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Quando l’analista si ammala

E nelle stanze di analisi? Iniziavo così, interrogandomi su cosa fosse capitato ai nostri luoghi sicuri, a come avessero assunto forme e colori diversi senza la presenza dei pazienti, su come il covid li avesse trasformati, dalle abitudini di commiato, come la mano tesa a stringere le mani dei pazienti, alle operazioni di sanificazione con amuchinosimili, alle modifiche strutturali (una cosa per tutte: il telo di carta sul lettino)

 

Qualche giorno fa cercavo di scrivere qualcosa rispetto alla situazione pandemica. L’articolo, se così può definirsi, intendeva partire dagli effetti sul macro sociale e proseguire ad imbuto sul microcosmo famigliare e individuale e terminava con una riflessione su cosa accada nelle stanze di analisi, all’epoca del coronavirus. In questo paragrafo parlavo della malattia nella stanza di analisi del paziente, ma anche e soprattutto di quella dell’analista.

Alcuni colleghi leggendolo mi hanno suggerito di scrivere di più su questo tema, molto meno esplorato e, effettivamente, con bibliografia meno ampia.

Riprenderò dunque il pensiero espresso nell’articolo e proverò ad ampliare le riflessioni dalla malattia da coronavirus, di cui si parlava lì, alla malattia in generale, fino alla morte.

E nelle stanze di analisi? Iniziavo così, interrogandomi su cosa fosse capitato ai nostri luoghi sicuri, a come avessero assunto forme e colori diversi senza la presenza dei pazienti, su come il covid li avesse trasformati, dalle abitudini di commiato, come la mano tesa a stringere le mani dei pazienti, alle operazioni di sanificazione con amuchinosimili, alle modifiche strutturali (una cosa per tutte: il telo di carta sul lettino, mi sentivo un’osteopata!).

Le nostre stanze si sono svuotate della presenza fisica dei nostri pazienti, talvolta anche di quella dei terapeuti che hanno iniziato a lavorare da casa in questa nuova (per molti) modalità che prevede che la terapia sia fatta a distanza, che i vissuti siano comunicati non più con i sospiri leggeri, l’occhio che si inumidisce, il non verbale dei piedi che si agitano, coi silenzi preziosi di condivisione densa di emotività; che la presenza dell’ascolto silenzioso non passi più attraverso l’odore della presenza, l’atmosfera co-creata e condivisa, ma attraverso i vari dispositivi elettronici, dalle semplici telefonate, alle video chiamate, ai vari zoom, skype, meet, teams, etc… Dove il non verbale del volto spesso arriva dissincrono dalla voce, la linea salta, l’immagine si blocca.. quante sedute in momenti delicati sono state interrotte dai vari: ‘mi sente?’, ‘l’ho persa un attimo’, ‘sento la voce metallica’…

Questa modifica di setting, ha richiesto un ulteriore maggiore esercizio della nostra capacità di mantenere un setting interno rigoroso, mentre era necessaria una grande flessibilità di quello esterno e relazionale.

Personalmente, non mi sono facilmente adattata a questo nuovo stile di lavoro che per molti aspetti mi pare il fantasma delle nostre analisi e ho fatto non poca fatica a proporre, specie ad alcuni pazienti più gravi e fragili, le sedute a distanza, con il pensiero che per quanto sia la sola cosa che ora si possa fare, non sarebbe la cosa migliore per loro.

Oltre alla fatica -anche fisica e di concentrazione- che faccio a gestire ore di sedute a distanza.

Il periodo non sarà certamente ricordato per la grande tolleranza fraterna, e anche tra noi psicoanalisti non abbiamo fatto eccezione. Ci siamo molto allenati a criticare il modo del collega di gestire le terapie in presenza e a distanza, tra chi ritiene che sia al limite dell’antisocialità vedere i pazienti in presenza per la responsabilità sociale che abbiamo e dobbiamo trasmettere ai pazienti, e coloro che ritengono sia irresponsabile non vedere i pazienti in presenza, perché si trasmette paura, non fiducia ed altro del genere. I toni si sono anche scaldati in alcuni momenti e la rete ha ospitato talvolta scambi di opinione piuttosto accesi.

Come spesso accade, e per fortuna, la maggior parte di noi si situa tra queste posizioni estreme e considera le varie variabili personali e situazionali. Chiaramente, un collega 80enne non si sentirà sicuro a vedere pazienti in presenza, né probabilmente la maggior parte dei pazienti sentiranno di esporre il proprio terapeuta al rischio di essere contagiato. O ancora, chi lavora anche in strutture ospedaliere, comunitarie, o come nel mio caso in carcere, si è forse sentito di dover proteggere i propri pazienti perché si è soggetti particolarmente esposti e dunque potenzialmente più ‘pericolosi’.

E poi ci sono i casi in cui i pazienti si ammalano o, anche, i terapeuti si ammalano. Questo evento entra a gamba tesa nella relazione analitica. Pazienti che fino a quel momento avevano considerato il virus una brutta faccenda che però non riguardava nessuno di vicino, si sentono toccati. La malattia dell’analista attacca l’idea dell’indistruttibilità dello stesso e attiva angosce profonde di perdita e di abbandono. La costanza delle sedute salta, se il terapeuta non è in grado di lavorare, in un momento di confinamento che le rende così preziose anche per mantenere un senso del tempo che sembra aggrovigliarsi su sé stesso. La storia di ciascuno con le proprie trame traumatiche rappresenterà l’ordito che strutturerà i vissuti. A bocce ferme, questo sarà materiale prezioso per capire aspetti del sé profondi.

E all’analista malato che accade? Di nuovo, probabilmente, anche in questo caso la storia personale e professionale sarà una traccia impercettibile su cui si struttureranno vissuti, pensieri, emozioni. Sicuramente, potrebbe non essere semplice gestire il bisogno di tempo per sé, e la consapevolezza che questa malattia a differenza di altre è ora fonte di grande angoscia per tutti, pazienti compresi, e porterà a interrogarsi su quanto sia opportuno condividere coi pazienti e con quali pazienti.

Pazienti, medici e infermieri spesso finiscono con il fare l’indagine dei valori (febbre, saturazione, atti respiratori, terapia…) altri inviano messaggi per avere conferma che pur malato, il terapeuta sia ancora vivo. Una mia paziente, la cui prima analista morì in pochissimi mesi e data una sospensione della terapia in quel periodo, lei non venne avvisata fino a scoprire pochi giorni prima del decesso la malattia della analista e poi dai social della sua morte, ha avuto vissuti di grande angoscia, quando mi sono ammalata in primavera e ha dovuto verificare fossi viva ogni giorno e io ho avuto molto il pensiero di non dimenticarmi di rispondere ai suoi messaggi. E ho verificato più volte di avere inserito il suo telefono tra i contatti dei pazienti da avvisare consegnati a una collega e amica, laddove fosse accaduto qualcosa che mi avrebbe impedito di farlo personalmente.

Un’altra paziente la cui madre è stata operata più volte di cancro e che ha temuto di perderla, è entrata in uno stato di grande sofferenza e confusione all’idea di potermi perdere in un momento dell’analisi molto delicata per lei, e pur non osando mai disturbarmi con messaggi, si è dimenticata della sospensione delle sedute e mi ha telefonato, un lunedì al suo orario.

Chiaramente, è stato poi necessario rileggere questi vissuti e alcuni agiti, ripresa l’analisi, per poterli comprendere ed elaborare, con la disponibilità a volte faticosa di essere l’oggetto di cui si doveva parlare e talvolta il rappresentante persecutorio abbandonico.

L’analista che si ammala rappresenta in qualche modo la caduta dell’illusione, e una umanizzazione della persona analista (”allora anche lei è umana!”, esclama un paziente in analisi da 7 anni, dato che in questo tempo non avevo mai avuto nemmeno un’influenza), talvolta non semplice da tollerare per alcuni pazienti, soprattutto se accade quando l’analisi è in una fase iniziale.

Recentemente, un collega della SPI, Roberto Goisis ha scelto di pubblicare un articolo divulgativo sulla sua esperienza da paziente Covid. Lo fa in prima istanza su una testata piuttosto diffusa e condivide generosamente la sua esperienza da paziente, e da terapeuta paziente. Con tutte le difficoltà che la malattia dell’analista -in particolar modo ai tempi del covid- porta nella terapia. Tra le riflessioni che seguono questa pubblicazione, ne apre una interessante sulla vergogna. La vergogna per essersi ammalati, che credo si possa considerare sentimento abbastanza diffuso all’atto delle diagnosi. Ricordo numerosissime situazioni di persone che scopertesi ammalate, non volevano si sapesse ‘in giro’. Quando la malattia è una malattia contagiosa, forse questo elemento è ancora più marcato. La vergogna per essersi ammalati, ma anche quella di poter aver contagiato qualcuno che si confonde nella colpa, o di essere visti come più deboli.

La mia riflessione parte da qui, dalle considerazioni che seguono la malattia da Covid, ma cercherò di estendere la riflessione sulle malattie che costringono a convivere con esse per lunghi tempi, anni talvolta, e forse per fortuna, e che esitano nella morte. E proverò a ragionare intorno alla vecchiaia, e all’avvicinarsi alla fine dell’attività professionale. Cosa assai complessa in genere, ma il modo in cui noi definiamo la nostra professione ‘siamo psicoanalisti’ più che ‘facciamo gli psicoanalisti’, dice forse tutto rispetto alla difficoltà di rinunciare ad un aspetto identitario, talvolta preponderante nelle nostre vite.

Non è semplice fare un discorso organico, ma proverò a partire dalle analisi in corso coi miei pazienti, quando mi sono ammalata a marzo e come è stato poi riprendere, a distanza prima e in presenza poi. E su cosa accade nella mia mente di analista durante le interruzioni per malattia. Come si concilia la responsabilità verso i pazienti con il bisogno di essere paziente, e con la quota di regressione che questo porta fisiologicamente con sé? Mentre condividevo strategie (leggasi, difese) e fatica rispetto all’affrontare le settimane di malattia, una collega mi fa riflettere sull’impegno emotivo di occuparsi dei pazienti in un momento di difficoltà e malattia e di come questo, data anche la solitudine, potesse spingere a mettere da parte sé.

Nel ripensare a questi scambi mi pare di poter cogliere una sorta di risposta maniacale, nel mio cercare di pensare ai pazienti e nell’ ‘usarli’, come sostegno. Maniacalità e negazione che lottano contro l’idea della possibilità della morte, nonché la ribellione verso l’insulto narcisistico che la malattia mi riproponeva a distanza di pochi mesi.

Quando la malattia dell’analista mette in pericolo la vita e il terrore di morire è una delle possibilità che si sentono probabili, questioni etiche si intrecciano in maniera inestricabile con aspetti dolorosamente umani. La malattia fisica fa vibrare corde molto intime, che suscitano sentimenti d’inadeguatezza, di colpa, di vergogna e può attivare difese antiche pre-edipiche, di negazione, proiettive e narcisistiche. Secondo la comunità scientifica, in caso di malattie severe, si osserva generalmente il prevalere di condotte di negazione grandiosa, con tendenza all’isolamento e una certa chiusura narcisistica, in sintonia con quanto già affermava Freud (1914, 452).

Sempre Freud, l’anno dopo, prosegue: “Abbiamo mostrato una tendenza inconfondibile a mettere la morte da parte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo provato a farla tacere. Abbiamo anche un detto (in tedesco): ‘pensare di qualcosa come se fosse la morte’. Chiaro, come se fosse la propria morte. È impossibile immaginare la propria morte ed ogni volta che proviamo ad immaginarla, possiamo percepire che ancora stiamo in ruolo di spettatori. Quindi, la scuola psicoanalitica potrebbe avventurarsi nell’asserzione che nessuno crede nella propria morte o, dire lo stesso in altro modo, che incoscientemente ognuno di noi è convinto di essere immortale.” (S. Freud, 1915).” E ancora Eduard Klain, citando Kohut dice: “La capacità dell’uomo di riconoscere che la sua vita può finire e di agire conformemente a ciò potrebbe essere il successo psicologico più grande, anche se non si può escludere l’emergenza di un diniego velato nell’accettazione di transitorietà”

Gli oncologi in questo campo hanno prodotto ricerche molto interessanti, osservando che nei pazienti oncologici il livello di negazione della malattia è direttamente proporzionale al grado di severità della patologia: man a mano che ci si avvicina alla morte, la negazione diviene sempre più massiccia. Un’interessante ricerca del 2007, che analizzava tra le variabili anche la professione dei pazienti, rileva che l’atteggiamento difensivo descritto si riscontra anche nei medici e negli psicoterapeuti (Tamburini e Murru, 2007). Ancora, Vigneri ci dice che «il fenomeno clinico della negazione», nel caso di situazioni cliniche severe, “è talora talmente evidente e conclamato da potere essere considerato alla stregua di un’allucinazione negativa” (2010, 59).

Nel periodo di malattia, quando le sedute erano, dunque, sospese, ho cercato di consentire ai pazienti di avere la possibilità di scrivermi. Ho scelto di chiamare i pazienti quando la situazione ha reso chiaro che non avrei potuto lavorare i giorni successivi, e dire loro in pochissimi minuti, che ero ammalata e non ero in grado di lavorare. Ho deciso di chiamare perché un messaggio avrebbe potuto lasciare spazio a fantasie di maggiore gravità (non può nemmeno parlare) e perché volevo sentissero dalla mia voce la prudente fiducia nell’evoluzione. Ho ripetuto a tutti che ero seguita da un infettivologo e dal mio medico e che ero curata al meglio.

Non ho fatto video chiamate, e mi sono poi chiesta se sia stata una scelta adeguata per i pazienti, quanto sicuramente era per me che mi sentivo inguardabile. I pazienti tutti, o quasi, mi hanno affettuosamente fatto gli auguri, detto di non preoccuparmi e chiesto se potevano disturbarmi con dei messaggi. Ho detto a tutti di sentirsi liberi di scrivermi, e che avrei cercato di rispondere.

Alcuni hanno formulato domande più specifiche e ho scelto di dire sempre la verità, non sempre tutta.

Forse questo è stata una delle difficoltà maggiori. Quanto, cosa, a chi è opportuno dire? E quando? Appartengo al gruppo di analisti che ritiene fondamentale l’autenticità, e che considera le self disclosure, se ben adoperate, un utilissimo atto clinico. Ma sulla mia capacità di valutare la disclosure, in quei momenti ho avuto dubbi. Ho cercato di considerare la storia del paziente, con l’idea che la mia malattia in un momento difficile come era il primo confinamento era di per sé fonte di grande allarme, ma che sarebbe chiaramente stata ‘traumatica’ se avesse in qualche modo finito per ripercorrere il dedalo di sentieri traumatici di ognuno di loro e, viceversa, avrebbe potuto essere l’occasione per qualcosa di diverso. Questi pensieri in forma un po’ di bozza hanno attraversato la mia mente alle comunicazioni iniziali di malattia, ma anche quando decidevo se o come rispondere a messaggi (tanti) e telefonate (poche).

Il rientro al lavoro mi ha permesso di capire meglio cosa ha attraversato l’animo dei miei pazienti nei giorni di malattia. Alcuni hanno fatto appello a tutte le loro energie per dimostrarci che il lavoro fatto era sufficientemente solido da sopportare il terremoto. Altri hanno descritto solo mesi dopo, alla vigilia della separazione estiva, l’angoscia che li aveva attraversati. Una donna mi disse che si era chiesta moltissime volte se io fossi spaventata e se qualcuno mi stesse aiutando. Aveva assistito la mamma malata, che la aveva investita per lunghi periodi, del ruolo salvifico (e maledetto, aggiungo io) di essere la sola in grado di sostenerla, di farla mangiare, di farle fare la terapia quando voleva rinunciare…sentire di non poter fare nulla per me era stato terribile. L’idea che potessi entrare in ospedale e non uscirne più, la aveva paralizzata per notti, fino a che ‘per errore’ mi chiamò e sentì la mia voce. Temeva di non sentirla più. Invece così aveva verificato fossi Viva.

Un’altra paziente, in questa seconda malattia, mi dice ad un certo punto che per giorni si è arrovellata nel conflitto ‘scrivo per chiedere come sta’ o ‘non scrivo’. Arriva lei stessa a comprendere l’angoscia che si cela dietro l’idea del ‘disturbo o non disturbo?’, ‘è opportuno o non è opportuno?’ e che ha origine nell’angoscia terribile di sapere che io potessi stare molto male. O non risponderle per qualunque ragione, ma che lei in quel momento avrebbe attribuito a un peggioramento di salute. Questo ‘meglio non sapere’ ci ha permesso di tornare insieme su alcuni temi relazionali e situazioni raccontate dalla paziente dove lei si è totalmente ritirata dalla relazione per paura della perdita. La ‘nostra’ vicenda legata alla malattia ci ha permesso di esplorare emozioni prima non contattabili. E a lei di sperimentare di potere non fuggire totalmente (come aveva fatto con la fantasia che la seduta dopo la sospensione sarebbe stata annullata, da me o da lei).

Ho scelto di rispondere alle domande e ‘autorizzarli’ a farle. Un paziente, la cui madre morì suicida quando lui era ancora un bambino, dopo alcuni giorni mi scrisse dicendomi che non aveva osato scrivermi prima perché non voleva essere intrusivo e aveva chiaro quanto il nostro lavoro negli anni di analisi aveva dovuto lavorare sul bisogno di controllo estremo, ma ci teneva che sapessi che mi pensava. Sono stata colpita dalle fantasie mai emerse, o mai condivise, rispetto alla mia persona e alla vita personale. Alcuni mi hanno immaginata sposata con figli, altri sola, alcuni coloro che sono in analisi da abbastanza anni da aver conosciuto la mia seconda gravidanza, si chiedevano come potesse essere difficile per i bambini, identificandosi, talvolta nella me sola chiusa in camera, talaltre nei miei figli costretti alla distanza dalla loro mamma e, forse spaventati.

Non sono mancate, chiaramente, rabbia e delusione. Come quella espressa da G col suo grande bisogno di controllarmi e assoggettarmi. G è un giovane uomo con dei tratti perversi e un nucleo ambiguo rilevante e alla sospensione delle sedute in presenza, mi aveva chiesto di poter fare delle video chiamate (è un paziente sul lettino e coi paziente sul lettino, abbiamo in genere continuato a non vederci durante la seduta, se non per i saluti iniziali e finali o con una seduta video ogni tot). Io avevo accolto la richiesta senza analizzare abbastanza la domanda, credo perché mi sentivo in colpa per la modalità a distanza; così in breve, dopo la malattia, diventai una delle donne che guarda nei siti porno, una delle tante a video che fanno quello che lui dice di fare, che ci sono quando decide lui e che sono sostituibilissime.

Un elemento che è spesso stato presente nelle fantasie dei pazienti e nel racconto del loro vissuto è il dolore per non poter essere di aiuto. L’analista è necessariamente una persona da cui si dipende e da cui ci si sente aiutati. I pazienti conoscono la nostra volontà di stare con loro nei loro momenti peggiori attuali o passati e quando l’analista si ammala, invece, ci si sente quasi nessuno, di non poter fare nulla, se non evitare di aumentare il peso.

Viceversa, come mi ricorda una collega che ha da poco più di un anno affrontato un intervento e le cure per un carcinoma, il timore di aumentare il peso -ai pazienti, questa volta- è la ragione manifesta per cui alcuni colleghi decidono di non dire ai pazienti che sono ammalati.

La vergogna

“Io mi rimprovero qualche cosa – ho paura che altre persone lo sappiano; mi vergogno quindi di fronte agli altri.” Freud (1895, p. 53).

Lo scontro traumatico con la caducità e con il limite (De Masi, 2002) fa vacillare la struttura narcisistica del sé: come oltre un decennio fa dichiarava Robutti, recuperando un pensiero di Morrison, l’analista colpito da un’affezione a rischio di vita tende di solito a nasconderlo, perché ha paura che la notizia si diffonda, che i colleghi non gli diano più credito e che si riducano le sue opportunità d’impiego (2009).

Morrison scriveva pagine illuminanti su questo tema così delicato, come la vergogna dell’analista ammalato, sottolineando come questo sentimento possa derivare anche dal timore che la stessa comunità dei colleghi ti consideri inadeguato, non più affidabile, colpevole e ti precluda la partecipazione alla sua vita societaria (2008).

E poi c’è quella che qualcuno definisce vergogna controtransferale.

La vergogna nei confronti dell’analizzando può derivare dall’avvertirsi temporaneamente deficitario riguardo alle proprie competenze e alle funzioni di holding e di rêverie.

Credo questo affetto possa anche legarsi al timore di essere considerato un ‘oggetto deteriorato’: lo sguardo dell’analizzando può cogliere i segni della malattia del terapeuta, che si sente “scoperto” nella sua intima fragilità. Qui si torna al delicato tema della self-disclosure di cui parlerò a breve.

Se consideriamo la vergogna, come emozione che fa da protezione verso lo scivolamento verso zone grigie e ambigue (Amati Sas), l’emersione della vergogna controtransferale può rappresentare un prezioso indice di autenticità, di sincerità, di incorruttibilità e di coerenza, utile a segnalare la normalità delle difficoltà umane, senza doversi trincerare alle spalle di difese inconsce più arcaiche che possono ‘inquinare’ il campo analitico.

Self disclosure

La self disclosure costituisce sempre una scelta complessa, se la si vuole intendere al servizio della analisi e della relazione e non come agito dell’analista. Mi riferisco qui, quindi, solo alla definizione più ristretta di self disclosure e che prevede la condivisione con l’analizzando di pensieri ed emozioni del terapeuta, che vengono quindi offerti al campo analitico e messi a disposizione dell’analisi. So che è superfluo specificarlo, ma self disclosure non è dire quello che ci passa per la testa.

Bollas (1983), ritiene la disclosure centrale nello stabilire un discorso intersoggettivo.

Mi pare utile ricordare la differenza tra self-disclosure e self-revelation come concettualizzata da Levenson, dove quest’ultima fa riferimento a ciò che di sé l’analista comunica suo malgrado, in modo quindi involontario -rivela, appunto-, al paziente. E questo passa in condizioni normali, attraverso il nostro gusto per il vestire, come arrediamo lo studio, le borse che usiamo, se ci trucchiamo o meno, se usiamo giacca e cravatta o jeans e scarpe da tennis. E, in tempo di malattia, se siamo dimagriti, se abbiamo le occhiaie, se sembriamo pallidi e stanchi, se tossiamo (in questo periodo soprattutto!).

L’analista malato non può eludere la self-revelation e deve scegliere quanto condividere (self-disclosure). Durante la prima gravidanza, ancora allieva al 3° anno di scuola, mi trovai di fronte a questa difficile questione. Lo dico ai pazienti? E quando lo dico? O aspetto siano loro a coglierlo? Scelsi di attendere le loro prime intuizioni e dichiarazioni coscienti o preconsce (una signora sognò che prendeva in braccio mio figlio, pochi giorni prima che io scoprissi di essere incinta) e partire da lì per informarli sulla gravidanza e su come la terapia sarebbe proseguita, salvo imprevisti, che ovviamente ci sono stati!

Un unico paziente – peraltro quello che portai come caso di tesi – non si accorse minimamente e così al sesto mese decisi di dirglielo. Ovviamente, dalla seduta successiva, notava la pancia…Quanta realtà dell’analista è colta dall’analizzando e quanta, invece, va dichiarata, svelata dall’analista?

Ovviamente, il problema è più semplice da risolvere quando si ha a che fare con una gravidanza che con una malattia; o ancora se si tratta di malattie in acuzie, o di malanni che non mettono a rischio la vita e che si risolvono più o meno velocemente, senza segnare permanentemente la vita e il corpo della persona. Mentre è chiaramente più complesso se si ha a che fare con malattie croniche, magari degenerative.

Per sottolineare l’importanza di pensare cosa e come dire ai pazienti di sé, si è scelto di parlare di ‘delicate self-disclosure’, che se ben intendo si caratterizzerebbe dalla ulteriore cura e dalla modulazione di cosa si condivide con l’analizzando in considerazione dei suoi bisogni e della sua sensibilità e, immagino, dell’epoca della analisi. La ricerca di una terminologia ancora più specifica ‘delicate self disclosure’, richiama quanto il tema della self disclosure sia delicato, appunto. Come nelle ricette di cucina: q.b.

Ritengo la condivisione di aspetti personali (ma che necessariamente finiscono col riguardare la coppia al lavoro) possa rappresentare un’esperienza umana tanto normale e comune da poter essere impiegata a favore del processo analitico e rivelarsi per il paziente un’occasione per mettere in campo aree del sé più adulte e mature.

Tuttavia, forse questo riguarda più le analisi già avviate che quelle all’esordio.

Van Damn segnala che con i pazienti colpiti da reiterate esperienze abbandoniche e assillati dall’angoscia per la perdita dell’oggetto, l’analista corra maggiormente il rischio di offrire loro troppe informazioni, incorrendo in gravi errori di tecnica (Van Damn, 1987).

Il delicato svelamento del sé comporta precise scelte di natura etica e di tecnica, che l’analista deve dosare in base alle caratteristiche del paziente che sta curando, ma anche ponendo molta attenzione al proprio stato mentale. Clark (2009) scrive che sono ormai un esercito i pazienti rimasti soli, a causa di una grave infermità o della morte del loro analista, di cui nessuno ha saputo più nulla (2009). Sono rimasta molto colpita che all’interno della Società di Psicoanalisi, nel 2005, Traesdal, per fronteggiare questo pericolo, propone la costituzione di una sorta di “comitato di crisi”, che avrebbe il compito di tracciare delle lineeguida di comportamento da tenere in tali situazioni estreme.

Mi rendo conto di aver scritto pensando solo di malattie organiche o primariamente organiche, tuttavia sarebbe sciocco negare la possibilità di disturbi di altra natura.

La vecchiaia

Sono molto in difficoltà rispetto a quest’ultima parte di riflessione. Sebbene io sia ancora lontana dall’età della vecchiaia, mi rendo conto che i miei Maestri sono tutti ormai abbastanza in là con l’età. Per lo più, da quel che so, in sufficiente buona salute, ma il pensiero che la morte possa riguardare loro mi addolora molto ed è un pensiero davvero difficile da sostenere.

Altrettanto difficile è però pensare a quei pazienti orfani che hanno ‘accompagnato i loro analisti alla morte’, rimanendo accanto ai loro analisti con gratitudine, ma anche con la sensazione di poter rappresentare per l’analista-paziente una qualche fonte di ‘rifornimento’.

Ormai anni fa durante un seminario incontrai una mia vecchia compagna di università che mi disse di aver finalmente deciso chi sarebbe stato il suo psicoanalista. Eravamo diventate ‘più intime’ quando il papà si ammalò per un tumore e in un tempo relativamente breve, morì.

Quando la incontrai e mi disse chi era lo psicoanalista scelto, mi sentii in grande difficoltà. Conoscevo non personalmente il collega, ma sapevo che aveva appena ricevuto una diagnosi oncologica. Mi chiesi se dovessi dirlo o meno e decisi di lasciare a loro la gestione della faccenda.

Anni dopo durante l’estate scrissi a questa amica, sapendo della morte del suo analista per sapere come stava e lei mi rispose che non sapeva più nulla del Dr S, che mesi prima quando andò in seduta la collega dello studio la avvisò che non ci sarebbe stata la seduta perché era in ospedale e che non sapeva se avrebbe ripreso. Il giorno dopo la andai a trovare, su suggerimento di una collega con molta più esperienza di me, e le dissi che era morto un mesetto prima.

Passano mesi e la collega mi chiede indicazioni di analisti donne, se ricordo bene. E dopo un po’ di tempo, ancora, mi dice che con l’andare avanti della seconda analisi ha capito cosa era accaduto nella prima, con l’aggravarsi della situazione.

Quanto va condiviso coi propri pazienti? Non lo so. In alcuni momenti ho pensato che si abbia il diritto di sapere se il proprio analista ha una malattia grave e mortale. Di per sé questo non impedisce di essere un buon analista. La morte è parte della vita.

Spesso però mi sono chiesta cosa spinga al di là di possibili ragioni concrete e/o economiche gli analisti a lavorare e prendere nuovi pazienti anche in età molto avanzate.

Se uno inizia con un analista poniamo di 70 anni, a parte c’è il fantasma della morte, anche se non avverrà perché l’analista può sopravvivere alla terapia del paziente e al paziente stesso, talvolta, però la fantasia della morte di quell’analista sarà presente inevitabilmente.

Danielle Quinodoz, nel suo “Invecchiare. Una scoperta” descrive il vissuto di un analizzando che sente la paura della morte nel suo analista: “Se gli analizzandi esprimono l’ansietà verso la morte dello psicoanalista, lo psicoanalista deve trovare conforto con la propria ansietà verso la morte e deve avere la libertà interna per ascoltare quello che l’analizzando ha da dire e/o discuterlo apertamente. Se gli analizzandi hanno l’impressione che quella discussione provoca l’ansietà nello psicoanalista o la negazione, gli analizzati eviteranno il tema o lo toccheranno in modo che l’analista non sarà capace di leggere tra le righe e non andrà al di là del senso delle parole dell’analizzando ed infine non lo capirà.”

Con Freud succede l’opposto, dice Jones (1961): “Una paziente seppe che era malata gravemente e non poteva parlarne. Quando Freud scoprì che lei nascondeva qualcosa, le disse: abbiamo solo uno scopo ed una lealtà, in psicoanalisi. Se si rompe questa regola, si danneggia qualcosa più importante di ogni considerazione che mi deve.”

Klain, psicoanalista croato, conferma i grandi problemi quando muore lo psicoanalista ed evidenzia che è più facile quando muore il gruppoanalista perché un altro collega riceve tutto il gruppo. Questo gruppo parla dell’analista, ma ha una forza: sono insieme, è tutto il gruppo che va dall’altro analista. Nency Eduard una gruppoanalista americana, scrisse un buon articolo su questo. Quando un suo collega morì, lei ha accettato il suo gruppo. Solita lavorare coi sogni, descrive come i sogni dei pazienti di questo gruppo erano molto interessanti perché nei sogni, ci dice,  avveniva questa elaborazione della vita e della morte del primo gruppoanalista.

Una collega anziana mi ha raccontato di recente di uno psicoanalista Milanese che affrontò una malattia molto grave e che purtroppo lo uccise. Mi raccontava di come lui avesse coraggiosamente accompagnato i suoi pazienti alla di lui morte, di come scelse per ognuno di loro un possibile nuovo analista e li accompagnò nel passaggio. Mantenendo la sua funzione anche nel momento della separazione. E fatico a pensare il dolore che deve avere abitato i loro animi in quei mesi, ma ho idea sia stato un passaggio di grande cura e generosità.

Il tema della morte c’è come fatto reale, però per noi è importante considerarlo per i suoi aspetti simbolici. Chiaramaente, la patologia organica fa paura in quanto tale, sul piano di realtà. E lo stesso vale per la vecchiaia. L’idea della demenza, il ‘rimbambimento’ fa paura in quanto tale. La morte fa paura in quanto morte. Tuttavia, credo ci siano una serie di simbolismi intorno alla morte che rivestono ruoli fondamentali nella dinamica transfert controtransfert, o nei casi dei gruppi (di cui però so molto poco) rispetto alle dinamiche di rispecchiamento controrispecchiamento multiplo

Quando i pazienti parlano della vicinanza della morte dell’analista, dice Klain parlando della sua esperienza di terapie di gruppo, forse lo vogliono ridimensionare: ormai ti sei fatto vecchio datti una regolata, rassegnati. E questo potrebbe essere un significato. C’è, però, sicuramente da considerare la morte come separazione, come perdita di affetti, come perdita di legami affettivi. E ancora, e soprattutto, la malattia e ancora di più la morte comportano, una ferita narcisistica profondissima. Mi chiedevo, nello scrivere, quanto queste cose circolino a livello non cosciente o pre cosciente, nella situazione individuale e gruppale.

Mi rendo conto che per me non sia semplice approcciarmi al tema dell’anzianità, per le ragioni di età di cui ho accennato sopra. Questo sentimento però di scrivere da bambina di qualcosa che riguarda i grandi, mi rievoca una sensazione spesso sperimentata nei gruppi di lavoro a cui ho partecipato, o nelle associazioni in cui appartengo, dove spesso sono la più giovane, e di conseguenza, meno esperta e con riflessioni meno sostanziose da condividere. È innegabile che da un punto di vista sociale, la nostra è una professione che richiede un lungo tempo di formazione e di conseguenza si raggiunge una buona stabilità non da giovanissimi. Insomma, io a 40 anni sono una giovane analista (proprio qualche giorno fa una collega Senior apre una mail scrivendomi ”Mia cara giovane amica”),

Mi chiedo quanto questo possa avere un peso nel transgenerazionale nel mondo delle società di psicoanalisi. Credo di aver sentito più volte parlare di gereontocrazia psicoanalitica, degli anziani che non vogliono o non possono o non riescono a lasciare spazio. Mi sono chiesta se fosse legato al timore che il grande lavoro fatto in questi decenni possa essere disperso da chi non ha dovuto fare le lotte che invece hanno caratterizzato i decenni precedenti, o ancora se ci sia una specie di illusione di eternità, o ancora se la vita degli psicoanalisti possa essere per alcuni talmente totalizzante che se non si è psicoanalisti cosa si rimane? Molte volte ho sentito alcuni dei miei maestri, ho in mente Correale ma è in buona compagnia, parlare dell’importanza di avere una vita ricca, di legami, interessi, passioni. I nostri pazienti non possono essere il nostro massimo rifornimento affettivo e narcsitico, forse, anche.

Da questo forse deriva il fatto che si prosegue la professione fino a età molto avanzate, spesso fino alla morte. Anche recentemente alla morte di un collega anziano, dopo lunga malattia, si è commentato: “era in studio fino a due stettimane fa“…

Ipotizzo che in qualche modo noi abbiamo bisogno dei nostri pazienti, in che misura dipende da quanto detto sopra. È possibile che, in vecchiaia, questo antico e originario bisogno possa farsi più forte?

Riconosco con imbarazzo che nei momenti peggiori della malattia, recuperare la funzione terapeutica verso i miei pazienti mi è stato utile, a sentirmi meno disorientata; mi chiedo se in modo simile con l’avvicinarsi alla fine della vita noi si senta il bisogno del lavoro coi pazienti. Che diventa quindi irrinunciabile.

D’altra parte, però, come potremmo rinunciare all’esperienza di alcuni di nostri maestri anziani e perché i pazienti che potrebbero tanto essere da loro aiutati dovrebbero esserne privati? Concludo con le parole di  Danielle Quinodoz (2010) che lo dice meglio di me: “Per uno psicoanalista è molto importante essere cosciente della propria età. Infatti la consapevolezza di invecchiare influisce direttamente sul lavoro e sulla responsabilità professionale […] Alcuni colleghi anziani hanno grande esperienza e sarebbe un peccato privare gli analizzandi di questa risorsa….”

 

Storia di un fantasma (2017) di D. Lowery – Recensione in chiave psicologica del film

Il film Storia di un fantasma è una lunga e pacata riflessione sull’essenza del tempo. La scelta del fantasma – lenzuolo appare fin da subito vincente: rimanda lo spettatore all’immaginario infantile e alla dimensione del ricordo: il fantasma protagonista un’entità vulnerabile che sa di non potere più esistere e si attacca al ricordo di una vita che è stata.

 

Storia di un Fantasma è un film del 2017 scritto e diretto dal regista statunitense David Lowery apparso sugli schermi nella piattaforma Netflix.

Casey Affleck, nel ruolo del protagonista, dà vita a un personaggio unico e struggente: C. scomparso prematuramente in un incidente stradale ritorna nei luoghi a lui cari in vita nelle sembianze di un fantasma.

L’idea iniziale era già stata solcata nel film Ghost con Patrick Swayze e Demi Moore del 1990, anche qui il protagonista maschile ritorna dopo la morte come fantasma a fianco dell’amata.

Tuttavia i due film sono completamente diversi, seppur simili nell’idea. Se in Ghost c’era un dialogo e un’interazione fra lei vivente e lui fantasma, qui, in Storia di un Fantasma il protagonista non ha alcuna possibilità di contatto con la compagna.

Lei dopo poco scompare dalla scena del film per lasciare spazio ad altri personaggi secondari che, come altri fantasmi, compaiono e scompaiono in una galleria di ritratti che si susseguono.

Storia di un Fantasma non è un film horror, è un film drammatico di carattere esistenzialista, costruito magistralmente su lunghi piano sequenza, ritmi lenti e dialoghi asciutti.

Il film è minimale, intimo, elegante, sussurrato; la pellicola è interamente girata nel formato 4:3, che rimanda alla suggestione vintage dei filmati di famiglia; il low key soffuso e lievemente desaturato cattura abilmente i tremolii del dolore del protagonista.

Il fantasma della pellicola è atipico per il cinema: si tratta del fantasma di halloween che nell’iconografia si riconosce per il lenzuolo con i buchi per gli occhi.

Il film è una lunga e pacata riflessione sull’essenza del tempo e su cosa significhi il tempo per un fantasma. La scelta del fantasma – lenzuolo appare fin da subito vincente: rimanda lo spettatore all’immaginario infantile e alla dimensione del ricordo: il fantasma protagonista un’entità vulnerabile che sa di non potere più esistere e si attacca al ricordo di una vita che è stata. Della vita che non gli appartiene più rimane un silenzioso spettatore.

L’analogia con la condizione depressiva è forte: chi la vive percepisce uno scollamento distanziante e alienante dal mondo dei “vivi”, sperimenta una desertificazione nella percezione degli affetti e vede improvvisamente preclusa la possibilità di accedere al dialogo con la vita.

La dimensione pulsante della vita è soppiantata dal quella della sopravvivenza: il protagonista sopravvive al ricordo di ciò che egli è stato e sopravvivere alla perdita di Sé diventa una condanna atemporale.

Etimologicamente la parola “spettro” si vicina etimologicamente a quella di “spettatore”.

La radice comune dal latino dal lat. spectrum «visione, fantasma» derivato di specĕre che significa guardare, osservare.

Il fantasma è uno spettro e uno spettatore della vita che gli è appartenuta e da cui è inesorabilmente separato. Divenire lo spettro di sé stesso è la condizione in cui il Sé viene alienato. La frattura tragica che si crea tra il Sé e il mondo interrompe la continuità del Sé, che cessa di essere ponte fra esperienza passata e possibile futuro: nella condizione depressiva il futuro perde ogni vitalità e la speranza si appiattisce in un eterno ed inesorabile presente.

Questo è anche un film sul fluire del tempo e di come il tempo continui a fluire anche quando non ci saremo più.

Il senso del tempo che passa è ipnotico, e l’immagine del fantasma ferito e che osserva, incapace di comunicare o dare conforto, diventa sempre più inquietante e splendida.

Nonostante l’assenza di un viso e delle espressività facciale, il linguaggio e anche la fisicità hanno intensa forza comunicativa nel tradurre il senso di struggente desolazione.

Stephen King scrisse nella recensione del romanzo horror di Peter Straub del 1979 Ghost Story:

Noi tutti abbiamo bisogno delle storie di fantasmi, perché – di fatto – noi siamo fantasmi.

Probabilmente quanto scritto da King si adatta anche al film di Lowery, che non è un film horror, a meno che non si consideri tale l’orrore di una solitudine infinita.

Il film apre una riflessione profonda sui temi universali legati alla perdita: l’impotenza, l’incapacità di fare o dire, non sentirsi visti e pertanto sentire di non vivere.

Questo è quanto accade in alcune forme di derealizzazione, tipiche delle forme depressive: la sensazione di scollamento da Sé, dai propri pensieri e dal proprio ambiente porta a guardare, a sé e alla propria vita, come alla scena di un film: in un’atmosfera onirica e surreale l’ancoraggio con la realtà e gli affetti si perde.

Come in una sorta di congelamento emotivo, un muro di vetro separa sé dal mondo circostante con cui svanisce ogni connessione emotiva.

Il soggetto vive in un eterno presente dove anche la dimensione del tempo appare distorta: il passato si riattualizza in un eterno presente e il presente entra in una dimensione storica di atemporalità ed eterno.

L’effetto che ne consegue è quello di una vita vissuta da spettatore nell’impossibilità di intraprendere qualsiasi azione incisiva sul presente; il soggetto si trova relegato in una distanza e in un silenzio che desertificano il mondo affettivo. Esso perde progressivamente aderenza nei confronti nella realtà e si dispiega in una dimensione puramente onirica.

Montale in una sua poesia parla di questa condizione: solo l’essere visti e guardati dall’Altro consente di esistere, è la relazione con l’Altro che conferisce senso al sé e all’esistenza, la perdita della relazione relega in una condizione di non esistenza.

Il primo gennaio
So che si può vivere
Non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai
nessuno
l’ha veduto.
(…)

Eugenio Montale

 

STORIA DI UN FANTASMA – Il trailer del film:

Il piacere digitale – #Sex&TheSocial (2020) di Michele Spaccarotella – Recensione

Parafrasando Woody Allen, il libro Il piacere digitale di Spaccarotella contiene “Tutto quello che avreste voluto sapere sul piacere digitale, ma non avete mai osato chiedere”.

 

Michele Spaccarotella è psicologo e psicoterapeuta psicodinamico. Svolge la libera professione a Roma presso l’Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica (IISS), dove è anche responsabile della didattica e docente nel corso biennale in Psicosessuologia.

Siamo al centro di una rivoluzione digitale non ancora terminata, ma che ha cambiato il nostro modo di relazionarci, di percepire noi stessi e l’Altro e il mondo esterno. La contrapposizione tra reale e virtuale ha perso di significato: la nostra vita è perennemente onlife. Viviamo, ovvero, perennemente connessi e gli smartphone non sono solo semplici strumenti per comunicare, ma rappresentano ormai un’estensione della nostra identità.

A partire da questa constatazione, l’Autore esplora le interazioni tra internet e gli individui, ponendosi come una “bussola” in questo mare di opportunità, ma anche di pericoli. L’intento è aiutare il lettore a sviluppare un corretto rapporto con la tecnologia per sfruttarne le potenzialità.

Fin dall’inizio viene presentata la corretta terminologia relativa alle pratiche che contraddistinguono il digitale e che verranno “dissezionate” nell’opera. L’elenco è ricco e articolato; si parte dallo spiegare che cosa si intende per sexting, passando a cos’è l’image crafting. Si continua sul motivo per cui chi subisce il phubbing può ritenersi giustamente offeso e che puntare sui pelfie fa ottenere più like!

L’opera si divide in quattro parti. La prima è intitolata “Corpi” e affronta il tema di come è cambiato il corpo grazie all’autoscatto e come il selfie, simbolo del narcisismo digitale, ha influenzato i diversi aspetti dell’esperienza umana, dalla chirurgia estetica al modo di fare sesso. Spaccarotella non tralascia anche i lati oscuri della digitalizzazione del corpo, come il revenge porn o il body shaming, termini sempre più presenti nei fatti di cronaca.

Nella seconda parte si parla di “Relazioni”. Internet ha cambiato il nostro modo di comunicare e approcciarci agli altri. Quando siamo online possiamo scegliere cosa o chi essere, non ci sono barriere spaziali, possiamo avvicinarci agli altri in maniera immediata, ma ci ha resi anche più distratti, impazienti e dipendenti dalle gratificazioni a breve termine. L’online ha influenzato il nostro modo di cercare, vivere e terminare le nostre relazioni, che in qualche maniera sono più fragili e risentono maggiormente della prova del tempo e delle difficoltà che un rapporto può incontrare. Una sezione molto ricca è dedicata proprio al tema del tradimento e della separazione che diventano contemporaneamente molto più facili, ma anche più complessi. Si prosegue poi con la terza parte, quella sulle “Applicazioni”, con una panoramica su tutti gli strumenti che il web offre per facilitare le relazioni. Interessante, poi, è la descrizione di tutte le regole da conoscere per utilizzarli correttamente e quali sono i messaggi che like o emoji possono inviare al destinatario. Infine, l’ultima sezione chiude “Il Piacere Digitale” trattando della rivoluzione che il web ha costituito per il porno o per gli strumenti per dare piacere, ma anche approfondendo sul rischio che questo modo di vivere il sesso comporta e quali sono i nuovi disturbi mentali 2.0.

Ogni capitolo è arricchito da riflessioni dell’autore, articoli e ricerche sul tema. A completare il discorso, spesso compaiono anche box informativi dedicati ai contributi cinematografici sul tema o interessanti spezzoni di casi clinici che ancor meglio mettono in luce i potenziali problemi che si accompagnano al web. Un’altra particolarità del testo è coinvolgere il lettore stesso nella riflessione proponendo una serie di giochi ed esercizi che aiutano ad adottare una prospettiva diversa sui temi della corporeità, su come ci poniamo nei confronti di ciò che non ci piace o cosa ci muove nella condivisione con L’Altro, per citarne alcuni.

L’opera non si rivolge solo ai professionisti della salute mentale, ma può essere un utile strumento per tutti coloro che volessero approfondire i cambiamenti che l’online ha apportato alle nostre vite.

Il piacere digitale non è solo un elenco di costumi, mode e abitudini che caratterizzano internet, ma a partire da questi, propone una riflessione senza pregiudizi per capire chi siamo diventati, a cosa dovremmo stare attenti e come potremmo sfruttare al meglio le opportunità che questa rivoluzione ci offre. Come conclude il Dr. Spaccarotella: Il piacere digitale può essere ottenuto quando si diventa consapevoli di: “chi sono”, “cosa desidero”, “cosa mi emoziona”.

 

L’integrazione delle numerose parti di una donna e di una madre – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Come ogni avventura, anche la Rubrica Moms sta volgendo al termine, o almeno la prima serie. Quest’ultimo episodio si propone di valorizzare l’integrazione tra i diversi aspetti che appartengono ad ogni donna e madre.

Moms – (Nr.14) L’integrazione delle numerose parti di una donna e di una madre

 

Carl A. Withaker (1989) in Danzando con la famiglia dice: “Soltanto gli adulti più infantili prendono se stessi troppo seriamente.” Spesso capita ai genitori di dicotomizzarsi, ovvero di credere di poter settorializzare la propria vita. Dovendo gestire casa, lavoro, figli, vita coniugale, sociale e altro, madre e padre, oberati spesso da un carico molto pesante, possono rischiare di convincersi che sia meglio vivere come dei computer. L’effetto collaterale di essere un computer è pensarsi disumani come il computer stesso. Se questo strumento ha come pregio la capacità di poter mantenere sotto controllo compartimenti e differenze, l’essere umano è un agglomerato di emozioni, pensieri e vissuti che non gli permettono di scindere realmente le diverse esperienze a cui va incontro.

Nell’ultimo episodio di Workin’ Moms, troviamo la protagonista Kate Foster al bivio tra la carriera e il bisogno di tornare nella sua città per abbracciare il figlio ricoverato in ospedale. In una società come quella odierna è difficile riuscire a gestire tutto, travolti dalla frenesia della rapidità e dalle richieste pressanti dall’esterno. L’amore per la famiglia, il bisogno di realizzarsi in campo lavorativo e il bisogno di garantire una stabilità economica si intrecciano, così più le sfere sono collegate e più la dicotomia tende protettivamente a realizzarsi.

Kate rappresenta qui ogni donna che deve combattere per mantenere il lavoro, nonostante l’umana apprensione per le condizioni del figlio. Il suo capo le dice: “Chiunque può essere una madre Kate. Andare in ospedale allevierà la tua colpa, ma pensa a cosa perderesti.” Per quanto una persona possa essere capace nella professione, questo non la renderà la detentrice della patente di vita di nessun’altra se non di se stessa. Troppe volte capita che altri vengano idealizzati, in nome di una maggiore esperienza, seppure questi non abbiano mai indossato scarpe che non gli appartengono. E più idealizziamo gli altri e più la tendenza dicotomica aumenta, credendo di poter far tacere il bisogno di abbracciare il proprio figlio quando sta male davanti ad una pila di lavoro da fare.

Quando ci perdoneremo per non essere perfette? Anzi quando sapremo valorizzare la fusione di tutto quello che siamo come creatrice della nostra meravigliosa imperfezione?

Durante gli episodi della serie abbiamo avuto modo di conoscere donne così coraggiose da riuscire a scegliere se dare o meno alla luce un figlio, a mostrare le proprie vulnerabilità, a fare i conti con le proprie pulsioni più umane, a trovare del tempo da dedicarsi fino a rendere possibile l’integrazione di queste e molte altre componenti.

Kate Foster ci insegna che non è possibile separare vita privata e lavoro, non dentro di noi, perché entrambe, pur essendo sfere apparentemente differenti, ci appartengono. Questo significa che a volte dovremo rinunciare a qualcosa e che forse non otterremo quel che ci aspettiamo da noi stesse, ma che in fondo staremo dando molto più di quel che credevamo con un tocco più umano.

Essere madre al giorno d’oggi è una sfida continua con se stesse e con un vissuto culturale complesso che spesso pretende una dicotomia, laddove l’umanità abbassa i livelli di produzione e la competizione è freddamente disumana.

Per quanto la realtà spesso rappresenti un ostacolo, ogni donna ascoltandosi può trovare la strada che sente appartenerle, al fine di poter scegliere ed integrare gli aspetti che sente come propri.

Il mio consiglio per tutte le donne e per tutte le madri, lavoratrici e non, è di scegliere di brillare di luce propria, perché ognuna a modo suo ne è dotata, ed è proprio la differenza di colorazione e di gradazione che rende un bagliore distinguibile rispetto ad un altro.

 

Perfezionismo e insonnia: il ruolo dell’ansia e dei pensieri negativi

La letteratura ha trovato spesso delle associazioni tra carenza di sonno, insonnia e perfezionismo. Nel dettaglio, l’insonnia si associa a dubbi continui sull’azione, critiche genitoriali, preoccupazione per gli errori, standard personali elevati e perfezionismo socialmente prescritto.

 

I sintomi dell’insonnia, come la difficoltà ad addormentarsi e/o il risveglio mattutino, compromettono significativamente il funzionamento diurno, riducendo la qualità della vita (Kyle et al., 2010). Tale problematica, può insorgere per fattori predisponenti ed intrinseci, come la personalità individuale.

La letteratura sull’argomento ha spesso associato la carenza di sonno e l’insonnia al perfezionismo (ad es. Akram et al., 2015); ovvero la tendenza a fissare standard eccessivamente elevati per se stessi e ad impegnarsi in autovalutazioni estremamente critiche (Frost et al., 1990). Nel dettaglio, l’insonnia si associa a dubbi continui sull’azione, critiche genitoriali, preoccupazione per gli errori, standard personali elevati e perfezionismo socialmente prescritto.

Inoltre, anche la presenza di disagio emotivo (Jansson-Fröjmark & Linton, 2007), difficoltà nella regolazione emotiva (Brand et al., 2015) ed i sintomi ansiosi sono implicati nell’insonnia (Akram et al., 2015).

Gli individui con dimensioni elevate di perfezionismo, tendono a preoccuparsi eccessivamente delle conseguenze negative che la carenza di sonno può avere sulle prestazioni diurne (Lundh & Broman, 2000).

Tale atteggiamento genera un ciclo continuo di pensieri negativi costituiti da preoccupazione, ruminazione, aspettative negative e cognizioni disfunzionali riguardo il sonno (come aspettative errate sui requisiti del sonno, convinzioni esagerate sulle conseguenze diurne dell’insonnia; Morin et al., 2007), che complicano il sonno.

Inoltre, le cognizioni disfunzionali, facilitano il passaggio dall’insonnia acuta ad una forma cronica (Frost et al., 1990), in quanto interagiscono con l’elevata attivazione del sistema nervoso autonomo, generata dall’attivazione e disregolazione emotiva.

Considerando il perfezionismo legato al sonno e la presenza di deficit nella regolazione delle emozioni (Spiegelhalder et al., 2012), è probabile che coloro che mostrano tendenze perfezionistiche riportano altresì cognizioni disfunzionali legate al sonno.

Per comprendere meglio l’interazione tra questi aspetti, l’indagine di Akram et al. (2020) ha indagato il legame tra perfezionismo ed insonnia, in un campione di studenti universitari. E’ stato inoltre considerato, in questa relazione, il ruolo delle cognizioni disfunzionali legate al sonno e dei sintomi ansiosi, come fattore di mediazione che poteva influenzare la relazione.

Secondo quanto riportato nei risultati, e coerentemente con la letteratura (ad es. Akram et al., 2015), coloro che presentavano sintomi di insonnia tendevano a segnalare in concomitanza una maggiore tendenza al perfezionismo; in particolare più elevati livelli di dubbio nelle azioni quotidiane, aspettative elevate, presenza elevata di critica genitoriale e peggiore organizzazione quotidiana.

Inoltre, secondo il presente studio, nell’associazione tra perfezionismo ed insonnia influiva notevolmente la presenza di sintomi ansiosi (Jansson-Fröjmark & Linton, 2007) ma anche delle cognizioni disfunzionali riguardo al sonno.

Ad esempio; è possibile che gli individui perfezionisti (che dubitano eccessivamente delle proprie azioni e si preoccupano delle critiche dei genitori), sperimentino un aumento dell’attivazione autonomica ed emotiva durante la fase di addormentamento, ritardando l’inizio del sonno (Vincent & Walker, 2000). Questo ritardo, è ricondotto alla componente cognitiva disfunzionale, ovvero l’insorgenza di pensieri negativi, preoccupazioni e ruminazioni comunemente associati ad un pensiero di perfezionismo (Randles et al., 2010).

In effetti, la letteratura conferma che in periodi di deprivazione di sonno, coloro che hanno elevate dimensioni di perfezionismo trascorrono una quantità sproporzionata di tempo a valutare criticamente il loro sonno, le prestazioni diurne (Akram et al., 2015) e preoccupandosi esageratamente per le conseguenze di tale perdita.

La percezione che un sonno scarso ostacoli il funzionamento diurno, potrebbe far insorgere dubbi sulle azioni da compiere durante la giornata, mentre i sintomi ansiosi esacerbano le preoccupazioni preesistenti e pensieri ruminativi tra gli individui con insonnia. Emerge così un ciclo di pensieri negativi, in cui i dubbi sulle azioni e le prestazioni, passano dall’essere diurni divenire notturni, alimentando una maggiore attivazione in fase di addormentamento e ritardano il sonno (Schmidt et al., 2018).

Inoltre, tra questi individui possono emergere comportamenti compensatori per sopperire alla carenza di sonno e mirare ad un sonno “perfetto”.

Chi è perfezionista e con cognizioni disfunzionali legate al sonno, alimenta strategie comportamentali per farvi fronte, come un aumento del tempo a letto, riposandosi in diversi momenti della giornata o anticipando l’ora per andare a dormire. Tuttavia, forzare attivamente l’inizio del sonno (Baglioni et al., 2010), favorisce il passaggio dell’insonnia da un problema acuto a uno cronico.

Per quanto concerne le implicazioni cliniche, la terapia cognitivo comportamentale propria per l’insonnia (CBT-I), rischia di essere abbandonata da coloro con elevate dimensioni di perfezionismo. Questi individui possono beneficiare di una versione modificata della terapia (Johann et al., 2018), che pone maggiore enfasi sulla correzione delle convinzioni disfunzionali legate al sonno, alleviando i pensieri perfezionistici del sonno ed i sintomi ansiosi.

Agendo sulle cognizioni disfunzionali si limiteranno gli sforzi comportamentali per dormire, mentre un intervento psicoeducativo concomitante fornisce corrette informazioni di igiene del sonno, abbassando il rischio di cronicizzare una difficoltà acuta.

 

Integrazione multisensoriale e rappresentazione corporea: uno studio dimostra la capacità dei neonati di identificare il proprio corpo ed i suoi confini

Un recente studio internazionale dimostra la capacità dei neonati di essere in grado, poco dopo la nascita, di percepire il proprio corpo come entità separata dal mondo esterno. Questa ricerca prova che sono sufficienti pochi giorni di vita per raggiungere un’integrazione multisensoriale efficiente.

 

La capacità di identificare il proprio corpo ed i suoi confini è fondamentale per la sopravvivenza ed è legata ad una buona integrazione multisensoriale (Nerini A., Stefanili C., Mercurio C. 2009). Imparare a discriminare gli stimoli esterni, che si verificano vicino al corpo, da quelli che si verificano lontano da esso, permette di interagire in maniera maggiormente sicura con l’ambiente circostante (Fajen, B. R., & Turvey, M. T. 2003).

Le informazioni convogliate dagli organi di senso al sistema nervoso centrale vengono integrate tra loro generando così una percezione unitaria dell’esperienza che si sta vivendo. Questo processo è noto come integrazione multisensoriale (MSI) (Vallar G., Papagno C. 2007). Negli anni è stato dimostrato come la capacità di riconoscere gli stimoli e la velocità di risposta agli avvenimenti sia legata ad una buona integrazione multisensoriale (Hershenson 1962; Foster, Cavina-Pratesi, Aglioti e Berlucchi 2002).

Uno degli studi fondamentali sull’integrazione multisensoriale è quello condotto da Harry McGurk nel 1976 a cui hanno fatto seguito diverse ricerche sull’argomento ( Shamm et al. 2000). Negli ultimi anni l’attenzione si è focalizzata sul ruolo dell’integrazione multisensoriale nella percezione corporea, gli studi in questo campo, hanno permesso di dimostrare che la integrazione multisensoriale è utilizzata anche per costruire il senso che abbiamo del nostro corpo (Botvinick e Cohen 1998; Morandi 2016)

La rappresentazione corporea ha come substrato anatomico la giunzione temporo-parieto-occipitale, le lesioni o le stimolazioni di quest’area cerebrale provocano illusioni percettive di duplicazione del corpo, allungamento e deformazione degli arti, questo fenomeno si verifica perché, in assenza di una corretta integrazione multisensoriale, le informazioni somatosensoriali vestibolari danno luogo a fenomeni dispercettivi  (Vallar, Papagno 2007).

Recentemente è stato pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Proceedings of the National Academy of Sciences, l’articolo intitolato Spatial tuning of electrophysiological responses to multisensory stimuli reveals a primitive coding of the body boundaries in newborns, che riporta i risultati di una ricerca realizzata dal Manibus Lab del Dipartimento di Psicologia dell’Università e dalla Neonatologia universitaria dell’ospedale Sant’Anna della Città della Salute di Torino, in collaborazione con il MySpace Lab del Department of Clinical Neurosciences dell’Università di Losanna e il Center for Neural Science della New York University. La ricerca ha indagato se l’integrazione multisensoriale è presente e spazialmente organizzata tra i neonati di età compresa tra le 18 e le  92 ore. Sono state confrontate le risposte elettrofisiologiche alla stimolazione tattile, quando eventi uditivi contaminanti venivano erogati vicino, anziché lontano dal corpo dei neonati, con quelle di un gruppo di controllo formato da adulti. Gli adulti hanno dimostrato una buona modulazione spaziale e risposte superadattative per stimoli multisensoriali vicini al corpo. Nei neonati si è registrato un vero e proprio pattener elettrofisiologico di integrazione multisensoriale e nei neonati più grandi si è evidenziato un effetto d’integrazione multisensoriale più ampio. In pratica è stato osservato che i neonati, non solo sono in grado di associare un suono a un tocco in maniera efficace, ma che, in base alle risposte neurali osservate, essi riescono anche a distinguere se il suono proviene da vicino o da lontano  rispetto al proprio corpo.

La scoperta di questi pattern elettrofisiologici testimonia l’esistenza di una codifica primitiva dei confini del sé corporeo, suggerendo che, anche solo poche ore dopo la nascita, i neonati identificano il proprio corpo come un’entità distinta dall’ambiente.

Questo conferma che, fin dalle prime ore di vita, gli esseri umani sono capaci di riconoscere gli stimoli provenienti dall’esterno.  Questi stimoli hanno una notevole influenza sullo sviluppo cerebrale ed una buona stimolazione sensoriale, a partire dai primi giorni di vita, può favorire un positivo sviluppo evolutivo ( Franziska Greifzu, Justyna Pielecka-Fortuna, Evgenia Kalogeraki et al. 2014) .

 

Quello che tu non vedi (2020) – Cinema & Psicoterapia

Il messaggio del film Quello che tu non vedi è chiaro: occorre addentrarsi nelle pieghe buie del proprio animo e riconoscerle, senza aver paura di affrontarle apertamente.

 

Info

Quello che tu non vedi (2020). Regia di Thor Freudenthal. Interpreti Charlie Plummer e Taylor Russell. Tratto dall’omonimo romanzo di Julia Walton.

Trama

Adam è in apparenza un’adolescente come altri, frequenta la scuola, ha qualche amico, è appassionato di cucina. Spera di farne un lavoro ma i suoi sogni cadono quando viene espulso dalla scuola. E’ affetto da  schizofrenia. Il suo mondo è popolato da voci e da vari personaggi. Per ottenere il diploma che gli consentirà di frequentare un corso per chef viene iscritto dalla madre in una scuola cattolica. Cerca di adattarsi mantenendo segreta la sua malattia per non essere stigmatizzato e in questo suo sforzo lo aiuta Maya, una ragazza brillante e sincera di cui presto s’innamora. Sarà lei con la compartecipazione della madre del ragazzo e del suo patrigno a permettergli di credere ancora nei suoi sogni e a fargli capire che non è la sua condizione a definirlo.

Motivi d’interesse

“Tu non sei la tua malattia” è questa defusione che consentirà ad Adam di uscire dall’abisso della malattia. Gli aspetti più oscuri sono presenti nella narrazione e la sensazione che le cose, nella realtà, potrebbero assumere uno sviluppo più drammatico è sempre presente nel film. Il messaggio è, però, chiaro: occorre addentrarsi nelle pieghe buie del proprio animo e riconoscerle, senza aver paura di affrontarle apertamente.

Troppo spesso i pregiudizi ostacolano una recovery che dia una vita degna di essere vissuta a persone affette da severe mental illness. L’approccio a questi disturbi deve essere rispettoso dei bisogni dei pazienti favorendo un potenziamento della resilienza in ambito sociale ed esistenziale.

I trattamenti devono avere livelli d’integrazione che permettano non solo la riduzione dei sintomi, ma contribuiscano al processo di riabilitazione esistenziale e di partecipazione sociale.

L’idea di recovery è diventata negli ultimi anni centrale nelle politiche che riguardano la salute mentale. Il Piano d’azione per la salute mentale 2013-2020 della World Health Organization ha dichiarato: “Le normative per i servizi comunitari della salute mentale hanno bisogno d’includere un approccio basato sulla recovery che ponga l’enfasi sul sostegno agli individui con disturbi mentali e disabilità psicosociali nella realizzazione delle proprie aspirazioni e obiettivi”.

I modelli d’intervento per ridare speranza, opportunità, controllo e connessione devono essere caratterizzati dall’integrazione di procedure e tecniche basate su solide evidenze scientifiche: Individual Placement and Support e Housing First; psicoeducazione; skills training; psicoterapia; attività di riabilitazione; cognitive remediation; farmacoterapia, ecc.

È quindi necessario che tutti gli attori coinvolti si adoperino perché si attui una visione innovativa e lungimirante che riprenda la tradizione italiana della psichiatria di comunità e la spinga verso un’evoluzione che sia rispettosa della dignità umana e del ruolo rivestito da ogni individuo nella comunità indipendentemente dalla presenza o meno di una disabilità.

Indicazioni utili

Il film può essere utile per un programma di psicoeducazione rivolto a pazienti e familiari.

Porno deepfake: quando è vero che “Non è come sembra”

Stiamo assistendo al progredire di una nuova forma di revenge porn: quella che sfrutta gli algoritmi DeepFake.

 

Deepfake: di che cosa si tratta?

Il DeepFake è una tecnica di fotomontaggio, che sfrutta l’intelligenza artificiale per modificare o ricreare, partendo da contenuti reali, le caratteristiche e i movimenti di una persona in maniera estremamente realistica. Ad esempio, col DeepFake si può sostituire, in un video originale, il volto di qualcuno con quello di un’altra persona (Zhang et al., 2020). Questa tecnologia, inizialmente, era utilizzata come ausilio agli effetti speciali cinematografici (GPDP, 2020) ma, come spesso accade, un ritrovato innovativo può ben presto alimentarne un uso distorto e problematico, come il sexting o il revenge porn.

Il termine sexting è stato ufficializzato nel 2009 e nasce dalla fusione delle parole inglesi sex (sesso) e texting (scrivere messaggi di testo). La comunità scientifica non è ancora pervenuta ad una definizione univoca, tuttavia si può definire come l’invio e la ricezione di contenuti di natura sessuale (come foto e video), tramite internet e telefoni cellulari. Altre definizioni includono l’invio, oltre che di video ed immagini, anche di messaggi di testo (Gassó et al., 2019). Col termine revenge porn s’intende invece la trasmissione di immagini sessualmente esplicite (precedentemente catturate col consenso della persona o da essa stessa inviate) a un pubblico più ampio senza il suo consenso (McKinlay & Lavis, 2020; L. 69/2019). In Italia, il revenge porn è stato dichiarato reato dalle legge n. 69 del 2019, meglio nota come Codice Rosso.

Il Deepfake, infatti, ha finito per avere un enorme impatto anche in ambiti come il sexting e il revenge porn, mettendo a repentaglio la dignità e la riservatezza delle persone (GPDP, 2020).

Che cos’è il porno deepfake?

Una delle possibili applicazioni è il cosiddetto Porno DeepFake, detto anche video deepnude: una scena erotica viene estratta da un film hard e si sostituiscono i volti dei porno attori con quelli di altre persone, per poi diffondere il contenuto in rete (ibidem). Le conseguenze, in questo caso, non sono da trascurare. Infatti, le ripercussioni sociali e psicologiche per le vittime non si discostano troppo da quelle osservate nei casi di vittimizzazione da revenge porn, soprattutto quando il fotomontaggio è particolarmente credibile. Il DeepFake, infatti, ha ormai raggiunto un livello di sofisticatezza tale che è difficile distinguere l’autenticità del video attraverso il rilevamento automatico o manuale (Zhang et al., 2020).

Quali sono le ripercussioni psicologiche?

Samantha Bates nel 2016 ha pubblicato uno studio dove ha analizzato le ripercussioni psicologiche in un campione di donne vittime di revenge porn. Gli esiti riscontrati sono andati dalla perdita di fiducia nelle relazioni fino ad arrivare all’ideazione suicidaria, passando per depressione, ansia e disturbo da stress post-traumatico (PTDS). I risultati di questo studio hanno mostrato notevoli somiglianze con le conseguenze psicologiche della violenza sessuale, intesa proprio come assalto fisico (sexual assault).

Il vademecum del GPDP

Il Garante per la protezione dei dati personali (GPDP), verso la fine del 2020 ha emesso una scheda informativa per allertare sui rischi dell’uso malevolo di questa tecnologia. Nel vademecum in questione, l’Autorità Garante evidenzia come il DeepFake possa configurarsi, innanzi tutto, come una grave forma di furto dell’identità. Le vittime potrebbero, infatti, trovarsi rappresentate in contesti mai frequentati e in comportamenti mai messi in atto, come anche fare discorsi e dichiarazioni che non hanno mai avuto luogo (poiché il DeepFake si può applicare anche ai contenuti audio).

I Porno DeepFake possono essere utilizzati, a totale insaputa dei soggetti rappresentati, anche per alimentare la pornografia illegale e la pedopornografia (GPDO, 2020). A quest’ultimo riguardo, va sottolineato che il codice penale italiano stabilisce che i reati di pornografia minorile e di detenzione di materiale pedopornografico si configurano pure quando le immagini sono “realizzate con tecniche di elaborazione grafica non associate in tutto o in parte a situazioni reali, la cui qualità di rappresentazione fa apparire come vere situazioni non reali” (art. 600-quater.1 c.p.). Perciò, in Italia, quando il Porno DeepFake coinvolge soggetti minori, rientrerebbe nel reato di pedopornografia minorile e/o detenzione di materiale pedopornografico. Tuttavia, quando le persone coinvolte sono maggiorenni, il codice penale sembrerebbe non prevedere (ancora) specifiche fattispecie di reato.

Nonostante il vuoto normativo che emergerebbe dalla lettura del codice penale, va evidenziato che le Autorità di protezione dei dati personali possono intervenire per sanzionare le violazioni della normativa in materia di protezione dati e che il Garante, nella sua scheda informativa emessa nel dicembre 2020, ha esplicitato una serie di comportamenti da osservare, volti a prevenire e contrastare i casi di vittimizzazione conseguenti alla diffusione di contenuti DeepFake (GPDP, 2020).

Deepfake: come prevenire?

Di seguito, ecco alcuni suggerimenti indicati dall’Autorità Garante all’interno del vademecum (2020):

  • Evitare la diffusione indiscriminata di immagini personali o dei propri cari sui social network.
  • Conoscere e riconoscere gli elementi che possono far presumere di trovarsi in presenza di un DeepFake, ad esempio un’immagine pixellata, un movimento innaturale delle palpebre, un’anomalia nelle luci e ombre del video o la deformazione della bocca del soggetto che parla. A questo proposito, va detto che alcuni DeepFake sono così raffinati che spesso è molto complicato riconoscerli. Perciò, i ricercatori hanno messo a punto algoritmi altrettanto sofisticati, allo scopo di individuare i contenuti non reali e arginarne l’utilizzo malevolo, così come le grandi imprese del digitale stanno formando team specializzati nel monitoraggio e nel contrasto del fenomeno (GPDP, 2020).
  • Segnalare il presunto DeepFake alla piattaforma che lo ospita ed evitare di condividerlo.
  • Se si ritiene che il DeepFake sia stato utilizzato in modo tale da configurare un reato o una violazione della privacy, rivolgersi alle autorità (come la Polizia postale o lo stesso Garante per la protezione dei dati personali).

In conclusione, l’utilizzo distorto di certi tipi di tecnologia che sfruttano l’intelligenza artificiale rappresenta un serio rischio nell’ambito della cyber victimization, come dimostrano i fenomeni del revenge porn, del cyberbullismo e del sextortion (la parola sextortion è la fusione delle parole inglesi sexual – sessuale – e extortion – estorsione,  con essa si intende la minaccia di distribuire materiale intimo e sessuale a meno che la vittima non rispetti determinate richieste, O’Malley & Holt, 2020). Tale rischio si estende anche all’ambito del cyber crime, come dimostrano i fenomeni dello spoofing (il furto di informazioni che avviene attraverso la falsificazione di identità di persone o dispositivo, in modo da ottenere la trasmissione di dati, GDPD, 2020), del phishing (tecnica comunemente utilizzata per ottenere informazioni riservate tramite azioni di furto dell’identità, Rendall et al., 2020) e altri fenomeni ancora. Non va poi tralasciato il problema delle fake news (cioè le notizie false) e dell’impatto sulla libertà decisionale dell’individuo (ibidem). La buona notizia è che i ricercatori, i social network, i motori di ricerca e altre figure come, in Italia, il Garante per la protezione dei dati personali, si sono già attivati allo scopo di contenere il fenomeno e ridurne l’incidenza.

Oltre la personalità. Dialettica sistemica e sviluppo borderline – Recensione del libro

Questo testo dedicato al disturbo borderline di personalità parte dalle criticità del trattamento spesso connesse alla complessità di tale disturbo. Il disturbo borderline viene così affrontato dall’autore in modo approfondito e grazie anche a numerose evidenze empiriche.

 

Lo sviluppo della personalità è strettamente dipendente da azioni che consentono l’apprendimento di capacità e la conseguente messa in atto di esse, sia nella sfera della vita privata sia in quella della vita sociale. Parlare di personalità significa infatti parlare del tempo e del modo in cui l’interazione tra i fattori individuali e ambientali governa i processi evolutivi, tenendo ovviamente conto delle variabili individuali.

Considerando che ciascuno è portatore di un proprio punto di vista e che, di conseguenza, nessuno è portatore della “verità” assoluta, Il processo di costruzione della verità è dunque continuo e non arriva mai a una stabilità “oggettiva”. È quindi fondamentale che terapeuta e paziente si chiedano costantemente che cosa sia stato lasciato al di fuori della loro rappresentazione della realtà. La certezza che qualcosa è stato ignorato impedisce di cadere in una percezione falsamente oggettiva, ossia in un autoinganno. Il disturbo Borderline consisterebbe quindi in fallimenti dialettici sistematici.

La Dialectical Behavior Therapy (DBT) ritiene che la personalità borderline sia appunto il risultato di un fallimento dialettico, presupposto coerente con la psicopatologia dello sviluppo, la teoria dei sistemi evolutivi e i recenti risultati della ricerca empirica. Questi ultimi riguardano soprattutto la natura della vulnerabilità emozionale, della vulnerabilità interpersonale, e mostrano come la divisione tra biologia e ambiente possa essere unificata da una prospettiva sistemica. La dialettica andrebbe quindi ad appianare i contrasti tra i vari fattori psicologici, ambientali e sociali intrinsecamente connessi tra loro.

Questo diviene il presupposto per migliorare l’adattamento della persona. Il mondo alienato è invece quello in cui il soggetto, a partire dalle sue relazioni umane, non trova altro fondamento costitutivo se non in sé stesso, rispetto a una realtà esterna cui è estraneo e, peggio ancora, che lo estrania. L’alienazione può esprimersi a vari livelli, a partire dal soggetto rispetto alla famiglia, alle relazioni affettive, alle persone vicine, alla società in generale e all’ambiente naturale. Anche quando la persona fa parte di un gruppo, resta in qualche modo condannata a rimanere isolata, perché è nella sua più intima natura, ontologica, che sa di essere sola, esclusa ed isolata.

Secondo una prospettiva riguardante le parti e la totalità, nonché la relazione di esse, ciò che costituisce le parti è definito dall’insieme considerato. Inoltre, le parti acquisiscono proprietà in virtù dell’essere appartenere a un particolare intero, proprietà che non hanno senso prese separatamente o come parti di un’altra totalità. La totalità non è propriamente più della somma delle sue parti; sono le parti che acquisiscono nuove proprietà. Quando le parti acquisiscono proprietà stando insieme, generano nuove proprietà nella totalità e queste si riflettono a loro volta nei cambiamenti nelle parti, e così via. Parti e totalità evolvono in conseguenza della loro relazione e la relazione stessa evolve. Una cosa non può esistere senza l’altra: una acquisisce le sue proprietà grazie alla sua relazione con l’altra e le proprietà di entrambe evolvono come conseguenza della loro compenetrazione. Parte e totalità hanno quindi una relazione speciale tra loro, in quanto una non può esistere senza l’altra, non più di quanto “su” possa esistere senza “giù”.

Un’ampia parte del testo inoltre viene dedicata a dati scientifici che spiegano le differenze del campione di persone con disturbo borderline e le significative differenze di genere. Secondo gli studi, come spiega l’autore, si potrebbe propendere per l’ipotesi di un disturbo caratterizzato da “una deflessione del sistema di appraisal”. Viene messa in luce l’elevata emozionalità negativa a riposo delle persone con disturbo borderline facendo indirettamente riflettere sulla diagnosi differenziale. Vengono inoltre spiegate le aree cerebrali maggiormente implicate in tale patologia, a partire dall’amigdala e dall’ippocampo.

Si tratta di un’approfondita analisi che può aiutare i terapeuti che si occupano di disturbo borderline di personalità a una migliore comprensione di tale funzionamento, pur considerando la variabilità del disturbo e la comorbilità con altri disturbi della personalità stessa. In sintesi: l’obiettivo è di porre la personalità borderline al centro della complessità delle variabili che la determinano, togliendo la singola persona dalla solitudine in cui la pone una semplice definizione diagnostica.

 

L’autocontrollo: non una mera questione di inibizione di impulsi

L’autocontrollo di tratto presuppone la presenza di un “sé attivo”, che sia in grado di dare priorità agli obiettivi a lungo termine, rispetto a quelli a breve termine, nonostante questi ultimi forniscano una gratificazione immediata.

 

L’autocontrollo viene generalmente definito come la capacità di inibire comportamenti indesiderati, in virtù del perseguimento di obiettivi a lungo termine (Metcalfe & Mischel, 1999). A livello disposizionale, l’autocontrollo di tratto presuppone la presenza di un “sé attivo”, che sia in grado di dare priorità agli obiettivi a lungo termine, rispetto a quelli a breve termine, nonostante questi ultimi forniscano una gratificazione immediata (Baumeister et al.,1998). Essere in grado di rinunciare al piacere istantaneo, in favore di obiettivi più gratificanti, è considerata una tendenza cruciale nell’evoluzione umana (Tangney, Baumeister, & Boone, 2004).

Molti studi hanno dimostrato che la presenza di un basso autocontrollo di tratto determina una vasta gamma di problemi individuali e sociali, compresa l’obesità (Tsukayama et al., 2010), la procrastinazione (Steel, 2007), l’abuso di sostanze (Baumeister & Heatherton, 1996) e il comportamento delinquenziale (Gottfredson & Hirschi, 1990). D’altro canto, coloro i quali possiedono alti livelli di autocontrollo riscontrano molteplici benefici, tra cui migliori prestazioni nei diversi ambiti di vita (De Ridder et al., 2012), un maggior benessere e livelli più elevati di soddisfazione personale (Hofmann et al., 2013).

Dunque, mentre i vantaggi derivanti dall’astenersi da comportamenti indesiderati (ma spesso piacevoli) sono abbastanza ovvi quando in gioco vi sono obiettivi a lungo termine, è più difficile comprendere come la mera inibizione degli impulsi possa di per sé favorire il benessere.

Attraverso una revisione sistematica, alcuni autori si sono proposti di scardinare “l’ipotesi puritana” che associa l’autocontrollo unicamente all’inibizione degli impulsi, chiarendo come il conseguimento degli obiettivi a lungo termine – e dunque il raggiungimento del benessere – non dipenda unicamente da comportamenti inibitori.

È bene sottolineare come chi possiede alti livelli di autocontrollo di tratto, altro non ha che la capacità di affrontare un dilemma, ovvero una scelta tra una ricompensa immediata ed una ritardata del tempo. La gestione di tale dilemma, però, può comportare differenti opzioni, tra cui l’inibizione di un comportamento indesiderato (come mangiare cibi grassi), l’avvio di un comportamento desiderato (come mangiare alimenti sani) o, ancora, una combinazione di entrambi.

Inquadrare l’autocontrollo come la capacità di affrontare un dilemma offre l’opportunità di enfatizzare sia la classica componente inibitoria, sia la sua componente inizializzante. Sono le stesse evidenze sull’autocontrollo di tratto (Hoyle & Davisson, 2016), che soventemente vengono dimenticate, ad aver dimostrato come esso presupponga sia componenti inibitori che di iniziazione. Difatti, quando si persegue un obiettivo a lungo termine come l’essere snelli e sani, spesso non è sufficiente astenersi semplicemente dai comportamenti indesiderati, ma è altrettanto importante che il comportamento desiderato venga messo in atto. Analogamente, non sgridare i propri figli non implica di per sé essere dei genitori amorevoli.

La distinzione tra iniziazione e inibizione costituisce quindi l’aspetto centrale dell’autocontrollo. Nel caso del benessere, la componente iniziatica dell’autocontrollo può rivelarsi ancora più importante perché è stato dimostrato che lottare per risultati positivi aumenti il benessere (Brunstein, 1993) ma la semplice inibizione può compromettere negativamente quest’ultimo (DeNeve & Cooper, 1998).

Dunque, per poter comprendere come l’autocontrollo sia legato al benessere, sarebbe meglio considerare anche la componente iniziatica dell’autocontrollo stesso.

Dalla definizione dell’autocontrollo di tratto come capacità di rinunciare agli impulsi immediati, concentrandosi su obiettivi a lungo termine, si potrebbe ipotizzare che la vita delle persone con un alto livello di autocontrollo non sia molto divertente. A sostegno di questa ipotesi, alcune ricerche hanno dimostrato che gli individui con un alto livello di autocontrollo possono sperimentare una minor spontaneità ed estroversione (Zabelina, Robinson & Anicha, 2007) e una intensità emotiva giornaliera limitata (Layton & Muraven, 2014).

Tuttavia, altri studi hanno messo in luce il reale meccanismo sottostante l’associazione tra autocontrollo e benessere. Le ricerche di Hofmann e colleghi (2013) hanno mostrato come le persone con un elevato autocontrollo non si preoccupino troppo di resistere alle tentazioni che potrebbero far tentennare i loro obiettivi a lungo termine e trovino persino piacere nell’essere disciplinati.

Difatti, questi individui sono meno soggetti a cadere in tentazione nel loro ambiente quotidiano, in quanto strutturano strategicamente la loro vita allontanandosi dai vizi stessi e, dunque, non inibiscono i comportamenti nella stessa misura in cui lo fanno coloro i quali presentano un basso autocontrollo (Hofmann et al., 2012).

In linea con quanto appena detto, lo studio di Cheung e colleghi (2014) ha mostrato come gli individui con un elevato autocontrollo di tratto sono più orientati a trovare strategie per raggiungere i loro obiettivi, piuttosto che essere preoccupati di evitare opportunità che potrebbero impedire il raggiungimento dei suddetti. Questi risultati danno sostegno all’idea che l’associazione tra autocontrollo e benessere comporti per lo più l’avvio di comportamenti desiderati, piuttosto che la mera rinuncia dei piaceri momentanei.

Se, dunque, le persone con un alto livello di autocontrollo sono più felici perché si impegnano di più in attività dirette all’obiettivo, la domanda successiva è: come riescono a farlo in un mondo pieno di tentazioni che entrano in conflitto con gli obiettivi a lungo termine?

A ciò va aggiunto che le persone raramente sperimentano il lusso di essere impegnate in un solo obiettivo alla volta e spesso hanno obiettivi multipli che possono entrare in conflitto.

Esiste un ampio corpus della letteratura che dimostra che l’utillizzo di routine aiuti le persone a mettere in atto comportamenti desiderati senza alcun tipo di sforzo. Difatti le abitudini, basandosi sull’automaticità piuttosto che sulla deliberazione, determinano un minor affaticamento e consentono ai soggetti di impiegare le proprie energie sulla messa in atto dei comportamenti adattivi.

Sembra, dunque, che la differenza cruciale tra le persone con alto e basso autocontrollo non risieda in una capacità innata di inibire gli impulsi ma, piuttosto, in alte routine adattive e basse routine disadattive (Mann et al., 2013).

Sulla base di quanto appena esposto, è possibile affermare che l’essere in grado di impegnarsi nel perseguimento di un obiettivo è facilitato dalla messa in atto di abitudini: piuttosto che essere impegnati a sopprimere gli impulsi indesiderati, che prosciugherebbero le risorse di autocontrollo portando al fallimento dell’autocontrollo stesso, un alto autocontrollo è una questione di routine adattive, che a sua volta lascia più spazio al perseguimento di obiettivi e al raggiungimento del benessere.

 

Ritratti di coppia con terapeuta. La terapia Breve Strategica con le coppie (2021) di Massimo Bartoletti e Marco Pagliai – Recensione del libro

Ritratti di coppia con terapeuta affronta ed illustra il complesso e articolato processo della terapia di coppia, designandone gli aspetti centrali del processo terapeutico, per entrare poi nel vivo di quattro storie di coppie in terapia

 

Ritratti di coppia con terapeuta, un testo scritto a quattro mani da Massimo Bartoletti e Marco Pagliai che affronta ed illustra il complesso ed articolato processo della terapia di coppia, designandone nella prima parte del testo, gli aspetti centrali del processo terapeutico per gli addetti ai lavori, per entrare poi, nella seconda parte del testo, nel vivo di quattro storie di coppie in terapia e dove gli autori ci sveleranno relative tecniche e strategie terapeutiche, per condividere con il lettore “i trucchi del mestiere”.

Parlare di terapia di coppia

Significa entrare nelle storie delle persone ed aiutarle a riprendere in mano quel copione che ad un certo punto non riesce più ad appassionare uno o entrambi gli attori coinvolti e che spesso, stancamente, continuano a recitare solo per onorare il contratto.

Così viene riportato dagli autori nell’introduzione del testo, che accompagnano poi il lettore tra le varie pagine che spiegano ed approfondiscono in modo chiaro e scorrevole, gli aspetti centrali di un intervento terapeutico, sottolineando la differenza che intercorre tra il lavoro sulla coppia, con uno solo dei partner o con la coppia dove entrambi i protagonisti della relazione si trovano attivamente coinvolti.

Nel lavoro con le coppie diventa importante per il professionista, riuscire ad individuare il senso dello stare insieme, il motivo della richiesta di aiuto e fare luce e chiarezza sull’obiettivo della coppia che si presenta per la prima volta in studio. Diventa importante saper padroneggiare l’arte del dialogo, curare tanto la relazione terapeutica quanto gli aspetti della comunicazione verbale e non verbale, riuscire ad individuare l’unicità di quei due mondi che si sono intrecciati, tutti aspetti che gli autori approfondiscono e spiegano in modo accessibile anche ai non addetti ai lavori.

Nell’ultima parte del testo verranno illustrati quattro ritratti di autore con terapeuta, quattro casi distinti tra loro per composizione della coppia, dinamiche relazionali e conflittuali e richiesta di aiuto.

Leggeremo di Carla e Paolo, caso intitolato dagli autori La solitudine in coppia, Giovanna e Fausto, Una seconda vita, Anna e Mauro, I due duellanti ed infine il caso di Paola e Chiara, dal titolo L’altro genitore.

Ognuno di questi viene descritto nelle vari fasi dell’intervento terapeutico, fornendo anche una precisa descrizione delle strategie terapeutiche che verranno di volta in volta scelte e prescritte secondo le criticità da affrontare.

Un testo che consente un contributo arricchente per gli addetti ai lavori ed una possibilità di riconoscere, anche in parte, sfumature più o meno incisive di ognuno di noi, del nostro modo di vivere la coppia e dello stare insieme, ricordando sempre che anche il singolo può essere promotore di cambiamento per la coppia, ma poiché cambiare non è sinonimo di cambiare sempre in meglio, diventa utile anche capire e saper riconoscere quando chiedere aiuto.

 

 

Le preferenze musicali rivelano la nostra personalità – Psicologia e Musica

E’ probabile che la scelta di un certo tipo di musica dipenda anche dal messaggio che si vuole inviare agli altri, dal modo in cui si vuole essere visti.

 

Sappiamo che la musica ci circonda, che ci coinvolge e ci emoziona. Ma se è indubbio questo suo valore universale, va considerato che la musica viene anche vissuta da ciascuno di noi in modo assolutamente personale. Questo perché, ad influenzare il nostro rapporto con essa, entrano in gioco fattori individuali: i gusti personali.

Perché alcune musiche ci piacciono mentre altre le troviamo insopportabili? Perché piacciono ad altri e non a noi? Oppure viceversa? Cosa determina i nostri gusti?

La valutazione passa dalle nostre esperienze

Come ci spiega il libro Psicologia della musica, nell’ascoltare un brano il nostro cervello effettua immediatamente una valutazione del brano stesso esaminando le informazioni che gli arrivano e che assumono significati diversi a seconda di chi siamo, delle esperienze che abbiamo fatto, del livello di conoscenza musicale che abbiamo e via dicendo.

Oltre ad ascoltare il ritmo, la melodia, gli strumenti impiegati nell’esecuzione e la voce del cantante, entrano in gioco fattori che dipendono dalla nostra identità personale. Questa consiste nella rappresentazione che abbiamo di noi nel mondo e si manifesta attraverso la nostra personalità. Essa racconta la storia della nostra vita, il percorso che abbiamo fatto, le persone che abbiamo avuto vicino, le situazioni che abbiamo vissuto e ci porta ad avere un certo modo di pensare che, a sua volta, condiziona le nostre scelte a tutti i livelli, anche sul piano musicale.

Ognuno di noi ha una personalità e delle reazioni fisiologiche che lo portano ad apprezzare un certo tipo di musica e a non gradirne un altro. Non esistono generi musicali migliori o peggiori in assoluto, esistono solo personalità diverse con diverse preferenze, influenzate anche dal contesto sociale in cui si trovano e da altri elementi quali per esempio le esperienze fatte da bambini, che possono indirizzare un certo tipo di musica e un certo tipo di ricerca emotiva.

Normalmente, quando si sente una canzone, bastano pochi secondi per classificarla con un mi piace o non mi piace ma di rado questo giudizio si basa su valutazioni artistiche o tecniche: dipende piuttosto dall’istinto, dalla nostra personalità e identità.

Le nostre scelte musicali parlano di noi

Come abbiamo visto, è certo che le scelte personali subiscono anche l’influenza dell’ambiente circostante, dei contesti sociali in cui si vive, oltre che delle predisposizioni individuali, proprie di ciascun individuo.

Le musiche che scegliamo diventano in un certo senso un biglietto da visita che comunica agli altri qualcosa di noi. Per contro, identificarci in un genere ci fa sentire parte di un mondo che condivide quelle idee e quei valori dandoci modo di confermare la nostra identità personale.

Se ad un certo tipo di musica, e di conseguenza a chi la ascolta, vengono associate determinate caratteristiche, è probabile che la scelta di un certo tipo di musica dipenda anche dal messaggio che si vuole inviare agli altri, dal modo in cui si vuole essere visti.

La musica riveste anche la funzione di regolare le emozioni nella vita di tutti i giorni, personalità e intelligenza possono pertanto determinare il tipo di utilizzo, il modo in cui viene scelta e le aspettative collegate all’ascolto. Da una persona considerata intellettuale e riflessiva ci si aspetta che utilizzi la musica in modo razionale invece che emotivo utilizzando livelli più alti di elaborazione cognitiva. Possiamo facilmente pensare che sarà orientata verso musica classica o jazz dalle quali ci si aspettano stimolazioni intellettuali più complesse.

Sempre studiando le influenze caratteriali, si è scoperto come per gli estroversi la musica serva per esempio ad alzare il livello di eccitazione quando si trovano impegnati in compiti noiosi e ripetitivi (dallo studio alle faccende domestiche, allo sport), mentre negli introversi finisce per rappresentare spesso un’interferenza con altri processi cognitivi in atto.

Lo studio degli aspetti psicologici collegati all’ascolto della musica si è sviluppato soprattutto nell’ultimo decennio. Musicologia, psicologia e neuroscienze si sono recentemente interessate ai meccanismi che vengono coinvolti nello sviluppo delle preferenze musicali. Sono stati individuati parametri interni alla musica, quali tempo, modalità o complessità, e parametri esterni, come età, genere, personalità o educazione dell’ascoltatore, oltre a diversi tipi di musica che svolgono funzioni differenti, come abbiamo visto all’inizio del capitolo precedente.

Preferenze musicali e personalità

Il rapporto tra musica e personalità è stato studiato in una ricerca condotta dall’Università di Cambridge per spiegare come i fattori caratteriali e psicologici siano in grado di influenzare le nostre scelte musicali. Il primo dato interessante che è emerso è che le persone ascoltano un certo tipo di musica perché ne sono consapevolmente attratte, perché in quel modo desiderano comunicare un certo tipo di informazioni su loro stesse.

Allo stesso modo, la musica che ascoltano gli altri diventa un elemento che utilizziamo per formulare un giudizio su di loro in base a degli stereotipi che ci siamo creati sulle caratteristiche associabili ad ogni genere di musica.

Le scelte musicali di ciascuno di noi forniscono preziosi elementi sui nostri gusti al punto che alcune piattaforme come Spotify le utilizzano anche per proporci suggerimenti di acquisto delle tipologie più disparate che, in base appunto alle nostre scelte, dovrebbero avvicinarsi a quelli che sono i nostri gusti in campo alimentare, di viaggi, di letture e molto altro.

Gli stili di pensiero delle persone sono stati divisi dai ricercatori di Cambridge in tre categorie:

  • gli empatisti: coloro che nutrono un forte interesse per i pensieri e le emozioni delle persone;
  • i sistemisti: che hanno un forte interesse per i modelli, i sistemi e le regole che governano il mondo;
  • gli equilibrati: che occupano una via di mezzo tra le due posizioni precedenti.

Addirittura il 95% delle persone rientrerebbe in una di queste categorie che potrebbero essere utilizzate non solo per prevedere quali saranno i loro i gusti musicali ma anche per indirizzare scelte quali il tipo di studi da intraprendere.

È stata fatta una ricerca su un campione di oltre 4.000 partecipanti ai quali è stato chiesto di ascoltare un massimo di 50 estratti musicali di generi diversi e di esprimere le loro preferenze. Da qui si è scoperto che gli empatisti mostravano una preferenza per i generi più dolci, malinconici e con un’emotività profonda (soft rock e cantautori); i sistemisti preferivano la musica più intensa e complessa, con profondità intellettuale (hard rock, punk e heavy metal); gli equilibrati tendevano a preferire quella musica che si estende su più di una gamma.

Gli stessi studiosi, in una successiva ricerca, hanno selezionato 7.000 partecipanti suddividendoli in cinque gruppi basati sui seguenti tratti della personalità (Imm. 1):

  • apertura mentale: creativi, hanno una mente aperta, sono predisposti a sperimentare novità;
  • coscienziosità: amano ordine e routine, sono affidabili e orientati al raggiungimento di un risultato;
  • estroversione: loquaci e socievoli, attingono la loro energia dallo stare con gli altri;
  • empatia: affettuosi e degni di fiducia, sono modesti e tendono ad evitare i conflitti;
  • stabilità emotiva: sicuri di sé, non sono facili prede di rabbia e ansia.

Musica e personalita cosa influenza scelte e gusti musicali Psicologia Imm 1

Imm. 1: Tratti della personalità

È risultato che persone con forte preferenza per musica classica e jazz tendono ad avere tratti della personalità associati con apertura, creatività, fantasia e capacità verbale. Chi ascolta musica popolare è più socievole e loquace, ma tende ad avere idee convenzionali e ad essere intollerante. Nella musica pop rock, soul e R&B si identificano prevalentemente i romantici e chi è in cerca di relax. Punk, rock, heavy metal e tutta la musica intensa, sempre secondo i ricercatori, è ascoltata e amata da chi vuole caricarsi per sfidare un ambiente circostante ritenuto ostile.

Rivelando i tratti della personalità, i gusti musicali sono anche in grado di predire le capacità musicali di ciascuno.

L’apertura mentale è la caratteristica che più identifica una predisposizione musicale e caratterizza persone con una vasta gamma di interessi e aperte alla sperimentazione. Al contrario, chi è caratterialmente più chiuso tenderebbe a preferire la routine e valori più convenzionali.

Da notare anche che gli estroversi, che risultano essere più loquaci, dimostrano spesso anche una maggiore capacità canora.

Scopri i tuoi tratti musicali

Attraverso il progetto chiamato Musical Universe, David Greenberg, psicologo dell’Università di Cambridge, si pone come obiettivo quello di migliorare l’impatto della musica sulle persone e sulla società. Per fare questo utilizza i big data in risposta a domande chiave su musica, scienza e psicologia. I big data consistono in una raccolta di dati estesi in termini di volume, velocità e varietà resa possibile da tecnologie e metodi analitici complessi. Da queste informazioni fornisce alle persone di tutto il mondo rapporti scientifici sui loro tratti musicali interiori con raccomandazioni ed esercizi che si adattano al loro profilo personale.

Da qui nasce iI modello MUSIC (Imm. 2). Le preferenze della gente per un genere specifico possono essere replicate all’interno dei generi e organizzate nelle dimensioni MUSIC (sigla che deriva dalle iniziali dei generi) che si compone così:

  • mellow, musica melodiosa: pop, soul ecc.;
  • unpretetious, senza pretese: popolare e tradizionale;
  • sophisticated, sofisticata: jazz e classica;
  • intense, intensa: rock, metal, punk, rap;
  • contemporary, contemporanea.

Musica e personalita cosa influenza scelte e gusti musicali Psicologia Imm 2

Imm. 2: Modello MUSIC

Per esempio, le preferenze per la musica rock possono essere suddivise in preferenze per il Mellow rock, Unpretentious rock, Sophisticated rock, Intense rock e Contemporary rock. Ne deriva per esempio che preferenze per Intense, caratterizzato da picchi musicali, si riscontrano in modo particolare nell’adolescenza e coincidono con fasi ribelli e formazione dell’identità.

Un test per scoprire la nostra personalità

Per scoprire il proprio punteggio su abilità musicali, preferenze e personalità, è stato studiato un apposito test a disposizione di tutti che fornisce due valutazione sulla base di 25 domande a cui si è invitati a rispondere. Le prime 10 si riferiscono ai tratti della personalità e presentano delle coppie di aggettivi. Utilizzando una scala di valutazione proposta, si dovrà indicare quanto questi corrispondano alla propria personalità.

Le successive 25 consistono in esperienze musicali. Viene proposto l’ascolto di altrettanti brani musicali per i quali dovrà essere indicato il livello di gradimento. Si tratta di brani con i quali non si dovrebbe avere familiarità, selezionati da esperti dell’industria musicale per rappresentare caratteristiche specifiche dei diversi tipi di musica

Il punteggio ottenuto si basa sulla comparazione di dati raccolti su 250.000 persone di 100 diverse nazioni e, per chi vorrà cimentarsi nell’esperimento, alla fine sarà data la possibilità di decidere se mettere a disposizione della ricerca le informazioni fornite e contribuire così in prima persona alla raccolta dei dati.

Essere un talento in azienda? Si, se ti trovi nel posto giusto al momento giusto

Ci riferiamo ad un talento quando parliamo di una persona che, messa nelle giuste condizioni, in una data azienda e in un dato momento storico, ha una performance superiore alla media, rispetto al business nel quale è coinvolto, e ha una buona espressione dei comportamenti ritenuti chiave dall’azienda nella quale si trova, in un dato momento.

Silvia Mancuso – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

La psicologia del lavoro fa risalire la gestione aziendale dei talenti al 1998, quando il termine talento viene coniato da David Watkins di Softscape e pubblicato in un suo articolo. Potete quindi immaginare quanto sia breve la sua storia, la quale inizia a prendere piede nei contesti organizzativi solo negli anni ’90.

La gestione del talento è un processo che cominciò ad essere adottato dal momento che molte organizzazioni si resero conto che i loro migliori lavoratori, con le loro abilità, potevano portare successo al loro business aumentandone i profitti. Prima di allora era possibile accedere ad una crescita aziendale soprattutto grazie agli anni di esperienza ma raramente vi era un diverso sistema di valutazione del potenziale. Si pensava poi che la leva, che più di tutti riusciva ad ingaggiare il personale, fosse la garanzia di una crescita economica e di livello contrattuale. Questo sprint era però a termine e non garantiva un coinvolgimento futuribile.

In questa prospettiva si decideva di puntare su un singolo dipendente, pagando la demotivazione dei più che si ritrovavano a dover accettare che il loro sistema non li considerasse profili di potenziale. Nell’ultimo periodo le aziende hanno smesso di guardare agli anni di esperienza e decidono di puntare su profili con attitudini particolari. La modalità è economica: aspettando che questi emergano dal contesto, rispetto ad altri dipendenti, scegliendo di investire su coloro che faranno la differenza e che potrebbero portare valore al business.

Il talento

Quando si parla di talento si intende una predisposizione innata che si può manifestare in una o più aree della vita di una persona, presente in ognuno di noi. È possibile vedere una persona talentuosa eseguire un compito ottenendo risultati migliori, se confrontanti con quelli di altri con le stesse possibilità e che si trovano in una medesima situazione.

I talenti capaci di alte prestazioni possono dimostrare abilità intellettuali, oppure attitudini creative e/o accademiche, leadership oppure spirito di squadra: qualsivoglia compito o gestione di una situazione che permette loro di avere eccellenti risultati rispetto quelli di altri, nelle medesime condizioni.

Affinché si ottengano risultati elevati, non è necessario avere un talento. A volte si tratta di una predisposizione verso una certa attività, o verso dinamiche interpersonali. Una capacità naturalmente posseduta, ancora più profonda di una attitudine.

Molte persone ne possiedono uno, o più di uno, ma non hanno mai avuto modo di realizzarlo poiché sono il contesto e gli aspetti motivazionali che ne permettono la realizzazione.

Tale caratteristica talentuosa può essere presente in ognuno di noi e può essere scoperta solo in un dato contesto e momento storico.

Il talento in azienda

Un’azienda che prende consapevolezza di quanto detto potrà percepire tutti i lavoratori come una risorsa centrale per il proprio business. In questi casi si ha a che fare con una sofisticata cultura aziendale che punta sull’evoluzione della vita organizzativa e sul rapporto tra motivazione e contesto.

Per poter riconoscere un talento è necessario avere consapevolezza della sua esistenza e creare degli strumenti basati sulla valutazione e sviluppo del personale. In tale scenario è possibile dare spazio ad ogni dipendente usando un approccio basato su un tipo di relazione che metta al centro le loro emozioni, pensieri e comportamenti portando alla luce il prodotto di credenze funzionali e disfunzionali che creano per lui motivazione e sofferenza nel tempo, a causa di aspettative disattese. Il dipendente deve quindi sentire di avere la possibilità, e l’opportunità, di portare fuori queste idee e queste emozioni affinché possano prendere un corretto senso, ottenere una spiegazione semplice che spesso coincide con il recupero del senso comune basato su una visione e su valori aziendali condivisi e reali (non solo dichiarati).

Secondo la teoria cognitivo-comportamentale è possibile notare delle distorsioni cognitive e delle rappresentazioni soggettive della realtà che generano malessere nell’individuo: non sono gli eventi a creare e mantenere sofferenza quanto l’influenza della struttura e della costruzione cognitiva dell’individuo (assunto di base di Epitteto).

Per ottenere dal singolo, o dal gruppo, il massimo livello delle proprie capacità prestazionali, è necessario operare in un contesto con una comunicazione orientata verso il senso di appartenenza e un allineamento tra i manager che operano un comportamento basato sui valori aziendali dichiarati. Sentirsi responsabili della creazione di un contesto e di un clima positivo è il primo presupposto per mettere i talenti nelle condizioni di lavorare bene e di potersi esprimere.

Il compito del leader è di motivare le persone a compiere sforzi extra, non contenere la loro creatività (Buratti, 2000). La fiducia da parte del proprio responsabile è determinante perché una persona ispirata possa avere successo. Ciò che serve maggiormente all’impresa innovatrice è la capacità di risolvere i problemi, caratteristiche che la tenacia e l’entusiasmo del leader possono contribuire a sviluppare.

Un responsabile che vede in un profilo di potenziale una minaccia, che non stima i propri collaboratori e le loro doti, che non dimostra di avere i valori aziendali non darà modo al sistema di riconoscere le proprie risorse. Lo stesso vale per un sistema che decide di investire solo su un determinato tipo di profilazione basato su un range di età, sesso e provenienza geografica.

Allo stesso modo penso delle tecniche di recruitment marketing, talent acquisition ed employer branding: è necessario che l’immagine che si decide di comunicare corrisponda ad una cultura reale.

Come riconoscere un talento

L’ufficio recruitment, come l’intero dipartimento risorse umane, in passato erano visti come l’area meno attendibile e prevedibile in termini di performance, soprattutto dagli uffici tecnici che avevano quantità di dati facilmente sottoponibili ad analisi. Negli ultimi anni l’uso di strumenti di valutazione standardizzati, all’interno del dipartimento HR, ha permesso di aumentare l’attendibilità ricercata, riuscendo a notare comportamenti predittivi circa l’ingaggio e il futuro percorso aziendale dei candidati e dei dipendenti. All’interno di un’organizzazione i metodi di ricerca e selezione di un talento rimangono spesso quelli classici ovvero, semplificando il processo: definizione delle caratteristiche ricercate, apertura di un processo di selezione e valutazione per ricercarne le caratteristiche ideali, un tipo di processo orientato verso l’esterno.

La prospettiva che vede il talento quasi fosse una star aziendale è un approccio obsoleto che genera un sistema di riconoscimento che sviluppa una cultura aziendale individualista e competitiva. Responsabilizza la selezione del personale perché si focalizza sulla ricerca spasmodica verso l’esterno sminuendo l’attenzione verso i dipendenti provocando un calo della motivazione e aumentando il tournover. In questo tipo di dinamica la formazione e lo sviluppo sono riservati solo a pochi mentre il prescelto è caricato della responsabilità di dover garantire sempre performance ad alto livello.

Tale visione statica delle capacità individuali non considera o promuove l’apprendimento e l’ottimizzazione delle competenze, ponendo un’eccessiva enfasi sulle persone senza considerare il sistema nel quale si vive.

L’approccio che preferisco considerare vede come talenti tutti i dipendenti e i futuri dipendenti di un’azienda. Questa visione presuppone una gestione del talento già presente in azienda, non una ricerca rivolta verso l’esterno. Questa visione si oppone alle teorie d’élite che valorizzano solo un gruppo di prescelti verso cui l’azienda decide di investire tramite formazione e percorsi di sviluppo.

In questo scenario i percorsi di sviluppo e di formazione dovrebbero essere garantiti a tutti i dipendenti tramite una strategia che li valorizzi, attenzionando la loro creatività (Vicari, S., Troilo, G.,1999) e offrendo all’azienda la certezza di avere dei lavoratori consapevoli delle loro competenze, delle loro doti e delle loro aree di miglioramento.

Nella guerra ai talenti è necessario considerare anche tali aspetti se si ha l’intenzione di non perderli in fase di reclutamento a causa di una cattiva reputation.

La gestione del talento

Riuscire a reperire profili di potenziale è sempre più difficile, ma lo è ancora di più trattenerli. Molte aziende stanno rispondendo a questa esigenza valorizzando il posto di lavoro, inserendo componenti attrattive, spesso dando più importanza all’apparenza rispetto che alla sostanza. Intendo dire che sicuramente un dipendente sarà attratto dal campo da basket, dalla mensa gratuita e dalla possibilità di fare smart working ma questo non basta se il contesto nel quale questi aspetti sono inseriti non permettono di essere messi nelle condizioni di poter lavorare a proprio agio.

Una volta trovato il profilo di potenziale bisogna quindi trattenerlo immaginando una quotidianità gestita da un sistema che vede nel reparto risorse umane un ente volto alla creazione di una collaborazione continua fra reparti. La collaborazione tra le parti contribuisce ad aumentare l’attendibilità delle competenze individuate in fase di selezione o in fase di valutazione del potenziale.

Per potersi esprimere nel migliore dei modi è necessario trovarsi in un contesto facilitante. Per tale motivo la collaborazione fra reparti diventa sempre più cruciale affinché si possa considerare la relazione professionale anche un modo per creare dei progetti non solo di business ma anche di crescita personale e professionale. Consapevole che non è ipotizzabile creare dei percorsi di sviluppo personalizzati perché non sarebbe efficiente in termini di costi, nasce comunque la necessità di realizzare programmi di gestione e di sviluppo differenziati e innovativi, al fine di motivare i lavoratori e trattenerli nell’organizzazione.

Stimolare la creatività in azienda

Se consideriamo la terapia cognitivo-comportamentale, le emozioni e i comportamenti delle persone vengono influenzati dalla loro percezione degli eventi. Non è la situazione in sé a determinare ciò che le persone provano, ma è piuttosto il modo in cui la interpretano.

Nella gestione del personale diventa cruciale capire qual è il modo distorto di pensare che influenza negativamente l’umore e il comportamento del singolo nel gruppo.

Mettendo in luce una valutazione realistica delle situazioni e il cambiamento che ogni persona vive nel suo percorso di vita sarà possibile ottenere un miglioramento dell’umore e del comportamento. Per ottenere un risultato a lungo termine è necessario modificare le credenze disfunzionali sottostanti attraverso l’addestramento a questo modo di pensare di tutto il personale aziendale.

La gestione del personale da parte dell’impresa dovrebbe quindi privilegiare la considerazione delle variabili umane osservando i dipendenti in relazione alla loro caratteristica primaria dell’essere persone e, quindi, come uomini e donne, dotati di intelligenze, sentimenti e caratteri, prima ancora che in relazione alla loro posizione organizzativa o contrattuale nei confronti dell’impresa e quindi funzionalistica al business. Così facendo si ha la possibilità di ottenere il meglio dalla forza lavoro.

In questo scenario la formazione e lo sviluppo dei dipendenti offre l’occasione di sviluppare non solo la consapevolezza di sé e dei propri pensieri ma stimola la creatività, offrendo tematiche di crescita, ad esempio su nuovi modi di porsi davanti una situazione lavorativa in base alla loro personalità e al personale modo di leggere le situazioni vissute.

La generazione di nuove idee fa parte della prospettiva cognitivista che vuole l’innovazione di un pensiero positivo contro i pensieri veloci che nascono da credenze personali (Buratti, 2020).

L’idea di base è che sia possibile fornire degli strumenti di valore ai dipendenti che diano loro maggiore consapevolezza di sé, dei loro pensieri veloci e di quelli non funzionali che generano atteggiamenti non adattivi. Nella relazione è possibile imparare a riconoscerli per sostituirli con pensieri e atteggiamenti più funzionali. Questo permetterà non solo una crescita personale, un aumento della creatività e della resilienza ma anche un senso di maggiore senso di empowerment (Piccardo, 1992; Dellacasa, Moncini, 2002; Nacamulli,1992; Ippolito, 2000; Conti, De Risi, 2001)

Il pensiero creativo (Plsek, 1997; Goldenberg, Mazursky, 2002) non si attua attraverso lo sprigionamento di energie creative disperse all’interno dell’impresa, ma è un semplice processo mentale mirato a generare nuove idee all’interno di una relazione di valore, rispetto a uno scopo preciso, ad un compito o una situazione più o meno ricorrente quale può essere il proprio lavoro.

Questo tipo di atteggiamento è presente nelle logiche proposte dal pensiero creativo, (Plsek, 1997; Goldenberg, Mazursky, 2002) dall’intelligenza emotiva (Goleman, 1997) o dal vecchio, ma sempre attuale, concetto di problem solving i quali producono innovazione.

La vecchia cultura ha sempre cercato di trovare dei metodi per evitare di stimolare la creatività dei dipendenti perché la generazione di nuove idee poteva essere sovversiva rispetto alle regole che sembravano governare un’organizzazione. Le possibili nuove proposte e le soluzioni innovative potevano minare il delicato equilibrio, figlio di una mentalità statica.

Molti studi dimostrano invece come il livello e le performance creative dell’intera impresa scaturiscono dall’interazione tra soggetti, anche non creativi, ed attiene alle modalità di rielaborazione ed utilizzo delle esperienze disponibili presso i singoli componenti dell’organizzazione attraverso l’incontro e lo scambio, sia formale che informale.

Vicari (Vicari, 1992) definisce imprese di successo quelle caratterizzate da elevati livelli di creatività individuale ed elevati livelli di creatività organizzative. Tali imprese sono quelle che fondano la propria strategia sull’innovazione e sulla capacità di fronteggiare il cambiamento, che riescono a stimolare la creatività dei singoli e a coniugarla con quella organizzativa. Lo sviluppo di pratiche finalizzate alla stimolazione della creatività all’interno dell’impresa risulta connesso con lo sviluppo di azioni organizzative mirate a far emergere i talenti e a valorizzarli. Una politica manageriale orientata alla creatività, infatti, consente di usufruire di tutta l’energia creativa disponibile presso l’impresa e di focalizzarsi sulla percezione dei segnali deboli presenti nelle potenzialità inespresse.

Le leve di intervento nello sviluppo del potenziale in azienda

Le leve d’intervento che le aziende dovrebbero utilizzare per dotarsi e sviluppare personale talentuoso sono tre: la selezione, la formazione e la ricompensa.

La selezione e le modalità di reclutamento variano in base alle posizioni aziendali da occupare e la politica aziendale dovrebbe partire sempre dal reclutare il personale interno puntando sul loro sviluppo. Tale processo di selezione è possibile se l’azienda annualmente si preoccuperà di sottoporre tutti i dipendenti ad una valutazione delle conoscenze, capacità/abilità e competenze, il cui esito è registrato in un gestionale che ne tenga traccia. A seconda delle necessità questo sistema garantirà la tracciatura di quelle competenze richieste e ricercate. Sarà ipotizzabile la possibilità di colmare eventuali lacune con la formazione.

La formazione sarà impartita sia nelle fasi di inserimento che negli stadi più avanzati. Non sarà centrata solo sul ruolo di destinazione. Come sostiene Bauman (2003) ci troviamo in una società liquida in continuo cambiamento e non possiamo pensare che i ruoli pensati per un’azienda in un dato perioda debbano rimanere tali.Si rende necessaria una visione del sistema azienda che agevola itinerari di sviluppo tramite job-rotation interfunzionali sia per offrire al dipendente una visione sistemica dell’azienda ma anche per rafforzare l’integrazione tra le diverse funzioni, inoltrela formazionie lo sviluppo delle soft skills quali ad esempio la comunicazione, la negoziazione o la gestione dei conflitti dovrebbe essere continua.

La ricompensa infine contribuisce a motivare e incentivare i dipendenti.

L’attenzione alla persona, alle sue capacità e l’offerta di un orientamento verso le scelte e le possibilità di sviluppo professionale permette un senso di coinvolgimento.

Non sarà più necessario parlare solo di ricompense economiche e di livello ma lo sviluppo personale, anche in una diversa funzione aziendale, sarà letto come occasione di sviluppo all’interno di un programma personale di miglioramento continuo che si prefigge di innalzare i propri livelli personali e ottenere un maggiore senso di empowerment (Piccardo, 1992; Dellacasa, Moncini, 2002; Nacamulli,1992; Ippolito, 2000; Conti, De Risi, 2001).

Queste leve dovrebbero essere inquadrate in un processo di comunicazione continua che dovrà coinvolgere il personale e soprattutto ascoltare la loro voce per ottimizzare il tiro. I dipendenti devono sempre essere aggiornati sulle strategie aziendali e non avere la percezione di trovarsi in un’ambiente statico e impersonale.

Il personale deve percepirsi come la risorsa di maggiore importanza perché creatore di valore che alimenta il successo dell’azienda, con la consapevolezza che il successo della loro organizzazione è anche di loro responsabilità. Favorire l’ingaggio, il senso di appartenenza e lo sviluppo dell’individuo vuol dire favorire anche il suo senso di responsabilità.

Conclusioni

Possiamo quindi dire che ci riferiamo ad un talento quando parliamo di una persona che, messa nelle giuste condizioni, in una data azienda e in un dato momento storico, ha una performance superiore alla media, rispetto il business nel quale è coinvolto, e ha una buona espressione dei comportamenti ritenuti chiave dall’azienda nella quale si trova, in un dato momento. La stessa persona, in un’altra azienda o in un diverso momento storico, potrà non essere considerata un talento.

Tutti quindi possiamo essere considerati profili di potenziale, con la giusta dose di fortuna nel trovarci nel posto giusto al momento giusto.

 

Rischio burnout per i genitori? Possibili effetti dello stress in famiglia

Le difficoltà e gli ostacoli quotidiani possono rappresentare una fonte significativa di stress, tanto che in alcune circostanze i genitori sono quasi sopraffatti dalle loro responsabilità educative e possono sperimentare un senso di sovraccarico emotivo, fino allo stato di Parental Burnout.

 

L’esperienza della genitorialità rappresenta una sfida continua, a volte resa particolarmente faticosa dalla originalità e complessità di ogni figlio e dalle numerose richieste di assistenza alle quali il genitore deve far fronte. Le molteplici difficoltà ed ostacoli quotidiani possono rappresentare una fonte significativa di stress, sia per l’adulto che per tutta la famiglia (Bornstein, 2002), tanto che in alcune circostanze i genitori sono quasi sopraffatti dalle loro responsabilità educative e, privi delle energie necessarie, sperimentano un senso di sovraccarico emotivo che si traduce in un impoverimento delle proprie risorse (Mikolajczak et al., 2018, b). Questa condizione è caratterizzata da sentimenti di ansia e di paura evocati dal ruolo di caregiver e può determinare una situazione di sovraccarico emotivo generata dall’incapacità del genitore di far fronte al numero e all’intensità delle esigenze dei figli (Bronte et al., 2010).

Situazioni di stress cronico possono predire uno stato di Parental Burnout, fenomeno che comprende tre aspetti essenziali: l’aggravio emotivo e fisico, che si traduce in una sensazione di stanchezza e di sovraccarico emotivo che fanno sentire il genitore quasi travolto dal proprio ruolo; l’allontanamento emotivo dai figli, che porta i genitori ad essere sempre meno coinvolti nell’educazione e nella relazione con loro, limitando le interazioni ad aspetti strumentali e funzionali e ponendo in secondo piano la dimensione emotiva; il senso di inefficacia genitoriale, che emerge con la consapevolezza di non essere in grado di gestire situazioni problematiche con i mezzi e la calma necessaria (Mikolajczak et al., 2018, b).

Il burnout genitoriale è associato ad una bassa autostima e ad una forte necessità di controllo e può essere predetto dalla presenza di aspettative eccessive o da richieste elevate. I genitori più esposti a tale condizione, generalmente, hanno forti investimenti emotivi nei confronti del figlio ed atteggiamenti tendenti al perfezionismo e spesso riconoscono quanto siano a volte irraggiungibili i loro obiettivi e di quanti ostacoli devono affrontare nel loro percorso (Le Vigouroux et al., 2017). Situazioni di forte aggravio emozionale e di stress possono stimolare in loro desideri di allontanamento e di fuga dal proprio ruolo attraverso la messa in atto di una serie di atteggiamenti finalizzati a distrarsi o allontanarsi da tale situazione come: fumare, bere alcolici, fare shopping compulsivo, consumare cibo in modo eccessivo o trascorrere molto tempo a lavoro, al telefono o su internet (Mikolajczak et al., 2018, a).

È esperienza comune sperimentare nel corso della propria vita una serie di eventi e di situazioni potenzialmente stressanti che possono avere un impatto sul benessere e sulla salute. La durata della vita, infatti, non è determinata solamente da una componente genetica e biologica, ma anche da una serie di elementi come lo stile di vita, la qualità delle relazioni, la cultura di appartenenza e tutti quei fattori che provocano o proteggono dallo stress (Cozolino, 2019).

Le sfide educative ed organizzative generate attualmente dalla pandemia hanno comportato per molti genitori non solo un senso di smarrimento e vissuti di malessere e di stress, ma anche la riscoperta di risorse e di capacità personali che la società deve saper promuovere e valorizzare.

Come rispondere a questa sfida? Quale, dunque, la strada da intraprendere? È auspicabile che ogni genitore impari ad agire preventivamente, riscoprendo come prerequisito fondamentale per prendersi meglio cura dei propri figli l’importanza ed i benefici della “cura di sé”. È purtroppo diffusa l’abitudine di considerare quest’ultima come sinonimo di egoismo o di scarsa attenzione al prossimo; al contrario, dare priorità al proprio benessere non solo permette di migliorare la qualità di vita, ma di affrontare con maggior successo le difficoltà e gli ostacoli che questa riserva.

L’obiettivo, quindi, è quello di imparare a prendersi cura di sé a partire dal corpo, dalla mente, dalle emozioni, dallo spirito, dal tempo e dalla compassione di sé.

 

Date Rape Drugs: le droghe da stupro, quali sono e come agiscono. È possibile difendersi?

In alcuni casi di violenza sessuale e stupro vengono utilizzate delle droghe, le “date rape drugs”, semplici da acquistare e da somministrare, che causano nelle vittime perdita di coscienza e incapacità di difesa, rendendole vulnerabili alla violenza.

 

La violenza sessuale è un fenomeno universale senza differenze di sesso, età, etnia o classe sociale, che provoca effetti devastanti sia a livello di salute fisica, sia a livello di salute mentale, a breve e lungo termine, come ad esempio: gravidanza indesiderata, le infezioni sessualmente trasmissibili e maggiore suscettibilità ai sintomi psichiatrici, in particolare alla depressione (Costa, Lavorato, Baldin, 2020). I dati ISTAT forniti dal Governo Italiano indicano che il 31,5% delle donne comprese tra i 16 e i 70 anni (quindi 6 milioni e 788 mila) ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: di cui il 21% ha subito una violenza sessuale e il 5,4% ha subito uno stupro o un tentato stupro (ISTAT). Alcuni casi di violenza sessuale e stupro si basano sull’uso della cosiddetta violenza sessuale facilitata dalla droga (DFSA), che causa nelle vittime perdita di coscienza e incapacità di difesa, rendendole vulnerabili alla violenza (Costa, Lavorato, Baldin, 2020). È un noto fenomeno, e sempre più diffuso, l’utilizzo di droghe semplici da acquistare, da utilizzare e da somministrare: vengono definite droghe da stupro, in inglese chiamate “date rape drugs”. Il termine date rape drugs è stato coniato per riferirsi appositamente alle sostanze utilizzate per intossicare e inabilitare potenziali vittime, rendendole ancora più vulnerabili alle aggressioni sessuali, ma soprattutto meno capaci di ricordare i dettagli e in alcuni casi la violenza stessa (Hindmarch e Brinkmann, 1999). In questa categoria rientrano ad esempio il Metaqualone, il Cloralio Idrato, il GHB o Acido Gamma-Idrossibutirrico, il Flunitrazepam e la Ketamina (Julien, Advokat, Comaty, 2012). Il Metaqualone era considerato un farmaco da stupro già negli anni ’70 in quanto l’effetto amnesico si manifestava a dosaggi inferiori a quelli necessari a causare incoscienza e incapacità. Il Cloralio Idrato viene spesso utilizzato in combinazione con l’alcol perché provoca un’intossicazione più grave con torpore e amnesia: questa mistura prende il nome di “Mickey Finn” e ha rappresentato un primo esempio di combinazione utilizzabile come droga da stupro. Il Flunitrazepam è una benzodiazepina importata illegalmente che causa sedazione e amnesia, specialmente se assunta con l’alcol: il risultato è simile al Mickey Finn. La droga più conosciuta sia come droga di abuso, sia come droga da stupro, è sicuramente il GHB (Acido Gamma-Idrossibutirrico): un potente deprimente del sistema nervoso centrale usato come anestetico generale da somministrare per via endovenosa, ora anche diffuso farmaco da abuso. Ha effetti disinibitori, afrodisiaci ed euforizzanti (Julien, Advokat, Comaty, 2012). Ciò che va sottolineato è che è incolore e inodore, presenta solamente un sapore leggermente salato che viene facilmente mascherato se sciolto in una qualsiasi bevanda. Sono necessarie piccole quantità di GHB e circa 10-15 minuti prima che provochi un rilassamento muscolare nella vittima, la quale si sente come se fosse “ubriaca” al punto da poter perdere conoscenza. Inoltre, dal momento in cui viene metabolizzata, la GHB provoca un’amnesia anterograda: la vittima non ha alcun ricordo di ciò che è accaduto in seguito all’ingestione della sostanza. Circa 5 ore dopo, la maggior parte delle persone riacquista una piena funzionalità, le vittime possono prendere consapevolezza di aver subito una violenza, ma non possono ricordare i dettagli o il criminale (Hensley, 2002). È proprio quest’ultimo il vantaggio che questi farmaci, o droghe da stupro, forniscono ai criminali: rendere la vittima incapace di riuscire a ricordare la violenza o i dettagli rilevanti e importanti. È stato condotto uno studio negli Stati Uniti per valutare in che misura l’alcol e altre droghe fossero presenti nei campioni prelevati dalle vittime di stupro in cui le sostanze erano presumibilmente coinvolte. Sono stati testati campioni di urina per 24 mesi, in cerca di tracce riguardanti la presenza di anfetamine, barbiturici, benzodiazepine, cannabinoidi, metaqualone e oppiacei. I risultati hanno indicato un grado considerevole di utilizzo di droghe, in particolare droghe combinate con l’alcol, che supportano l’ipotesi ed indicano un’incidenza piuttosto elevata di queste sostanze nei casi analizzati di stupro e violenza (Hindmarch e Brinkmann, 1999).

È possibile proteggersi? È possibile riuscire a non cadere in questa malefica e terrificante trappola? Sono queste domande che hanno portato tre ragazze americane, come riporta il sito Millionaire (2017), a creare e brevettare la “smart straw” ossia la “cannuccia intelligente”. È una cannuccia che permette di rilevare la presenza all’interno del proprio drink di Ketamina, GHB, Flunitrazepam e altre droghe: sostanzialmente è una cannuccia dotata di due test che diventano blu nel momento in cui rilevano ed entrano in contatto con una droga.

È sicuramente questa la direzione che la ricerca segue, in quanto le conseguenze psicologiche degli abusi e degli stupri, che avvengono a seguito della assunzione involontaria della sostanza, sono peculiari e possono differire dalle reazioni degli altri tipi di stupro (Hensley, 2002). È probabile che sia presente una maggiore confusione e frustrazione associate all’incapacità di ricordare gli eventi riguardanti l’aggressione. La sensazione della vittima è quella di aver perso il controllo e di non avere memoria dell’evento, delle sue azioni e sensazioni durante le ore di intossicazione. Le vittime possono auto-incolparsi, mettendo in dubbio le proprie azioni e i propri atteggiamenti, e spesso questo è intensificato se la donna ha consumato alcol prima dell’assunzione involontaria della sostanza e del successivo stupro. A questo proposito, è importante segnalare, come riporta il sito di École Universitaire Internationale (2017), che è stata inaugurato a Roma il primo centro IRCAV: è il centro di riferimento europeo per le vittime di violenza con droga dello stupro (DFSA), fornisce supporto informativo e consulenza psicologica, medico-specialistica e forense alle vittime e ai loro familiari. IRCAV prevede strutture mediche che assistono le vittime 24/24h, fornendo anche consulenza con le Forze dell’ordine.

 

La scienza dei disturbi dello spettro autistico (2021) di Bernier, Dawson e Nigg – Recensione del libro

La produzione scientifica intorno all’autismo è cresciuta e il libro La scienza dei disturbi dello spettro autistico raccoglie informazioni e conoscenze aggiornate sia sugli aspetti diagnostici, basati su una valutazione funzionale multidimensionale, sia in relazione al trattamento multidisciplinare della sindrome.

 

I disturbi dello spettro autistico (ADS) sono stati affrontati, di recente, tenendo in considerazione maggiormente i bisogni di salute, non riservando ai pazienti solo interventi di natura psichiatrica e psicologica, anche se i criteri A e B del DSM5 che definiscono il disturbo sono: deficit della reciprocità socio-emotiva; deficit dei comportamenti comunicativi non verbali utilizzati per l’interazione sociale; deficit dello sviluppo, della gestione e della comprensione delle relazioni; pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi.

La produzione scientifica intorno al tema è cresciuta e il libro La scienza dei disturbi dello spettro autistico raccoglie informazioni e conoscenze aggiornate sia sugli aspetti diagnostici, basati su una valutazione funzionale multidimensionale, sia in relazione al trattamento multidisciplinare della sindrome.

Il punto centrale per gli autori del volume è rendere efficace la cura di questi pazienti applicando un modello che presuppone il coinvolgimento di diverse professionalità che coordinandosi possano farsi carico della complessità del trattamento.

Negli ultimi anni si è riscontrato un aumento della prevalenza dell’autismo e ormai i dati scientifici a disposizione attestano che l’epigenetica ha un ruolo fondamentale. La complessa interazione tra genoma e ambiente, infatti, costituisce una caratteristica che modula le anomalie del sistema, di cui la parte più evidente è il comportamento che per molto tempo ha assunto un ruolo predominante rispetto all’attenzione rivolta dagli specialisti agli autistici. Le acquisizioni patogenetiche recenti hanno però rilevato che esse non interessano il solo sistema nervoso in modo esclusivo, ma producono manifestazioni cliniche relative ad altri organi e apparati.

L’autismo prende forme diverse in persone diverse per questo un singolo metodo d’intervento non può essere efficace per tutti, perciò, si possono migliorare gli esiti in molti modi.

L’impatto maggiore su tessuti e organi è atteso da modificazioni epigenetiche durante quelli che sono definiti i “primi mille giorni”. Gli autori sottolineano come le riflessioni sul modello patogenetico investano la pratica clinica e la coerenza della pianificazione dell’intervento che si può ridefinire secondo una “traiettoria di fragilità possibile” del neurosviluppo. Questa impostazione apre finestre verso l’impegno per ciò che è possibile per il massimo benessere biopsicosociale del paziente. La ricerca è in progress, ma i risultati già raggiunti invitano nell’ottica delineata a offrire maggiori tutele in termini di prevenzione alle donne in gravidanza, maggiori cure per i bisogni di salute dei pazienti affinché interventi medico-internistici e psicoeducativi procedano di concerto per realizzare, come sostengono Bernier, Dawson e Nigg, un modello interdisciplinare in grado di supportare ogni persona dello spettro in base alle specifiche esigenze e alla loro evoluzione, migliorandogli la qualità della vita.

Le evidenze scientifiche sono illustrate con un linguaggio semplice e facilmente comprensibile con schede riassuntive che permettono di focalizzare gli aspetti più rilevanti di ogni questione, e passano in rassegna le pratiche migliori per aiutare i pazienti alla luce della nuova impostazione.

I primi quattro capitoli del libro danno una panoramica delle novità acquisite dalla ricerca nel campo dell’ASD, mentre gli altri sei capitoli danno informazioni su cosa fare per garantire una migliore qualità di vita a chi soffre di questa patologia. Strategie aggiornate che riguardano i vari aspetti del disturbo sono illustrate con l’applicazione delle conoscenze disponibili a casi concreti di bambini, adolescenti e adulti. Vicende personali che mettono anche in risalto situazioni e difficoltà, incontrate durante il trattamento, che riguardano tutto lo spettro.

 

EI e ToM: intelligenza emotiva e teoria della mente

La teoria della mente (ToM) è la capacità di un soggetto di riconoscere il pensiero o le emozioni altrui per prevedere un possibile comportamento (Chakrabart & Baron-Cohen, 2013).

 

Deficit di questa capacità sono stati osservati in diversi disturbi, come l’ansia sociale, l’autismo, il bipolarismo o la depressione (Baron-Cohen & Bowen, 2015; Mitchell & Young, 2016; Washburn et al., 2016). La teoria della mente viene analizzata con diverse misurazioni: Strange Stories Task (Happé, 1994) e Faux Pas Task (Stone, Baron-Cohen & Knight, 1998) sono strumenti utilizzati per misurare le ragioni esplicitate dai soggetti in modo verbale, mentre il test di “lettura della mente negli occhi” (Eyes Test: Férnandez-Abascal et al., 2013; Baron-Cohen et al., 2001) è utilizzato per svolgere un’analisi sociale implicita. Nello specifico, l’Eyes Test è stato utilizzato per misurare la teoria della mente (ToM) o l’abilità di riconoscere i pensieri e le emozioni degli altri grazie a 36 domande che permettono di indicare quale emozione corrisponde meglio allo stato mentale visualizzato da diverse immagini oculari. Gli studi precedenti hanno analizzato la relazione tra l’abilità di percepire le emozioni e la ToM, senza comprendere la complessa connessione tra queste ultime (Megias-Robles et al., 2020).

L’intelligenza emotiva (EI) è un’abilità composta da quattro fasi: 1) percezione, 2) facilitazione, 3) comprensione e 4) gestione delle emozioni. Nello specifico, l’intelligenza emotiva è definita come “la capacità di percepire con precisione, valutare ed esprimere emozioni; la capacità di accedere e/o generare sentimenti quando essi facilitano il pensiero; l’abilità di comprendere le emozioni e la conoscenza emotiva, la capacità di regolazione per promuovere una propria crescita emotiva e intellettuale” (Mayer & Salovey, 1997, p. 10). L’intelligenza emotiva Mayer-Salovey-Caruso Test (MSCEIT; Mayer & Salovey, 1997) è lo strumento principale utilizzato per valutare questo modello gerarchico. Questo strumento misura l’IE in modo oggettivo attraverso la risoluzione di problemi emotivi con risposte errate. Sebbene MSCEIT abbia mostrato buone proprietà psicometriche e sia lo strumento più utilizzato per valutare la capacità dell’IE attraverso misure di performance, è importante notare che è non esente da alcune limitazioni (Olderbak et al., 2019; Fiori et al., 2014; Maul, 2012). Ad esempio, Fiori e colleghi (2014) hanno suggerito come questo test potrebbe essere più adatto ai partecipanti con carenze nell’IE, in quanto non è in grado di distinguere correttamente tra individui con punteggi EI elevati (Olderbak et al., 2019). A seguito di precedenti suggerimenti sulla base di ricerche che utilizzano il Test Eyes (Fernández-Berrocal et al., 2017; Warrier, 2018; Olderbak et al., 2015), alcuni autori suggeriscono come questo test possa essere associato a capacità emotive più complesse (Megias-Robles et al., 2020).

Megias-Robles e colleghi (2020) hanno svolto una ricerca per analizzare la relazione tra Eyes Test e intelligenza emozionale (EI). I due test sono stati somministrati ad un campione composto da 874 partecipanti spagnoli. Nello specifico, sono stati reclutati 182 uomini e 692 donne. Il campione è stato reclutato tramite pubblicità all’interno di varie università, social network e piattaforme online (Megias-Robles et al., 2020). I risultati dello studio indicano come, nell’analisi delle differenze di genere, le donne hanno ottenuto in media punteggi significativamente più alti rispetto agli uomini sul totale MSCEIT. La correlazione di Pearson ha rilevato come il MSCEIT è correlato positivamente con le prestazioni sull’attività dell’Eyes Test. In conclusione, sembra che l’Eyes Test possa essere utilizzato per misurare la ToM per valutare la comprensione degli stati mentali (Megias-Robles et al., 2020). Sebbene questo studio contribuisca a far luce sul dibattito tra Eyes Test e il suo rapporto con le capacità dell’IE, in futuro dovrebbero essere condotti degli studi per rafforzare tali conclusioni, utilizzando delle metodologie causali e degli strumenti di misurazione aggiuntivi dell’IE (Megias-Robles et al., 2020).

 

L’importanza della comunicazione assertiva e dell’ascolto attivo tra agente di polizia penitenziaria e detenuto

La comunicazione assertiva si interpone tra quella passiva e quella aggressiva. Nello stile comunicativo assertivo c’è consapevolezza e rispetto per l’altro e per i diritti degli altri.

Livia Etiopia – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

La comunicazione

La comunicazione è uno scambio di messaggi che avviene tra un emittente e un destinatario, il primo invia un messaggio di tipo verbale o non verbale al secondo che risponde elaborando il messaggio e codificando una risposta. La risposta può essere anche di tipo non verbale risultando comunque molto significativa. La comunicazione comprende dunque qualunque tipo di messaggio dotato di senso e significato che gli individui si scambiano quando interagiscono, di intenzionalità intesa come la consapevolezza di voler comunicare e che produce un fine, quello dello scambio comunicativo.

I primi tentativi di definire la comunicazione nacquero in ambito matematico. I modelli prevalenti erano quelli che prevedevano il semplice passaggio di informazioni da un emittente ad un destinatario attraverso un canale. La comunicazione avveniva in modo meccanico. La prima teoria della comunicazione, infatti, ispirata ad un modello matematico era quella di Shannon e Weawer, formulata nel 1949 negli Stati Uniti. Inizialmente nacque con lo scopo di migliorare l’efficienza della comunicazione telefonica, applicata poi in un secondo momento a quella interpersonale. In questa visione l’atto comunicativo è un processo di trasmissione di informazioni tra soggetti interagenti attraverso una sequenza ben precisa. La sorgente di informazione è il soggetto che produce il messaggio, il trasmettitore attraverso cui si trasmette il messaggio, il segnale ovvero il messaggio inviato, il canale ossia il mezzo di trasmissione, il destinatario che è il soggetto ricevente e il ricettore (gli organi di senso e la percezione del soggetto ricevente). Qui il messaggio viene codificato dal trasmettitore e decodificato dal destinatario in base alle proprie capacità di decifrazione. La trasmissione dell’informazione ha una gamma di possibilità prefissate. Sebbene questo modello abbia avuto molta importanza dal punto di vista storico, i suoi limiti sono quelli di non contemplare alcuna forma di feedback e di come la comunicazione avvenga solo parzialmente, di verificarsi in maniera errata o di non verificarsi per niente.

Un contributo fondamentale al chiarimento delle istanze in gioco nel processo comunicativo è giunto dal modello semiotico informazionale, nato dall’interazione tra il modello semiotico della comunicazione con il modello informazionale di Shannon e Weaver. Secondo tale teoria mittente e destinatario hanno competenze linguistico-comunicative differenti, ma sono accomunati dalla capacità di produrre, attraverso codici denotativi, messaggi significativi. Il mittente codifica un messaggio al destinatario, come un insieme di parti, di frasi e parole, scelte all’interno di un codice comune, la lingua, comune sia al codificatore sia al decodificatore. Per lo studioso Jakobson, a strutturare un sistema comunicativo, ci sono i seguenti elementi: un mittente, un destinatario, un codice comune ed un contesto di riferimento.

In questa prospettiva svolge un ruolo fondamentale la funzione della decodificazione del messaggio da parte del destinatario che svolge un ruolo attivo e che si realizza in una complessa attività di elaborazione e di trasformazione del dato per la decodifica e la comprensione del messaggio.

L’approccio interazionista alla comunicazione è fondato sullo studio e l’analisi in cui le singole interazioni si definiscono reciprocamente, in particolar modo analizza il comportamento non verbale all’interno del processo comunicativo e l’incidenza della comunicazione sulla formazione dell’individuo. La struttura dell’azione comunicativa viene scomposta in tutte quelle azioni verbali e non verbali che fanno emergere tutti gli elementi che favoriscono la trasmissione dei contenuti e i comportamenti in gioco nello scambio comunicativo. Inoltre secondo tale teoria la comunicazione non può essere definita come uno scambio di informazioni tra fonti diverse, ma come un’occasione dove più individui collaborano per coordinare il comportamento comunicativo.

La teoria interazionista si consolida intorno alla fine degli anni Quaranta, grazie al contributo fornito dalla Teoria Generale dei Sistemi di Von Bertalanffy. Nasce in contrapposizione al concetto di causalità lineare facendo riferimento invece a quello di causalità circolare in base al quale un sistema è determinato dalle relazioni fra i suoi elementi e dalle relazioni tra queste e l’ambiente. Negli anni Sessanta si svilupparono diversi studi sulla comunicazione che rivolgevano la loro attenzione soprattutto agli aspetti non-verbali, tra cui gli studi di Ekman e Friesen. Alcuni studiosi, invece, hanno posto al centro dei lori studi l’analisi della conversazione “state of talk”. Secondo tali autori la comunicazione tra individui si struttura come “un’interazione conversazionale” in apparenza libera e priva di regole, ma costituita in realtà da un ordine ben preciso. In tal modo i partecipanti ad una comunicazione devono dimostrare di comprendere non solo le informazioni, ma di saper organizzare il proprio comportamento comunicativo in modo intelligente. Questa vera e propria competenza conversazionale permette la sincronia e la sintonia della conversazione, il rispetto dei turni di intervento e i processi decisionali.

Un contributo a questo modello è giunto dall’analisi della conversazione compiuta da un gruppo di sociologi americani che si ricollegavano al modello teorico di Goffman e a quello dell’etnometodologia. Secondo tali studi la conversazione è un’attività retta da regole, procedure e competenze linguistiche e conversazionali. Un contributo decisivo alla teoria interazionista è giunto dalla cosiddetta Scuola di Palo Alto, Bateson, Watzlawick e altri. Secondo la teoria Pragmatica della Comunicazione è impossibile non comunicare, anche il silenzio è una forma di comunicazione. Rispetto all’approccio interazionista secondo tale teoria la comunicazione è una vera e propria azione comunicativa che segue delle regole ben precise e che ha degli effetti concreti sugli individui.

La Comunicazione non verbale è un aspetto imprenscindibile in grado di influenzare la comunicazione per il 60%. Quando all’interno di una comunicazione si creano delle discrepanze tra il modulo verbale e quello non verbale, a prevalere è quest’ultimo, come quando affermiamo qualcosa ma con il modulo non verbale smentiamo ciò che abbiamo detto. Essa si suddivide in:

  • Paralinguistica
  • Cinesica
  • Prossemica

La paralinguistica, chiamata anche, sistema vocale non verbale, è costituito da tutti i suoni che emettiamo a prescindere dal significato delle parole. Essa comprende il tono e la frequenza della voce e il silenzio.

Il sistema cinesico comprende il movimento degli occhi, del volto e del corpo, comprende anche i gesti che nella comunicazione umana riguardano in primo luogo le mani e la postura.

La prossemica consiste nella gestione dello spazio e del territorio, esistono 4 zone di distanza in cui suddividiamo lo spazio che ci circonda (zona intima, personale, sociale e pubblica).

La comunicazione assertiva

La comunicazione ha un ruolo imprenscindibile in ogni contesto di vita e oggigiorno è ampiamente documentato il suo ruolo chiave che riveste in certi contesti istituzionali, come anche in quello penitenziario, che non assolve più la mera funzione di custodia e sorveglianza del reo, ma soprattutto quella di rieducazione e reinserimento sociale. In tale ottica anche il mandato degli operatori di polizia penitenziaria cambia, ai quali non viene più richiesto di assolvere solo ad un compito istituzionale di sorveglianza, ma di fornire alle persone recluse l’opportunità di spendere il loro tempo in carcere in modo positivo, trattandole con dignità e rispetto. Per fare ciò devono sapersi approcciare al detenuto con modalità comunicative efficaci e porsi all’ascolto attivo ed empatico affinchè sappiano cogliere i momenti di bisogno e gestire eventi critici in maniera più risolutiva. Pertanto devono imparare ad acquisire tecniche comunicative assertive rimarcando con sicurezza e chiarezza quello che è il loro ruolo, senza assoggettarsi passivamente alla volontà del ristretto e senza prevaricarlo o farsi valere con aggressività. Tali comportamenti hanno dei benefici a lungo termine e, anche se non sempre sortiscono gli effetti desiderati, non inducono ad aggravare le sorti di un evento già in atto. E poiché nel carcere tali situazioni si verificano spesso, uno stile comunicativo assertivo aiuta a comunicare efficacemente. L’assertività, la capacità di esprimere i propri bisogni, pensieri e comportamenti in maniera chiara e sicura senza prevaricare gli altri è un tipo di comunicazione efficace. La comunicazione assertiva si interpone tra quella passiva e quella aggressiva. Nello stile comunicativo assertivo c’è consapevolezza e rispetto per l’altro. Ci si esprime attraverso la capacità di comunicare sentimenti ed emozioni, riconoscendoli in primis. Vi è consapevolezza dei diritti degli altri, l’obiettivo dell’assertività è proprio quello di mediare le esigenze personali con quelle altrui, la disponibilità ad apprezzarli, facendo valere i propri diritti senza ledere gli altri. Nel caso specifico, all’interno del carcere, uno stile comunicativo assertivo aiuta l’agente a progettare e gestire l’azione comunicativa in modo coerente ed efficace rispetto ai propri obiettivi comunicativi. Acquisire e interiorizzare uno stile comunicativo assertivo utilizzandolo con consapevolezza diviene una caratteristica fondamentale che facilita l’operatore di polizia penitenziaria ad esprimersi con intenzionalità e chiarezza senza timori e garantendo una risposta più efficace e positiva nel detenuto. In tal modo quest’ultimo non si sentirà attaccato verbalmente o giudicato per quello che sta chiedendo o facendo, ma trattato umanamente con dignità e rispetto.

Salter nel 1949 fu il primo a delineare la persona assertiva definendola come personalità “eccitatoria”, ovvero quell’individuo in grado di esprimere il proprio punto di vista e le proprie emozioni apertamente senza difficoltà. Inoltre lo definì non solo come comportamento interpersonale, ma proprio come uno stato di benessere emotivo per coloro che lo mettono in atto. Nel 1959 tale concetto venne ripreso da Wolpe che lo definì come “assertiveness” intesa come la capacità di esprimere liberamente i propri sentimenti. La persona assertiva, infatti, è capace di riconoscere le proprie emozioni, di comunicarle ed esprimerle. Ha consapevolezza dei diritti della persona, riconosce e valuta i propri diritti in relazione a quelli altrui, è disponibile ad apprezzare se stessa e gli altri, è capace di valorizzare aspetti positivi dell’esperienza.

Uno stile di comunicazione passivo porta la persona a sottomettersi agli altri, rinunciando alle proprie opinioni, bisogni, facendo valere unicamente quelli degli altri. Alla base vi è la paura di essere giudicati negativamente e un bisogno di essere accettati dagli altri ed evitare scontri e conflitti che possono generare emozioni negative (ansia, sensi di colpa, tristezza) e accrescere le proprie credenze disfunzionali circa il senso di sé come inadeguati e incapaci. Nel tempo tale comportamento non favorisce buoni esiti all’interno di una comunicazione perché si viene sopraffati dagli altri rinunciando definitivamente alle proprie priorità e bisogni, innescando sentimenti di rabbia e frustrazione in relazione a obiettivi non realizzati.

Uno stile di comunicazione aggressivo invece porta la persona ad agire con violenza, indignazione e con una totale mancanza di rispetto nei confronti degli altri, andando a ledere quasi sempre i loro diritti. È presente una completa svalutazione dell’altro con sentimenti di disprezzo e superiorità. I bisogni alla base di simili comportamenti sono quelli di affermare se stessi dominando sugli altri e giudicandoli inferiori. Anche in questo caso gli effetti che produce un comportamento comunicativo aggressivo sono limitati nel tempo, perché a lungo andare generano allontanamenti da parte degli altri e inimicizie, che in un primo momento si adeguano alla volontà di assecondare certi comportamenti solo per il timore di avere delle ripercussioni negative, senza però la volontà vera e propria di assecondare certe richieste. Gli stili comunicativi passivo e aggressivo applicati in un contesto penitenziario producono degli effetti negativi sui detenuti, che nel primo caso si approfitterebbero di una personalità remissiva dell’operatore di polizia penitenziaria violando le regole da rispettare e nel secondo caso di fronte ad una personalità aggressiva si porrebbero con un atteggiamento di sfida e superiorità, alimentando sentimenti di rabbia e aumentando il rischio di comportamenti pericolosi. L’assertività oltre che come modo comunicativo, risponde anche al bisogno di trattare il detenuto con umanità e rispetto, accogliendolo nei suoi bisogni senza critiche o giudizi.

L’ascolto attivo ed empatico

Per comunicare efficacemente è necessario saper ascoltare, un ascolto inefficiente non produce i risultati attesi all’interno di una comunicazione. Infatti dopo aver ascoltato una persona parlare per circa dieci minuti, siamo in grado di valutare appieno e assorbire circa il 40% di quanto ci è stato detto. A conclusione del processo di ascolto riusciamo a trattenere solo un quarto di quanto abbiamo ricevuto.

L’ascolto attivo inoltre riduce la possibilità di interpretare un messaggio comunicativo in maniera errata permettendoci di sviluppare relazioni più chiare e autentiche. Uno dei rischi maggiori di un ascolto inefficace è quello di interpretare, ovvero di cogliere qualcosa di simile a quanto viene detto e di filtrarlo attraverso i nostri significati.

La nostra fantasia, il temperamento, le nostre ideologie, i nostri pensieri rappresentano dei “contesti personali” attraverso cui filtriamo ciò che arriva dall’esterno e dai nostri interlocutori.

A questo proposito sono di particolare interesse le barriere comunicative individuate da Gordon, come 12 modalità errate di comunicazione che rallentano, inibiscono o bloccano il processo comunicativo, innescando nell’interlocutore un senso di sfiducia. Spesso non siamo consapevoli di utilizzare queste modalità, bloccando il processo di ascolto attivo e concentrando la nostra attenzione sul nostro punto di vista e su ciò che giudichiamo giusto o sbagliato, anziché restare in comunicazione con i bisogni, idee ed emozioni che l’altro esprime.

La capacità di ascolto di ognuno di noi è strettamente connessa alla conoscenza dei nostri bisogni e stati d’animo, quanto più siamo consapevoli di ciò che ci accade tanto più saremo in grado di non proiettarlo sull’altro e di distinguere in modo chiaro e onesto il nostro vissuto per fare spazio al vissuto altrui.

Anche all’interno del contesto penitenziario agli operatori viene richiesto di imparare ad ascoltare in modo efficace. Porsi in una condizione di ascolto attivo fa sentire il detenuto accolto e non rifiutato anche quando elargisce delle richieste che non possono essere accolte. Un evento molto frequente che avviene in carcere è quello di fare domanda per ulteriori ore di colloquio con i familiari a fronte di quelle già terminate. L’agente in questo caso, pur sapendo di non poter soddisfare tale richiesta, dovrebbe comunque ascoltare empaticamente il detenuto, accogliendo quel suo bisogno e non rifiutandolo a priori. Quest’ultimo, sentendosi ascoltato, accolto e non rifiutato riuscirà a gestire meglio eventuali sentimenti di rabbia e risentimento e a non mettere in atto comportamenti disfunzionali. In tal senso l’ascolto attivo previene anche eventuali criticità in tale contesto.

L’ascolto attivo è un ascolto empatico, l’empatia è la capacità di immedesimarsi e identificarsi con l’altro, vedere e sentire dal suo punto di vista, pur mantenendo il controllo del proprio. L’empatia migliora la qualità e la relazione dei nostri rapporti. L’ascolto empatico applicato nel contesto penitenziario aiuta a riportare il detenuto ad una situazione di equilibrio e calma, senza farlo sentire giudicato ed attaccato verbalmente, cercando di comprendere quali siano state le motivazioni che lo abbiano spinto a quel gesto o che abbiano scatenato quella crisi. Nel momento in cui si verifica un evento critico, infatti, l’agente è colui più vicino al detenuto che interviene per primo, successivamente saranno figure professionali specializzate ad occuparsene. Uno stile comunicativo assertivo ed un ascolto empatico, in situazioni critiche, possono così essere utilizzati in alternativa alla minaccia e all’avvertimento “Se non fai così …”, “Se continui così …”. Questi messaggi possono suscitare ancor più sentimenti di ostilità, rabbia e ribellione aggravando la situazione. Anche la critica e il giudizio in situazioni già pericolose sono da evitare perché non riducono le conseguenze ed il contenimento dell’evento critico, bensì lo aggravano. Il fine invece è quello di risolvere in maniera più funzionale la situazione che si è creata ed evitare che degeneri ulteriormente.

Il modulo di tecniche di comunicazione applicata al corso di formazione in polizia penitenziaria

Oggigiorno il sistema operativo penitenziario è interessato da molti cambiamenti organizzativi, tra cui le modalità operative del personale di Polizia Penitenziaria, a cui non è richiesto più solo un ruolo di sorveglianza, ma di inserirsi con consapevolezza e intenzionalità nel ruolo che svolgono che implica necessariamente anche la presa in carico della dimensione umana.

All’interno della Scuola della Polizia Penitenziaria di Sulmona, si è svolto il 175° corso di formazione rivolto agli allievi del Corpo della Polizia Penitenziaria. Il corso prevede l’acquisizione di vari moduli, tra cui quello su Tecniche di Comunicazione Applicata tenuto dalla scrivente.

Il corso di formazione degli allievi ha richiesto un’acquisizione delle competenze di ruolo più specifiche, ma anche di abilità diverse, come quelle comunicativo-relazionali, in funzione di una gestione più profittevole del proprio lavoro. Il fine era quello di sollecitare tali capacità con lo scopo di promuovere una comunicazione efficace e corretta nei confronti dell’utenza. Gli allievi hanno avuto modo di approfondire la complessità del fenomeno della comunicazione, costatando l’importanza che riveste. Nello specifico, hanno acquisito le capacità di trasmettere il proprio messaggio con chiarezza e forza persuasiva (comunicazione assertiva) e di utilizzare l’ascolto attivo, utili ad una efficace negoziazione, riscontrando positivamente la funzionalità di tali tecniche attraverso esercizi di role-playing. Hanno avuto modo di potersi osservare durante le simulazioni, comprendere il loro stile comunicativo e imparare a calibrarlo sul modello di quello assertivo. Acquisendo consapevolezza del proprio stile comunicativo e relazionale hanno potenziato i punti di forza e migliorato quelli più deboli. Attraverso le simulazioni di eventi critici hanno avuto modo di vedere come uno stile comunicativo assertivo ed un ascolto attivo siano più utili e funzionali per relazionarsi con i detenuti e gestire meglio queste situazioni, oltre che riuscire a prevenirle. Hanno sperimentato, a partire da loro stessi, come lo stile aggressivo generi ulteriore rabbia ed aggressività e quello passivo porti ad approfittarsi dell’altro, sottomettendolo.

 

 

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