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Conoscere e affrontare l’ansia: recensione del podcast “Ansia? Parliamone”

Si può parlare di ansia da un punto di vista non esclusivamente legato ai sintomi? Si può sfatare il mito della risoluzione immediata del problema e della risposta facile? Queste sono solo alcune delle domande che trovano risposta nel podcast Ansia? Parliamone della dottoressa Valeria Locati

 

 Nell’ultimo anno e mezzo, complice la pandemia mondiale, tutti noi siamo stati travolti dalle emozioni, alcune delle quali mai prima d’oggi avremmo pensato di poter vivere personalmente. Credo sia normale: questa situazione ha coinvolto tutti, in maniera differente e senza tralasciare nessuno. Viste le difficoltà del contesto, abbiamo cercato di svagarci nei modi più variegati possibili, provando a trarre qualche aspetto positivo da questa crisi sanitaria, economica, culturale, sociale e umana. E grazie alla tecnologia si è potuta ridurre la distanza interpersonale e alleviare l’isolamento sociale imposto, tenendo vivi i rapporti.

Credo che siano situazioni così complesse a ricordarci come sia importante fermarsi a riflettere sulle emozioni, per cercare di comprenderle e non farci, come dire, “sovrastare”. E ritengo sia questo uno dei principali obiettivi alla base del podcast Ansia? Parliamone a cura della dottoressa Valeria Locati. La psicologa e psicoterapeuta affronta questa tematica delicata in maniera semplice e chiara: ogni capitolo riesce ad analizzare il tema in oggetto ponendo domande utili per riuscire ad affrontarlo secondo vari punti di vista, così da permettere all’ascoltatore di potersi facilmente immedesimare e provare empatia per un sentimento che sembra essere ancora un tabù.

L’autrice spiega bene come con il termine ansia ci si riferisca

all’attivazione psicofisiologica scatenata in noi dall’anticipazione di un pericolo o di un evento futuro negativo.

Ed è già con il titolo del podcast che chiarisce subito come sia fondamentale parlarne, provare a esprimersi per riuscire a capire le difficoltà e le sensazioni annesse. Esternare le proprie emozioni, senza partire da un giudizio duro o comunque capace di mettere in difficoltà, così da poter comprendere il problema insieme e iniziare a costruire un percorso di crescita.

La struttura è ben definita: sei capitoli che parlano dell’ansia nelle sue più comuni forme e secondo la prospettiva relazionale, in cui vengono poste delle domande finalizzate a creare dei punti di vista diversi e utili a innescare un percorso personale evolutivo. A questi si aggiungono i consigli di lettura proposti dall’autrice al termine di ogni puntata, per permettere di continuare ad approfondire la tematica in maniera autonoma.

 Infatti, ogni puntata non è la classica lezione prettamente teorica sull’ansia, ma è un connubio tra parte narrativa e scientifica. Ascoltare il racconto dei soggetti coinvolti, i quali provano a esprimere le emozioni e le sensazioni che vivono, permette l’immedesimazione e la possibilità di ragionare su di sé grazie agli spunti di riflessione utili. La forte empatia dell’ascoltatore si fonda su un rapporto di rispetto nei confronti di chi si espone (visto che la privacy viene tutelata) e si garantisce la non riconducibilità a situazioni cliniche specifiche.

In sintesi, questo podcast ha il merito di coinvolgere l’ascoltatore e dargli degli strumenti utili a renderlo parte attiva, oltre che avvicinarlo a temi di natura divulgativa. Le domande vengono poste per scoprire nuovi orizzonti, punti di vista critici e facilitarne i pensieri, oltre a permettere di concentrare l’attenzione sul contesto e sulle relazioni, facendo cogliere come i sintomi ansiosi abbiano la loro origine nei rapporti. Quindi, il significato che viene dato all’ansia cambia a seconda del sistema di relazione in cui si è inseriti e, capire questa pietra miliare, permette di andare oltre alla fretta della risoluzione.

Per concludere con le parole dell’autrice, questo podcast è pensato

per tutti coloro che almeno una volta hanno vissuto un momento d’ansia o di panico, hanno sperimentato il timore di essere giudicati in pubblico, hanno rimuginato su possibili scenari catastrofici della vita quotidiana e che non sanno da che parte girarsi per trovare sollievo.

 

La relazione tra interessi parafilici e la soddisfazione sessuale in soggetti non clinici

Spesso si commette l’errore di equiparare i disturbi parafilici con gli interessi parafilici.

 

Un interesse parafilico consiste in un’eccitazione sessuale persistente verso oggetti o situazioni atipiche, mentre nei disturbi parafilici, tale eccitazione elicita un’angoscia clinicamente significativa, che determina un danno a sé o agli altri (American Psychiatric Association, 2013).

È bene sottolineare, dunque, che alcuni individui possono manifestare interessi parafilici senza incorrere in un vero e proprio disturbo mentale, e ciò dovrebbe suggerire che gli interessi e i comportamenti sessuali atipici non devono essere visti necessariamente come patologici (APA, 2013).

Lo studio degli interessi parafilici è divenuto man mano più rilevante in quanto lo sviluppo di Internet ha permesso agli individui di entrare a far parte di comunità composte da soggetti con i medesimi interessi atipici.

Attualmente, la ricerca ha suggerito che gli individui che possiedono specifici interessi parafilici non subiscono necessariamente un impatto negativo. Per esempio, secondo alcune ricerche gli individui interessati a comportamenti sadici e masochistici possiedono un maggiore adattamento psicologico (Wismeijer & van Assen, 2013) e si è visto come l’incorporazione di tali comportamenti in una relazione non determini conseguenze negative sul proprio rapporto (Rogak & Connor, 2018).

Tuttavia, dati i risultati limitati, sono necessarie ulteriori ricerche.

Sulla base della letteratura attualmente esistente, però, si potrebbe ipotizzare che sia possibile “convivere” con i propri interessi parafilici ma ciò determina la necessità di indagare le caratteristiche e i fattori protettivi che permettono ad alcuni individui di gestire i loro interessi parafilici nella vita quotidiana, senza subire conseguenze penali.

All’oggi, il filone di ricerca che ha indagato gli interessi parafilici in campioni non clinici è certamente cresciuto ma il modo in cui i suddetti interessi vengono valutati è ancora critico. Difatti, sia nelle valutazioni forensi che in quelle cliniche, si tende a concentrarsi prevalentemente sull’angoscia e sulla compromissione del soggetto. Ciò potrebbe distorcere le stime degli interessi parafilici nei campioni non clinici o portare a tralasciare informazioni rilevanti (Mundy & Cioe, 2019).

Sulla base di quanto appena esposto, Mundy e Cioe (2019) si son proposti di effettuare un’indagine che differenziasse sentimenti, pensieri e comportamenti. In particolare, lo studio ha cercato di identificare l’eccitazione sessuale relativa agli interessi parafilici, per poi indagare i comportamenti sessuali associati alla parafilia (come fantasie sessuali, fantasie di masturbazione, comportamenti sessuali) in cui gli individui si impegnano. Nel complesso, lo studio mirava a comprendere come gli interessi parafilici e i comportamenti sessuali siano collegati alla soddisfazione sessuale generale. In accordo con le ricerche precedenti, ci si aspettava che gli uomini avrebbero riportato livelli più elevati di interessi parafilici. È stato ipotizzato anche che, rispetto alla soddisfazione, non vi sarebbero state elevate differenze tra coloro i quali possiedono tali interessi atipici e chi non li ha.

Allo studio hanno preso parte 529 individui, di cui 173 uomini e 356 donne. Coerentemente con la letteratura precedente, i risultati dello studio hanno mostrato come gli interessi parafilici non siano infrequenti, o particolarmente angoscianti, nei campioni non clinici. Difatti, è stata riscontrata la presenza di almeno un interesse parafilico nel 56% del campione.

Masochismo, sadismo e voyeurismo erano gli interessi più comuni.

I tassi di interessi parafilici tra i sessi erano significativamente diversi; il 63% degli uomini ha riportato almeno un interesse parafilico, rispetto al 53% delle donne.

Sebbene la maggior parte dei partecipanti abbia riportato almeno un interesse parafilico, non tutti si sono impegnati in comportamenti sessuali associati alla parafilia. Molti di questi individui hanno riferito di aver sperimentato alti livelli di eccitazione sessuale associata alla parafilia, ma non hanno incluso questo interesse nelle loro fantasie sessuali, fantasie di masturbazione, o comportamenti sessuali. Mentre, la restante parte ha riferito di aver incorporato i propri interessi nelle proprie fantasie sessuali o durante la masturbazione, piuttosto che nel comportamento sessuale effettivo.

Inoltre, i partecipanti hanno raramente riportato di aver subito un impatto negativo legato all’esplicitazione di tali interessi. Questi risultati sono in linea con la ricerca esistente che ha mostrato come gli interessi parafilici (ad esempio, il masochismo) non determinino necessariamente disagio psicologico o danni relazionali (Rogak & Connor, 2018). Tuttavia, è importante riconoscere che il livello di compromissione o di distress può essere influenzato da altri fattori, come la personalità (van Bommel et al., 2018).

Per coloro i quali possiedono interessi parafilici “legali”, la soddisfazione sessuale era più elevata, il che potrebbe suggerire che l’etichetta legale o illegale, associata all’interesse parafilico, gioca un ruolo fondamentale nella soddisfazione sessuale. Difatti, è possibile che le preoccupazioni di impegnarsi in tali interessi differiscano notevolmente tra coloro i quali sono interessati a comportamenti legali o illegali.

Ulteriormente, i risultati hanno mostrato che gli individui che avevano condiviso con il proprio partner la propria perversione avevano livelli più elevati di soddisfazione sessuale, indipendentemente dalla fattibilità legale dell’interesse.

Nel complesso, questi risultati sono in linea con la letteratura esistente che ha rilevato che la presenza di un interesse parafilico non necessariamente esercita un impatto negativo sulla soddisfazione generale né su quella sessuale (Joyal & Carpentier, 2017).

 

 

Come reagisce il cervello all’ascolto della musica

Ascoltare della musica è un’azione naturale ma per farlo il nostro cervello si attiva mettendo in atto diversi passaggi.

 

Vi sarà sicuramente capitato, mentre ascoltate una canzone, di scandirne il ritmo battendo il piede con una certa cadenza.

Cambiando il ritmo della melodia, cambierà anche quello del nostro piede ed è stato dimostrato che cambierà anche quello delle nostre connessioni mentali.

L’ascolto ci coinvolge anche a livello inconscio ed esercita su di noi la sua influenza.

Come funziona il cervello durante l’ascolto di una canzone

Per capire quale può essere l’influenza della musica dobbiamo fare un breve viaggio alla scoperta del nostro cervello e del suo funzionamento.

Per farlo in modo semplice, schematizziamo questo processo in alcuni passaggi. Il nostro sistema nervoso è costituito da cellule, i neuroni, che comunicano fra loro attraverso dei neurotrasmettitori, piccole vescicole che restano inerti all’interno dei neuroni finché non sopraggiunge un impulso emotivo. A questo punto vengono rilasciate e vanno ad interagire con i neuroni limitrofi trasformando l’impulso nervoso iniziale in una risposta cellulare specifica.

Musica quali sono gli effetti dell ascolto e come reagisce il nostro cervello Imm. 1: Funzionamento del cervello durante l’ascolto di una canzone

Nel momento in cui ascoltiamo una musica, nel nostro organismo si produce un effetto simile a quello dell’assunzione di una droga psicoattiva che causa il rilascio di dopamina nel cervello. La dopamina è appunto uno di questi neurotrasmettitori. Compito della dopamina è di esercitare il controllo sul movimento, sulla capacità di attenzione e di apprendimento, su alcuni aspetti delle funzioni cognitive, sulla sensazione di piacere e sul meccanismo del sonno. In breve, questi neurotrasmettitori sono messaggeri chimici che gli impulsi nervosi rilasciano per indurre un certo meccanismo cerebrale.

L’effetto della musica

Ma l’effetto prodotto dalla musica non è solo sulle emozioni, bensì è stato dimostrato come sia in grado di influenzare anche il sistema cardio vascolare, il battito cardiaco e la pressione sanguigna.

Ad esempio, capita spesso di vedere degli sportivi che si isolano ascoltando musica con le cuffiette prima di scendere in campo per cimentarsi nella loro performance. In questo caso l’ascolto ha lo scopo di migliorare la loro concentrazione, ma anche di far acquisire forza ed energia, come abbiamo già visto.

Al contrario, in altre situazioni, la musica può essere utilizzata per rilassarsi. I diversi generi e stili musicali, infatti, sono in grado di provocare effetti molto diversi in chi li ascolta. Se una musica rilassante è in grado di ridurre i livelli di cortisolo (l’ormone dello stress) nel sangue, il crescendo di un’orchestra può determinare una vasocostrizione della pelle del viso con l’aumento della pressione sanguigna.

In generale possiamo dire che la musica classica e meditativa funziona nella riduzione di stress e dolore, mentre una musica ritmata ha effetti benefici nell’aumentare la concentrazione, le motivazioni e nel migliorare l’umore.

Inoltre, alcuni brani possono concretizzare specifici stati d’animo come calma e serenità, condizioni che permettono al potenziale del nostro cervello di essere sfruttato al massimo.

Oltre un discorso generale bisogna anche tenere in considerazione gli aspetti più soggettivi, ossia i gusti personali in conseguenza dei quali, ad esempio, un soggetto può essere infastidito dall’ascolto della musica classica ed avere più benefici in termini di rilassamento dall’ascolto della musica new age.

Come funziona il processo di ascolto

Ascoltare musica procura piacere, fa riaffiorare alla mente ricordi, fa nascere emozioni e ci aiuta a condividerle con chi ci sta intorno.

Un processo che sembra assolutamente naturale, quasi scontato, ma che in realtà mette in moto un meccanismo complesso, come abbiamo in parte già visto.

Va detto che la risposta che il nostro cervello fornisce agli stimoli musicali non dipende unicamente dai suoni stessi ma anche da un bagaglio di conoscenze che abbiamo acquisito. La reazione infatti sarà condizionata anche dalle nostre competenze musicali, da quello che avremo ascoltato in precedenza e che è stato immagazzinato nei nostri ricordi, dalle emozioni che abbiamo provato.

Ma veniamo a come si comporta il nostro cervello quando ascoltiamo una canzone.

Il suono è un fenomeno fisico, è la sensazione prodotta dalla vibrazione di un corpo in oscillazione che si propaga nell’aria. Quando ascoltiamo una canzone, la fase dell’ascolto si divide in due parti. Inizialmente si attiva la fase dell’udire che è un fenomeno periferico legato all’orecchio e al nervo acustico. Secondariamente, passando attraverso il talamo, il suono raggiunge il lobo temporale e da qui coinvolge il nostro sistema nervoso con le funzioni psichiche che gli sono proprie. A questo punto si dice che il suono musicale è stato “intellettualizzato”.

Ora il nostro cervello è in grado di distinguere il linguaggio dalla musica così che, durante l’ascolto, agisce servendosi di due sistemi neurali separati per il riconoscimento della melodia e per il significato delle parole.

Emisfero destro, emisfero sinistro

Quando ascoltiamo un brano, si attivano i due emisferi del cervello: quello sinistro (che si occupa della parte logica) si concentra sul linguaggio, quello destro (che gestisce le funzioni più intuitive) sulla parte musicale, creando connessioni fra loro. La parte destra del cervello attiva l’immaginazione dando vita alle emozioni più diverse, mentre la parte sinistra analizza aspetti quali la struttura del brano e le parole della canzone.

Interessante notare come alcuni studi hanno rilevato che i musicisti percepiscono la musica in due modi differenti a seconda delle intenzioni che guidano il loro ascolto. Se vogliono lasciarsi trasportare dal suono ascolteranno, in modo inconscio, con l’emisfero destro. Se invece vogliono analizzare la melodia da un punto di vista tecnico, l’emisfero sinistro prenderà il sopravvento.

Entrambi gli emisferi traggono benefici dalla musica. Se ci concentreremo maggiormente sulla parte sinistra, questi si manifesteranno in miglioramento della memoria, della motricità, del senso del ritmo, della coordinazione corporea. Se invece ci concentreremo maggiormente sulla parte destra, otterremo un maggiore sviluppo dell’immaginazione, un miglioramento della creatività e una maggiore armonia.

 

Dal metodo Tomatis alla Robotica: perché non vengono così spesso utilizzati nonostante siano utili per studenti con bisogni educativi speciali?

Il Bisogno Educativo Speciale è qualsiasi difficoltà evolutiva, permanente o transitoria, in ambito educativo e/o di apprendimento che necessita di educazione speciale individualizzata. Il Metodo Tomatis e la Robotica educativa possono rivelarsi utili?

 

Solo qualche decennio fa, nei discorsi delle “arene” didattiche per il benessere degli alunni, i maestri cadevano vittime di un giudizio classista.

Tre categorie dominavano il panorama scolastico:

  • alunni definiti intelligenti, volenterosi, motivati, svegli;
  • alunni svogliati, pigri, negligenti;
  • alunni che necessitavano di un sostegno.

Sotto questo paradigma, che sottometteva la “diversità”, si insediava un’affermazione contraddittoria, incerta, quasi incomprensibile ma collettivamente accetta dal corpus dei docenti: È intelligente ma non si impegna. Ignorata la “voce” di questi studenti nei processi decisionali che direttamente influenzavano le loro vite. Ignorati i livelli di comprensione o il modo in cui questi avvenivano durante il processo trasformativo/formativo scolastico. Ignorata qualsiasi opportunità educativa, da parte degli insegnanti, per accedere al “mondo degli alunni”.

Molti educatori non erano a conoscenza di apprendimenti differenti e personalizzati.

Questo punto di vista molteplice richiedeva un enorme sforzo e impegno ad un docente abituato a superare questa tipologia di ostacoli con la stessa logica con cui l’uomo primitivo costruì la clava: “se” / “allora”.

I riferimenti scientifici di quel periodo erano guidati da teorie sullo sviluppo delle capacità dei bambini in base a determinate età (per una rassegna: Komulainen, 2007), non si aveva una conoscenza al di là di queste classificazioni piagetiane.

Fortunatamente, in una sola generazione, si entra in un nuovo mondo: è la genesi di metodi e tecnologie in grado di intervenire sulle difficoltà di comprensione/acquisizione che richiedono immancabilmente un’istruzione speciale su bambini cosiddetti “speciali”, per i quali occorre una progettazione didattica personalizzata che si traduce in una “personalizzazione degli apprendimenti”, con metodologie e tecniche didattiche mirate.

La “voce” dei bambini con Bisogni Educativi Speciali (BES)

Il Bisogno Educativo Speciale (BES: ‘Special Educational Need’) «è qualsiasi difficoltà evolutiva, permanente o transitoria, in ambito educativo e/o di apprendimento, espressa in un funzionamento problematico, che risulta tale anche per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia e che necessita di educazione speciale individualizzata» (Iannes, 2005). Al loro interno sono ben noti i cosiddetti Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA: dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia) l’ADHD (Deficit del Disturbo di Attenzione, con o senza iperattività) nonché le disabilità motorie e le  difficoltà comportamentali e relazionali in genere.

In termini più profondi e comprensibili, il termine “bisogno” è utilizzato in senso lato. I tentativi per definire cosa si intenda per BES fanno riferimento ad una realtà dove osceno e sublime convivono. Da un lato, spesso questi bambini vengono etichettati (labeling) come pigri, svogliati, o poco intelligenti; dall’altro è fondamentale il metodo educativo/formativo utilizzato.

Il metodo non ha lo scopo di creare o imporre condotte o sistemi di studio ma di far emergere qualità inespresse, “affondate” dal peso del BES. Quando questo è assente la motivazione può non bastare.

I bambini con bisogni speciali spesso nascono, crescono e vivono con l’impellente bisogno di superare le difficoltà legate all’apprendimento, maturando, spesso, un eccezionale fronteggiamento di esse grazie a raffinate strategie di adattamento (quello che in psicologia viene definito coping): l’insistente voglia di trarre una conclusione necessaria da quel problema che si rivela dal contesto: è la motivazione di Gondrano – il cavallo descritto da G. Orwell in «La fattoria di Animali»–  riconoscibile nella sua ammirevole, e quasi spietata, asserzione: «Lavorerò di più»… fino al punto da portarlo all’esaurimento; questo è il lato osceno che può volgere a sublime solo ed esclusivamente se il “filtro” (il cosiddetto “metodo di studio”) che funge da catalizzatore è in grado di dare a questi bambini una “voce”.

Alcune metodologie e tecnologie, più di altre, riescono a facilitare tale condizione.

Il metodo Tomatis

Il Metodo Tomatis (TM) lavora sulle vie uditive a livello neuropsicologico e psicofisiologico. Nacque in ambito audiologico e foniatrico ad opera del Prof. Alfred Tomatis (1920-2001) medico ORL, foniatra, audiologo, scienziato e ricercatore, a partire dagli anni ’50.

E’ ormai largamente utilizzato come tecnica riabilitativa in psicologia in circa 70 Paesi, da oltre 60 anni. Il meccanismo d’azione basilare è quello di stimolare le vie uditive con particolari oscillazioni di frequenze inserite in un brano musicale, sia a livello fisiologico, migliorando l’efficienza meccanica dell’orecchio medio, che neurologico, mediante la trasmissione del suono anche a livello osseo, con una cuffia speciale dotata di trasduttore osseo, che bypassa eventuali problemi di ipoacusia trasmissiva (Krzysztof et al, 2018).

Questa particolare stimolazione fu concepita inizialmente proprio allo scopo di curare il sistema uditivo di cantanti d’opera, che avevano subito un danno causato dal loro stesso cantare, protratto per periodi eccessivi. Gli artisti conseguirono, in breve tempo, non solo un miglioramento ai tests audiometrici, ma anche benefici inaspettati a livello di riduzione dell’ansia e di maggior concentrazione e memoria. In seguito a tali inattesi risultati, Tomatis sperimentò con successo il Metodo in età evolutiva, tanto per i problemi del linguaggio che per tutti i disturbi dell’apprendimento scolare e più in generale del neuro-sviluppo.

Le vie uditive, che diventano una vera e propria “antenna” del sistema nervoso, sono utilizzate non solo per la terapia ma anche per la diagnosi.

Per quest’ultima si utilizza un audiometro appositamente tarato. Esso viene impiegato in modo diverso rispetto all’audiologia medica.

Nel corso di decenni di ricerca Tomatis pervenne ad alcune scoperte fondamentali sull’ascolto in relazione ad orecchio, linguaggio e comunicazione.

Ma com’è possibile “curare” col suono?

L’apparecchio messo a punto da Tomatis, denominato “orecchio elettronico” lavora con due meccanismi: i filtri e l’oscillazione delle frequenze del brano, detta “bascula”.

I filtri si basano su un meccanismo molto semplice. Filtrare una musica vuol dire eliminare i suoni sotto o sopra una certa frequenza, o lasciare passare solo una banda di frequenze.

Secondo le ricerche di Tomatis, le alte frequenze (sopra i 1000 Hz) rivitalizzano il sistema nervoso.

Inoltre, far udire ad un bambino musiche filtrate alle basse frequenze, quindi ricche di acuti, permette al suo sistema nervoso di ripercorrere le fasi dello sviluppo prenatale, con grandi benefici sui disturbi che si sono manifestati all’inizio della sua vita. Si tratta dunque di rivivere anche le fasi dello sviluppo della comunicazione e del linguaggio.

Il meccanismo di bascula, ovvero un ascolto alternativamente ricco di frequenze acute o di frequenze gravi, ottenuto con due equalizzatori ed alternato più volte al minuto, è ancora più importante della filtrazione. La pratica clinica infatti ha dimostrato di poter agire sull’efficienza dell’orecchio medio, migliorando i parametri audiologici e, con essi, le facoltà cognitive.

La chiave di tutto il metodo, in definitiva, è una sorta di “ginnastica dell’orecchio” e delle vie nervose uditive, che agisce sul sistema nervoso centrale in modo profondo e mirato.

Il trattamento, che è molto diverso rispetto ad una musicoterapia, ha numerose applicazioni. Negli adulti è molto efficace nel trattamento dell’ansia, depressione, stress e insonnia.

Infatti, i miglioramenti nei tests audiometrici che si manifestano con curve di ascolto di forma più regolare e senza scotomi (peggioramenti delle soglie uditive a carico di frequenze singole) sono correlati con miglioramenti dei disturbi citati. Ciò è stato verificato nei Centri Tomatis di tutto il mondo ed è riportato nel libro di uno dei più famosi allievi dello studioso (P. Sollier. Listening for wellness).

Nella pratica clinica si sono osservati anche miglioramenti sulla concentrazione e la memoria degli adulti, e più in generale sul benessere psicofisico e la creatività.

Le ricerche presenti in letteratura si sono però concentrate sull’uso strettamente terapeutico del Metodo.

Le fonti che raccolgono un maggior numero e varietà di studi sono il libro del già citato dr. Sollier e soprattutto il sito www.tomatisassociation.org

Tra le ricerche più citate c’è Gilmor Tim (1999) The efficacy of the Tomatis method for Children with Learning and Communication Disorders, International Journal of Listenings, 13,12.

Si tratta di una meta analisi basata su cinque studi che hanno coinvolto 231 bambini.

Lo studio mostrò che il Metodo migliora significativamente:

  • Abilità linguistiche ed uditive
  • Abilità psicomotorie
  • Abilità di adattamento personale e sociale
  • Abilità cognitive

Il Tomatis Center in Toronto, Canada, studiò i risultati della terapia di ascolto su oltre 400 bambini ed adolescenti, con una storia clinica di disturbi dell’apprendimento e di altro genere. I risultati del trattamento furono giudicati dai genitori. Il 95% di essi dichiarò che il programma aveva aiutato i loro bambini. Essi indicarono miglioramenti dal 70% ad oltre l’86% nelle seguenti aree: abilità comunicative, migliore attenzione, aumento di comprensione nella lettura, qualità del linguaggio, aumento della memoria, minori livelli di frustrazione.

Il TM ha dimostrato, altresì, di aiutare le persone con vari disturbi neuropsicologici anche gravi (autismo, dislessia, ADHD ecc.) (Jóźwiak et al., 2018).

La dr. Joan Neysmith-Roy (S. Afr. J. Psychology, 2001,31) del Dipartimento di Psicologia di Regina ha condotto uno studio con sei bambini severamente autistici. Metà dei bambini dimostrarono cambiamenti positivi nel comportamento entro la fine del trattamento. I miglioramenti riguardavano anche le capacità pre-linguistiche.

Attualmente sono stati realizzati studi che evidenziano effetti positivi del Metodo su severe disfunzioni neurologiche e psicomotorie con l’impiego di potenziali evocati uditivi ed EEG presso la clinica denominata Mozart-Brain-Lab di Saint Truiden, Bruxelles.

A questo indirizzo vi è un ampio elenco di studi e di casi clinici relativi a molti campi, tra i quali disturbi del linguaggio e balbuzie; disturbi dell’apprendimento e della comunicazione, anche in studenti universitari; dislessia; casi di ictus e psicopatologia, autismo, deficit di attenzione.

I principi dell’Educational Robotic Applications (ERA)

Le concezioni costruttiviste ipotizzano che la conoscenza sia costruita individualmente e socialmente co-costruite dagli studenti in base alle loro interpretazioni delle esperienze nel mondo.

Poiché la conoscenza non può essere trasmessa, le istruzioni dovrebbero consistere in esperienze che facilitano la sua costruzione (Jonassen, 1999, p.217).

Secondo tale concetto, la natura complessa del processo di costruzione della conoscenza richiede «l’immersione in un’esperienza di apprendimento in un contesto altrettanto complesso» di una ricca varietà di opportunità, stimoli e risorse che Jonassen et al. (1995) definiscono ambiente di apprendimento. Tale ambiente possiamo arricchirlo con i contribuiti della robotica.

I sistemi robotici possono essere uno strumento prezioso per i bambini con bisogni speciali di apprendimento attraverso le interazioni di gioco e può aiutarli a raggiungere le fasi evolutive della loro cronologia e / o ere mentali (Besio, 2001).

L’Interazione Uomo-Robot (HRI), infatti, è un campo in rapida evoluzione.

La robotica educativa è utilizzata in tutto il mondo come «strumento di apprendimento», ma sorprendentemente raramente per l’educazione speciale.

La tecnologia educativa non si riferisce solo a strumenti tecnologici e software che sono stati creati per supportare l’apprendimento ma a quei robot educativi che possono avere una gamma di comportamenti intelligenti e che consentono ai bambini di farli partecipare efficacemente alle attività educative.

Un’esplorazione di questo principio deve spiegare cosa intendiamo per:

  • Comportamento intelligente
  • Partecipazione effettiva

Ai nostri fini riconosciamo l’intelligenza come appartenente a uno spettro di comportamenti focalizzati su obiettivi intenzionali (Sternberg 1985, Stonier 1997, Freeman 2000, Sternberg et al 2008). Questo significa che il robot deve solo possedere un’intelligenza specifica del compito, che mira all’apprendimento esplicito degli obiettivi, piuttosto che una capacità generale di agire in situazioni non strutturate. In questo senso i robot educativi devono aiutare gli studenti ad acquisire conoscenze specifiche, indurli a pensare, sviluppare le competenze o fornire loro esperienze di situazioni e strutture di conoscenza che rispecchiano utili schemi di pensiero. Tutto questo avviene senza alcuna forma giudizio che, anche inconsapevolmente, potrebbe influire sul processo formativo dello studente, nello specifico sulle sue abilità.

Questa tecnologia è uno strumento per aiutare gli insegnanti, non per sostituirli, ma non tutti gli insegnanti mostrano la stessa attitudine per l’utilizzo di robot educativi, indipendentemente dalla loro abilità di insegnamento generale.

Tale alleanza (Robotica educativa / Insegnanti / Studenti) può creare emotional sharing and attunement (‘condivisione emotiva e sincronizzazione’) – e questo si ottiene per mezzo di qualcosa che può essere “mostrato, discusso, esaminato, esplorato e ammirato” (Papert, 1993).

L’uso di manufatti – e, in particolare, di manufatti tecnologici – consente di offrire l’apprendimento di maggior successo con un’attività didattica minima (Papert, 1980, 1993).

Ad esempio, i bambini con difficoltà di apprendimento e lievi disabilità intellettive possono trovare facilitatori dell’apprendimento nella robotica educativa e nell’attività manuale, mentre per i bambini con autismo (ASD) rappresenta un ambiente adeguato ai loro bisogni educativi e di insegnamento (Damiani, Ascione, 2017).

Una serie di ricerche, è stata svolta al fine di indagare se i bambini con ASD mostrano un maggiore impegno sociale quando interagiscono con un robot umanoide rispetto a un partner umano in un compito di imitazione motoria. Tali ricerche (Robins et al., 2004, 2006), non recentissime, sono state svolte con esisto positivo soprattutto per quanto riguarda l’attenzione congiunta, ovvero “seguire lo sguardo del genitore”, un’importante capacità che nei bambini autistici è carente.

Conclusioni

Le conclusioni in questa sede riguardano la possibilità di incentivare lo studente in maniera bidirezionale: il Metodo Tomatis offre una azione “dall’interno verso l’esterno” (dal sistema nervoso all’ambiente) laddove la Robotica educativa opera a latere “dall’esterno verso l’interno” (dall’ambiente al sistema nervoso).

Il Metodo Tomatis fornisce una procedura efficace per migliorare l’abilità di questi bambini di elaborare le informazioni sensoriali con maggiore rapidità e finezza.

In tale elaborazione il protagonista è il canale uditivo ed il linguaggio.

Quando la comunicazione tra orecchio e cervello non è limpida, ed il messaggio sonoro è compromesso da rallentamenti e distorsioni, vi è, altresì, una perdita di fiducia in sé stessi, sia di autostima che di assertività, che aggrava le difficoltà di comunicazione e apprendimento.

Gli strumenti robotici, dal canto loro, rappresentano una metodologia complementare una volta che lo studente ha lavorato su queste capacità con il Metodo Tomatis. Nella fattispecie, tali strumenti, hanno permesso agli studenti di esercitarsi e imparare molte abilità necessarie, come la collaborazione, sviluppare abilità cognitive, autostima, percezione e comprensione.

Poiché gli studenti non hanno avuto alcuna esperienza di fallimento o difficoltà quando si inizia il lavoro con questo tipo di tecnologia, erano pronti a pianificare, iniziare e continuare anche un progetto stimolante.

Tuttavia, come già scritto, la robotica educativa è stata utilizzata raramente in aule deputate all’educazione speciale. In generale, rappresenta un metodo per i laboratori didattici basati sul «learning by doing», secondo il matematico e informatico Papert, è più facile e quasi naturale imparare con un robot (Damiani, 2017).

Tuttavia, nonostante i vantaggi e l’esistenza di professionisti che hanno testato con eccezionali risultati il Metodo Tomatis, nonché gli studi che hanno avvalorato l’efficacia dei robot nelle scuole, tali sistemi non vengono utilizzati nonostante siano saldamente supportati da notevoli evidenze scientifiche.

Questo solleva una domanda importante: perché?

 

La Chirurgia Bariatrica funziona? Indagine con follow-up sugli effetti nel tempo dell’intervento di chirurgia bariatrica

L’articolo, nella prima parte, illustra le caratteristiche e il trattamento dell’obesità, con particolare riferimento al Binge Eating Disorder, al ruolo della famiglia e al vissuto durante la pandemia. Successivamente, si descrive una ricerca condotta su 102 persone sottoposte ad intervento di sleeve gastrectomy mirante a verificarne i risultati nel tempo.

 

1.1. L’obesità: caratteristiche fisiche e psicologiche. Un problema multifattoriale

 L’obesità è definita dall’OMS una condizione medica caratterizzata da un eccessivo accumulo di grasso corporeo che può avere effetti dannosi sulla salute e determina conseguenze negative circa la riduzione dell’aspettativa di vita, con genesi di comportamenti multifattoriali. Essa rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica oltre ad essere la prima causa di morte in tutto il mondo. Negli ultimi 40 anni si è stimato un aumento di tale patologia sia nei bambini che negli adulti; infatti, nel mondo, il numero di obesi è aumentato di circa 10 volte, mentre in Italia nel 2016 si è osservato un incremento di quasi 3 volte rispetto al 1975. Purtroppo questi dati non sembrano decrescere, anzi, la tendenza è di un ulteriore aumento nei prossimi anni. Dai dati dell’Italian Obesity Barometer Report emerge che nel 2017 venticinque milioni di italiani erano obesi o in sovrappeso, tra questi il 46% erano adulti e il 24% erano under 18, statisticamente le donne avevano un tasso di obesità inferiore (9,4%) rispetto agli uomini (11,8%) [1]. Il problema è più diffuso al sud ed emerge una significativa correlazione con il livello di istruzione. Nel tempo si è riscontrato come l’obesità sia strettamente correlata con il livello socio-culturale, infatti tra coloro che soffrono di tale patologia, è possibile osservare come la maggior parte abbia appena conseguito la licenza media. Ciò determina una cattiva valutazione sulle cause-effetto di un’alimentazione poco corretta.

Dalla stessa ricerca, emerge come vi sia inoltre un forte divario geografico tra nord e sud nel senso che si evidenzia un livello di obesità più alto nei soggetti appartenenti ad aree geografiche in cui la tradizione culinaria ha un impatto importante. La vita frenetica spinge la popolazione che vive nei centri urbani ad adattarsi a mangiare spesso fuori pasti semplici e sbrigativi, ciò fa sì che si riscontrino conseguenze differenti rispetto le zone rurali dove invece si mangia in modo più sano ma anche più ricco di proteine, carboidrati e zuccheri. I ritmi serrati delle città giocano un ruolo chiave nell’organizzazione del pranzo. L’ONU ha considerato l’obesità un problema a livello mondiale.

All’interno degli istituti scolastici si sta optando per mense, in cui vengono proposti cibi sani e una dieta variegata associata all’attività motoria, affinché gli studenti si abituino ad una dieta equilibrata e sana e siano stimolati a svolgere attività fisica.

L’aumento di peso comporta l’emergere di varie patologie fisiche oltre che mentali. Tra i disturbi e le malattie più comuni connesse all’aumento di peso vi sono il diabete mellito di tipo 2, l’ipertensione e quindi malattie cardiovascolari, sindromi delle apnee ostruttive del sonno, alcuni tipi di cancro e di osteoartrosi.

L’obesità influenza negativamente le aspettative di vita, che si abbassano di parecchio in quanto il più delle volte è accompagnata da altre patologie, per esempio di tipo cardiovascolare, che danneggiano lo stato generale di salute e che possono essere congenite o acquisite come l’ipotiroidismo e si possono associare ad una alimentazione incontrollata o notturna.

Nello specifico, tale aspettativa diminuisce di 2-4 anni nel caso di obesità moderata, mentre nell’obesità grave si riduce addirittura di 10 anni [2]. A livello individuale, nella maggior parte delle situazioni, l’obesità è la conseguenza della combinazione di un eccessivo apporto calorico e della scarsa attività fisica. Un numero limitato di casi invece, sono dovuti a fattori genetici o psichiatrici. I fattori predisponenti o che comunque facilitano l’obesità sono: mancanza di sonno, interferenti endocrini, riduzione del tabagismo, maggiore uso e consumo di farmaci, tra cui gli antipsicotici e gravidanze avute in età avanzata. L’obesità in quanto tale non è considerata un disturbo mentale e non è presente nel DSM-5 come malattia psichiatrica; tuttavia, recenti studi hanno dimostrato una correlazione tra il rischio di sovrappeso e di obesità, con la presenza di disturbi psichiatrici o comportamenti altamente disfunzionali. L’aumento ponderale è causato da alimentazione scorretta e dalla vita sedentaria; entrambi i comportamenti sono fortemente influenzati da condizioni sociali, economiche e culturali. A livello psicologico il soggetto obeso spesso viene isolato ed è sottoposto ad una vera e propria stigmatizzazione sociale, è oggetto di pregiudizi, stereotipi, discriminazioni, problemi occupazionali e relazionali, tutto ciò può ridurre fortemente la possibilità di avere legami affettivi soddisfacenti, stabili e duraturi. I soggetti obesi solitamente hanno bassa autostima, insicurezza, senso di inadeguatezza, idee auto-svalutanti circa l’immagine corporea. Vi è un luogo comune secondo il quale le persone obese o in sovrappeso sono considerate deboli, con scarso autocontrollo e con una bassa autostima.

Lo stigma verso questa categoria si può esprimere con vari atteggiamenti che vanno dalla derisione alla presa in giro. In alcuni casi, si utilizzano soprannomi negativi e denigratori o appellativi che squalificano fortemente l’obeso, il quale, a causa di questo comportamento, si chiude sempre più in sé stesso e trova sollievo e gratificazione solo nel cibo; ciò determina un circolo vizioso per cui la persona più vuole uscire dalla condizione nella quale si trova, più l’unica modalità che conosce, per stare bene, è quella di rifugiarsi nel cibo. Nei casi più gravi, dalla depressione, si passa al suicidio. Le critiche non sortiscono alcun effetto cosi come le prese in giro, entrambe non servono a motivare un soggetto obeso a perdere peso, anzi influiscono ancora di più sulla loro già bassa autostima; in realtà, non è assolutamente cosi: subire critiche e disaccordo, spinge a mangiare sempre più e a convincersi che chiedere aiuto non serva a nulla, in quanto nessuno sembra comprendere. Sul piano chimico, lo stress continuo a cui sono sottoposti aumenta la quantità di cortisolo, ormone che gioca un ruolo chiave favorendo l’appetito e la ricerca di cibi ricchi di zuccheri e grassi. Alla luce di quanto detto, si comprende come l’obesità non possa essere considerata una scelta, ma si tratti, invece, di una vera e propria malattia, determinata da fattori genetici, ambientali, biologici, comportamentali e psicologici. L’obesità risulta essere associata a un maggiore rischio di morbilità oltre che di mortalità e peggiore qualità della vita. È stato dimostrato come un’errata percezione corporea si associ all’aumento della probabilità di diventare obesi, soprattutto in due fasi cruciali: l’infanzia e l’adolescenza. Spesso i minori etichettati come obesi dai loro stessi familiari li inducono a mettere in atto la così detta “profezia che si auto-avvera” ossia è un meccanismo psicologico secondo il quale un individuo convinto o timoroso del verificarsi di eventi futuri, altera il suo comportamento in un modo tale da causare proprio gli eventi che teme è una sorta di cane che si morde la coda.

I personaggi televisivi spingono ad emulare modelli di estrema magrezza; questo stereotipo di magro uguale bello e sano influenza notevolmente le scelte dei giovani per quanto riguarda la preferenza di alcuni cibi. Vedersi in sovrappeso aumenta i livelli di stress che influiscono negativamente sul rispetto delle diete che proprio per questo il più delle volte risultano fallimentari [3].

Secondo Cuzzolaro (2009) [4], il legame di attaccamento svolge un ruolo importante e può portare anche a disfunzioni nell’area dell’alimentazione e determinare confusione tra stati fisiologici e stati emotivi, fino ad arrivare alla strutturazione dei disturbi alimentari. Dalla nostra ricerca è emerso che la maggior parte degli intervistati usa il cibo per gestire e controllare le emozioni di rabbia, noia, tristezza o delusione, pertanto non canalizza in modo corretto ciò che prova o sente. Il piacere provato nel momento in cui si approcciano al cibo è solo immediato perché a lungo termine ciò che prevale è il senso di colpa per non essere riusciti a resistere all’impulso [5].

1.2. Disturbo da Binge-Eating: differenze e aspetti comuni con l’obesità

Il Binge Eating Disorder (B.E.D.) può essere considerato una sottocategoria dell’obesità e a differenza di quest’ultima costituisce una patologia psichiatrica. L’obeso, infatti, assume una grossa quantità di introiti calorici durante la giornata, spinto da uno stimolo legato al senso di fame e di sazietà, mentre il soggetto affetto da B.E.D. si riconosce e si caratterizza per ricorrenti episodi di abbuffate che, secondo i criteri del DSM-5, devono verificarsi, almeno una volta a settimana, per tre mesi [6]. Un episodio di abbuffata è definito tale quando la persona mangia in un determinato periodo di tempo circoscritto (ad esempio due ore), una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che mangerebbe, nello stesso tempo e in circostanze simili, la maggior parte degli individui (DSM 5, APA, 2013) [7]. Tale soggetto esperisce la sensazione di perdita di controllo, nel senso che, una volta iniziato a mangiare, non riesce più a smettere, anche dopo aver soddisfatto il suo senso di fame. Altra caratteristica precipua è l’ingozzarsi, fino a sentirsi spiacevolmente sazi. Gli individui con disturbo da B.E.D. in linea di massima si vergognano e provano imbarazzo per le proprie abitudini alimentari malsane, motivo per il quale spesso consumano il cibo in solitudine e di nascosto. Il soggetto è in balia di: tristezza, paura, ostilità, solitudine, frustrazione e senso di colpa; quest’ultimo è spesso presente in modo eccessivo ed è accompagnato anche dalla rabbia verso sé stessi. Alcuni individui descrivono un senso di estraniamento durante o in seguito agli episodi di abbuffata che talvolta possono essere programmate. In genere, l’antecedente scatenante è un’emozione negativa, che può essere umore depresso o ansioso, ma anche tensione, noia o solitudine; altri fattori possono essere condizioni interpersonali stressanti o sentimenti negativi correlati al peso e alla forma del corpo. Le abbuffate possono minimizzare o attenuare nel breve termine i fattori scatenanti l’episodio ma in seguito subentrano autosvalutazione e disforia. Si crea un circolo vizioso irrefrenabile: mangiare per sentirsi meglio, sentirsi peggio dopo l’abbuffata, per poi tornare al cibo e, cercare in esso, sollievo. Il B.E.D. provoca sovrappeso e obesità; tuttavia, questa patologia psichiatrica va distinta dall’obesità vera e propria ed è opportuna una diagnosi differenziale: gli obesi non si abbandonano a ricorrenti abbuffate e non presentano una compromissione funzionale, inoltre manifestano minore disagio soggettivo, minore senso di colpa e minore comorbilità psichiatrica. La prevalenza di tale disturbo è dell’1,6% nelle donne e dello 0,8% negli uomini. Bisogna precisare come tra i soggetti obesi, soprattutto quelli con obesità grave, sono state riscontrate frequenti e diverse comorbilità psichiatriche quali disturbi dell’umore, tra cui disturbo depressivo maggiore o bipolare, disturbi d’ansia, disturbi del comportamento alimentare come bulimia, anoressia e B.E.D., disturbi di personalità come borderline, istrionico e schizotipico e disturbo da abuso di sostanze; inoltre sembrano essere accomunati da problemi di adattamento al ruolo sociale, tant’è che, l’obesità può fungere da capro espiatorio per le proprie difficoltà relazionali e può spingere a spostare il focus del problema dalla bassa autostima, per esempio, al sovrappeso. Tuttavia va sottolineato come la comorbilità psichiatrica sia legata alla gravità degli episodi di abbuffata e non al grado di obesità. L’emozione negativa provata ammanta tante altre emozioni e spinge alcuni individui a rifugiarsi nel cibo e a mettere in atto episodi di abbuffate compulsive. Si intraprende dunque una strada senza via d’uscita, perché la persona rivolgendosi al cibo non si confronta mai con le situazioni che gli provocano realmente sofferenza. In questo modo, le emozioni dolorose provate si riprodurranno all’infinito e favoriranno l’emergere di nuove abbuffate. Esse, a loro volta, determineranno altre emozioni negative che si aggiungeranno a quelle già vissute. Come detto, il disturbo di solito inizia dopo eventi stressanti che minacciano l’autostima, ad esempio fallimenti scolastici o lavorativi, problemi sentimentali o sessuali e infine difficoltà interpersonali. Gli individui che presentano obesità ma più in generale tutti coloro i quali manifestano disturbi del comportamento alimentare temono il cambiamento e sono certi che se abbandoneranno il loro disturbo disfunzionale si sentiranno ancora più indifesi, soli e incompresi Si tratta di soggetti chiusi in sé stessi, con bassa autostima e che vivono un forte senso di inadeguatezza. I seriali di abbuffate compulsive comunicano con tanta difficoltà le loro emozioni e le loro paure e ritengono di non riuscire a raggiungere gli obiettivi che si sono prefissati. I bingers si convincono dell’inevitabilità del loro stato e si ritengono incapaci di avere soddisfazioni che non siano legate al cibo, che così diventa l’unico sostituto affettivo. Gli “abbuffatori seriali” hanno una sensibilità maggiore verso le richieste altrui, sono fortemente condizionati da come gli altri li considerano, spesso sviluppano un’immagine negativa di sé, senza che questa abbia una base reale. Sia i bulimici che gli anoressici presentano disturbi legati al discontrollo degli impulsi.

Il binge è una modalità comportamentale disfunzionale utilizzata per canalizzare le emozioni.

I soggetti affetti da B.E.D. raramente sono riconosciuti come tali, perché spesso vengono confusi erroneamente con gli obesi o peggio ancora con i bulimici. La principale divergenza tra la Bulimia Nervosa e il B.E.D. consiste nella peculiarità che nella prima l’alimentazione restrittiva anticipa l’abbuffata, invece nel B.E.D. l’introito calorico pre o post abbuffata non viene ridotto. Ciò che caratterizza i soggetti bulimici o gli obesi è il ricorso a numerose diete, questo è il loro tentativo di provare ad esercitare un controllo sull’alimentazione e sul peso.

Dunque è possibile affermare che i soggetti con B.E.D. potrebbero presentare comorbilità psichiatrica. [8]

1.3. Il trattamento dell’obesità

L’obesità attualmente è curata facendo ricorso a diverse terapie tra cui va annoverata la sleeve gastrectomy o gastrectomia verticale parziale che consiste in un intervento di chirurgia bariatrica di tipo gastroresettivo che si ottiene tagliando una parte dello stomaco, riducendone così il volume. Questa tecnica viene eseguita in anestesia generale e rimuove una percentuale elevata dello stomaco. Lo scopo consiste nel far raggiungere al paziente un rapido e duraturo senso di sazietà al fine di ridurre la quantità degli alimenti ingeriti. I vantaggi sono abbastanza evidenti e riguardano il calo ponderale a breve termine e la bassa percentuale di complicanze. Tale opzione terapeutica è scelta sempre più frequentemente nel nostro paese. È chiaro che coloro che intraprendono questa strada, decidendo di sottoporsi all’intervento, debbano seguire un adeguato regime dietetico pre e post operatorio. L’intervento di sleeve gastrectomy non è assolutamente indicato per i soggetti affetti da disturbo del comportamento alimentare. Con questa categoria di pazienti si deve lavorare e puntare in primis sulla prevenzione cercando di trasferire dei concetti apparentemente banali ma che sono alla base della buona riuscita dell’intervento. Corretta alimentazione, movimento e un approccio psicoterapico sono fondamentali per raggiungere dei risultati a lungo termine.

Il rispetto della “compliance” è precipuo per mantenere stabile il peso raggiunto non solo nell’arco dei primi tre anni dall’intervento ma anche successivamente. È evidente che chi si sottopone a questi interventi oltre a dover essere seguito sotto tutti i punti di vista, dovrà seguire una corretta alimentazione, assumendo i giusti introiti calorici, in modo da non commettere più gli stessi errori e non compromettere i risultati ottenuti.

In Italia, per gli aspiranti all’intervento di chirurgia bariatrica è obbligatoria una valutazione psicologica o psichiatrica [9]. La conoscenza psicologica dei pazienti candidati ad intervento di sleeve gastrectomy richiede un’anamnesi accurata che riguarda la loro storia pregressa circa eventuali possibili disturbi alimentari, il ricorso a diete che evidentemente non hanno dato i risultati sperati, esclusione di patologie tiroidee o legate al metabolismo, familiarità all’obesità. In ogni colloquio con i soggetti obesi si valuta il loro livello di autostima, la loro resilienza, le strategie che utilizzano per arginare un problema, le loro capacità di problem solving, eventuale comorbilità con altre patologie, messa in atto di comportamenti disfunzionali con annessa deresponsabilizzazione, resistenza al cambiamento e strategie di coping. I pazienti vengono adeguatamente informati durante il colloquio dell’iter pre e post operatorio e dello stile di vita che dovranno rispettare subito dopo l’intervento [10].

Gli aspetti positivi dell’intervento riguardano una evidente diminuzione ponderale e una regressione della comorbilità psichiatrica, con netto miglioramento dell’umore, evidente riduzione della fame e relazioni intime e personali più soddisfacenti.

Il non rispetto di determinate regole tra cui una corretta alimentazione, movimento e il ricorso alla psicoterapia possono inficiare il buon esito dell’intervento. Il successo dell’intervento bariatrico dipende da molteplici fattori ed è strettamente legato alle caratteristiche di personalità del soggetto, ad aspetti sociali, emotivi oltre che comportamentali. Sarebbe importante capire quali sono gli aspetti in cui il paziente è più carente o mostra maggiori fragilità sì da intervenire tempestivamente, al fine di un miglioramento concreto dopo l’intervento. Proprio per questo si fa ricorso a interventi mirati e personalizzati.

Ciò implica che, in un percorso di cura globale, l’intervento chirurgico vada inteso come una fase, centrale ma non esclusiva, nel trattamento dell’obesità. Un adeguato sostegno psicologico, pre e post operatorio, sono necessari per garantire e aumentare il successo a lungo termine di questo intervento e ridurre il rischio di recidive. Va ricordato come i tratti di personalità dei pazienti giochino un ruolo importante nel determinare l’esito nel trattamento dell’obesità. La terapia chirurgica non va intesa come la soluzione ideale per la maggior parte delle persone affette da obesità, ma è indicata per un sottogruppo di pazienti selezionati e altamente motivati.

1.4. La collaborazione con i familiari del paziente obeso

Il sostegno familiare è risultato efficace nell’adozione di comportamenti funzionali per creare un ambiente idoneo a facilitare il cambiamento nello stile di vita del paziente obeso. Può risultare opportuna la presa in carico dell’intero nucleo familiare. L’intervento può essere focalizzato ad aiutare il paziente a gestire le crisi, fornendo supporto emotivo, soprattutto laddove si presentino cambiamenti umorali. Inoltre, va indagata la storia clinica del paziente, per individuare le cause principali che lo spingono a rifugiarsi nel cibo. Problematiche di tipo relazionale o comportamenti alimentari scorretti appresi in ambito familiare sono spesso presenti. In molti casi, proprio per questi motivi, può essere consigliata una psicoterapia di tipo familiare. La famiglia che in passato può aver avuto un ruolo per determinare le crisi, se non addirittura favorirle, può divenire in seguito un punto di riferimento importante, nel momento in cui viene intrapreso un percorso comune. Laddove siano sciolti alcuni nodi relazionale, la famiglia può costituire un importante supporto nella cura del soggetto obeso. In tal caso, i familiari forniranno sostegno emotivo attivo anche attraverso la messa in discussione dei loro legami ed eviteranno qualsiasi forma di critica.

1.5. L’Obesità al tempo del Covid-19

 L’esperienza connessa alla recente pandemia causata dal Covid-19 ha favorito in molti l’insorgenza di disturbi psicologici di diversa entità. In taluni casi, ha esacerbato la sensazione di perdita di controllo sperimentata dai soggetti che soffrono di disturbi alimentari. La quarantena vissuta ha creato limitazioni di movimento e ha contribuito al mantenimento della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione attraverso diversi meccanismi tra cui: limitata possibilità di camminare, aumento dello stress, aumento delle preoccupazioni e delle situazioni di noia, maggiore esposizione a cibi presenti in casa favorendo e scatenando gli episodi di abbuffata. L’isolamento a casa ha aumentato l’isolamento sociale già vissuto da questi pazienti e ha creato un ulteriore ostacolo al miglioramento del funzionamento interpersonale. L’appoggio, il sostegno e la vicinanza dei familiari sono risultati fondamentali per tutto il percorso dei soggetti che dovranno sottoporsi alla sleeve. I legami e dunque le relazioni sane giocano un ruolo chiave nella buona riuscita dell’intervento in un intervallo di tempo molto più lungo.

Nelle persone con disturbi dell’alimentazione e altre comorbilità psichiatriche, la ruminazione, la preoccupazione e l’ansia legate alla pandemia e al virus, nello specifico, hanno accentuato la condizione preesistente di disagio che ha interagito negativamente con il disturbo alimentare [11].

Per affrontare tali problematiche e continuare ad offrire un supporto sono stati incrementati i trattamenti psicologici, utilizzando la tecnologia online; inoltre, diversi centri clinici hanno implementato servizi ambulatoriali e attività di sostegno in rete, a cui hanno partecipato le figure di riferimento più significative. Sono sorte anche iniziative promosse da gruppi di ex pazienti, anche per contrastare l’inevitabile forte rallentamento delle attività chirurgiche che vi è stato in questi mesi.

La ricerca

2.1 Obiettivo

L’UOSD di Psicologia Clinica è da anni impegnata nella valutazione dei pazienti candidati all’intervento di Sleeve Gastrectomy, presso l’AORN Ospedali dei Colli (Na) [12][13]. Abbiamo condotto uno studio longitudinale rivolto a tali pazienti afferenti tra gli anni 2015 e il 2018 per verificare:

  1. La percentuale di candidati che effettivamente si sottopone all’intervento
  2. La percentuale di pazienti che dopo l’intervento riesce a perdere peso e a mantenere il risultato nel tempo
  3. Quanto e come cambiano le abitudini alimentari e di vita dopo l’intervento
  4. Se viene intrapreso/associato un percorso psicologico.

2.2. Metodo e partecipanti

Ricorrendo ad un’intervista telefonica semi-strutturata, nei mesi compresi tra settembre e dicembre 2019, sono stati contattati circa 200 pazienti candidati all’intervento di gastrectomia parziale che avevano sostenuto sia il colloquio psicologico che psichiatrico nel periodo compreso tra il 2015 e il 2018, secondo le procedure adottate presso l’AORN Ospedali dei Colli (Na) [14].

Il nostro campione finale è di 102 pazienti che hanno acconsentito all’intervista telefonica.

2.3. Risultati e discussione

Il campione è composto da 102 pazienti candidati all’intervento di Sleeve Gastrectomy.

Il 73,5% è costituito da donne e il 26,5% da uomini, con un’età compresa tra 18 e 65 anni.  In particolare il 35% degli intervistati ha un’età compresa tra 36 e 45 anni, il 26% ha un’età compresa tra i 46 e 55 anni, il 22% tra i 26 e i 35 anni, il 9% tra i 18 e i 25 anni e il 7% tra i 56 e i 65 anni.

Il livello culturale è medio basso. Infatti, il 12% ha conseguito solo la licenza elementare senza completare gli studi dell’obbligo, il 51% dei pazienti ha conseguito la licenza media, il 30% ha conseguito un diploma di scuola superiore e solo il 7% la laurea.

Inoltre il 54 % dei partecipanti risulta disoccupato.

Sul totale dei soggetti candidati all’intervento di chirurgia bariatrica è emerso che il 76,5% dei pazienti si è effettivamente sottoposto all’intervento, di cui il 79,5% sono donne e il 20,5% uomini.

Il restante 23,5% dei pazienti ha rinunciato all’intervento, di cui 54,2% femmine e 45,8% maschi.

Di questo sottogruppo circa il 21% riferisce di essere riuscito a perdere peso autonomamente o rivolgendosi ad un nutrizionista.

Tabella 1. Pazienti sottoposti e non all’intervento di chirurgia bariatrica

Riferendoci da questo momento esclusivamente ai pazienti che si sono sottoposti all’intervento di sleeve, osserviamo come la totalità dei partecipanti riferisce di esser riuscita, dopo l’operazione, a perdere peso e a mantenere il risultato nel tempo. Nel valutare questo risultato, oggettivamente eclatante, va tenuto conto della percentuale molto elevata di persone che si sono rifiutate di sottoporsi all’intervista telefonica e che, per ipotesi, potrebbero essere meno soddisfatte dei risultati raggiunti.

In particolare, le donne partendo da un peso medio di 93 kg riferiscono di aver perso in media 52 kg (moda 50 kg; mediana 50 kg), riducendo del 42% il peso iniziale.

Gli uomini partendo da un peso medio di 149 kg affermano di esser dimagriti in media di 67 kg (moda 70 kg; mediana 78 kg), riducendo del 44% il peso iniziale.

Se prendiamo in considerazione la distanza temporale tra l’intervento e l’intervista osserviamo che:

  • nel 2015 è stato operato il 5,2% dei partecipanti alla ricerca di cui il 25% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 50% ha perso dai 41 ai 60 kg e il restante 25% dai 61 agli 80 kg.
  • nel 2016 si è sottoposto all’intervento il 32% dei partecipanti di cui l’8% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 52% dai 41 ai 60 kg, il 36% dai 61 agli 80 kg e il restante 4% più di 81 kg
  • nel 2017 é stato operato il 24,3% dei partecipanti di cui il 26% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 63% dai 41 ai 60 kg, il 5% dai 61 agli 80 kg e il restante 5% più di 81 kg
  • nel 2018 si è operato il 33,3% dei partecipanti di cui il 4% ha perso da 0 a 20 kg il 12% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 54% dai 41 ai 60 kg, il 23% dai 61 agli 80 kg e il restante 8% più di 81 kg
  • nel 2019 si è sottoposto all’intervento il restante il 5,2% dei partecipanti alla ricerca di cui il 50% ha perso dai 21 ai 40 kg, il 25% ha perso dai 41 ai 60 kg e il restante 25% più di 81kg.

Tabella 2. Range di kg persi in base all’anno di intervento

Da quanto riferito, quindi, sembrerebbe che il calo ponderale rimanga abbastanza costante nei primi anni dopo l’intervento, sia pure con delle differenziazioni.

Abbiamo poi indagato se i nostri pazienti, dopo l’operazione, avessero modificato le loro abitudini alimentari e di vita. Il 41% dei pazienti afferma di aver cambiato le proprie abitudini alimentari e di prestare maggiore attenzione agli introiti calorici, il 55% sostiene invece di mangiare di meno ma senza prestare particolare attenzione al quantitativo calorico, solo il 4% dichiara di non aver modificato le abitudini precedenti.

Per mantenere nel tempo i risultati ottenuti, solo il 21% dei pazienti operati ha seguito un percorso nutrizionale, mentre il 79% ha preferito adottare un regime alimentare più corretto in modo autonomo.

In merito alle abitudini di vita l’86% dei pazienti ha modificato il proprio stile di vita, aumentando l’attività fisica e talvolta associando dello sport, il 5% ha modificate parzialmente le proprie abitudini, mente il 9% non ha cambiato le abitudini precedenti.

Riguardo al livello di soddisfazione dei soggetti che hanno portato a termine il percorso di chirurgia bariatrica, ben il 96% dei pazienti sottoposti ad intervento di Sleeve Gastrectomy risulta pienamente soddisfatto. Infatti, il 95% rifarebbe lo stesso trattamento.

Infine, solo l’1% dei pazienti del nostro campione ha accompagnato l’intervento chirurgico con un percorso psicologico.

Provando a commentare i risultati della nostra ricerca, pur con tutti i limiti metodologici, essi ci portano a fare delle riflessioni su una serie di aspetti riguardanti l’obesità e il ricorso alla chirurgia bariatrica come modalità di “risoluzione” del problema.

Dall’analisi del nostro campione emerge innanzitutto che non tutti i pazienti che iniziano un percorso finalizzato all’intervento di Sleeve Gastrectomy lo portano a termine. Nel nostro caso più del 20% dei soggetti candidati non si sono più operati, sia per difficoltà connesse al loro stato di salute, sia perché sono riusciti a perdere peso senza ricorrere alla chirurgia, sia per una motivazione troppo incerta. Non va escluso che anche i colloqui psicologici e psichiatrici possano aver giocato un ruolo, in questo sottogruppo, nel valutare in modo più approfondito la propria motivazione all’intervento.

L’aumento ponderale risulta fortemente determinato da un’alimentazione inadeguata e da uno stile di vita sedentario, non è da sottovalutare l’influenza dei fattori culturali legati al consumo di cibo, soprattutto in una regione del sud Italia come la Campania, in cui, soprattutto nel periodo della prima infanzia, è ancora diffusa l’errata convinzione secondo cui il mangiare tanto è “segno di salute”.

Anche i nostri dati documentano una forte associazione tra status socio-economico (livello scolare e occupazionale) e prevalenza dell’obesità, almeno considerando il gruppo di obesi che vede nell’intervento di chirurgia bariatrica la risoluzione più idonea; infatti il 51% dei partecipanti alla ricerca ha conseguito solo la licenza media e il 54% di loro risulta disoccupato (con media significativamete più basse della media della popolazione campana).

2.4 Conclusioni

Negli ultimi anni la Sleeve Gastrectomy si sta affermando come una delle procedure bariatriche più diffuse, grazie anche a seguiti programmi televisivi, ma anche più efficace per il trattamento dell’obesità. Tuttavia diversi studi confermano la validità dell’intervento e con esso i buoni risultati a breve e medio termine ma non ci danno informazioni certe a lungo termine circa la stabilità del peso raggiunto in un arco temporale più ampio.

Sebbene un limite del nostro studio sia quello di non aver indagato un arco temporale più ampio, in ogni caso è molto rilevante osservare come la totalità dei nostri pazienti afferma di aver perso peso in modo significativo dopo l’intervento e di essere riuscita a mantenere il risultato nel tempo, anche dopo 4 anni (i miglioramenti riferiti al comportamento alimentare e alla perdita di peso, appaiono evidenti nei primi due anni dall’intervento). I nostri risultati, pur limitati quantitativamente e metodologicamente, sono comunque sorprendenti. Noi sappiamo che da solo l’intervento chirurgico non è in grado di modificare lo stile di vita e che le aspettative di una magica rinascita sono spesso esagerate. I pazienti che decidono di intraprendere la strada della chirurgia bariatrica devono acquisire consapevolezza degli errori alimentari commessi e devono seguire un regime dietetico adeguato pre e post operatorio. Dovranno assumere una corretta educazione alimentare diventando “esperti” nella scelta degli alimenti e nel calcolo degli introiti calorici. Coloro che riescono a seguire un regime alimentare rigoroso, praticare esercizio fisico e modificare il proprio stile di vita, hanno maggiori possibilità di mantenere i risultati ottenuti anche nel lungo termine. Eppure, il 96% dei pazienti intervistati afferma di esser riuscito a modificare le proprie abitudini alimentari, nello specifico il 41% presta particolare attenzione agli introiti calorici, il 55% ha ridotto le razioni alimentari. L’86% dei partecipanti alla ricerca ha modificato radicalmente il proprio stile di vita dedicando del tempo anche all’esercizio fisico.

Il 96% dei pazienti sottoposti ad intervento di Sleeve Gastrectomy appare pienamente soddisfatto dell’intero percorso.

Tuttavia, va pure segnalato che appare veramente esigua la percentuale di pazienti che ha richiesto un supporto psicologico. Noi riteniamo che il ricorso ad un supporto psicologico pre e post operatorio, sia comunque importante per identificare quali specifici fattori siano rilevanti nel rapporto con il cibo per ciascun paziente, spostando in questo modo l’attenzione dal corpo alle più profonde dinamiche psicologiche.

Concludendo, la nostra indagine segnala in maniera chiara che la buona riuscita dell’intervento e il conseguente calo ponderale (dovuto alla riduzione dell’appetito e al maggior senso di controllo sul cibo), sortiscono effetti positivi sulla qualità di vita e sulla percezione dell’immagine corporea.

Resta ferma la nostra convinzione secondo cui è necessaria la presa in carico globale del paziente, dal punto di vista medico, nutrizionale e psicologico, al fine di garantire il successo a lungo termine dei risultati ottenuti con il ricorso alla Sleeve Gastrectomy.

 

Fumare ti calma? Uno sguardo alla relazione tra ansia e fumo di sigaretta

I dati epidemiologici su larga scala indicano che gli individui con un disturbo d’ansia o elevati sintomi legati all’ansia hanno una probabilità significativamente maggiore di fumare sigarette e una minor probabilità di smettere

 

L’ansia è una delle condizioni di salute mentale più comuni a livello globale e ad essa è spesso associato il fumo di sigaretta. I dati epidemiologici su larga scala indicano che gli individui con un disturbo d’ansia o elevati sintomi legati all’ansia hanno una probabilità significativamente maggiore di fumare sigarette e una minor probabilità di smettere rispetto a quelli a coloro che non esperiscono sintomi ansiosi (Bandelow et al., 2015; Moylan et al., 2012; Piper et al., 2010). A conferma di ciò, alcuni studi mostrano che il 37.8% dei fumatori soddisfa i criteri diagnostici per un disturbo d’ansia, rispetto al 21.3% dei fumatori che non presentano un disturbo di salute mentale (Lawrence et al., 2010). Inoltre, i tabagisti con ansia mostrano tassi di abbandono del fumo più bassi rispetto ai fumatori della popolazione generale (Lasser et al., 2000). Di conseguenza, i fumatori con ansia presentano una quantità sproporzionata di malattie e disabilità legate al tabacco (Grant et al., 2004; Williams et al., 2013).

La robusta evidenza empirica e teorica della relazione tra ansia e fumo ha incoraggiato una proliferazione della ricerca sull’argomento (Tidey et al., 2015; Leventhal & Zvolensky, 2015). La revisione di Garey e colleghi ha sintetizzato queste evidenze, facendo un sunto della panoramica narrativa delle ricerche più importanti, significative e recenti sul relazione tra l’ansia e il fumo di sigaretta (Garey et al., 2020). I risultati degli studi hanno confermato che coloro che soffrono di ansia hanno maggiori probabilità di essere fumatori, evidenziando un alto tasso di co-occorrenza tra queste condizioni. In particolare, è stato trovato un supporto transculturale per questa associazione. La maggiore prevalenza di fumo tra gli individui con ansia è piuttosto allarmante considerando i sostanziali fattori di rischio sociali, psicologici e medici associati a ciascuna condizione (Bandelow et al., 2015; Leventhal & Zvolensky, 2015; Jiang et al., 2014).

Sono stati proposti diversi modelli teorici per spiegare l’alto tasso di co-occorrenza tra sintomi e disturbi d’ansia e fumo (Morrisette et al., 2007). Uno dei modelli più solidi è il modello di rinforzo negativo della dipendenza (Baker et al., 2004). Questo modello postula che l’autosomministrazione di una sostanza (in questo caso, la nicotina) sia condizionata dalla misura in cui essa serve a terminare o mitigare un evento avverso (per esempio, i sintomi dell’ansia) (Baker et al., 2004). Dato che la nicotina produce effetti ansiolitici acuti (Morrisette et al., 2007, Pomerlau et al., 1994) i fumatori che sperimentano sintomi di ansia elevati sono più inclini a usare il fumo come mezzo per regolare il loro umore (Morrell and Cohen, 2006). Quando questi individui diventano ancor più dipendenti dalla nicotina, possono usarla non solo per mitigare i fattori di stress quotidiani, ma anche in risposta ai sintomi di assuefazione alla nicotina (Baker et al., 2004). Tale associazione rinforzata negativamente crea un ciclo che consolida la relazione tra ansia e fumo, portando a un peggioramento dei sintomi legati all’ansia nel tempo attraverso l’astinenza e/o le conseguenze fisiche sulla salute che si sviluppano con il fumo. Ciò si può tradurre in una più grave dipendenza da nicotina (Piper et al., 2011; Breslau et al., 1992).

Sulla base di tali evidenze, sarebbe auspicabile che clinici e ricercatori considerino l’alto tasso di co-occorrenza tra queste condizioni (Zvolensky et al., 2005). Infatti, è probabile che attraverso l’integrazione di queste conoscenze in un protocollo unificato per il trattamento dell’ansia e del tabagismo si ottengano esiti più favorevoli in terapia (Tidey et al., 2015). Inoltre, mentre la revisione di Garey si è concentrata sull’ansia come fattore di rischio per la dipendenza da fumo di sigaretta, ci sono notevoli prove che il fumo rappresenti un fattore di rischio per un peggioramento dell’ansia (Bakhshaie et al., 2016); quindi, sarebbe importante che la ricerca studi il fondamento biologico di queste relazioni fornendo maggiore chiarezza in merito.

In attesa di ulteriori ricerche sul tema, è bene tener presente la stretta connessione tra sintomi ansiosi e dipendenza da nicotina, concependo questa relazione come un ciclo a due fattori che si alimentano a vicenda. Per questo motivo, sarebbe importante che gli interventi con soggetti che presentano queste due problematiche in comorbilità tengano conto di entrambe le componenti per massimizzare i risultati dei trattamenti.

Come gestire lo stress da Covid-19 (2021) di Laura Pisciotto – Recensione del libro

Come gestire lo stress da Covid-19 è un manuale di auto aiuto scritto da Laura Pisciotto, giovane psicologa siciliana ed istruttrice di Mindfulness.

 

La pandemia da Covid-19 ha fatto crescere il disagio mentale in tutto il mondo. Come evidenziato da Ghebreyeus T.D., direttore generale dell’OMS, in un editoriale pubblicato da World Psichiatry, esiste il rischio che si verifichi un’ondata di disturbi da stress post-traumatico nella popolazione (Tedros Adhanom Ghebreyesus, 2020). Lo stress da pandemia è generato da varie preoccupazioni legate alla salute, all’isolamento, ma anche al cambiamento delle abitudini di vita ed al timore di un peggioramento del proprio status socio-economico.

Generalmente, quando si verificano delle epidemie, gli interventi di soccorso vengono organizzati con una attenzione, quasi esclusiva, per la tutela della salute fisica. La società contemporanea sta tentando di compiere un passo avanti occupandosi del disagio psichico che, condizioni straordinarie, come quelle legate all’infezione da Covid-19, generano.

Il libro scritto dalla dottoressa Pisciotto è una testimonianza del cambiamento necessario, in questo momento storico, rispetto al tipo di azioni da mettere in atto per una tutela della salute intesa in senso globale.

La guida, di poche pagine, è una pubblicazione indipendente che utilizza per lo più un font caratterizzato da interlinee e spaziature più ampie del normale, inoltre le illustrazioni e gli schemi non interrompono le righe del testo favorendone una facile leggibilità. L’autrice propone una serie di esercizi di respirazione basati sulle tecniche della Mindfulness, particolarmente adatte al trattamento del disturbo da stress post-traumatico. Mindfulness è un termine inglese che significa consapevolezza intesa nel senso espresso dall’incipit di questo manuale di auto aiuto:

La guida ha l’obiettivo di aiutarti a disattivare il pilota automatico e iniziare a vivere più consapevolmente nel qui e ora, senza le angosce del passato o le ansie del futuro.

Gli esercizi proposti si rivelano efficaci se effettuati per un periodo di almeno tre settimane, inoltre occorrerà monitorare, attraverso la compilazione giornaliera di un diario, le sensazioni ed le emozioni provate.

In un’intervista rilasciata a telesudweb la dottoressa Pisciotto ha chiarito come il suo libro abbia come obiettivo, non quello di proporre tecniche di rilassamento, ma quello di raggiungere l’accettazione di ciò che attualmente si sta vivendo. La giovane autrice, in quest’occasione, descrive la pandemia come una bolla, all’interno della quale tutti ci troviamo, non possiamo modificarla ma possiamo e dobbiamo chiederci come ci sentiamo, quali sono le nostre emozioni  e cosa possiamo fare per accettarla, pur rimanendo al suo interno.

Il Dilemma della Gazzella

In Italia si stima che 2,8 milioni di persone sono affette da un problema di depressione cioè il 5,4% della popolazione adulta, la metà di questi casi è associato ad un problema di ansia cronica grave che interessa 2,2 milioni di cittadini sopra i 15 anni, cioè il 4,2% della popolazione.

 

 L’ultimo rapporto ISTAT sulla salute mentale riporta che solo il 15% della popolazione adulta con disturbo depressivo o di ansia cronica grave si è rivolta allo psicologo (Rapporto sulla Salute Mentale, 2018).

La domanda: come si comporta il restante 85%?

Cresce il ricorso a professioni non riconosciute e afferenti all’area psicologica:

Tale crescita avviene nonostante la credibilità e autorevolezza riconosciute a psicologi e psicoterapeuti è nettamente superiore a quelle riferite a professioni non riconosciute e afferenti all’area psicologica quali counselor, motivatori e life coach, ecc… Allo psicologo psicoterapeuta vengono attribuite capacità di “equilibrare” (57%), “curare” (49%), “guarire” (48%) e “migliorare” (44%) ben più alte che a figure quali Counselor (22%, 9%, 9%, 23%), Life Coach (21%, 10%, 10% e 34%) e Motivatore (23%, 11%, 13% e 40%) (Indagine di Mercato sulla Psicologia Professionale in Italia, 2016).

Cresce l’interesse per le discipline orientali o trascendentali:

Si stima che oggi lo yoga in Italia sia praticato da oltre 2 milioni di persone. Gli istituti che insegnano yoga – in una delle sue innumerevoli declinazioni (Viniyoga, Hatha, Ashtanga, Vinyasa, Bikram e così via) – sono circa 2.000, numero raddoppiato negli ultimi 10 anni (Yoga, una passione per 2,5 milioni di italiani, 20 Giugno 2019).

Cresce l’interesse per l’occultismo:

Ad oggi sono circa 13 milioni i cittadini italiani che ogni anno si rivolgono a maghi, astrologi, cartomanti e veggenti, oltre 3 milioni in più rispetto al 2001 (Occultismo: ogni anno 13 milioni di italiani consultano maghi e veggenti, 1 Ottobre 2017).

Cresce il consumo di farmaci antidepressivi o ansiolitici:

La media italiana di persone che assumono una dose giornaliera di antidepressivi è pari a 39,87 ogni mille persone. Il dato è in forte crescita rispetto a quello del 2006 quando era 30,08 con un aumento, quindi, del 32,5%.  Per quanto riguarda gli ansiolitici nel 2020 c’è stato un aumento dell’acquisto di ansiolitici pari al +12% (Uso dei farmaci in Italia Rapporto Nazionale, 2019).

Quali sono i bisogni ignorati dalla psicologia?

 La percezione della popolazione è che la psicologia/psicoterapia si occupi esclusivamente di malattie e non del male di vivere o di dolori esistenziali. Ed ecco che la conseguenza di tale ragionamento si manifesta nella convinzione che la figura dello psicologo/psicoterapeuta intervenga in una situazione di malessere e si prenda cura di un danno, mentre per risolvere problemi della sfera esistenziale e sentimentale o legati ad una sfera più ampia di benessere psico/fisico o dell’anima, è necessario rivolgersi altrove (Indagine di Mercato sulla Psicologia Professionale in Italia, 2016).

Se il disagio mentale è percepito come una malattia, si sceglie di curarlo attraverso lo strumento che più di tutti identifica la cura: il farmaco. Il medico diventa quindi colui che prescrive la cura: nessuna relazione diviene necessaria.

Se il malessere è percepito come esistenziale, sentimentale o comunque trascendente rispetto alle categorie della scienza, si preferiscono le discipline orientali, l’occultismo, le discipline pseudo psicologiche, ecc… prediligendo un approccio più olistico, carismatico, legato a una dimensione di fascinazione e mistero.

In conclusione la tesi di questo articolo è che le neuroscienze, la neurobiologia e il sempre crescente bisogno della psicologia di attenersi al metodo scientifico finirà inevitabilmente per escludere dal proprio campo di azione quell’universo di senso non misurabile e trascendente che indubbiamente caratterizza l’uomo e la relazione tra essere umani.

La sacralità del rito soggettivo ed esclusivo della relazione tra persone si trasformerà esclusivamente in un processo medico in cui il terapeuta cura il disagio attraverso protocolli a marchio registrato in una continua ed inesorabile materializzazione della dimensione mentale.

Qui non si contesta l’efficacia delle neuroscienze, che dimostrano di avere un potenziale enorme in molteplici campi applicativi, ma di certo tale approccio non risponde a quel bisogno di trascendenza e di senso che di fatto l’essere umano ricerca in ogni forma di relazione.

 

La depressione secondo le neuroscienze affettive

In tema di depressione, le neuroscienze si sono a lungo concentrate sui correlati fisiologici e sulle cause del comportamento depressivo nei modelli animali.

 

L’oggetto principale di ricerca degli ultimi trent’anni (anche se non certo l’unico) è stato quello della deplezione della serotonina (Harro, Oreland, 2001), tuttavia è altresì noto come la riduzione o bassi livelli di serotonina nel cervello non provochino di per sé la depressione e tanto meno possa questa avere un ruolo specifico per l’umore depresso, in quanto si tratta di un modulatore che interviene in tutti gli umori, non solo in quelli depressivi (Delgado et al, 1990). Infatti i farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) vengono utilizzati non soltanto per la depressione, ma anche per una quantità di altri problemi emotivi come nel caso degli attacchi di panico o per il disturbo ossessivo-compulsivo, e per lo stesso motivo questi farmaci non funzionano per tutti i tipi di depressione. Perciò, molto più probabilmente i correlati delle sindromi depressive vanno cercati in profondità nei meccanismi cerebrali specifici che generano i sentimenti depressivi. La specificazione “I sintomi non sono meglio giustificati da lutto” all’interno del quadro diagnostico del Disturbo Depressivo Maggiore nel DSM-5 suggerisce che la depressione sia caratterizzata da un complesso di sentimenti che ricordano molto quelli associati al lutto, avendo sempre a che fare con una perdita. Numerosi studi hanno mostrato come tra i fattori predisponenti alla depressione ci siano esperienze di separazione precoci; lo stesso Bowlby ha sostenuto che nella maggior parte dei casi un primo episodio depressivo possa essere innescato da una perdita sociale.

Da una prospettiva evolutiva, le emozioni si sono conservate per compiere azioni specifiche in situazioni biologicamente significative e di sopravvivenza. I diversi tipi di affetti che possiamo sperimentare hanno lo scopo fondamentale di motivare l’organismo a promuovere la propria sopravvivenza e il successo riproduttivo. Nella teorizzazione di Jaak Panksepp, il sistema SEEKING – regolato da diversi neurotrasmettitori, ma in modo principale dalla dopamina – è quello che incoraggia i mammiferi ad interagire con l’ambiente: quando è attivo, spinge gli animali a soddisfare i propri bisogni ma anche a ricercare sempre nuove opportunità di gratificazione, a esplorare con curiosità ed eccitazione (Panksepp, 1982). Viceversa, la ipoattivazione di tale sistema sarebbe associata a sensazioni di vuoto, mancanza di speranza e di interesse. Le disfunzioni del sistema SEEKING influenzerebbero il funzionamento psicobiologico dei mammiferi e ciò comporta implicazioni significative per la psicopatologia umana. L’iperattività di questo sistema affettivo potrebbe riflettersi in comportamenti di dipendenza, così come la sua inibizione causerebbe una totale mancanza di piacere durante l’attivazione dei sistemi di ricompensa.

L’altro sistema fortemente coinvolto nella depressione secondo questo punto di vista è il PANIC/GRIEF, cioè quello dello stress da separazione, la cui attivazione è facilmente identificabile nei modelli animali grazie ad esempio alle distress vocalization. Bowlby ha descritto questi comportamenti come appartenenti a una fase di ‘protesta’ acuta a cui segue una ‘disperazione’ cronica, che probabilmente si è evoluta per proteggere l’animale isolato (spesso, un cucciolo allontanatosi dalla madre) dall’esaurimento metabolico o per distogliere l’attenzione dai predatori. In pratica, quando un legame sociale viene spezzato, per via di un lutto o di una separazione, l’individuo cerca disperatamente il ricongiungimento (protesta – attivazione sistema PANIC/GRIEF). Se ciò non è possibile, entra in gioco un secondo meccanismo, che attenua lo stress da separazione e porta il soggetto ad arrendersi (disperazione – disattivazione sistema SEEKING). Il sistema dello stress da separazione viene sensibilizzato dal rilascio di ormoni e peptidi come prolattina e ossitocina, e questo sarebbe probabilmente il motivo per cui nelle femmine i meccanismi che mediano l’attaccamento e la separazione sono molto più sensibili (sono soggette alla depressione quasi il doppio delle donne rispetto agli uomini). La cessazione della fase di protesta è determinata dalle dinorfine, che bloccano l’aumento di dopamina e in termini di comportamento, sostituiscono comportamenti positivi di estroversione con comportamenti negativi di ritiro. Questo stato di intorpidimento può, come dicevamo, essere indotto da una perdita reale o ideale, ma tutte culminano in quella configurazione neurodinamica e nella stessa esperienza soggettiva. Nelle indagini psicoanalitiche emerge spesso come la depressione comprenda sentimenti di rabbia, che in ogni caso vengono inibiti o internalizzati come meccanismi autopunitivi. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che la frustrazione del sistema SEEKING normalmente provoca risposte di rabbia (sistema RAGE). La speranza, il senso di fiducia vengono rimpiazzati da un attacco al sé. Alcuni individui sono in grado di reagire piuttosto bene alle perdite, mentre altri soccombono al dolore e alla depressione (Panksepp, 2004).

Il vantaggio in termini di sopravvivenza di questo meccanismo così doloroso sarebbe quello di incoraggiare la formazione di legami di attaccamento, in particolare con le figure di accudimento precoce – ma anche con partner, pari e gruppi sociali. Nel momento in cui questi legami siano indeboliti o persi del tutto, lo stesso meccanismo ci indurrebbe ad abbandonare le speranze di un ricongiungimento se i tentativi superano un certo tempo limite di sopportazione della sofferenza (Watt, Panksepp, 2009).

 

Perfezionismo. Un approccio relazionale alla comprensione, alla valutazione e al trattamento (2020) di Paul L. Hewitt, Gordon L. Flett, Samuel F. Mikail – Recensione del libro

Il libro Perfezionismo offre una panoramica di varie teorie psicologiche su ciò che si cela dietro questo fenomeno per poi proseguire con la descrizione di come si sviluppa.

 

Frutto di oltre vent’anni di studi e ricerche sul perfezionismo, il testo di Paul L. Hewitt, Gordon L. Flett e Samuel F. Mikail, rappresenta a mio avviso, la stato dell’arte in tema di perfezionismo, che consente di addentrarci nei vari aspetti e tratti, nelle origini, nelle cause e nelle funzioni che lo stesso perfezionismo ha nella vita della persona, nei costi e vantaggi per lo stesso soggetto o per chi si relaziona ad esso. Gli autori ci descrivono il loro modello di concettualizzazione (Modello Comprensivo del Comportamento Perfezionistico, CMPB, e Modello della Disconnessione Sociale del Perfezionismo) e le relative indicazioni di trattamento.

Il testo, il cui titolo originale è Perfectionism. A Relational Approach to Conceptualization, Assessment, and Treatment, viene tradotto in italiano e realizzato grazie al supporto scientifico di Tages Onlus e pubblicato da Giovanni Fioriti Editori.

Il primo capitolo offre una panoramica storica dei contributi di varie teorie psicologiche tutte confluenti verso il considerare che ciò che si cela dietro al perfezionismo sia alla base un bisogno di nascondere, correggere e controllare aspetti di sé ritenuti e giudicati come imperfetti.

Segue poi la descrizione del Modello Comprensivo del Perfezionismo, dove il perfezionismo viene descritto come uno stile di personalità con diversi aspetti e sfumature, che opera su diversi livelli (motivazionali, cognitivi, emotivi, comportamentali, relazionali), distinguendone tre dimensioni di tratto:

  • Perfezionismo autodiretto, caratterizzato dal bisogno di essere perfetti agli occhi degli altri;
  • Perfezionismo eterodiretto, dove l’esigenza consistente nel percepire gli altri attorno a sé come perfetti, con relativi atteggiamenti ipercompetitivi, aspetti narcisistici;
  • Perfezionismo socialmente prescritto, (la perfezione che si pensa che venga pretesa dagli alti e soprattutto in specifici settori come ad esempio a lavoro).

Per ognuna della tre dimensioni, gli autori offrono un ricco approfondimento circa gli stili cognitivi, emotivi, comportamentali e relazionali accompagnati da casi clinici.

Ma come si sviluppa il perfezionismo?

Partendo dai diversi contributi teorici ad oggi presenti in letteratura, uniti a studi, approfondimenti e ricerche degli stessi autori del libro, lo sviluppo del perfezionismo viene spiegato mediante il Modello della Disconnessione Sociale del Perfezionismo (PSMD). All’interno del modello vengono individuate variabili correlate e spesso riscontrabili in persone in cui i tratti tendono ad essere esasperati, quali una marcata sensibilità presente sin da bambini, stili di attaccamento insicuro, esperienze traumatiche precoci, parenting autoritario o trascurante. In tal senso il perfezionismo viene considerato come una sorta di risposta a bisogno di attaccamento e bisogni relazionali insoddisfatti.

Ma le variabili, continuano ad argomentare gli autori, sono molteplici ed ogni persona è unica, pertanto il successo di una terapia consiste anche nell’adeguata comprensione del professionista circa il ruolo che il perfezionismo ha nella vita di quella specifica persona.

Segue nel capitolo settimo la trattazione dell’assessment psicodiagnostico, dove gli autori metteranno in luce ciò che dalla loro prospettiva diventano aspetti rilevanti da indagare a partire soprattutto da ciò che accade in seduta e all’interno della relazione terapeutica, accompagnata da suggerimenti circa strumenti da poter utilizzare durante tutto il processo terapeutico.

Appositi link riportati all’interno del manuale consentono di accedere a strumenti di assessment sviluppati dagli autori del testo e validati in lingua italiana da Cavalletti e Cheli.

L’ultima parte del testo approfondisce due protocolli di trattamento, condividendo con il lettore gli aspetti centrali della terapia individuale e della terapia di gruppo, proposta dagli autori secondo il loro modello dinamico-relazionale. Anche in questo caso vengono fornite ricche argomentazione degli aspetti sui quali si lavora, casi clinici appositamente diversi fra loro, dati attuali di efficacia proprio per non considerare il lavoro degli autori un punto di arrivo ma, come dicevo ad apertura, lo stato dell’arte di un lavoro ancora in crescita, che invita ad andare oltre il sintomo per accogliere la complessità della persona ed adattare la psicoterapia all’individuo e non il contrario.

Un manuale senza dubbio ricco ed interessante, completo ed accurato, utile per il professionista al di là del suo orientamento teorico di riferimento, fonte di riflessione ed ispirazione per la pratica clinica.

 

Psichiatria territoriale. Strumenti clinici e modelli organizzativi – Recensione

Il manuale Psichiatria territoriale mette a fuoco pregi e limiti dell’attuale modello organizzativo dei servizi della salute mentale per poi approfondirne l’organizzazione, occupandosi infine della descrizione delle diverse tecniche di intervento

 

Il libro Psichiatria territoriale. Strumenti clinici e modelli organizzativi affronta e risponde a quesiti importanti sullo stato attuale dell’intervento nell’ambito della salute mentale e su come migliorarne le pratiche e l’efficacia, soprattutto nell’ambito pubblico; esso fornisce tuttavia utili indicazioni anche per pratica clinica privata, sia per il suo potere informativo che formativo.

Disponendo di una bibliografia molto recente con puntuali e ampi riferimenti a esperienze nazionali e internazionali, a linee guida, a trattamenti evidence based (EBP) e soprattutto alla real world, il manuale si attesta nella letteratura scientifica come preziosissimo strumento e importante punto di riferimento.

La prima parte del manuale mette a fuoco pregi e limiti dell’attuale modello organizzativo dei servizi della salute mentale, basato sulla diagnosi e sugli interventi evidence based per la riduzione dei sintomi, sottolineano l’importanza di prestare attenzione anche a ciò che sembra più rilevante per i pazienti: risultati esistenziali, sociali e somatici, aspetti che riguardano la resilienza, la riabilitazione, la recovery. Specificamente, un capitolo è dedicato alla diagnosi e uno alla recovery dal punto di vista di vari approcci metodologici.

Tutto ciò richiede inedite iniziative su servizi nuovi, come un istituto di riabilitazione, il sostegno strutturale dei pari, l’assegnazione di alloggio, il collocamento e il sostegno individuale e il dialogo aperto, che potrebbero essere difficili da attuare negli SSM tradizionali.

La complessità costituisce la lente di lettura attraverso cui avviene la valutazione delle vecchie e nuove strategie di intervento, delle diagnosi e della recovery: un approccio e una analisi che fanno continuo riferimento tanto ai costrutti teorici quanto alla vita reale, con i rispettivi punti di forza e debolezza.

La seconda parte è dedicata all’organizzazione dei servizi della salute mentale in Italia, a confronto con il contesto europeo. Viene preso in esame il ruolo dei fattori sociali nella malattia mentale e le implicazioni per la prevenzione e per il trattamento. Nonostante la tendenza nella psichiatria moderna si orienti verso l’incremento degli interventi territoriali e la diminuzione dei ricoveri, la situazione italiana deve ancora affrontare alcuni punti critici che vengono presi in esame nel testo per poi proporre nuovi modelli possibili.

Viene anche individuata con chiarezza la necessità di innovazione rispetto alla misurazione dell’efficacia dei trattamenti: in luogo della check-list dei sintomi viene indicata l’opportunità di riferirsi a advocacy e recovery, connessione, ottimismo, identità personale, significato personale nella vita, empowerment, assunzione responsabile dei rischi e capacità di fronteggiare le sfide.

In questa prospettiva, viene dedicato un capitolo per l’organizzazione di ogni forma di servizio: DSM, servizi territoriali CSM, interventi riabilitativi sul territorio, SPDC e day hospital, REMS, salute mentale in carcere, con attenzione particolare alle raccomandazioni evidence based.

La terza parte del manuale si occupa della descrizione di diverse tecniche di intervento, introdotte dall’analisi del concetto di integrazione in medicina e psichiatria e dalla descrizione degli interventi psicosociali integrati evidence based e i loro outcome, in paragone con gli interventi singoli: con riferimento sia alla teoria che al mondo reale. Il testo espone i nuovi modelli di training delle abilità sociali per la schizofrenia.

Viene inoltre dedicato spazio alla Cognitive Remediation nelle sue più recenti forme, agli interventi psicoeducativi per le malattie mentali gravi (in particolare la schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo depressivo, disturbi gravi di personalità). Un ruolo importante nell’outcome dei disturbi mentali gravi è quello del clima familiare, per cui sono messi in luce diversi interventi di supporto per i familiari dei pazienti, con focus particolare sulla psicoeducazione.

Anche il concetto di integrazione in psicoterapia è descritto attraverso l’indicazione di alcuni criteri terapeutici ed organizzativi che possano essere utilizzati in maniera flessibile in diversi e specifici contesti: in tal senso vengono indicati gli ostacoli che possono insorgere.

Un capitolo è dedicato alla psicofarmacologia dal punto di vista dell’operatore, il quale si trova a valutare vari fattori nella scelta del farmaco in una prospettiva clinica eppure considerando anche gli aspetti organizzativi e gestionali.

Un argomento correlato trattato è la farmacoresistenza, con puntualizzazioni sui disturbi psicotici e depressivi. È inoltre presente una presentazione degli interventi non farmacologici di brain stimulation, dal punto di vista clinico e biologico.

Un altro tema importante cui viene dato spazio – sia in termini descrittivi che operativi – è la gestione dell’aggressività in ambito psichiatrico, con preziose indicazioni sulla prevenzione, tecniche di de-escalation e la tranquillizzazione.

L’integrazione degli interventi viene esemplificata nella quarta parte del manuale, con modelli di intervento per popolazioni speciali.

Sui disturbi dell’alimentazione viene presentato il quadro della ricerca attuale al riguardo, con le terapie consigliate dalle linee guida e sostenute dalla ricerca, i livelli di assistenza in Italia, nonché le problematiche riscontrate nel nostro paese e alcune proposte di miglioramento dei servizi.

Viene affrontato anche il concetto di “doppia diagnosi”, con esemplificazioni delle doppie diagnosi più riscontrate e un excursus sulle psicosi da sostanze. Altri argomenti trattati sono gli stati mentali a rischio, gli esordi psicotici in preadolescenza e adolescenza e l’organizzazione di un servizio per tali esordi psicotici, gli aspetti specifici dell’intervento sui migranti e rifugiati, gli elementi di base per l’ascolto di persone LGBT, i disturbi severi di personalità, il disturbo da accumulo, il disturbo ossessivo compulsivo, l’ADHD nell’adulto.

Troviamo inoltre utili chiarimenti sull’argomento delle emergenze epidemiche/calamità naturali, con la descrizione dei servizi e tecniche di intervento specifiche.

L’ultima parte del libro è dedicata al lavoro in team introducendolo dapprima come teoria – con riferimenti alla teoria dei giochi e alla leadership generativa – per poi scendere sul campo e presentare aspetti concreti dell’interazione complessa tra i servizi psichiatrici e altre agenzie territoriali.

Un capitolo viene dedicato anche alla sicurezza delle cure in psichiatria, con riferimento alla legge Gelli-Bianco e le sue implicazioni operative.

Gli ultimi capitoli ci illustrano le nuove sfide della psichiatria in ambito computazionale, l’utilizzo/implementazione delle applicazioni digitali e della realtà virtuale in ambito psichiatrico.

Il libro contiene molti schemi sintetici che facilitano la comprensione e aiutano ad avere uno sguardo anche panoramico, oltre che analitico.

Consiglierei vivamente Psichiatria territoriale. Strumenti clinici e modelli organizzativi a tutti i professionisti della salute mentale nel loro aggiornarsi a livello tanto teorico quanto nelle metodologie e nelle pratiche di approccio alle varie specifiche casistiche.

 

Food addiction: analogie e differenze tra i disturbi da addiction e gli episodi di binge-eating

L’espressione food addiction ha raggiunto negli ultimi anni una significativa diffusione mediatica, generando una conseguente proliferazione di dibattiti nella comunità scientifica circa la validità e l’utilità clinica di tale dicitura e concettualizzazione.

 

 Nonostante siano evidenti e dimostrabili analogie tra gli episodi di binge-eating e la fenomenologia dei disturbi da addiction; vi sono anche delle differenze intrinseche significative, riguardanti: psicopatologia, epidemiologia e fattori di rischio (Dalle Grave, 2019). La prima comparsa in letteratura del concetto di food addiction risale al 1890 (Meule, 2015), con riferimento al consumo di cioccolata; l’espressione è stata, però, ufficialmente coniata dal ricercatore americano Theron Randolph per descrivere il consumo, analogo alla dipendenza pura, di alimenti quali: caffè, latte e patate (Randolph, 1956).

Tale concettualizzazione si è concretizzata nel modello della food addiction i cui sostenitori ritengono che alimenti processati, colmi di grassi e zuccheri, siano caratterizzati da proprietà che potrebbero innescare il meccanismo della dipendenza, in soggetti biologicamente più vulnerabili (Schulte, Avena, & Gearhardt, 2015). Negli ultimi anni è stata postulata l’ipotesi secondo cui tali alimenti possano assumere la valenza di trigger circa l’esordio della psicopatologia alimentare (Treasure, Leslie, Chami, & Fernandez-Aranda, 2018). Oggigiorno permane un disaccordo intrinseco anche nei sostenitori del modello stesso della food addiction: chi ritiene che si tratti di una dipendenza da sostanza, in maniera analoga ai canonici disturbi da uso di sostanze e chi sostiene l’ipotesi di una dipendenza comportamentale, come ad esempio il gioco d’azzardo. Altri autori ribadiscono la scarsità dell’evidenza scientifica sulle proprietà di dipendenza intrinseche nei cibi, motivo per cui hanno proposto una nuova dicitura: eating addiction (Hebebrand et al., 2014). Per favorire maggiore chiarezza sul confine di demarcazione tra episodi di abbuffata e disturbo da uso di sostanze, vengono di seguito riportate le relative analogie e differenze. Le similitudini: il craving (desiderio propulsivo e inarrestabile di ricercare la sostanza), la sensazione di perdita di controllo, la preoccupazione per il comportamento attuato, la finalità immunizzante dell’atto, il tentativo di mantenere segretezza a riguardo, la persistenza del comportamento nonostante le conseguenze avverse e infine i ricorsivi tentativi fallaci di eliminare il comportamento problema (Fairburn, 2013).

Risulta, però, opportuno rivolgere il focus attentivo sulle altrettante divergenze tra i due fenomeni:

  1. Gli episodi di abbuffata non implicano necessariamente il consumo di categorie specifiche di alimenti e l’elemento discriminante, in termini diagnostici per definire un episodio di abbuffata, non è la qualità del cibo, bensì la quantità e il tempismo (Wilson, 2010).
  2. Gli individui con disturbi dell’alimentazione hanno una spinta repulsiva ad evitare gli episodi di abbuffata, a differenza di quelli con disturbo da addiction che devono essere motivati a resistere all’assunzione della sostanza (Fairburn, 2013).
  3. Gli individui soggetti ad abbuffate sono spesso vittime del circolo restrizione-abbuffata che inevitabilmente li rende più vulnerabili a cedere all’impulso (Fairburn, 2013), contrariamente al disturbo da uso di sostanze che non prevede una maggiore vulnerabilità all’abuso della sostanza quando si cerca di evitarla (Benton, 2010).
  4. L’eziologia del disturbo da binge-eating è multifattoriale: caratterizzata dall’interrelazione tra fattori di rischio biopsicosociali e ambientali, dunque non esclusivamente connessa alla malnutrizione (Fairburn et al., 1998).

 La relazione tra uso di sostanze ed episodi di abbuffata non è, dunque, propriamente specifica (Wilson, 2010): sebbene sia stato osservato che l’età di insorgenza della psicopatologia alimentare sia antecedente a quella dei disturbi da addiction; i dati epidemiologici indicano che i pazienti che riducono gli episodi di binge-eating non li sostituiscono con l’abuso alcolico o con altre sostanze stupefacenti (Karacic et al., 2011). Sostenere, dunque, i modelli di food addiction o eating addiction in toto risulterebbe inappropriato e impreciso, in quanto renderebbe il concetto di addiction riduttivo e onnicomprensivo; in quanto applicabile a qualunque manifestazione di comportamento ricorsivo caratterizzato da una ricerca costante; come ad esempio l’attività sessuale. In conclusione è fondamentale ribadire che, nonostante venga escluso il modello della food addiction nell’eziologia della psicopatologia alimentare, è comunque raccomandabile l’implementazione di interventi di natura preventiva, che possano favorire l’adozione di un’alimentazione salutare, cercando di ridurre al minimo la sedentarietà e il consumo massivo di cibi processati (Dalle Grave, 2019).

 

Psicopandemiano: diario emotivo di una psiche in pandemia (2021) di Umberto Maria Cianciolo – Recensione del libro

Psicopandemiano: diario emotivo di una psiche in pandemia ha l’obiettivo di parlare attraverso il linguaggio delle emozioni, come si evince dal titolo e dall’indice stesso. I capitoli, infatti, prendono infatti i nomi delle emozioni primarie: Rabbia e Paura, Tristezza e Gioia, Sorpresa e Attesa, Disgusto e Accettazione.

 

 Psicopandemiano: diario emotivo di una psiche in pandemia è la prima opera di Umberto Maria Cianciolo. Umberto, dopo aver completato brillantemente il ciclo di studi previsto nella lunga strada per diventare psicologo, si trova ormai a metà dell’ultima, decisiva tappa che lo separa dalla meta: il tirocinio professionalizzante, obbligatorio per ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione.

Come per molti, tuttavia, questo importante rito di passaggio non è come lo aveva immaginato (ma come prevederlo, d’altronde?), in quanto capitato nel bel mezzo di quella che, a pieno diritto, possiamo definire la peggiore crisi sanitaria del XXI secolo: un virus, che corre all’impazzata in qualsiasi parte del globo, miete incessantemente vittime e sradica dalle nostre vite tutto ciò che abbiamo creduto più stabile e, spesso, scontato.

L’intento dell’Autore, con il suo scritto, si focalizza proprio su quest’ultimo punto, nel processo della decostruzione della vita così come l’abbiamo vissuta fino ad ora; non lo fa, tuttavia, stando seduto sull’elevato scranno di Colui che Sa, ma dalla più umile sediolina di Colui che Impara. Umberto, infatti, si è dovuto misurare, purtroppo, con la nemesi di quest’anno, il “SARS-CoV-2”, ormai amichevolmente chiamato “Coronavirus”.

Sradicato dai suoi affetti più cari, con i quali, pur sotto lo stesso tetto, comunicava attraverso lo schermo del telefono, l’Autore ha deciso di inforcare una penna e farsi conoscere dal nemico che aveva deciso di abitare il suo corpo a suon di riflessioni, nella forma di un diario.

Ciò che si può apprendere prima dal titolo e poi dall’indice stesso è l’obiettivo di parlare attraverso il linguaggio delle emozioni. I capitoli del diario prendono infatti i nomi delle emozioni primarie, come individuate dallo psicologo Plutchik (1980) Rabbia e Paura, Tristezza e Gioia, Sorpresa e Attesa, Disgusto e Accettazione. La scelta, come si può immaginare, non è casuale: il nostro Paese – ma la nostra epoca tutta, d’altronde – sembra essere particolarmente analfabeta nella grammatica delle emozioni, che tende a declassare o a sottovalutare come entità poco concrete o, quantomeno, poco influenti nelle questioni “serie”. Tutt’altro che concrete o poco serie, le emozioni dominano la nostra stessa materia grigia da parte a parte: una su tutti, si pensi all’amigdala, piccola struttura nelle profondità del nostro cervello, gestisce gran parte del traffico emotivo sulle corsie di neuroni dell’encefalo. Si può dire che nulla sfugga al suo sguardo: l’amigdala è, infatti, la nostra fonte di apprendimento emotivo, classicamente attraverso la paura. Il necessario bisogno di questa funzione risulta evidente quando manca: che ne sarebbe di noi, se non provassimo paura davanti, per esempio, a un orso che carica verso di noi? Abbiamo appreso da molte notizie di cronaca la pericolosa tendenza di gruppi di “No-Mask” e “No-Vax” a fare come se nulla succedesse, come se tutto fosse rimasto uguale a prima. La mancanza di paura ci renderebbe un buon banchetto per orsi.

Se questo solo non basta a rendere le emozioni importanti e interessanti: gli studi di Ekman e Friesen (1971) hanno dimostrato che tutti condividiamo un set unico di emozioni a cui sono collegate determinate espressioni facciali. Queste, a loro volta, hanno avuto e hanno una cruciale funzione per la comunicazione. Risulta, allora, più profonda la scelta dell’Autore: non importa chi o dove tu sia, se leggerai la parola “rabbia”, saprai come mi sono sentito e riusciremo a capirci. Noi nasciamo con le emozioni e nelle emozioni: Stern (1998), voce eminente all’interno dell’Infant Research, che studia le dinamiche in gioco nello sviluppo psichico del bambino, sottolineava con forza l’importanza di una sintonizzazione affettiva tra i genitori e i propri bambini, in uno scambio di emozioni connotate da vitalità: solo in questo modo il bambino ha modo di capire che ciò che sente dentro di sé e dentro gli altri è vivo e va valorizzato. E sulla base di questa vitalità, di questa vita interna che abita il nostro corpo e gli dà senso, noi significhiamo il mondo, lo raccontiamo agli altri e a noi stessi.

Una connessione del tutto peculiare e personale, frutto di un vortice che coinvolge gli elementi prima elencati. Un vortice sinestetico che mescola, mette insieme e amalgama esperienze passate e aspettative future, rabbia e felicità, tristezza ed euforia, pensieri e dati di fatto. Un vortice che alla fine risulta in un significato, in delle coordinate specifiche e ordinate. (Sinestesia del presente, cap. 7, pag. 42).

 In cosa, dunque, differisce Umberto Cianciolo dalla pletora di suoi coetanei, anche colleghi, nel parlare di questo periodo? Nell’ascolto. L’evento pandemico ha fatto calare sul mondo un grande silenzio, che si è scoperto essere mal tollerato, temuto, scansato; questo silenzio è stato, per un anno, riempito parossisticamente di parole che, in fin dei conti, si sono rivelate vacue, limitate e limitanti. L’Autore, invece, è stato al gioco del silenzio, scoprendone la grande potenzialità trasformativa.

Tristezza e ascolto si comportano in modo curioso, sono necessarie l’una all’altra. Quando siamo tristi, abbiamo bisogno di qualcuno che ci ascolti. Una persona a noi cara, uno sconosciuto, una figura di riferimento e anche noi stessi. Sì, quando siamo tristi abbiamo bisogno di essere ascoltati, anche da noi stessi. (La Tristezza della consapevolezza, cap. 3, pag. 23).

Nel concludere, emerge chiaramente un concetto che, sebbene non esplicitato dall’Autore stesso, prende forma pagina dopo pagina: l’integrità fisica che il mondo si sta ponendo – giustamente – come unico obiettivo, non sarà mai totale se la sua componente psichica non viene ugualmente “immunizzata”. Già Seneca, vissuto nel I secolo dopo Cristo, scriveva all’amico Lucilio “Non vivere bonum est, sed bene vivere”, tradotto: “non è un bene vivere [a lungo], ma vivere bene” (Epistulae ad Lucilium, 40, 4). Va fatta, allora, una riflessione provocatoria, le cui conclusioni possono farci capire se in quest’anno abbiamo fatto davvero passi in avanti rispetto a quanto detto sulla salute psichica: Umberto Cianciolo è un giovane psicologo, che attraverso lo studio ha avuto il modo di ricavare quegli strumenti utili per imparare a conoscersi meglio e a “leggere” determinate situazioni; grazie a ciò, Umberto è riuscito ad adattarsi ai rapidissimi e allarmanti cambiamenti della nostra realtà quotidiana, affrontando con ottimismo e fiducia il futuro, per se stesso e, soprattutto, per chi ama. Ha, alla fine, superato la logorante sfida della quarantena, del confinamento tra quattro strette mura; da ciò è derivato questo scritto, la testimonianza della sua ripresa e del suo cambiamento.

Adesso, la domanda è: di quanti si potrà raccontare questo percorso con lieto fine? Quanti avranno modo di “costruire” sulle macerie di quest’anno, come ha fatto l’Autore?

 

Terapia cognitivo comportamentale potenziata (CBT-E) e la sua efficacia nel trattamento dell’anoressia nervosa

Il presente articolo ha lo scopo di definire cosa sia la Terapia Cognitivo Comportamentale Potenziata (CBT-E) e la sua applicazione nel trattamento dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, per maggiore chiarezza verrà preso in esame uno specifico disturbo, l’Anoressia Nervosa (AN). 

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale Potenziata (CBT-E)

La CBT-E affonda le sue radici nella CBT-BN, ovvero la Terapia Cognitivo Comportamentale specificatamente indirizzata al trattamento della Bulimia Nervosa (Fairburn, Marcus, & Wilson, 1993). Il trattamento è stato originariamente progettato per essere somministrato in ambiente ambulatoriale (Fairburn et al., 1993) e al suo interno è previsto anche un protocollo finalizzato al trattamento del Binge Eating Disorder (BED) per gli individui affetti da obesità (Fairburn et al., 2003).

La teoria transdiagnostica riconosce che ci sono elementi condivisi tra i disturbi alimentari, vale a dire la sopravvalutazione del peso e della forma, la restrizione alimentare e diversi processi di mantenimento (Fairburn et al., 2003). Inoltre possono essere presenti alcune variabili aggiuntive allo specifico disturbo alimentare che potrebbero interagire con la psicopatologia di base andando a creare ulteriori ostacoli al cambiamento: perfezionismo clinico, bassa autostima, difficoltà interpersonali e intolleranza dell’umore (Fairburn et al., 2003). Il razionale alla base della CBT-E ipotizza che affrontare questi fattori aggiuntivi si tradurrà in una percentuale maggiore di pazienti che risponderanno meglio al trattamento.

L’intervento psicoterapeutico CBT-E ha i seguenti tre obiettivi principali: (1) rimuovere la psicopatologia del disturbo alimentare (alimentazione disturbata, peso insufficiente, comportamenti estremi di controllo del peso e preoccupazioni su alimentazione, forma e peso); (2) correggere i meccanismi che hanno mantenuto la psicopatologia specificata nella formulazione del caso del paziente; (3) assicurare che i cambiamenti siano duraturi nel tempo (Fairburn, 2008).

Secondo il protocollo sono raccomandate 20 sessioni di trattamento per le persone con un indice di massa corporea (BMI) di 17,5 kg / m2 e superiore, in caso questo dato fosse inferiore a quanto indicato, vengono raccomandate 40 sessioni (Fairburn, 2008).

La CBT-E si articola in 3 fasi principali: la fase iniziale ha l’obiettivo di coinvolgere i pazienti e di aiutarli a prendere la decisione di riprendere peso, affrontando la psicopatologia del disturbo alimentare (Frostad et al., 2018). La seconda fase si concentra sul raggiungimento del recupero del peso e allo stesso tempo si rivolge ai meccanismi chiave che mantengono la psicopatologia del disturbo alimentare. L’obiettivo è aiutare i pazienti a raggiungere un peso corporeo che possa essere mantenuto senza restrizioni dietetiche, con conseguentemente miglioramento della qualità di vita, anche sociale (Frostad et al., 2018). La terza ed ultima fase si concentra sull’aiutare i pazienti a mantenere il proprio peso. L’obiettivo è garantire che i progressi siano mantenuti e che il rischio di ricaduta sia ridotto al minimo (Frostad et al., 2018).

Introduzione DCA

I Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione sono definiti come patologie caratterizzate da un persistente disturbo dell’alimentazione o da comportamenti collegati ad essa, che generano un alterato consumo o assorbimento di cibo, compromettendo varie aree della vita delle persone che ne soffrono (APA, 2013). Tali individui sarebbero caratterizzati a livello cognitivo da perfezionismo patologico, una bassa autostima, da un senso di responsabilità eccessivo e da rimugino (Vitousek & Hollon, 1990; Rachman & Shafran, 1999). Attualmente, la società odierna sta vivendo un aumento elevato di tali disturbi, soprattutto nei paesi occidentali, in particolare per quanto concerne l’Anoressia Nervosa e la Bulimia Nervosa. I soggetti che maggiormente manifestano tali disturbi sono giovani donne, caratterizzate da uno standard socio-economico elevato, e influenzate dal livello socioculturale e dalla trasformazione industriale di tali paesi (Gabbard, 1994).

Anoressia Nervosa

L’Anoressia Nervosa è stata definita uno dei disturbi psichiatrici più difficile da trattare (Halmi, et al., 2005). Attualmente a livello epidemiologico, nelle giovani donne, l’AN è presente nello 0,4% (APA, 2013). Questo disturbo è caratterizzato da sentimenti di disgusto per il cibo, provocando comportamenti quali il rifiuto di mangiare (Peruzzo, 1990). I soggetti che soffrono di Anoressia Nervosa presentano un’intensa paura dell’aumento di peso e un’immagine corporea disturbata, che li porta a diete ferree, restrizioni alimentari gravi, e anche ad utilizzare comportamenti compensatori per perdere peso, quali vomito auto-indotto, lassativi o attività fisica eccessiva (Zipfel et al., 2013; Gümmer et al., 2015). Tale disturbo genera gravi effetti negativi sul funzionamento fisico, psicologico e sociale, ed inoltre vi è un elevato rischio di complicanze a livello medico e di mortalità (Arcelus, Mitchell, Wales & Nielsen, 2011). Il decorso dell’Anoressia Nervosa è prolungato, con varie recidive (APA,2013), spesso cronico (Wentz et al., 2009) e con scarse risposte al trattamento (Arcelus, Mitchell, Wales & Nielsen, 2011). All’interno del DSM 5 (APA, 2013) sono esposte tre caratteristiche considerate chiavi che caratterizzano l’Anoressia Nervosa: la prima è un’intensa paura di aumentare di peso, che generalmente non fa riferimento solamente alla semplice perdita di peso; la seconda è una percezione distorta del peso corporeo, o della forma di quest’ultimo; la terza caratteristica è un peso corporeo considerato significativamente basso, rispetto all’età o all’altezza dell’individuo. Suddivise nel DSM 5 (APA,2013), vi sono due tipologie di AN: con restrizioni o con abbuffate e condotte di eliminazione. Un indice importante per la diagnosi di Anoressia Nervosa è il Body Mass Index, ossia l’indice di massa corporea (BMI) (APA, 2013), tale parametro serve per calcolare il peso forma del proprio corpo. Esso viene misurato dividendo il proprio peso per l’altezza alla seconda (kg/ m2). Per quanto concerne l’Anoressia Nervosa, il DSM 5 (APA,2013), afferma che un BMI lieve, inteso come leggero sottopeso, è un BMI ≥ 17 kg/m2; un BMI che indica un moderato sottopeso è considerato un BMI di 16-16,99 kg/m2; un grave sottopeso viene considerato quando il BMI misura 15-15,99 kg/m2; un estremo sottopeso, viene considerato un BMI di <15 kg/ m2. In merito ai criteri diagnostici, con l’uscita del DSM 5 (APA, 2013), è stato eliminato il criterio di Amenorrea. Per quanto concerne l’eziologia di tale disturbo, vi sono molteplici cause, di fatto è definito un disturbo multifattoriale. I fattori genetici, sono tra le principali cause d’insorgenza, di fatto è stata notata una forte componente familiare (Strober, Freeman, Lampert, Diamond, & Kaye, 2000) e un’alta ereditabilità che varia dal 28% al 74% (Yilmaz, Hardaway, & Bulik, 2015). Un ulteriore fattore che inciderebbe è il genere, di fatto di norma questa patologia è caratteristica del genere femminile (Jacobi et al, 2004). Eventi avversi prenatali, perinatali e neonatali (Jacobi et al., 2004; Tenconi, Santonastaso, Monaco, & Favaro, 2015), ma anche difficoltà nell’alimentazione infantile e problemi ricollegabili al ciclo sonno-veglia, aumenterebbero la probabilità di sviluppo di tale disordine alimentare (Jacobi et al., 2004). Per quanto concerne carattere e personalità, sono anch’essi fattori predisponenti. La personalità dell’individuo viene anche essa considerata fattore di insorgenza per il disturbo; di fatto durante lo sviluppo della personalità nell’età infantile, individui ansiosi, depressi, con tratti perfezionistici e con Sindrome dello Spettro Autistico, hanno maggiore probabilità di sviluppare la malattia (Jacobi et al., 2004). In merito a quest’ultimo aspetto, vari studi dimostrano che alcuni tratti caratteriali e alcuni tratti di personalità dell’infanzia, quali ansia, ossessioni e perfezionismo, potrebbero essere fattori rilevanti per l’esordio di tale disturbo (Kaye et al., 2013; Wierenga et al., 2014). Gli individui con questa patologia tendono a negare la loro condizione, infatti ci vuole tempo prima che si rendano conto che hanno a che fare con questo disturbo, poiché spesso vivono tale insorgenza in maniera positiva e vantaggiosa (Fox & Diab, 2015). La letteratura odierna ha riscontrato che il funzionamento familiare svolge un ruolo importante per quanto concerne l’insorgenza e il mantenimento di tale disturbo (Laghi et al., 2012a, 2012b). Le pazienti che soffrono di AN vedono le proprie famiglie come meno comunicative, meno coese, con maggiore rigidità e una minore flessibilità e con una maggiore difficoltà di problem solving, questi aspetti però non sono stati riscontrati nella percezione dei genitori delle pazienti (Emanuelli et al., 2004; Cook-Darzens et al., 2005; Vidovic, Juresa & Begovac, 2005; Ciao et al., 2015). Ciao e colleghi (2015) hanno riscontrato una scarsa chiarezza delle regole all’interno del nucleo familiare e un coinvolgimento affettivo inappropriato, quali ad esempio una mancanza di interesse e preoccupazione reciproca, soprattutto nei confronti della figura materna. Vista la complessità e la gravità di questo disturbo, negli ultimi anni, si sono venuti a sviluppare nuovi trattamenti (Berg & Wonderlich, 2013), soprattutto per gli adolescenti affetti da AN (Murray & Grange, 2014). È stato condotto uno studio ospedaliero con l’utilizzo della CBT-E in un campione di 27 pazienti adolescenti, ed è emerso che il 96% ha completato il programma, e ha ottenuto non solo un notevole miglioramento del peso corporeo, ma anche un miglioramento nelle caratteristiche dei disturbi alimentari e della psicopatologia in generale di quest’ultima, e tale risultato che è stato mantenuto in maniera ottimale fino a 12 mesi dal follow-up dello studio (Dalle Grave et al., 2014).

La CBT-E è valida?

Una caratteristica comune che contraddistingue le persone affette da un Disturbo Alimentare è la tendenza a cedere alle precedenti cattive abitudini. Queste ricadute vengono percepite come fallimenti e possono gravare fortemente sulla ripresa del paziente. Da numerosi studi presenti in letteratura emergono tassi di ricaduta fortemente inferiori in pazienti a cui è stato somministrato il protocollo CBT-E (Riesco et al., 2018).

Negli ultimi anni una migliore conoscenza dei meccanismi coinvolti nel mantenimento della psicopatologia dei disturbi alimentari ha portato allo sviluppo di una forma “specifica” di CBT, denominata CBT-E (E = enhanced), progettata per trattare tutte le forme di disturbi alimentari, compreso AN, dalle strutture ambulatoriali a quelle ospedaliere. I dati indicano che in ambito ambulatoriale è sia fattibile che promettente per adulti e adolescenti con AN. Risultati incoraggianti stanno emergendo anche dalla CBT-E ospedaliera, in particolare negli adolescenti (Dalle Grave et al., 2016).

Uno studio del 2018 (Stein Frostad et al., 2018) ha analizzato i tassi di remissione in pazienti con Anoressia Nervosa trattati con il protocollo CBT-E. La metà (n = 22) dei 44 pazienti che hanno iniziato la CBT-E ambulatoriale non ha completato il trattamento. Nel campione rimanente si è verificato un aumento di peso statisticamente significativo, dopo 12 mesi. La percentuale dei pazienti che hanno raggiunto il BMI target di> 18,5 kg / m2 era 36,4% dopo 3 mesi, 50% dopo 6 mesi e 77,3% dopo 12 mesi. Questo lavoro mostra l’efficacia della CBT-E nel trattamento dell’Anoressia Nervosa. Sebbene la metà dei pazienti non abbia completato la terapia CBT-E, i restanti pazienti hanno ottenuto un aumento significativo del BMI a 1 anno dall’inizio della terapia.

In uno studio di Dalle Grave e collaboratori, svolto nel 2019, è stata testata l’efficacia della CBT-E nel trattamento di una coorte di adolescenti con Anoressia Nervosa. Sono stati presi in osservazione e trattamento 49 pazienti affetti da AN e sono stati registrati il BMI di ciascuno e i punteggi nelle seguenti scale: Eating Disorder Examination Questionnaire, Brief Symptom Inventory e Clinical Impairment Assessment . Lo studio prevede un disegno longitudinale, con registrazioni in 3 differenti momenti: al momento del ricovero, alla fine del trattamento e al follow-up d i20 settimane. I risultati mostrano che il 71,4% dei completers ha mostrato sia un considerevole aumento di peso, sia punteggi ridotti per compromissione clinica e disturbo alimentare e psicopatologia generale, fino all’ultima valutazione al FU (Dalle Grave et al., 2019).

A sostegno dell’efficacia della CBT-E viene riportato un articolo dell’anno corrente (2020) il cui obiettivo è di esaminare l’andamento del percorso terapeutico di 150 pazienti adolescenti e adulti affetti da AN. La valutazione del BMI, la psicopatologia dei disturbi alimentari e la psicopatologia generale sono stati valutati in 3 momenti differenti, seguendo un disegno longitudinale, alla baseline, a fine trattamento, al FU di 20 settimane e FU a 60 settimane post-trattamento. L’85% dei partecipanti ha concluso il trattamento con punteggi significativamente migliorati in tutte le aree valutate, presentando solo un lieve, ma non significativo, peggioramento al secondo FU. Non è stata trovata alcuna differenza tra pazienti adolescenti e adulti in termini di accettazione del trattamento, abbandono o qualsiasi misura di esito (Dalle Grave et al., 2020).

Conclusione

In conclusione, dai risultati emersi dalla revisione di letteratura si evince che la CBT-E è adatta per curare tutte le categorie diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione in adulti e adolescenti, in particolare ha dimostrato risultati promettenti per il trattamento dei pazienti adulti e adolescenti affetti da anoressia nervosa. Può essere usata a livello ospedaliero e in day-hospital e, per ottenere effetti ottimali, i terapeuti necessitano di ricevere una formazione adeguata nella CBT-E.

 


 

Disabilità intellettiva e disturbi dello spettro dell’autismo (2021) di Giuseppe e Mariarosaria Battagliese – Recensione

In questo volume, gli autori, supportati da ricerche e letteratura internazionale, illustrano due disturbi del neurosviluppo di cui si è registrata una sempre maggiore diffusione nella popolazione negli ultimi decenni, analizzando in particolare le problematiche correlate ad essi e le possibili strategie da adottare per fronteggiare le difficoltà.

 

 Gli autori, psicoterapeuti, illustrano nel libro due deficit sempre più diffusi: la Disabilità Intellettiva (DI) ed i Disturbi dello Spettro Autistico (DSAu).

Il primo, detto anche disturbo dello sviluppo intellettivo, presuppone un’incapacità del soggetto di raggiungere alcuni obiettivi relativi all’intelligenza ed è caratterizzato da un deficit nel funzionamento adattivo che ha ripercussioni negative sulla vita quotidiana. Esso si presenta, solitamente, durante il periodo dello sviluppo ed è spesso correlato ad altre patologie come la depressione, il deficit dell’attenzione e iperattività e DSAu. Per molto tempo gli studiosi si sono concentrati solamente sugli aspetti cognitivi di tale patologia, solo dagli anni Settanta è stata presa in considerazione la sofferenza emotiva che la caratterizza. Le ricerche a livello internazionale hanno dimostrato una correlazione tra la gravità della disabilità intellettiva e la possibilità della presenza di disturbi d’ansia, paure e fobie. Vi è oggi una crescente consapevolezza dell’impatto che una cattiva salute mentale ha nella vita di queste persone, il malessere psicologico contribuisce infatti ad incrementare lo sviluppo di comportamenti problema che impattano sulla quotidianità, rappresentando un ostacolo reale allo sviluppo affettivo, intellettivo, interpersonale e fisico del soggetto. Per quanto riguarda le strategie d’intervento, è stato dimostrato che la partecipazione a programmi che prevedevano l’allenamento delle abilità sociali nei soggetti con problemi cognitivi, relative alla comunicazione, all’assertività e alla cooperazione, facilitavano l’interiorizzazione di comportamenti corretti ed una contemporanea regressione di quelli non adeguati migliorando la qualità di vita.

I Disturbi dello Spettro Autistico (DSAu) rappresentano una categoria diagnostica molto ampia che comprende età e livelli di funzionamento molto diversi tra loro. Ciò che accomuna i diversi soggetti sono i deficit relativi all’interazione sociale e all’abilità di comunicare sentimenti con presenza di manifestazioni tipiche come comportamenti ripetitivi, stereotipati e comportamenti problema. All’interno di questa categoria diagnostica rientrano:

  • il disturbo autistico;
  • la sindrome di Asperger;
  • il disturbo Disintegrativo dell’Infanzia;
  • il disturbo Pervasivo dello Sviluppo non Altrimenti Specificato.

L’eziologia di tali deficit non è ancora del tutto chiara anche se forti evidenze lasciano ipotizzare che vi sia un’influenza concomitante di fattori genetici, costituzionali e ambientali. Gli autori sottolineano la necessità dell’implementazione di strategie adeguate a favorire il benessere emotivo dei soggetti, ponendo in primo piano le difficoltà gestionali ed emozionali a cui vanno incontro i caregivers dato che il carico assistenziale è, infatti, persistente e continuo. La messa in atto di precisi programmi articolati su basi psicologiche ed educative, seppur con una certa limitatezza, può fornire un grande contributo nel miglioramento della qualità di vita; in particolare sono suggeriti approcci di tipo comportamentale e di tipo evolutivo.

 Vengono descritti, nello specifico, gli aspetti applicativi in ambito scolastico sottolineando in particolare le strategie che favoriscono l’acquisizione di nuove abilità affettivo-relazionali e di gestione dei comportamenti problema, nonché gli elementi utili a cui prestare attenzione come l’accoglienza, l’apprendimento, le difficoltà di interazione. Questi casi sono un’importante sfida per gli insegnanti poiché spesso questi soggetti manifestano comportamenti oppositivi, crisi di collera, mancanza di rispetto, aggressività, autolesionismo: alla base di tutte queste manifestazioni ci sono problemi di comunicazione e di comprensione sociale che ostacolano, non solo l’apprendimento, ma anche la presenza stessa dell’alunno nel contesto.

Un aspetto che merita particolare attenzione all’interno dell’ambito scolastico, a cui è dedicato un apposito capitolo, è il bullismo. Numerose ricerche hanno dimostrato come i DSAu siano maggiormente vulnerabili al rischio di vittimizzazione, allo stesso tempo tuttavia gli studiosi spiegano che tali soggetti possono ricoprire il ruolo di bullo, o di bullo e vittima contemporaneamente; ciò avviene solitamente quando questo disturbo si presenta in comorbilità con il disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

In affiancamento alla terapia tradizionale, tra le strategie più o meno strutturate che possono essere adottate per migliorare la qualità di vita nei diversi contesti, gli autori si soffermano in particolare sugli Interventi Assistiti con Animali (IAA). Grazie all’ampia esperienza acquisita in questo campo, descrivono nello specifico l’attività ed i benefici della riabilitazione equestre in cui, grazie all’attività realizzata con il cavallo, il soggetto è stimolato a livello motorio, psichico, intellettivo e sociale ed apporta benefici in tute queste aree, oltre che sviluppare una maggiore autostima.

Nel volume vengono inoltre analizzati i Comportamenti Problema (CP), cioè aggressività e autolesionismo, che possono essere difficili da gestire per gli operatori socio-psico-pedagogici e per i familiari. L’attenzione verte poi sulle strategie di fronteggiamento delle difficoltà e della sofferenza dei soggetti che presentano i problemi descritti, anche se non esiste un intervento che risponda alla complessità di tali patologie ma viene richiesto un approccio multidisciplinare in cui siano integrati vari metodi e che sia individualizzato in base alle caratteristiche ed alle necessità di ogni individuo.

Vengono infine descritti in modo specifico gli effetti dei comportamenti problema sul nucleo familiare, i diversi tipi di coping per migliorare la qualità della vita dei genitori, il sostegno e l’aiuto alla genitorialità.

 

Vecchie e nuove teorie sull’incongruenza di genere

Poiché gli studi sulle possibili alterazioni genetiche e ormonali non hanno mai dato risultati significativi, negli ultimi decenni, molte ricerche hanno cercato di fornire un’interpretazione neurobiologica della disforia di genere.

 

Classicamente le teorie eziologiche sull’identità e sulla disforia di genere si dividono tra quelle a carattere più socio-psicologico, che sottolineano il peso dei fattori psicosociali, quali l’educazione ricevuta e l’ambiente di vita familiare e culturale, e quelle che privilegiano fattori biologici come la genetica e il funzionamento neuroendocrino. Le prove di un contributo genetico alla transessualità sono molto limitate: vi sono poche segnalazioni di studi familiari e gemelli sui transessuali, e nessuno offre un chiaro sostegno al coinvolgimento di fattori genetici.

Per quanto riguarda gli ormoni prenatali, le prove a sostegno del fatto che possano influenzare lo sviluppo dell’identità di genere sono un po’ più forti ma è tutt’altro che provato. Un’indicazione che l’esposizione al testosterone prenatale ha effetti permanenti sull’identità di genere proviene dallo sfortunato caso di David Reimer. Altri studi clinici hanno riportato che l’identità di genere maschile emerge in alcuni bambini XY nati con genitali mal formati: questi individui sono stati esposti al testosterone prenatalmente, sottolineando un potenziale ruolo per gli androgeni nello sviluppo di genere e sollevando dubbi sul fatto che i bambini siano psicosessualmente neutri alla nascita. D’altra parte, gli individui XY nati con una mutazione del recettore degli androgeni che causano completa insensibilità agli androgeni (androgen insensitivity syndrome – AIS) sono fenotipicamente femminili, si identificano come femmine e sono più spesso androfili.

È chiaro che nessuno di questi fattori può essere considerato singolarmente, ma più probabilmente sarebbe la loro interazione a determinare lo sviluppo di una Disforia di Genere, tant’è che oggi queste teorie sono ritenute obsolete o sono state integrate in modelli eziologici più complessi.

Teorie psicologiche

  • Processi anomali di identificazione primaria o secondaria (Freud, 1921): l’identità di genere verrebbe acquisita tramite due processi di identificazione, primaria e secondaria. Quella primaria avviene nei primi mesi di vita del bambino, e caratterizza la relazione con la madre, con la quale il bambino tende ad identificarsi instaurando un rapporto fusionale ed indifferenziato. A questo segue il processo di identificazione secondaria, che porterà alla strutturazione del complesso edipico, in cui il bambino si identifica con il genitore dello stesso sesso. Nei bambini il processo avverrà grazie alla sostituzione dell’oggetto di identificazione: il padre verrà preso come modello da imitare, la madre rappresenterà la meta delle pulsioni sessuali; si svilupperanno così la mascolinità e l’attrazione verso le donne. Analogamente, nelle bambine la madre verrà mantenuta quale oggetto di identificazione e il padre rappresenterà l’oggetto libidico; da qui, lo sviluppo della femminilità e dell’attrazione verso gli uomini. La Disforia di Genere si svilupperebbe in seguito ad anomalie in uno dei processi di identificazione;
  • Identificazione conflittuale del bambino con la madre (Stoller, 1968): l’origine del transessualismo maschile risiederebbe in un mancato emergere da parte del bambino dalla fase di fusione simbiotica con la madre e, di conseguenza, in un’identificazione conflittuale con essa, magari facilitata da un eccessivo contatto fisico che ostacolerebbe il normale processo di separazione. Sebbene Stoller si sia occupato perlopiù di transessualismo maschile, è interessante che nella sua analisi, l’autore ha individuato una costellazione familiare tipica dei soggetti transessuali caratterizzata da eccessiva vicinanza con la madre, spesso portatrice di nevrosi e conflitti, e assenza della figura paterna. Tuttavia, anche se rispetto alla psicoanalisi classica qui vengono introdotti fattori di natura transgenerazionale, la situazione familiare da lui individuata è comune a molteplici condizioni patologiche e non certo caratteristica per lo sviluppo della Disforia di Genere;
  • Transessualismo come esito di una reazione difensiva (regressione) messa in atto dal bambino per contrastare l’angoscia di separazione (Person e Ovesey, 1974): quest’angoscia sarebbe così intensa da rappresentare una minaccia di frammentazione del Sé, e spingerebbe il bambino verso una fantasia regressiva di fusione simbiotica con la madre allo scopo di annullare la separazione. Questo determinerebbe l’ambiguità di genere. Anche Person e Ovesey riconoscono un padre emotivamente assente nelle storie familiari dei soggetti studiati; rispetto all’atteggiamento materno, osservano che questo può assumere tre diverse qualità: simbiotico, intrusivo o ostile;
  • Assegnazione del sesso alla nascita ed educazione ricevuta dai genitori (John Money, 1975): sarebbero i fattori maggiormente predittivi dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. A sostegno di tale ipotesi, Money fece riferimento a un suo caso, diventato celeberrimo, ovvero quello dei gemelli Reimer: in seguito ad una procedura di circoncisione ad uno dei due gemelli, a David venne erroneamente amputato il pene all’età di 7 mesi, per cui Money raccomandò la riattribuzione al sesso femminile, seguita da terapia ormonale, decretandone il successo sulla base del follow – up fino all’età di 9 anni. Questa fu però successivamente criticata da Diamond (1997) che scoprì che, nonostante David fosse stato allevato come una bambina, sviluppò un’identità di genere maschile e durante la pubertà rifiutò la terapia ormonale con estrogeni, ricorrendo poi alla terapia con androgeni e ad un’operazione chirurgica per la ricostruzione del pene. Di fatto Diamond non solo ha smentito l’ipotesi di Money, ma ha anche potenzialmente avvalorato le teorie che sostengono invece un maggior peso delle componenti biologiche;
  • Eventi traumatici nella prima infanzia possono scatenare una disforia di genere (Di Ceglie, 1998): Di Ceglie sostiene che, nel tentativo di riuscire ad affrontare situazioni traumatiche relative alla separazione dalla figura genitoriale, il bambino metterebbe in atto un meccanismo di difesa di tipo dissociativo sviluppando un nuovo concetto di sé e identificandosi con il genitore del sesso opposto, per reagire in maniera onnipotente alla minaccia di perdita e salvaguardare la propria integrità psichica. Questo nuovo concetto assume la forma “io sono la mamma” / “io sono il papà”. Questa re-identificazione però non si limita al ruolo genitoriale, ma si estende al concetto di genere “io sono una femmina/io sono un maschio”. In tal senso Di Ceglie ha proposto il concetto di “organizzazione atipica dell’identità di genere”

Teoria multisenso

Poiché gli studi sulle possibili alterazioni genetiche e ormonali non hanno mai dato risultati significativi, negli ultimi decenni, molte ricerche hanno cercato di fornire un’interpretazione neurobiologica della disforia. A partire dalle prime analisi post-mortem del cervello di soggetti transessuali, una ventina di anni fa, l’attenzione si è focalizzata su uno specifico nucleo dell’ipotalamo chiamato letto della stria terminale (BNST). In particolare, questo nucleo sembra avere una dimensione media nelle transwoman (MtF) più simile alle donne cisgender che agli uomini cisgender; questi dati supportano la teoria secondo cui il distress caratteristico della disforia di genere dipende da un’incongruenza anatomica tra il cervello e il corpo sessuato – gli individui transgender avrebbero un cervello di sesso opposto al genere che gli viene assegnato alla nascita. In accordo con questi studi e altri che hanno messo in relazione la disforia di genere con i cambiamenti di body ownership nei soggetti transgender, Stephen Gliske, del dipartimento di neurologia dell’Univerità del Michigan, ha sviluppato una nuova teoria della Disforia di Genere che definisce “multisenso”. In pratica, secondo questa teoria, la Disforia di Genere non sarebbe causata da anomalie neuroanatomiche bensì da cambiamenti sistemici in alcuni network funzionali, che provocherebbero quell’incongruenza tra senso del proprio genere e genere assegnato alla nascita. Gliske considera 3 dimensioni:

  • il distress cronico
  • non-conformità di genere e comportamento sociale
  • incongruenza e body-ownership

che sono costantemente in interazione tra di loro e genererebbero il senso del genere. Alterazioni nelle attivazioni o nelle loro interazioni porterebbero a cambiamenti dinamici nell’attività del network, e sarebbero la causa della soggettiva esperienza di disforia di genere e, probabilmente, anche dei contestuali cambiamenti neuroanatomici che si osservano negli studi summenzionati. Sembrano coinvolti in particolare cambiamenti a livello del BNST, ipotalamo anteriore, insula anteriore, solco intraparietale, lobulo parietale superiore e corteccia orbitofrontale.

Lungi dal voler proporre una teoria meccanicistica di un’esperienza così soggettiva come la Disforia di Genere o l’identità di genere stessa, Gliske sottolinea che i network neurobiologici sottostanti questo modello integrato influenzano quanto un certo individuo percepisce e soffre rispetto a uno stress cronico, quanto desideri agire in coerenza con il suo ruolo di genere e quanto percepisca gli aspetti “genderizzati” del suo corpo come appartenenti a sé. Tutti questi aspetti concorrono alla sensazione di matching (o meno) tra la propria identità di genere e il sesso assegnato alla nascita. Il peso dei fattori socio-comportamentali e di body-ownership può chiaramente essere diverso in individui diversi.

 

Spettro autistico: un excursus di miti e controversie sull’eziologia

Nonostante i significativi progressi di natura epidemiologica e genetica nella ricerca scientifica sull’autismo, l’eziologia e la patogenesi di questa condizione sono lungi dall’essere chiarite e attualmente non esiste alcun trattamento curativo (Davidson, 2017).

 

 Con la classificazione dimensionale “disturbi dello spettro autistico” si fa riferimento a una vasta gamma di manifestazioni sintomatologiche di disturbi del neurosviluppo, caratterizzati da una notevole eterogeneità in termini di gravità/pervasività del sintomo e compromissione del funzionamento, ma accomunati dai seguenti pattern: reciprocità socio-emotiva deficitaria, comunicazione non verbale inficiata (es. mancanza di espressività facciale e anomalie del contatto visivo), difficoltà interpersonali, interessi limitati, stereotipie, mancanza di flessibilità cognitiva e iper- o iporeattività a stimoli sensoriali (APA, 2013). Nonostante i significativi progressi di natura epidemiologica e genetica nella ricerca scientifica sull’autismo, l’eziologia e la patogenesi di questa condizione sono lungi dall’essere chiarite e attualmente non esiste alcun trattamento curativo; considerata la prognosi sfavorevole che non contempla la reversibilità della condizione, ma soltanto dei miglioramenti significativi in alcune aree dello sviluppo, a fronte di interventi precoci e mirati (Davidson, 2017).

La prima definizione e concettualizzazione dell’autismo risale al 1943, ad opera del medico psicanalista Leo Kanner: il quale descrive la fenomenologia di tale condizione in maniera similare a quella attuale (Kanner, 1973); in termini eziologici, però, era predominante la credenza secondo cui una scarsa responsività materna al soddisfacimento immediato dei bisogni primari evolutivi del bambino, sarebbe potuta esserne la causa. “Madre frigorifero” era l’espressione utilizzata per descrivere quel prototipo di madre assente e non responsiva ai bisogni emotivi basilari del bambino: questa era la spiegazione vigente, a metà del secolo scorso, per descrivere il senso di autoisolamento e di distanziamento sociale del bambino con autismo dal mondo esterno (Bettelheim, 1956). All’inizio degli anni ’80, grazie alla pubblicazione della terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-III; APA, 1980), il fenomeno dell’autismo viene per la prima volta concettualizzato come un disturbo del neurosviluppo; divenendo oggetto di ricerca scientifica, oltre che di assistenza clinica e sociale (Davidson, 2017).

 Negli stessi anni è, però, concomitante la proliferazione totalmente infondata e priva di alcuna base scientifica dell’eziologia dell’autismo spiegata dalla somministrazione dei vaccini; postulando un erroneo rapporto di causalità tra autismo e vaccino (DeStefano, 2007). Il criterio con cui tale “mito causale” si è diffuso è una mera coincidenza temporale tra l’esordio della prima manifestazione sintomatologica del disturbo e la somministrazione dei vaccini per parotite, morbillo e rosolia (MMR), tra i 12 e i 18 mesi (Davidson, 2017). L’attribuzione di un legame causale a una semplice sovrapposizione temporale costituisce un bias cognitivo, senza alcun fondamento logico e soprattutto clinico. Fortunatamente negli anni successivi il rapporto diretto di causalità tra autismo e vaccino è stato demistificato da studi scientifici finalizzati all’analisi sia dell’epidemiologia dell’autismo, sia degli effetti indotti dai vaccini MMR (Maglione et al., 2014; Taylor, Swerdfeger & Eslick, 2014). Di fatti, nonostante fossero sempre più numerose le rinunce alla vaccinazione MMR, i tassi di autismo erano in aumento (Modabbernia, Velthorst & Reichenberg, 2017). Nonostante il passare del tempo e il significativo incremento delle evidenze scientifiche a favore della varianza fenotipica del disturbo spiegata da fattori genetici, il mito causale tra vaccino e autismo ha continuato a essere radicato nelle menti di molti, i quali hanno preferito privarsi degli effetti benefici del vaccino; per tutelare i loro figli da un eventuale esordio della sintomatologia (Offit, 2014). Anche dopo decenni dalla diffusione mediatica di tali credenze infondate sull’eziologia dell’autismo, all’interno di tale rassegna è possibile rivolgere il focus attentivo su un tema estremamente attuale: la tendenza a lasciarsi trasportare acriticamente dal luogo comune verso spiegazioni illogiche di un fenomeno e delle sue conseguenze, fomentate dalla continua ricerca di prove confermative fallaci, ma che nell’immediato possono risultare convincenti; anziché orientare le proprie scelte sulla base di dati empiricamente dimostrati.

 

Il bambino e l’importanza dell’ambiente affettivo primario: il pensiero di Donald Winnicott

Winnicott spiega come i bambini hanno bisogno della madre: in senso assoluto nei primi anni di vita, per poi passare alla separatezza fisica e psichica che caratterizza ciascuno di noi per tutto il resto della nostra vita.

 

Non c’è una cosa che si può chiamare un bambino, nel senso che, se volete descrivere un bambino, vi troverete a descrivere un bambino con qualcuno. Un bambino non può esistere da solo, ma è essenzialmente parte di un rapporto – scriveva Winnicott nel 1964.

 Pediatra e psicoanalista, egli ha concentrato il suo interesse nell’osservazione dei bambini e delle loro madri, partendo dal presupposto, centrale in tutta la sua opera, che il bambino è un fenomeno che non può essere isolato: questo all’inizio vive in un mondo soggettivo, pervaso da un senso di onnipotenza, pur essendo, in realtà, la sua vita estremamente precaria e strettamente dipendente dalla figura materna (Winnicott, 1970).

I bambini hanno, infatti, bisogno della madre: ne hanno bisogno in senso assoluto nei primi anni di vita, quando gradualmente sono costretti a passare da uno stato simbiotico, di unicità madre bambino, in cui “il bambino non esiste” (Winnicott, 1961), alla separatezza fisica e psichica che caratterizza ciascuno di noi per tutto il resto della nostra vita. Il bisogno della presenza della madre – il legame fondamentale madre figlio – è, pertanto, nei primi anni, assoluto (Viorst, 2014). Solo successivamente, per maturazione, attraverso un processo graduale, duraturo e non privo di difficoltà, il bambino diventa un Sé separato.

Questa pianta vorrebbe crescere ed anche essere embrione; svilupparsi ed anche fuggire la condanna a prendere forma… (Richard Wilbur)

perché l’unicità è beatitudine e la separazione fa paura; essere separati significa riconoscere i propri confini e i confini degli altri, riconoscere il proprio Sé come unico, riconoscere che “Io sono Io” e trovare conferma negli altri significativi che “Sì, tu sei tu” (Viorst, 2014). Separarsi significa diventare indipendenti, significa essere. Essere genitori, allo stesso tempo, significa promuovere e supportare lo sviluppo fisico, emotivo e mentale del bambino (De Carli et al., 2018): è grazie alle prime relazioni che egli può costruire mappe interiori di sé e del mondo, sulle quali si plasma il senso di sé.

Nel suo articolo L’esperienza di mutualità tra madre e bambino (Winnicott, 1969) l’autore pone l’attenzione sul progresso che la psicoanalisi ha fatto in questo senso: si è passato dall’affrontare, ad originem, lo sviluppo infantile in termini di conflitto di Edipo e di

complicazioni che sorgono dai sentimenti di maschi e di femmine ormai divenuti persone intere in relazione con altre persone intere (Winnicott, 1969),

  ad attenzionare l’esperienza e i conflitti interni alla psiche dei bambini, fino ad occuparsi prevalentemente dei processi di influenza ambientale e di dipendenza: nel bambino, secondo Winnicott, esistono sì dei processi maturativi innati, ma questi si svolgono esclusivamente in un quadro di dipendenza dall’ambiente, ed è proprio questa presa di coscienza che la psicoanalisi non può più ignorare. Quando osserviamo un bambino, osserviamo un bambino oggetto di cure: la tendenza ereditaria all’integrazione, alla ricerca dell’oggetto, all’indipendenza da sola non basta. Lo sviluppo ha luogo perché c’è una madre sufficientemente buona che, attraverso un comportamento adattivo e di identificazione con i bisogni del bambino, attraverso il sostegno e il contenimento fisico e psichico (holding), le cure corporee (handling) e la capacità di mettere a disposizione al bambino l’oggetto al momento giusto (object – presenting), fa sì che questo gradualmente possa procedere lungo la propria linea di sviluppo e conquistare i processi di integrazione, di separazione e la capacità di vivere il proprio corpo in relazione agli oggetti (Winnicott, 1961). Nel periodo immediatamente prima della nascita e per le successive settimane, infatti, la madre è affetta da quella che Winnicott chiama preoccupazione materna primaria, uno stato che, in condizioni psichiche normali, le permette di abbandonare temporaneamente le proprie identificazioni maschili – quando anche supportata nel processo dal padre del bambino – e di identificarsi completamente con i bisogni del piccolo. Quando la madre – e il padre in supporto – sono in grado di offrire questo tipo di ambiente, il bambino può vivere per il periodo necessario nel proprio mondo soggettivo, protetto dalle pressioni di una realtà esterna che per lui non esiste: è così che sviluppa un sentimento di prevedibilità che gli permette di gettare le basi dei primi stadi di crescita personale. In questo modo, gradualmente, si stabiliscono le condizioni necessarie affinché il processo ereditario di crescita possa attuare le sue potenzialità, consentendo al bambino di arrivare a vivere un’esistenza integrata e separata, costruita su un Vero Sé (Winnicott, 1970). Dice Winnicott (1970):

sebbene ogni bambino che viene al mondo abbia, diciamo così, un bastone da primo ministro nel pannolino, questo bastone può rimanere qualcosa che avrebbe potuto essere,

egli necessità cioè, in modo imprescindibile, di un apporto ambientale sufficientemente buono, che gli consenta

di diventare sempre più indipendente, pur conservando un buco in cui rifugiarsi.

Vale a dire, come scriveva J.K. Rowling nel romanzo Harry Potter e la pietra filosofale (1997) che

Essere stati amati tanto profondamente ci protegge per sempre. È una cosa che ci resta dentro, nella pelle.

 

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