) e BDI-II (Beck Depression Inventory).

Analizzando i dati è emerso che nel FSDS-R solo 29 donne hanno totalizzato punteggi che indicano presenza di sexual distress, l’ansia di stato e di tratto era presente in tutto il campione studiato e la depressione era riscontrabile in 43 donne su 100. Sebbene all’interno dello studio non sia emerso un legame tra sexual distress e disfunzione sessuale, è stato rilevato, invece, un alto tasso di comorbilità con disturbi dell’umore di cui l’ansia per il 100% e la depressione per il 43%; inoltre la depressione era direttamente correlata con il sexual distress solamente nel campione di donne affette da cefalea di tipo tensivo cronica.

Questa ricerca apre le porte ad una discussione più ampia sulla relazione tra cefalea e disfunzione sessuale: sono i disturbi dell’umore associati a cefalea a provocare problematiche all’interno della sfera sessuale o, al contrario, sono proprio queste a causare l’insorgenza di disturbi dell’umore?

Una review non troppo recente, datata 2012 e condotta da Atlantis e Sullivan (Atlantis & Sullivan, 2012) ci mostra che esiste una reale associazione bidirezionale tra depressione e disfunzione sessuale. Nello specifico le persone affette da depressione presentano un rischio di sviluppare una disfunzione sessuale che va dal 50% al 70%, mentre persone con disfunzione sessuale hanno un rischio che va dal 130% al 210% di sviluppare depressione.

Ad oggi, i dati in letteratura sugli effetti della cefalea sul funzionamento sessuale sono ancora limitati, conflittuali e, per questo, si rendono necessari ulteriori studi nell’ambito.

 

Giocare a videogiochi violenti può influenzare la tolleranza al dolore e ridurre la paura verso la morte?

Se l’esposizione ripetuta a stimoli che generano paura porta assuefazione ed una maggiore capacità di attuare tentativi di suicidio; allo stesso modo, l’esposizione ripetuta a videogiochi violenti, aumenta la desensibilizzazione sottostante, e quindi il comportamento aggressivo autodiretto.

 

Secondo la teoria interpersonale-psicologica del suicidio (IPTS; Joiner, 2005), il desiderio di morire può sfociare in comportamento suicidario se sono presenti un’elevata tolleranza al dolore accompagnata ad una bassa di paura della morte. Queste due dimensioni formano la cosiddetta capacità acquisita per il suicidio; che può essere favorita non solo da comportamenti suicidari ripetuti, bensì mediante l’esperire sensazioni dolorose (ad es. farsi un tatuaggio, assistere ad abusi – Joiner, 2005; Van Orden et al., 2010).

Secondo la teoria dei processi opponenti (Solomon, 1980), ogni sensazione che allontana l’individuo dell’equilibrio omeostatico, comprende un processo primario, seguito da un processo a valenza opposta (Leknes et al., 2008), che viene elicitato dall’esposizione ripetuta all’evento e con l’instaurarsi dell’abitudine.

Questa teoria spiega l’insorgenza della piacevolezza e la diminuzione del dolore in seguito ad una stimolazione di calore dolorosa (Leknes et al., 2008), oppure maggiore tolleranza al dolore ed assuefazione, dopo un tentativo di suicidio (Orbach et al., 1996, 1997).

Dunque, esperire eventi dolorosi ripetuti aumenta la tolleranza al dolore, coinvolgendo processi di assuefazione e l’insorgenza di una risposta opposta a quella originaria, che poteva essere di paura o dolore.

La letteratura ha individuato una capacità acquisita per il suicidio maggiore tra i personale militare, che correlava con la quantità di esperienze di combattimento avverse esperite (lesioni, morte e violenza; (Bryan et al., 2010; Bryan & Cukrowicz, 2011). Similmente, i videogiochi d’azione violenti, si associano ad un potenziamento dell’aggressività sia a livello comportamentale che degli affetti, oltre che cognizioni aggressive, comportamento pro sociale ridotto (Anderson et al., 2004; Bushman & Anderson, 2002) e maggiori comportamenti criminali e violenti (DeLisi et al., 2013).

Se l’esposizione ripetuta a stimoli che generano paura porta assuefazione ed una maggiore capacità di attuare tentativi di suicidio (Van Orden et al., 2010); allo stesso modo, l’esposizione ripetuta a videogiochi violenti, aumenta la desensibilizzazione sottostante, e quindi il comportamento aggressivo autodiretto (Anderson et al., 2010; Dewall et al., 2011).

Secondo evidenze recenti, singoli periodi di videogiochi violenti aumentano la tolleranza al dolore (Teismann et al., 2014). Tuttavia, non è noto se i giocatori abituali, rispetto ai non giocatori, mostrano maggiore capacità acquisita (in termini di bassa sensibilità al dolore, alta tolleranza dello stesso ed assenza di paura verso la morte).

Lo studio trasversale di Förtsch et al. (2021), ha confrontato tra loro un gruppo giocatori abituali di videogiochi violenti ed uno che non giocava; per indagare se i primi avessero una maggiore assenza di paura verso la morte, minore percezione del dolore e tolleranza al dolore più alta.

Dopo un test che induceva dolore termico mediante l’immersione della mano in acqua ghiacciata (Chen et al., 1989; Teismann et al., 2014), è stata esaminata l’insorgenza di processi opponenti tra i giocatori abituali, ovvero una riduzione della spiacevolezza dello stimolo ed una maggiore positività dell’umore.

I giocatori abituali di videogiochi violenti, avevano riportato maggiore assenza di paura verso la morte e una ridotta sensibilità al dolore, valutata con la stimolazione dolorifica.

Inoltre, rispetto ai non giocatori, riportavano globalmente punteggi maggiori nella capacità acquisita per il suicidio.

Nella presente indagine, la frequenza di gioco riveste un ruolo rilevante, poiché, coerentemente con Gauthier et al. (2014), coloro che giocavano 11,4 ore a settimana avevano riportato maggiori punteggi sulle dimensioni esaminate.

Nel dettaglio, i giocatori abituali riportavano maggiori livelli di tolleranza al dolore durante il test termico; con una percezione inferiore dell’intensità del dolore durante il test, una fase stazionaria successiva ed un picco più basso di dolore sperimentato alla fine dello stesso.

Al contrario, nei non giocatori avveniva un aumento significativo e progressivo del dolore, fino al momento di interruzione dello stimolo.

Nel complesso, questi risultati potrebbero indicare una possibile assuefazione al dolore dopo una leggera sensibilizzazione iniziale nei giocatori, mentre i non giocatori hanno mostrato forti segni di sensibilizzazione fino all’interruzione dello stimolo.

In linea con la teoria interpersonale psicologica (Joiner, 2005); esperire ripetitivamente esperienze dolorose aumenta la capacità acquisita per il suicidio, riducendo la paura verso la morte ed aumentando la tolleranza al dolore fisico.

Tuttavia, piuttosto che esperienze di combattimento virtuali, nelle ricerche precedenti erano le esperienze dolorose reali ad essere associate alla capacità acquisita per il suicidio; come combattimento, sport di contatto o precedenti tentativi di suicidio (ad es. Bryan & Cukrowicz, 2011; Joiner TE, 2005; Van Orden et al., 2010)

I videogiochi violenti, secondo quando dimostrato da Teismann et al. (2014), avevano comportato una maggiore tolleranza al dolore rispetto a quelli non violenti; dimostrando che possono rappresentare un ulteriore tipologia di evento provocatorio e doloroso, che interessa entrambe le componenti della capacità acquisita.

In seguito all’esperienza dolorosa, i giocatori avevano riportato un incremento dell’umore positivo, supportando il ruolo dell’insorgenza del processo opposto (ovvero di piacevolezza dello stimolo/umore positivo), come meccanismo che favorisce ulteriormente la tolleranza al dolore.

Anche Leknes et al. (2008), aveva riscontrato un aumento della piacevolezza e una diminuzione del dolore, dopo la stimolazione del dolore termico.

Sebbene nel presente studio, giocare ai videogiochi violenti aumenti la capacità acquisita per il suicidio, nessun partecipante aveva attuato alcun tentativo di suicidio e ciò non rende possibile ricondurre i risultati all’insorgenza dei comportamenti suicidari. Inoltre, secondo Joiner (2005), oltre alla capacità acquista, anche il senso di appartenenza frustrato ed il percepirsi un peso per gli altri devono essere presenti contemporaneamente per rendere possibile il tentativo di suicidio.

Se gli individui possono acquisire la capacità per il suicidio mediante esperienze dolorose e provocatorie, pur essendo sani (Van Orden et al., 2010), è probabile che giocatori di videogiochi abituali senza alcuna patologia pregressa, incorrano in un maggiore rischio di comportamento suicidario letale nel caso della presenza concomitante degli altri due fattori rilevanti, ovvero il sentirsi soli ed un peso per gli altri.

Sebbene tra i soggetti senza patologia pregressa, l’uso repentino di videogiochi violenti piò costituire un evento provocatorio e doloroso, così come formulato dalla teoria interpersonale psicologica; si rendono necessari ulteriori studi, per far luce sui meccanismi psicologici e fisiologici che modulano l’esperienza di sensibilità al dolore.

Un’analisi psico-letteraria del bacio

Il bacio rappresenta il gesto d’amore e di erotismo più antico di sempre. Ma cosa si cela davvero dietro questo irresistibile slancio di passione? Il bisogno di affidarsi all’altro e la meraviglia del conoscersi reciproco sono gli aspetti sui quali vale la pena di riflettere.

 

Quando ti bacio
non è solo la tua bocca
non è solo il tuo ombelico
non è solo il tuo grembo
che bacio. 
Io bacio anche le tue domande
e i tuoi desideri, 
bacio il tuo riflettere
i tuoi dubbi
e il tuo coraggio,
il tuo amore per me
e la tua libertà da me, 
il tuo piede
che è giunto qui
e che di nuovo se ne va. 
lo bacio te
così come sei
e come sarai
domani e oltre
e quando il mio tempo sarà trascorso.

Questa splendida poesia dello scrittore austriaco Erich Fried racchiude in pochi ma essenziali versi il significato più intimo e psicologico che lega due individui intenti a comunicare attraverso i loro baci d’amore, un amore completo che pervade ogni aspetto dell’esistenza personale e umana. Il bacio, come qui descritto in modo esemplare, non si limita al semplice contatto carnale tra due bocche che si vogliono e si cercano ma anela a qualcosa di più profondo e misterioso, sottintende una volontà di fusione totale tra due mondi psichici che entrano in intimità tra di loro.

Sebbene i tempi storici e culturali in cui viviamo siano notevolmente cambiati e influenzano il nostro modo di condurre una vita sempre troppo accelerata, l’obiettivo di questo articolo è proprio quello di fermarci un attimo, metterci comodi, magari con un bel calice di vino sul divano di casa e dedicarci ad una lettura leggera che possa far riaffiorare alla mente di ciascuno di noi dolci ricordi e riconsegnare il giusto valore al gesto d’amore più antico del mondo, il bacio.

Da sempre celebrato nella letteratura, nell’arte, nel cinema, nella poesia, il bacio rappresenta l’espressione più affascinante dei sentimenti che legano due persone. Oggi si bacia molto spesso con superficialità, le relazioni sono brevi e fugaci e poggiano su premesse troppo deboli perché contaminate da sentimenti di ansia e paura nei confronti dell’altro, anziché di condivisione e apertura autentica del proprio mondo interiore; ne consegue che ci si interroga davvero poco sull’importanza di tutti quei baci di cui sentiamo comunque il bisogno di donare irrinunciabilmente. Tante le parole e le testimonianze di poeti che riescono a conservare e far vivere tramite i loro versi la bellezza e l’unicità del bacio d’amore. Scrive il poeta italiano Franco Arminio:

Il bacio non è un gesto banale, è il clou dell’amore. L’amore è una fantasia di avvicinamento e spesso si fa l’errore di baciare troppo presto. Bisogna prepararlo il bacio, prepararlo con cura, perché nel bacio si può sfiorare l’infinito, si può corteggiarlo. Quindi, abbiate cura di non considerare il bacio una premessa, un preliminare […] Ma è una sorta di orgasmo lirico, l’orgasmo della parte alta del corpo […] E non trascurare il bacio, la carezza, l’indugiare, il guardarsi, la lentezza di certi movimenti che sono una esaltazione dell’amore.

Un chiaro invito a decelerare, a riscoprire l’immenso valore dei gesti importanti nella vita di tutti i giorni e a trovare in essi nuovi significati scovando paesaggi mai visti prima attraverso gli occhi e le labbra della persona amata. Il bacio è davvero l’incontro culminante del desiderio reciproco tra due persone, una porta che apre a infinite possibilità di relazione. I baci hanno un linguaggio proprio e non mentono mai, l’intensità e la forma di questo gesto nel momento in cui viene condiviso si esprime in tutta la sua spontaneità e, spesso, rappresenta il vero e proprio termometro della relazione; un bacio passionale è spesso letto come segno di forte compatibilità all’interno della coppia, che può indirizzare verso una maggiore stabilizzazione del legame. Il bacio incarna letteralmente la conoscenza fisica e mentale più intima che si possa sperimentare di una persona, in quanto proprio attraverso la bocca gli amanti trasmettono l’un l’altro una serie di informazioni chimiche, olfattive e tattili che consentono di intuire se la relazione è destinata a progredire. Possiamo definire i baci come una vera e propria medicina per l’anima, sono terapeutici, migliorano l’umore, stimolano la creatività, la fantasia e determinano un senso generale di benessere e di omeostasi che coinvolge tutta la dimensione psico-fisica dell’individuo.

Se pensiamo al bacio come il momento di incontro per eccellenza tra gli universi psichici ed emotivi di due persone, quali bisogni effettivi si celano dietro il suo mistero? Quali richieste e quali domande implicite rivolgiamo all’altro attraverso quegli attimi sacri di cedimento e di abbandono? Da un punto di vista psicologico, l’esigenza di affidarsi ad un’altra persona è sicuramente la più significativa e rappresenta la base da cui partire per la costruzione di una relazione di coppia.

L’unica ossessione che vogliono tutti:
l“amore”.
Cosa crede, la gente,
che basti innamorarsi per sentirsi completi?
La platonica unione delle anime?
Io la penso diversamente.
Io credo che tu sia completo prima di cominciare.
E l’amore ti spezza.
Tu sei intero, e poi ti apri in due (Philip Roth)

Quando si ama si è spaccati, dice Roth, perché si fa esperienza del fatto che senza l’altro la propria vita si perde, c’è un’erosione dell’identità e si sperimenta una condizione di dipendenza fondamentale dall’altro, della mancanza dell’altro, di un legame percepito come pericoloso perché l’amore è sempre una zona di turbolenza nella quale noi non siamo i piloti; per amare occorre affidarsi al pilota –altro da noi– correndo tutti i rischi del mondo. Da questo punto di vista è possibile riconoscere nell’aspetto anche più erotico e coinvolgente di un bacio d’amore quanto l’intimità tra due persone non sia semplicemente una “parte” della relazione, ma incarna metaforicamente e letteralmente la profondità e la qualità dell’intero rapporto emotivo di una coppia. Le mille e sfaccettate sfumature di un bacio non sono affatto banali in un rapporto, bensì consentono di aprire una finestra sull’esperienza umana più profonda dei soggetti coinvolti, chi sono loro come persone, che cosa davvero provano l’uno per l’altro, quanto della loro intimità sono disposti a mettere in gioco l’uno con l’altro e che percorso di crescita devono compiere come coppia. In termini psicologici è possibile guardare l’erotismo sotto il profilo della relazione tra individuazione e appartenenza, ovvero i due aspetti sui quali si snoda l’intera esistenza umana e che sono entrambi necessari per lo sviluppo. Sin da piccolo, il bambino impara a dipendere dalla figura materna in termini di accudimento e sopravvivenza, già dai primi mesi di vita; è nella relazione madre – figlio in particolare, ma più in generale, nel proprio sistema familiare, che si apprende l’importanza dei legami, della fiducia e del bisogno dell’altro. Ad un certo punto della propria esistenza, è necessario però svincolarsi dalla famiglia di origine e sviluppare la propria identità, pur conservando i legami originari; ciò dimostra che non si cresce se non ci si differenzia, ma nemmeno ci si può differenziare se prima non si appartiene, se non esistono dei legami. Ciò che sembra accomunare la relazione amorosa a quella genitori-figli è la centralità che assume in entrambe il piacere: è la mediazione del piacere a consentire la crescita del bambino e favorirne l’individuazione; attraverso le esperienze di affettività con i genitori il bambino riesce ad elaborare positivamente la dipendenza da essi verso il senso di appartenenza, imparando il valore dei legami e il significato dei vincoli affettivi, verso una sempre più progressiva e graduale crescita personale come adulto capace di sviluppare e consolidare relazioni, pur conservando la propria individualità. Anche tra uomo e donna si riproduce questa dinamica in quanto il piacere che essi desiderano e si procurano reciprocamente spinge entrambi alla ricerca di nuove forme di sé; l’incontro con l’altro promuove l’emergere di potenzialità individuali inespresse e inconsapevoli, dal momento che la relazione genitoriale ha ormai esaurito le sue funzioni in tale senso.

L’erotismo nella coppia ha quindi una funzione fondamentale: stimola ciascuno dei coniugi a ricercare nuove forme di individuazione che gli consentono di superare nuovi aspetti di dipendenza, maturare un’autonomia più profonda e un’ulteriore crescita personale. Ritornando quindi a ciò che si nasconde dietro il valore e all’aspetto erotico del bacio, possiamo affermare che esso cela un aspetto fondamentale ossia la fiducia, quel senso di affidamento e sicurezza che cerchiamo nell’altro e che desideriamo trasmettergli. Non a caso, quando siamo soliti descrivere l’esperienza amorosa e carnale di un rapporto utilizziamo il termine “abbandonarsi” che, nel contesto interpersonale, esprime proprio la capacità di lasciarsi andare, di mettersi nelle mani dell’altro.

È chiaro quindi che il bacio tra due individui assume un valore comunicativo molto complesso e che sia ricco di non detti che possono svelare tante informazioni relative sia ai singoli soggetti coinvolti che alla coppia stessa. Comunemente ci si bacia con gli occhi chiusi, pensando che il mancato contatto oculare con il partner permetta in quel momento di focalizzarsi maggiormente sulle sensazioni puramente fisiche del bacio d’amore e che il piacere che ne derivi sia nettamente superiore; ciò rivelerebbe, in realtà, una difficoltà a tollerare una eccessiva intimità con il partner che porterebbe a bloccare il contatto visivo ed emotivo; invece, baciarsi con gli occhi aperti mentre ci si guarda rappresenterebbe un modo per intensificare la reciproca consapevolezza e il contatto emotivo stabilito attraverso la sensazione delle labbra che si avvolgono; “vedere” ed esser visti è realmente un’estensione del sentire ed essere sentiti quando ci si bacia così profondamente e consente anche ai partner di incrementare e tollerare la loro reciproca intimità e il desiderio di essere accolti l’uno nell’altro. Citando i versi immortali del bacio d’amore più famoso nella letteratura italiana, quello tra Paolo e Francesca nel V canto dell’Inferno dantesco, possiamo scoprire senza più alcun dubbio quanto lo sguardo che precede il bacio d’amore sia ancor superiore e rivelatore del bacio stesso, oltre ad essere un momento di tensione erotica potentissimo:

Quando leggemmo il disiato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. / Quel giorno più non vi leggemmo avante.

Nella pagina sotto i loro occhi il protagonista del racconto, Lancillotto, sta per baciare audacemente la donna che ama, Ginevra. Erano soli mentre l’emozione cresceva e ad un certo punto i due amanti, Paolo e Francesca, alzarono gli occhi dal libro e cominciarono a guardarsi, senza dirsi nulla. Fu proprio in quel momento che si riconobbero, riscoprirono se stessi sorpresi del loro amore e, senza dir nulla più, si baciarono. Di fronte a quelle pagine così emozionanti, gli innamorati hanno scoperto l’aspetto più prezioso dell’amore, l’aver incontrato l’altro e, attraverso l’altro, se stessi.

Ci ricorda il poeta Pedro Salinas che “conoscersi è luce improvvisa”, non servono cioè le parole a determinare l’incontro d’amore, solo la potenza degli sguardi, della rivelazione reciproca e la bellezza di un bacio che suggella tale inspiegabile e misterioso connubio.

Per concludere voglio citare un passo stupendo e famoso dell’opera calviniana, Il barone rampante:

Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo.
E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre,
mai s’era potuta riconoscere così.

I protagonisti del racconto di Italo Calvino sono Cosimo e Viola, si conoscono da bambini per poi perdersi di vista. Dopo tanti anni, trascorsi tra peripezie, avventure ed esperienze di vita straordinarie, i due si rincontrano, si riparlano ed è lì che accade il miracolo dell’amore; a seguito della loro unione, i due personaggi cambiano e conoscono ciò che prima non sapevano di se stessi, imparano a conoscere l’altro e attraverso questa compenetrazione e conoscenza reciproca riconoscono infine se stessi nella loro totalità. L’amore è lo strumento più potente e più affascinante che abbiamo a disposizione per guardare anche le parti più buie e oscure di noi stessi, orientati da qualcuno al quale abbiamo scelto di affidarci e che ci accompagna durante il viaggio; è un cammino nella nostra selva oscura, nelle parti che mal tolleriamo e che abbiamo paura di affrontare ma che, attraverso gli occhi dell’altro, possiamo accogliere e trasformarle in qualcosa di amabile e che sia per noi e per la nostra vita una risorsa.

Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso.
Vorrei pensare a noi come a due persone che si sono fatte un’iniezione di verità.
Sarei felice di poter dire a me stesso: < Con lei ho stillato verità>.
Sì, è questo che voglio. Voglio che tu sia per me il coltello, e anch’io lo sarò per te,
prometto.

 

Il segreto e le sue “relazioni” – Recensione del saggio di C. Loriedo e C. Angiolari

Nel loro saggio, edito da Raffaello Cortina, Camillo Loriedo e Chiara Angiolari trattano il tema del segreto da una prospettiva sistemica, analizzando il ruolo, le configurazioni e i significati che questo può assumere all’interno di famiglie e coppie.

 

Raccogliendo le loro esperienze cliniche con il segreto, gli autori ne sottolineano la duplice natura dannosa e protettiva ma soprattutto le sue complesse funzioni all’interno del sistema delle relazioni in cui si instaura.

Il libro inizia con una panoramica sull’etimologia della parola “segreto” per poi concentrarsi, quasi in modo chirurgico, sui suoi aspetti più semantici in cui si evince la complessità delle sue componenti.

Il segreto nasce e sopravvive grazie alla presenza di un detentore che è in possesso di un’informazione che ha una certa rilevanza e di un destinatario, al quale questa stessa informazione viene occultata.

Questo tipo di dinamica determina, nella relazione tra i due individui, un’asimmetria di potere in quanto soltanto uno di loro detiene la conoscenza di un contenuto che viene occultato altro.

Al netto delle più svariate ragioni per le quali un segreto non viene svelato, per comprendere la sua vera natura occorre necessariamente considerarlo all’interno della relazione che lo sostiene e che viene a cambiare a seguito di esso.

A partire da queste considerazioni, il saggio nei suoi capitoli centrali tratta il segreto come un fenomeno “spiccatamente relazionale” che può essere compreso solo attraverso una profonda conoscenza delle dinamiche relazioni tra due o più persone.

Ciò è particolarmente evidente soprattutto quando il segreto assume caratteristiche lesive e patogene e concorre all’esordio sintomatico di uno o di più membri del sistema in cui esso si trova; il segreto infatti può nascondere il suo contenuto ma non i suoi effetti sulle persone, effetti che sono prodotti dal peso e dal valore che esse stesse gli hanno attribuito.

La parte del saggio più affascinante e stimolante è legata all’indagine degli effetti pragmatici che la presenza di un segreto determina nelle relazioni e ai segnali impliciti ed espliciti che lo possono svelare o rendere occulto.

Gli ultimi capitoli contengono una ricca ed esaustiva rassegna di esempi di casi clinici in cui la presenza di segreto ha sovvertito la struttura dei sistemi familiari o di coppia producendo effetti negativi sul loro funzionamento e sulla loro capacità di adattamento al contesto esterno.

Il saggio si conclude con importanti consigli e suggerimenti per i terapeuti che si trovano a dover aver a che fare con la segretezza e i suoi effetti nella pratica clinica.

Spesso infatti vi è la tendenza a ritenere che in ogni caso e situazione il segreto debba essere svelato, come se si dovesse restituire alla parte lesa, a cui il segreto è stato occultato, un po’ di giustizia e un po’ di potere.

Tuttavia è bene tenere a mente che il lavoro con il segreto implica un delicato equilibrio tra la sua conoscenza e la sua preservazione; infatti esso non è da intendersi come una modalità comunicativa negativa di per sé, né dall’altra parte si debba pensare che la sua rivelazione sia in ogni caso la scelta ideale e auspicabile sia per il terapeuta che per gli individui coinvolti.

Dal momento che il segreto coinvolge la relazione – compresa quella terapeutica – il focus dovrebbe riguardare non tanto la conoscenza del suo contenuto o la sua rivelazione ad ogni costo, quanto gli effetti o i danni che esso ha determinato per la relazione.

Gli autori infatti tengono a sottolineare che, contrariamente al pensiero o alla pratica comuni, lavorare terapeuticamente con il segreto significa assumere un atteggiamento non inquisitorio o investigativo ma di comprensione e sincera ingenuità nei confronti dei segnali ambivalenti degli attori coinvolti.

Una, tra le “pillole” terapeutiche più interessanti che troverete nel saggio di Loriedo e Angiolari, è proprio questa: tanto più si tenterà di cercare il non detto, tanto più esso ci sfuggirà.

 

Pragmatica della comunicazione digitale (2020) di Giorgio Nardone, Simona Milanese e Stefano Bartoli – Recensione del libro

Nardone e colleghi nel testo Pragmatica della comunicazione digitale riprendono gli assiomi comunicativi di Watzlawick calzandoli alla realtà odierna.

 

La pandemia ha incrementato e reso in alcuni casi obbligatoria la comunicazione mediata da strumenti tecnologici quali pc, tablet, video. Inevitabilmente una comunicazione non in vivo, attraverso uno schermo, non può essere uguale a quella classica in presenza alla quale eravamo abituati. Una comunicazione “digitale” può essere comunque efficace, anche in ambito clinico e di cura, si rende necessario però porre maggiore attenzione ad alcuni aspetti che potrebbero andare perduti o potrebbero essere trascurati rendendo così tutti gli sforzi vani e inefficaci. Giorgio Nardone e i suoi collaboratori si propongono, in questo libro, di tracciare le linee guida per le fondamenta di una comunicazione digitale efficace, soprattutto in ambito terapeutico. Lo fanno con la flessibilità propria dell’approccio Strategico, riprendendo gli assiomi comunicativi di Watzlawick e calzandoli alla realtà odierna.

  • Non si può non comunicare: i silenzi, le pause hanno comunque una conseguenza, sono comunque interazione. La comunicazione ha luogo anche quando non è intenzionale o consapevole.
  • Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed uno di relazione: i nostri sistemi percettivi colgono prima il “come” del “cosa”, si concentrano spontaneamente prima sulla forma che sul contenuto. Lo stesso contenuto esplicitato in modi differenti, infatti, produce effetti molto diversi. Il primo sistema con il quale cerchiamo di fare ordine è infatti inconsapevole. È il tipo di relazione che si crea che definisce il contenuto. Sapere “come” comunicare diviene fondamentale prima di porre attenzione sul “cosa” comunicare.
  • La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze d’interazione: tendiamo a considerare il nostro comportamento non come causa ma come conseguenza del comportamento altrui. Saper punteggiare diventa importante per cambiare la prospettiva altrui su ciò che comunichiamo.
  • La comunicazione può essere digitale e analogica: la componente non verbale della comunicazione svolge un ruolo di primo piano, viene percepita per prima e può influenzare il contenuto (come sopra) perciò, proprio quando non possiamo comunicare in vivo, ma attraverso un pc, diventa ancora più importante saper evocare sensazioni attraverso immagini analogiche, aforismi e ristrutturazioni.
  • Ogni comunicazione può essere simmetrica o complementare: La tipologia di relazione nella comunicazione influisce radicalmente sulle resistenze dell’interlocutore, il buon comunicatore deve essere in grado di muoversi flessibilmente da una posizione di superiorità e autorevolezza ad una posizione “one down” di inferiorità a seconda del momento, del contesto e dell’obiettivo da raggiungere.

Nell’interazione non in vivo è più difficile misurare l’impatto della nostra comunicazione perciò risulta più complicato regolarsi nell’interazione. Si rende pertanto necessario porre ancora più attenzione agli aspetti paraverbali.

Dalla creazione del “setting” alla prima impressione, dalla mimica facciale agli aspetti prossemici, nulla può essere trascurato.

“Impariamo prima ciò che consideriamo come importante o significativo, memorizziamo meglio ciò che ci emoziona”.

Si rende quindi necessario, se si vuol essere efficaci, conoscere al meglio questi aspetti per padroneggiarli, cambiare e sintonizzarsi sui bisogni del momento. Tra tutte le figure professionali, è proprio colui che lavora nella relazione d’aiuto che deve essere in grado di cambiare e rendersi flessibile per non rischiare di essere inefficace, ma chiunque si occupa di comunicazione attraverso la rete dovrebbe conoscere e coltivare ognuno degli aspetti trattati nel libro. Che si tratti di marketing, di video-corsi, supervisioni, lezioni o qualsiasi tipo di consulenza, la comunicazione efficace non può prescindere da questi aspetti.

 

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