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Pragmatica della comunicazione digitale (2020) di Giorgio Nardone, Simona Milanese e Stefano Bartoli – Recensione del libro

Nardone e colleghi nel testo Pragmatica della comunicazione digitale riprendono gli assiomi comunicativi di Watzlawick calzandoli alla realtà odierna.

 

La pandemia ha incrementato e reso in alcuni casi obbligatoria la comunicazione mediata da strumenti tecnologici quali pc, tablet, video. Inevitabilmente una comunicazione non in vivo, attraverso uno schermo, non può essere uguale a quella classica in presenza alla quale eravamo abituati. Una comunicazione “digitale” può essere comunque efficace, anche in ambito clinico e di cura, si rende necessario però porre maggiore attenzione ad alcuni aspetti che potrebbero andare perduti o potrebbero essere trascurati rendendo così tutti gli sforzi vani e inefficaci. Giorgio Nardone e i suoi collaboratori si propongono, in questo libro, di tracciare le linee guida per le fondamenta di una comunicazione digitale efficace, soprattutto in ambito terapeutico. Lo fanno con la flessibilità propria dell’approccio Strategico, riprendendo gli assiomi comunicativi di Watzlawick e calzandoli alla realtà odierna.

  • Non si può non comunicare: i silenzi, le pause hanno comunque una conseguenza, sono comunque interazione. La comunicazione ha luogo anche quando non è intenzionale o consapevole.
  • Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed uno di relazione: i nostri sistemi percettivi colgono prima il “come” del “cosa”, si concentrano spontaneamente prima sulla forma che sul contenuto. Lo stesso contenuto esplicitato in modi differenti, infatti, produce effetti molto diversi. Il primo sistema con il quale cerchiamo di fare ordine è infatti inconsapevole. È il tipo di relazione che si crea che definisce il contenuto. Sapere “come” comunicare diviene fondamentale prima di porre attenzione sul “cosa” comunicare.
  • La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze d’interazione: tendiamo a considerare il nostro comportamento non come causa ma come conseguenza del comportamento altrui. Saper punteggiare diventa importante per cambiare la prospettiva altrui su ciò che comunichiamo.
  • La comunicazione può essere digitale e analogica: la componente non verbale della comunicazione svolge un ruolo di primo piano, viene percepita per prima e può influenzare il contenuto (come sopra) perciò, proprio quando non possiamo comunicare in vivo, ma attraverso un pc, diventa ancora più importante saper evocare sensazioni attraverso immagini analogiche, aforismi e ristrutturazioni.
  • Ogni comunicazione può essere simmetrica o complementare: La tipologia di relazione nella comunicazione influisce radicalmente sulle resistenze dell’interlocutore, il buon comunicatore deve essere in grado di muoversi flessibilmente da una posizione di superiorità e autorevolezza ad una posizione “one down” di inferiorità a seconda del momento, del contesto e dell’obiettivo da raggiungere.

Nell’interazione non in vivo è più difficile misurare l’impatto della nostra comunicazione perciò risulta più complicato regolarsi nell’interazione. Si rende pertanto necessario porre ancora più attenzione agli aspetti paraverbali.

Dalla creazione del “setting” alla prima impressione, dalla mimica facciale agli aspetti prossemici, nulla può essere trascurato.

“Impariamo prima ciò che consideriamo come importante o significativo, memorizziamo meglio ciò che ci emoziona”.

Si rende quindi necessario, se si vuol essere efficaci, conoscere al meglio questi aspetti per padroneggiarli, cambiare e sintonizzarsi sui bisogni del momento. Tra tutte le figure professionali, è proprio colui che lavora nella relazione d’aiuto che deve essere in grado di cambiare e rendersi flessibile per non rischiare di essere inefficace, ma chiunque si occupa di comunicazione attraverso la rete dovrebbe conoscere e coltivare ognuno degli aspetti trattati nel libro. Che si tratti di marketing, di video-corsi, supervisioni, lezioni o qualsiasi tipo di consulenza, la comunicazione efficace non può prescindere da questi aspetti.

 

Indagine sul livello di competenza di insegnanti e tecnici della riabilitazione nella discriminazione qualitativa delle sindromi da Disturbo d’Ansia e AD/HD su un campione di bambini in fascia d’età dai 6 ai 10 anni

Il presente studio verifica se, rispetto alla qualità della formazione acquisita, insegnanti e tecnici della riabilitazione hanno le competenze, necessarie e condivise, per identificare le caratteristiche di una sindrome e saper riconoscere un comportamento disfunzionale, in particolare con riferimento al Disturbo d’Ansia e al Disturbo dell’Attenzione e Iperattività (ADHD) in bambini da 6 a 10 anni.

 

Abstract

Sia in ambito educativo che sanitario vi sono équipe che hanno l’alta responsabilità di garantire al bambino un’esperienza di formazione/riabilitazione adeguata rispetto ai suoi bisogni. All’interno di tali ambiti sono presenti molte criticità in termini di competenza sulla psicologia del bambino e sugli approcci più adatti per creare una relazione funzionale affinché venga a crearsi una vantaggiosa compliance con l’educatore o con il terapista. Affinché ciò avvenga, diventa imprescindibile creare i presupposti per mantenere alto il target della competenza psico-pedagogica dell’educatore/operatore, operazione che richiede la presenza di un esperto e quindi di uno psicologo a svolgere un ruolo di consulenza, mediazione e formazione all’interno di tali ambiti.

Introduzione

Il bambino, nel corso dell’età evolutiva, ha modo di stabilizzare legami, oltre che con la propria famiglia, anche con altre figure, che si prendono cura di lui e lo accompagnano in una fase importante e particolarmente delicata della sua vita: la fase di scolarizzazione dai 6 ai 10 anni. Un esempio classico sono gli insegnanti, che hanno un ruolo di grande responsabilità, poiché è proprio questa l’età in cui vi sono importanti trasformazioni nel bambino da tutti i punti di vista: neuronale, cognitivo, emotivo (Narbona et al 2012). Non a caso la formazione dell’insegnante richiede una preparazione adeguata rispetto alla Psicologia dello Sviluppo Evolutivo, della Psicopedagogia, dei metodi e degli strumenti più opportuni per intervenire quando il bambino presenta difficoltà negli apprendimenti, nell’interazione sociale e nell’adattamento alle regole scolastiche (Welsh et al 2019). Diventa, quindi, fondamentale che ogni educatore abbia una conoscenza di base dello sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale del bambino, dei meccanismi di base del funzionamento psichico e acquisizione delle competenze necessarie per la relazione docente-alunno (Weaver et al 2014). Ciò al fine di provvedere allo sviluppo di convinzioni e atteggiamenti in grado di facilitare e rendere gratificante il processo insegnamento-apprendimento. Quando il bambino, poi, segue anche un programma di riabilitazione, il gruppo delle figure di riferimento si amplia. Difatti il settore della riabilitazione, per offrire un servizio che risponda in modo adeguato ai bisogni e agli obiettivi del paziente, richiede “integrazione” delle diverse professionalità: medici, infermieri, psicologi, operatori della riabilitazione (fisioterapisti, terapisti occupazionali, educatori professionali, della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, logopedisti, ortottici, podologi, ecc…). Soprattutto che tali figure possiedano competenze aggiuntive rispetto al ruolo ricoperto all’interno dell’équipe di cura: capacità empatiche, comunicative e relazionali che consentano una migliore conoscenza del paziente e una più funzionale compliance terapeutica (Leonard et al 2004). Questi obiettivi sono raggiungibili sia attraverso una corretta conoscenza dell’analisi funzionale e degli aspetti della sfera psicologica del paziente e sia attraverso una comunicazione efficace ed efficiente tra i professionisti dell’équipe sanitaria che si occupa di progettare percorsi riabilitativi appropriati, coinvolgendo non solo il paziente, ma anche i suoi familiari (De Santi et al 2013).

Partendo da tali presupposti è stata svolta una indagine su un campione di 12 insegnanti e 12 operatori della riabilitazione. Oggetto dell’indagine è stato: il livello di competenza nel saper riconoscere un comportamento messo in atto da un bambino (6-10 anni) e collocarlo nel quadro sindromico più appropriato. In altre parole abbiamo verificato se, rispetto alla qualità della formazione acquisita, vi sono o meno le competenze, necessarie e condivise, per identificare le caratteristiche di una sindrome e saper riconoscere un comportamento disfunzionale. L’obiettivo di questo studio non è quello di accertarsi della capacità di diagnosticare un disturbo, ma piuttosto di saper “leggere” il comportamento del bambino. Gli educatori e gli operatori della riabilitazione “devono saper leggere le emozioni e i comportamenti che il bambino proietta, il suo bisogno di attaccamento o di presa di distanza, di ritiro relazionale, i suoi attacchi aggressivi le sue angosce, il grumo di emozioni, vissuti e pensieri spesso confusi e contorti” (Riva et al 2016). Si evidenzia, quindi, la necessità ineludibile di una competenza clinica specifica. La nostra ipotesi è che, allo stato attuale, non vi sia una accurata conoscenza della psicologia del bambino e un sistema unitario ed efficace di comunicazione con i familiari, per cui, ad esempio, già da molto tempo si propone la figura dello psicologo scolastico (Trombetta, 2013). Stesso discorso vale per i centri di riabilitazione, dove spesso viene messo in luce una comunicazione inefficiente tra le varie figure professionali, nonché con i familiari dell’utenza a discapito di una gestione integrata poco funzionale nella relazione e nella riabilitazione del bambino (Bettinardi et al 2008). Anche in questo, sono stati pubblicati molti articoli sull’importanza della figura dello psicologo a sostegno dell’équipe clinica, sia nell’approccio con il paziente e sia a sostegno stesso delle figure sanitarie (Di Mattei et al 2004).

Dettagli nosografici dell’ansia

L’ansia è una condizione emotiva cognitiva e comportamentale molto diffusa sia nei bambini che negli adolescenti. Si tratta di “fasi della vita” che appartengono all’età evolutiva e, come spesso accade, hanno una durata limitata nel tempo. Ad esempio, uno stato di apprensione o di timore non è necessariamente sintomo di un Disturbo d’Ansia, ma appartiene al normale sviluppo emotivo del bambino (Kendall et al 1995). È doveroso, pertanto, fare una distinzione tra le sfumature che caratterizzano uno stato psicofisiologico ansioso, dando alcuni accenni di cosa sia l’ansia, la paura e la fobia. Con il termine paura, facciamo riferimento ad una condizione provocata da una causa obiettivamente pericolosa. Il discorso è diverso quando l’oggetto o la situazione non rappresentano un reale pericolo, pertanto si farà riferimento ad altri stati emotivi: ansia e fobia. Secondo la letteratura è importante tener presente che nel bambino non è facile distinguere il pericolo concreto da uno immaginario dovuto ad uno sviluppo cognitivo ed emotivo ancora incompleto (Kendall et al 1995). Un altro punto da tener presente quando bisogna distinguere uno stato di apprensione dall’ansia patologica, è relativo al come il bambino vive “l’esperienza ansiogena”: se si assiste ad una attivazione emotiva che si caratterizza per frequenza, intensità e durata “anomale”, allora in questo caso la sintomatologia risulta disfunzionale e pertanto si fa riferimento ad una condizione psicopatologica. Nelle forme patologiche, l’ansia si caratterizza come uno stato d’animo abituale, che si manifesta generalmente con sentimenti di inadeguatezza e di indecisione, irritabilità e instabilità, o con uno stato di allarme al quale corrisponde spesso una sintomatologia vegetativa, rappresentata da dilatazione pupillare, secchezza delle fauci, nausea, tachicardia, sudorazione, minzione imperiosa. I disturbi d’ansia rilevabili in età evolutiva sono principalmente rappresentati dal Disturbo d’Ansia di Separazione (DAS), dal Disturbo d’Ansia Generalizzata (DAG) e dalle Fobie (Militerni, 2015).

Dettagli nosografici dell’AD/HD

Il Disturbo da Deficit di Attenzione con Iperattività (ADHD) è una patologia che esordisce in età evolutiva e che è caratterizzata da sintomi quali marcata disattenzione, impulsività e da iperattività motoria (DSM 5). I bambini con ADHD non riescono a stare attenti, presentano una accentuata irrequietezza, sono disorganizzati e disordinati, non riescono a mantenere un adeguato livello di concentrazione sui compiti che vengono loro proposti (Kirby et al 1992). A volte sembra che essi non ascoltino ciò che viene detto loro, come se avessero la testa altrove; passano inoltre, ininterrottamente da una attività all’altra senza portarne a termine nessuna. Manifestano spesso movimenti non finalizzati ad uno scopo preciso, ad esempio agitano ripetutamente mani e piedi, si alzano continuamente dalla sedia, sono sempre in movimento. Sono in genere maldestri, quindi finiscono per urtare oggetti o cadere (Kirby et al 1992). Tale disturbo può caratterizzarsi, inoltre, rispetto al predominare della sintomatologia da deficit dell’attenzione o dal comportamento iperattivo-impulsivo.

Strumenti e metodi

Sono stati scelti randomizzati 24 partecipanti ripartiti in due gruppi: 12 operatori della riabilitazione con età tra 25 e 35 anni (logopedisti e psicomotricisti) e 12 insegnanti di scuola elementare con età tra 50 e 60 anni. Ad ognuno è stato assegnato un test Child Behaviour Checklist 6-18 di T. M. Achenbach (2001) con la seguente consegna: “Seleziona gli item che, secondo la tua esperienza, indicano un comportamento tipico di un bambino maschio dai sei ai dieci anni con Disturbo d’Ansia e, separatamente, di un bambino dello stesso sesso e della stessa fascia d’età con Disturbo dell’Attenzione e Iperattività”.

Il Child Behavior Checklist 6-18 comprende una serie di scale, relative a vari range comportamentali: Timidezza, Lamentele Somatiche, Ansia-Depressione, Problemi Sociali, Problemi di Pensiero, Problemi di Attenzione e Iperattività, Comportamento Delinquenziale, Comportamento Aggressivo (Achenbach 2001).

Analisi dei dati

In una prima fase di studio, gli item selezionati dai partecipanti in riferimento al “comportamento ansioso” sono stati confrontati – solo – con gli item della Scala “Ansia”, mentre gli item selezionati in riferimento al “comportamento da deficit dell’attenzione e iperattività” sono stati confrontati – solo – con gli item della Scala “Problemi di Attenzione e Iperattività” del CHILD BEHAVIOR CHECKLIST 6-18. I dati sono stati poi trascritti nelle tabelle e riportati graficamente con diagramma box-plot per constatarne l’uniformità tra i membri dello stesso gruppo e tra i due gruppi diversi del campione in esame. Dopo aver preso visione dei grafici, per accertarci della significativa differenza tra i gruppi degli “insegnanti” e degli “operatori” abbiamo calcolato l’Analisi della Varianza (ANOVA) e definito il p value (0,05) calcolati tramite foglio di calcolo Microsoft Excel. Nella seconda fase di studio abbiamo selezionato gli item la cui identificazione come “comportamento ansioso” o “comportamento da deficit dell’attenzione e iperattività” fosse condivisa da almeno 11 partecipanti su 12 per ciascun gruppo. In questa fase di studio gli item selezionati sono stati confrontati anche con quelli delle altre scale di comportamento (Riservatezza, Sintomi Somatici, Problemi Sociali, Problemi di Pensiero, Comportamento Delinquenziale, Comportamento Aggressivo).

Risultati

Nella prima fase di studio sono stati raccolti i punteggi17 dei due campioni rispetto alle scale di riferimento (Scala “Ansia” e Scala “Problemi di Attenzione e Iperattività”). Con il termine “punteggi” si intende la quantità di partecipanti che hanno definito “comportamento ansioso” o “comportamento da deficit dell’attenzione e iperattività” quelli descritti dagli item della scala di riferimento: rispettivamente Scala “Ansia” e Scala “Problemi di Attenzione e Iperattività”. Per esemplificazione sono stati riportati nelle tabelle (tab.1; tab.2) e poi resi graficamente attraverso diagramma box-plot.

Nel Grafico 1 sono rappresentati gli “indici di posizione” del punteggio assegnato agli Item appartenenti alla Scala “Ansia”: il box “bianco” del diagramma rappresenta il range del punteggio degli insegnanti, mentre il box “giallo” è il range del punteggio degli operatori, entrambi divisi in quartili separati da un segmento rappresentante la “mediana”. I segmenti posti agli estremi del box rappresentano valori eccezionali, anomali, che non rientrano nel campo di variazione. L’asimmetria tra le lunghezze dei segmenti e dei rettangoli rispetto alla mediana, determina una distribuzione non uniforme dei dati rispetto ai valori centrali. Mentre il range o campo di variazione è ben distinto (range insegnanti=12; range operatori= 4).

Nel Grafico 2 sono rappresentati gli “indici di posizione” del punteggio assegnato agli Item appartenenti alla Scala “AD/HD”: il box “bianco” del diagramma rappresenta il range del punteggio degli insegnanti, mentre il box “giallo” è il range del punteggio degli operatori, entrambi divisi in quartili separati da un segmento rappresentante la “mediana”. Anche in questo caso l’asimmetria tra le lunghezze dei segmenti e dei rettangoli rispetto alla mediana, determina una distribuzione non uniforme dei dati rispetto ai valori centrali all’interno di ciascun gruppo. Mentre, a differenza del Grafico 1, il campo di variazione tra i gruppi non si distingue (range insegnanti=8; range operatori= 8).

Per avere una idea della distribuzione dei punteggi, interna a ciascun gruppo, abbiamo trasformato i dati grezzi in punti z.

Nella performance sugli “item-ansia” il Gruppo Insegnanti per un terzo riporta un punteggio una dev. st. sotto la media (s= -1), 2 su 14 sopra la media (s= 1) e la metà restante nella media (s= 0). Scenario diverso quello degli operatori, per cui, un terzo presenta un punteggio una dev. st. sopra la media (s= 1) 2 su 14 sotto la media (s= -1) e la metà restante nella media (s= 0).

Nella performance sugli Item AD/HD il gruppo insegnanti per due terzi riporta un punteggio una dev. st. nella media (s= 0), e un terzo al di sopra della media (s= 1). Discorso diverso per gli operatori per cui, un terzo presenta un punteggio una dev. st. sotto la media (s= -1) due terzi nella media (s= 0).

Dopo aver preso visione dei grafici, per accertarci della significativa differenza tra i gruppi degli “insegnanti” e degli “operatori” abbiamo calcolato l’analisi della varianza e definito il p value (0,05).

La tabella comprende due sezioni: Riepilogo e Analisi di Varianza. La colonna gruppi riporta il nome dei due gruppi (Insegnanti ANSIA e Operatori ANSIA). Nella colonna conteggio vi è il numero degli item della Scala “Ansia” che è stato valutato da entrambi i gruppi partecipanti al test. La colonna somma indica la somma dei vari record delle frequenze di scelta (97;145). La colonna media riporta la media dei valori di ogni gruppo (6,92; 10,35). Infine la colonna varianza indica lo scostamento dalla media dei vari valori appartenenti ad ogni gruppo (21,45;1,93).

Nella seconda sezione, invece, è riportata l’analisi della varianza: nella colonna Origine della variazione ci sono i riferimenti relativi alle voci: Tra i gruppi o Entro i gruppi. Nella colonna SQ è indicata la Somma dei Quadrati “tra i gruppi” Sum Squared Between: SSB (82,28), e la Somma dei Quadrati “entro i gruppi” (304,14), Sum Squared Within SSW (304,14). Sono riportati, inoltre, i gradi di libertà gdl: nel caso della somma delle varianze tra gruppi i gradi di libertà (gdl=1) sono pari a k- 1, con k pari al numero dei gruppi indipendenti. Nel secondo caso, invece, nella somma delle varianze entro i gruppi, i gradi di libertà (gdl=26) sono pari a N – k. La colonna MQ (media dei quadrati) si ottiene calcolando il rapporto tra la somma delle varianze con il numero dei gradi di libertà. Il valore del test F è pari al rapporto tra MQ1 e MQ2 (7,034). Il valore critico F statistico lo si ricava scegliendo dalla tabella della distribuzione F, valutando i gradi di libertà. Nel nostro caso dobbiamo scegliere i gdl pari a 1 e 26, pertanto il valore di F critico è pari a 4,22.

Da quanto riportato nella tabella 7 si può notare che il valore di significatività è basso (0,01). Essendo minore di α=0,05 possiamo rifiutare l’Ipotesi Nulla (H0), e quindi concludere che c’è una differenza significativa tra le medie delle frequenze di risposta riportate dai due gruppi.

Nella tabella 8 sono indicati i riferimenti di “Riepilogo” e “Analisi della Varianza” rispetto ai gruppi: Insegnanti AD/HD e Operatori AD/HD. Nella seconda colonna vi è il numero complessivo degli item della Scala “Disattenzione e Iperattività” che è stato valutato da entrambi i gruppi partecipanti al test. La colonna somma indica la somma dei vari record delle frequenze di scelta (28; 56). La quarta colonna riporta la media dei valori di ogni gruppo (2,54; 5,09). Infine vi è la colonna Varianza: essa indica lo scostamento dalla media dei vari valori appartenenti ad ogni gruppo (9,27;7,09).

Nella seconda parte inerente l’ANOVA la SSB risulta 35 per gli Insegnanti e 63 Operatori, mentre la SSW ha un valore di 163(Insegnanti); 63(Operatori). Successivamente è indicata la colonna gdl: gdl- tra gruppi=1; gdl-entro i gruppi= 20. Il valore del test F è pari a 4,35.

Il valore critico F statistico lo si ricava scegliendo dalla tabella della distribuzione F, valutando i gradi di libertà. Nel nostro caso dobbiamo scegliere i gdl pari a 1 e 20, pertanto il valore di F critico è pari a 4,35.

Si può notare che il valore di significatività è pari al valore αi=0,049. Essendo αi ≤ α (0,05), possiamo rifiutare H0, considerando significativo il rapporto tra le medie dei due campioni.

Nella seconda fase di studio abbiamo selezionato gli item la cui identificazione come “comportamento ansioso o disattento/iperattivo (AD/HD)” fosse condivisa da almeno 11 partecipanti su 12 per ciascun gruppo. In questa fase di studio gli item selezionati sono stati confrontati non solo con gli item delle scale di riferimento (Ansia e Disattenzione/Iperattività), ma anche con gli item delle altre scale. Pertanto, abbiamo costruito una tabella di frequenza per evidenziare in che percentuale sono presenti altri modelli di comportamento.

Da quanto si evince i  seguenti  dati  in  ordine  decrescente:  Scala  “Timidezza”  e  Scala “Ansia” (30%); “Disattenzione e Iperattività” (17%); Scale “Lamentele Somatiche” e “Problemi Sociali” (8%); Scala “Problemi di Pensiero” (4%); Scale “Comportamento Delinquenziale” “Comportamento Aggressivo” (0%).

Dati in ordine decrescente: S. cala “Ansia” (66%); segue la Scala “Timidezza” (16%); Scale “Lamentele Somatiche” e “Problemi Sociali” (8%); ed infine le Scale “Problemi di Pensiero” “Comportamento Delinquenziale” “Comportamento Aggressivo” “Disattenzione Iperattività” (0%).

Da quanto si evince emergono i seguenti dati in ordine decrescente: Scala “Comportamento Aggressivo” (43%); segue la Scala “Comportamento Delinquenziale” (20%); Scala “Disattenzione e Iperattività (AD/HD)” (16%); Scale “Ansia” e “Problemi Sociali” (10%); ed infine le Scale “Timidezza” “Problemi di Pensiero” “Lamentele Somatiche” (0%).

Discussione

Nella prima fase di studio sono stati messi in rilievo gli indici di posizione per avere una descrizione statistica dei dati e un primo confronto dei punteggi relativi ai due campioni (insegnanti e operatori).

Il Grafico1(Box-Plot: Insegnanti/Operatori – Item Ansia) segnala due campi di variabilità significativamente diversi. Difatti mentre il Gruppo Insegnanti (GR.I.) ha un range di 12, il Gruppo Operatori (GR.O.) ha un range di 4, ovvero per questi ultimi il campo di variabilità è molto ridotto rispetto al GR.I., il che può essere interpretato come una maggiore “uniformità di pensiero” del GR.O. in merito all’interpretazione degli item della Scala “Ansia” del Child Behaviour Checklist 6-18 (CBCL 6-18), contrariamente al GR.I. il cui campo di variazione è tre volte maggiore. Inoltre i due gruppi differiscono anche nella media dei punteggi: il numero degli insegnanti che hanno scelto come “comportamenti ansiosi” quelli descritti dagli item della Scala “Ansia” del CBCL 6-18 è mediamente di 6,92 su 12: vuol dire che poco più della metà (57%) del gruppo insegnanti si trova d’accordo nel considerare gli item della Scala “Ansia”, come “comportamenti ansiosi”; mentre il numero degli operatori che hanno scelto come “comportamenti ansiosi” quelli descritti dagli item della Scala “Ansia” è mediamente 10,35 su 12: vuol dire che la maggior parte (86%) degli operatori si trova d’accordo nel considerare gli item della Scala “Ansia”, come “comportamenti ansiosi”.

Per quanto riguarda il Grafico 2 (Box-Plot: Insegnanti/Operatori – Item AD/HD) segnala due campi di variabilità della stessa ampiezza (in entrambi i gruppi il range=8). In questo caso il livello medio dei punteggi è piuttosto basso: il numero degli insegnanti che hanno scelto come “comportamenti da deficit dell’attenzione e iperattività (AD/HD)” quelli descritti dagli item della Scala “AD/HD” è mediamente di 2,54 su 12: vuol dire che meno della metà (21%) del gruppo insegnanti si trova d’accordo nel considerare gli Item della Scala “AD/HD” del CBCL 6-18, come “comportamenti AD/HD”; Il numero degli operatori che hanno scelto come comportamenti ansiosi quelli descritti dagli item della Scala “AD/HD” è mediamente di 5,09 su 12: vuol dire che poco meno della metà (42%) degli operatori si trova d’accordo nel considerare gli item della Scala “AD/HD”, come “comportamenti AD/HD”. Per avere ulteriore conferma abbiamo studiato il rapporto tra i gruppi considerando che vi è una significativa discrepanza nelle risposte date: con un p=0,01(α=0,05) nel caso degli item-ansia e p=0,49(α=0,05) nel caso degli Item-AD/HD.

Sebbene, da quanto è stato visto nella trasformazione dei punteggi in punti z, la performance degli operatori (s= 1) sia superiore a quella degli insegnanti (s= -1), abbiamo riscontrato, tuttavia, che in entrambi i casi gli item relativi al “comportamento ansioso” hanno una maggiore probabilità di essere identificati rispetto ai “comportamenti AD/HD”. Come è possibile vedere vi è un decremento percentuale simile in entrambi i casi (insegnanti e operatori) tra la prima performance (riconoscimento item-ansia) e la seconda performance (riconoscimento item AD/HD).

Nella seconda fase sono stati individuati anche degli item, che pur essendo considerati come “comportamenti ansiosi” non appartenevano al gruppo della Scala “Ansia” del CBCL 6-18, pertanto è stata misurata la percentuale di presenza delle altre Scale del CBCL 6-18. Rispetto agli item relativi a “comportamento ansioso” abbiamo riscontrato nel GR.I. un rapporto in percentuale parallelo tra item relativi alla Scala “Timidezza” (30%) e gli item della Scala “Ansia” (30%), mentre nel GR.O. vi è un 66% per la Scala “Ansia”.

Per quanto riguarda gli item relativi a “comportamento AD/HD” abbiamo riscontrato che la maggior parte degli item inseriti tra quelli che si riferiscono a “comportamento AD/HD” sono quelli che fanno riferimento alla Scala del “Comportamento Aggressivo”. GR.I. 43%, GR.O. 53%. Mentre degli item relativi alla Scala “AD/HD” sono stati scelti il 16% dal GR.I. e il 30% dal GR.O.

Conclusioni

In base ai dati raccolti e alle operazioni statistiche svolte, possiamo fare alcune considerazioni in merito al livello di competenza di insegnanti e tecnici della riabilitazione nella discriminazione qualitativa delle sindromi da Disturbo d’Ansia e AD/HD. La fase iniziale dello studio è stata realizzata nell’intento di verificare se attraverso gli esiti era possibile rintracciare un grado di preparazione uniforme per la categoria in esame: abbiamo potuto riscontrare che all’interno di ciascun gruppo vi è una discreta similarità nell’approccio interpretativo del comportamento, il che potrebbe essere in riferimento all’età dei componenti dei rispettivi gruppi che rientra in un range ben definito, ed eventualmente da un livello di formazione comune a tutti i membri dello stesso gruppo. Differente è la condizione “tra i gruppi”. Difatti si evince che nella identificazione degli item relativi al “comportamento ansioso” il gruppo insegnanti ha una minore attitudine nel riscontrare i comportamenti “tipici” (“tipici” secondo gli item della Scala “ANSIA” del CBCL 6-18) del Disturbo d’ansia. Dai punteggi riportati si nota un rapporto di netta parità tra due scale: Scala “Ansia” (30%) e Scala “Timidezza” (30%). Inoltre si è evidenziato un campo di variazione di 12 punti che può essere inteso come una uniformità blanda nel giudizio degli item. Diversamente si è riscontrato nella categoria Operatori, i cui risultati sono concentrati intorno al valore medio (10,35) che di per sé rivela una compartecipazione quasi completa di tutti i membri del gruppo nella giusta interpretazione dei sintomi dell’Ansia, tesi rinforzata dal campo di variazione di 4 punti che prova una maggiore uniformità di punteggio. Uno scenario sostanzialmente diverso lo abbiamo riscontrato per l’AD/HD, in entrambi i casi non vi è stato una particolare propensione per gli item relativi alla scala AD/HD del CBCL 6-18. In entrambi i casi, difatti, è stato misurato un decremento di risposte positive di oltre la metà. In altre parole meno della metà del GR.I. e del GR.O. riconoscono negli item presentati la sintomatologia “tipica” (“tipica” secondo gli item della Scala “AD/HD” del CBCL 6-18) del Disturbo d’Attenzione e Iperattività. In entrambi i casi è stato valutato maggiormente come “comportamento AD/HD” quello descritto dagli item relativi alla Scala del “Comportamento Aggressivo”.

In conclusione, considerando gli eventuali limiti dello studio, dovuti alla limitata numerosità dei partecipanti ed ai differenti range di età, siamo inclini a considerare ipoteticamente che il problema relativo agli indici desunti dalle nostre indagini, non siano dovuti ad una diversa formazione delle categorie in esame. Anzi l’uniformità dei dati spinge a credere che il livello di competenza sia simile all’interno dei rispettivi gruppi, mentre dissimile tra i gruppi, ciò potrebbe essere determinato da altre condizioni come gli ambiti lavorativi di pertinenza (Scolastico-Sanitario) che non permettono un approccio simile rispetto all’utenza. Diversi sono gli approcci quando questi si basano su un rapporto 1:1come in ambito sanitario e quando invece ci si confronta con il gruppo classe.

Tuttavia, dalle valutazioni fatte, emergono dati su cui riflettere, sia nel caso dell’interpretazione del “Comportamento Ansioso” che del “Comportamento AD/HD”. La Scala “Ansia” non ha avuto, in entrambi i casi, un punteggio pieno (30% Insegnanti; 66% Operatori) inoltre tra gli item-ansia del GR.I. vi è una presenza paritaria della Scala Ansia e della Scala Timidezza. Soprattutto in merito alla sintomatologia relativa all’AD/HD, in entrambi i casi, si evince una certa confusione di interpretazione del “Comportamento AD/HD” (16% Insegnanti; 30% Operatori) inteso da entrambi i gruppi come “Comportamento Aggressivo” (43% Insegnanti; 53% Operatori).

Pertanto sono state fatte alcune considerazioni in merito alla presenza di una figura che possa fare da guida sia nei contesti scolastici che clinici, in merito alla comprensione e all’interpretazione del comportamento del bambino. Una figura che abbia solide competenze in ambito psicopedagogico, di psicologia clinica e di psicologia dell’età evolutiva, come già evidenziato più volte da parte delle istituzioni (Trombetta 2013). Tale ruolo diventa fondamentale non solo in rapporto all’utenza, ma anche come mediatore con i familiari e tra le stesse figure professionali, per facilitare un processo di comunicazione che sia efficiente ed efficace; che possa svolgere anche la funzione di formatore per l’équipe educativa e sanitaria affinché garantisca un livello migliore di competenza sulle problematiche psicologiche del bambino, sugli stili di intervento e sugli approcci metodologici più adatti a stabilire una relazione sicura con l’educatore o il terapeuta.

 

La mente strategica. Strategie non ordinarie per vivere felici (2020) di Francesca Luzzi – Recensione del libro

Francesca Luzzi nel suo libro La mente strategica descrive le abilità essenziali per sviluppare una mente strategica e alcune strategie per allenarla.

 

Nell’attuale società del benessere materiale, in cui le abilità insite nell’uomo vengono dimenticate, non sviluppate, non utilizzate dallo stesso che intanto si strugge nel presente alla ricercare della tanto ambita felicità, il libro La mente strategica di Francesca Luzzi, psicologa psicoterapeuta impegnata anche in attività di formazione e coaching, risulta essere una ricca e piacevole lettura, rivolta all’ampio pubblico, che spiega e suggerisce come sviluppare una forma mentis che consente di adattarci in modo funzionale alla realtà e di vivere a pieno.

Ma una mente strategica comprende una serie di abilità e di contro disinnesca una serie di psicotrappole che Francesca Luzzi ci spiega nei diversi capitoli del testo.

Vediamo alcune abilità essenziali per sviluppare una mente strategica:

  • Il problem solving strategico, ossia la capacità di trovare soluzioni semplici a problemi apparentemente irrisolvibili, descrivendone le varie fasi che lo compongono (definire il problema, concordare l’obiettivo, analizzare le tentate soluzioni, la tecnica del come peggiorare il problema, la tecnica dello scalatore rifacendosi alla tecnica utilizzata dalle guide alpine che studiano il percorso dalla cima e proseguendo a ritroso, aggiustare il tiro progressivamente);
  • Saper danzare armoniosamente tra coscienza ed incoscienza, razionalità ed irrazionalità;
  • Strategie e stili di coping;
  • Locus of control, inteso come la capacità di controllo personale sugli eventi;
  • Senso di autoefficacia;
  • Consapevolezza,
  • Speranza;
  • Ristrutturare il modo di vedere ed approcciarsi agli eventi di vita;
  • Resilienza.

La mente resiliente

La resilienza non è una condizione ma
un processo: la si costruisce lottando (George Vaillant).

Come ci ricorda l’autrice, una mente strategica è anche una mente resiliente.

Ma oltre al più comune significato del termine che oggi più o meno tutti noi conosciamo, ossia ripreso da una proprietà dei metalli di resistere agli urti, mi piace molto il riferimento di Francesca Luzzi a un grande esperto in materia, ossia Pietro Trabucchi, che rimanda al termine che deriva dal latino resalio, verbo utilizzato per descrivere il tentativo di risalire sulle barche rovesciate, e continua ricordando come, quando la barca della vita si rovescia, alcuni si affannano per risalirvi ed altri rimangono bloccati, affogando.

Termine oggigiorno molto utilizzato nell’ambito della psicologia ed il settore della crescita personale, ma ciò che spesso appare ingannevole, allontanandoci dall’essere resilienti, risulta l’orientare gli sforzi nel tentativo di eliminare problemi e fonti di stress più che nel risolverli e gestirli.

In questo rientra anche il concetto di responsabilità, che dobbiamo assumere nei confronti delle nostre scelte, nei confronti dei nostri successi quanto dei nostri fallimenti e come ricorda l’autrice attraverso un aforisma di Martin Luther King “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”.

Altro aspetto di una mente strategica ed al contempo resiliente è l’essere costante e perseverare perché, facendo ancora l’autrice riferimento a Trabucchi, ci si sofferma su come proprio la perseveranza sia aspetto essenziale più del mito della motivazione, in quanto basandosi su una motivazione intrinseca, la stessa perdurerà di più oltre gli ostacoli e le difficoltà ed oltre ad ogni tipo di ricompensa esterna, aiutandoci ad andare avanti, verso ciò che conta veramente per noi.

Fra le varie pagine del testo l’autrice ci omaggia anche di pezzi di sue esperienze e vissuti, arricchendo dal mio punto di vista il contenuto dello stesso.

L’allena-mente strategico: strategie per allenare la nostra mente

Nel capitolo 7 si entra nel vivo di strategie per allenare una mente strategica. Vediamone alcune:

  • Evitare la rigidità mentale, cercando di allenare la mente a sviluppare modi alternativi di approcciarsi alle cose con ad esempio l’esercizio del come se, provando pertanto a sentirci in modo diverso e soprattutto come vorremmo, per riuscire ad agire in modo diverso, aprendoci a nuove scoperte (es. come mi comporterei oggi se mi sentissi ben voluto dagli altri?);
  • Coltivare buone abitudini: questa, ci suggerisce l’autrice, può venirci in ausilio quando la motivazione verso un nuovo comportamento o obiettivo da raggiungere viene meno (ci viene suggerita ad esempio la meditazione mindfulness);
  • Evitare di evitare;
  • Accettare emozioni e pensieri seppur connotati negativamente o quando gli stessi procurano dolore, in tal senso l’autrice ci suggerisce l’approccio narrativo, oramai condiviso quasi in modo univoco per la sua efficacia da diversi approcci teorici;
  • Mantenere un dialogo positivo con noi stessi, con gli altri e con il mondo, dove l’unico evitamento legittimo è quello di evitare di voler cambiare gli altri, impegnandoci invece a migliorare noi stessi;
  • Coltivare il bello;
  • Ridefinire il concetto di successo, in quanto, riflette l’autrice, sembrerebbe oggi sempre più lontano dai nostri valori soggettivi;

E per i nostri piccoli?

L’ultimo capitolo è dedicato a suggerimenti e strategie per favorire lo sviluppo di una mente strategica nei bambini.

L’autrice ci ricorda quanto il concetto stesso di educare significhi tirar fuori, condurre e non sostituirci ai nostri figli, come purtroppo spesso avviene senza neppure rendercene conto, ma diversi studi evidenziano come stiamo paradossalmente in una società del benessere, crescendo sempre più bambini tristi, infelici, depressi, obesi, insicuri…

Allora forse anche in questo caso non un gioco di colpa ma di responsabilità di scelta, scegliere responsabilmente di essere noi dei sani modelli, ricordarci di lodare ad esempio più l’impegno che le doti, cercare di rendere i bambini più autonomi, non sostituendoci a lui/lei ma collaborando dove necessita, recuperiamo il diritto alla noia ed il gioco libero, saper sdrammatizzare con un po’ di sano umorismo i loro piccoli e grandi drammi, insegnare loro sentimenti, emozioni, gratitudine ed umiltà…

Un libro molto bello e ricco non soltanto di informazioni, ma di riflessioni che spesso vengono date per scontate ma forse oggi sempre di più dimenticate e non praticate, un libro che in modo non superficiale e riduttivo si rivolge all’ampio pubblico in modo accessibile. Un libro arricchente e che pertanto mi sento di suggerire non soltanto alla lettura, ma alla messa in atto anche di quanto l’autrice ha sapientemente raccolto dai vai campi delle scienze mediche e psicologiche circa ciò che può contribuire al nostro benessere e descritto all’interno dello stesso.

 

Fibre di tipo C e contatto umano

Le descrizioni dettagliate del sistema C tattile e la sua proiezione bottom up nel sistema nervoso centrale hanno un ruolo chiave nel supportare e rinforzare positivamente il contatto sociale tattile.

 

Il tatto è un senso che può essere interpretato come piacevole, in quanto è il primo sistema sensoriale che si sviluppa nell’uomo (Bremner & Spence, 2017; McGrant, 2004). La valenza emotiva assegnata al tatto è correlata a dei fattori bottom up, come un’attivazione ottimale degli afferenti tattili di tipo C, o CT (Spitoni et al., 2020).

Nello specifico questi afferenti, scoperti da Ynge Zotterman nel 1939 e dimostrati da Ake Valbo nel 1993, hanno una velocità di conduzione che varia dai 0,5 ai 2 m/sec e rispondono intensamente a stimoli meccanici a bassa intensità, come una carezza fatta con il dito o con un pennello (Varlamov, Portnova & McGlone, 2020). Di norma, la stimolazione viene applicata nell’intervallo da 0,2 a 1-2 N.

Un aumento della forza d’azione non porta ad alcun aumento dell’intensità della risposta rispetto alla situazione con i nocicettori C, dove le risposte degli stimoli a bassa intensità consistono in pochi picchi (Varlamov, Portnova & McGlone, 2020). Inoltre, si nota una risposta più intensa per stimoli con una temperatura corrispondente alla temperatura della pelle (Ackerley et al., 2014). Le descrizioni dettagliate del sistema C tattile e la sua proiezione bottom up nel sistema nervoso centrale hanno un ruolo chiave nel supportare e rinforzare positivamente il contatto sociale tattile. Lo scopo è quello di promuovere una connessione affettiva e sociale stabile che dia sicurezza (Varlamov, Portnova & McGlone, 2020).

Dopo gli studi di Harlow (1958) e di Bowlby (1969), negli ultimi anni il tatto è stato studiato per osservare l’influenza dello stile di attaccamento nella percezione fisica del dolore. Gli autori hanno osservato in questo modo come il dolore è percepito in base alla modulazione tattile e in base allo stile di attaccamento: un tocco gradevole è stato percepito come meno doloroso in soggetti con uno stile di attaccamento ansioso, mentre è stato percepito come più doloroso in soggetti con uno stile di attaccamento evitante (Spitoni et al., 2020). Alcuni comportamenti autolesionistici implicano un collegamento tra stile di attaccamento e dolore fisico, come osservato spesso in soggetti con disturbo borderline di personalità (Rossouw & Fonagy, 2012). Questa connessione tra contatto fisico e dimensioni psicologiche è stata osservata in diversi disturbi: Crucianelli e colleghi (2016) hanno dimostrato che i pazienti con anoressia nervosa percepivano il contatto fisico come meno gradevole rispetto al gruppo di controllo. Croy e colleghi (2016) hanno testato il contatto su un campione composto da soggetti con diverse forme di psicopatologia. I ricercatori hanno osservato come i soggetti con una diagnosi percepissero in generale disagio nell’essere toccati, in modo particolare i soggetti con un disturbo di personalità. Strauss (2012) ha evidenziato invece come il contatto fosse percepito in modo sgradevole da parte di persone con PTSD, nello specifico da parte di donne maltrattate e abusate.

Spitoni e colleghi (2020) hanno ipotizzato come i deficit tattili siano frequenti non solo in una popolazione di soggetti con disturbi psichici, bensì anche in persone sane con un tipo di attaccamento disorganizzato. Per testare questa ipotesi, hanno combinato metodi clinici, psicofisici e neuroimaging per svolgere due studi (Spitoni et al., 2020). Nel primo studio, sono stati reclutati 63 soggetti senza diagnosi psicologica, che non utilizzavano sostanze e che non avevano avuto una gravidanza o la nascita di un figlio nell’ultimo anno. Sono state somministrate l’Adult Attachment Interview (AAI) per osservare lo stile di attaccamento, la PID-5, la Symptom Checklist-90-R, il Two-Point Discrimination test (2PD) per valutare la sensibilità cutanea e l’Affective Touch experiment, dove i partecipanti ricevono una stimolazione tattile affettiva e non affettiva. Nel secondo studio, sono stati reclutati 12 soggetti con attaccamento organizzato (OA) e 12 soggetti con attaccamento disorganizzato (DA). La stimolazione cutanea è stata effettuata con dei colpetti dati con un pennello da pittura. I risultati di questi due studi hanno evidenziato come le persone con un attaccamento traumatico o disorganizzato percepiscono gli stimoli come sgradevoli, mentre i soggetti con attaccamento organizzato percepiscono gli stessi stimoli come piacevoli.

Il contatto tattile su persone con attaccamento disorganizzato attiva le strutture limbiche e paralimbiche, portando il soggetto ad una risposta di attacco e fuga che indica come le esperienze sociali precoci possono modificare la risposta fisiologica delle fibre CT periferiche e il sistema nervoso centrale (Spitoni et al., 2020).

 

Perché durante le video call guardiamo più noi stessi che gli altri – Psicologia Digitale

Le videochiamate sono momenti di interazione; ma perché ci capita di guardare e concentrarci più su noi stessi che sugli altri?

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 20) Perché durante le video call guardiamo più noi stessi che gli altri

 

 Passiamo molte ore al giorno impegnati in video call: per lavoro, per rimanere in contatto con i nostri affetti, per passare il tempo e distrarci un po’. Capita a molte persone, però, durante le videochiamate, di passare gran parte del tempo a guardare la propria immagine invece che concentrarsi su quella degli altri.

Ci siamo abituati a vederci mentre parliamo, gesticoliamo, ci concentriamo, interagiamo con gli altri. Lo schermo di una video call non è solo uno specchio che riflette la nostra immagine ma una rappresentazione dinamica in tempo reale di come noi stiamo in un contesto e nella relazione.

Perché non riusciamo a smettere di guardare noi stessi invece che focalizzarci sugli altri? Come mai lo facciamo?

Il senso del sé

E’ passato oltre un secolo da quando Cooley (1902) sviluppò la teoria del looking-glass self, l’io riflesso. Secondo Cooley il nostro Sé si forma grazie ad esperienze individuali e sociali: la visione che abbiamo di noi stessi è co-costruita costantemente grazie a come pensiamo gli altri ci percepiscano oltre a come noi stessi ci vediamo. Immaginiamo come ci vedono e che valutazioni possano avere di noi; sulla base del significato che attribuiamo a queste riflessioni e valutazioni costruiamo e modelliamo l’immagine che abbiamo di noi stessi.

Quando parliamo di ‘altri’ facciamo riferimento a figure significative come familiari ed amici ma anche a persone con cui entriamo in contatto nella vita quotidiana: urtare qualcuno su un marciapiede, conversare, condividere lo stesso spazio ristretto come in metropolitana. Tutte queste sono forme di rispecchiamento di sé nell’altro, momenti intersoggettivi che servono come co-costruzione della nostra identità reciproca, materiale e non. Guardarsi interagire con gli altri ha una valenza prosociale e appaga il bisogno di riconoscimento reciproco.

Quello che accade in una videochiamata è proprio questo: vedere se stessi rispecchiati negli altri. Vedersi in una interazione ci aiuta quindi a formare e sostenere un valido senso di identità, offline come online.

Il pubblico immaginario

Quello che molto probabilmente sperimentiamo più o meno consapevolmente quando siamo in una videochiamata – che sia con amici, familiari e colleghi – è quello di essere oggetto dell’attenzione di un pubblico immaginario che ha gli occhi puntati su di noi. Il concetto di ‘imaginary audience’ è stato proposto da Elkind nel 1967: sentirsi oggetto di particolare attenzione da parte di questo ‘pubblico immaginario’ ci porta ad essere molto attenti a ciò che facciamo e alle reazioni altrui, con la convinzione di essere il centro dell’attenzione al di là di quanto lo siamo realmente.

Credere di essere sotto costante osservazione spiega molti comportamenti come l’ipervigilanza rispetto a come appariamo e cosa facciamo durante una videochiamata e, quindi, l’osservarsi ripetutamente durante queste interazioni.

Offline vs online: qualche differenza

Quando interagiamo abbiamo molti indizi per capire il contesto, quello che vuole dirci l’altra persona e come stare nella relazione: gestione dello spazio, gesti, linguaggio del corpo, espressioni facciali, sguardo, tono della voce, ritmo della conversazione, pause e silenzi.

 Una conversazione non riguarda solo le parole che diciamo. In una videochiamata molte di queste informazioni vengono perse, sono distorte, non sono immediate e sono più difficili da capire (pensiamo ad esempio a interruzioni di video o audio dovute alla rete). Ogni comunicazione è figlia del mezzo grazie al quale avviene: su uno schermo del computer, tablet o telefono abbiamo parametri ed indizi diversi sui quali basarci.

Alcuni di questi indizi sociali assumono addirittura un altro significato: una interruzione o pausa può essere interpretata come un momento imbarazzante da colmare, mentre nelle interazioni dal vivo un momento di pausa più spesso viene ritenuto parte della conversazione e funzionale ad essa poiché ci permette di elaborare ciò che è stato detto e scandire il ritmo dello scambio.

Se lo stai facendo tu, è probabile lo stiano facendo anche gli altri

Google Meet, Skype, Microsoft Teams, Zoom: secondo uno studio di Juniper Research lo scorso anno più di 1,8 miliardi di utenti si sono iscritti ad un servizio di videochiamate, numero che secondo la ricerca è destinato ad arrivare a 4,5 miliardi nei prossimi cinque anni. Questo anche grazie all’adozione del 5G e dell’aumento delle chiamate vocali su rete LTE (VoLTE, voise over Lte, tecnologia che utilizza uno spettro di banda più ampio e consente quindi di fare chiamate qualitativamente migliori con voce più nitida e meno rumore di fondo).

Mai come durante quest’anno abbiamo avuto modo di apprezzare quanto la tecnologia possa essere abilitatrice e supporto di molte attività e quanto può aiutarci a rimanere in contatto, lavorare in team anche se da remoto, seguire lezioni e fare terapia online.

Le video call esistevano anche prima, certo non usate in maniera così massiva da così tante persone. Non più relegate solo a contesti lavorativi, abbiamo sdoganato anche la video call con la nonna, la zia, gli aperitivi digitali con gli amici che per ora non possiamo vedere.

Siamo quotidianamente esposti alla nostra immagine di fronte a noi in tempo reale mentre interagiamo; e così come lo siamo noi, lo sono gli altri. La tendenza a focalizzarsi sulla propria immagine può essere dovuta a un insieme di fattori e di bias: la percezione di essere oggetto dell’attenzione altrui più di quanto non sia realmente, di maggior controllo dell’interazione e di come appariamo agli altri e di riuscire a elaborare molte più informazioni e cues sociali di quanto riusciamo veramente a fare.

Ma se ci pensiamo, se si tratta di una tendenza così diffusa non siamo gli unici e, forse, siamo meno al centro dell’attenzione di quanto pensiamo.

 

Hikikomori: la storia di un prigioniero in una stanza

Questa è la storia di Alessandro, un hikikomori.

 

Lo vedo per la prima volta a casa sua. Si è svegliato tardi, mi fa attendere un po’ in salotto. Si presenta proprio come immaginavo un hikikomori: in pigiama, trascurato, i capelli lunghi incollati al viso. Ho la sensazione, mentre si muove, che il suo corpo non gli appartenga: che lo abiti quasi per caso, e con fastidio. Ho difficoltà a intercettare i suoi occhi, ma quando riesco percepisco uno sguardo dolce, smarrito. Mi presento per un primo colloquio psicologico domiciliare in seguito alla chiamata di sua madre, che al telefono appariva sofferente, quasi arresa. Alessandro, 20 anni, vive auto-recluso in casa da 5. Uno dei circa 100.000 casi di Hikikomori oggi in Italia, secondo le stime di Hikikomori Italia: persone che vivono segregate in una stanza, per loro scelta, e connesse al web e ai videogiochi tutto il giorno. Da quella ombrosa stanza del silenzio a poco a poco gli Hikikomori rischiano di non uscire più, né per piacere né per dovere (sono in aumento gli abbandoni scolastici), e per nutrirli i genitori lasciano il vassoio dietro la porta.

La parola giapponese significa appunto “stare in disparte”. Il termine non è una diagnosi: si tratta infatti di un disagio sociale, non di una malattia. E quel vassoio solitario, per ore dietro la porta chiusa, col pane raggrinzito e la banana sempre più nera, ne è l’emblema più eloquente.

Nei primi tempi della terapia, Alessandro aveva difficoltà a fidarsi di me. I nostri colloqui sfioravano con cautela il suo dolore e il suo malessere. Erano più un viaggio tra i videogiochi che ama, l’informatica di cui è un vero esperto, le chat, i siti. Mi diceva che la “vita di fuori” non gli interessava, e che lì al computer aveva tutto quello che gli serve, pure gli amici.

Mi conduce nell’universo di World of Warcraft, il gioco che ama di più, e mentre me ne parla la sua voce cambia, si fa più alta e più vivace. Sento l’orgoglio del padrone di casa che ti guida fiero nella sua dimora, soddisfatto dello spazio che si è costruito. Mi lascio affascinare da questo mondo fantasy a tratti medievale, contaminato da mitologie nordiche e popolato da umani, troll, gnomi, orchi. Nel tempo ho appreso che WoW è un gioco molto amato generalmente dagli Hikikomori. C’è una parte di me del passato che lo capisce molto bene: pure io, in periodo adolescenziale, alla realtà deludente preferivo il mondo virtuale che costruivo con The Sims, videogioco in cui io ero il burattinaio onnipotente che governava le esistenze di tutti, e potevo assicurare agli abitanti di quel villaggio immaginario vite soddisfacenti in graziose villette a schiera, lavori gratificanti e arredamenti nuovi, man mano che la situazione economica ingranava con mia soddisfazione.

Col tempo, Alessandro mi permette di entrare nel suo mondo più privato. Mi racconta del bullismo che ha subito alle scuole medie, di come si senta sbagliato e inadeguato e di come tutt’ora abbia paura delle persone. “Non di te”, aggiunge, “tu si vede che sei buona”. Penso alla vita di Alessandro come un videogioco, buoni contro cattivi.

Mi racconta che in WoW il giocatore in media possiede tre “specializzazioni”. Mi parla molto accorato del “protettore”, ruolo che consente ai personaggi di sopportare grandi danni e concentrare su di sé l’attenzione dei nemici, facilitando e proteggendo gli altri alleati. Questa spiegazione mi colpisce profondamente.

Nel corso della terapia, guardando Alessandro in un’ottica “sistemico-relazionale”, mi pongo la domanda base, quella che viene prima di tutte, non solo nei casi di hikikomori ma di fronte a qualsiasi tipo di malessere: questo “sintomo” a cosa serve in questa famiglia? Ogni comportamento problematico infatti segnala il malessere dell’intero “sistema-famiglia”, ed è uno dei componenti di essa ad assumersi, inconsapevolmente, l’onere di farlo emergere. Incontro dopo incontro, affrontiamo dunque il disagio coniugale tra i genitori di Alessandro.

Un giorno, parlando di WoW, Alessandro mi dice che il personaggio, procedendo di missione in missione, sperimenta nuovi poteri come creare pozioni magiche. Io gli chiedo per quale scopo utilizzerebbe una pozione magica nella vita reale, e lui risponde sottovoce: “Per far andare d’accordo i miei”.

Da quando è cominciata la terapia si sono profilati nella mia mente diversi scenari relazionali: forse Alessandro sta tentando di “unire” i genitori veicolando l’attenzione su se stesso e sul proprio disagio. Forse in tal modo, distogliendoli dai loro litigi, li costringe a fare fronte comune. Forse è un modo, inconsapevole, per ritardare anche l’idea di una separazione coniugale.

Probabilmente per lui essere un hikikomori, ovvero stare sempre lì in casa, presente, è un modo per stare vicino e sorvegliare la madre, che lui percepisce fragile e vulnerabile agli “attacchi” del padre. Un modo per difenderla. E chissà se assumere il ruolo del figlio “malato” rintanato in casa non sia anche un modo per dare alla madre casalinga, che non si è mai concessa spazi personali, una funzione e un ruolo utile, in una fase in cui invece un figlio dovrebbe “prendere il volo”.

Rifletto sulla paura di separarsi e di lasciare un vuoto, che forse Alessandro ritiene insopportabile per la madre. Pioveva a dirotto quel giorno in cui ho avuto l’intuizione, e Alessandro guardava in silenzio le gocce ballare sulla ringhiera. Ecco perché il ruolo del “protettore” del videogioco mi tocca profondamente, e mi suona fortemente simbolico della sua vita! Alessandro si sentiva il protettore della madre.

C’è un termine, “Amae”, usato in Giappone per indicare la dipendenza dall’affetto altrui.

Lavoriamo quindi sui ruoli e sui confini familiari, provando a ritagliare in famiglia uno spazio che sia suo, che non “serva” a nessuno. Affrontiamo il tema della differenziazione, quindi dell’emergere dal sistema familiare nella propria unicità, senza temere di “tradire” la famiglia e conservando la propria appartenenza. Alessandro non sarà per sempre “figlio”, ma soprattutto non è a lui che compete tenere uniti i suoi genitori attraverso il suo malessere.

Il nostro viaggio insieme è una scoperta: del suo mondo, in cui mi accompagna inizialmente timoroso di un giudizio, e del mondo là fuori, che non è popolato da buoni contro cattivi, ma da persone tutte diverse, contraddistinte dalla propria complessità e contraddittorietà.

Con il supporto dell’ipnosi Alessandro impara un metodo per gestire l’ansia, a cui ricorrerà anche da solo sia nelle “crisi di astinenza”, quando i genitori gli impediscono di usare Internet, sia per prepararsi alle graduali uscite da casa che abbiamo progettato. Attraverso la terapia EMDR lavoriamo sulle ferite che gli sono state impresse negli anni di bullismo, abbassando l’impatto traumatico ed emotivo associato a questi episodi.

Oggi Alessandro attraversa la città non solo per andare in studio per la terapia, ma anche per andare al cinema (attendeva elettrizzato l’uscita dell’ultimo Star Wars) o raggiungere il parco. Ha un taglio diverso di capelli, semi-rasato, e t-shirt nuove. Il suo progetto da settembre è frequentare la facoltà di Informatica (ambito in cui è bravissimo) e iscriversi a un corso di cucina. Io l’ho incoraggiato, sono una fan dei suoi tiramisù.

Alessandro si sta gradualmente riappropriando di se stesso: sta riscoprendo chi è e cosa gli piace, in cosa è bravo, quali aspetti di sé apprezza o sono apprezzati dagli altri. Si sta liberando di un ruolo che aveva certi “vantaggi”, ma – se ne è accorto – era troppo faticoso. E’ un percorso che continua: a volte appare più accidentato, pietroso, a volte più leggero. Lui sa che siamo in cammino, e attraversiamo le radure, scopriamo le grotte, i torrenti dove imparerà a specchiarsi sereno.

E’ una strada che affrontiamo con coraggio e fiducia, che lo aiuta ad aggiungere giorno dopo giorno una piccola tessera al mosaico della sua autostima, a relazionarsi con gli altri, a comunicare i propri bisogni e a prendersi delle responsabilità. Sta imparando a sognare e a desiderare, tollerandone il rischio e la paura. Dismessa la divisa da prigioniero – il triste pigiama dei primi tempi – quel ragazzino impaurito può inoltrarsi nel mondo, libero tra la gente.

 

La sindrome del burnout genitoriale nelle disabilità

Molte ricerche suggeriscono che i genitori di bambini con disabilità non solo sperimentano livelli più elevati di stress rispetto alle famiglie di bambini con sviluppo tipico, ma che la loro salute mentale in generale potrebbe avere delle complicazioni

Antonio Albanesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il fatto è che l’educazione dei figli è un lavoro lungo e duro, le gratificazioni non sono sempre immediatamente evidenti, il lavoro è sottovalutato, e i genitori sono solo umani e vulnerabili quasi quanto i loro figli (Benjamin Spock).

Le persone di solito si aspettano che l’opera dei genitori sia un’esperienza meravigliosa (Feldman e Nash, 1984), il che non sorprende, data l’enfasi posta sulle ricompense di genitorialità (Eibach e Mock, 2012; Hansen, 2012), che comprendono accrescimenti personali nel significato della vita (Nelson e colleghi, 2013), emozioni positive e integrazione sociale (Nomaguchi e Milkie, 2003). Tuttavia, per molte persone, il ruolo dei genitori non è una passeggiata (Hansen, 2012; Kahneman e colleghi, 2004). Anzi, la genitorialità può essere uno dei mestieri più faticosi che si intraprendono. Sin dalla nascita, i bambini possono mettere sotto stress i loro genitori in modo considerevole (Crnic e Low, 2002; Deater-Deckard, 2008). Il semplice fatto di essere un genitore si confronta con una vasta gamma di problemi quotidiani (es. compiti a casa), fattori acuti di stress (es. conflitti tra fratelli) e anche fattori di stress cronici (es. problemi comportamentali e di salute). Quando i genitori scarseggiano cronicamente delle risorse necessarie per gestire i fattori di stress infantili, essi sono a rischio di burnout genitoriale (Mikolajczak e Roskam, 2018).

Il burnout parentale deriva da uno squilibrio cronico di rischi sulle risorse nelle competenze genitoriali (Mikolajczak e Roskam, 2018). Esso è definito come uno stato di intenso esaurimento correlato al proprio ruolo genitoriale, in cui ci si distacca emotivamente dai propri figli e si diventa dubbiosi sulla propria capacità di essere un bravo genitore (Roskam, Raes e Mikolajczak, 2017). I genitori si sentono così svuotati che si limitano a pensare al proprio ruolo come se sentissero di aver raggiunto la fine del loro legame. Di conseguenza, i genitori diventano emotivamente distanti dai loro figli: diventano sempre meno coinvolti nella relazione con loro e le interazioni sono limitate agli aspetti funzionali / strumentali a scapito degli aspetti emotivi. Pertanto, non si sentono più buoni genitori e perdono il piacere di stare con i loro figli (Hubert e Aujoulat, 2018; Roskam, Brianda e Mikolajcazk, 2018). Ad oggi la ricerca sulla sindrome da burnout genitoriale si è focalizzata sul comprendere cosa rende i genitori vulnerabili a questa condizione. I ricercatori hanno scoperto che i genitori sono a maggiore rischio quando:

  • Mirano ad essere genitori perfetti (Kawamoto e colleghi, 2018).
  • Sono nevrotici o tendenti all’alessitimia e capacità di gestione dello stress (Lebert-Charron e colleghi, 2018; Le Vigouroux e colleghi, 2017; Mikolajczak e colleghi, 2018).
  • Mancanza di supporto emotivo o funzionale da parte del “coparent” (Lindstrom, Agam e Lindahl Norberg, 2010; Mikolajcaz, Raes e collaboratori, 2018): la definizione di coparent (co-genitore) è un processo in cui due genitori lavorano insieme per crescere un figlio anche se sono divorziati o separati e non vivono più assieme. Un esempio di co-genitorialità è quando una madre e un padre divorziati condividono la custodia legale e fisica del figlio.
  • Hanno pratiche indigenti nell’educazione dei figli (Mikolajcazk, Raes e colleghi, 2018).
  • Hanno figli con bisogni speciali che interferiscono con la vita familiare (Gérain e Zech, 2018; Lindahl Norberg, 2007; Lindstrom, Aman e Lindahl Norberg, 2010).
  • Lavorano part-time o sono genitori casalinghi (Lebert-Charron e colleghi, 2018; Mehauden e Piraux, 2018).

Si sa invece molto meno sulle conseguenze della sindrome da burnout parentale rispetto ai suoi antecedenti. In ambito lavorativo, il costrutto correlato al burnout lavorativo è associato a una serie di conseguenze negative sia per il dipendente che per l’azienda; esso danneggia la salute mentale e fisica dei dipendenti (Shirom e colleghi, 2005), diminuisce molti aspetti delle performances lavorative (Taris, 2006) e aumenta drammaticamente il ricambio dei dipendenti (Alarcon, 2011). Nell’ambito genitoriale, potremmo aspettarci conseguenze sia per i genitori che per la famiglia. Risultati di ricerca a sezione trasversale suggeriscono che il burnout genitoriale, così come il burnout lavorativo, è associato a sintomi depressivi, comportamenti tendenti alla dipendenza, disturbi del sonno e conflitti di coppia (Kawamoto e colleghi, 2018; Mikolajczak e colleghi, 2018; Van Bakel e colleghi, 2018). E’ interessante notare come il burnout genitoriale sia risultato essere più fortemente associato a 3 variabili rispetto al burnout lavorativo. Le 3 variabili in questione sono: l’ideazione di fuga (idee di fuga o suicidio), abbandono dei minori e violenza genitoriale. Questo si spiega poiché il burnout parentale evidenziò, rispettivamente, 4 volte, 10 volte e 25 volte più varianza in queste variabili, rispetto al burnout lavorativo. Sarebbe allettante concludere che queste 3 variabili siano conseguenze del burnout parentale, ma la direzione di causalità è sconosciuta.

Lo stress genitoriale nelle famiglie dei bambini con disabilità

La genitorialità, un’esperienza meravigliosa e gratificante, è spesso accompagnata da alti livelli di stress, a causa delle difficoltà, delle frustrazioni e delle sfide che i genitori affrontano nella vita di tutti i giorni. L’arrivo di un bambino con disabilità nello sviluppo comporta richieste e sfide inaspettate da parte dei genitori, per le quali spesso non sono preparati. Avere un figlio con disabilità dello sviluppo determina implicazioni sul cambiamento di vita e effetti a lungo termine nella vita dell’intera famiglia (Simmerman, 2001; Martin e Colbert, 1997). Molti studi condotti in quest’ambito mostrano che i genitori aventi figli con disabilità subiscono livelli più elevati di stress rispetto ai genitori di bambini con uno sviluppo tipico (Sanders e Morgan, 1997; Roach e colleghi, 1999). L’impatto che un bambino con disabilità ha sulla famiglia non è solo lineare e non si basa esclusivamente sulla direzione. L’impatto è multidimensionale, reciproco, influenza la totalità del sistema familiare e le relazioni tra i membri della famiglia (Harris, 1994; Rodrigue, Gefken e Morgan, 1994; Breslau, 1982; Breslau e Prabucki, 1987). Il benessere dei fratelli dei bambini con disturbi dello sviluppo può essere compromesso a causa dello stress vissuto in famiglia (Rossiter e Sharpe, 2001). Molte ricerche suggeriscono che i genitori di bambini con disabilità non solo sperimentano livelli più elevati di stress rispetto alle famiglie di bambini con sviluppo tipico, ma che la loro salute mentale in generale potrebbe avere delle complicazioni. Difatti, i genitori possono sperimentare depressione, ansia (Beckman 1991; Dyson, 1991; Emerson, 2003; Bristol e Schopher, 1984; Hoppes e Harris, 1990), alti livelli di disperazione, fallimento, senso di colpa (Jones, 1997; Powers, 1989; Tommasone e Tommasone, 1989), riportano ridotte capacità genitoriali e minore soddisfazione coniugale (Rodrigue e colleghi, 1990). Il benessere psicologico dei genitori è considerato molto importante. Le ricerche sottolineano l’importanza di programmi di intervento sullo stress genitoriale così da poterlo alleviare (Davis, 1985; Schilling e Schinke, 1984) perché elevati livelli di stress parentale possono avere un impatto negativo sul funzionamento del bambino con disabilità dello sviluppo. I genitori si comportano in modo diverso e questo può avere un impatto negativo sui bambini (Hastings, 2002); gli studi rivelano che i genitori con un elevato livello di stress interagiscono in modo diverso con i loro figli, rispetto ai genitori con un livello di stress inferiore, e rispondono in modo diverso al comportamento problematico del figlio (Conger e colleghi, 1995). Secondo Floyd e Phillipe (1993), la depressione auto valutata dai genitori sarebbe un forte predittore dei loro sforzi per gestire attivamente e con successo i comportamenti problematici dei loro figli.

Il bambino con disabilità non è il solo a influenzare la vita e le dinamiche familiari; anche la famiglia influenza positivamente o negativamente lo sviluppo del bambino. Nello specifico, i ricercatori sottolineano che maggiori livelli di stress predicono risultati meno positivi nei programmi di intervento precoce per bambini con disabilità (Brinker e colleghi, 1994), considerato che questo tipo di interventi precoci hanno maggiore successo in caso di problemi familiari, incluso lo stress parentale, e sono affrontati prima dell’inizio del programma di intervento (Rhodes, 2003). Quindi, conoscere e trattare con i genitori il tema dello stress parentale è importante per i professionisti.

Lo stress legato al bambini: diagnosi, caratteristiche e comportamento del bambino

Secondo le ricerche, il benessere psicologico dei genitori è fortemente influenzato dalla diagnosi primaria del loro bambino. Lo shock, la negazione, l’incredulità e il dolore sono le reazioni comuni dei genitori in questo specifico caso (Martin e Colbert, 1997). Una quantità considerevole di letteratura mostra come all’inizio i genitori facciano i conti con la loro perdita di aspettative, in special modo delle possibilità perdute e dei sogni sul loro bambino perfetto, e tutto questo processo di perdita che attraversano provoca angoscia emotiva (Martin e Colbert, 1997; McCubbin e colleghi, 1982). Tuttavia, secondo Martin e Colbert (1997), alcuni genitori riferiscono un senso di sollievo dopo aver fissato la diagnosi, perché quest’ultima pone fine ai loro dubbi e fornisce loro risposte. Waisbren (1980) ha sottolineato che avere un figlio con disabilità nello sviluppo richiede che i genitori debbano riformulare e riadattare nuovi ruoli e identità; questo può provocare ambivalenza e/o ansia, che non fa niente di meno che aumentare i livelli di stress. Altri studi invece suggeriscono che forse non è solo la diagnosi ad essere la fonte di stress vissuta dai genitori, ma anche le caratteristiche e i comportamenti del bambino correlate alla diagnosi: lo stress genitoriale può essere fortemente associato al livello di disabilità del bambino (Minnes, 1988), alle caratteristiche del bambino e ai suoi comportamenti impegnativi, e tutte queste variabili richiedono molto tempo per i genitori (Simmerman e colleghi, 2001). I comportamenti maladattivi, sfidanti e di auto mutilazione dei bambini con disabilità possono risultare una forte fonte di stress per i genitori; i bambini hanno bisogno di una supervisione costante per la propria sicurezza e quella dei loro fratelli (Cole, 1986). Molti genitori mettono in relazione lo stress con le costanti richieste di cura e attenzione dei loro figli (Minnes, 1988; Beckman-Bell, 1981): infatti molti bambini con disabilità potrebbero non essere in grado di prendersi cura di sé stessi o mettere in atto comportamenti che ci si aspetta da altri bambini della loro età e con uno sviluppo tipico. Questo significa che i genitori devono impegnarsi di più e investire più tempo ed energia sul loro bambino. Una possibile soluzione al problema potrebbe essere alleviare lo stress nei genitori. Essere genitori di un bambino con disabilità non influisce solo sull’intensità dell’accudimento, ma anche nella sua estensione nel tempo. L’autonomia del bambino può essere ritardata  o compromessa dalla disabilità. Sembra che alcune caratteristiche legate al bambino come le capacità comunicative o il livello di difficoltà che ha il bambino mentre compie un comportamento, siano fortemente correlati ai livelli di stress vissuti dai genitori (Frey e colleghi, 1989; Quine e Pahl, 1991). Le esigenze sanitarie speciali, il continuo accompagnamento del bambino o la costante supervisione possono interferire con le attività quotidiane dei genitori. Le loro limitate possibilità, causate dalla mancanza di tempo, per riposarsi, divertirsi o ritagliarsi un po’ di tempo per loro stessi, danno come risultato stanchezza, esaurimento e afflizione. Il comportamento brusco e inaspettato dei bambini è correlato a bassi livelli di autoefficacia dei genitori e a problemi di salute mentale degli stessi (Herring e colleghi, 2006). Quando si tratta di bambini con bisogni speciali, i genitori devono impegnarsi più di quanto farebbero con i bambini con uno sviluppo normale (Westling, 1997). A causa di nuove responsabilità per le quali non sono preparati, essi possono partecipare a corsi di formazione e di istruzione generali rivolti ai genitori, hanno necessità di interagire regolarmente con gli insegnanti, etc, e questo significa meno tempo da dedicare per altre attività. Può capitare che si scoraggino facilmente a causa dell’incapacità dei loro figli di raggiungere gli obiettivi educativi. E, come in un circolo vizioso, tutto ciò non fa altro che aggiungere altro stress.

Le differenze tra le madri e i padri nella gestione emotiva e cognitiva rispetto alla disabilità del figlio

Sebbene la disabilità del bambino colpisca l’intera famiglia, ci sono prove considerevoli del fatto che le madri esperiscono un maggior impatto emotivo rispetto ai padri circa la disabilità del figlio (Hastings e colleghi, 2005; Oelofsen e Richardson, 2006; Gray, 2003). Per esempio, in uno studio condotto da Gray (2003) su famiglie di bambini con autismo, l’autore ha scoperto che le madri e i padri erano influenzati in modi e livelli diversi dalle condizioni del loro bambino. I padri sostenevano che le condizioni del loro bambino non li avessero influenzato personalmente come hanno fatto con le loro mogli. Hanno anche ammesso che il modo in cui l’autismo del loro figlio li ha influenzati è stato solo attraverso lo stress esperito dalle loro mogli. Secondo l’autore il diverso livello di stress vissuto da madri e padri può essere spiegato riferendosi ai ruoli di genere legati al lavoro e all’educazione dei figli. Mentre le madri sono di solito più coinvolte nell’accudimento del bambino, i padri sono più impegnati a lavorare per sostenere i bisogni finanziari della famiglia. Secondo l’autore ci sarebbe una differenza nelle strategie di coping che utilizzano le madri e i padri. Mentre i padri tendono a sopprimere i loro sentimenti, o per evitarli lavorando fino a tardi oppure stando lontano da casa, le madri tendono a esprimere e condividere le loro emozioni; nello specifico esse provano una vasta gamma più ampia di emozioni (dal dolore alla tristezza, alla rabbia, all’angoscia etc.) e parlano di più con gli altri delle loro emozioni. Si è scoperto inoltre che le madri sono più stigmatizzate dal disturbo del loro bambino. Ci sono anche differenze nelle percezioni o valutazioni cognitive. Difatti, le valutazioni cognitive dei genitori sulle disabilità del bambino mediano i livelli di stress vissuti dai genitori. Se avere un figlio con disabilità porta allo stress o a una strategia di coping positiva, questo dipenderà dalle percezioni della famiglia sulla disabilità del bambino, dalle giustificazioni fornite dalla famiglia nonché dalla comprensione del perché si verificano gli eventi e cosa possono fare per alleviare lo stress. Molti studi si sono concentrati sul ruolo delle valutazioni cognitive dei genitori sullo stress. Mash e Johnston (1990) suggeriscono che una combinazione di caratteristiche del bambino e cognizioni genitoriali può influenzare i livelli di stress parentale. Altri studi suggeriscono che quando si tratta di cognizioni, queste ultime potrebbero essere predittori più forti di stress parentale rispetto al comportamento disadattivo del bambino. In uno studio condotto da Lustig (2002) è stato trovato utile ai fini di un buon adattamento familiare l’essere in grado di riformulare la disabilità in modo positivo e il percepirsi come competenti piuttosto che passivi. Altri studi sul ruolo delle cognizioni parentali si sono focalizzati sull’autostima, sull’autoefficacia e sul locus of control. Sembra che le cognizioni genitoriali medino il ruolo di differenti variabili sullo stress genitoriale. Hastings e Brown (2002) hanno scoperto che l’autoefficacia mediava gli effetti del comportamento disadattivo del bambino sull’ansia e la depressione vissute da madri di bambini con autismo. Secondo Hasall e Collaboratori (2005) la maggior parte della varianza misurata nello stress genitoriale è stata spiegata dalla funzione del locus of control (modalità con cui un individuo ritiene che gli eventi della sua vita siano prodotti da suoi comportamenti o azioni, oppure da cause esterne indipendenti dalla sua volontà) genitoriale, dal grado di soddisfazione e dalle difficoltà di comportamento del bambino. Inoltre gli autori hanno scoperto come la forte correlazione tra il supporto familiare e lo stress genitoriale fosse mediata dal locus of control dei genitori.

Per concludere, questo articolo vuole indicare diversi fattori legati allo stress che sia i ricercatori che i professionisti devono tenere a mente quando si lavora con famiglie di bambini con disabilità nello sviluppo. C’è una larga divergenza nell’esperienza di accudimento e cura di un bambino con una disabilità. I professionisti che lavorano con queste famiglie devono essere consapevoli del fatto che l’assistenza potrebbe produrre esperienze sia positive che negative. Infatti, ai fini di un sano funzionamento familiare, i professionisti devono supportare i bisogni dell’intera famiglia e non solo le necessità del bambino con disabilità. I professionisti che lavorano con i bambini possono svolgere un ruolo importante nell’aiutare i membri della famiglia a riformulare la loro esperienza fornendo assistenza con un approccio positivo, aiutandoli a sentirsi come se avessero la conoscenza, l’abilità e la capacità di sostenere con successo ciò di cui i loro figli hanno bisogno.

 

Atypical (2017) – Recensione della serie TV

Atypical è una serie TV in grado di sensibilizzare e avvicinare il pubblico a svariate tematiche di carattere psicologico in maniera ironica, delicata e leggera, dando particolare rilievo alle dinamiche familiari che possono intercorrere laddove è presente un membro con disturbo dello spettro autistico.

 

Atypical è una serie televisiva statunitense, disponibile su Netflix, creata da Robia Rashid.

Protagonista è Sam Gardner, un ragazzo di 18 anni con una forma lieve di autismo, che come tutti i suoi coetanei è alla ricerca della propria indipendenza a scuola, a lavoro e in amore.

Si tratta di una serie TV in grado di sensibilizzare e avvicinare il pubblico a svariate tematiche di carattere psicologico in maniera ironica, delicata e leggera, dando particolare rilievo alle dinamiche familiari che possono intercorrere laddove è presente un membro con disturbo dello spettro autistico.

Stagione dopo stagione (in attesa della quarta!) si assiste a una vera e propria crescita personale di Sam, ragazzo “atipico” con tutti i problemi tipici della sua età, raggiungendo importanti conquiste tra cui la propria emancipazione.

I disturbi dello spettro autistico

Sono strano, è quello che dicono tutti. A volte non capisco di cosa parlano le persone e questo mi fa sentire solo, anche se c’è altra gente intorno a me. E allora me ne resto seduto e inizio a gingillarmi. È il mio tipico comportamento autostimolatorio, spesso strofino una matita contro un elastico. Mi rilassa, e intanto penso alle cose che non riuscirò mai a fare. (Sam)

Grazie alla voce narrante di Sam, Atypical rappresenta dettagliatamente le caratteristiche tipiche dei disturbi dello spettro autistico.

Il protagonista presenta la sindrome di Asperger, ovvero la condizione più lieve di autismo senza compromissione intellettiva e del linguaggio associata, categoria diagnostica eliminata con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013). L’ultima versione del DSM, infatti, presenta un’unica categoria, i “Disturbi dello Spettro Autistico”, caratterizzata da deficit socio-comunicativi e schemi di comportamento fissi e ripetitivi.

Sam ha una passione smisurata per i pinguini e per l’Antartide e fatica a comprendere i comportamenti e le intenzioni altrui, soffermandosi sul significato letterale di ciò che gli viene detto non riuscendo a leggerne i significati impliciti. Ciò lo porta a cercare di interpretare il mondo esterno tramite continui parallelismi col mondo animale, per lui più comprensibile.

Munito di quaderno e matita si appunta tutti i consigli che gli vengono dati, a cui aggiunge una ossessiva e scrupolosa osservazione di ciò che lo circonda.

Nel corso del tempo ha sviluppato una serie di strategie che gli permettono di affrontare situazioni per lui particolarmente stressanti, ad esempio l’utilizzo di cuffie antirumore in spazi affollati e rumorosi. Quando si agita, inoltre, pratica rituali e gesti ossessivi, un esempio è la ripetizione del mantra “Adelia Antartico Imperatore Papua” ad libitum, ovvero la lista in ordine alfabetico delle specie di pinguino che popolano l’Antartide.

Emergono dunque la rigidità mentale tipica dello spettro autistico, l’incapacità di comprendere gli stati mentali altrui (Teoria della Mente) e la mancanza di empatia.

A ciò si aggiunge una particolare predisposizione per il disegno e l’illustrazione: alcune persone con autismo, spesso con QI nella norma, presentano isolate capacità speciali, per esempio nella lettura, nella matematica o nel disegno. Secondo alcuni autori proprio i deficit nelle funzioni esecutive possono in parte spiegare questi talenti (Frith & Frith, 2010). Le difficoltà nella pianificazione e nel monitoraggio delle azioni sembrerebbero portare a una maggiore spontaneità e a mancanza di autoconsapevolezza, favorendo fenomeni artistici e creatività libera. Anche la perseverazione, la debole coerenza centrale nei processi mentali e la ristretta gamma di azioni porterebbero a perfezionismo e a enorme attenzione ai dettagli (Zennaro, 2011).

La famiglia di Sam

Personaggi altrettanto importanti sono i genitori e la sorella di Sam, ognuno con le proprie vicissitudini.

La sorella minore Casey è molto protettiva e sente un forte senso di responsabilità nei confronti del fratello, mettendosi spesso in secondo piano e rinunciando ai propri desideri per venire incontro alle difficoltà di Sam. Emerge, inoltre, nel corso della serie TV il vissuto di trascuratezza dovuto alle attenzioni rivolte completamente al fratello da parte dei genitori.

Il padre Doug è il membro della famiglia che ha avuto maggiori difficoltà nell’accettare la diagnosi di Sam. Non sentendosi in grado di affrontare la situazione ha abbandonato la famiglia per otto mesi quando Sam era piccolo. Ha sempre avuto difficoltà a comprendere e a relazionarsi con il figlio ma, con il sopraggiungere dell’adolescenza e la richiesta di chiarimenti sul mondo femminile, Doug ha così l’occasione di ricostruire il rapporto con Sam.

La madre Elsa è iperprotettiva nei confronti del ragazzo, a tratti soffocante. Frequenta un gruppo di sostegno per genitori di figli con autismo e cerca di coinvolgere il marito in tutto ciò che riguarda Sam. Ha investito così tanto le proprie energie nel ruolo di madre che ha trascurato se stessa e questo la porterà a tradire il marito.

A ciò si aggiungono le difficoltà col mondo esterno, estraneo alla tematica dell’autismo. A causa della particolarità di Sam, gli amici di famiglia si sono allontanati da loro portandoli a un vero e proprio isolamento. Episodio emblematico sulla scarsa sensibilizzazione e conoscenza del disturbo è l’arresto di Sam da parte di un poliziotto poiché gli risultava sospetto il comportamento del ragazzo.

In conclusione Atypical si dimostra una serie TV in grado di offrire interessanti spunti sulle difficoltà relazionali di chi è affetto da disturbo dello spettro autistico e sulle dinamiche che caratterizzano il nucleo familiare quando un membro presenta disabilità.

 

ATYPICAL – Guarda il trailer della serie:

Gli orfani di femminicidio: quando ad uccidere è stato il padre

A rendere alcuni femminicidi ancor più spietati è il fatto che il carnefice non è solo marito o compagno, ma padre, e la vittima è madre di quel figlio/a o figli che ad un certo punto della loro vita diventano orfani di femminicidio e vivono l’atroce realtà di avere la madre defunta ed il padre accusato di omicidio.

 

“Gli orfani di femminicidio: quando ad uccidere è stato loro padre”, sono parole che non dovrebbero esistere, in quanto esprimono un concetto atroce, condizione di un’efferatezza che non lascia soluzioni a chi rimane, ma solo dolore, indignazione o semplicemente negazione della realtà come meccanismo di difesa per mantenere un sé integro ed un riconoscimento ad un’appartenenza familiare a cui non dover rinunciare, almeno per un periodo, quello successivo all’evento delittuoso.

Un uomo ed una donna si scelgono come compagni di vita, o anche per un breve percorso sufficiente per mettere al mondo, nel caso che noi andremo a trattare in questo spazio, uno o più figli.

I figli si aspettano sempre, per naturale propensione del loro ruolo, amore ed amorevolezza da parte dei genitori, ed è probabile, anzi altamente probabile, che lo ricevano e che magari ci sia anche attorno a loro, nel rapporto reciproco tra i genitori. Poi ad un certo punto della vita qualcosa inizia ad andare storto: inizia a mancare qualcosa nella coppia genitoriale e soprattutto uno dei due si stanca dell’altro, si allontana, vuol separarsi, oppure fa entrare un’altra persona nella propria vita, che sia il padre ad innamorarsi di un’altra donna e vive la moglie come un intralcio per poi colpirla, oppure viene scoperto dalla moglie stessa il rapporto extra del marito e lui questo aspetto non lo accetta, non accetta questa intromissione nella sua sfera privata.

Nei restanti casi invece, l’uomo agisce l’omicidio nei confronti di una moglie o compagna ormai ex, o che vuol diventarlo, e lui cerca di impedirglielo con vessazioni, violenze  e soprusi fino all’atto più sconcertante di arrivare ad ucciderla. Accade molto spesso che vicini di casa e familiari non sospettino nulla delle precarie condizioni in cui si trovano le coppie contrastate dalla violenza psichica, fisica e soprattutto morale, che a volte segnalano le violenze subite alle autorità competenti, anche più di una volta, oppure sono donne che si chiudono nel loro silenzio, dove spesso si spinge il giudizio o il pregiudizio nei confronti di donne vittime di una volontà altrui e non di un incidente.

A rendere questi delitti ancor più spietati è il fatto che il carnefice non è solo il marito o compagno, ma padre e, la vittima accoltellata, strangolata o avvelenata, bruciata e quant’altro, è la madre di quel figlio/a o figli che ad un certo punto della loro vita, nelle diverse fasi del ciclo di vita, che sia l’infanzia o l’adolescenza, vivono l’atroce realtà di avere la madre defunta ed il padre accusato di omicidio, a volte senza ammettere l’omicidio stesso.

Ogni situazione è a sé e si aprono sipari di vita diversi e comunemente atroci, con un genitore al campo santo, l’altro in carcere. A questi figli di femminicidi spetta il compito difficile di elaborare il lutto da una parte e capire quanto la via del perdono nei confronti del padre sia percorribile nel tempo.

Ipotesi sull’impatto psicologico di figli di vittime di femminicidio

Come si diceva sopra, ogni soggetto è a sé ed ogni esperienza di vita ha un corso ed un percorso che nel caso dell’omicidio nei confronti della propria compagna o ex, va nella direzione dell’impotenza di fronte all’evento infausto quanto irrecuperabile, l’unico recupero su cui si può lavorare è appunto quello nei confronti dei figli che necessitano di un sostegno tempestivo.

Molto dipende anche dalle risorse familiari pregresse e residuali nell’ambito del trigenerazionale, ovvero da quanto la famiglia sia riuscita a lasciare in termini di resilienza e capacità di adattamento alla vita nonostante le condizioni estremamente infauste, così come il potenziale del tessuto sociale circostante possa riuscire a trasmettere ed offrire al suo interno. La società fornisce e riconosce un sostegno più o meno lungo ed intenso alle vittime che hanno bisogno di vicinanza e comprensione in quanto superstiti di una famiglia devastata dall’odio e dal dolore dall’efferatezza che ha comportato la morte di una donna a sua volta madre.

A volte basta a questi figli il silenzio, voce del rispetto, del non sentire attorno giudizi nei confronti della vittima. Al tempo stesso i figli hanno bisogno di costruirsi un’idea propria anche nei confronti del padre che è ancora in vita e che nel tempo può fornire esternazioni che possono in qualche modo parlare ancora di quella famiglia, unita o separata che fosse, a cui lui stesso apparteneva e di cui magari si fidavano, vedendo nella famiglia un contesto d’appartenenza ed amore.

Quando con il trascorrere del tempo, il rumore sociale e mediatico si assopisce, intorno sembra rimanere qualcosa di oscuro, un velo nero di tristezza misto a disgrazia che ha devastato una famiglia. A portarne le cicatrici saranno varie generazioni successive e, anche quando quel figlio, figlia, diventerà a sua volta genitore, sarà colui che rimane per sempre il figlio a cui il padre, quando era piccolo, uccise sua madre.

Chi vive in prima persona quella stessa disgrazia è vittima ed ha più o meno realizzato nel tempo la mentalizzazione evolutiva dell’evento, collocandosi in una prospettiva di vita che nel tempo cambia e lascia spazio a nuovi eventi a nuove circostanze che, pur non cambiando le sorti dell’evento stesso, trovano un riscontro nelle tappe evolutive successive dove molto è mancato, molto è venuto meno, soprattutto un equilibrio funzionale nel corso della vita di questi figli che non hanno avuto la possibilità di avere la propria madre al loro fianco per un tempo naturale.

Parliamo di figli a cui non è solo morta la madre, ma la madre è morta assassinata per mano del padre, e a volte quel genitore continua a vivere trovando spazio dentro quel figlio/a che, attraverso la sua personalità, dà voce  alla mamma che non c’è più.

Questo processo rappresenta una forma di apprendimento per imitazione attraverso una figura interiorizzata, la stessa che non è più presente in carne ed ossa, lo diventa in altro modo e per un tempo più o meno lungo, che può arrivare al per sempre uniti, tra chi nella sua vita da vita a chi non c’è più.

Un caso insolito

Mi contatta telefonicamente per chiedermi una consulenza per sé e suo marito la signora Stefania di 42 anni, madre di un figlio di 16 anni, suo marito si chiama Paolo e di anni ne ha 41. La donna è preoccupata per suo marito che da alcuni giorni appare silenzioso ed agitato per qualcosa che sta avvenendo nella sua famiglia d’origine.

Convoco alla prima seduta la coppia, sposata da 10 anni dopo 7 di convivenza, entrambi lavorano, lui è un operaio specializzato, lei segretaria. La coppia è sempre stata unita ed hanno un figlio che frequenta il terzo anno di liceo e di cui sono fieri non solo i genitori, ma anche tutti e quattro i nonni. Paolo è un uomo premuroso e responsabile che nel corso della sua vita, oltre a prendersi cura di suo figlio e sua moglie, già da bambino ha iniziato col prendersi cura di sua mamma, la quale ad oggi è ormai in pensione da alcuni anni. Marina, questo il nome della mamma di Paolo, è una donna molto affettuosa che convoco in terapia familiare a partire dalla terza seduta per inquadrare la loro storia affrontando da vicino la problematica per cui questa famiglia è entrata in contatto con il dolore e la sofferenza.

Paolo è un uomo attento, scrupoloso ed altamente affettivo, ma al tempo stesso ha conosciuto la sofferenza invalidante quando era solo un bambino, l’unica risorsa su cui ha potuto contare è stata la madre e l’amore di questa donna per lui.

Paolo è figlio unico e a soli quattro anni vede suo padre impugnare un coltello ed usarlo contro sua madre colpendola ad una coscia, la donna sanguinate riesce a prendere con sé il piccolo Paolo e chiudersi in bagno mentre suo marito implora da fuori il suo perdono e di aprire la porta, sembrando da subito pentito e in preda al panico per quanto compiuto.

Marina inizia ad urlare e per fortuna le finestre aperte di una sera d’estate portano la vicina di casa a sentire le urla. Questa chiama i carabinieri, arriva l’ambulanza e scatta la diffida dei carabinieri al signor Michele, che per alcuni anni ha l’obbligo di non avvicinarsi alla moglie e al figlio per la loro tutela e sicurezza.

È la metà degli anni’80, “molte leggi sulla difesa delle donne non c’erano ancora”, dice Marina in terapia, “ma io fui, nella sfortuna, fortunata ad ottenere le precauzioni che il mio avvocato mi indicò a chiedere”.

“E da lì io e Paolo” dice la donna “iniziammo una nuova vita, fatta di lavoro e di fatica con mio fratello che mi dava un aiuto anche con il bambino, ma io ho sempre cercato di essere il più possibile autonoma”.

Paolo sviluppa un rapporto morboso nei confronti di sua madre e chiede un incontro con suo padre solo dopo aver compiuto 16 anni, così il signor Michele ottiene l’autorizzazione da parte del Giudice, a vedere suo figlio. Paolo racconterà in una seduta che solo ad un’età in cui non era più un bambino si sente pronto ad incontrare quell’uomo che, pur essendo suo padre, non gli aveva concesso di avere un papà durante la sua infanzia, essendo considerato pericoloso e violento.

Una volta cresciuto, Paolo, che ha iniziato ad uscire con i suoi amici a ragionare di problemi, desidera  incontrare suo padre, per guardarlo negli occhi e capire cosa quegli occhi riuscissero a trasmettergli.

È un incontro difficile, nessuno dei due ha il coraggio di entrare nel vivo delle emozioni, ma entrambi cercano, racconta Paolo, di rispettare quel momento per se stesso e per l’altro e, in quella circostanza sa dal padre che non si è rifatto una famiglia, ma che da alcuni anni ormai convive con una donna, la quale anche lei ha un figlio dal suo precedente matrimonio.

Paolo non cerca più suo padre dopo quell’incontro, è lui a farlo telefonicamente per i due anni successivi fino alla maggiore età. Marina, sua mamma, non è preoccupata, ma contenta di questa ripresa di contatti tra suo figlio ed il padre.

Marina dal canto suo ha un fidanzato per tre o quattro anni dopo che Paolo inizia la convivenza con Stefania, ma alla fine il rapporto non funziona e la donna, come racconta in terapia, non riesce più dopo l’epilogo del suo matrimonio a fidarsi e a vivere in armonia un rapporto con un uomo.

Paolo più volte dice come ha imparato da sua mamma ad amare, e Stefania racconta di essere una donna felice perché suo marito è sempre stato un uomo ed un padre attento e premuroso capace d’amare, che non conosce l’odio ed il rancore.

Questo per dire che Marina soffre molto perché lei avrebbe voluto un matrimonio per tutta la vita e mai avrebbe immaginato che il suo matrimonio finisse ben presto e per giunta a seguito della violenza fisica.

Questi eventi, condizionano per sempre non solo la sua vita, ma anche quella di Paolo.

Il motivo della psicoterapia oggi

Dopo 37 anni dall’aggressione del padre ai danni della madre, Paolo viene in terapia con sua moglie, va precisato che Paolo non aveva fatto un percorso psicologico precedentemente, ovvero negli anni della sua infanzia o adolescenza, in quanto non ne avevano mai sentito la necessità, raccontano, né lui né sua mamma, risolvendo tutto nella loro unione e sostegno reciproco.

La signora Stefania è preoccupata per un repentino cambiamento di suo marito in famiglia, infatti da alcuni giorni Paolo è silenzioso ed ha paura che sua madre possa non essere serena dopo aver riaperto casa a suo padre. Aspetto che inizia a turbare profondamente Paolo il quale vuol intraprendere un percorso psicoterapeutico per sentirsi sostenuto in questo periodo della sua vita dove sente il bisogno di aprirsi rispetto alle sue emozioni e difficoltà.

Dopo essersi riavvicinato a suo padre ormai da molti anni, Paolo, è anche ben consapevole del fatto che i rapporti tra i genitori sono tornati sereni già da alcuni anni ma, nonostante ciò, qualcosa di non risolto riapre in questo periodo lo scenario della sua famiglia d’origine.

I due: Marina e Michele, genitori di Paolo non sembrano affatto turbati, pur non negando forti emozioni nel ritrovarsi per loro scelta a vivere di nuovo insieme dopo aver passato una vita distanti, anche con un periodo di distanze obbligate dalle legge. La casa era stata comperata insieme, racconta Paolo, dai suoi genitori al momento del loro matrimonio. Poi, dopo la violenza su sua madre, il padre andò a vivere a casa della donna di cui si era innamorato.

Michele, già durante il suo matrimonio con Marina, aveva conosciuto l’altra donna per la quale aveva perduto la testa, e questo amore nascosto lo aveva reso un uomo nervoso, pieno di insicurezze che culminò nell’insana rabbia e violenza nei confronti della moglie.

Da quel momento, suo padre rimase con l’altra donna per ben 37 anni, appunto, e con lei è sempre stato un uomo impeccabile, mai violento, mai scorretto.

Fu a seguito delle ripetute richieste da parte della compagna di Michele di regolarizzare con il matrimonio il loro rapporto dopo così tanti anni di convivenza, che  Michele non riusciva a sentirsi pronto per fare questo passo e così i due, arrivati ad avere esigenze e vedute diverse sulla loro relazione, non riuscirono ad andare avanti e la storia alcuni mesi fa si è conclusa. Michele disse alla donna e anche a suo figlio Paolo che lui si era sposato una volta nella sua vita e nel corso di questi anni non ha mai sentito l’esigenza di legarsi attraverso il contratto matrimoniale alla sua successiva compagna.

Nel corso degli anni Michele perde il lavoro in quanto la fabbrica presso la quale era impiegato, dopo anni di cassa integrazione chiude definitivamente, lui continua ad essere autonomo arrangiandosi con lavori in nero, nel frattempo la madre si ammala ed ha bisogno di cure specifiche, ad aiutarla il figlio Michele che oggi trovandosi in non buone condizioni economiche ha chiesto un confronto alla sua ex moglie, Marina, rispetto alla possibilità di avere una casa dove andare a vivere. È così che Michele e Marina optano per tornare a vivere sotto lo stesso tetto, mentre Paolo si propone di aiutare suo padre liquidandogli la parte della casa. Per suo padre va bene anche modificare la casa alzando un muro interno per dividere gli spazi, ma a Marina non sembra utile né che il figlio tiri fuori i suoi soldi né andare a modificare la casa rendendola meno fruibile, per lei è possibile la via della convivenza con il suo ex marito e non ha nessuna esitazione a dire che era l’unica soluzione utile a tutta la famiglia non solo sul piano economico, ma soprattutto su quello relazionale.

Questa convivenza preoccupa Paolo. A preoccupare il giovane non è la possibile riproposizione della violenza, lui aveva più volte parlato con suo padre dopo questa decisione condivisa dai genitori e ne uscì rassicurato; a preoccuparlo èlo stato emotivo della madre, che dopo tanti anni aveva ritrovato la serenità e magari poteva rivivere vecchi traumi avendo vicino nuovamente l’uomo che le aveva cambiato in peggio la vita.

Questa convivenza però non è un ripiego per la mamma di Paolo, né una condizione obbligata dai fatti, ma una scelta: lei afferma di essersi già da anni buttata alle spalle dopo tanta sofferenza, un capitolo che non faceva più parte della sua vita, e oggi è contenta di avere di nuovo al suo fianco quell’uomo che secondo lei, in preda ad emozioni ingestibili, gli tolsero non solo la lucidità, ma anche la capacità di essere se stesso. Erano ormai passati circa 20 anni da quando Marina e Michele avevano ripresero un dialogo a volte anche per un caffè, altre telefonicamente per parlare di loro figlio Paolo, quando Marina, dopo molti anni passati a crescere suo figlio da sola, pensò che la cosa migliore fosse interfacciarsi anche con il padre.

E così, a questo punto del ciclo vitale, qualche cosa tra i due si è riaperto, oppure il cerchio non si era mai chiuso e trova in questa circostanza di vita un nuovo punto d’incontro, creando un profondo disorientamento in Paolo.

Cosa vive Paolo oggi? Un senso di tradimento da parte di sua madre o un’effettiva preoccupazione per due persone che si sono amate per un breve periodo, quando erano fidanzati e giovani sposi, per poi ritrovarsi dopo i 70anni?

Si evince come le vicissitudini del passato e il riavvicinamento attuale tra i genitori, abbiano finito per creare condizionamenti costanti nel corso della vita del figlio, “siamo stati insieme all’inferno io e Paolo”, dirà in una seduta la signora Marina in riferimento al periodo post separazione ed infanzia del figlio.

Conoscendo mio figlio, dice la signora Marina, lui non riuscirà a sentirsi subito tranquillo, ma pian piano capirà che oggi ha due genitori anziani, un po rimbambiti ma che sono andati oltre l’odio.

Considerazioni conclusive

Il caso clinico da me riportato, parla di una storia di violenza da parte di un marito e padre, che pone fine per quasi quarant’anni ad un rapporto familiare, dove il padre ottiene l’obbligo di distanza dalla famiglia, poi la vita trascorre tra questa madre che si occupa da sola del figlio e della sua crescita, mentre il marito stringe una relazione che si consolida nel tempo con la donna per la quale perse la testa e l’equilibrio emotivo come reazione al bisogno di libertà dal suo matrimonio.

Dopo oltre 35 anni e inaspettatamente per tutti loro, avviene qualcosa che riporta le due parti: gli ex coniugi di nuovo sotto allo stesso tetto, quello stesso in cui avvenne l’atto violento molti anni prima.

Il figlio di questa coppia, Paolo, ha sempre avuto non solo un ruolo fondamentale nella vita della madre, ma anche di responsabilità diventando ben presto l’uomo di casa, anche quando era solo un’adolescente lui sentiva di essere il capo famiglia, un punto di riferimento consolidato per la mamma.

Quando il padre inaspettatamente torna nella vita di Marina, lui è preoccupato, forse perché come si evincerà nel corso della terapia, inizia a sentire un vuoto dentro di lui dovuto alla perdita del suo trono di uomo protettore  da sempre al fianco di sua madre.

Un epilogo, se vogliamo, insolito quello di questa famiglia, perché nella maggior parte dei casi dove sono riscontrate violenze sulle donne i casi sono due: o la donna soccombe e non denuncia, a volte fino a rischiare il femminicidio, oppure le violenze vengono fermate dalla legge e la coppia separata per sempre.

 

Terapia cognitivo-comportamentale migliorata (CBT-E) a distanza, per disturbi alimentari, durante la pandemia da COVID-19

Rivolgendo il focus attentivo su una psicoterapia disturbo-specifica come la Terapia Cognitivo-Comportamentale Migliorata (Enhanced Cognitive Behaviour Therapy; CBT-E) per disturbi alimentari (DA), fondata su un protocollo evidence-based (Fairburn, 2010), la ricerca scientifica fornisce dati confortanti in merito alle procedure di somministrazione a distanza (Massa, 2020).

 

Il contesto pandemico di lockdown, introdotto dai governi a seguito della diffusione del Coronavirus (COVID- 19), ha inevitabilmente stravolto il setting della psicoterapia, inducendo terapeuti e pazienti a ricorrere a modalità di conduzione alternative, da remoto.

Un conseguente interrogativo, trasversale a ciascun orientamento psicoterapico, concerne i possibili cambiamenti sull’esito del trattamento; a seguito del mutamento del setting a distanza. Quest’ultimo, per la prima volta nella storia della psicoterapia, da fattore psicoterapico specifico per eccellenza subisce una conversione a fattore aspecifico, comune a ciascun trattamento (Luborsky, Singer & Luborsky 1975); in quanto ciascun orientamento è stato indotto ad implementare nuove strategie per riprodurre il più fedelmente possibile il colloquio clinico vis à vis, in presenza.

Rivolgendo il focus attentivo su una psicoterapia disturbo-specifica come la Terapia Cognitivo-Comportamentale Migliorata (Enhanced Cognitive Behaviour Therapy; CBT-E) per disturbi alimentari (DA), fondata su un protocollo evidence-based (Fairburn, 2010), la ricerca scientifica fornisce dati confortanti in merito alle procedure di somministrazione a distanza (Massa, 2020). In un breve lasso di tempo di emergenza sanitaria gli enti clinici, che erogano questa terapia specifica, si sono trovati costretti a modificare forzatamente le usuali procedure dettate dal protocollo di riferimento; senza avere la possibilità e le tempistiche idonee per testarne l’efficacia e correndo, dunque, il rischio di innescare conseguenze avverse e iatrogene; non in linea con i principi focali del trattamento. I capisaldi che definiscono il modello teorico e clinico della CBT-E sono, infatti, i seguenti: l’impostazione transdiagnostica (psicopatologia condivisa ed evolvente del DA: il nucleo psicopatologico è in medesimo in ogni manifestazione fenomenologica del disturbo; Fairburn, Cooper, Shafran, 2003), il ruolo attivo del paziente nel trattamento, la flessibilità e soprattutto l’individualizzazione del trattamento caso-specifica per affrontare le esigenze del singolo paziente (Dalle Grave, 2018).

Nonostante l’ipotetico rischio iniziale, secondo cui tali linee guida e obiettivi terapeutici sarebbero potuti essere impattati dalle limitazioni della modalità online, i risultati si sono rivelati positivamente sorprendenti; in termini di efficacia clinica riscontrata. Il ruolo collaborativo del paziente è stato paradossalmente esacerbato dalla modalità a distanza, in quanto in molti casi si è massimizzata la percezione di responsabilizzazione verso l’aderenza al trattamento; innescando un maggiore ingaggio e motivazione al cambiamento (Massa, 2020). Un primo fattore, apparentemente non sostanziale, che ha garantito un maggior beneficio nella modalità a distanza, è stato la possibilità di non dover ricorrere all’obbligo di utilizzare le mascherine anti-covid, imprescindibili invece nella comunicazione vis à vis; le quali limitano notevolmente la comunicazione verbale e non verbale; inficiando il potere espressivo della mimica facciale. Un aspetto che, invece, è rimasto invariato è stato la condivisione della formulazione personalizzata del caso clinico, resa condivisibile da piattaforme di video-call come Zoom, che permettono la condivisione di lavagne virtuali che il terapeuta può utilizzare come strumento terapeutico, in sostituzione al tradizionale formato cartaceo.

In merito ad uno degli aspetti più delicati del trattamento, la misurazione condivisa del peso, i terapeuti hanno optato nell’eseguirla durante una video-chiamata e nel far riportare in itinere il valore sul grafico, sempre in modalità condivisa; in modo tale da non lasciare il paziente da solo in una fase così critica del percorso e poter affrontare sul momento le possibili difficoltà emotive connesse. Altri vantaggi, di natura pratica, che sono emersi da questa nuova modalità, riguardano la possibilità di limitare i costi e le tempistiche impiegate dai pazienti per seguire il trattamento: come ad esempio i costi e i tempi del viaggio per recarsi in struttura; oltre che permettere maggiore agilità per le supervisioni cliniche, attraverso la partecipazione attiva del supervisore durante tutti i momenti più significativi del trattamento (sedute, tavole rotonde e riunioni d’équipe settimanali). Dopo aver citato tutti gli inaspettati vantaggi esperiti da questa modalità alternativa, risulta opportuno sottolineare anche i possibili limiti annessi e soprattutto il fatto che tali vantaggi non sono ugualmente riscontrabili in ciascun paziente. È, infatti, emerso che non tutti i pazienti sono in ugual modo versatili alle procedure a distanza: alcuni, ad esempio, presentano scarsa dimestichezza con le piattaforme tecnologiche, innescando un effetto percepito opposto rispetto a coloro che hanno esperito maggior ingaggio al trattamento. All’interno di questa casistica rientrano i pazienti che pre-pandemia presentavano già scarsi livelli di aderenza al trattamento; i quali, a seguito di queste limitazioni, hanno riscontrato un ulteriore calo di motivazione e ingaggio terapeutico.

Questi risultati corroborano ulteriormente l’importanza dell’istanza nucleare della CBT: delineare un trattamento ad hoc “cucito su misura” sulle esigenze del singolo paziente, valutato nella sua singolarità, e non sulla base di una generica casistica media espressa dai dati statistici (Dalle Grave, Calugi, Conti, Doll & Fairburn, 2013). Questi risultati preliminari, nonostante siano stati generati da un contesto deleterio di estrema emergenza sanitaria, hanno fornito delle solide basi per stimolare ricercatori e clinici a postulare soluzioni alternative, non preventivate, che possono solamente arricchire e apportare conoscenza allo stato dell’arte della psicoterapia in generale e della CBT-E nello specifico (Murphy, Calugi, Cooper & Dalle Grave, 2020).

 

“Peggio di niente” dei Ministri: l’esasperazione da lockdown

Peggio di niente, il nuovo singolo dei Ministri, band milanese, uscito in streaming il 16 aprile è un vero e proprio urlo esasperato che descrive alla perfezione il disagio portato dall’attuale pandemia.

 

Le molteplici influenze della musica sulla nostra vita quotidiana sono ormai assodate. Secondo la letteratura, infatti, essa ha una funzione autoregolatoria, facilita il processo comunicativo, viene intenzionalmente utilizzata come strategia di coping, favorisce l’introspezione e ha un effetto empatico e rassicurante (Miranda & Claes, 2009; Van den Tol & Edwards, 2015; Balestrieri, 2021). Come sottolineato da Balestrieri, la musica veicola un messaggio nel quale ci identifichiamo, permettendo così di sentirci capiti e sostenuti. E allora quale miglior alleato per affrontare lo stress da pandemia?

Arriva in soccorso Peggio di niente, il nuovo singolo dei Ministri, band milanese composta da Federico Dragogna, Michele Esposito e Davide Autelitano, uscito in streaming il 16 aprile: un vero e proprio urlo esasperato che descrive alla perfezione il disagio portato dall’attuale pandemia.

La band spiega così il significato della canzone:

bambini soli davanti a uno schermo, famiglie che non si possono abbracciare, code infinite per un pasto caldo, persone che non possono più lavorare: il nulla in cui questa pandemia ci ha precipitato è senza confini. E pensavamo non potesse esserci di peggio, finché non abbiamo visto qualcuno mettere gli uni contro gli altri – in un crescendo di diffidenza, sospetto e accuse. Quello sì, è stato peggio di niente. 

Proviamo allora ad analizzare alcune delle tematiche che emergono dal brano, alla luce della ormai vasta letteratura sul Covid-19 e sui fenomeni sociali ad esso associati.

La percezione del tempo durante la pandemia

E poi improvvisamente
Ho visto il tempo volare, ho visto il tempo cadere
Ho visto buio per sempre

Kurt Lewin in Prospettiva temporale e stato d’animo (1942) considerava il tempo come una finestra attraverso la quale vediamo le nostre vite dispiegarsi, costruire le nostre identità, identificare le nostre ambizioni.

Il senso del tempo è essenziale per il benessere, specialmente per sopperire alle avversità, mentre una sua distorsione è spesso legata a diverse patologie come depressione e disturbo da stress post-traumatico (Gil & Droit-Volet, 2012; Oyanadel & Buela-Casal, 2014).

La pandemia da Covid-19, minaccia invisibile e vero e proprio trauma collettivo, ha cambiato drasticamente il nostro modo di vivere, sostituendo un illusorio futuro controllabile e certo (Taylor e Armor, 1996) con uno del tutto insicuro, incerto, ansiogeno. Siamo dunque improvvisamente passati da una vita frenetica, scandita da impegni e sicura ad una vita simile ad una istantanea, dove tutto si ferma e viene stravolto. In realtà, se per alcuni il tempo sembra essersi fermato per altri invece ha premuto l’acceleratore. Uno studio inglese ha cercato di individuare i fattori che influiscono sulla percezione del tempo e ha dimostrato che oltre l’80% dei partecipanti ha sperimentato una distorsione del tempo durante il lockdown (Ogden, 2020). I fattori legati alla percezione temporale sembrano essere l’età, lo stress, il carico di lavoro e la soddisfazione per i livelli di interazione sociale mantenuti. La sensazione di rallentamento è risultata essere associata all’aumentare di età e stress e alla riduzione del carico di lavoro e della qualità delle interazioni. Dunque, gli individui più giovani e più socialmente soddisfatti hanno maggiori probabilità di sperimentare una accelerazione del tempo durante la quarantena.

L’isolamento sociale nei più piccoli

E poi improvvisamente
Ho visto Nina volare, ho visto Nina cadere
Non ho visto più niente

I Ministri nel ritornello citano Ho visto Nina volare di De André, immaginando la bambina del celebre brano cadere dall’altalena, ponendo fine alla naturale spensieratezza tipica del gioco a cui ciascun bambino dovrebbe abbandonarsi.

La band, dunque, fa emergere le disastrose conseguenze della pandemia sui più piccoli. La scuola, intesa come spazio sociale, come luogo centrale per il processo di socializzazione secondaria, viene chiusa e sostituita con una modalità di apprendimento a distanza.

Le restrizioni legate al Covid-19 hanno indubbiamente effetti negativi sullo sviluppo psicosociale dei ragazzi poiché viene a mancare il contatto col gruppo dei pari, elemento cruciale (Erikson, 1968).

I giovani mostrano una riduzione della qualità della vita e del benessere psicologico e un aumento del rischio di sviluppare sintomi depressivi, ansia, disturbi del sonno, disturbi dell’alimentazione e difficoltà a gestire lo stress (Ravens-Sieberer et al., 2020). A ciò si aggiungono le preoccupazioni dei genitori, divisi tra lo smart working e l’istruzione dei figli, e un notevole aumento di casi di violenza domestica (Fegert et al., 2020).

Non “andrà tutto bene”

E poi improvvisamente
Ho visto gente normale calpestare altra gente
Ed era peggio di niente
E poi improvvisamente
Ho visto gente speciale calpestare altra gente
Ed era peggio di niente
E poi improvvisamente
Ho visto gente bestiale calpestare altra gente
Ed era peggio di niente

Infine, viene presa in considerazione l’influenza della tensione generata dall’emergenza sanitaria nei comportamenti individuali e di gruppo, escludendo totalmente la possibilità di un liete fine.

Nella confusione generalizzata, in cui le regole cambiano di giorno in giorno, la paura prende il sopravvento, cresce l’ostilità tra gli individui e diffidenza e sospetto sono sempre più dietro l’angolo. Le misure di contenimento hanno sicuramente determinato una profonda trasformazione culturale e una rarefazione delle relazioni umane. La “bestialità” diviene la norma e ogni occasione è buona per prevaricare sull’altro.

Uno scenario, questo, che ricorda molto la folla di Le Bon (1970). Secondo l’autore è proprio nei periodi di disintegrazione e declino sociale che la folla domina,

i lettori dei giornali, gli ascoltatori dei programmi radiofonici, i membri di un partito, anche se non fisicamente riuniti in un gruppo, tendono a divenire, dal punto di vista psicologico, una folla, a cadere in uno stato di eccitazione in cui ogni tentativo di ragionamento logico ha il solo effetto di stimolare impulsi bestiali.

L’individuo, dunque,

nella folla è barbaro. Possiede la spontaneità, la violenza, la ferocia e anche l’entusiasmo e l’eroismo degli esseri primitivi. (Le Bon, 1970)

Inoltre, la psicologia sociale ha spiegato molto bene come, all’interno del gruppo, possano manifestarsi fenomeni di disimpegno morale, un processo cognitivo che permette di disattivare i controlli morali interni permettendo all’individuo di compiere azioni immorali eludendo sentimenti di autocondanna (Bandura et al., 1996).

 

Peggio di niente – Ascolta il brano:

 

Quando la depressione è nascosta: la pseudodemenza depressiva

Il quadro sintomatologico della Pseudodemenza depressiva può indurre alla formulazione di erronee diagnosi di demenza, nel caso di pazienti anziani depressi, con aumento del rischio di proporre trattamenti inadeguati rispetto all’effettiva condizione patologica.

 

La Pseudodemenza depressiva: un’introduzione

La “Pseudodemenza depressiva”, termine coniato da Kiloh nel 1961, è una condizione psicopatologica descritta per la prima volta da Mairet nel 1883, nella monografia “Démence Mélancolique”, come una condizione caratterizzata dal sopravvenire di gravi deficit cognitivi come conseguenza di un disturbo dell’umore (riportato da Berrios, 1985). Mentre inizialmente si riteneva che essa avesse origine organica, ad oggi si sa che la Pseudodemenza si differenzia dalle classiche forme dementigene proprio in quanto, al contrario di quest’ultime, non deriva da alterazioni cerebrali puramente organiche, ma si manifesta come esito di disturbi funzionali (Fischer, P., 1996). Tra le caratteristiche più frequenti di tale condizione va annoverata l’insorgenza di deficit mnemonici e di anomalie del pensiero: tale quadro sintomatologico può indurre alla formulazione di erronee diagnosi di demenza, nel caso di pazienti anziani depressi, con aumento del rischio di proporre trattamenti inadeguati rispetto all’effettiva condizione patologica (Fischer, 1996). Il modo migliore per evitare errori consiste, secondo Fischer, nell’indagare -nel caso di soggetti anziani con sintomi cognitivi-, l’eventuale presenza di manifestazioni depressive, quali l’abbassamento del tono umorale e il rallentamento psicomotorio, al fine di favorire la diagnosi differenziale. Tuttavia, sarebbe un errore ridurre ad una concezione di esclusione reciproca le forme depressive e dementigene: vi sono, infatti, evidenze scientifiche che suggeriscono come tali condizioni possano coesistere, sia perché la depressione costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo del morbo di Alzheimer, sia perché la sintomatologia dell’umore insorge frequentemente in conseguenza delle diagnosi di demenza, arrivando anche a peggiorarne la sintomatologia.

Valutazioni e diagnosi differenziale

Nel corso degli anni, vari autori hanno analizzato le differenze tra tali disturbi. Nel 1988, un gruppo di studiosi americani ha messo a confronto 14 pazienti adulti affetti da Pseudodemenza depressiva con 28 pazienti con una forma dementigena primaria degenerativa, utilizzando la scala di valutazione della demenza MMSE (Mini-Mental State Examination, Folstein et al., 1975) e il questionario HRSD (Hamilton Rating Scale for Depression, Hamilton, 1960). Dall’analisi dei dati è emerso che mentre i soggetti con Pseudodemenza presentavano, prima del trattamento, una maggior tendenza ad avere risvegli precoci, maggiori livelli d’ansia e un maggior impatto sulla libido, i soggetti con demenza mostravano maggiori livelli di disorientamento spazio-temporale e difficoltà nel prendersi cura di se stessi e a vestirsi (Reynolds et al., 1988); tali risultati suggeriscono l’esistenza di una quantificabile divergenza sintomatologica tra i due disturbi, successivamente approfondita ed esposta nel dettaglio in un articolo del 2019 (Pozzoli et al., 2019), secondo il quale i casi di demenza organica sono caratterizzati da un esordio insidioso con lenta progressione dei sintomi, un’anamnesi psichiatrica solitamente priva di eventi psicopatologici rilevanti, un basso livello di alterazioni vegetative e da una forte compromissione attentiva; nel caso delle pseudodemenze, invece, si assiste ad un esordio patologico ben definito nel tempo, con rapida escalation sintomatologica, accompagnato da una storia personale di manifestazioni psicopatologiche, dal mantenimento di livelli attentivi relativamente nella norma e dalla comparsa di sintomi vegetativi, relativi ad alterazioni dell’alimentazione, del sonno e dei livelli di energia personale.

Un aiuto, ai fini della diagnosi differenziale, può giungere anche dalle metodiche di neuro-indagine: un interessante studio del 1989 (Brenner et al., 1989), condotto con EEG, ha permesso di riscontrare notevoli differenze nei tracciati relativi all’attività elettrica cerebrale di soggetti con demenza di Alzheimer e pazienti affetti da Pseudodemenza depressiva. I pazienti con condizione pseudodementigena o con Depressione Maggiore, pur presentando -rispetto ai soggetti di controllo- un rallentamento dei ritmi EEG nelle aree cerebrali posteriori, mostravano nel complesso degli indici EEG nella norma o con alterazioni poco significative. Nei soggetti affetti da Alzheimer, con o senza manifestazioni depressive secondarie, furono invece rilevate significative alterazioni nel tracciato EEG, che risultavano molto gravi in 1/3 dei casi. Uno studio più recente (Dolek et al., 2012), ha riproposto tale confronto avvalendosi dell’utilizzo della risonanza magnetica; i risultati evidenziano delle differenze cerebrali a livello ippocampale: la riduzione volumetrica dell’Ippocampo, rispetto ai soggetti di controllo, è risultata essere mediamente del 42% nei soggetti con Alzheimer, del 21% nei soggetti con demenza vascolare e del 13% nei soggetti con Pseudodemenza depressiva, una differenza rilevante che potrebbe facilitare il processo diagnostico.

Trattamento

Sebbene il trattamento psicofarmacologico dei sintomi dell’umore sia frequentemente somministrato sia nel caso delle demenze organiche, sia nelle forme pseudodepressive, i risultati ottenibili tramite esso subiscono notevoli variazioni tra le due condizioni. Nelle demenze, il trattamento con antidepressivi ha lo scopo di ridurre i sintomi dell’umore spesso presenti in comorbidità con le condizioni dementigene, anche se alcuni studi suggeriscono che in tali pazienti i suddetti trattamenti psicofarmacologici abbiano un’efficacia limitata, (Bains et al., 2002; Enache et al., 2011), al contrario dei trattamenti psicologici, risultati più efficaci nel lenire i sintomi depressivi ed ansiosi dei soggetti con demenza organica (Orgeta et al., 2015): in particolare, in uno studio condotto a Taipei (Chiang et al., 2010), la “Terapia della Reminescenza” si è rivelata utile per migliorare sia il tono dell’umore dei pazienti anziani istituzionalizzati, sia le loro abilità di socializzazione. Nei soggetti affetti da pseudodemenza, invece, il trattamento farmacologico antidepressivo è fondamentale, in quanto esso conduce alla riduzione dei sintomi neurocognitivi indotti dalla patologia depressiva: un recente studio (Connors et al., 2019) ha riportato un buon margine di miglioramento, nel trattamento dei pazienti pseudo depressi, ottenibile sia mediante la somministrazione farmacologica, sia mediante la terapia elettroconvulsivante (ECT).

Conclusioni

L’esiguità della letteratura sulla Pseudodemenza costituisce lo specchio del limitato interesse scientifico per l’argomento, cui conseguono delle lacunose conoscenze su tale condizione, che conducono ad una frequente sotto-diagnosi del disturbo stesso e ad una mancanza di cure adeguate (Kiosses, 2012); tale fenomeno può essere attribuito alla maggior preoccupazione per le possibili patologie organiche caratterizzanti la terza età, che porta a prestare una minor attenzione alle manifestazioni di disagio psichico in tale fase della vita. Purtroppo invece, insieme alle gravi patologie organiche, la depressione costituisce una delle principali cause di suicidio nella popolazione anziana (Waern et al., 2003): il 71-95% dei suicidi, tra i soggetti di età superiore ai 75 anni, si verifica come conseguenza di disturbi mentali, specialmente di tipo depressivo (O’Connell et al., 2004). L’auspicio per il futuro è che tale condizione possa essere maggiormente indagata, al fine di favorire l’individuazione degli strumenti necessari per diagnosi e cure adeguate e precoci, che potrebbero renderne più favorevole la prognosi.

 

La Scienza della terapia di coppia e della famiglia (2021) di John e Julie Gottman – Recensione del libro

Julie Schwartz Gottman e John M. Gottman, autori di La Scienza della terapia di coppia e della famiglia, sono una coppia di terapeuti sul lavoro e nella vita. Da più di vent’anni si occupano di terapia di coppia presso il Gottman Institute di Seattle, da loro fondato.

 

Julie Schwartz Gottman, oltre alla direzione del Gottman Institute, svolge l’attività clinica e di supervisione. Grazie alle sue esperienze sul campo è una consulente esperta su tematiche quali matrimonio, molestie sessuali, violenza domestica e problemi legati alla genitorialità.

John M. Gottman ha studiato per 45 anni le coppie cercando di capire quali siano gli indicatori della stabilità di un matrimonio e quali, invece, possano considerarsi i fattori che predicono un divorzio. Ha all’attivo centinaia di pubblicazioni e oltre 40 libri sul tema pubblicati in tutto il mondo. John è professore emerito di Psicologia presso l’Università di Washington dove continua i suoi studi sulle coppie.

Una nuova teoria dei sistemi

Dopo quasi mezzo secolo di ricerca sulla coppia e sui nuclei familiari, i coniugi Gottman hanno aggiornato la teoria dei sistemi, sviluppata dal biologo Ludwig von Bertalanffy nel 1968.

L’intento è stato sviluppare una teoria in grado di spiegare quali fattori permettono il buon funzionamento di una coppia e quali, di contro, sono quelli che predicono la rottura, per poterli modificare efficacemente.

Uno dei concetti cardine al centro delle loro ricerche è l’omeostasi familiare, una sorta di termostato che misura il rapporto tra scambi positivi e negativi nei nuclei familiari.

La teoria si traduce, quindi, anche in nuovi obiettivi terapeutici come gli interventi per modificare gli affetti negativi durante un conflitto. Riuscire a “riparare” durante una discussione permette, infatti, di prevenire l’escalation di critiche, ritiro sulla difensiva, disprezzo, ostruzionismo. Questi ultimi sono chiamati i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse che sono predittori della fine della relazione nel 94% dei casi.

In La scienza della terapia di coppia e della famiglia la prima parte illustra la teoria generale dei sistemi e dell’evoluzione nel tempo della terapia della famiglia. Vengono, poi, approfonditi i concetti alla base del trattamento messo appunto dai Gottman, come la fiducia e l’impegno, ma anche la teoria polivagale di Porges alla base di numerosi studi condotti su migliaia di coppie durante gli anni.

Il modello matematico della relazione

In quest’ultimo testo sulla terapia di coppia, i Gottman spiegano come applicare i modelli matematici ed economici allo studio delle coppie, in modo da prevedere la stabilità di coppia e familiare; così “la teoria dei giochi” di Von Neumann, torna utile per spiegare che nelle relazioni gli scambi comportamentali sono associati alle ricompense, mentre le statistiche di Richardson sulle guerre, possono essere sviluppate in formule algebriche che spiegano l’andamento durante le liti nella coppia.

A partire dal calcolo di determinati parametri di cambiamento, è, infatti, possibile simulare un intervento personalizzato per la coppia. Sul sito del Gottman Institute è possibile per i professionisti, anche, consultare e compilare batterie di test che strutturano e guidano l’intervento clinico.

Come la variabile bambino modifica il sistema

L’ultima parte dell’opera riguarda l’arrivo di un bambino e la genesi della famiglia non più diadica. Grazie alle ricerche longitudinali è stato possibile identificare quali fattori relazionali influenzano il bambino e il suo sviluppo emotivo e relazionale. Intuitivamente è chiaro a tutti che genitori innamorati e soddisfatti della relazione crescono figli più felici, ma Julie & John sono stati in grado di dimostrare quali ingredienti sono fondamentali per la triade, uno su tutti: l’allenamento emotivo.

Questo testo può essere considerato come un’ integrazione del precedente manuale pubblicato in Italia nel 2017, Dieci Principi per una terapia di coppia efficace, edito da Raffaello Cortina. Sempre bilanciando teoria, pratica ed esempi clinici, costituisce una guida utile per i professionisti che lavorano con le coppie e le famiglie.

 

Il connettoma: soffio di vita tra phisis e psichè

Potremmo definire il connettoma umano come “la descrizione complessiva della rete strutturale di elementi e connessioni che formano il cervello umano” (Sporns, 2011).

 

In matematica la teoria del caos è lo studio, attraverso modelli propri della fisica, dei sistemi dinamici che esibiscono una sensibilità esponenziale rispetto alle condizioni iniziali. I sistemi di questo tipo, pur governati da leggi deterministiche, sono in grado di esibire un’empirica causalità nell’evoluzione delle variabili dinamiche. Questo comportamento casuale è solo apparente, dato che si manifesta nel momento in cui si confronta l’andamento temporale asintotico di due sistemi con configurazioni iniziali arbitrariamente simili tra loro.

Difficilmente pensabile non vuol dire casuale o caotico… anche il caos ha le sue regole e la mente umana è un profondo buco nero di caos ordinato.

“Come sono organizzati i neuroni del nostro cervello per percepire, pensare ed eseguire altre prodezze mentali? La risposta è nel connettoma (…) la totalità delle connessioni tra i neuroni di un sistema nervoso” (Seung, 2012).

Metaforicamente Sebastian Seung, in premessa al suo libro “Il connettoma. La nuova geografia della mente”, paragona la complessità cerebrale ad una fitta foresta di alberi intricati, sostenendo come la sfida delle neuroscienze sia comprendere tale complessità, a partire dalla conoscenza dei singoli rami, ovvero i neuroni.

A seguire lo stesso autore definisce il connettoma quale “…architettura che ci differenzia come individui anche nel caso dei gemelli identici, perché i connettomi si modificano nel corso della vita a seconda delle esperienze e degli accadimenti che per ognuno sono diversi…” (Seung, 2012). Seguendo tale approccio, potremmo affermare che, se da un punto di vista genetico il genoma definisce la nostra essenza in potenza in quanto normalmente non modificabile, il connettoma estrinseca il pensiero umano nel suo evolversi, in quanto inserito in un contesto che alimenta la persona, definendola attraverso un’omeostasi dinamica all’interno di un quadro sistemico.

La relazione fra uomo e ambiente, percipiente e percepito acquista nuova forza in quella determinazione prospettica che intende quel “soffio di vita” che rende ogni persona “individuo” ancor più correlata all’ambiente di riferimento.

Con ciò, se già le scienze sociali ed antropologiche avevano dimostrato il nostro essere figli del tempo e dello spazio, oggi tale concetto potrà essere notevolmente rafforzato ed approfondito attraverso la connettomica che, quale trait d’union tra Physis e Psychè, sta perseguendo l’idea secondo la quale la coscienza, risiederebbe non tanto nella fisicità della mente, quanto nelle connessioni neurali viste quale “respiro vitale” costituente la mappa universale dell’animo umano”.

Comprendere il connettoma significherebbe capire le basi biologiche del comportamento, memoria, attenzione, carattere; vorrebbe dire decodificare le psicopatologie da un punto di vista eziologico prevenendole od intervenendo su queste, mezzo attivazione o disattivazione dei circuiti neurali interessati.

Viviamo in una realtà che è organizzata come una rete complessa di schemi interconnessi, all’interno di una società che crea legami a vari livelli: comunitari, personali, familiari. Ognuno di noi fa parte di questa rete, costituendone un punto, un nodo. La rete è elemento comune dell’esperienza umana in termini soggettivi e collettivi, ma non solo… l’individuo è biologicamente costituito da reti: il Sistema Nervoso Centrale e Periferico, l’organizzazione delle proteine, il genoma, possono essere considerati quali sistemi di rete complessi che regolano l’esistenza e la possibilità di vita di ogni essere umano.

Lo studio e la conoscenza di questi sistemi diventano quindi importanti per la comprensione della vita stessa.

Tale organizzazione sistemica, nonché topografica, può essere analizzata attraverso la scienza delle reti, una disciplina che riprende appunto la matematica, la fisica e l’informatica.

Per poter studiare il cervello servendosi delle reti è quanto mai indispensabile comprendere quali tipi di connettività possono essere presi in considerazione e matematicamente analizzati.

Vi sono tre diversi tipi di connettività, collegate ad altrettante tecniche di immagine visiva (Sporns, 2011):

  • La connettività strutturale ha come scopo quello di descrivere le connessioni a livello anatomico che legano i vari elementi neurali. Per l’analisi e lo studio del cervello questi elementi neurali fanno riferimento a diverse entità che variano in funzione della scala utilizzata per la loro analisi. Questo primo tipo di connettività può essere considerata sia per lo studio di neuroni singoli, sia tra gruppi di neuroni, ma offre anche la possibilità di effettuare un’analisi fra regioni diverse della corteccia attraverso le loro connessioni. È possibile interpretare la connettività strutturale come un’analisi del movimento spazio-temporale delle connessioni cerebrali, in quanto si limita ad indagare la modalità attraverso cui avviene il passaggio delle informazioni nonché l’efficienza di tale scambio, ma non approfondisce le motivazioni sottostanti a tali collegamenti. Da un punto di vista delle indagini strumentali, è possibile vagliare questa tipologia di connettività attraverso tecniche di tracciamento delle vie neurali: Imaging a Risonanza Magnetica e la DTI Risonanza Magnetica con Tensore di Diffusione.
  • La connettività funzionale ha come obiettivo quello di descrivere come avviene l’appaiamento dinamico fra diverse regioni cerebrali e come questo possa essere spiegato nei termini di relazione esistente fra le aree interessate. La connettività funzionale può essere indagata attraverso l’EEG e la Risonanza Magnetica Funzionale al fine di ricavare la sequenza temporale degli eventi analizzati e comprendere l’intensità delle correlazioni fra diverse regioni cerebrali e l’eventuale deviazione dall’ipotesi di indipendenza statistica tra i segnali che vengono a generarsi in queste aree, spesso molto distanti fra loro. La presenza di una correlazione significativa fra aree indica come vi sia una forma di dipendenza seppur per un tempo brevissimo, rendendo complesso lo studio di questo tipo di connettività (Sporns, 2013). Benché vi possa essere un legame correlazionale, questo non implica necessariamente un rapporto di causalità diretta tra l’attivazione dei vari elementi neurali.
  • La connettività efficace è descrivibile quale volontà di indagare il legame causale delle connessioni neurali. Rappresenta un passo avanti rispetto alle caratteristiche indagate dalla precedente. Questo tipo di connettività può essere analizzata attraverso strumenti che permettono di registrarne i segnali, dimostrandone la dipendenza dalla dimensione temporale. Anche per questo tipo di connettività, come per quella funzionale, è importante tenere in considerazione la cinematica esistente fra le varie connessioni, proprio perché l’obiettivo è quello di spiegare cause e frequenza statistica attraverso cui questi modelli si presentano.

Questi tre tipi di connettività sono fra loro sì indipendenti, ma con caratteristiche anatomiche e funzionali estremamente correlate fra loro. Non è possibile ad esempio studiare la strutturale tralasciando la componente fisiologica o le caratteristiche biofisiche del segnale, in quanto hanno il compito di modulare il parametro più importante che questi tipi di connettività valutano ovvero il tempo in cui avvengono le relazioni fra elementi neurali e la permanenza di tale legame, così come la registrazione delle correlazioni dell’attività elettrica devono per forza appoggiarsi ad un substrato di connessioni anatomiche.

Le neuroscienze si sono impegnate ed occupate di comprendere come avvengano i meccanismi neurobiologici nella mente, intendendo il sistema cerebrale un sistema complesso. Il punto di partenza è “l’emergenza” intesa quale prodotto dell’interazione fra processi cerebrali, ambiente dell’organismo e ambiente, a partire proprio dalle caratteristiche del cervello inteso come sistema complesso, dinamico e plastico (Gagliasso, 2013).

“La mente è il prodotto delle interazioni fra esperienze interpersonali e strutture funzioni del cervello (…) emerge da processi che modulano flussi di energia e di informazioni all’interno del cervello e fra cervelli diversi (…) si forma all’interno delle interazioni fra processi neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali. Lo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali dipende dalle modalità con cui le esperienze, e in particolare quelle legate a relazioni interpersonali, influenzano e modellano i programmi di maturazione geneticamente determinati dal sistema nervoso. In altre parole, le “connessioni” umane plasmano lo sviluppo delle connessioni nervose che danno origine alla mente” (Siegel, 2001).

Non è possibile scindere il corpo dalla mente e la mente dal corpo e questi dall’ambiente in cui si trovano: “gran parte della fisiologia cerebrale non è né hardware, né software. Piuttosto è una fisiologia umida, come fluidi, ormoni, trasmettitori, sostanze biochimiche ed endocrine- tutte cose per le quali il cervello risulta essenzialmente connesso con il corpo intero e con il resto della fisiologia nella sua globalità” (Dbru, 2010).

In questa visione due sono gli elementi imprescindibili che definiscono l’attuale concezione del sistema cognitivo: la differenziazione e l’integrazione. Entrambe caratterizzano gli stati di coscienza, la loro variabilità e nel contempo la visione unitaria della mente nel suo complesso (Ogawa, 1997). Le basi neurali della coscienza e dei sistemi cognitivi si rintracciano nei complessi processi sistemici (Edelman & Tononi, 2000) in grado di plasmare, modificare e definire la fisionomia ed il funzionamento cerebrale. Plasticità, variabilità e dimensione relazionale, sono dunque le caratteristiche essenziali e definitorie del cervello, che consentono il reciproco scambio ed adattamento con l’ambiente.

Ridondanza, complessità, plasticità, dimensione storica ed individuale si pongono come elementi centrali di una visione del cervello e della sua modalità di funzionamento epigenetica e stocastica (Edelman & Gally, 2001). Ogni cervello è unico per struttura dinamica, in quanto le mappe e le connessioni sono continuamente in evoluzione, come esito delle nostre percezioni, di come ci rapportiamo agli eventi, delle relazioni che instauriamo, dei movimenti che facciamo, delle esperienze che viviamo (Meares, 2012).

Variabilità, differenziazione ed integrazione definiscono le proprietà del cervello e della coscienza, che muta costantemente le connessioni neurali del sistema nervoso: il nostro connettoma (Siegel, 2001).

Richiamando il pensiero di William James (James & Preti, 2004) sul carattere mutevole ed unitario della coscienza e del suo incessante flusso, gli scienziati impegnati nello studio del connettoma ne vedono il substrato neurobiologico: “…ogni fiume ha un letto, e senza questo solco nella terra l’acqua non saprebbe in quale direzione scorrere. Ecco… dal momento che il connettoma definisce le vie di scorrimento dell’attività neurale, possiamo considerarlo il letto del fiume della coscienza. È una metafora molto potente. Nel lungo periodo, come l’acqua del fiume plasma lentamente il letto, così l’attività neurale cambia il connettoma” (Seung, 2013).

Non è possibile la comprensione del funzionamento cerebrale al netto della comprensione topografica del complesso sistema di reti e connessioni al servizio della conoscenza “funzionale” del cervello stesso. Si è ribadita precedentemente l’interdipendenza reciproca sussistente fra connettività strutturale e funzionale e, benché la mappatura topografica sia assolutamente indispensabile per scopi di natura semantica, non è altresì possibile operare un tale tipo di riduzionismo “geografico”. Ciò che si evidenzia come necessario, deve essere complementare alla comprensione di come avviene a livello cerebrale il passaggio delle informazioni. Per questo, lo studio dinamico delle reti cerebrali può essere uno strumento fondamentale per ricavarne modelli funzionali. In questo senso la connettività strutturale sembra essere il tipo di connettività più adeguata agli scopi dichiarati.

Potremmo definire il connettoma umano come “la descrizione complessiva della rete strutturale di elementi e connessioni che formano il cervello umano” (Sporns, 2011).

Le peculiarità del connettoma sono intrinseche alla definizione stessa e fanno riferimento in primis alla mappatura topografica del complesso network neurale. La dimostrazione è evidente e “tangibile” attraverso gli strumenti di neuroimaging che contribuiscono a convalidare e validare l’esistenza stessa del connettoma; in secundis, alla caratteristica descrittiva delle connessioni cerebrali, che supera l’aspetto meramente “riproduttivo” dell’architettura cerebrale, per arrivare ad una profonda esplicitazione dell’organizzazione multiscala, caratteristica di questo sistema.

Ulteriore caratteristica definitoria è legata alla proprietà descrittiva del connettoma che permette di evidenziare una rete, non limitandosi alla sola raccolta di dati; proprio tal punto giustifica il coinvolgimento e matematico e della scienza delle reti, precedentemente citate.

Il legame tra fisica, statistica e neuroscienze, permette al connettoma di configurarsi come il fondamento teorico dello studio della funzionalità del cervello, in stretta relazione alla sua struttura (Sporns, 2011).

Ad oggi non vi è la conoscenza completa del connettoma di più organismi viventi, se non del nematode Caenorhabditis elegans, un verme delle dimensioni di un millimetro circa, il cui habitat è il sottosuolo di zone con un clima temperato.

Il caso “C. elegans” è particolare in quanto la mappatura delle connessioni neuronali è disponibile su singoli neuroni e sinapsi, il cui numero è decisamente inferiore se paragonato a quello di altri organismi superiori. La matrice di adiacenza ottenuta è formata da 279 nodi (ovvero neuroni) connessi fra loro da 6393 sinapsi, 890 giunzioni elettriche e 1410 giunzioni neuromuscolari, per un totale complessivo di 8693 archi, niente se si pensa ai numeri del cervello umano. Questa matrice è il risultato dell’analisi di migliaia di sezioni in cui il verme è stato scomposto dello spessore medio di 50nm analizzate tramite microscopio elettronico (Withe et al., 1986). Attraverso questa tecnica è stato possibile conoscere in maniera precisa la lunghezza dei collegamenti sinaptici e soprattutto la posizione spaziale dei neuroni. Vi è stata anche la possibilità di studiare la relazione fra l’organizzazione topografica della rete e lo spazio fisico in cui è immersa.

L’analisi suddetta ha permesso di evidenziare un’eccedenza di caratteristiche non randomiche, in quanto si è osservato come le connessioni avvengono soprattutto fra neuroni spazialmente vicini, sfruttando un principio di “risparmio” nella lunghezza degli archi. Questo risultato è dimostrabile osservando l’alta densità di connessioni disposta sulla diagonale principale della matrice di adiacenza, costruita rispettando l’ordine dei nodi in cui i rispettivi neuroni sono disposti lungo l’asse longitudinale di elegans.

La conseguenza di questa predisposizione ad instaurare legami con neuroni spazialmente vicini è legata a molteplici cause, rispetto alle reti random analoghe: nel sistema nervoso del verme sono prevalenti quelli a forma triangolare, espressione di una forte tendenza ad ottimizzare la connettività locale, a scapito di quella globale. Ulteriore conseguenza è l’effetto “Little word” della rete neuronale di elegans (Duncan et al., 2003), calcolato attraverso un coefficiente di clustering C di gran lunga superiore ed un cammino caratteristico simile in confronto a rispettivi valori per una rete random equivalente avente funzione di test.

Sono chiaramente da porre in evidenza i limiti del caso C. elegans che non possiede nemmeno un cervello vero e proprio, in quanto, da un punto di vista morfologico, è composto da neuroni non centralizzati ma sparsi lungo tutto il corpo, meglio definito quale anello neurale, aventi nome, forma e posizione definita e caratteristica. L’intera mappatura di elegans è stata inizialmente denominata Diagramma di cablaggio e solo successivamente connettoma, implicando un forte richiamo alla genomica e non all’ingegneria (Seung, 2012), potendo infine definirlo quale totalità delle connessioni tra i neuroni di un sistema nervoso.

Da queste riflessioni ed evidenze, potremmo rappresentare, parimenti ad elegans, il nostro cervello come una fitta rete di connessioni complesse. Il quesito logico e conseguente è il pensare se da questa fitta rete fosse possibile scoprire qualcosa in più di noi come esseri umani o ancora meglio, se fosse possibile scoprire qualcosa in più di noi come singoli individui caratterizzati da una esclusiva unicità.

La risposta avanzata da Seung a queste domande è sicuramente affermativa (Seung, 2012). Egli infatti sostiene che la prima vera possibilità offerta dalla conoscenza del connettoma abbia a che fare con la nostra unicità. Sappiamo che esistono differenze individuali anche molto marcate e che dipendono da fattori fenotipici e genotipici, ma il connettoma riesce a spingersi ancora più in là essendo un marcatore individuale che ci consente di cogliere la pluralità delle differenze e nel contempo l’unicità delle nostre caratteristiche: perché siamo più introversi dei nostri amici, più curiosi, meno attenti, più aggressivi e meno tolleranti ecc ecc.

La comprensione del connettoma potrebbe rivelarsi utilissima in molti campi: dalla medicina alla sociologia, dalla fisica alla psicologia. Pensiamo ad esempio quanto potrebbe essere utile per lo studio dei disturbi mentali, che potrebbero essere trattati attraverso la riparazione dello stesso. Per estensione potremmo affermare che ogni cambiamento che avviene dentro di noi, è un cambiamento del nostro connettoma.

Ad oggi ancora non si sa come le esperienze della vita siano in grado di produrre un cambiamento nel connettoma, ma vi sono significative ipotesi su come ripesatura, riconnessione, ricablaggio e rigenerazione, siano estremamente influenzate dalle nostre esperienze e dai geni stessi.

Quindi la connettomica sarebbe quella branca delle scienze psicologiche, complementare alla genomica, ma con l’elemento in più costituito dalla pluralità delle esperienze.

Se questi assunti fossero corretti la sfida delle neuroscienze sarebbe quella di conoscere il potenziale delle quattro “R”: ripesatura, ricablaggio, riconnessione e rigenerazione. Da questa conoscenza poi, si dovrà essere in grado non solo di riconoscere i cambiamenti ai quali tendiamo, ma anche i giusti mezzi per poterli raggiungere. Gli studi neuro scientifici avranno così la possibilità di comprendere ed intervenire su disturbi complessi come quelli mentali, guarire le conseguenze derivanti da traumi cerebrali ed in generale migliorare la qualità della vita delle persone.

Certo, al di là del potenziale di questo traguardo, non bisogna farsi prendere da facili entusiasmi. Studiare il connettoma di elegans ha richiesto molti anni e anche un grande investimento economico, ed elegans ha solo 7000 connessioni, il cervello umano è 100 miliardi di volte più grande e il suo numero di connessioni un milione di volte superiore alle lettere del genoma (Tang et al., 2012).

 

La mente in musica. Come reagisce il cervello all’ascolto della musica (2021) di Annalisa Balestrieri – Recensione del libro

Lo studio del rapporto tra mente e musica lascia ancora molto spazio a indagini e approfondimenti. La mente in musica di Annalisa Balestrieri nasce proprio come tentativo di aprire questo tema, farsi domande, dare qualche risposta e stimolare il lettore a esplorare un territorio affascinante e ancora poco conosciuto.

 

La musica è parte integrante della nostra vita da sempre, e lo è stata fin dalle origini dell’uomo. La musica ci accompagna nelle nostre giornate, ci emoziona, ci rilassa quando siamo in tensione o ci dà la carica quando dobbiamo affrontare un compito impegnativo, ci fa sentire parte di qualcosa di più grande di noi, ci aiuta a dare un nome e un senso ai nostri sentimenti, facendoci rispecchiare nel testo di una canzone o in una melodia, riporta alla nostra mente ricordi, persone.

Ma come? Come avviene tutto questo? Come reagisce il nostro cervello alla musica, come ne viene influenzato?

Il libro di Annalisa Balestrieri nasce proprio come tentativo di aprire questo tema, farsi domande, dare qualche risposta e stimolare il lettore a esplorare un territorio affascinante e ancora poco conosciuto. Lo studio del rapporto tra mente e musica, infatti, lascia ancora molto spazio alle indagini e agli approfondimenti, tanto che l’autrice più che a lavori già pubblicati, sceglie come spunti di partenza per il suo lavoro ricerche universitarie, opinioni e riflessioni di chi con la musica ci lavora, chi la compone, la suona o la insegna, e di chi invece la vive da ascoltatore, offrendo al lettore diversi spunti di riflessione.

L’autrice ci accompagna in un viaggio nel tempo a riscoprire le origini della musica. Le prime tracce della presenza della musica nelle vite dei nostri antenati risalgono al Paleolitico, intorno a 40000 anni fa, e probabilmente il suo scopo era legato alla sopravvivenza. Rudimentali strumenti musicali, oltre alla voce e ad improvvisate percussioni, servivano verosimilmente per riprodurre suoni della natura, versi animali, per accompagnare riti propiziatori e favorire un senso di appartenenza al gruppo sociale.

Comunicare con i propri simili è da sempre un’esigenza per l’uomo. Il linguaggio verbale consente di trasmettere informazioni complesse e precise, ma per comprendersi è necessario condividere lo stesso codice, conoscere quello specifico linguaggio.

La musica, invece, è una forma di comunicazione prettamente emotiva, universale, che può arrivare a chiunque, anche a chi non conosce lo specifico codice musicale. Il messaggio emotivo che il compositore o l’esecutore (che possono non coincidere) vuole trasmettere deve, infatti, essere comprensibile a tutti gli ascoltatori. In un confronto con il musicista Massimo Priviero, a cui è legata da un’amicizia decennale, l’autrice si sofferma proprio ad analizzare la comunicazione emotiva nella musica, mettendone in evidenza le caratteristiche e le specificità.

Certamente un musicista ascolterà la musica in modo molto diverso da un profano, prestando attenzione anche ad aspetti tecnici della composizione e dell’esecuzione. Anche il contesto storico e culturale ha un’influenza sul modo in cui una musica viene vissuta e decodificata, ma certe emozioni sono universali e tutti noi siamo in grado di differenziare una musica triste da una allegra, e questo tende a produrre in noi un’attivazione emotiva congruente.

Le caratteristiche di un suono, la sua altezza, la durata, l’intensità e il timbro, concorrono a creare uno specifico effetto espressivo: una musica lenta sarà per esempio più triste di una musica con un ritmo più veloce. In questo modo la musica comunica emozioni traducendo in suoni i sentimenti di chi la compone o la esegue.

A questo proposito l’autrice riporta un interessante ricerca condotta dall’Università di Berkeley in cui è stata valutata la risposta emotiva di 2500 soggetti americani e cinesi all’ascolto di migliaia di canzoni di generi diversi. Da questa indagine ne è emerso un elenco di 13 emozioni universali su cui tutti i soggetti erano concordi, rilevando un’attivazione emotiva simile in corrispondenza di una stessa canzone. Quello che cambiava era il valore attribuito all’emozione percepita: questa valutazione, infatti, risentiva maggiormente dell’influenza culturale.

Generi diversi di musica, dunque, hanno effetti diversi sul nostro cervello, influenzando non solo le emozioni ma anche l’attivazione neurofisiologica: una musica rilassante, ad esempio, ridurrà i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, mentre il crescendo di un’orchestra farà aumentare il battito cardiaco e la pressione sanguigna.

Con il cambiare dell’umore può cambiare anche la nostra autovalutazione: brani che trasmettono sensazioni e pensieri positivi possono incidere sulla nostra autostima. Ascoltare un brano ripetutamente ci fa entrare in empatia, ci fa immedesimare con chi esegue il brano, portandoci a fare nostro quanto esprime. La musica è un potente mezzo di comunicazione e ha un certo peso anche nell’orientare i nostri pensieri e il nostro comportamento, con tutto ciò che ne consegue.

Ma se è vero che entro certi limiti è possibile individuare una sorta di “grammatica universale delle emozioni in musica”, quali sono i fattori che influiscono sulle nostre reazioni emotive all’ascolto di un brano?

Da un lato ci sono fattori intrinseci alla musica stessa. Il ritmo, per esempio: dal momento che i battiti del nostro cuore sono mediamente di 60-80 battiti al minuto, un brano con un ritmo inferiore a 60bpm risulterà rilassante, mentre sarà attivante se supererà gli 80bpm. Un ritmo molto lento, al di sotto dei 30bpm, tenderà poi a indurre tristezza.

Il variare dell’intensità di un brano indurrà una variazione emotiva. Tendenzialmente una musica sarà tanto più gradevole quanto più semplice sarà il rapporto fra le note che la compongono.

Il bagaglio culturale e le esperienze personali, inoltre, hanno una grande rilevanza del farci attivare emozioni specifiche: la musica evoca ricordi, persone, periodi della nostra vita, con tutte le emozioni che portano con sé. Ascoltare la nostra musica preferita di quando eravamo adolescenti ci catapulta in quegli anni, a quello che vivevamo allora, ai nostri amori, ai nostri drammi personali.

Una musica può essere ripetutamente associata ad eventi positivi o negativi, dando così origine ad un condizionamento, oppure ad immagini visive che a loro volta evocano emozioni correlate.

Anche la struttura di un brano suscita emozioni diverse a seconda che confermi, oppure smentisca l’aspettativa che implicitamente ci formiamo durante l’ascolto rispetto a come il brano proseguirà. Un brano jazz, ad esempio, tenderà a generare soluzioni più spiazzanti e sorprendenti di un brano pop, in cui solitamente troviamo conferma alle nostre attese.

Ma perché ci piace un certo genere di musica e non un altro? Perché ciò che piace a una persona può essere insopportabile per un’altra?

Certo, il contesto sociale e culturale hanno un ruolo in questo, così come le esperienze vissute.

Attraverso la scelta musicale manifestiamo anche il modo in cui vogliamo essere visti, identificati dagli altri, è un modo di comunicare qualcosa di noi stessi.

Pensiamo ad esempio agli adolescenti: per loro la musica è un elemento essenziale della vita, è l’occasione per confrontarsi con le proprie emozioni, così difficili da gestire e decifrare a quell’età, dà voce ai pensieri ed aiuta a fare chiarezza nei loro sentimenti. E’ per questo che (anche da adulti) quando siamo tristi preferiamo ascoltare musica triste: ci fa sentire capiti, meno soli, ci permette di guardare a quella stessa situazione, a quell’emozione, da un altro punto di vista, contenendola senza esserne travolti. Ma la musica per gli adolescenti è anche un modo per sentirsi parte di un gruppo, condividendo gli stessi gusti, influenzati dalle mode del momento alla ricerca della propria identità, cercando appartenenza sociale in contrapposizione alla cultura dei propri genitori. Allo stesso tempo strumento di conoscenza e manifesto di se stessi. Ed è proprio alle memorie emotive di quegli anni che sovente si lega la nostra musica preferita, perché lì inizia a formarsi la nostra personalità.

Anche la personalità, infatti, sembra avere un ruolo importante nel farci apprezzare un tipo di musica o un altro. Una ricerca dell’università di Cambridge riportata nel volume ha studiato proprio il rapporto fra musica e personalità, individuando categorie di persone e tratti di personalità a cui sono associati gusti musicali specifici.

Il libro si conclude con una panoramica sui diversi utilizzi che la musica può avere nelle nostre vite, come il marketing sensoriale, che mira a stimolare i nostri sensi per influenzare i nostri comportamenti e i nostri acquisti, oppure le colonne sonore di varie forme d’arte, come film o mostre.

Lo sport è un ambito in cui la musica trova ampio spazio di applicazione: pensiamo agli atleti che creano specifiche e studiatissime playlist per migliorare la propria capacità di concentrazione, la motivazione, il controllo dei movimenti, darsi la carica prima di una gara, sincronizzarsi con i compagni. E’ tanta la potenza della musica nel condizionare la performance di un atleta che, in alcune discipline, è vietata durante le gare perché considerata doping!

Anche la scienza ha recentemente beneficiato di un contributo dalla musica insolito ed stupefacente: un gruppo di ricerca del Massachusetts Institute of Technology ha elaborato un procedimento capace di tradurre in musica la sequenza del legame di amminoacidi che compongono le proteine che compongono le spine della “corona” del Coronavirus. In questo modo è possibile studiare la natura del virus e il suo funzionamento in un modo più immediato ed intuitivo rispetto ai metodi tradizionali.

Il libro di Annalisa Balestrieri ci accompagna in un viaggio alla scoperta del rapporto complesso e affascinante fra la nostra mente e la musica, esplorando insieme al lettore alcune fra le infinite ed affascinanti potenzialità della musica come comunicazione, come fonte di benessere, strumento di autoregolazione, conoscenza ed espressione di noi stessi.

 

Paura di volare: come nasce e da cosa è alimentata?

La paura di volare è una fobia comune, che colpisce la popolazione generale con un tasso di prevalenza nel corso della vita del 13,2% (Curtis et al., 1998).

 

Finora, la maggior parte della ricerca su questo tipo di paura irrazionale si è concentrata sul suo trattamento, in modo da permettere a chi ne è affetto di poterla gestire con successo con l’aiuto di professionisti del settore. Seppur la maggior parte delle psicoterapie siano incentrate sulle teorie comportamentiste del condizionamento, inteso come forma di apprendimento basata sull’associazione appresa fra stimolo e risposta, la ricerca sul condizionamento come via per l’acquisizione della fobia del volo è scarsa. Per questo motivo, Shindler e collaboratori hanno scelto di svolgere uno studio su come si può generare la fobia del volo (Shindler et al., 2016).

Il team di Shindler ha quindi ipotizzato che il condizionamento classico giocasse un ruolo chiave nell’acquisizione della paura di utilizzare l’aereo. Gli sperimentatori hanno indagato il ruolo dell’apprendimento vicario, cioè mediante altri soggetti con la stessa fobia, dell’apprendimento informativo attraverso i media e di eventi di vita stressanti al momento dell’insorgenza della fobia nella generazione di questa problematica (Shindler et al., 2016).

Sono stati intervistati trenta pazienti con fobia del volo e trenta controlli sani, aventi pari età, sesso e livello di istruzione. Per ciò che concerne i test, gli sperimentatori hanno utilizzato il Mini-DIPS, l’Anxiety Disorders Interview Schedule e la Fear-of-Flying History Interview (Margraf, 1994; DiNardo & Barlow, 1988; Shindler et al., 2016).

Le analisi statistiche svolte a partire dai risultati dei test, hanno riportato che il 50% dei pazienti con fobia del volo e il 53% dei controlli sani avevano esperito eventi spaventosi in volo. Non c’era pertanto una differenza significativa tra i due campioni. Basandoci su questo risultato, è possibile osservare come non ci fosse un maggior numero di eventi di condizionamento classico (episodi spaventosi precedenti) per i pazienti con fobia del volo.

Non c’era nemmeno una differenza significativa tra i due campioni per l’apprendimento vicario. Infatti, il 37% dei pazienti con fobia del volo e il 23% dei controlli sani si sono sentiti influenzati dall’apprendimento del modello da altre persone.

L’influenza dell’apprendimento informativo attraverso i media era, invece, significativamente più alta per il campione clinico (70%) che per il gruppo di controllo (37%). In questo studio, infatti, la maggior parte dei pazienti con fobia del volo si è sentita influenzata dalle informazioni dei media su incidenti e cadute. Tra questi, gran parte ha esplicitato di aver sentito l’influenza delle informazioni dei media solo dopo l’insorgenza della fobia, e non come processo di apprendimento scatenante.

Infine, un dato interessante suggerisce che i pazienti con fobia del volo avevano sperimentato eventi di vita significativamente più stressanti nel periodo della loro esperienza di volo spaventoso (60%) rispetto ai controlli sani (19%).

In conclusione, da questa ricerca è emerso che il condizionamento classico può essere visto come uno dei modi in cui si acquisisce la fobia del volo per circa la metà dei pazienti che avevano questa problematica. I momenti di paura in un aereo sono comuni, ma gli autori hanno sottolineato che questo tipo di condizionamento ha luogo solo se un individuo è particolarmente vulnerabile all’acquisizione di un disturbo fobico in quel momento, e ciò potrebbe essere correlato a maggiori livelli di stress effettivi (Shindler et al., 2016). Ad ogni modo, lo studio ha descritto come l’apprendimento informazionale abbia potuto rinforzare la fobia del volo dopo che questa era già emersa, sottolineandone la rilevanza.

 

L’asessualità: sempre più spesso se ne sente parlare, ma sappiamo davvero che cos’è?

Negli anni è cresciuto il numero di studi riguardanti l’asessualità e sono aumentati i differenti modi di concepire questo tema. Cerchiamo, quindi, di fare chiarezza, capire che cos’è e conoscere meglio l’asessualità.

 

Il termine “asessualità” fu riportato per la prima volta da Alfred Kinsey e colleghi nel 1948 attraverso l’inclusione di una categoria “X” alla nota scala Kinsey per la valutazione dell’orientamento sessuale, rappresentante l’insieme delle persone che non presentano attrazioni sessuali (Kinsey & Pomeroy, 1948). Successivamente l’asessualità fu descritta nel 1980 da Storms, il quale, attraverso il suo modello bidimensionale dell’orientamento sessuale, definì come gli individui asessuali si caratterizzano per la presenza di bassi livelli di eteroerotismo (attrazione per il sesso opposto) e bassi livelli di omoerotismo (attrazione per lo stesso sesso). Negli anni successivi l’asessualità ricevette ben poca attenzione accademica, fino a quando nel 2004 Bogaert non pubblicò i risultati di un’indagine su di un campione probabilistico inglese, in cui circa l’1% dei 18.000 rispondenti riportava la mancanza di attrazione sessuale.

Bogaert definì l’asessualità umana come la mancanza di attrazione sessuale verso qualcuno o qualcosa (Bogaert, 2004), specificando come l’assenza di sentimenti lussuriosi o inclinazioni sessuali verso gli altri debba avere una natura durevole o implicare una disposizione od orientamento stabile (Bogaert, 2015). Ma se la mancanza di attrazione sessuale è il comune denominatore che caratterizza le persone asessuali, ciò non significa che non vi siano differenze soggettive nel modo di vivere le relazioni, l’attrazione e l’arousal sessuale. Essere asessuali non significa infatti che le attività e i comportamenti sessuali siano assenti, né che vi sia una mancanza di desiderio sessuale in sé. Inoltre, l’essere asessuali non significa che vi sia una mancanza di attrazione romantica/affettiva verso le altre persone, ovvero non vuol dire che tutte le persone asessuali siano necessariamente aromantiche, dato che vi possono essere inclinazioni eteroromantiche, omoromantiche o biromantiche. Infine, la mancanza di attrazione sessuale non implica la mancanza di esperienze fisiologiche di arousal sessuale, dato che la capacità di lubrificazione vaginale e di erezione restano intatti (Bogaert, 2015).

La prevalenza di questo fenomeno non è ancora chiara data la mancanza di un consenso univoco sulla definizione di asessualità negli studi presenti in letteratura, ma le stime di ricerche recenti variano dallo 0.5% al 3.3% della popolazione ((Kinsey et al., 1948; Bogaert, 2004; Lucassen et al., 2011¸Hoglund, Jern, Sandnabba, & Santtila, 2014).

L’asessualità è stata concettualizzata in modi differenti nel corso del tempo e i vari inquadramenti del fenomeno la vedono o come un disturbo mentale, o come una parafilia, o come un disturbo del desiderio sessuale ipoattivo o come un orientamento sessuale unico. Di seguito verrà presentato un excursus delle varie definizioni.

Asessualità, neurodiversità e psicopatologia

Data la supposta centralità dell’attrazione sessuale come caratteristica fondamentale dell’essere umano, una delle domande che gli studiosi del fenomeno si sono posti è quella che indaga se l’asessualità sia o meno la manifestazione di una psicopatologia sottostante. Ci sono alcune evidenze che mettono in relazione l’asessualità con i disturbi dello spettro autistico. Gilmour, Schalomon e Smith ( 2012) riportano alti tassi di asessualità tra gli individui autistici, Ingudomnukul e colleghi affermano come il 17% delle donne con un disturbo dello spettro autistico riporta di essere asessuale o di non avere alcuna preferenza per nessuno dei due sessi (Ingudomnukul, Baron-Cohen,Wheelwright & Knickmeyer, 2007), mentre Chasin (2016) afferma come approssimativamente il 6 % degli uomini e delle donne asessuali riporta di non avere alcun interesse sessuale, così come di non identificarsi con nessun orientamento sessuale.

Gli individui asessuali secondo uno studio di Yule, Brotto e Gorzalka (2013) hanno una maggiore prevalenza di problemi di salute mentale e interpersonali, in particolare hanno più probabilità di riportare sintomi depressivi e ansiosi, nonché sintomi legati alla suicidalità rispetto agli individui non asessuali.

Uno studio di Brotto e colleghi del 2010 condotto su un ampio campione di donne e uomini che si auto-identificano come asessuali mostra come i livelli di depressione e di alessitimia siano comparabili a quelli della popolazione normativa, mentre si evidenziano alti tassi di ritiro sociale e di problemi interpersonali, così come la presenza di elevati tratti di personalità distante e socialmente inibita (Brotto, Knudson, Inskip, Rhodes & Erskine, 2010).

Questi risultati hanno portato gli autori a speculare sul fatto che gli individui asessuali potrebbero aver avuto problemi nell’attaccamento precoce in infanzia a causa di un temperamento evitante, i quali hanno poi portato allo sviluppo di un funzionamento sociale atipico e di problemi nelle relazioni intime nella vita adulta. In particolare gli autori si sono chiesti se gli individui asessuali presentino tratti corrispondenti ai disturbi di personalità del Cluster A del DSM-V, suggerendo come l’asessualità possa essere connessa al disturbo di personalità schizoide, caratterizzato da freddezza emotiva, mancanza di desiderio per le relazioni intime e da una limitata capacità di esprimere calore alle altre persone (American Psychiatric Association, 2013). Attraverso una serie di interviste qualitative condotte durante il follow-up dello studio su un sottogruppo di partecipanti si è evidenziato come la metà di questi riporti di possedere i tratti di personalità del disturbo schizoide (Brotto et al, 2010). Gli alti livelli di difficoltà interpersonale, di sintomi di ritiro sociale e l’elevata presenza di tratti di personalità inibiti ed evitanti riportati dagli individui asessuali nello studio di Yule e colleghi (2013) offrono sostegno all’ipotesi avanzata da Brotto e colleghi (2010), ma non è possibile arrivare a nessuna conclusione certa e l’argomento necessita di maggiori approfondimenti e studi futuri.

Nonostante le difficoltà e i problemi di natura mentale che gli individui asessuali possono presentare, è giusto ricordare come sia ragionevole concludere che l’asessualità non dovrebbe essere classificata né concettualizzata come un disturbo mentale o un sintomo di una condizione psichiatrica. È altresì possibile che i sintomi che riportano siano conseguenti la stigmatizzazione e la discriminazione deumanizzante che devono subire. È opinione dominante oggigiorno che il sesso sia un qualcosa di positivo, salutare e desiderabile e che non è possibile per un essere umano non provare attrazione sessuale. La pressione a conformarsi ad una norma sociale , il conflitto con le aspettative sociali e la percezione pubblica negativa dell’asessualità sono tutti fattori che possono generare distress, problemi mentali e difficoltà a relazionarsi con gli altri.

Asessualità e parafilie

Un’altra concettualizzazione che è stata proposta è quella che vede l’asessualità come una parafilia e a supporto di questa ipotesi è stata presa in considerazione l’attività masturbatoria, la cui grande variabilità dimostra come non tutti gli individui asessuali esibiscano una completa assenza di attività sessuale. È stata trovata l’evidenza per cui una percentuale significativa di individui asessuali si masturba (Bogaert, 2013; Brotto et al., 2010; Yule, Brotto & Gorzalka, 2014), sebbene con una frequenza inferiore rispetto alle persone non asessuali (Bogaert, 2013). L’esplorazione qualitativa inerente le motivazioni che portano alla masturbazione rivela che almeno alcuni individui asessuali la concepiscono come un atto fisiologico non relato a incentivi sessuali, necessario piuttosto a “ripulire l’impianto” (Brotto et al., 2010) o ad alleviare la tensione (Yule et al., 2014). D’altronde la presenza di masturbazione associata alle fantasie sessuali solleva la possibilità che vi sia un interesse sessuale di tipologia parafilica, ovvero un’attrazione sessuale inusuale, non diretta verso un partner. Bogaert (2012) suggerisce come le persone asessuali possano presentare un’inversione, un rovesciamento o una disconnessione tra il sé e il tipico target dell’interesse sessuale, come mostrato per esempio dall’automonosessualismo, in cui l’attrazione sessuale è rivolta verso se stessi piuttosto che verso gli altri (Bogaert, 2008). Bogaert (2006) però nota come la probabilità che un individuo asessuale sia parafilico sia molto bassa dato che la parafilia senza alcun interesse verso un essere umano è rara e visto che la sua prevalenza è più frequente nel genere maschile, mentre molti asessuali sono di genere femminile (Bogaert, 2004; 2013). Nonostante questo, è stata avanzata l’ipotesi per cui vi sia un tipo specifico di parafilia che può caratterizzare gli asessuali, ovvero l’autochorisessualismo, definito come una “sessualità senza identità”. In altre parole, non c’è un “Sé” o un “Io” o un’identità coinvolta nell’espressione sessuale e le fantasie vengono rivolte a scene ritraenti personaggi sconosciuti, fittizzi, generici. La mancanza di fantasie rivolte a persone conosciute, a un partner o a personaggi connessi alla vita reale dell’individuo asessuale è in linea con l’assenza di un’attrazione sessuale verso gli altri (Bogaert, 2012).

Asessualità e disturbo del desiderio sessuale ipoattivo

Una terza ipotesi avanzata per inquadrare l’asessualità è quella che la considera come un disturbo del desiderio sessuale ipoattivo (presente all’interno del DSM-5 nella categoria dei disturbi sessuali) e, a questo proposito, Brotto, Yule e Gorzalka (2014) hanno condotto uno studio il cui obiettivo era quello di esplorare le somiglianze e differenze tra soggetti asessuali e soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per il disturbo del desiderio sessuale ipoattivo. Entrambi i gruppi condividono una mancanza di desiderio rispetto al sesso, sebbene si differenzino in base alla mancanza, nei soggetti asessuali, di distress, ovvero di disagio clinicamente significativo, che permette al clinico di fare diagnosi del disturbo. Ad ogni modo, può essere presente angoscia nel soggetto asessuale, correlata all’impatto della propria asessualità sulla sua relazione, nel momento in cui il partner è un individuo sessuale. Un elemento importante riscontrato da Brotto et al. (2014) è che alla domanda “Accetteresti un trattamento efficace per migliorare il tuo desiderio sessuale?” i soggetti asessuali, unanimemente, hanno rifiutato questa opzione, cosa che invece non avviene nei soggetti con disfunzione del desiderio sessuale in quanto, essendo una condizione egodistonica, con più probabilità si recheranno da un terapeuta per chiedere aiuto. L’obiettivo nel trattamento per quest’ultima categoria di persone è aumentare il loro interesse per il sesso, mentre un soggetto asessuale, essendo egosintonico, in terapia è più probabile che trarrà vantaggio da un focus sull’autoaccettazione (Hinderliter, 2013), così come nel caso di soggetti omosessuali o sullo sviluppo di abilità utili per gestire le relazioni, specialmente se il loro partner è sessuale e motivato a fare sesso.

Dallo studio emerge inoltre come i soggetti asessuali hanno probabilità inferiori di essere in una relazione rispetto ai soggetti con disturbo da desiderio sessuale ipoattivo e presentano d’altro canto un numero inferiore di partner sessuali e/o romantici (Brotto et al., 2014). I risultati indicano che sebbene i due gruppi condividano un disinteresse simile per l’attività sessuale, questi possono essere differenziati anche dal fatto che le persone asessuali riferiscono di avere livelli di desiderio ancora più bassi rispetto a quelli dei soggetti con disfunzione del desiderio sessuale. Nonostante tra i criteri del DSM-5 del disturbo in questione sia presente il criterio assenza o riduzione di fantasie sessuali, l’85% dei soggetti con tale diagnosi riferisce di aver sperimentato fantasie sessuali e quasi la metà attualmente sperimenta una fantasia sessuale a settimana, mentre il 38% dei soggetti asessuali riferisce di non aver mai sperimentato una fantasia sessuale (il restante 62% riferisce di aver sperimentato fantasie sessuali, ma i ricercatori non hanno esplorato i contenuti di esse, utilizzando le ipotesi che Bogaert (2012) ha nel merito delle fantasie sessuali “senza identità”, descritte precedentemente); ciò è interessante in quanto si potrebbero differenziare i due gruppi anche in base alla frequenza delle fantasie sessuali. I bassi tassi delle attività sessuali dei soggetti asessuali porta i ricercatori ad affermare come la mancanza di attrazione sessuale si rifletta in una mancanza di comportamenti sessuali; il ridotto desiderio sessuale è riscontrabile anche nelle attività sessuali non genitali (il 7.9% non ha mai svolto alcun tipo di attività sessuali, come i baci e le carezze). Il gruppo di soggetti con disturbo da desiderio sessuale ipoattivo, invece, nonostante il disagio esperito, continuano ad impegnarsi in attività sessuali. Infatti, l’89.3% dei soggetti asessuali ha riferito che preferirebbe non avere rapporti sessuali, a differenza dei soggetti del secondo gruppo, che segnalano di avere desiderio di rapporti sessuali e di altri comportamenti sessuali. Un ulteriore elemento che differenzia i due gruppi è che a differenza dei soggetti con basso desiderio sessuale, i quali riferiscono una riduzione di esso da un precedente livello più alto di desiderio, i soggetti asessuali descrivono un modello più duraturo di assenza di attrazione o di desiderio sessuale, descrivendosi come se non potessero relazionarsi. Per quanto riguarda il livello di funzionamento psicologico, è stata riscontrata una differenza significativa nei sintomi depressivi nel campione asessuale, che mostra tassi più bassi rispetto ai soggetti con disfunzione del desiderio, i quali presentano tassi più alti, equivalenti a un livello lieve di disturbo depressivo. Gli autori concludono suggerendo che, visti i risultati e la letteratura esistente, l’asessualità è una categoria distinta da una disfunzione del desiderio sessuale, tant’è vero che nel DSM-5, sia per il disturbo del desiderio sessuale ipoattivo (nell’uomo) che per il disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale (nella donna) viene esplicitamente menzionato come criterio di esclusione per la diagnosi l’asessualità.

Asessualità come orientamento sessuale

L’ultima concettualizzazione proposta è quella che vede l’asessualità come un orientamento sessuale unico, al pari dell’orientamento etero e omosessuale. L’orientamento sessuale è definito come un meccanismo interno che dirige la disposizione sessuale e romantica di una persona verso persone del proprio sesso, del sesso opposto o entrambi. Se si prende come riferimento questa definizione, si potrebbe concludere che l’asessualità è in realtà assenza di orientamento sessuale.

Oliveira (2014), infatti, sottolinea come l’asessualità non possa essere concepita come un orientamento sessuale in quanto manca l’aspetto principale di quest’ultimo, ovvero l’interesse sessuale rivolto a un target. Le persone che si definiscono asessuali hanno sostenuto, tuttavia, che l’asessualità sia un orientamento sessuale unico e hanno fatto pressioni per la sua inclusione nelle società delle minoranze sessuali. Gazzola e Morrison (2012), a questo proposito, hanno cercato di riconcettualizzare il termine orientamento sessuale, definendolo come l’aspetto della propria identità personale e sociale che indica la presenza o l’assenza di target delle proprie attrazioni sessuali o comportamentali, per poter includere l’asessualità. Bogaert (2006) ritiene che sia l’attrazione sessuale, piuttosto che il comportamento sessuale a costituire il nucleo dell’orientamento sessuale. La scoperta che gli individui asessuali hanno riferito di sentirsi sempre in questo modo (Brotto, Knudson, Inskip, Rhodes, & Erskine, 2010; Van Houdenhove, Gijs, T’Sjoen, & Enzlin, 2015) suggerisce che la loro mancanza di attrazione sessuale può durare per tutta la vita ed è una caratteristica personale innata piuttosto che una reazione a un incontro (sessuale) sfavorevole; il fatto di non mettere in atto comportamenti sessuali risulta essere una tendenza comportamentale che confermerebbe il concetto di orientamento sessuale.

Una prova indiretta a sostegno dello sviluppo innato di un orientamento sessuale deriva dalla ricerca sui biomarcatori; Bogaert (2004, 2013) ha riferito che la tendenza delle donne asessuali ad avere caratteristiche mestruali atipiche rispetto alle donne sessuali, una statura più bassa e un numero maggiore di problemi di salute fornisce supporto per il ruolo delle prime influenze biologiche sull’asessualità. Ulteriori prove provengono da uno studio in cui donne e uomini asessuali avevano una probabilità significativamente maggiore di essere mancini (Yule, Brotto e Gorzalka, 2014b) e dato che la manualità è stata considerata un marker biologico associato allo sviluppo dell’orientamento sessuale (Lalumie`re, Blanchard, & Zucker, 2000), questi risultati forniscono delle prove indirette dell’asessualità come orientamento sessuale.

Seto (2012) ha suggerito tre criteri per capire se l’asessualità si adatta alla definizione di orientamento sessuale: l’età di esordio, il comportamento sessuale e romantico e la stabilità dell’attrazione nel tempo. Per quanto riguarda il primo criterio, i soggetti asessuali rivelano che, essendosi sempre sentiti in quel modo, negano l’esistenza di un evento significativo che ha innescato la perdita di attrazione sessuale; per quanto riguarda il secondo criterio, sebbene vi sia una grande variabilità nell’entità dell’attrazione romantica tra gli individui asessuali, c’è una relativa coerenza nella loro mancanza di motivazione per il sesso. Se questo è vero, allora l’asessualità soddisferebbe effettivamente questo criterio poiché la loro (relativa) mancanza di comportamento sessuale è parallela alla loro mancanza di attrazione sessuale. Per quanto riguarda l’ultimo criterio (la stabilità dell’attrazione nel tempo), ci sono stati studi (Cranney, 2016) che hanno segnalato una mancata continuità della non attrazione sessuale. L’asessualità, infatti, risulta essere la classe più eterogenea di orientamento sessuale e ciò fa pensare che ci possa essere una certa fluidità associata con l’identificazione dell’asessualità.

Nell’asessualità sono state riportate due categorie: le persone asessuali romantiche (che provano attrazione romantica, sentono interesse amoroso e desiderano mantenere una relazione amorevole con gli altri) e gli aromantici asessuali (che non hanno interesse a farsi coinvolgere romanticamente con qualcuno). Ci sono, inoltre, individui che si identificano come asessuali, ma che possono provare attrazione sessuale quando esiste già un contatto affettivo o emotivo e sono le persone demisessuali; oltre a questa categoria troviamo i soggetti gray-a, la cui attrazione sessuale può verificarsi in circostanze molto limitate, particolari e ancora non del tutto chiare. Nonostante queste due categorie si trovino in una posizione intermedia tra le persone asessuali e quelle sessuali, i soggetti gray-a e demisessuali si identificano come asessuali, a causa della bassa frequenza della loro attrazione sessuale. Proprio a causa di questa eterogeneità e fluidità, è probabile che il modo in cui si sperimenta la propria identità asessuata sia probabilmente diverso rispetto ad altri che rientrano nello stesso ombrello asessuale. Sta di fatto che, per fortuna, grazie alle spinte della comunità asessuale, c’è stata un’apertura da parte della ricerca a trovare prove per cercare di attenuare lo stigma nei confronti delle persone asessuali; le prove di correlazioni biologiche o predisposizioni all’asessualità sono, ad oggi, sufficienti per classificare l’asessualità come un orientamento sessuale unico.

Concludiamo ricordando come le persone asessuali si trovano ad affrontare una lotta per i propri diritti, in quanto anch’essi, come le persone che fanno parte della comunità LGBT, sono bersaglio di pregiudizi e discriminazione. Va sottolineato inoltre che la comunità asessuale risulta più invisibile rispetto alle altre minoranze sessuali, in quanto non rientrano nel movimento sociale per la legittimazione dell’orientamento sessuale e sono assenti dall’acronimo che caratterizza e determina il gruppo sopra citato. Perciò, facciamo presente che dal 2002, grazie a David Jayil, esiste la comunità AVEN (acronimo di Asexuality and Visibility Education Network – sito italiano https://it.asexuality.org/), la più grande e importante comunità asessuale al mondo (ad oggi conta circa 120 mila membri registrati in tutto il mondo), creata con l’obiettivo di promuovere discussioni sull’asessualità, stimolare la crescita e la visibilità della comunità asessuale e come risorsa informativa per le persone che si identificano come asessuali e per la comunità scientifica, per i media e per la società in generale.

 

Quando l’analista si ammala

E nelle stanze di analisi? Iniziavo così, interrogandomi su cosa fosse capitato ai nostri luoghi sicuri, a come avessero assunto forme e colori diversi senza la presenza dei pazienti, su come il covid li avesse trasformati, dalle abitudini di commiato, come la mano tesa a stringere le mani dei pazienti, alle operazioni di sanificazione con amuchinosimili, alle modifiche strutturali (una cosa per tutte: il telo di carta sul lettino)

 

Qualche giorno fa cercavo di scrivere qualcosa rispetto alla situazione pandemica. L’articolo, se così può definirsi, intendeva partire dagli effetti sul macro sociale e proseguire ad imbuto sul microcosmo famigliare e individuale e terminava con una riflessione su cosa accada nelle stanze di analisi, all’epoca del coronavirus. In questo paragrafo parlavo della malattia nella stanza di analisi del paziente, ma anche e soprattutto di quella dell’analista.

Alcuni colleghi leggendolo mi hanno suggerito di scrivere di più su questo tema, molto meno esplorato e, effettivamente, con bibliografia meno ampia.

Riprenderò dunque il pensiero espresso nell’articolo e proverò ad ampliare le riflessioni dalla malattia da coronavirus, di cui si parlava lì, alla malattia in generale, fino alla morte.

E nelle stanze di analisi? Iniziavo così, interrogandomi su cosa fosse capitato ai nostri luoghi sicuri, a come avessero assunto forme e colori diversi senza la presenza dei pazienti, su come il covid li avesse trasformati, dalle abitudini di commiato, come la mano tesa a stringere le mani dei pazienti, alle operazioni di sanificazione con amuchinosimili, alle modifiche strutturali (una cosa per tutte: il telo di carta sul lettino, mi sentivo un’osteopata!).

Le nostre stanze si sono svuotate della presenza fisica dei nostri pazienti, talvolta anche di quella dei terapeuti che hanno iniziato a lavorare da casa in questa nuova (per molti) modalità che prevede che la terapia sia fatta a distanza, che i vissuti siano comunicati non più con i sospiri leggeri, l’occhio che si inumidisce, il non verbale dei piedi che si agitano, coi silenzi preziosi di condivisione densa di emotività; che la presenza dell’ascolto silenzioso non passi più attraverso l’odore della presenza, l’atmosfera co-creata e condivisa, ma attraverso i vari dispositivi elettronici, dalle semplici telefonate, alle video chiamate, ai vari zoom, skype, meet, teams, etc… Dove il non verbale del volto spesso arriva dissincrono dalla voce, la linea salta, l’immagine si blocca.. quante sedute in momenti delicati sono state interrotte dai vari: ‘mi sente?’, ‘l’ho persa un attimo’, ‘sento la voce metallica’…

Questa modifica di setting, ha richiesto un ulteriore maggiore esercizio della nostra capacità di mantenere un setting interno rigoroso, mentre era necessaria una grande flessibilità di quello esterno e relazionale.

Personalmente, non mi sono facilmente adattata a questo nuovo stile di lavoro che per molti aspetti mi pare il fantasma delle nostre analisi e ho fatto non poca fatica a proporre, specie ad alcuni pazienti più gravi e fragili, le sedute a distanza, con il pensiero che per quanto sia la sola cosa che ora si possa fare, non sarebbe la cosa migliore per loro.

Oltre alla fatica -anche fisica e di concentrazione- che faccio a gestire ore di sedute a distanza.

Il periodo non sarà certamente ricordato per la grande tolleranza fraterna, e anche tra noi psicoanalisti non abbiamo fatto eccezione. Ci siamo molto allenati a criticare il modo del collega di gestire le terapie in presenza e a distanza, tra chi ritiene che sia al limite dell’antisocialità vedere i pazienti in presenza per la responsabilità sociale che abbiamo e dobbiamo trasmettere ai pazienti, e coloro che ritengono sia irresponsabile non vedere i pazienti in presenza, perché si trasmette paura, non fiducia ed altro del genere. I toni si sono anche scaldati in alcuni momenti e la rete ha ospitato talvolta scambi di opinione piuttosto accesi.

Come spesso accade, e per fortuna, la maggior parte di noi si situa tra queste posizioni estreme e considera le varie variabili personali e situazionali. Chiaramente, un collega 80enne non si sentirà sicuro a vedere pazienti in presenza, né probabilmente la maggior parte dei pazienti sentiranno di esporre il proprio terapeuta al rischio di essere contagiato. O ancora, chi lavora anche in strutture ospedaliere, comunitarie, o come nel mio caso in carcere, si è forse sentito di dover proteggere i propri pazienti perché si è soggetti particolarmente esposti e dunque potenzialmente più ‘pericolosi’.

E poi ci sono i casi in cui i pazienti si ammalano o, anche, i terapeuti si ammalano. Questo evento entra a gamba tesa nella relazione analitica. Pazienti che fino a quel momento avevano considerato il virus una brutta faccenda che però non riguardava nessuno di vicino, si sentono toccati. La malattia dell’analista attacca l’idea dell’indistruttibilità dello stesso e attiva angosce profonde di perdita e di abbandono. La costanza delle sedute salta, se il terapeuta non è in grado di lavorare, in un momento di confinamento che le rende così preziose anche per mantenere un senso del tempo che sembra aggrovigliarsi su sé stesso. La storia di ciascuno con le proprie trame traumatiche rappresenterà l’ordito che strutturerà i vissuti. A bocce ferme, questo sarà materiale prezioso per capire aspetti del sé profondi.

E all’analista malato che accade? Di nuovo, probabilmente, anche in questo caso la storia personale e professionale sarà una traccia impercettibile su cui si struttureranno vissuti, pensieri, emozioni. Sicuramente, potrebbe non essere semplice gestire il bisogno di tempo per sé, e la consapevolezza che questa malattia a differenza di altre è ora fonte di grande angoscia per tutti, pazienti compresi, e porterà a interrogarsi su quanto sia opportuno condividere coi pazienti e con quali pazienti.

Pazienti, medici e infermieri spesso finiscono con il fare l’indagine dei valori (febbre, saturazione, atti respiratori, terapia…) altri inviano messaggi per avere conferma che pur malato, il terapeuta sia ancora vivo. Una mia paziente, la cui prima analista morì in pochissimi mesi e data una sospensione della terapia in quel periodo, lei non venne avvisata fino a scoprire pochi giorni prima del decesso la malattia della analista e poi dai social della sua morte, ha avuto vissuti di grande angoscia, quando mi sono ammalata in primavera e ha dovuto verificare fossi viva ogni giorno e io ho avuto molto il pensiero di non dimenticarmi di rispondere ai suoi messaggi. E ho verificato più volte di avere inserito il suo telefono tra i contatti dei pazienti da avvisare consegnati a una collega e amica, laddove fosse accaduto qualcosa che mi avrebbe impedito di farlo personalmente.

Un’altra paziente la cui madre è stata operata più volte di cancro e che ha temuto di perderla, è entrata in uno stato di grande sofferenza e confusione all’idea di potermi perdere in un momento dell’analisi molto delicata per lei, e pur non osando mai disturbarmi con messaggi, si è dimenticata della sospensione delle sedute e mi ha telefonato, un lunedì al suo orario.

Chiaramente, è stato poi necessario rileggere questi vissuti e alcuni agiti, ripresa l’analisi, per poterli comprendere ed elaborare, con la disponibilità a volte faticosa di essere l’oggetto di cui si doveva parlare e talvolta il rappresentante persecutorio abbandonico.

L’analista che si ammala rappresenta in qualche modo la caduta dell’illusione, e una umanizzazione della persona analista (”allora anche lei è umana!”, esclama un paziente in analisi da 7 anni, dato che in questo tempo non avevo mai avuto nemmeno un’influenza), talvolta non semplice da tollerare per alcuni pazienti, soprattutto se accade quando l’analisi è in una fase iniziale.

Recentemente, un collega della SPI, Roberto Goisis ha scelto di pubblicare un articolo divulgativo sulla sua esperienza da paziente Covid. Lo fa in prima istanza su una testata piuttosto diffusa e condivide generosamente la sua esperienza da paziente, e da terapeuta paziente. Con tutte le difficoltà che la malattia dell’analista -in particolar modo ai tempi del covid- porta nella terapia. Tra le riflessioni che seguono questa pubblicazione, ne apre una interessante sulla vergogna. La vergogna per essersi ammalati, che credo si possa considerare sentimento abbastanza diffuso all’atto delle diagnosi. Ricordo numerosissime situazioni di persone che scopertesi ammalate, non volevano si sapesse ‘in giro’. Quando la malattia è una malattia contagiosa, forse questo elemento è ancora più marcato. La vergogna per essersi ammalati, ma anche quella di poter aver contagiato qualcuno che si confonde nella colpa, o di essere visti come più deboli.

La mia riflessione parte da qui, dalle considerazioni che seguono la malattia da Covid, ma cercherò di estendere la riflessione sulle malattie che costringono a convivere con esse per lunghi tempi, anni talvolta, e forse per fortuna, e che esitano nella morte. E proverò a ragionare intorno alla vecchiaia, e all’avvicinarsi alla fine dell’attività professionale. Cosa assai complessa in genere, ma il modo in cui noi definiamo la nostra professione ‘siamo psicoanalisti’ più che ‘facciamo gli psicoanalisti’, dice forse tutto rispetto alla difficoltà di rinunciare ad un aspetto identitario, talvolta preponderante nelle nostre vite.

Non è semplice fare un discorso organico, ma proverò a partire dalle analisi in corso coi miei pazienti, quando mi sono ammalata a marzo e come è stato poi riprendere, a distanza prima e in presenza poi. E su cosa accade nella mia mente di analista durante le interruzioni per malattia. Come si concilia la responsabilità verso i pazienti con il bisogno di essere paziente, e con la quota di regressione che questo porta fisiologicamente con sé? Mentre condividevo strategie (leggasi, difese) e fatica rispetto all’affrontare le settimane di malattia, una collega mi fa riflettere sull’impegno emotivo di occuparsi dei pazienti in un momento di difficoltà e malattia e di come questo, data anche la solitudine, potesse spingere a mettere da parte sé.

Nel ripensare a questi scambi mi pare di poter cogliere una sorta di risposta maniacale, nel mio cercare di pensare ai pazienti e nell’ ‘usarli’, come sostegno. Maniacalità e negazione che lottano contro l’idea della possibilità della morte, nonché la ribellione verso l’insulto narcisistico che la malattia mi riproponeva a distanza di pochi mesi.

Quando la malattia dell’analista mette in pericolo la vita e il terrore di morire è una delle possibilità che si sentono probabili, questioni etiche si intrecciano in maniera inestricabile con aspetti dolorosamente umani. La malattia fisica fa vibrare corde molto intime, che suscitano sentimenti d’inadeguatezza, di colpa, di vergogna e può attivare difese antiche pre-edipiche, di negazione, proiettive e narcisistiche. Secondo la comunità scientifica, in caso di malattie severe, si osserva generalmente il prevalere di condotte di negazione grandiosa, con tendenza all’isolamento e una certa chiusura narcisistica, in sintonia con quanto già affermava Freud (1914, 452).

Sempre Freud, l’anno dopo, prosegue: “Abbiamo mostrato una tendenza inconfondibile a mettere la morte da parte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo provato a farla tacere. Abbiamo anche un detto (in tedesco): ‘pensare di qualcosa come se fosse la morte’. Chiaro, come se fosse la propria morte. È impossibile immaginare la propria morte ed ogni volta che proviamo ad immaginarla, possiamo percepire che ancora stiamo in ruolo di spettatori. Quindi, la scuola psicoanalitica potrebbe avventurarsi nell’asserzione che nessuno crede nella propria morte o, dire lo stesso in altro modo, che incoscientemente ognuno di noi è convinto di essere immortale.” (S. Freud, 1915).” E ancora Eduard Klain, citando Kohut dice: “La capacità dell’uomo di riconoscere che la sua vita può finire e di agire conformemente a ciò potrebbe essere il successo psicologico più grande, anche se non si può escludere l’emergenza di un diniego velato nell’accettazione di transitorietà”

Gli oncologi in questo campo hanno prodotto ricerche molto interessanti, osservando che nei pazienti oncologici il livello di negazione della malattia è direttamente proporzionale al grado di severità della patologia: man a mano che ci si avvicina alla morte, la negazione diviene sempre più massiccia. Un’interessante ricerca del 2007, che analizzava tra le variabili anche la professione dei pazienti, rileva che l’atteggiamento difensivo descritto si riscontra anche nei medici e negli psicoterapeuti (Tamburini e Murru, 2007). Ancora, Vigneri ci dice che «il fenomeno clinico della negazione», nel caso di situazioni cliniche severe, “è talora talmente evidente e conclamato da potere essere considerato alla stregua di un’allucinazione negativa” (2010, 59).

Nel periodo di malattia, quando le sedute erano, dunque, sospese, ho cercato di consentire ai pazienti di avere la possibilità di scrivermi. Ho scelto di chiamare i pazienti quando la situazione ha reso chiaro che non avrei potuto lavorare i giorni successivi, e dire loro in pochissimi minuti, che ero ammalata e non ero in grado di lavorare. Ho deciso di chiamare perché un messaggio avrebbe potuto lasciare spazio a fantasie di maggiore gravità (non può nemmeno parlare) e perché volevo sentissero dalla mia voce la prudente fiducia nell’evoluzione. Ho ripetuto a tutti che ero seguita da un infettivologo e dal mio medico e che ero curata al meglio.

Non ho fatto video chiamate, e mi sono poi chiesta se sia stata una scelta adeguata per i pazienti, quanto sicuramente era per me che mi sentivo inguardabile. I pazienti tutti, o quasi, mi hanno affettuosamente fatto gli auguri, detto di non preoccuparmi e chiesto se potevano disturbarmi con dei messaggi. Ho detto a tutti di sentirsi liberi di scrivermi, e che avrei cercato di rispondere.

Alcuni hanno formulato domande più specifiche e ho scelto di dire sempre la verità, non sempre tutta.

Forse questo è stata una delle difficoltà maggiori. Quanto, cosa, a chi è opportuno dire? E quando? Appartengo al gruppo di analisti che ritiene fondamentale l’autenticità, e che considera le self disclosure, se ben adoperate, un utilissimo atto clinico. Ma sulla mia capacità di valutare la disclosure, in quei momenti ho avuto dubbi. Ho cercato di considerare la storia del paziente, con l’idea che la mia malattia in un momento difficile come era il primo confinamento era di per sé fonte di grande allarme, ma che sarebbe chiaramente stata ‘traumatica’ se avesse in qualche modo finito per ripercorrere il dedalo di sentieri traumatici di ognuno di loro e, viceversa, avrebbe potuto essere l’occasione per qualcosa di diverso. Questi pensieri in forma un po’ di bozza hanno attraversato la mia mente alle comunicazioni iniziali di malattia, ma anche quando decidevo se o come rispondere a messaggi (tanti) e telefonate (poche).

Il rientro al lavoro mi ha permesso di capire meglio cosa ha attraversato l’animo dei miei pazienti nei giorni di malattia. Alcuni hanno fatto appello a tutte le loro energie per dimostrarci che il lavoro fatto era sufficientemente solido da sopportare il terremoto. Altri hanno descritto solo mesi dopo, alla vigilia della separazione estiva, l’angoscia che li aveva attraversati. Una donna mi disse che si era chiesta moltissime volte se io fossi spaventata e se qualcuno mi stesse aiutando. Aveva assistito la mamma malata, che la aveva investita per lunghi periodi, del ruolo salvifico (e maledetto, aggiungo io) di essere la sola in grado di sostenerla, di farla mangiare, di farle fare la terapia quando voleva rinunciare…sentire di non poter fare nulla per me era stato terribile. L’idea che potessi entrare in ospedale e non uscirne più, la aveva paralizzata per notti, fino a che ‘per errore’ mi chiamò e sentì la mia voce. Temeva di non sentirla più. Invece così aveva verificato fossi Viva.

Un’altra paziente, in questa seconda malattia, mi dice ad un certo punto che per giorni si è arrovellata nel conflitto ‘scrivo per chiedere come sta’ o ‘non scrivo’. Arriva lei stessa a comprendere l’angoscia che si cela dietro l’idea del ‘disturbo o non disturbo?’, ‘è opportuno o non è opportuno?’ e che ha origine nell’angoscia terribile di sapere che io potessi stare molto male. O non risponderle per qualunque ragione, ma che lei in quel momento avrebbe attribuito a un peggioramento di salute. Questo ‘meglio non sapere’ ci ha permesso di tornare insieme su alcuni temi relazionali e situazioni raccontate dalla paziente dove lei si è totalmente ritirata dalla relazione per paura della perdita. La ‘nostra’ vicenda legata alla malattia ci ha permesso di esplorare emozioni prima non contattabili. E a lei di sperimentare di potere non fuggire totalmente (come aveva fatto con la fantasia che la seduta dopo la sospensione sarebbe stata annullata, da me o da lei).

Ho scelto di rispondere alle domande e ‘autorizzarli’ a farle. Un paziente, la cui madre morì suicida quando lui era ancora un bambino, dopo alcuni giorni mi scrisse dicendomi che non aveva osato scrivermi prima perché non voleva essere intrusivo e aveva chiaro quanto il nostro lavoro negli anni di analisi aveva dovuto lavorare sul bisogno di controllo estremo, ma ci teneva che sapessi che mi pensava. Sono stata colpita dalle fantasie mai emerse, o mai condivise, rispetto alla mia persona e alla vita personale. Alcuni mi hanno immaginata sposata con figli, altri sola, alcuni coloro che sono in analisi da abbastanza anni da aver conosciuto la mia seconda gravidanza, si chiedevano come potesse essere difficile per i bambini, identificandosi, talvolta nella me sola chiusa in camera, talaltre nei miei figli costretti alla distanza dalla loro mamma e, forse spaventati.

Non sono mancate, chiaramente, rabbia e delusione. Come quella espressa da G col suo grande bisogno di controllarmi e assoggettarmi. G è un giovane uomo con dei tratti perversi e un nucleo ambiguo rilevante e alla sospensione delle sedute in presenza, mi aveva chiesto di poter fare delle video chiamate (è un paziente sul lettino e coi paziente sul lettino, abbiamo in genere continuato a non vederci durante la seduta, se non per i saluti iniziali e finali o con una seduta video ogni tot). Io avevo accolto la richiesta senza analizzare abbastanza la domanda, credo perché mi sentivo in colpa per la modalità a distanza; così in breve, dopo la malattia, diventai una delle donne che guarda nei siti porno, una delle tante a video che fanno quello che lui dice di fare, che ci sono quando decide lui e che sono sostituibilissime.

Un elemento che è spesso stato presente nelle fantasie dei pazienti e nel racconto del loro vissuto è il dolore per non poter essere di aiuto. L’analista è necessariamente una persona da cui si dipende e da cui ci si sente aiutati. I pazienti conoscono la nostra volontà di stare con loro nei loro momenti peggiori attuali o passati e quando l’analista si ammala, invece, ci si sente quasi nessuno, di non poter fare nulla, se non evitare di aumentare il peso.

Viceversa, come mi ricorda una collega che ha da poco più di un anno affrontato un intervento e le cure per un carcinoma, il timore di aumentare il peso -ai pazienti, questa volta- è la ragione manifesta per cui alcuni colleghi decidono di non dire ai pazienti che sono ammalati.

La vergogna

“Io mi rimprovero qualche cosa – ho paura che altre persone lo sappiano; mi vergogno quindi di fronte agli altri.” Freud (1895, p. 53).

Lo scontro traumatico con la caducità e con il limite (De Masi, 2002) fa vacillare la struttura narcisistica del sé: come oltre un decennio fa dichiarava Robutti, recuperando un pensiero di Morrison, l’analista colpito da un’affezione a rischio di vita tende di solito a nasconderlo, perché ha paura che la notizia si diffonda, che i colleghi non gli diano più credito e che si riducano le sue opportunità d’impiego (2009).

Morrison scriveva pagine illuminanti su questo tema così delicato, come la vergogna dell’analista ammalato, sottolineando come questo sentimento possa derivare anche dal timore che la stessa comunità dei colleghi ti consideri inadeguato, non più affidabile, colpevole e ti precluda la partecipazione alla sua vita societaria (2008).

E poi c’è quella che qualcuno definisce vergogna controtransferale.

La vergogna nei confronti dell’analizzando può derivare dall’avvertirsi temporaneamente deficitario riguardo alle proprie competenze e alle funzioni di holding e di rêverie.

Credo questo affetto possa anche legarsi al timore di essere considerato un ‘oggetto deteriorato’: lo sguardo dell’analizzando può cogliere i segni della malattia del terapeuta, che si sente “scoperto” nella sua intima fragilità. Qui si torna al delicato tema della self-disclosure di cui parlerò a breve.

Se consideriamo la vergogna, come emozione che fa da protezione verso lo scivolamento verso zone grigie e ambigue (Amati Sas), l’emersione della vergogna controtransferale può rappresentare un prezioso indice di autenticità, di sincerità, di incorruttibilità e di coerenza, utile a segnalare la normalità delle difficoltà umane, senza doversi trincerare alle spalle di difese inconsce più arcaiche che possono ‘inquinare’ il campo analitico.

Self disclosure

La self disclosure costituisce sempre una scelta complessa, se la si vuole intendere al servizio della analisi e della relazione e non come agito dell’analista. Mi riferisco qui, quindi, solo alla definizione più ristretta di self disclosure e che prevede la condivisione con l’analizzando di pensieri ed emozioni del terapeuta, che vengono quindi offerti al campo analitico e messi a disposizione dell’analisi. So che è superfluo specificarlo, ma self disclosure non è dire quello che ci passa per la testa.

Bollas (1983), ritiene la disclosure centrale nello stabilire un discorso intersoggettivo.

Mi pare utile ricordare la differenza tra self-disclosure e self-revelation come concettualizzata da Levenson, dove quest’ultima fa riferimento a ciò che di sé l’analista comunica suo malgrado, in modo quindi involontario -rivela, appunto-, al paziente. E questo passa in condizioni normali, attraverso il nostro gusto per il vestire, come arrediamo lo studio, le borse che usiamo, se ci trucchiamo o meno, se usiamo giacca e cravatta o jeans e scarpe da tennis. E, in tempo di malattia, se siamo dimagriti, se abbiamo le occhiaie, se sembriamo pallidi e stanchi, se tossiamo (in questo periodo soprattutto!).

L’analista malato non può eludere la self-revelation e deve scegliere quanto condividere (self-disclosure). Durante la prima gravidanza, ancora allieva al 3° anno di scuola, mi trovai di fronte a questa difficile questione. Lo dico ai pazienti? E quando lo dico? O aspetto siano loro a coglierlo? Scelsi di attendere le loro prime intuizioni e dichiarazioni coscienti o preconsce (una signora sognò che prendeva in braccio mio figlio, pochi giorni prima che io scoprissi di essere incinta) e partire da lì per informarli sulla gravidanza e su come la terapia sarebbe proseguita, salvo imprevisti, che ovviamente ci sono stati!

Un unico paziente – peraltro quello che portai come caso di tesi – non si accorse minimamente e così al sesto mese decisi di dirglielo. Ovviamente, dalla seduta successiva, notava la pancia…Quanta realtà dell’analista è colta dall’analizzando e quanta, invece, va dichiarata, svelata dall’analista?

Ovviamente, il problema è più semplice da risolvere quando si ha a che fare con una gravidanza che con una malattia; o ancora se si tratta di malattie in acuzie, o di malanni che non mettono a rischio la vita e che si risolvono più o meno velocemente, senza segnare permanentemente la vita e il corpo della persona. Mentre è chiaramente più complesso se si ha a che fare con malattie croniche, magari degenerative.

Per sottolineare l’importanza di pensare cosa e come dire ai pazienti di sé, si è scelto di parlare di ‘delicate self-disclosure’, che se ben intendo si caratterizzerebbe dalla ulteriore cura e dalla modulazione di cosa si condivide con l’analizzando in considerazione dei suoi bisogni e della sua sensibilità e, immagino, dell’epoca della analisi. La ricerca di una terminologia ancora più specifica ‘delicate self disclosure’, richiama quanto il tema della self disclosure sia delicato, appunto. Come nelle ricette di cucina: q.b.

Ritengo la condivisione di aspetti personali (ma che necessariamente finiscono col riguardare la coppia al lavoro) possa rappresentare un’esperienza umana tanto normale e comune da poter essere impiegata a favore del processo analitico e rivelarsi per il paziente un’occasione per mettere in campo aree del sé più adulte e mature.

Tuttavia, forse questo riguarda più le analisi già avviate che quelle all’esordio.

Van Damn segnala che con i pazienti colpiti da reiterate esperienze abbandoniche e assillati dall’angoscia per la perdita dell’oggetto, l’analista corra maggiormente il rischio di offrire loro troppe informazioni, incorrendo in gravi errori di tecnica (Van Damn, 1987).

Il delicato svelamento del sé comporta precise scelte di natura etica e di tecnica, che l’analista deve dosare in base alle caratteristiche del paziente che sta curando, ma anche ponendo molta attenzione al proprio stato mentale. Clark (2009) scrive che sono ormai un esercito i pazienti rimasti soli, a causa di una grave infermità o della morte del loro analista, di cui nessuno ha saputo più nulla (2009). Sono rimasta molto colpita che all’interno della Società di Psicoanalisi, nel 2005, Traesdal, per fronteggiare questo pericolo, propone la costituzione di una sorta di “comitato di crisi”, che avrebbe il compito di tracciare delle lineeguida di comportamento da tenere in tali situazioni estreme.

Mi rendo conto di aver scritto pensando solo di malattie organiche o primariamente organiche, tuttavia sarebbe sciocco negare la possibilità di disturbi di altra natura.

La vecchiaia

Sono molto in difficoltà rispetto a quest’ultima parte di riflessione. Sebbene io sia ancora lontana dall’età della vecchiaia, mi rendo conto che i miei Maestri sono tutti ormai abbastanza in là con l’età. Per lo più, da quel che so, in sufficiente buona salute, ma il pensiero che la morte possa riguardare loro mi addolora molto ed è un pensiero davvero difficile da sostenere.

Altrettanto difficile è però pensare a quei pazienti orfani che hanno ‘accompagnato i loro analisti alla morte’, rimanendo accanto ai loro analisti con gratitudine, ma anche con la sensazione di poter rappresentare per l’analista-paziente una qualche fonte di ‘rifornimento’.

Ormai anni fa durante un seminario incontrai una mia vecchia compagna di università che mi disse di aver finalmente deciso chi sarebbe stato il suo psicoanalista. Eravamo diventate ‘più intime’ quando il papà si ammalò per un tumore e in un tempo relativamente breve, morì.

Quando la incontrai e mi disse chi era lo psicoanalista scelto, mi sentii in grande difficoltà. Conoscevo non personalmente il collega, ma sapevo che aveva appena ricevuto una diagnosi oncologica. Mi chiesi se dovessi dirlo o meno e decisi di lasciare a loro la gestione della faccenda.

Anni dopo durante l’estate scrissi a questa amica, sapendo della morte del suo analista per sapere come stava e lei mi rispose che non sapeva più nulla del Dr S, che mesi prima quando andò in seduta la collega dello studio la avvisò che non ci sarebbe stata la seduta perché era in ospedale e che non sapeva se avrebbe ripreso. Il giorno dopo la andai a trovare, su suggerimento di una collega con molta più esperienza di me, e le dissi che era morto un mesetto prima.

Passano mesi e la collega mi chiede indicazioni di analisti donne, se ricordo bene. E dopo un po’ di tempo, ancora, mi dice che con l’andare avanti della seconda analisi ha capito cosa era accaduto nella prima, con l’aggravarsi della situazione.

Quanto va condiviso coi propri pazienti? Non lo so. In alcuni momenti ho pensato che si abbia il diritto di sapere se il proprio analista ha una malattia grave e mortale. Di per sé questo non impedisce di essere un buon analista. La morte è parte della vita.

Spesso però mi sono chiesta cosa spinga al di là di possibili ragioni concrete e/o economiche gli analisti a lavorare e prendere nuovi pazienti anche in età molto avanzate.

Se uno inizia con un analista poniamo di 70 anni, a parte c’è il fantasma della morte, anche se non avverrà perché l’analista può sopravvivere alla terapia del paziente e al paziente stesso, talvolta, però la fantasia della morte di quell’analista sarà presente inevitabilmente.

Danielle Quinodoz, nel suo “Invecchiare. Una scoperta” descrive il vissuto di un analizzando che sente la paura della morte nel suo analista: “Se gli analizzandi esprimono l’ansietà verso la morte dello psicoanalista, lo psicoanalista deve trovare conforto con la propria ansietà verso la morte e deve avere la libertà interna per ascoltare quello che l’analizzando ha da dire e/o discuterlo apertamente. Se gli analizzandi hanno l’impressione che quella discussione provoca l’ansietà nello psicoanalista o la negazione, gli analizzati eviteranno il tema o lo toccheranno in modo che l’analista non sarà capace di leggere tra le righe e non andrà al di là del senso delle parole dell’analizzando ed infine non lo capirà.”

Con Freud succede l’opposto, dice Jones (1961): “Una paziente seppe che era malata gravemente e non poteva parlarne. Quando Freud scoprì che lei nascondeva qualcosa, le disse: abbiamo solo uno scopo ed una lealtà, in psicoanalisi. Se si rompe questa regola, si danneggia qualcosa più importante di ogni considerazione che mi deve.”

Klain, psicoanalista croato, conferma i grandi problemi quando muore lo psicoanalista ed evidenzia che è più facile quando muore il gruppoanalista perché un altro collega riceve tutto il gruppo. Questo gruppo parla dell’analista, ma ha una forza: sono insieme, è tutto il gruppo che va dall’altro analista. Nency Eduard una gruppoanalista americana, scrisse un buon articolo su questo. Quando un suo collega morì, lei ha accettato il suo gruppo. Solita lavorare coi sogni, descrive come i sogni dei pazienti di questo gruppo erano molto interessanti perché nei sogni, ci dice,  avveniva questa elaborazione della vita e della morte del primo gruppoanalista.

Una collega anziana mi ha raccontato di recente di uno psicoanalista Milanese che affrontò una malattia molto grave e che purtroppo lo uccise. Mi raccontava di come lui avesse coraggiosamente accompagnato i suoi pazienti alla di lui morte, di come scelse per ognuno di loro un possibile nuovo analista e li accompagnò nel passaggio. Mantenendo la sua funzione anche nel momento della separazione. E fatico a pensare il dolore che deve avere abitato i loro animi in quei mesi, ma ho idea sia stato un passaggio di grande cura e generosità.

Il tema della morte c’è come fatto reale, però per noi è importante considerarlo per i suoi aspetti simbolici. Chiaramaente, la patologia organica fa paura in quanto tale, sul piano di realtà. E lo stesso vale per la vecchiaia. L’idea della demenza, il ‘rimbambimento’ fa paura in quanto tale. La morte fa paura in quanto morte. Tuttavia, credo ci siano una serie di simbolismi intorno alla morte che rivestono ruoli fondamentali nella dinamica transfert controtransfert, o nei casi dei gruppi (di cui però so molto poco) rispetto alle dinamiche di rispecchiamento controrispecchiamento multiplo

Quando i pazienti parlano della vicinanza della morte dell’analista, dice Klain parlando della sua esperienza di terapie di gruppo, forse lo vogliono ridimensionare: ormai ti sei fatto vecchio datti una regolata, rassegnati. E questo potrebbe essere un significato. C’è, però, sicuramente da considerare la morte come separazione, come perdita di affetti, come perdita di legami affettivi. E ancora, e soprattutto, la malattia e ancora di più la morte comportano, una ferita narcisistica profondissima. Mi chiedevo, nello scrivere, quanto queste cose circolino a livello non cosciente o pre cosciente, nella situazione individuale e gruppale.

Mi rendo conto che per me non sia semplice approcciarmi al tema dell’anzianità, per le ragioni di età di cui ho accennato sopra. Questo sentimento però di scrivere da bambina di qualcosa che riguarda i grandi, mi rievoca una sensazione spesso sperimentata nei gruppi di lavoro a cui ho partecipato, o nelle associazioni in cui appartengo, dove spesso sono la più giovane, e di conseguenza, meno esperta e con riflessioni meno sostanziose da condividere. È innegabile che da un punto di vista sociale, la nostra è una professione che richiede un lungo tempo di formazione e di conseguenza si raggiunge una buona stabilità non da giovanissimi. Insomma, io a 40 anni sono una giovane analista (proprio qualche giorno fa una collega Senior apre una mail scrivendomi ”Mia cara giovane amica”),

Mi chiedo quanto questo possa avere un peso nel transgenerazionale nel mondo delle società di psicoanalisi. Credo di aver sentito più volte parlare di gereontocrazia psicoanalitica, degli anziani che non vogliono o non possono o non riescono a lasciare spazio. Mi sono chiesta se fosse legato al timore che il grande lavoro fatto in questi decenni possa essere disperso da chi non ha dovuto fare le lotte che invece hanno caratterizzato i decenni precedenti, o ancora se ci sia una specie di illusione di eternità, o ancora se la vita degli psicoanalisti possa essere per alcuni talmente totalizzante che se non si è psicoanalisti cosa si rimane? Molte volte ho sentito alcuni dei miei maestri, ho in mente Correale ma è in buona compagnia, parlare dell’importanza di avere una vita ricca, di legami, interessi, passioni. I nostri pazienti non possono essere il nostro massimo rifornimento affettivo e narcsitico, forse, anche.

Da questo forse deriva il fatto che si prosegue la professione fino a età molto avanzate, spesso fino alla morte. Anche recentemente alla morte di un collega anziano, dopo lunga malattia, si è commentato: “era in studio fino a due stettimane fa“…

Ipotizzo che in qualche modo noi abbiamo bisogno dei nostri pazienti, in che misura dipende da quanto detto sopra. È possibile che, in vecchiaia, questo antico e originario bisogno possa farsi più forte?

Riconosco con imbarazzo che nei momenti peggiori della malattia, recuperare la funzione terapeutica verso i miei pazienti mi è stato utile, a sentirmi meno disorientata; mi chiedo se in modo simile con l’avvicinarsi alla fine della vita noi si senta il bisogno del lavoro coi pazienti. Che diventa quindi irrinunciabile.

D’altra parte, però, come potremmo rinunciare all’esperienza di alcuni di nostri maestri anziani e perché i pazienti che potrebbero tanto essere da loro aiutati dovrebbero esserne privati? Concludo con le parole di  Danielle Quinodoz (2010) che lo dice meglio di me: “Per uno psicoanalista è molto importante essere cosciente della propria età. Infatti la consapevolezza di invecchiare influisce direttamente sul lavoro e sulla responsabilità professionale […] Alcuni colleghi anziani hanno grande esperienza e sarebbe un peccato privare gli analizzandi di questa risorsa….”

 

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