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Buone ragioni per stare male. La nuova frontiera della psichiatria evoluzionistica (2020) di Randolph M. Nesse – Recensione

Se le emozioni di base ci avvisano e proteggono da eventi pericolosi, tuttavia non ci forniscono indicazioni su cosa fare nello specifico o su come comportarci. Questo uno dei temi affrontati nel testo Buone ragioni per stare male.

 

Emozioni caotiche e poco funzionali sembrano impedirci di vivere una vita piena e gratificante, tuttavia esistono buoni motivi per cui ancora oggi sopravvivono in noi queste risposte emotive spiacevoli e dolorose. Se da una parte ci sono tratti della nostra psiche, come lo stress e l’ansia, che vorremmo eliminare, dall’altra grazie a questi tratti manteniamo costante l’allerta nei confronti dei pericoli preservando così la nostra incolumità.

Questo il tema affrontato dal testo Buone ragioni per stare male dove gli autori illustrano, secondo una prospettiva evoluzionistica, le ragioni per cui le emozioni spiacevoli continuano a tramandarsi per via filogenetica.

Esse sarebbero il risultato di un lungo processo evolutivo che ha reso in passato le emozioni negative necessarie alla nostra sopravvivenza.

Tuttavia il nostro sistema interno di regolazione delle emozioni è rimasto invariato nel corso dell’evoluzione della specie e ad oggi non si è evoluto a sufficienza per riuscire a sincronizzarsi con le complessità a cui la vita contemporanea richiede di adeguarsi.

Le emozioni ci aiutano a sopravvivere pertanto si trasmettono per via genetica.

Le sensazioni di dolore fisico e le emozioni negative hanno un preciso ruolo nel nostro sistema di sopravvivenza. Alcune emozioni negative ci aiutano a evitare potenziali pericoli.

L’ansia ad esempio è un segnale di allarme che si lega alla percezione di un pericolo per il nostro benessere, allo stesso modo la tristezza ci dice che dovremmo evitare una perdita o una separazione. Allo stesso modo sentimenti positivi come l’entusiasmo ci aiutano a riconoscere una situazione nuova che, anche se inizialmente sconosciuta, può diventare nel futuro un’opportunità.

Se le emozioni di base ci avvisano e proteggono da eventi pericolosi, tuttavia non ci forniscono indicazioni su cosa fare nello specifico o su come comportarci. La complessità della vita moderna richiederebbe indicazioni più sofisticate rispetto a quelle fornite dalle emozioni di base. Per questo motivo l’evoluzione del nostro sistema di regolazione delle emozioni sarebbe asincrona rispetto al contesto moderno.

Comprendere le ragioni dell’ansia e degli attacchi di panico può essere di aiuto nel loro trattamento.

I nostri timori e ansie sono sopravvissuti lungo le generazioni nel corso della selezione naturale perché ci aiutano a riconoscere e reagire in modo automatico alle situazioni di potenziale pericolo. L’ansia ci aiuterebbe a sopravvivere, per questo motivo sarebbe un tratto che resiste e persiste nel tempo.

Ciò che appare meno ovvio è il motivo per cui, così spesso, ci sentiamo ansiosi senza un apparente motivo. Di base l’ansia agisce come un allarme antincendio: ci avvisa quando inizia a diffondersi il fumo. Sta a noi quindi decidere se provare a spegnere le fiamme o se invece fuggire per sottrarci al pericolo.

Proprio come un allarme a volte anche l’ansia si attiva anche in assenza di un reale pericolo. Gli eventuali falsi allarmi e la preoccupazione che ne consegue sono, secondo gli autori, il prezzo da pagare per un sistema che, in passato come oggi, ci potrebbe salvare la vita.

Sapere da dove ha origine la nostra ansia non solo favorisce una maggiore comprensione del processo in atto, ma apre anche una nuova prospettiva dal punto di vista del trattamento, nello specifico quello farmacologico.

I farmaci secondo gli autori silenziando il sintomo possono aiutare, per un certo periodo, a vivere liberi da attacchi di panico.

In questo frangente la mente può abituarsi a vivere in un ambiente che non è percepito sempre come pericoloso, ma prevalentemente come sicuro. Il mindset si accomoderà su questa percezione e anche quando sarà sospesa l’assunzione del farmaco l’ambiente che ci circonda continuerà ad essere percepito perlopiù come sicuro.

La depressione può derivare da una disfunzione nel sistema di regolazione dell’umore.

Secondo uno studio pubblicato su The Lancet nel 2013 la depressione è la causa del maggior numero di anni vissuti con una disabilità rispetto a qualsiasi altra malattia.

Nonostante la sua frequenza, la depressione è ancora difficile da diagnosticare. Quando un umore basso diventa una vera e propria depressione? Quanto lungo può considerarsi un periodo di lutto successivo a una perdita prima che lo si possa definire come depressione?

Gli autori partono dall’osservazione che l’uomo può vivere stati d’animo molto diversi fra loro: possiamo sentirci demoralizzati, ottimisti o entusiasti a seconda delle circostanze. Perché la nostra mente reagisce con emozioni diverse a seconda degli eventi?

Uno dei principali motivi per cui disponiamo di un repertorio di risposte emotive tanto ampio sarebbe quello di darci un vantaggio nell’immaginare quanto sforzo dovremmo fare quando ci troviamo in una situazione positiva o negativa.

Per comprendere meglio questo passaggio torniamo ai tempi in cui l’uomo per procacciarsi il cibo doveva o cacciarlo o raccoglierlo.

Proviamo a immaginare di vivere una situazione comune per un uomo dell’antichità.

Stai iniziando a raccogliere delle bacche. Mentre svolgi questo compito devi porti tre domande:

  • Quanta fatica dovrò fare per raccogliere le bacche?
  • Quando sarà il momento di lasciare quest’area e spostarmi in quella adiacente?
  • Quando sarà il momento giusto per smettere di raccogliere bacche e dedicarmi a un’altra attività?

La risposta a queste tre domande la ottengo prestando attenzione al mio stato d’animo. I cambiamenti del mio umore mi indicheranno quante bacche dovrò raccogliere per soddisfare il mio bisogno di cibo, e mi diranno quando fermarmi, prima che il carico delle bacche raccolte diventi troppo pesante da trasportare. Allo stesso modo un umore basso mi segnalerà che sto compiendo una fatica vana, e che è bene mi dedichi ad altro senza continuare a sprecare le mie energie.

La vita moderna ci confronta con complessità ben maggiori della raccolta del cibo dal punto di vista sociale. Possiamo sentirci confusi quando il nostro umore è condizionato dal nostro lavoro o dalle nostre relazioni interpersonali. Dovremmo lasciare il lavoro quando non ci soddisfa? Dovremmo rincorre un sogno anche quando consapevoli che difficilmente si realizzerà? Dovremmo rimanere sposati anche quando viviamo una relazione infelice?

Le emozioni ci danno un’indicazione sulla natura della situazione che stiamo vivendo, ma ben poche su cosa effettivamente fare.

L’ansia sociale sarebbe l’esito dell’importanza di amare e prendersi cura degli altri trasmessa filogeneticamente.

La nostra capacità di prenderci cura degli altri si crea in funzione delle connessioni emotive che stabiliamo con persone per noi significative ed è condizionata anche dall’opinione che gli altri hanno di noi. La nostra autostima si basa infatti anche sulla capacità di renderci amabili per altre persone.

Tuttavia oggi compiacere le persone è certamente più complesso che in passato: è possibile che una scelta appaghi una persona, ma ne faccia scontenta un’altra. La difficoltà nell’effettuare scelte che incontrino l’approvazione di molti potrebbe in parte spiegare alcune forme di ansia sociale contemporanea.

Il dolore del lutto ci impedisce le scelte che comportano perdite.

Il dolore legato al lutto avrebbe un significato evoluzionistico: di fronte a un potenziale pericolo come il rischio della perdita di un caro, l’infinito dolore che ne potrebbe derivare aiuta a dispiegare le energie necessarie per far fronte all’emergenza.

Allo stesso modo il dolore che segue a una perdita, fatto di continue rievocazioni dell’accaduto, avrebbe la funzione di indurre una riflessione maggiore sulle azioni sbagliate che hanno condotto a quella perdita L’obbiettivo definito filogeneticamente sarebbe quindi di essere equipaggiati nel caso si verifichi una situazione analoga nel futuro.

Il meccanismo che regola l’assunzione di cibo e droghe non è calibrato sulla facilità odierna di accesso al consumo.

Il mondo contemporaneo costantemente ci espone a nuovi pericoli: i cibi pieni di zucchero, sale e grassi saturi. In antichità questi elementi erano scarsi e pertanto il corpo li bramava in modo sano.

Non c’era la possibilità di assumerli frequentemente e pertanto il desiderio di essi era elevato. Oggi al contrario questi cibi sono presenti in abbondanza, tanto da causare alti livelli di obesità e malattie cardiache, oltre che disordini alimentari come bulimia e binge eating.

La ragione per cui oggi abbiamo problemi nel mantenere un peso adeguato sarebbe legata al fatto che il meccanismo di autoregolazione del peso corporeo è stato modificato dal mondo moderno.

Esso risale all’antichità, quando l’esigenza di sopravvivere doveva prescindere dalla quantità di cibo che era possibile cacciare o raccogliere.

Oggigiorno l’enorme disponibilità di cibo e la seduttività con cui viene proposto ci inducono ad assumerne in quantità di gran lunga superiori rispetto alle nostre reali esigenze. Sia la qualità del cibo che il tempo dedicato alla nutrizione sono aumentati nel corso dei secoli, ma il sistema di regolazione del peso corporeo è rimasto invariato dall’antichità, quando il cibo era scarso e l’esigenza di apporto calorico minima.

Una situazione analoga si verifica nella regolazione nell’assunzione di ciò che è fonte di piacere: le droghe.

Il piacere e la gratificazione di per sé non sono problematici: ci indicano le situazioni per noi gratificanti. Nella maggior parte dei casi l’esperienza piacevole inizia con un incremento di dopamina che rappresenta un incentivo a ripetere e trarre piacere dalla situazione che ci gratifica.

Questo tipo di esperienze tuttavia sono accompagnate da sensazioni, trasmesse filogeneticamente, che ci indicano quando fermarci: la nausea quando si è mangiato troppo è un segnale di questo tipo.

Per le droghe in uso oggi non esiste un analogo sistema di autoregolazione: la spinta della ricerca del piacere crea un desiderio infinito e una compulsione nell’assunzione che, quando non essendo sufficientemente inibiti, spingono fino all’autodistruzione.

 

Applicazione del protocollo cognitivo-comportamentale, potenziato con l’Acceptance and Commitment Therapy in un caso di disturbo reattivo dell’attaccamento dell’infanzia con presenza di parafilie

Il protagonista di questo caso clinico è un soggetto di 9 anni, istituzionalizzato, con ripetute esperienze di abbandono familiare in anamnesi; ciò che l’ha portato all’attenzione clinica è la manifestazione di comportamenti sessualizzati (parafilie).

 

In termini evolutivi il fenomeno dell’attaccamento si configura come un comportamento generato dall’acquisizione di modelli relazionali, esperiti in primis, con le figure genitoriali, che permettono al bambino di sviluppare un senso di sicurezza e accudimento, ma contemporaneamente di esplorare gradualmente la realtà circostante. L’attaccamento è, dunque, costituito dalla costante interrelazione di aspetti emotivi, cognitivi e comportamentali che favoriscono un sistema relazionale in continua evoluzione che garantisce all’individuo la possibilità di orientarsi nel mondo circostante con le figure significative e con il gruppo dei pari (Bowlby, 1996).

La mancata realizzazione di tale fenomeno implica conseguenze clinicamente rilevanti sul normosviluppo del bambino, il quale inevitabilmente continuerà a reiterare dei comportamenti relazionali disfunzionali e potenzialmente dannosi, oltre ad impattare sul riconoscimento dei suoi stati interni.

Il protagonista di questo caso clinico è un soggetto di 9 anni, istituzionalizzato, con ripetute esperienze di abbandono familiare in anamnesi; ciò che l’ha portato all’attenzione clinica è la manifestazione di comportamenti sessualizzati (parafilie), non in linea con la sua fase di sviluppo evolutiva. Per fronteggiare tale casistica complessa è stato implementato un protocollo, di matrice cognitivo-comportamentale, composto da interventi di Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ed esercizi di Mindfulness: per lavorare sincronicamente sulla sfera della consapevolezza cognitiva e corporea (Bassani, Marchi, Menotti & Canevisio, 2020).

L’ACT appartiene alle terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione e affonda le sue radici nell’analisi del comportamento e su un vasto programma di ricerca sperimentale sul comportamento verbale. È una forma di psicoterapia transdiagnostica, applicabile ad una vasta classe di disturbi, che fa ampio utilizzo di strategie di accettazione, al fine di incrementare la flessibilità psicologica (Hayes, 2005). Con il termine Mindfulness si fa, invece, riferimento ad una forma di pratica meditativa che focalizza l’attenzione sul momento presente, coltivando un atteggiamento aperto, curioso e non giudicante verso i propri stati interni. Il suo fulcro consiste nel prestare attenzione “momento per momento” a quello che accade nella propria esperienza, a osservare il naturale funzionamento della mente, senza ostacolare il normale fluire di pensieri, emozioni e sensazioni fisiche (Kabat-Zinn, 1994). Questo protocollo, potenziato con l’Acceptance and Commitment Therapy, è stato implementato attraverso incontri a cadenza settimanale, dalla durata di 60 minuti ciascuno.

L’assessment, eseguito in due fasi valutative (pre e post-trattamento, a due anni di distanza), è stato condotto attraverso la somministrazione delle seguenti scale cliniche, finalizzate a testare la dimensione del trauma, i comportamenti sessuali problematici e la psicopatologia dello sviluppo generale: Trauma symptom checklist for young children (TSCYC; Briere et al., 2001), nell’adattamento italiano del 2015 (Pessina et al., 2015); Child sexual behavior inventory (William et al., 2001) e Child Behavior Checklist (CBCL; Achenbach & Edelbrock, 1991). Nel corso del trattamento è stato osservato che il solo instaurarsi dell’alleanza terapeutica tra bambino e psicoterapeuta ha assunto la valenza di esperienza emozionale correttiva che ha permesso l’interiorizzazione di nuovi modelli comportamentali, estendibili anche agli altri contesti di vita, come ad esempio la scuola e la comunità residenziale in cui è collocato. Al termine del trattamento sono stati riscontrati esiti terapeutici, esigui, ma significativi; tra cui: lieve decremento della sintomatologia ansiosa e depressiva, riduzione dei livelli di rabbia e soprattutto diminuzione della preoccupazione connessa alle tematiche sessuali, nonché il comportamento problema esternalizzante che ha portato l’individuo all’attenzione clinica. Alla luce degli obiettivi terapeutici raggiunti, l’alleanza terapeutica si è configurata come fattore terapeutico aspecifico che ha inciso notevolmente sull’esito del trattamento: il bambino è riuscito ad interiorizzare i comportamenti messi in atto dal terapeuta, sino a raggiungere notevoli livelli di fiducia inaspettati (Bassani, Marchi, Menotti & Canevisio, 2020).

L’outcome clinico, emerso da questo protocollo applicato ad un single-case, si configura come l’acquisizione di abilità di controllo comportamentale, connesso allo sviluppo della sicurezza emotiva: il terapeuta, per la prima volta nella vita dell’individuo, ha offerto all’individuo la possibilità di esperire una relazione alternativa e correttiva con un adulto non trascurante e non abbandonico.

 

La cura di sé. Un percorso integrato verso il benessere

Prendersi cura di sé comprende: la cura del corpo, della mente, delle emozioni, dello spirito, del tempo e la compassione di sé.

 

Viviamo in un’epoca per molte persone caratterizzata da una diffusa difficoltà nel conciliare i tempi della cura di sé con quelli del lavoro, da ridotte risorse economiche, da un continuo affaccendamento, da pochi modelli di riferimento e da un’organizzazione sociale del lavoro impostata prevalentemente su adulti senza figli (Cicognani et al., 2005). Riguardo all’attenzione alla propria persona, sembra davvero essersi diffusa e consolidata l’opinione che un adulto responsabile debba quasi “dimenticare” sé stesso, evitando di mettere al primo posto i propri desideri per dedicare ogni suo sforzo unicamente alla crescita delle generazioni più giovani e al soddisfacimento dei bisogni lavorativi. Al contrario i professionisti della salute mentale, soprattutto negli ultimi anni, stanno studiando gli strumenti più efficaci per sostenere la popolazione adulta nell’organizzazione della vita quotidiana e nella definizione delle funzioni educative, evidenziando il principio che la prevenzione e la cura di sé rappresentano un metodo essenziale per migliorare la propria salute, la qualità di vita e costruire relazioni familiari e sociali serene e stabili.

In concreto, prendersi cura di sé comprende: la cura del corpo, della mente, delle emozioni, dello spirito, del tempo e la compassione di sé.

Lo stile di vita rappresenta un fattore decisivo per la salute. I dati dell’OMS relativi alle abitudini della popolazione appaiono preoccupanti, in quanto sempre più diffusi sono i disturbi del sonno, l’inattività fisica ed un’alimentazione incompleta, scarsamente equilibrata e causa di un eccesso ponderale (Trabucchi, 2014). Prendersi cura del proprio corpo rappresenta, pertanto, un prerequisito essenziale per conservare la salute cerebrale e comprende tre aspetti fondamentali: un’alimentazione completa e varia, un esercizio fisico regolare ed una corretta igiene del sonno. È importante anche saper dare spazio alle proprie emozioni e sentimenti, imparando a nominarle nel momento in cui si presentano, a gestirle con efficacia e a riconoscere gli stati affettivi altrui, abilità fondamentale nelle relazioni interpersonali (Goleman 182018).

La cura della mente si può realizzare ad esempio riscoprendo il valore del silenzio, della riflessione, e l’amore per tutto ciò che è esperienza intima e personale. Kabat-Zinn (2004) ha individuato otto “pilastri” indispensabili per favorire la consapevolezza di sé ed affrontare con efficacia le difficoltà quotidiane quali: la sospensione del giudizio, la pazienza, la mente del principiante (aiuta a vedere tutte le cose come se le notassimo per la prima volta), la fiducia nelle proprie intuizioni, non cercare risultati, l’accettazione di ogni esperienza, il lasciare andare, la costanza e l’autodisciplina rafforzata da un impegno quotidiano e continuo.

Anche la dimensione spirituale assume un ruolo importante in termini di benessere ed insieme alla mente e al corpo costituisce un’unica entità. La spiritualità comprende tre elementi: l’impegno alla ricerca di uno scopo di vita, l’aspirazione al trascendente verso qualcosa di più grande di sé oltre il qui ed ora, e il desiderio di vivere valori come l’amore, la verità, la bellezza, la fiducia e la creatività (Ross, 1995); costituisce pertanto una risorsa preziosa per dare senso alla vita ed offre conforto e speranza attraverso l’uso di strategie di coping funzionali alla riduzione dello stress (Park & Folkman, 1997).

Un’ulteriore elemento caratteristico della cura di sé è rappresentato dall’attenzione alla gestione del proprio tempo: una sua buona organizzazione, la rinuncia al multitasking e la consapevolezza delle priorità permettono, infatti, di evitare di sovraccaricare la mente in modo eccessivo e di raggiungere gli obiettivi prefissati, divenendo in questo modo persone più serene e produttive.

Inoltre, coltivare un atteggiamento compassionevole nei confronti di se stessi permette di essere toccati dalla propria sofferenza, senza evitarla o cercare di allontanarla, ma desiderando alleviare il proprio dolore e guarire sé stessi con gentilezza. Paul Guilbert (2012), uno dei massimi esponenti della Terapia Focalizzata sulla Compassione (TFC), evidenzia tre aspetti che caratterizzano questo atteggiamento: l’apertura alla propria sofferenza, la gentilezza verso sé stessi piuttosto che l’autocondanna e la consapevolezza di condividere con gli altri l’esperienza della sofferenza senza vergognarsi o sentirsi soli nel proprio dolore.

La cura di sé rappresenta, dunque, una sfida sempre più urgente per accrescere il benessere di ognuno; un percorso che spesso rischia di essere mal interpretato come egoismo, chiusura in se stessi o scarsa attenzione al prossimo. Tuttavia, solo imparando a stare bene con noi stessi, accettando le fragilità personali e valorizzando le nostre risorse riusciremo a prenderci meglio cura degli altri e ad affrontare con successo e pazienza le difficoltà che la vita riserva.

 

Acceptance and commitment therapy per il Disturbo Ossessivo Compulsivo

A seguito del riscontrato peggioramento generale dei sintomi DOC in soggetti che già presentavano la diagnosi (Prestia et al., 2020), e a seguito delle molte ricerche riguardanti le terapie di terza ondata, andiamo ad analizzare, nello specifico, l’utilizzo della Acceptance and Commitment Therapy (ACT) per trattare il Disturbo Ossessivo-Compulsivo. 

 

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è uno dei disturbi mentali più comuni e debilitanti ed ha una prevalenza internazionale dell’1,1- 1,8%. Il disturbo si caratterizza per la presenza di ossessioni, ovvero pensieri, impulsi o immagini ricorrenti, persistenti e indesiderati e di compulsioni, ossia tutti quei comportamenti o azioni mentali che vengono messi in atto allo scopo di regolare, ridurre o neutralizzare le ossessioni e di controllare l’ansia a esse associata. Molte persone che soffrono di DOC riconoscono la natura irragionevole e la qualità ripetitiva dei propri pensieri e comportamenti, nonostante ciò, però, riportano un’incapacità nel resistervi e questo comporta inevitabilmente una ripercussione significativa sulla qualità di vita di queste persone. Il disturbo infatti provoca un notevole distress personale e una compromissione nel funzionamento accademico, lavorativo e interpersonale. Il decorso del disturbo, se non trattato, è solitamente cronico, con tassi di remissione spontanea negli adulti molto bassi (American Psychological Association, 2013).

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e in particolar modo l’utilizzo della tecnica dell’esposizione in vivo con la prevenzione della risposta (ERP) è il trattamento di prima scelta raccomandato per il disturbo ossessivo-compulsivo (Abramowitz, Taylor & McKay, 2009; Olatunji, Davis, Powers & Smits, 2013), sia da sola che in combinazione con la terapia farmacologica basata sugli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRIs) (Romanelli, Wu, Gamba, Mojtabai & Segal, 2014). Nonostante una comprovata efficacia dei trattamenti cognitivo-comportamentali per il DOC, sussistono diverse limitazioni e problematiche, al di là dell’impatto clinico, per coloro che accedono alle cure: il 25-30% dei clienti introdotti all’ERP rifiuta il trattamento, si ritira prematuramente interrompendo la terapia (Ong, Clyde, Bluett, Levin & Twohig, 2016) o non aderisce alle istruzioni raccomandate e non porta a termine i compiti di esposizione previsti (Foa et al., 2005). All’individuo viene infatti richiesto di confrontarsi sistematicamente con triggers situazionali o stimoli mentali temuti che provocano le ossessioni senza mettere in atto alcun comportamento preventivo o protettivo e questo in parte spiega il rifiuto e l’avversione del cliente a proseguire la terapia. Inoltre l’ERP, associata o meno a interventi cognitivi, si configura come un trattamento intensivo che richiede molto tempo, in media 27.4 ore di contatto diretto col terapeuta in aggiunta alle dozzine di ore previste per lo svolgimento dei compiti prescritti per il cliente (Abramowitz et al., 2009). Va in aggiunta considerato come vi sono altri fattori intervenienti che contribuiscono a complicare il quadro e a influenzare la prognosi del trattamento: la motivazione del cliente, la presenza di condizioni di comorbilità come disturbi d’ansia e disturbi depressivi (Ruscio, Stein, Chiu & Kessler, 2010), la marcata inflessibilità psicologica del cliente e il ruolo delle interpretazioni maladattive riguardanti l’importanza e il significato dello stimolo ossessivo (il bisogno percepito di controllare i pensieri, l’importanza data ai pensieri e la responsabilità personale dei pensieri) (Ong et al., 2020).

Nel corso degli ultimi anni si è sviluppato un crescente interesse nell’esaminare ulteriori opzioni di trattamento dei disturbi mentali e sono state introdotte diverse nuove tecniche psicologiche classificate sotto il termine ombrello “terapie di terza ondata”. Queste ultime, a differenza delle terapie cognitive tradizionali, abbandonano i tentativi di cambiare i contenuti, la forma e la frequenza dei pensieri indesiderati e delle emozioni, mentre si focalizzano sulle funzioni delle cognizioni e sulla consapevolezza e accettazione degli eventi mentali. L’Acceptance and Commitment therapy (ACT) ricade nel dominio della “terza ondata” e ha ottenuto una considerevole attenzione da parte dei professionisti della salute mentale per la gestione e il trattamento del DOC (Hayes, 2004).

L’ACT fu introdotta per la prima volta da S. Hayes e le tecniche terapeutiche che la caratterizzano sono guidate dal paradigma filosofico chiamato “functional contestualism”, il cui sviluppo origina da un programma di ricerche sul linguaggio e sulla cognizione chiamato “Relational Frame Theory” (RTF; Hayes, Strosahl & Wilson, 2011). Uno dei contributi della ricerca sull’RTF è quello di aver messo in risalto il modo in cui i processi cognitivi consentano di attribuire funzioni e significati anche a stimoli ambientali dei quali non si ha avuto esperienza diretta. Per cui, ad esempio, se una persona con un DOC da contaminazione esperisce “lo sporco” come pericoloso, tutto ciò che è simile allo “sporco” acquisirà la funzione di “pericoloso”, in modo tale da far sì che molti stimoli ambientali arbitrari acquisiscano la funzione di “spaventoso e pericoloso” con una conseguente attivazione dell’ansia, nonostante la persona non abbia mai avuto a che fare con essi (Dougher, Hamilton, Fink & Harrington, 2007; Twohig, 2009).

Nonostante una grande utilità offerta dalle abilità cognitive di questo tipo, come ad esempio la possibilità di risparmiare energia mentale e di prevedere gli eventi, è anche vero che queste possono diventare limitanti se divengono troppo prevalenti e rigide. Questo perché un individuo che si fa guidare soltanto dalle contingenze cognitive non riesce ad adattare il proprio comportamento a quelle ambientali, anche nel caso in cui queste ultime dovessero cambiare. Questo processo si può osservare nel DOC, nel quale le contingenze cognitive sono molto diverse da quelle del mondo reale. In tale disturbo l’individuo è così influenzato dalle credenze circa la pericolosità e il bisogno di controllo delle esperienze interne negative da mettere in atto un comportamento protettivo reiterato e disfunzionale, volto ad alterare la forma e la frequenza dei pensieri, al di là di qualunque possibile disconferma proveniente dall’ambiente (Twohig, 2009).

L’approccio dell’ACT è quello di mirare al contesto funzionale entro cui hanno luogo gli eventi mentali, senza considerare il loro contenuto, così da lasciare che i pensieri esistano nella stessa forma, ma intervenendo sull’effetto che questi hanno sul comportamento e di conseguenza sulla qualità di vita (Hayes, Villatte, Levin & Hildebrandt, 2011).

I teorici cognitivisti sostengono infatti come i pensieri con un contenuto ossessivo siano comuni tra le persone, ma coloro che soffrono di DOC hanno un modo diverso di porsi e di reagire a questi pensieri: questi ultimi vengono trattati in maniera letterale, come se fossero dei fatti e dei pericoli concreti e vengono utilizzati per fornire un motivo che muove eccessivamente all’azione. Tale processo è conosciuto come “fusione cognitiva” (Hayes, Srosahl & Wilson, 1999). Per questo motivo chi soffre di DOC ricorre al cosiddetto “evitamento esperienziale”, ovvero il fenomeno che si verifica quando una persona è riluttante a rimanere in contatto con le proprie esperienze interne negative (emozioni, pensieri, ricordi, sensazioni) e prende provvedimenti al fine di alterare tali eventi e il contesto che li genera (Hayes, Wilson, Gifford, Follette & Strosahl, 1996). Tale evitamento può essere sia passivo, ovvero un certo stimolo o situazione viene evitato del tutto, oppure attivo, ovvero il soggetto si impegna in comportamenti ritualistici per diminuire il distress (Hannan & Tolin, 2005). Nel protocollo ACT il paziente viene indirizzato alla comprensione di come ciò che fa la differenza non è l’avere o meno determinati pensieri, ma come ci si rapporta ad essi: la messa in atto di comportamenti protettivi e controllanti ha infatti l’effetto paradossale di esacerbare la frequenza, l’intensità e la salienza delle esperienza interiori percepite negativamente. L’ACT ha dunque lo scopo di favorire la defusione cognitiva e l’accettazione esperienziale, al fine di aiutare il paziente a creare un nuovo modo di relazionarsi e di rispondere ai pensieri ossessivi e alle emozioni di ansia, semplicemente accettandoli per quello che sono, ovvero pensieri ed emozioni (Twohig, Hayes, & Masuda, 2006).

L’ACT aspira a incrementare la flessibilità psicologica del paziente, ovvero la capacità di stare in contatto col momento presente, consapevole delle proprie esperienze psicologiche così come si presentano, allo scopo di impegnarsi nelle azioni che permettono alla persona di raggiungere obiettivi importanti e significativi (Hayes, Luoma,Bond, Masuda & Lillis, 2006). I pazienti sono dunque incoraggiati a battersi per vivere la vita che desiderano, nonostante la presenza delle ossessioni, le quali vengono riformulate come “semplici pensieri che vanno e vengono” (Philip, & Cherian, 2020).

Il modello dell’ACT prevede sei processi attraverso i quali il paziente viene sollecitato al cambiamento: Accettazione, Defusione, Sé come contesto, Consapevolezza del momento presente, Valori e Azioni impegnate.

Adesso andremo a vedere, più nello specifico, i sei pilastri dell’ACT, cercando di fornire esempi pratici.

Twohig (2009) presenta il caso di Caroline, donna con un disturbo ossessivo-compulsivo; sperimenta ossessioni e autocritiche e si impegna in compulsioni, come evitare le persone, fare pugni o cerchi con le braccia o con le dita o mordersi la lingua come strategia di controllo e pensa o dice determinate cose per tenere al sicuro le persone.

Nell’ottica ACT, un buon risultato clinico sarebbe quello in cui Caroline è in grado di sperimentare le sue ossessioni e la sua ansia solo come pensieri e sentimenti; non dovrebbe impegnarsi in attività che vanno ad alterarne il contenuto.

Partiamo, quindi, dal primo pilastro: l’accettazione implica che le esperienze interiori si verifichino senza regolarle o controllarle, allo stesso modo di quando ci troviamo ad accogliere in casa un ospite indesiderato (Dèttore, Giaquinta, & Pozza, 2019): potrebbe non piacerci davvero, ma possiamo trovare un modo per convivere con lui senza che ci sia una guerra costante. Il target dell’accettazione è l’evitamento. Caroline si impegna in una notevole quantità di evitamento, cognitivo e comportamentale: si sforza di non sperimentare le sue ossessioni e di calmarsi dopo averle pensate ed evita situazioni che potrebbero innescarle. Dato che solitamente le compulsioni sono inefficaci sul lungo termine a diminuire le ossessioni, e visto che è probabile che più il paziente cerca di lottare contro le ossessioni e più queste diventano frequenti e intense, il terapeuta potrebbe indagare questo aspetto e chiedere in che modo la paziente cerca di regolare i suoi pensieri e come questa regolazione influisce sulla qualità della sua vita. Una volta che Caroline si rende conto che non può controllare le sue ossessioni e che i tentativi di farlo sono un problema, il terapeuta propone, come obiettivo del trattamento, i tentativi di controllo, in questo modo:

Terapeuta: ti faccio un esempio di quello che sta accadendo. Stai giocando a basket contro le tue ossessioni per la maggior parte del tempo. C’è qualcosa, però, di ingiusto nel gioco: tu stai giocando contro una squadra di professionisti e ovviamente la tua squadra non va bene, i punti sono sbilanciati, non vincerai mai. Vuoi continuare a giocare perché sembra che se vinci questa partita, le ossessioni si fermeranno e così potrai andare avanti a fare tutte le cose che per te sono importanti.

Caroline: come devo fare per batterle quindi? Ho provato molte cose per controllare le mie ossessioni, come rassicurarmi, evitare situazioni, acquistare libri, andare su internet e anche lavorare con una precedente terapia, ma sono sempre lì e stanno peggiorando. 

Terapeuta: c’è un altro gioco a cui la maggior parte delle persone non fa attenzione, simile al primo gioco, ma diverso. Questo gioco, innanzitutto, è giusto: la tua squadra gioca contro un’altra squadra brava quanto te. Un’altra cosa importante è che invece di giocare per il controllo delle tue ossessioni, giochi per la qualità della vita. E se il nostro lavoro insieme non fosse aiutarti a vincere la partita, ma aiutarti a smettere di giocare? (Twoigh, 2009, p. 22).

Ci sono molti modi per aumentare l’accettazione delle ossessioni: uno è lasciare che il paziente interagisca con il pensiero difficile (per esempio: sono una persona terribile). Il terapeuta può chiedere di scrivere il pensiero su un pezzo di carta, lo tiene e dice alla paziente di non lasciare che il pensiero la tocchi. Caroline tenderà le mani per impedire al foglio di toccarla; i due spingeranno avanti e indietro l’”ossessione”. Successivamente il terapeuta getta il foglio nel grembo di Caroline e le chiederà di lasciarlo lì. A questo punto il pensiero sta toccando la paziente in entrambe le situazioni. Quale delle due richiede più impegno e attenzione? (Twoigh, 2009, pp. 22-23). A questo diventa più chiaro il contrasto tra lottare e accettare quel determinato pensiero.

La defusione, invece, serve per rapportarsi ai pensieri in modo nuovo, in modo che abbiano un impatto e un’influenza minore, siano meno importanti e vengano presi meno “alla lettera”. Essere fusi cognitivamente, infatti, significa vivere in maniera dicotomica, in cui i pensieri vengono vissuti come “giusti/sbagliati” o “buoni/cattivi”.

Caroline è fusa cognitivamente, ha poca consapevolezza delle sue ossessioni come pensieri privi di significato verbale, sperimenta le sue ossessioni come eventi letterali, concreti, è spaventata sia dal pensiero che dagli effetti di questo. Per diminuire la fusione cognitiva, si dovrebbe creare una relazione terapeutica in cui le ossessioni vengano trattate per quello che sono, ovvero pensieri ed emozioni, non cose reali. Il terapeuta tratta le ossessioni e compulsioni come degli eventi separati, che si legano solo nella mente della paziente.

C: mi sento come se causassi miseria e morte ovunque vada. Pensi che io stia causando danni a chi mi sta intorno?

T: guarda come la tua mente va via di nuovo. Ringrazia la tua mente per quel pensiero (Twoigh, 2009, p. 23).

Esistono molti esercizi che supportano la defusione cognitiva: Caroline può essere aiutata a trattare i pensieri come una serie di cose diverse. Facciamo riferimento alla metafora dell’autobus (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999): il terapeuta aiuta la paziente a vedere se stessa come l’autista di un autobus che sta andando verso i suoi valori. Nell’autobus ci sono passeggeri che urlano e le dicono dove andare (ovvero le ossessioni); eppure l’autista fa quello di lavoro, sa dove deve andare. Oppure, l’esercizio dei pensieri letti a rallentatore o accelerati, dove la paziente sceglie il pensiero su cui lavorare. Lo scrive su un pezzo di carta e lo rilegge molto lentamente in modo prima ripetuto poi in modo veloce per tre minuti (nel mentre viene registrato). Dopodiché riascolta i due audio per vedere come reagisce la nostra mente (Dèttore, Giaquinta, & Pozza, 2019). Un ulteriore esercizio di consapevolezza è guardare le proprie ossessioni passare: alla paziente verrà chiesto di chiudere gli occhi e prestare attenzione alle sue esperienze interiori senza afferrare o respingere nessuna di esse. Guardare i pensieri e le sensazioni andare e venire come se qualcuno guardasse gli attori entrare e uscire da un palcoscenico, allo stesso modo di immaginarsi seduta sulla riva di un ruscello mentre appoggia sulle foglie depositate sull’acqua i propri pensieri, emozioni o sensazioni fisiche del momento e rimanere a osservarli scorrere, sempre per imparare a “lasciar andare” i pensieri (esercizio foglie sul ruscello; Dèttore, Giaquinta, & Pozza, 2019).

Il sé come contesto implica l’esistenza di una parte del sé che non cambia ed è sempre presente. Una parte del sé che va oltre i pensieri, le emozioni e le esperienze passate. Senza il sé come contesto, Caroline sperimenterà due processi problematici: risponderà alle sue ossessioni come se fosse definita da esse e cercherà di controllarle. La paziente potrebbe agire in modo coerente con il pensiero “sono una persona orribile”, evitando le persone per non danneggiarle o non cercando mai attività significative. Se Caroline sperimenta le sue ossessioni solo come pensieri, allora è in grado di non comportarsi in modo coerente con le stesse. Il terapeuta lavora per rafforzare la presenza del sé come contesto e per modellarlo come abilità, cercando di aiutare Caroline a vedere una separazione tra se stessa e le sue ossessioni. Per farlo, il terapeuta potrebbe rispondere al pensiero di Caroline (sono una persona orribile) dicendo: sei tu o hai il pensiero di essere una persona orribile?

Ci sono altri esercizi che possono essere fatti in questa fase, come l’esercizio della scacchiera (Hayes et al., 1999): il terapeuta aiuta la paziente a cercare di vedere se stessa come una scacchiera, con le ossessioni e le compulsioni come due squadre che giocano l’una contro l’altra sul tabellone, il quale non si preoccupa di quello che fanno le squadre, semplicemente tiene i pezzi. Il tabellone, infatti, non è influenzato dalle azioni dei pezzi o da chi vince la partita. L’esercizio serve per vedere le ossessioni come eventi che accadono dentro di sé piuttosto che come eventi che definiscono la persona. Se Caroline riuscisse a percepire una separazione tra le sue esperienze interiori e se stessa, allora riuscirebbe a non agire in base alle sue ossessioni. Esercizi di questo tipo mettono la persona in maggiore contatto con le contingenze del mondo reale.

Per contatto con il momento presente si intende connettersi completamente con ciò che si sta facendo e vivendo, nel qui ed ora, senza lasciare spazio alla valutazione o al giudizio. In questo modo, Caroline riuscirebbe a descrivere ciò che le accade come: “sto provando queste sensazioni corporee… sto pensando questo…” Ciò è utile, inoltre, per fare defusione cognitiva, in quanto la paziente riuscirebbe a vivere il mondo così com’è invece che plasmato dalle proprie cognizioni. Il contatto con il momento presente ha delle somiglianze con altre pratiche di consapevolezza, come la Mindfulness. Nel caso di Caroline, lei non risulta presente nel qui ed ora, in quanto è preoccupata per le sue ossessioni, teme il suo pensiero e si sforza per evitare di controllarlo. In casi come questo, è consigliato il focus sull’attenzione al momento presente rispetto alle proprie esperienze interiori. Più la persona è a contatto con le proprie esperienze interiori, più efficace è l’esposizione e più efficace è la terapia (Abramowitz, 1996). Ecco un esempio di esercizio di consapevolezza: il terapeuta invita la paziente a chiudere gli occhi e la istruisce a prestare attenzione a diversi elementi della sua esperienza attuale, come le sensazioni corporee (ad esempio il respiro), i diversi suoni della stanza, i pensieri o le emozioni. Viene chiesto alla paziente di osservare questi eventi come se si stessero svolgendo di fronte a lei, come delle immagini su uno schermo. Viene chiesto di fare caso alla differenza tra notare i suoi pensieri come un processo in corso, oppure esserne consumata e trascinata da essi. Spesso i pazienti possono trovare questo tipo di esercizi rilassanti. Un esempio di un altro esercizio è quello che prevede che la paziente cammini fuori dalla stanza mentre dice ad alta voce tutti i suoi pensieri, qualunque cosa le passi per la testa, spostando, quindi, all’esterno quello che è il suo dialogo interiore: è una bella giornata; dovrei fare qualcosa riguardo alle mie ossessioni, e così via; questi pensieri non vengono né contestati né verificati, semplicemente vengono vissuti come qualsiasi altro evento.

I valori sono il riflesso di ciò che è importante per la persona: che tipo di persona vuoi essere, che cosa ha valore e significato per te e per che cosa vuoi impegnarti in questa vita. I valori servono per tracciare la direzione della propria esistenza e motivano il soggetto a realizzare cambiamenti importanti. Caroline presenta valori sociali molti forti: ha a cuore i suoi amici e la famiglia e teme che il contatto con questi possa causare loro danni o addirittura la morte. Di fatto le sue ossessioni, prese alla lettera, le consentono di “fare la cosa giusta”, stando lontana da loro e proteggendoli. Nel momento in cui Caroline percepisce che lei non è un tutt’uno con i suoi pensieri, sarà in grado anche di capire che, nel tentativo di proteggere le persone a lei care, in realtà le perde.

Per indagare i valori del soggetto, si può chiedere semplicemente alla paziente qual è lo scopo del suo comportamento oppure come vorrebbe che fosse la sua vita.Questo tipo di discussione è utile per far sì che la paziente prenda consapevolezza rispetto al fatto che è possibile rendere meno importanti le ossessioni, cercando di indirizzare la propria vita verso il perseguimento di attività più in linea con i propri valori. In questo caso, l’esercizio di esposizione non ha come focus la riduzione dell’ansia o il controllo dell’ossessioni, bensì l’avvicinarsi ai suoi amici e alla famiglia.

Non si discute il contenuto delle ossessioni che Caroline porta in seduta, ma i costi che le servono per seguire queste ossessioni. Per discutere il ruolo che i valori hanno nel guidare il proprio comportamento è possibile dedicare intere sedute, le quali, solitamente, vengono effettuate dopo il lavoro sull’accettazione e sul contatto con il momento presente. Una volta che la paziente ha valutato quanto per lei siano importanti le varie aree che porta in seduta (ad esempio: amici, famiglia, occupazione), andrà a valutare quanto siano coerenti le sue azioni con i suoi valori. Infine, viene incoraggiata a discutere su ciò che le impedisce di seguire i suoi valori. Riuscirà a prendere consapevolezza del grande costo, anche in termini di energia, che usa per controllare e regolare le sue ossessioni a discapito di attività che per lei sono significative. Nell’ottica ACT, sono i valori a guidare le proprie azioni e non l’esperienza interiore.

L’ACT incoraggia a basare le azioni sui propri valori, ma non tramite un’azione qualsiasi. Ci vuole un’azione impegnata.

Caroline ha uno stile di vita piuttosto attivo; sebbene eviti alcuni contatti sociali, trascorre del tempo all’aria aperta. Si concentra in queste attività, però, a un livello e ad una qualità molto ridotti. Dopo che gli altri pilastri sono stati trattati, il terapeuta, insieme a Caroline, potrebbe lavorare per creare degli esercizi di impegno comportamentale settimanali che sono vicini ai valori della paziente. Ad esempio, Caroline potrebbe scegliere di parlare con un amico con cui non parla da un po’ di tempo, avendo una conversazione significativa senza lasciarsi andare in compulsioni, oppure potrebbe scegliere di non proteggere mentalmente le persone a lei care per una sola ora al giorno, in modo da praticare l’accettazione e la defusione.

Gli esercizi di impegno, nell’ottica ACT, sono eseguiti tenendo conto dei valori scelti dal paziente ed è il paziente stesso a scegliere l’esercizio, non il terapeuta. Gli esercizi vengono strutturati in base al tempo o all’attività e non in base alla gravità delle ossessioni; il paziente viene istruito a praticare gli altri processi ACT mentre è impegnato nell’esercizio scelto.

Nel caso del DOC, il focus è quello di aumentare l’accettazione delle ossessioni e notarle per ciò che sono. Nella maggior parte dei casi, ciò si traduce in una riduzione del comportamento compulsivo, in quanto questo comportamento solitamente interferisce con i propri valori.

Il cambiamento di Caroline sarà lento, così come per qualsiasi altra modalità di trattamento, visto l’alto coinvolgimento nelle sue ossessioni. Ovviamente il terapeuta lavorerà con lei, soprattutto per essere presente nei momenti di paura e incertezza. Una volta che Caroline inizia a lavorare all’interno di un sistema non basato sul controllo emotivo, il cambiamento avverrà entro tempi brevi. Questo nuovo sistema risulterà per lei rinforzante, in quanto sarà in grado di fare cose che sono importanti per lei senza dover prendere il controllo delle sue ossessioni.

Infine, per quanto riguarda le evidenze preliminari per l’utilizzo dell’ACT nel DOC, queste sono derivate in primo luogo da studi su casi singoli o su un numero ristretto di partecipanti. Tali studi hanno permesso di evidenziare come l’ACT sia stata efficace nel ridurre alcuni sintomi del DOC, tra cui i pensieri inerenti all’arrecare danno agli altri, l’aver commesso un peccato, i rituali di lavaggio (Vakili & Gharraee, 2014), i rituali religiosi, i pensieri blasfemi (Lee, Ong, An & Twohig, 2018; Dehlin, Morrison & Twohig, 2013), le ruminazioni ossessive in presenza di un deficit intellettivo ( Brown & Hooper, 2009), le compulsioni di controllo, di accumulo e di pulizia (Twohig, Hayes & Masuda, 2006a) e le ossessioni riguardanti la propria salute e quella altrui (Izadi, Asgari, Neshatdust & Abedi, 2012). Vi sono anche evidenze che supportano l’uso dell’ACT per i disturbi correlati al DOC, come per la tricotillomania (Twohig & Woods, 2004), il disturbo da escoriazione (Twohig, Hayes & Masuda, 2006b) e l’uso compulsivo della pornografia (Twohig & Crosby, 2010). Nonostante le ovvie limitazioni, dovute alla ridotta numerosità dei campioni, questi studi hanno aperto la strada agli studi randomizzati e controllati (RCT), i quali hanno messo in risalto la maggiore efficacia dell’ACT nel trattamento del DOC quando comparata al training di rilassamento muscolare progressivo (Twohig et al., 2010), all’utilizzo della sola terapia farmacologica basata sugli antidepressivi (Baghooli,Dolatshahi, Mohammadkhani, Moshtagh & Naziri, 2014; Vakili, Gharaee & Habibi, 2015; Rohani et al., 2018) e alla terapia narrativa di gruppo e a quella della prospettiva temporale di gruppo (Esfahani,Kjbaf & Abedi, 2015).

Purtroppo vi sono ancora pochi studi che pongono a confronto l’efficacia dell’ACT con quella dell’ERP nel trattamento del DOC. Tra questi, uno ha mostrato come l’utilizzo dell’ACT non abbia incrementato gli esiti primari del trattamento quando aggiunta al classico intervento di ERP. D’altronde va considerato come l’azione combinata di questi due trattamenti per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo può migliorare l’accettabilità della terapia, l’impegno nei compiti di esposizione (l’ACT favorisce la disponibilità a esperire i pensieri ossessivi) e riduce i tassi di drop-out o di rifiuto dell’ERP, non solo senza attenuarne gli esiti ma probabilmente rafforzandoli (Twohig et al., 2018).

 

Adolescenti oggi, fra vecchi e nuovi traguardi

L’incontro dei traguardi tipici dell’adolescenza e dei nuovi scenari apre una strada che può favorire sentimenti di ansia e di inadeguatezza ma anche di riconoscimento e possibilità di affermarsi.

 

L’amore, la malattia, alcuni incontri, un disturbo psicologico, una nuova passione, un percorso psicoterapeutico, la nascita di un figlio, sono eventi che possiamo considerare come potenziali portatori di cambiamento. L’adolescenza invece, di per sé, per le sue caratteristiche essenziali, costituisce un periodo della vita in cui si assiste ad un cambiamento significativo. Spinti dal desiderio di sentirsi visti, apprezzati e riconosciuti, stretti fra la ricerca di un partner e la comprensione di sé, fra cambiamenti fisici e psicologici, fra un allentamento nel rapporto con le figure parentali e la ricerca di autonomia, gli adolescenti si muovono nella relazione con i pari grazie a dimensioni di unicità e appartenenza, somiglianza e differenza, competizione e cooperazione.

Con le parole di Lancini (2020), ”I compiti evolutivi adolescenziali sono: il processo di separazione-individuazione, la mentalizzazione del sé corporeo, la nascita sociale e la definizione e la formazione di valori” (p.18). Compiti e obiettivi che si definiscono all’interno di ogni fase storica, di ogni area geografica. È anche vero che la giovinezza attraversa fasi storiche diverse e luoghi fisici differenti, configurandosi come un processo unico, un intreccio di variabili diverse, funzione di miti affettivi e culturali del tempo. Ogni adolescente inoltre, è adolescente a modo suo, per caratteristiche genetiche, relazioni familiari, incontri attuali e pregressi, sport, hobby, passioni, esperienza scolastica e per la lente attraverso la quale guarda il mondo. L’incontro dei traguardi tipici di questa fase dello sviluppo e i nuovi scenari apre una strada che può favorire sentimenti di ansia e di inadeguatezza ma anche di riconoscimento e possibilità di affermarsi. Fra le tematiche specifiche che caratterizzano l’adolescenza di oggi, quelle dal mio punto di vista più significative sono l’essere “onlife”, lo stile educativo genitoriale, l’impatto della pandemia, il concetto di benessere e infine le profonde differenze sociali e culturali anche all’interno dello stesso territorio.

Essere “onlife”

Il termine “onlife” è stato coniato da Luciano Floridi (2015) e fa riferimento al fatto che le persone sono contemporaneamente immerse nella realtà materiale e in quella digitale. È il tratto duplice dell’esperienza: connessi e non connessi. Quale ricaduta per gli adolescenti? In uno spazio di vita in cui si intensificano e cambiano forma le relazioni con i coetanei, in cui alla luce del processo di separazione-individuazione, i rapporti con i genitori si trasformano rispetto all’infanzia, la realtà digitale favorisce la possibilità di incrementare la vicinanza e le relazioni con i pari ma anche di rendere potenzialmente onnipresenti le figure genitoriali. L’esperienza della “solitudine” che ha caratterizzato le epoche precedenti, resa nota dai famosi flussi di coscienza tratteggiati anche dalla letteratura, si modifica, se WhatsApp e Instagram rendono i ragazzi reperibili dagli amici e dai genitori in qualsiasi ora del giorno. La realtà virtuale ha la capacità di potenziare le possibilità comunicative attraverso le parole e le immagini. Se gli adulti preferiscono l’uso della parola tipico di alcuni social network (Twitter, Facebook), gli adolescenti hanno maggiore familiarità con TikTok e Instagram, luoghi in cui l’immagine racconta, evoca, avvolge, suggerisce. Lontano da obiettivi di demonizzazione ci si chiede: quali effetti? Quali opportunità? Il corpo che in adolescenza muta e diventa oggetto della propria osservazione è anche mezzo per comunicare, ancora di più di quanto non lo fosse in epoche precedenti. Pensieri, emozioni, immagini e parole risultano così intrecciate in una realtà nuova, che rende i ragazzi di oggi per certi aspetti molto diversi da quelli di qualche generazione fa. Essere “onlife” ha anche una funzione protettiva nei confronti dell’adolescenza. Permette ad adolescenti che vivono in realtà in cui la minore età è meno tutelata di aspirare e di tentare un viaggio, un trasferimento, permette ai genitori di accedere rapidamente ai consigli di esperti che suggeriscono quali strategie, comportamenti e attenzioni rivolgere ai figli, favorisce la fruizione di strategie di difesa condivise, organizzate e approvate socialmente per affrontare fenomeni quali la tutela dei diritti, il bullismo, il cyberbullismo.

Stile educativo genitoriale

In qualità di psicoterapeuti ed educatori, non possiamo che rallegrarci davanti ad un cambiamento dello stile educativo che almeno nelle società occidentali sembra sempre più incentrato sulla comprensione, sull’accettazione e sulla difesa dei diritti piuttosto che sull’impartizione di regole e punizioni. L’evoluzione della civiltà, la diffusione delle attuali teorie pedagogiche e l’avvento di internet hanno fatto sì che lo stile educativo “autoritario” lasciasse il passo ad uno stile educativo “autorevole” permeato da dimensioni che hanno a che vedere con l’empatia, la comprensione di sé e dell’altro, il senso di responsabilità, l’importanza della condivisione ludica. Schiere di genitori, figli di una società autoritaria e convenzionale hanno compreso i limiti dell’educazione ricevuta e hanno lasciato spazio ad un passaggio che si muove dalla rigidità alla diversità, dall’impulsività agli spazi di riflessione. Genitori dogmatici, poco aperti all’ascolto e alla comprensione sono visti nella società attuale non come la regola da seguire, ma come l’eccezione problematica.

L’impatto della pandemia

Se l’intera popolazione dovrà fare i conti con una pandemia da superare, con una ripresa che segue la fase di emergenza, così come è stato in altri momenti, in altre epoche storiche, gli adolescenti avranno a disposizione forse maggiori capacità creative, minore esperienza, maggiore flessibilità. Avranno a disposizione una vita da costruire, avendo alle spalle un evento che li ha messi a dura prova, non tanto per una questione legata alla minaccia della loro incolumità o a quella dei genitori, ma per la paura di perdere i nonni, per l’irrigidirsi delle regole, per la restrizione della privacy, per l’intensificarsi della noia. Noia, privacy, rigidità delle regole sono tematiche significative per i giovani in generale, in primis per gli adolescenti. Ancorati alle relazioni amicali e all’esperienza digitale, sostenuti dalla capacità di adattamento, sono passati più volte dall’attività scolastica in presenza a quella a distanza e hanno cercato di guardare alla pandemia come a un passaggio, facilitati probabilmente dal fatto che ad un basso livello di consapevolezza loro stessi vivono l’incarnazione di un passaggio. Rabbia, impotenza, frustrazione ma anche gioia, entusiasmo, speranza, trasgressione o attinenza alla regola, sono state vissute da ciascuno di loro sulla base delle proprie caratteristiche personali e in funzione di come il contesto familiare si è andato modificando. L’elemento casuale dato dal fatto che alcuni genitori siano rimasti a casa o abbiano continuato a lavorare fuori, ha reso l’esperienza della pandemia variegata e molteplice. Che ne è dei loro stati d’animo e delle loro riflessioni? Come saranno integrati nella continuità dell’esperienza?

Il concetto di benessere

Scrive Lancini (2020) “Negli ultimi anni è stata posta un’enfasi particolare circa la necessità che i bambini incontrino ed esprimano quasi univocamente stati d’animo positivi (…). Nei cartoni animati, per esempio, sono scomparsi i temi depressivi che hanno tenuto compagnia alle generazioni precedenti. (…). Universi costellati di buonumore, allegria, risate, abitati da personaggi dotati di superpoteri, coetanei con cui intraprendere nuove sfide, adulti sempre disponibili, presenti e comprensivi” (p.43). Come se una società permeata dal trionfo del pensiero positivo, incoraggiasse nei giovani e nelle loro famiglie solo la ricerca di talenti, emozioni legate alla speranza, al coraggio, alla forza e all’autoaffermazione, ostacolando il riconoscimento di stati d’animo legati alla paura e alle difficoltà.

La possibilità di comunicare stati di disagio è veicolata dalla musica, dal lato più implicito della conversazione, dal corpo che diventa simbolo in alcuni disturbi, dall’immagine scelta per il proprio profilo virtuale. Una società in cui da qualche decennio vige la precarietà del mondo del lavoro e l’ostentazione del successo, la ricerca delle proprie possibilità di successo rischia di non lasciare spazio alla comprensione dell’ansia, al dubbio, all’indecisione, all’ascolto di sé, diventando così un percorso forzato dalla volontà e dalla determinazione, all’insegna dell’ottimismo. Il concetto di benessere è collegato anche al tema della scelta. Si ha sempre più la possibilità di scegliere amici al di fuori del gruppo obbligato della classe, gruppi spontanei che assumono un ruolo ricreativo, formativo, all’insegna della condivisione sportiva. Anche gli indirizzi scolastici sono più numerosi e diversificati così come la quantità di corsi da seguire il pomeriggio. Si è finalmente data l’opportunità soprattutto in alcuni contesti culturali, di esprimere la propria identità di genere, così come le proprie preferenze e i propri desideri sessuali. Più che in altri periodi storici, l’adolescenza sembra in questo momento, un mare aperto da navigare muniti di una buona bussola.

Differenze sociali e culturali

Di pari passo con il livello di innalzamento del grado di civiltà di una società, si modifica l’esperienza dell’infanzia e dell’adolescenza. Dal Friday For Future agli episodi di razzismo, la cronaca ci racconta però di una società in cui le differenze sono ancora troppo elevate. Ogni famiglia si caratterizza per tratti peculiari: comprensione di sé e dell’altro, uso di Internet, stile educativo, importanza attribuita alle emozioni, riconoscimento e rispetto delle differenze, livelli di impulsività e capacità riflessive, vitalità, fiducia, possibilità di affermazione, significato attribuito alle relazioni e alla possibilità di amare e di essere amati. Infine, la stessa possibilità per un giovane di rivolgersi ad uno psicoterapeuta cambia in funzione di quanto questa opportunità possa essere accolta, compresa o suggerita dai genitori.

 

Il coraggio delle emozioni (ai tempi del coronavirus) (2020) di G. Ciuffardi, T. Perissi – Recensione

La lettura del libro Il coraggio delle emozioni (ai tempi del coronavirus) equivale un po’ ad addentrarsi in una piccola fiaba: gli autori introducono ogni capitolo del testo con un aforisma della celebre storia del Mago di Oz.

 

Gli autori vogliono mettere in risalto il ruolo del cuore e delle emozioni, che a loro avviso hanno un notevole impatto sul cervello e sulla ragione.

Lo scopo del libro è alquanto singolare: depatologizzare la prospettiva con cui si guarda alle emozioni negative, restituendo loro la dignità persa per via del tentativo di medicalizzare qualsiasi cosa ritenuta in qualche modo fastidiosa o addirittura patologica.

Uno scopo in qualche modo quasi romantico, fiabesco, perché le emozioni, secondo gli autori, coinvolgono non solo il cervello, ma soprattutto il cuore, e quindi non vanno sempre controllate, ma bensì vissute, perché in ciò c’è del potenziale.

Non tutte le emozioni avverse sono infatti traducibili in disturbi patologici, tutt’altro hanno spesso una valenza positiva e adattiva.

Peccato però che l’individuo non sempre riconosce il potere positivo delle proprie emozioni sgradevoli quali la rabbia, la paura o la tristezza, anzi, soprattutto in un periodo come quello dall’emergenza da Covid19, la persona ne ha visto solo gli aspetti avversi, cercando di conseguenza un rimedio al negativo stato d’animo derivato.

Gli autori del libro parlano invece di “atteggiamento negativo verso alcuni tipi di emozioni”. Questo perché a loro avviso è proprio l’atteggiamento di chi esperisce l’emozione a determinare una reazione, trascurando quelli che potrebbero essere gli effetti positivi.

Con il trascorrere degli anni sono sorte nuove metodologie “curative” nei confronti delle emozioni definite negative: oltre alle tecniche psicofarmacologiche o psicoterapiche sono venute alla luce anche delle filosofie religiose o manuali di auto-aiuto, che hanno fatto sì che la persona potesse giungere ad un rimedio in totale autonomia.

Ma bisognerebbe capovolgere la visione dei fatti ed entrare nell’ottica che non vi è un miglioramento a cui giungere; le emozioni e il modo di viverle vanno a determinare il carattere individuale e le potenzialità della persona.

In un periodo come quello attuale, caratterizzato dalla pandemia da Coronavirus, non sempre è possibile porre un rimedio, e la persona deve divenire capace di fronteggiare la situazione riconoscendo quello che è il potere o il “coraggio” delle proprie emozioni.

Come il fenomeno della farfalla, il cui battito di ali sarebbe capace di scatenare un uragano dall’altro lato del mondo, nel testo gli autori parlano di “effetto pipistrello”, quel pipistrello che è stato in grado di determinare un contagio in ogni angolo del pianeta.

Secondo questa visione il fenomeno da Coronavirus ha una valenza enorme, che sembrerebbe impossibile da fronteggiare solo grazie al nostro personale modo di reagire alle emozioni.

Eppure bisognerebbe abituarsi a percepire le situazioni inaspettate come queste in ottica di imprevisti. Tutti gli imprevisti sono in qualche modo dei cambiamenti, ed essi hanno la funzione di fare uscire la mente da uno stato di stasi, o come definiscono gli autori “di autoipnosi”.

La troppa abitudine o quotidianità fanno sì che la persona giunga a compiere degli errori di ragionamento. Si genererebbe un cosiddetto circolo vizioso la cui via di uscita potrebbe essere rappresentata dal vivere appieno le emozioni negative, le quali ci allontanerebbero dalle certezze che condizionano il nostro agire quotidiano.

Gli autori del libro affiancano alla propria tesi una serie di testimonianze scientifiche che vanno a validare ciò da loro esposto.

E non solo: non mancano riferimenti mitologici come a Narciso, personaggio simbolo della personalità narcisista, e a Dante Alighieri e alla sua Divina Commedia, la cui punizione da scontare in uno dei gironi dell’inferno equivale un po’ all’attuale lockdown.

Le emozioni esperite di rabbia e paura nel corso di questa pandemia sono state senz’altro funzionali, perché hanno fatto in modo che potessimo reagire.

Perché cambiamento è sempre adattamento, e le emozioni negative, se ben canalizzate, hanno sempre una funzione adattiva.

Questo perché vivere ed esperire appieno anche le emozioni meno piacevoli è da coraggiosi, ma in fondo in una situazione di emergenza come quella attuale, tutti noi abbiamo mostrato un gran coraggio ad andare avanti.

Un libro da leggere in quanto genera ottimismo, focalizzandosi solo su quelli che sono gli aspetti positivi delle emozioni sgradevoli, soprattutto nell’ottica di una situazione pandemica, nella quale la persona potrebbe trascurare i benefici offerti dalla propria emotività.

 

Una vita degna di essere vissuta (2021) di Marsha Linehan – Recensione del libro

Una vita degna di essere vissuta è la storia personale e professionale di Marsha Linehan, psicologa nota per aver ideato la Dialectical Behaviour Therapy (DBT).

 

Studiamo ciò che ci fa soffrire

Qualunque terapeuta abbia accolto nel proprio studio un paziente con disturbo borderline di personalità conosce bene la fatica, la frustrazione, il vertiginoso caos dei vissuti, il senso di impotenza, la turbolenza emotiva, a volte lo stupore di fronte alla disperazione e al dolore raccontati.

Tutto questo è rievocato dalla lettura di Una vita degna di essere vissuta, storia personale e professionale di Marsha Linehan, psicologa nota per aver ideato la Dialectical Behaviour Therapy (DBT), un trattamento destinato principalmente proprio ai pazienti con disturbo borderline.

Una testimonianza molto particolare, perché svela come la stessa Linehan sia stata, prima che una visionaria accademica e terapeuta, una persona profondamente disturbata, con condotte autolesive e forti tendenze suicidarie.

Nel libro c’è il racconto dell’intima storia di follia e disperazione dell’autrice, dagli anni della giovinezza, prima del baratro, vissuta con genitori distanti, criticisti e vagamente anaffettivi, poi il suo sentirsi sola in una famiglia di otto persone, gli standard materni percepiti come irraggiungibili, il padre conformista e assente: tuttavia viene da chiedersi, leggendo, come sia possibile che tutto ciò possa giustificare la successiva caduta nell’angoscia più assoluta e determinare la perdita totale del controllo di sé, il desiderio irresistibile di mutilarsi e di morire.

Avviso ai lettori: nel testo non si trovano risposte che facciano davvero luce sulle origini di una così feroce disperazione. La stessa autrice non ne ha, addirittura dichiara di aver dimenticato (rimosso?) lunghi periodi del proprio passato, per un’amnesia quasi totale che riguarda la sua vita tra i 18 e i 25 anni, la fase più buia.

Parallelo al racconto del tormento, dei ricoveri, dei recuperi e delle ricadute, c’è il resoconto della nascita di un nuovo modo per affrontare e trattare il disturbo borderline.

Nei primi anni settanta la terapia comportamentale era agli esordi e ancora minoritaria rispetto all’approccio psicodinamico; Linehan, dopo la specializzazione alla Loyola University, aderisce nel 1972 ad un programma post-dottorato in terapia comportamentale, il che sancisce il suo prendere le distanze sia da un approccio troppo incentrato sugli aspetti biologici (psichiatria) che sulle immagini e processi mentali (psicoanalisi) a favore dell’interesse per i comportamenti effettivi delle persone, per ciò che concretamente fanno nella loro vita quotidiana.

Occorrerà aspettare però fino alla metà degli anni Ottanta perché la DBT assuma i contorni che conosciamo oggi e si distingua anche dal comportamentismo, da cui nasce; il libro, che descrive gli assunti principali del trattamento, è anche una preziosa occasione per i clinici di ripercorrere gli aspetti salienti del programma terapeutico.

Difficile riassumere ciò che ha reso unico e rivoluzionario questo approccio, di certo uno degli aspetti più emblematici è l’integrazione tra pratica orientale (Zen) e psicologia occidentale, insieme all’assunto che affinché i pazienti possano davvero cambiare non devono essere solo ascoltati e compresi, ma occorre che apprendano anche delle nuove abilità.

Come dice il Dalai Lama, la cui influenza è dichiarata da Linehan: “Non basta essere compassionevoli, bisogna agire”. Il programma include quindi l’insegnamento di abilità concrete, che si possono raggruppare in quattro categorie (Mindfulness, Tolleranza della sofferenza, Regolazione delle emozioni, Efficacia interpersonale).

“Oggi dico alle persone di non comportarsi da impotenti se non lo sono davvero, più lo si fa più ci si sente tali”; essere efficaci, agire in modo più funzionale e competente, è considerato la chiave del cambiamento, che non può tuttavia prescindere da una prima, autentica e radicale accettazione di sé.

Non solo, è fondamentale (e per niente scontato) che prima di tutto sia il terapeuta ad accettare il paziente, perché spesso si tratta di persone difficili, molto rabbiose, aggressive, disperatamente e tragicamente infelici. Aiutarle non è facile, a meno che non le si accetti (appunto) radicalmente e per come sono.

Per i pazienti, la dialettica tra accettazione e perseveranza significa che per cambiare la realtà bisogna prima di tutto accoglierla per ciò che è, e se non piace agire per modificarla.

Scrive Linehan: “Se sei un tulipano, non cercare di essere una rosa. Vai a cercare un’aiuola di tulipani”.

Tra gli aspetti più delicati e controversi (per la DBT ma per la psicoterapia in generale) rimane l’approccio ai comportamenti suicidari. Non a caso Linehan racconta di un corso di specializzazione da lei guidato per psicologi e psichiatri in cui agli studenti era chiesto per prima cosa di rispondere a tre domande: “Cos’è la morte? Le persone hanno il diritto di suicidarsi, voi avete questo diritto? Qualcuno ha il diritto di impedire ad un’altra persona di suicidarsi?”

Questo per sottolineare che un clinico deve avere le idee ben chiare su cosa pensa rispetto a questi temi, o diventa difficile e confusivo supportare persone che minacciano sistematicamente di togliersi la vita; se si ritiene che possano esserci situazioni che giustificano il suicidio, vite non degne di essere vissute (per parafrasare il titolo del libro) è bene esserne consapevoli.

Esistono lucide riflessioni sulla sensatezza del togliersi la vita, come ad esempio le parole del regista Mario Monicelli a proposito del suicidio del padre, il giornalista Tomaso Monicelli: “Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena. Il cadavere di mio padre l’ho trovato io. Verso le sei del mattino ho sentito un colpo di rivoltella, mi sono alzato e ho forzato la porta del bagno. Tra l’altro un bagno molto modesto”.

Una questione insomma, quella sulla decisione personale di togliersi la vita, niente affatto di facile soluzione se ci si chiede quanto effettivamente il suicido debba essere considerato o meno una negazione dei propri doveri verso sé stessi, gli altri o una qualche divinità.

Linehan, che ben conosce lo stato d’animo di chi intravede nel suicidio il fascino di una via d’uscita dal proprio dolore, stabilisce di ritenere che le persone abbiano a tutti gli effetti questo diritto, ma che il proprio lavoro di terapeuta sia quello di sostenere, sempre e comunque, la vita.

 

Strutture di personalità e alcol: possono i disturbi di personalità mantenere e alimentare il disturbo da uso di alcol compromettendone i trattamenti?

Le persone affette da disturbo da uso di alcol (ing. Alcohol Use Disorder, AUD), possono essere bevitori a rischio, bevitori eccessivi, o alcoldipendenti.

 

Tutte e tre queste condizioni, affinché siano tali, producono disagio, determinando danni alla salute psicofisica propria e/o di altri individui, conflitti interpersonali, problemi legali, o conseguenze sociali negative, come la mancata osservazione di obblighi di famiglia, lavoro o scuola. Tra i sintomi che caratterizzano questo disturbo, troviamo: assunzione di alcol in quantità maggiori o per periodi prolungati rispetto a quanto previsto; desiderio di ridurre o controllare le bevute; molto tempo speso in attività necessarie a procurarsi, assumere, e riprendersi dalla sostanza; forte desiderio di alcol; uso ricorrente di alcolici che causa fallimento nell’adempimento dei principali obblighi quotidiani; uso continuativo nonostante la presenza di problemi sociali o interpersonali; abbandono o riduzione di attività sociali, lavorative o ricreative; uso ricorrente di alcol in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso; uso continuato nonostante la consapevolezza di un problema fisico o psicologico; tolleranza; astinenza (American Psychiatric Association [APA], 2013).

L’AUD comporta quindi una condizione cronica invalidante, che spesso contribuisce significativamente al carico globale di altre psicopatologie che possono presentarsi in concomitanza con esso (Rehm et al., 2009). Nonostante le campagne diffuse per prevenire e gestire l’AUD, i tassi di prevalenza non sono diminuiti nella maggior parte dei paesi del mondo. Ad esempio, recenti dati relativi alla popolazione statunitense hanno portato esperti del settore a descrivere questa come una crisi di salute pubblica (Grant et al., 2017). Ciò è alimentato dalla reperibilità dei prodotti, infatti il consumo totale di alcol e i tassi di AUD sono fortemente influenzati da pubblicità, prezzo e disponibilità degli alcolici (Babor, 2010).

Un primo passo per gestire la diffusione dell’uso problematico di alcol è osservare da cosa esso è scaturito e mantenuto. Per comprendere quali cause innescano e mantengono questa tipologia di disturbo, è importante volgere lo sguardo ai fattori individuali caratteristici del bevitore, ponendo particolare attenzione alle strutture di personalità. L’alcolismo e la personalità hanno una storia comune che risale al Diagnostic and Statistical Manual-I, prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, in cui l’alcolismo era definito come un sottotipo di disturbo sociopatico della personalità, oggi definito disturbo di personalità antisociale (APA, 2013; Sellman et al., 2014). Tuttavia, studiando l’alcolismo, diventato più prominente durante il 20° secolo, gli scienziati hanno eliminato l’idea di alcoholic personality (lett. personalità alcolica). Al suo posto, è stato proposto un modello consistente in una sindrome multidimensionale mediatizzata, la cui caratteristica principale era la perdita del controllo volitivo sul bere. Recentemente, l’attenzione si è invece concentrata sulla ricerca dei profili di personalità delle persone con AUD, concettualizzando l’interazione tra problemi di personalità, tratti, e uso problematico dell’alcol.

Nella loro review, Newton-Howes e Foulds hanno esaminato le prove esistenti sulla comorbilità tra disturbi di personalità e AUD, ponendo particolare attenzione ai recenti sviluppi nella comprensione dell’impatto della personalità sul trattamento dell’AUD (Newton-Howes & Foulds, 2018). A tal fine, la revisione presa in analisi considera l’effetto delle variabili di personalità sugli esiti del bere. Il team di scienziati ha quindi scelto di realizzare una ricerca sull’argomento con lo scopo di fornire una panoramica aggiornata della recente letteratura scientifica che esaminasse l’impatto del disturbo di personalità e dei tratti di personalità sull’esito del trattamento degli AUD.

I risultati dello studio hanno evidenziato una significativa comorbilità tra disturbo di personalità e AUD, che si è avvicinata al 50%. Inoltre, secondo le evidenze, i pazienti con AUD e un disturbo di personalità in comorbilità hanno sostanzialmente più probabilità di bere durante giorno e meno probabilità di rimanere in cura per trattare il disturbo da uso di alcol (Newton-Howes & Foulds, 2018). Da questi primi dati si può evincere che, come ipotizzato in precedenza, i soggetti con uso problematico di alcol tendono a presentare disturbi di personalità, i quali alimentano e mantengono l’AUD e compromettono la buona riuscita dei trattamenti.

Ulteriori risultati della ricerca in questione hanno evidenziato come la ricaduta nel bere fosse più comune nei pazienti con punteggi alti nella dimensione di personalità del novelty seeking, che indica un’alta ricerca della novità, e basse reward dependence e persistence, ovvero dipendenza dalla ricompensa e persistenza (Cloninger, Svrakic, & Przybeck, 1993; Newton-Howes & Foulds, 2018). La ricerca della novità è considerata come una spiccata tendenza a stati allegri ed euforici, tipicamente alta in soggetti portati a sperimentare un forte eccitamento in caso di stimoli nuovi e inaspettati, e in soggetti tendenti all’esplorazione, all’evitamento della routine e della monotonia, all’impulsività nelle decisioni, e alla bassa resistenza in caso di persistenti frustrazioni. Osservando le caratteristiche di questa dimensione della personalità, è possibile notare come queste siano in linea con i tratti che caratterizzano il bevitore patologico, nonché che possano predisporlo a mantenere il disturbo e a compromettere la buona riuscita delle terapie.

In conclusione, dalla revisione di Newton-Howes e Foulds è emerso che sia il disturbo di personalità, sia una maggiore attitudine alla ricerca di novità, hanno un impatto negativo sull’esito del trattamento dell’AUD. Pertanto, poiché il disturbo di personalità è comune nelle persone con disturbo da uso di alcol, è auspicabile che i clinici che si occupano di questi soggetti svolgano uno screening per i disturbi di personalità, sia per il disturbo in sé, sia per la dimensione della ricerca di novità. Indagare le strutture di personalità dei pazienti con AUD può quindi essere un importante passo nel lavoro terapeutico incentrato sulla cura di questo tipo di problematiche.

 

Mental (2020): una serie tv sui disturbi psichiatrici fra gli adolescenti – Recensione

La serie tv Mental nasce con il proposito di abbattere lo stigma che purtroppo ancora oggi aleggia sui disturbi della salute mentale, per far sì che sempre meno persone debbano sentirsi “rotte”, rifiutate e incomprese.

 

 A dicembre 2020 è uscita su RaiPlay la serie tv Mental, prodotta da Rai Fiction in collaborazione con Stand by Me, basata sul format finlandese Sekasin. La versione italiana si avvale della consulenza della dottoressa Paola De Rose, dell’Unità di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, in modo da poter basare le vicende raccontate su storie reali. Si tratta, infatti, di una serie di otto episodi in cui sono rappresentate le esperienze di quattro ragazzi in una clinica psichiatrica.

La prima con cui facciamo conoscenza è Nico (Greta Esposito), detta il Pesce dai compagni di scuola che la tormentano perché se ne sta sempre in disparte e non parla mai. La vediamo da subito alle prese con forti attacchi d’ansia e allucinazioni che la porteranno, appunto, ad essere ricoverata con una diagnosi di schizofrenia. Nella clinica Nico stringe amicizia con la sua compagna di stanza, Emma (Federica Pagliaroli), la quale nasconde la sua anoressia nervosa e i segni sul corpo, dovuti a frequenti atti di autolesionismo, dietro una maschera di colori vivaci, a partire dai capelli rosa. Attraverso il personaggio di Emma vengono indagate le dinamiche tra adolescenti e social, tra vita reale e vita virtuale. Emma ha infatti una vera e propria dipendenza dal suo cellulare e dal mondo che in esso è contenuto: un posto dove può scegliere cosa mostrare e come mostrarsi, dove può fingere con gli altri e con se stessa di essere un’adolescente come tutte le altre, la ragazza spensierata che ama a tal punto il proprio corpo da insegnare agli altri come valorizzarlo con tutorial di make-up ed osare, addirittura, immortalarlo in atteggiamenti provocanti, con conseguenze che si riveleranno poi catastrofiche.

La componente maschile della serie è invece rappresentata da Michele (Romano Reggiani) e Daniel (Cosimo Longo), l’uno proveniente da una casa-famiglia, alle prese con un problema di tossicodipendenza, l’altro con un disturbo bipolare e l’ossessione di essere trattenuto nella clinica senza alcun motivo, nella convinzione di essere assolutamente in salute. La clinica è vista e vissuta attraverso i loro occhi: dalla difficoltà di essere tagliati fuori dalle vite dei loro coetanei, a quella di assumere farmaci che rendono faticoso restare ancorati al mondo reale; dalla lotta contro medici e infermieri che li vogliono tenere lontani dai loro consueti mezzi di autodistruzione, alla lotta con se stessi per provare a non perdersi, giorno dopo giorno.

 Di grande importanza è lo spazio dato alla rappresentazione dei familiari: spesso assenti, distaccati, incapaci di comprendere la condizione dei figli e, in alcuni casi, complici di comportamenti disfunzionali che stanno alla base del disagio adolescenziale. Pur con la consapevolezza che molti atteggiamenti sono involontari e che andrebbero a loro volta indagati, risulta abbastanza evidente quanto troppo spesso il ruolo genitoriale non sia svolto in modo adeguato o non sia preparato ad affrontare situazioni di difficoltà. Altro elemento di interesse consiste nella raffigurazione del personale della clinica: non individui immuni dal dolore e dalla sofferenza per il solo fatto di essere esperti in materia, ma persone a tutti gli effetti, con le proprie fragilità e le proprie dinamiche familiari, a testimonianza del fatto che siamo tutti esseri umani.

L’immagine forte che resta dopo la visione di questa serie tv è quella di un gruppo di ragazzi che trovano l’uno nell’altro la forza per andare avanti, il coraggio per sognare ancora una vita diversa, l’appoggio e il sostegno familiare che nessuno, prima, era stato in grado di fornire loro. Come dice Nico,

un giorno trovi qualcuno che non ha paura di prendersi la tua malattia perché è già rotto come te, sono gli unici che ti capiscono perché per gli altri tanto è tutta colpa tua, allora devi trovare il modo per non lasciarli mai, farli diventare la tua realtà.

Mental nasce con il proposito di abbattere lo stigma che purtroppo ancora oggi aleggia sui disturbi della salute mentale, per far sì che sempre meno persone debbano sentirsi “rotte”, rifiutate e incomprese. Per questo motivo la serie tv è stata accompagnata da una campagna social che ha visto protagonisti gli hashtag #davicinonessunoènormale (da una frase di Franco Basaglia, fautore della chiusura dei manicomi), #fuoridime (dall’omonima canzone di Coez, presente nella colonna sonora della serie), #èoknonessereok e #mental.

 

Conseguenze a lungo termine dell’abuso di alcol: la Sindrome di Korsakoff

I sintomi della Sindrome di Korsakoff includono la confabulazione (Kopelman et al., 2009), l’amnesia retrograda ed anterograda, nonché la presenza di disfunzioni esecutive e di alterazioni affettive e socio-cognitive (Arts et al., 2017).

 

Introduzione

Descritta per la prima volta da Lawson (Lawson, 1878) come una sindrome contraddistinta dalla perdita di memoria e quasi sempre conseguenziale all’assunzione cronica di alcol, la sindrome di Korsakoff (KS) è stata successivamente studiata e valutata approfonditamente dallo studioso dal quale prende il nome (Korsakoff, 1887) ed è attualmente definita come una condizione caratterizzata da deficit mnemonici e cognitivi, causati dall’interazione tra le caratteristiche neurotossiche dell’alcol, la predisposizione individuale allo sviluppo del disturbo e la carenza di Tiamina (Kopelman, 1995; Zubaran et al., 1997). Tale vitamina, anche nota come B1, costituisce un nutriente essenziale per diversi tessuti del corpo incluso il cervello, ma è spesso presente in quantità deficitarie nei soggetti caratterizzati da un eccessivo consumo di alcol (Martin et al., 2003): ciò è dovuto sia al fatto che la dieta dei soggetti alcolisti risulta essere mediamente più povera di nutrienti, sia alla riduzione delle capacità di assorbimento delle sostanze fondamentali per il corpo, secondaria ai danni intestinali provocati dall’alcol (Ijaz, et al., 2018). Sebbene la sindrome di Korsakoff non legata all’alcolismo sia rara, tale condizione può talvolta comparire come conseguenza di condizioni quali la “Ipermesi gravidica” (Yoon et al., 2005), HIV, trattamenti chemioterapici (Martin et al., 2003), anoressia nervosa o gravi disturbi o interventi gastrointestinali (Scalzo et al., 2015). La frequente compresenza della KS con una forma di encefalopatia descritta per la prima volta da Carl Wernicke nel 1881, caratterizzata da atassia, disfunzioni vestibolari e nistagmo (Nahum, 2014), è implicabile al fatto che il deficit di Tiamina e l’alcolismo siano fattori di rischio comuni ad entrambe le condizioni: in caso di comorbidità, si applica la diagnosi di sindrome di Wernicke-Korsakoff (WKS) (Zubaran et al., 1997). L’incidenza della sindrome di Korsakoff, nei soggetti alcolisti, è stimata aggirarsi intorno al 12-13% (Torvik et al., 1982, quoted by Cook, 2000).

Sintomatologia e diagnosi

I sintomi della sindrome di Korsakoff includono la confabulazione (Kopelman et al., 2009), l’amnesia retrograda ed anterograda, nonché la presenza di disfunzioni esecutive e di alterazioni affettive e socio-cognitive (Arts et al., 2017), oltre alla possibile comparsa, sebbene meno frequente, di manifestazioni allucinatorie e paranoidi e di comportamenti aggressivi (Gerridzen, Goossensen, 2014): tali sintomi, uniti alla frequente mancanza di consapevolezza per la propria condizione (Gerridzen, Goossensen, 2014), rendono tali pazienti difficili da trattare in un contesto domestico, ragion per cui non è raro che essi rimangano ospedalizzati in reparti d’emergenza per lunghi periodi di tempo (Kopelman et al., 2009).

L’ampio spettro di sintomi cognitivi e comportamentali costituisce il riflesso delle sottostanti alterazioni neuronali. Uno studio pubblicato nel 1999 (Visser et al., 1999), condotto con la metodologia della Risonanza Magnetica, evidenzia, mediante il confronto con un gruppo di soggetti di controllo e con un gruppo di soggetti alcolisti ma privi di diagnosi di KS, la presenza di alterazioni cerebrali nei pazienti con Sindrome di Korsakoff: tali soggetti mostrano un decremento lieve nel volume ippocampale (6%) e nel volume del Talamo (10%), mentre una riduzione maggiore è identificabile nei corpi mammillari (29%), coinvolti nelle funzioni mnemoniche ed emotive. Rispetto ai soggetti di controllo, i soggetti con diagnosi di sindrome di Korsakoff presentano anche un incremento del 72% del volume del terzo ventricolo cerebrale, differenza che si riduce al 38% nel confronto con i soggetti alcolisti privi di diagnosi (Visser et al., 1999). Tali alterazioni strutturali sono accompagnate da anomalie funzionali: uno studio condotto con Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) con fluorodesossiglucosio (18-FDG) ha evidenziato un generale ipometabolismo nella materia grigia sottocorticale nei pazienti con KS (Reed et al., 2003) ed un ipermetabolismo nella materia bianca, caratteristica condivisa con l’autismo e con la schizofrenia e probabilmente imputabile a un fenomeno compensatorio conseguente ad un’inefficiente connettività funzionale (Mitelman, 2018).

Per la valutazione del disturbo, ai fini diagnostici, è possibile avvalersi del MMSE (Mini-Mental State Examination, Folstein et al., 1975), utile ai fini della quantificazione della compromissione cognitiva e degli stati confusionali; tale strumento si è però rivelato poco efficiente nel misurare le alterazioni mnemoniche, ragion per cui la sua somministrazione dev’essere integrata con domande volte a testare la memoria del paziente, relative alle notizie recenti e ad eventi sportivi, familiari o personali (Kopleman et al., 2009).

Nonostante la diagnosi sia favorita dall’ausilio sia di test standardizzati, sia di metodiche di neuroimaging, l’ambiguità dei sintomi clinici della sindrome di Korsakoff la rende confondibile con altre condizioni, quali lo stato d’ebrezza, disturbi mentali di vario tipo o manifestazioni secondarie a traumi cerebrali (Kopelman et al., 2009), fatto che conduce spesso ad una sotto-diagnosi del disturbo, la cui presenza viene frequentemente appurata solo in seguito all’esame autoptico (Nisson & Sonne, 2013).

Trattamento e prognosi

A causa dell’elevata incidenza della sindrome di Korsakoff e di Wernicke-Korsakoff, nonché del rischio di mortalità ad esse associato, risulta fondamentale stabilire la profilassi preferenziale per tali condizioni (Cook, 2000): in primo luogo, si rende necessaria la somministrazione di elevate dosi di vitamina B, in particolare B1, preferibilmente per via parentelare, fondamentali per evitare il cronicizzarsi della sintomatologia (Kopelman et al., 2009): in seguito al trattamento intensivo con Tiamina, il 25% dei pazienti con Korsakoff presenta una remissione sintomatologica, il 50% mostra un miglioramento graduale e solo il 25% non mostra miglioramenti (Victor et al., 2017, quoted by Kopelman, 2009). All’integrazione alimentale è utile affiancare, per favorire il recupero delle abilità lese, training finalizzati alla riabilitazione cognitiva, quali la “Errorless Learning”, che ha dimostrato un’elevata efficacia nel trattamento dei pazienti con sindrome di Korsakoff (Rensen et al., 2017). Il solo intervento sul deterioramento cognitivo, mediante la somministrazione di integratori e l’attuazione di training, tuttavia, pur essendo necessario non è sufficiente: i soggetti affetti da Sindrome di Korsakoff sono esposti ad un aumentato rischio di sviluppare sintomi secondari affettivi, ansiosi e psicotici, per affrontare i quali possono risultare necessari sia i trattamenti psicofarmacologici (Gerridzen, Goossensen, 2014), sia interventi di stampo clinico, integrabili con sedute di gruppo che permettano ai soggetti di beneficiare del confronto con altri individui affetti da dipendenza da sostanze (Kopelman et al., 2009).

Conclusioni

Sebbene la somministrazione di Tiamina (Kopelman et al., 2009) ed i training cognitivi (Rensen et al., 2017) si siano rivelati efficaci ai fini della remissione dei sintomi nei pazienti affetti da sindrome di Korsakoff o Wernicke-Korsakoff (Victor et al., 2017, quoted by Kopelman, 2009), la mancanza di un intervento precoce, favorita dall’ambiguità sintomatologica della KS, rischia di favorire la progressiva cronicizzazione del disturbo (Kopelman, 2009). Una soluzione a tale problema potrebbe risiedere nell’attuazione di interventi preventivi, specialmente sui soggetti a rischio, al fine di diminuire le percentuali di istituzionalizzazione, con effetti positivi a lungo termine sia sul benessere della popolazione, sia sulle finanze relative alla salute pubblica (Centerwall, Criqui, 1978; Yellowlees, 1986). Oltre ai possibili programmi di educazione alimentare rivolti ai soggetti a rischio (Ijaz, et al., 2018), finalizzati a stimolare una maggior consapevolezza sull’importanza di un’alimentazione variegata e ricca di nutrienti, un modo per ridurre l’incidenza dei disturbi legati ai deficit di Tiamina potrebbe consistere nell’addizione di tale vitamina alle bevande alcoliche in commercio (Centerwall, Criqui, 1978), o agli alimenti di utilizzo comune, come il pane e la farina (Yellowlees, 1986).

Oltre all’importanza di favorire la prevenzione, effetti positivi potrebbero derivare anche da un’estensione ed integrazione delle modalità di intervento sui soggetti con sindrome di Korsakoff conclamata: ad oggi la letteratura scientifica, concentrandosi quasi esclusivamente sugli interventi volti a ridurre i deficit nutritivi e cognitivi e, in minor misura, sugli interventi psicofarmacologici, riporta pochi studi sulla validità degli approcci psicologici nel trattamento della Sindrome di Korsakoff. Data l’elevata comorbidità di tale sindrome con disturbi psicosomatici (68%) e con altre manifestazioni psichiatriche (66%) (Gerridzen, Goossensen, 2014), l’auspicio per il futuro è che venga posta una sempre maggior attenzione all’importanza del sostegno psicologico nei confronti dei soggetti affetti da tale condizione, sia per favorirne l’adesione al trattamento, sia per affrontare le problematiche sottostanti il comportamento di abuso da alcol.

Introduzione al test di Rorschach secondo il metodo R-PAS

Il Rorschach Performance Assessment System (R-PAS) raccoglie l’eredità del Sistema Comprensivo (C.S.) di Exner, ancorandosi agli elementi diagnostici più validi e sviluppando prassi e tecniche innovative, alla luce di una costante ricerca scientifica.

 

 Il test di Rorschach (1921) vanta una lunga tradizione clinica e scientifica e rappresenta un costante punto di riferimento per i professionisti della salute mentale di tutto il mondo.

Il Rorschach Performance Assessment System (R-PAS) raccoglie l’eredità del Sistema Comprensivo (C.S.) di Exner (Exner, Eldberg, 2005), ancorandosi agli elementi diagnostici più validi e sviluppando prassi e tecniche innovative, alla luce di una costante ricerca scientifica (Meyer, Viglione, Mihura, Erard, Erdberg, 2011)

Ideato dai membri più importanti del Rorschach Research Council (l’organo istituito da Exner al fine di garantire un continuo aggiornamento e perfezionamento del C.S.), il metodo R-PAS costituisce l’aggiornamento più sofisticato e scientificamente fondato del metodo C.S., al passo con i tempi e con le nuove concettualizzazioni psicopatologiche (Giromini e Zennaro, 2019).

Nella sua essenza, il test di Rorschach consta di dieci tavole sulle quali sono riportate alcune macchie d’inchiostro rifinite artisticamente. Tutti i sistemi Rorschach utilizzano il medesimo set di dieci stimoli a macchie d’inchiostro originariamente progettato, testato e perfezionato da Hermann Rorschach in persona un secolo fa (Mihura and Meyer, 2018). Questo set presenta cinque macchie con colori salienti e stimolanti, in particolare due macchie sono nere e rosse (II e III tavola), mentre le ultime tre tavole sono interamente colorate, e altre cinque caratterizzate da sfumature di nero e grigio; tutte sono posizionate su uno sfondo di colore bianco. La sfumatura cromatica e acromatica delle macchie non fu frutto della diretta volontà di Rorschach, bensì la conseguenza di un difetto di produzione del tipografo, che si rivelò poi molto utile e per questo mantenuto.

Le macchie costituiscono degli stimoli ambigui, complessi e suggestivi, ma anche incompleti e indefiniti. All’interno di ciascuna macchia, sono presenti elementi grafici, definiti da Exner (1996) critical bits, in grado di elicitare la visione di alcuni percetti specifici – è questa la “struttura intrinseca” delle macchie –, ma al contempo ciascuna macchia presenta stimoli visivi contraddittori e idiosincratici, che suscitano il libero costituirsi di differenti e incongruenti immagini visive – è questa la ricchezza “idiografica” delle macchie (Giromini e Zennaro, 2019).

Immagine 1 – Le dieci tavole del Rorschach

Il compito a cui il soggetto esaminato è sottoposto consiste nel guardare ciascuna tavola e rispondere alla domanda: “Che cosa potrebbe essere?”.

 La risposta conseguente fornisce informazioni preziose circa i processi percettivi, comunicativi e di attribuzione di significato adottati dal soggetto nella visione della macchia di inchiostro.

Contrariamente a quanto spesso sostenuto, il test di Rorschach non è un test proiettivo, ma un test di performance, in quanto costituisce una prova di problem-solving di natura visiva, cognitiva e percettiva (Giromini e Zennaro, 2019).

Nella sua essenza, quindi, il Rorschach è un compito comportamentale che permette all’esaminatore di vedere quello che la persona fa (e non quello che dice di fare, come nel caso dei self-report), cioè di osservare la “personalità in azione” (Meyer et al., 2011)

Le soluzioni che l’esaminato trova e offre per rispondere al compito proposto rappresentano i comportamenti messi in atto durante il compito e sono diretta espressione delle proprie caratteristiche di personalità e del proprio stile di elaborazione dello stimolo ambiguo costituito dalle tavole Rorschach (Meyer et al., 2011).

Risulta auspicabile l’utilizzo integrato del test di Rorschach con altri strumenti di assessment psicologici, come i test self-report, per delineare un quadro completo della persona. Infatti, se i punteggi Rorschach identificano caratteristiche implicite di personalità, basate su quello che le persone fanno, le informazioni ricavate dai self- report o accertate da metodi introspettivi colgono soltanto ciò che le persone consapevolmente riconoscono e intenzionalmente riportano durante la somministrazione (Meye et al., 2011). Quindi, il contributo offerto dal test di Rorschach alla conoscenza dell’esaminato è complementare a quanto proviene dai risultati dei test self-report.

A partire dall’osservazione in vivo del comportamento, il Rorschach consente di accedere al mondo implicito e procedurale dell’esaminato, rilevando informazioni uniche:

  • le sue capacità di percezione e di problem solving;
  • le sue strategie di coping e di elaborazione delle informazioni;
  • il suo stile di pensiero;
  • la rappresentazione di sé e le configurazioni relazionali sé- altro.

Il Rorschach risulta capace di cogliere anche eventuali distorsioni nell’esame di realtà o, a livello più intimo, timori e preoccupazioni rilevanti per l’individuo, riuscendo così a tratteggiare una descrizione ricca, multidimensionale e idiografica del soggetto esaminato (Meyer et. al., 2011).

 

Il Memory Training: metodi che sfruttano la memoria implicita

Il Memory Training è una metodologia riabilitativa utilizzabile con pazienti con deficit lievi o con smemoratezza benigna.

 

Tale tecnica è composta da alcune prove per la memoria ed ha alla base la teoria della neuroplasticità secondo cui il cervello può subire delle modifiche in seguito a stimolazioni esterne o interne (Kimberley et al., 2010; Belleville et al., 2011).

L’allenamento può proporre delle strategie che sfruttano la memoria implicita come:

  • il sistema dello Spaced Retrieval, che esercita il richiamo di un’informazione nel tempo lungo degli intervalli crescenti (Wilson, 2009). Può essere utilizzato con varie mnemotecniche e, interventi riabilitativi che adottano questa tecnica, si sono dimostrati efficaci nell’identificazione di oggetti, nell’associazione nome-faccia, nella collocazione spaziale di oggetti, nonché nella programmazione di attività quotidiane (Backman, 1996).
  • la tecnica di Errorless Learning, che previene gli errori durante la fase di acquisizione delle informazioni (Clare & Jones, 2008). Le persone con disturbi mnesici hanno la tendenza ad affidarsi alla memoria implicita, che non consente di discriminare in modo consapevole gli errori dalle risposte corrette, consentendo agli errori commessi in fase di apprendimento di poter emergere poiché indistinguibili dagli stimoli corretti. Eliminando gli errori in fase di apprendimento, i pazienti hanno una minore possibilità di fallire (Roberts et al., 2018).
  • Il metodo del Vanishing Cues, che propone la riduzione progressiva di suggerimenti finalizzati al retrieval dell’informazione (Glisky, Schacter & Tulving, 1986).

Bier e colleghi (2008) hanno confrontato diverse tecniche, tra cui quelle citate, per l’apprendimento dell’associazione volto-nome in pazienti con Demenza di Alzheimer.

I soggetti con AD sono stati visti due volte a settimana per cinque settimane consecutive, per un totale di 10 sessioni di 45 minuti. I partecipanti hanno osservato le foto di cinque persone associate ai loro nomi e gli è stato chiesto di imparare tali associazioni, per poi recuperarle alla fine della sessione. A prescindere dalla metodologia utilizzata, ad ogni partecipante era richiesto di produrre una risposta, poi corretta in caso di errore.

Per tutte e tre le modalità sono state presentate le seguenti istruzioni: “Ecco la foto di un uomo, il cui nome è il signor X. Puoi ripetere questo nome e cercare di ricordarlo?”.

Nel caso della prova con metodo Errorless Learning è stata ripresentata immediatamente la foto a cui associare il nome ed è stato chiesto di ricordare il nome abbinato. Gli autori si aspettavano pochissimi errori con questa procedura dato che le informazioni sono state presentate e recuperate immediatamente dai partecipanti.

Con il Vanishing Cues è stata ripresentata la foto dello stesso volto con alcune lettere del nome come ausilio e, alle successive richieste di rievocazione, gradualmente, sono stati ridotti i cue. In caso di errore era aggiunta man mano una lettera, fino alla rievocazione del nome.

L’uso dello Spaced Retrieval ha previsto la ripresentazione della foto dopo 0 secondi, poi dopo 10 secondi, 20 secondi, 30 secondi, 1 minuto, 2 minuti, 3 minuti e infine dopo 5 minuti.

Le conclusioni dello studio non possono raccomandare, dal punto di vista clinico, un metodo rispetto agli altri. I risultati hanno mostrato come i pazienti con malattia di Alzheimer abbiano ottenuto vantaggi nell’apprendimento delle associazioni faccia-nome con tutti i metodi presi in considerazione e sono concordi nell’affermare che possono esserci anche altri aspetti che concorrono a favorire l’apprendimento, per esempio legati al ruolo attivo dei partecipanti durante le fasi dell’apprendimento.

Questo è un aspetto importante per la futura ricerca clinica e dovrebbe essere esplorato in ulteriori studi.

 

La pragmatica della comunicazione digitale. Agire con efficacia online (2020) di Giorgio Nardone, Stefano Bartoli e Simona Milanese – Recensione del libro

Nel 1967 Paul Watzlawick insieme ai suoi collaboratori scriveva La pragmatica della comunicazione, oggi il suo degno erede Giorgio Nardone insieme a due suoi validissimi collaboratori, Stefano Bartoli e Simona Milanese, scrivono La pragmatica della comunicazione digitale.

 

Il libro nasce in piena era digitale e nel bel mezzo della pandemia da Covid 19 dove mesi e mesi di lockdown  hanno reso il digitale l’unico mezzo per comunicare, studiare, continuare a formarci, lavorare, incontrare pazienti.

L’intento dunque degli autori è quello di recuperare gli aspetti pragmatici della comunicazione rivisitandoli all’era digitale, al fine di agire con efficacia online.

Ma cosa cambia nella comunicazione digitale?

Inevitabilmente una riduzione dell’aspetto non verbale, ma ciò nonostante anche la comunicazione digitale può essere resa efficace ed efficiente se viene curata nei suoi vari aspetti. Partendo dai cinque assiomi della pragmatica della comunicazione, gli autori ce ne forniranno una precisa e preziosa descrizione. Ma rivediamo sinteticamente i cinque assiomi della comunicazione:

  • Non si può non comunicare. Qualsiasi comportamento, compresa la mancanza di comunicazione è di per sé un atto comunicativo;
  • Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi meta-comunicazione, e nella comunicazione digitale tale aspetto risulta ancora più decisivo in quanto ascoltare una persona parlare attraverso lo schermo del pc è più faticoso rispetto a farlo dal vivo, in tal senso sapere come comunicare diviene indispensabile tanto per riuscire a tenere l’attenzione del nostro interlocutore quanto per gestire noi stessi durante l’atto comunicativo;
  • La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti; come recitano gli autori del testo in altre parole il flusso comunicativo è influenzato dal punto di vista delle parole che comunicano le quali tendono a interpretare il proprio comportamento non come causa, ma come conseguenza del comportamento dell’altro;
  • Gli esseri umani comunicano sia in maniera digitale che analogica;
  • Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza, in tal senso parliamo della relazione tra gli interlocutori.

Nel capitolo 2 si continua ad approfondire singolarmente ogni aspetto essenziale per una comunicazione digitale efficace come l’importanza di creare un adeguato setting digitale, di curare il nostro aspetto per dare una buona prima impressione, ed ancora suggerimenti su come usare al meglio gesti, sguardo, postura, mimica facciale, voce, pausa, sorrisi, la scelta e l’utilizzo di parole per riuscire ad evocare sensazioni, perché come ricordano gli autori, già Pascal recitava che prima di convincere l’intelletto occorre toccare e predisporre il cuore, e dunque quando, come e con chi utilizzare analogie, metafore, aneddoti, come porre domande, riassumere il contenuto di quanto emerso durante il colloquio, riuscire a creare e mantenere relazione…

Le parole sono lo strumento più potente che un medico possiede, ma le parole, come una spada a doppio taglio, possono mutilare così come guarire. Bernard Lown

Bellissimo e profondamente vero l’aforisma sopracitato ripreso dal testo, che accompagna il lettore al capitolo in cui gli autori sottolineano l’importanza della relazione e della parola all’interno delle professioni che curano, siano esse più specificatamente mediche o psicoterapeutiche.

Ma un aspetto sottolineato dagli autori del libro è come, sempre di più, si stia dimenticando che anche nella medicina la parola e la relazione (che determina l’aderenza del paziente alle prescrizioni del farmaco e a uno stile di vita più sano) diventano essenziali anche nella cura del corpo. Ricordiamo infatti che lo stesso padre della medicina, Ippocrate, considerava il tocco, il rimedio e la parola i tre pilastri dell’agire medico.

Psicoterapia online, formazione a distanza, l’online sta offrendo sempre più opportunità ma non bisogna puntare solo alla quantità ma alla qualità e, su questa scia, il testo offre validi spunti di riflessione su come usare in modo efficace la parola, sia dal vivo oppure, come in questo periodo, sempre più online, soprattutto per noi addetti ai lavori. Mi piacerebbe concludere con un pensiero di Freud sulla parola; pensiero questo, riportato dagli autori all’interno del testo:

Originariamente le parole erano magiche e, ancora oggi, la parola ha conservato molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l’altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole l’oratore trascina con sé l’uditore e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano effetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra di loro. Non sottovaluteremo quindi l’uso delle parole nella psicoterapia (Freud, 1933).

 

 

L’utilizzo dell’Emotional Schema Therapy nel trattamento dell’emicrania

Le persone con emicrania sperimentano differenti problemi nella gestione delle loro emozioni e, pertanto, la gestione e la regolazione dei principali fattori scatenanti l’emicrania, come lo stress e le esperienze emotive, potrebbero essere loro molto utili.

 

L’emicrania è un disturbo neurovascolare cronico ed è il più riconosciuto tra disturbi della cefalea. La sua prevalenza tra gli adulti varia in tutto il mondo, dal 9,3% a oltre il 30% e, a causa delle influenze ormonali, le donne hanno più probabilità di esserne vittime (Steiner, 2019).

Sono molteplici gli aspetti cognitivi ed emotivi, che possono influenzare lo sviluppo, il decorso e la gravità dell’emicrania (Bonavita et al., 2018). Di fatti, le emozioni sono funzionali per diversi motivi ma, talvolta, possono essere anche disfunzionali, soprattutto quando tendono a manifestarsi con una intensità o una durata inadeguate, rispetto ad una data situazione (Ekman, 2016).

La regolazione emotiva può essere definita come il processo attraverso il quale gli individui cercano di gestire o modificare il loro comportamento, sulla base delle emozioni prevalenti (Sheppes et al., 2015).

Alcuni studi hanno dimostrato che le persone che soffrono di emicrania tendono ad essere più sensibili alle espressioni facciali rispetto a coloro i quali non manifestano questo disturbo (Szabó et al., 2019). Studi recenti hanno esaminato gli effetti degli interventi mirati alla regolazione emotiva su differenti disturbi (Sheppes et al., 2015) ma, attualmente, c’è stata una scarsa attenzione rispetto ai loro effetti sui disturbi della cefalea e, soprattutto, sull’emicrania (Wolf et al., 2019).

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è considerata il trattamento terapeutico più comunemente utilizzato per bambini e adulti con emicrania (Kroon Van Diest & Powers, 2019). Gli obiettivi primari della suddetta terapia per il trattamento del sopracitato disturbo implicano di insegnare ai pazienti come utilizzare le strategie di coping per la gestione del dolore derivante dal mal di testa quando esso si manifesta, per la prevenzione e per alleviare la disabilità correlata e/o i sintomi che si presentano in comorbilità, come manifestazioni ansiose e depressive (Harris et al., 2015).

L’Emotional Schema Model è un modello socio-cognitivo che si focalizza su come gli individui percepiscono, interpretano, valutano e rispondono alle loro e alle altrui emozioni. Esso sostiene che gli individui presentano differenti schemi emotivi, ovvero diverse credenze di base sulle emozioni e sulle esperienze emotive (Leahy, 2002). I suddetti schemi possono dar origine a strategie disfunzionali per affrontare le emozioni stesse, come la soppressione, la ruminazione, l’evitamento, la colpevolizzazione e l’abuso di sostanze.

L’Emotional Schema Therapy (EST) è un approccio psicoterapeutico di stampo cognitivo comportamentale che si basa sul modello dello schema emotivo (Leahy, 2019). Essa si concentra su una serie di tecniche di regolazione emotiva tra cui l’identificazione, la differenziazione e l’accettazione delle emozioni, il riconoscimento della transitorietà di quest’ultime e la concentrazione sulle azioni dirette all’obiettivo, necessaria quando si tollera un’emozione. Inoltre, la terapia si concentra sulla valutazione dei pensieri automatici negativi legati alle emozioni e incoraggia l’utilizzo della mindfulness.

L’ Emotional Schema Therapy si è rivelata efficace per il trattamento di differenti disturbi, tra cui il disturbo depressivo maggiore (Rezaei et al., 2016), il disturbo d’ansia sociale (Morvaridi, Mashhadi & Shamloo, 2019), il disturbo d’ansia generalizzato (Emam Zamani et al., 2019) e il disturbo da stress post-traumatico (Naderi Rajeh & Zarghami, 2017).

Eppure, solo uno studio ha valutato gli effetti di questo trattamento sulle persone che soffrono di emicrania.

Come si è detto, le persone con emicrania sperimentano differenti problemi nella gestione delle loro emozioni (Wolf et al., 2019) e, pertanto, la gestione e la regolazione dei principali fattori scatenanti l’emicrania, come lo stress e le esperienze emotive, potrebbero essere molto utili e gli approcci cognitivo comportamentali della terza ondata, incentrati sull’identificazione e la moderazione delle emozioni, potrebbero aiutare questi pazienti.

Shahsavani e colleghi (2020) si sono proposti di esaminare l’effetto della EST sull’emicrania. Nello specifico, gli autori hanno ipotizzato che tale trattamento sarebbe stato efficace nell’alleviare la gravità dell’emicrania e che avrebbe influenzato le strategie di regolazione emotiva.

Allo studio hanno preso parte 16 donne con un’età compresa tra i 20 e i 40 anni.

Il gruppo sperimentale ha ricevuto 12 sessioni da 120 minuti di terapia. I ricercatori si sono concentrati sull’identificazione, la convalida e la gestione delle strategie di regolazione, tentando al contempo di modificare le credenze negative connesse all’attivazione emotiva. Inoltre, essi hanno incoraggiato l’utilizzo di strategie utili come la rivalutazione cognitiva, l’accettazione e la consapevolezza.

I risultati di questo studio hanno mostrato come la gravità dell’emicrania, a seguito del trattamento, si sia considerevolmente ridotta. Ciò è in linea con i risultati di studi precedenti che hanno dimostrato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale per l’emicrania e la cefalea (Kroon Van Diest & Powers, 2019; Lee et al., 2019). Inoltre, si è anche assistito ad un miglioramento per quanto concerne le strategie adattive di regolazione.

Quest’ultima riveste dunque una considerevole importanza nella manifestazione e conseguente gestione dell’emicrania (Wolf et al., 2019).

L’Emotional Schema Therapy, concentrandosi sull’esperienza e sulla valutazione delle emozioni – piuttosto che sul contenuto del pensiero – in modo non giudicante e consapevole, riduce il disagio emotivo e ottimizza le strategie di coping (Leahy, 2015, 2019).

Gli individui che soffrono di emicrania tendono ad essere cauti nella manifestazione delle proprie emozioni e spesso tendono a sopprimerle, piuttosto che a darne voce. L’evitamento emotivo a lungo termine fa credere a queste persone che se sperimentano emozioni come tristezza o rabbia, potrebbero esserne sopraffatti.

Gli schemi emotivi delle persone con emicrania rendono dunque difficile percepire, interpretare, valutare e rispondere alle proprie e altrui emozioni.

L’attivazione di questi schemi può comportare un peggior processo decisionale e aumentare la probabilità di errori. Di conseguenza, i sentimenti di biasimo e colpa possono aumentare in questi individui.

Concentrando il trattamento sulla modifica di queste convinzioni, i pazienti potrebbero imparare a sperimentare correttamente le loro emozioni, piuttosto che ignorarle. Come risultato di questi cambiamenti, non solo i soggetti otterrebbero il controllo sulle loro emozioni, ma potrebbero assistere anche ad una riduzione dell’emicrania.

 

Languishing e Covid-19

Sono trascorsi ormai molti mesi dall’inizio della pandemia di COVID-19, che ha avuto un impatto drammatico sulla società contemporanea e ha cambiato in modo significativo le abitudini di tutti noi. Nonostante si sia assistito ad un incremento della competenza relativa alla gestione della convivenza forzata con il COVID-19 e benché i paesi di tutto il mondo stiano gradualmente provando a riconquistare, mediante le riaperture, la tanto agognata normalità perduta, sembra permanere nella popolazione una sensazione inspiegabile, caratterizzata da un’assenza di benessere, che prende il nome di “languishing” (languore).

Cosa vuol dire Languishing

Languishing è un termine inglese adottato dal sociologo e psicologo Corey Keyes e che in lingua italiana può essere liberamente tradotto come “languire”.

Si configura come uno stato di vuoto e stagnazione, che può caratterizzare alcuni individui. Si colloca a metà tra il benessere e la patologia; non indica, infatti, un disturbo psicologico, ma è tipico di chi mostra bassi livelli di benessere (Keyes, 2002).

Keyes ha avuto la possibilità di constatare in uno studio empirico da lui condotto e che ha coinvolto 3032 adulti, sia uomini sia donne, di età compresa tra i 25 e i 74 anni, come ben il 12,1 % del campione della ricerca presentasse il languishing: si tratta di individui che non manifestavano nessun disagio psichico specifico, ma che, nonostante l’assenza di disturbi, non stavano comunque “fiorendo” e prosperando.

Languishing nell’epoca del COVID-19

Come siamo giunti al languishing?

Prima di “languire”, abbiamo vissuto collettivamente l’angoscia per l’inizio della pandemia, la quale ci ha posti a confronto con varie forme di perdita: perdita di una persona cara, del lavoro, degli amici, dei momenti di svago… Le nostre “vecchie” vite sono state temporaneamente messe a riposo e, mese dopo mese, ci siamo arenati fino a raggiungere una condizione di stallo caratterizzato da indifferenza e rassegnazione, che rappresentano terreno fertile per l’insorgenza del languishing (Pope, 2021).

Lo psicologo statunitense Adam Grant ha identificato il languishing come l’emozione che dominerà in modo prevalente il 2021 (Grant, 2021).

Le sensazioni che stiamo già provando oggi e che probabilmente ci accompagneranno nei mesi seguenti non sono tristezza e assenza di energie, bensì mancanza di gioia e di scopi. Ciò a cui stiamo andando incontro, infatti, non sono né il burnout né la depressione, ma, piuttosto, il languishing. È come, scrive Grant, confondersi tra i giorni, come osservare le nostre vite attraverso un vetro appannato. Non siamo depressi, ma, al tempo stesso, non stiamo funzionando al massimo delle nostre potenzialità. Ciò avviene perché stiamo sperimentando ormai da molti mesi l’assenza di una serie di aspetti positivi: programmazione di obiettivi, raggiungimento di soddisfazioni, socializzazione e interesse per la vita (Keyes, 2002).

Il languishing determina difficoltà di concentrazione e spegne la motivazione e, di conseguenza, influenza negativamente il rendimento scolastico e/o lavorativo e le relazioni sociali.

Nessuno è immune dal “languire”, tuttavia i soggetti che risultano più competenti nella gestione dello stress sono meno inclini ad esso, in quanto si mostrano più resilienti e si lasciano sopraffare meno dagli eventi. Coloro che sono geneticamente predisposti a condizioni psichiatriche o hanno una storia di ansia o depressione hanno, invece, maggiori probabilità di soffrire di languishing rispetto ad altri, così come i soggetti estroversi, che si sentiranno più frustrati a causa della riduzione, determinata dalle restrizioni subentrate all’inizio della pandemia, delle occasioni di socializzazione (Gillespie, 2021).

Languishing: possibili interventi

Il languishing rappresenta un vuoto penetrante nell’anima, difficile da riempire, il che significa che questo stato di stagnazione è in realtà una forma di sofferenza, anche se non lo riconosciamo molto. Ciò che rende subdolo il languishing è che, per chi lo sta vivendo, è difficile identificarlo: spesso non si riesce a individuare questa forma di sofferenza latente e, quindi, si rimane indifferenti, non chiedendo aiuto.

Cosa si può fare quindi?

  • Alcuni consigli (Grant, 2021) per affrontare il senso di vuoto del languishing sono:
  • dare un nome alle sensazioni percepite: aiuta a prendere coscienza del problema e a rendere più chiara una condizione inizialmente ambigua e confusa;
  • ricordarsi che non si è soli: il languishing è uno stato d’animo comune e sono molte le persone in tutto il mondo che stanno provando in questo momento le emozioni ad esso riferite;
  • focalizzarsi su piccoli obiettivi giornalieri: sono un modo per “rinnovare” l’entusiasmo partendo da piccoli passi.

Ma il principale antidoto contro il languishing è il flow, il flusso, ossia quello stato di piacevole abbandono che fa perdere temporaneamente la cognizione del tempo e dello spazio e che si prova quando si viene “assorbiti” da qualcosa. Lasciarsi andare e immergersi nella realizzazione di progetti personali che ci gratificano “accende” la motivazione e contrasta il senso di vuoto, con conseguente innalzamento dei livelli di benessere percepito. Portare a termine un lavoro o dedicarsi ad un hobby sono dei semplici esempi di attività che, coinvolgendo il soggetto, riescono ad allontanarlo dalla negatività (Betti, 2021).

Prospettive per il futuro

Non siamo attualmente in grado di prevedere se il languishing si evolverà con certezza in disturbi depressivi negli anni futuri, anche se una ricerca condotta da Keyes ha mostrato che le persone che hanno maggiori probabilità di sperimentare grandi ansie e depressioni nei prossimi 10 anni sono in realtà quelle che languiscono in questo momento (Keyes, 2010). Quel che è certo è che si tratta di un fenomeno dilagante che non deve essere sottovalutato. Ecco perché è importante non trascurare gli effetti sulla psiche di quella che, ormai è evidente, non è più solo una emergenza sanitaria ma anche psicologica.

Conclude, infatti, Grant: “non depresso non significa non essere in difficoltà. Non essere in burnout non significa essere entusiasti ed eccitati. Riconoscere che molti di noi vivono uno stato di languore è il primo passo per dare voce a questo quieto malessere e illuminare un percorso per uscire dal disagio.

Occorre, pertanto, che i professionisti della salute mentale come psicologi, psichiatri e psicoterapeuti siano pronti ad intervenire sul territorio a supporto di quelle persone che ne hanno più bisogno. La speranza è che “quando torneremo a una certa normalità, le persone potranno rinnovare il loro apprezzamento per la vita, in quanto ha doni sorprendenti che ci permettono di prosperare se siamo disposti a prenderli” (Pope, 2021).

L’incontro con l’altro: capacità di accogliere e sviluppare una relazione di lavoro efficace nel colloquio psicologico

Il colloquio si configura come un incontro in cui il processo di conoscenza dell’altro avviene attraverso la creazione di una relazione. Lo sviluppo di una relazione che sia efficace risulta, per la ricerca, strettamente legato al buon esito di un trattamento. 

 

Il termine colloquio, che deriva dal latino cum loqui, parlare insieme, evidenzia già la natura relazionale di questa pratica. Del colloquio psicologico si può sottolineare l’aspetto di facilitazione della comunicazione, data anche dall’uso di tecniche non direttive da parte del conduttore che possono permettere al soggetto di sentirsi accolto, valorizzato, non sottoposto a giudizio e trattato come persona da un’altra di cui percepisce la disponibilità (Lis, Venuti & De Zorzo, 1995, p. 8).

Il colloquio si configura come un incontro in cui il processo di conoscenza dell’altro avviene attraverso la creazione di una relazione. Lo sviluppo di una relazione che sia efficace risulta, per la ricerca, strettamente legato al buon esito di un trattamento.

Gelso e Carter (1994) definiscono la relazione terapeutica come “l’insieme dei sentimenti e degli atteggiamenti che il terapeuta e il paziente hanno l’uno verso l’altro, e il modo in cui questi vengono espressi” mettendo in luce anche la dinamicità del costrutto. Questa relazione deve avere l’obiettivo di facilitare l’espressione di sé nell’altro, non a caso, solitamente, le persone preferiscono sondare la qualità della relazione terapeutica prima di aprirsi (McWilliams, 2009, p. 6). Tutto ciò deve essere favorito anche dal contesto specifico in cui la relazione avviene; si rivelano importanti i fattori ambientali esterni ai due interagenti e ne consegue che una condizione confusa, ostile, che non garantisce la necessaria riservatezza, potrebbe compromettere il risultato del colloquio, ma non solo, ogni messaggio scambiato tra clinico e paziente entrerà a far parte di un particolare “contesto interpersonale” che influenzerà l’interazione successiva (Baldoni, Baldaro & Ravasini, 1994, p.7).

Imprescindibilmente legato al contesto è il setting, che rappresenta la cornice all’interno di cui avviene l’incontro. Questo è costituito dal set, dalle regole del “contratto professionale” e dalle regole della relazione; dunque, da condizioni materiali (luogo, tempo, modalità di pagamento ecc.), ma anche dall’atteggiamento del professionista che, con la propria presenza, contribuisce a determinare l’intera gestalt dell’ambiente. Ascoltare e dialogare in maniera attiva, valorizzando l’esperienza dell’altro è fondamentale da parte del professionista che, se distratto o superiore, reticente o ambiguo, seduttivo e manipolatorio, potrebbe non agevolare la relazione (Baldoni et al., 1994, p.7-10). Nell’ambito dell’incontro, quindi, è fondamentale che il paziente senta valorizzata la sua narrazione e che vi sia un clima relazionale che autorizzi a esprimere sinceramente aspetti di sé.

Per McWilliams (2009) all’inizio di un percorso è importante che il clinico domandi al potenziale paziente come si sente a parlare con lui in modo da trasmettere l’interesse rispetto a come questo esperisca la relazione. Si palesa la natura collaborativa della terapia e viene dato spazio a movimenti transferali sottostanti non evidenti (p. 29).

Riguardo all’atteggiamento del clinico, le dimensioni dell’ascolto e della sospensione del giudizio risultano fondamentali al fine di basare questa relazione sulla fiducia. È importante che l’ascolto sia attivo e finalizzato alla comprensione dell’altro. Tale modalità si basa sulla capacità empatica e su un’apertura affettiva che permette non solo la sintonizzazione sugli stati emotivi, cognitivi e somatici del soggetto, ma anche la comprensione degli elementi affettivi che circolano all’interno della diade e che riguardano sé e l’altro; spesso la valutazione del proprio affetto permette al professionista di fare inferenze critiche anche sull’altro. Di contro, modalità di ascolto selettivo e passivo si rivelano controproducenti.

Risulta fondamentale saper sostare nella sofferenza dell’altro e accettare la sua diversità in modo che il richiedente possa sperimentare la sensazione di essere accolto nella sua individualità e sentirsi lontano da qualsiasi dimensione di tipo valutativo. L’asimmetria relazionale tra richiedente il colloquio e il professionista non deve richiamare infatti uno squilibrio in termini di potere o di valore, ma solo una diversità strutturale in termini di ruolo: l’uno richiede una prestazione esprimendo in varie modalità una domanda d’aiuto, l’altro ha una funzione di ascolto e favorisce l’emergere di significati. La mal interpretazione di questa asimmetria potrebbe comportare atteggiamenti disfunzionali alla relazione, guidati talvolta da difese narcisistiche del professionista o tendenze idealizzanti da parte del paziente, che, se comprese e contenute, potrebbero comunque essere utili in una prima fase dell’incontro per formare quella che viene definita alleanza terapeutica.

La sospensione del giudizio è un’altra condizione imprescindibile affinché l’altro possa aprirsi, percepire l’accoglienza ed esprimere aspetti di sé, ma configura un’opportunità anche per il professionista poiché permette di ampliare l’esperienza e instaura una dinamica e comprensione reciproca che valorizza al tempo stesso i propri bisogni e quelli dell’altro. Tale sospensione necessita di una certa professionalità da parte del clinico tesa allo sforzo di diventare un contenitore sufficientemente vuoto da poter ascoltare il paziente con mente sgombra e libera, senza fretta di intervenire ed essere in grado di evitare di proiettare in lui cose che “già pensa di sapere”, non aspettandosi che l’altro cambi nella direzione che si desidera. Viene compiuta un’epochè in modo che si configuri un ascolto che Bion definirebbe “senza memoria né desiderio”; questo è un atto etico per eccellenza, poiché consente all’altro di dispiegare la propria soggettività.

Le dimensioni della sospensione del giudizio e dell’ascolto sono inoltre strettamente legate all’analisi della domanda, che si rivela importante nell’ottica di costruzione di un’efficace relazione di lavoro poiché fornisce da subito informazioni essenziali legate alle aspettative, alla motivazione, alla dinamica dell’invio, alla consapevolezza, così come alla capacità relazionale (esplicativa delle dinamiche di alleanza) e alle fantasie. Già dal primo contatto con il paziente, che solitamente avviene in maniera telefonica o telematica, iniziano ad affacciarsi fantasie che riguardano anche il professionista, si può dire che emergano operazioni di pre-controtransfert e pre-transfert.

Il tono globale del transfert del paziente permeerà dal primo colloquio e darà modo di valutare le identificazioni primarie (McWilliams, 2009, p.134). I dati sulle interiorizzazioni hanno implicazioni significative e da subito segnalano all’intervistatore come può entrare in contatto con il paziente.

L’instaurarsi di clima relazionale idoneo allo scambio comunicativo e all’espressione di sé è favorito dalla messa in campo da parte del professionista di una sensibilità e delicatezza volte a instaurare un contatto emotivo. Avverrà così il tentativo di cogliere indicatori verbali e non verbali che possano esprimere gli stati emotivi del paziente in modo da valorizzarli esprimendo accoglienza, ma sarà altresì essenziale che il conduttore si concentri ed elabori anche gli stati emotivi propri. All’affacciarsi di eventuali manifestazioni di disagio o ansia è importante che il conduttore non colluda, ma si dimostri comunque aperto, disponibile ed empatico.

Nella conduzione del colloquio il professionista si sforzerà di fare domande adeguate che possano rafforzare la relazione e che, a seconda della modalità con cui vengono poste, possano offrire un clima di lavoro aperto e sereno, quindi dare la possibilità al cliente di rilassarsi, esprimersi ed eventualmente verbalizzare l’origine della propria ansia immediata, stabilendo un contatto emotivo. Il vissuto di comunicazione reciproca che ne deriva permetterà al paziente di “accettare il dialogo e di sentirsi sempre più a suo agio nel parlare” (Baldoni et al., 1994, p.25).

Le persone hanno bisogno di sentirsi capite, rispecchiate, accettate e convalidate nelle loro esperienze soggettive. McWilliams (2009) traccia alcune linee del modo in cui sarebbe opportuno procedere durante una prima fase di incontro, sottolineando gli sforzi per stabilire un rapporto sicuro, minimizzare l’angoscia, comunicare comprensione, suscitare e valutare le reazioni del paziente nei confronti del professionista, dare speranza e affrontare e chiarire tutti gli aspetti pratici del contratto terapeutico.

Data la rilevanza dello sviluppo di una relazione di lavoro efficace ai fini del trattamento, negli ultimi anni sono state indagate, con i metodi della ricerca empirica e per mezzo di strumenti di valutazione costruiti ad hoc, le dimensioni fondamentali della relazione terapeutica e il loro rapporto con il processo e l’esito delle psicoterapie. Tra queste ricordiamo innanzitutto la già citata alleanza terapeutica, il transfert e il controtransfert, ma a connotare la relazione partecipano anche le caratteristiche del paziente, quelle del terapeuta, i sistemi di attaccamento e i sistemi motivazionali interpersonali (Colli & Lingiardi, 2014, p. 626). La necessità di brevità della trattazione non mi permette di descriverle in maniera esaustiva, ma solo di tracciare alcune linee.

Bordin (1979) dà una definizione panteorica di alleanza terapeutica secondo cui risulta come un fattore comune a tutti i modelli psicoterapeutici a prescindere dal modello operativo e l’orientamento teorico e che consiste nel “reciproco accordo riguardo agli Obiettivi (Goals) del cambiamento e ai Compiti (Task) necessari per raggiungere tali obiettivi, insieme allo stabilirsi di un Legame (Bond) che mantiene la collaborazione tra i partecipanti al lavoro terapeutico” (Bordin, 1979, p.16).

È importante cogliere la natura dinamica dell’alleanza, un qualcosa di co-costruito e suscettibile di cambiamento, negoziato anche attraverso momenti di tensione, rotture e riparazioni che risultano fisiologiche e diventano a loro volta “finestre relazionali”. La mutevolezza delle qualità dell’alleanza è considerata oggi il fulcro del lavoro terapeutico, le mancate sintonizzazioni o le rotture assumono una connotazione relazionale e diventano uno strumento prezioso per promuovere il cambiamento (Colli & Lingiardi, 2014, p. 629). La rottura può così essere un punto di partenza potenzialmente trasformativo, da riconoscere e gestire adeguatamente; il terapeuta deve essere in grado di cogliere feedback diretti e indiretti dei pazienti per poi agire favorendo la relazione.

Ackerman e Hilsenroth (2001;2003) hanno proposto nelle loro ricerche una serie di fattori in grado di favorire o inibire l’alleanza. Tra i tanti fattori predisponenti si trovano anche la capacità di assumere un ruolo collaborativo, la tendenza a favorire l’espressione di emozioni in un’atmosfera di sostegno e la capacità di esplorare temi interpersonali, mentre giocano un ruolo negativo lo scarso coinvolgimento emotivo, la tendenza a criticare e l’autoreferenzialità del conduttore.

Altri studi hanno individuato ulteriori variabili: Norcross (2011) evidenzia lo stile di attaccamento del terapeuta come fattore capace di influenzare l’alleanza terapeutica e, di riflesso, l’outcome del lavoro clinico. Ma la relazione stessa che si presenta nel colloquio clinico potrebbe configurarsi come un legame di attaccamento; questa condizione potrebbe essere utile in quanto permetterebbe potenziali esperienze relazionali correttive volte a risolvere relazioni esterne disfunzionali. Va da sé che i pattern relazionali dei soggetti, le loro relazioni oggettuali interiorizzate, influenzano la relazione clinica e si configurano tramite l’esperienza transferale del paziente e contro-transferale del clinico.

In conclusione, possiamo dire che il colloquio si fonda sulla relazione e che questa funga da “termometro” del colloquio stesso; la sua efficacia risulta fondamentale nell’ottica della cura e dell’esplorazione. A questo fine il professionista dovrà essere in grado di orientare il setting, gli obiettivi e le tecniche di colloquio, in modo da favorire un clima relazionale che permetta uno scambio comunicativo fluido, in cui il paziente viene messo nelle condizioni di percepire un’accoglienza priva di valutazione, e da poter organizzare liberamente il modo di relazionarsi ed esprimere il proprio Sé. Lo scopo deve rimanere sempre quello di “costruire, innanzitutto, un ‘canale’ di comunicazione entro il quale dovrà poi essere fatta fluire la maggior quantità (e la miglior qualità) di contenuti informativi che, infine, potranno essere trattati in qualche modo, per essere riproposti, così mutati, al paziente o semplicemente memorizzati dall’operatore” (Del Corno, 2014, p.221).

 

Il piccolo paranoico (2020) di Bernardo Paoli – Recensione del libro

Nel libro Il piccolo paranoico, Filippo sarà invitato a lavorare sulle sue pene d’amore, a liberarsi dalla rabbia, confermare o disconfermare le credenze circa un mondo che cospira contro di lui, a trasformare le lamentele in desideri ed i desideri in obiettivi.

 

Tra le ultime pubblicazioni di Bernardo Paoli, psicologo e psicoterapeuta, ipnotista, coach, formatore e scrittore, troviamo Il piccolo paranoico, una simpatica ed interessante raccolta dei dialoghi terapeutici dello stesso autore del libro con Filippo, un paziente alle prese con le sue ansie, rabbie e “paranoie” che decide finalmente di voler risolvere muovendo una richiesta di aiuto.

Accompagnato anche da piacevoli illustrazioni e vignette ispirate al “Piccolo principe” di Saint-Exupéry, le stesse le troviamo ad apertura di ogni singolo capitolo che raccoglie il dialogo tra paziente e terapeuta, tema del giorno, relative prescrizioni e compiti per casa e obiettivi raggiunti di volta in volta.

Il piccolo paranoico 2020 di Bernardo Paoli Recensione del libro Imm 1

Capitolo 7 – Il piccolo paranoico

Scorrevole e leggero, il libro consente al lettore di assaporare le capacità dell’autore di padroneggiare uno stile di comunicazione efficace, suggestiva, evocativa, attraverso ad esempio il ricorso alle metafore, similitudini, aforismi calzanti all’argomento trattato, in modo di riuscire a far breccia nel cuore e all’attenzione di Filippo.

Filippo sarà invitato a lavorare sulle sue pene d’amore, a liberarsi dalla rabbia, confermare o disconfermare le credenze circa un mondo che cospira contro di lui, a trasformare le lamentele in desideri ed i desideri in obiettivi con una serie di compiti che di volta in volta gli verranno assegnati, consentendo allo stesso di fare nuove scoperte…

Scoprire ad esempio che forse il mondo può anche cospirare per il suo bene, che la rabbia offre sempre tre segnali. Il primo: se ti arrabbi è perché quella questione per te è molto importante. Il secondo segnale è: devi compiere un’azione. E il terzo: mai però la prima che ti è venuta in mente.

La rabbia infatti, ricorda Bernardo Paoli, è un’ottima motivatrice ma una pessima consigliera.

Scoprirà il dono della gratitudine e della valorizzazione totale, specie dei suoi legami familiari, come sia più utile e vincente assumersi la responsabilità delle proprie scelte, non ricorrendo all’auto -giustificazione, auto- protezione, che la gelosia, come lui stesso ricorderà in seduta, è una paranoia travestita d’amore…

Il piccolo paranoico 2020 di Bernardo Paoli Recensione del libro Imm 2

Capitolo 9 – Il piccolo paranoico

Ed ancora faremo insieme a Filippo una seduta con il ricorso all’ipnosi ed accompagneremo lo stesso lungo il suo breve ma intenso percorso di cambiamento.

Ed infine, a chiusura del libro, anche lui ci omaggerà di un aforisma: quando fai fatica a ricevere, è perché fai fatica a dare.

Un bel libro dunque che ritengo possa essere interessante e rivolto all’ampio pubblico e che riesce a mantenere ricchezza di contenuti facendo ricorso ad uno stile semplice.

 

Recharge in nature, recuperare il rapporto con la natura

Le evidenze scientifiche sull’impatto positivo della natura sull’uomo sono numerose, ed il progetto Recharge in Nature si è concentrato su alcune di esse.

Alberto Fistarollo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Recharge in Nature, il progetto

Recharge in Nature è un’iniziativa di Dolomites Maadness, un progetto di marketing con obiettivo di sviluppo locale e valorizzazione del territorio del Medio Alto Agordino finanziato dal Fondo Comuni Confinanti (Rocca Pietore, Alleghe, Colle Santa Lucia, Livinallongo del Col di Lana, Arabba, Cencenighe, San Tomaso Agordino, Taibon Agordino). Un modo per aiutare questi luoghi, duramente colpiti dalla tempesta Vaia dell’ottobre 2018, ad avere visibilità e ripartire, anche turisticamente.

Il progetto ha così ideato un concorso, nel quale dieci persone selezionate avrebbero vinto un soggiorno gratuito di 5 giorni (dal 13 al 17 settembre) nel Rifugio Falier di Val Ombretta, nel Comune di Rocca Pietore. Il risultato dell’iniziativa è andato oltre ogni aspettativa, superando le 19.000 iscrizioni da tutto il mondo.

Un’unica regola durante il soggiorno: l’impossibilità di utilizzare smartphone, computer, tablet. Una disconnessione totale dalla vita virtuale.

L’idea complessiva, al di là del piano di marketing, contiene anche un importante messaggio sociale: stando nella natura è possibile imparare a disconnettersi, rilassarsi, riprendere il controllo sulla tecnologia e utilizzarla con maggior consapevolezza. Un ritorno alla semplicità, fatta di ritmi più umani e relazioni reali; questo l’aspetto psico-sociale che ha permesso la mia partecipazione al progetto come psicologo.

Il rapporto uomo-natura

Il mio primo passo all’interno del progetto è stato quello di approfondire gli effetti della natura sull’uomo, in maniera da poter ispirarmi ai risultati di alcune ricerche per ottimizzare l’effetto del soggiorno sui partecipanti.

Il tema è attualmente molto vivace, anche in virtù del dibattito sulle questioni ambientalistiche, l’inquinamento e il riscaldamento globale; oltre alle discussioni sull’impatto dell’uomo sulla natura, recentemente viene molto indagato anche l’impatto della natura sull’uomo, principalmente in relazione allo stress.

L’argomento è particolarmente attuale nelle società caratterizzate da ambienti artificiali, ritmi frenetici, tendenza alla prestazione e alla produttività, pressioni sociali, uso sfrenato della tecnologia. Se un tempo si parlava comunemente di “esaurimento nervoso”, oggi la parola passepartout è stress.

Il termine viene comunemente utilizzato in modo da indurre a fraintendimenti: si usa affermare “il lavoro mi stressa”, “il traffico è stressante”, “il capo mi stressa”, come se lo stress fosse esclusivamente un fattore esterno di fronte al quale la persona è passiva. In realtà, i fattori esterni citati rappresentano stressors, ovvero potenziali fattori di stress, ai quali la persona però ha una capacità di reagire in maniera più o meno funzionale (da qui i concetti di eustress e distress); infatti Hans Seyle, il primo studioso che si occupò approfonditamente di stress nel lontano 1936, definì lo stress come una “Sindrome Generale di Adattamento”.

Lo stress dunque non è qualcosa di oggettivo e immodificabile, ma rappresenta la modalità individuale di reagire alle richieste ambientali. In sostanza, siamo soggetti attivi nella percezione dello stress e ciò significa che possiamo imparare a reagirvi in maniera più funzionale.

Un fattore importante dello stress odierno, che i nostri dieci partecipanti hanno riportato come il principale, è l’iperconnessione, la perenne presenza della vita online.

Mail, notifiche, chat, telefonate, è come se una parte di noi fosse continuamente in allerta ad attendere stimoli provenienti da… altrove. Il meccanismo di ricompensa legato alle notifiche, in particolare il rinforzo intermittente, crea di fatto un condizionamento molto potente che impedisce di concentrarsi su un’unica attività ignorando l’impulso a dare un’occhiata allo smartphone. Vita reale e vita online scorrono così in parallelo, rendendo davvero complesso stabilire delle priorità per la nostra attenzione.

Tutto ciò affatica il nostro cervello, comporta continue distrazioni e sottrae tempo e attenzione per il qui e ora. Ne risentono così le nostre relazioni, la qualità del sonno, l’efficacia sul lavoro, l’apprendimento, l’umore e la salute complessiva (per una rassegna sul tema si veda il riferimento Goleman, 2013).

Tali concetti sono risultati rilevanti per i partecipanti a RIN poiché uno degli obiettivi, oltre al rilassarsi e disconnettersi, era che riuscissero ad acquisire degli strumenti che li rendessero maggiormente resilienti rispetto allo stress della vita quotidiana.

Ad un livello puramente intuitivo, la natura viene considerata una sorta di antidoto nei confronti dello stress. E’ infatti esperienza comune che uscire dalle città per immergersi nel verde faccia sentire meglio; più rilassati, più calmi e di buon umore. Non è un caso che in vacanza si vada perlopiù in luoghi meno trasformati dall’uomo, che abbiano la natura come soggetto principale: mare, montagna, colline, lago e altri paesaggi naturali. Vari fattori contribuiscono a rendere l’ambiente naturale favorevole al benessere: il clima, il silenzio, i colori. Stando nella natura ci si rilassa, e pure la mente sembra farsi meno affollata. Effettivamente, molti personaggi illustri del passato (come Socrate, Kant, Rousseau, Ghoethe, Kafka) sottolineavano l’effetto benefico sulla mente del semplice passeggiare in mezzo alla natura, come se il verde avesse una sorta di potere calmante e chiarificatore sui nostri processi mentali.

Eppure, nonostante una certa consapevolezza di tali effetti, secondo un interessante ricerca dell’E.P.A. -Environmental Protection Agency- il tempo che trascorriamo all’aperto nel mondo occidentale rappresenta solamente il 5% delle nostre giornate (Environmental Protection Agency, 2011); una percentuale inferiore rispetto al tempo che un capodoglio passa in superficie per respirare!

Inoltre, uno studio ha stimato che le persone trascorrono circa il 25% di tempo in meno nella natura rispetto a vent’anni fa (Pergams & Zaradic, 2007).

Se stare nella natura comporta realmente dei benefici, è evidente che questo stile di vita impatta sulla nostra salute psico-fisica. In sostanza, la natura ci manca! Quest’ultima constatazione, che potrebbe apparire semplicistica, in realtà viene confermata da diverse ricerche che si sono occupate di indagare lo stato di salute psicofisica di chi vive in ambienti naturali e chi invece in grandi metropoli.

Le evidenze scientifiche sull’impatto positivo della natura sull’uomo sono davvero numerose, tra cui le più aderenti al progetto Recharge in Nature sono le seguenti:

  • Basta un breve periodo passato tra i boschi per sentirsi “ricaricati”. Stare nella natura aumenta la voglia di fare e fa sentire più attivi, come se ricaricasse rapidamente la nostra riserva di energia (Ryan et al., 2010). Questa ricerca (Ryan et al., 2010) in particolare, condotta su un campione di 498 soggetti, ha mostrato che coloro che avevano praticato Shinrin-yoku (in sostanza, un “bagno nella foresta”) percepivano ridotti i livelli di ansia e depressione e sperimentavano un maggior senso di vitalità rispetto ai soggetti del gruppo di controllo.
  • La natura consente di incrementare la creatività e la capacità di problem solving (Atchley et al. 2012). Lo studio ha mostrato che quattro giorni di totale immersione nella natura e di completa assenza di tecnologia hanno incrementato la creatività e l’abilità di risolvere problemi dei partecipanti fino al 50%.
  • Riduce lo stress (Morita et. Al, 2006) e funge da fattore protettivo rispetto a eventi stressanti (Van de Berg, 2010).
  • Favorisce la capacità di memorizzare (Berman, Jonides & Kaplan, 2008).

Ai partecipanti dello studio sopracitato veniva inizialmente chiesto di ripetere in ordine inverso alcune sequenze di numeri (digit span backward). Dopo questo compito, i partecipanti uscivano per fare una passeggiata: un gruppo camminava in un bosco, mentre il gruppo di controllo in città. Una volta ritornati, ripetevano il test di memoria precedentemente eseguito. I risultati hanno dimostrato che la capacità di rievocare le cifre era aumentata del 20% per il gruppo che aveva camminato nel bosco, mentre non hanno evidenziato cambiamenti significativi per il gruppo di controllo.

  • Promuove benessere personale, felicità e tendenza prosociale (Passmore & Holder, 2017). Lo studio ha esaminato gli effetti di una sperimentazione di due settimane, in cui 395 studenti universitari erano assegnati casualmente a tre condizioni: ambiente naturale, ambiente artificiale o gruppo di controllo. Ai partecipanti veniva chiesto di prestare attenzione a come la natura o gli oggetti costruiti dall’uomo, a seconda dell’assegnazione, li facessero sentire in termini emotivi.
    I risultati hanno dimostrato che il gruppo sperimentale, che prestava attenzione a elementi naturali, manifestava un livello significativamente incrementato di benessere generale, connessione con gli altri, verso la natura e una maggiore tendenza prosociale.
  • Fare attività nel verde incrementa l’autostima (Barton & Pretty, 2010). Una revisione ha analizzato i dati di 1.252 soggetti che hanno partecipato a dieci studi differenti. La review ha rilevato che anche solo 5 minuti quotidiani di esercizio nella natura sono sufficienti per notare un incremento del livello di autostima.
  • Vedere attorno a sé immagini naturali promuove le connessioni neurali e infonde uno stato di tranquillità (Hunter et al., 2010). Pare che il semplice fatto di osservare immagini naturalistiche permetta a differenti aree del cervello di lavorare in maggior sincronia, a differenza di quanto accade osservando paesaggi artificiali.
  • Stare nella natura promuove una miglior salute mentale complessiva (Alcock et al, 2014) (Kuhn, S.,2017).
  • Vivere in un ambiente naturale migliora la qualità del sonno (Johnson et al., 2018) (Grigsby-Toussaint et al., 2015).
  • Riduce gli stati ansiosi, depressivi e la ruminazione mentale (Bratman et al., 2015), (Collingwood, 2018).
  • Promuove la salute cardiovascolare (Lee et al., 2013) e riduce il rischio di ipertensione (Shanahan et al., 2016).
  • Riduce il mind wandering, incrementando il controllo attentivo e la creatività (Williams et al., 2018).
  • Riduce l’impulsività (Repke et al., 2018).
  • Chi vive in aree verdi gode complessivamente di una miglior salute psico-fisica (Health council of the Netherlands, Nature and the Environment Nature and health, 2004), (Maas et al., Green, 2006), (Maas et al., 2009), (Maller, et al., 2002), (Ulrich, 1984), (De Vries, Verheij & Groenewegen, 2003), (Verheij, 1996).

Recharge in Nature: il ruolo dello psicologo

Gli obiettivi principali della mia presenza in qualità di psicologo nel team sono stati:

  • Contribuire alla realizzazione e organizzazione del progetto, anche tramite la ricerca bibliografia sui benefici psicologici dello stare in natura.
  • Monitorare i livelli di stress e presenza mentale pre/post esperienza.  Per effettuare le rilevazioni sono stati utilizzati due strumenti: il SOS (Stress Overload Scale, J. H. Amirkhan 2012) per conoscere il livello di carico percepito (event load) e i fattori personali di vulnerabilità allo stress (personal vulnerability) e il FFMQ (Five Facet Mindfulness Questionnaire, Baer et al., 2006) per conoscere il livello di mindfulness dei partecipanti, inteso nelle cinque componenti: osservazione, descrizione, consapevolezza, non-giudizio e non-reattività.
  • Presenziare durante l’intero soggiorno, proponendo delle attività ai partecipanti e osservando le dinamiche del gruppo.

Una delle finalità dell’esperienza era quella di disconnettersi dalla vita online e provare per cinque giorni a portare la propria attenzione nel momento presente, incrementando la consapevolezza sensoriale e imparando a stare semplicemente con ciò che era presente.

Le attività psicologiche proposte hanno riguardato principalmente una pratica di mindfulness (come meditazione sul respiro, body scan, pratica dell’uva passa), utili a mantenere l’attenzione nel qui e ora e dare ai partecipanti degli strumenti per gestire lo stress.

I partecipanti inoltre redigevano ogni sera il loro personale Diario della Gratitudine in cui indicavano tre momenti vissuti durante la giornata che avevano particolarmente apprezzato e per i quali potevano definirsi grati (un esercizio ripreso da diversi autori in ambito self-compassion e psicologia positiva; un esempio in Emmons & Stern, 2013).

Altre attività proposte durante il soggiorno sono state yoga, stone balancing, shrinin-yoku, escursioni e altre attività sempre volte a ripristinare l’attenzione nel qui e ora, riscoprire la valenza dei sensi, del movimento e delle relazioni vis-a-vis.

Risultati dell’esperienza Recharge In Nature

Nonostante le evidenti limitazioni sul piano empirico-sperimentale, si presenta in tale paragrafo uno studio pilota per verificare l’effetto dell’esperienza complessiva Recharge in Nature.

Ovviamente il progetto non aveva le caratteristiche per essere considerato rilevante sul piano scientifico, principalmente per l’impossibilità di isolare le variabili (a cosa è davvero attribuibile l’effetto? Il contesto? le relazioni? le attività svolte ecc..?), per l’assenza di un gruppo di controllo e altre limitazioni.

Inoltre, la lingua parlata dal gruppo era l’inglese (anche ai partecipanti italiani era stato richiesto una buona competenza in merito), pertanto sono stati utilizzati i test validati in versione inglese. I risultati dunque vanno interpretati con estrema cautela e sono da considerarsi principalmente come spunto di riflessione e non come evidenze scientifiche.

La rilevazione dello stress, percepito nell’ultima settimana di lavoro, è stata eseguita mendiante la Stress Overload Scale (Amirkan, 2011), che si compone di 30 item pertinenti a 3 cluster: 1) Event Load (carico percepito) fa riferimento alla percezione di essere sopraffatti dai propri impegni 2) Personal Vulnerability (fattori personali di vulnerabilità) si riferisce alla valutazione di non essere competenti nella gestione dei propri impegni. Infine, sono stati inseriti alcuni item di riempimento (filler) a valenza positiva, per interrompere la sequenza di item negativi ed evitare risposte automatiche; queste affermazioni si riferiscono a caratteristiche di personalità che il soggetto è chiamato ad autovalutare.

Il confronto fra i punteggi riguardanti lo stress dei partecipanti prima e dopo RIN è stato effettuato mediante un test non parametrico (test di Wilcoxon), in considerazione delle caratteristiche del campione (distribution-free e ridotta numerosità). Si è verificata, dunque, l’ipotesi che le due misurazioni fossero statisticamente differenti assumendo una probabilità di errore inferiore a .05.

Per ciascuna delle tre classi di item (curiosamente anche per il filler, a indicare che anche la percezione personale complessiva è migliorata durante il soggiorno) è stata rilevata una differenza significativa nelle due somministrazioni con valori di significatività inferiori a p .05. Infatti, per la categoria “event load”, p è .005; per la “personal vulnerability” p è .006 e anche per gli item di Filler è stata evidenziata una differenza significativa con p .006.

In conclusione, l’esperienza ha prodotto una significativa riduzione del carico di stress esperito dai partecipanti, in termini di percezione del carico degli eventi stressanti e di valutazione delle proprie incapacità di fronteggiarli. Quello che emerge è un incremento nell’autovalutazione delle abilità di coping e un decremento della sensazione di essere sopraffatti dagli stressors.

Per quanto riguarda il questionario FFMQ(Five Facet Mindfulness Questionnaire, Baer et al., 2006), è stato utilizzato il t di Student poiché è il test che solitamente si applica per verificare l’effetto sul gruppo pre-post nei percorsi di mindfulness.

Il gruppo ha visto un incremento davvero notevole, mai notato da noi in altre esperienze, su tutte le cinque componenti (observing, describing, acting with awareness, non-judging of inner experience, and non-reactivity to inner experience) con una significatività davvero molto elevata (p .00001) ed effetto sul gruppo “huge” secondo il D di Cohen (1,6397).

A livello puramente qualitativo, al termine dell’esperienza i partecipanti hanno dichiarato di sentirsi maggiormente rilassati, concentrati e focalizzati su quanto li circondasse. Se prima la loro attenzione tendeva spesso ad andare alla componente online (social network e chat, principalmente) con immediato ricorso allo smartphone, successivamente il contenuto dei loro pensieri era più contestualizzato nel qui e ora.

L’aspetto maggiormente apprezzato dai partecipanti è stata la componente sociale dell’esperienza: il fatto di passare molto tempo assieme, senza distrazioni, ha concesso loro di beneficiare pienamente delle relazioni, parlare guardandosi negli occhi, potersi conoscere, esprimere pensieri ed emozioni in diretta.

Da un insieme di persone sconosciute e provenienti da tutto il mondo, si è rapidamente creato un gruppo coeso e desideroso di mettere in discussione importanti temi di vita, chiacchierare e confrontarsi fino a tarda sera.

Concludendo, ecco le parole di una delle partecipanti che ha brevemente raccontato l’esperienza RIN nel suo blog:

Per 5 giorni ci siamo isolati dal mondo ma ci siamo connessi con la natura, con noi stessi e tra di noi (…). Con quella semplicità e leggerezza che tanto mi mancavano. Adolescenti degli anni ’90, che trascorrevano il tempo a conoscersi, giocare, ridere, piangere, abbracciarsi, brindare ai nostri desideri. (…).

Non abbiamo mai affrontato veramente il tema “cellulare”. Non eravamo lì per “disintossicarci dallo smartphone”, noi avevamo bisogno di riconnetterci con noi stessi. Con il presente. Con le vite che ci passano accanto e che spesso nemmeno notiamo. (…).

Ed ecco cosa mi è rimasta di questa esperienza. Mi è rimasta un’attenzione maggiore del qui ed ora, un amore per me stessa e la mia vita che avevo perso. Accendo il telefono più tardi la mattina, non ho più la necessità di condividere tutto quello che faccio perché preferisco viverlo, assaporarlo. Mi sento forte.

 

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