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La “follia morale”. I correlati neurologici della psicopatia

Quante volte abbiamo sentito parlare di psicopatia, magari in tv, attraverso telegiornali o documentari trasmessi su varie piattaforme?

 

La parola psicopatia è spesso utilizzata nel linguaggio di senso comune, associata a detenuti, autori di crimini violenti o semplicemente per designare una persona che presenta particolari tratti caratteriali.

Ma quali sono le sue origini?

Il termine psicopatia ha radici antiche, la sua etimologia deriva dal greco “psychè”, mente, e “pathos”, sofferenza.

Utilizzato per la prima volta da Teofrasto, allievo di Aristotele, il quale la definì come una caratteristica tipica degli individui privi di scrupolo.

Nel 1801 lo psichiatra francese Philippe Pinel descrisse un pattern di comportamenti devianti, profondamente crudeli e privi di giudizio, presenti in pazienti con chiari disturbi mentali in assenza di un deficit della ragione, della percezione, della memoria o di manifestazioni e segni tipici di un disturbo cognitivo quali allucinazioni, deliri o atti autolesionistici. Definì tale caratteristica: “manie sans dèlire”, appunto follia senza delirio, per classificare questi individui “malati non deliranti”, poiché pur comprendendo la follia del proprio status non erano in grado di inibirne l’azione.

In seguito, la psicopatia come diagnosi clinica, fu affrontata dallo psichiatra americano Hervey M. Cleckley con la pubblicazione del testo: “The Mask of Sanity: An Attempt to Clarify Some Issues About the So-Called Psychopathic Personality” (1941).

Egli fornì la più influente descrizione clinica della psicopatia del XX secolo, tanto che le caratteristiche di base da lui delineate, sono ancora oggi significative.

Secondo l’autore questi individui non presentano elementi peculiari riferibili unicamente all’aspetto comportamentale, ma anche a delle modalità relazionali che includono la vita affettiva.

Essi mostrano una evidente carenza di sentimenti, impulsività, mancanza di scrupoli e senso di colpa rispetto allo sfruttamento delle altrui debolezze congiunte ad una incapacità di avere legami di attaccamento,  quindi sostanzialmente delle profonde anomalie nella gestione delle emozioni.

Il titolo “la maschera della Sanità”, intesa appunto come sanità mentale, sta ad evidenziare come lo psicopatico possa apparire una persona esteriormente perfetta, un’imitazione di un soggetto integro e normalmente funzionante, in grado di abitare all’interno della società, molto spesso presentandosi come una persona sincera, intelligente e persino affascinante, celando il caos di una personalità destrutturata.

Tuttavia tale fascino è superficiale, egli è egocentrico, dimostra un freddo contegno e non possiede la capacità di provare emozioni sincere.

Molti psicopatici sono capaci di fingere le più comuni emozioni umane ma di fatto non sanno comprendere gli stati emotivi delle altre persone, lo possono fare solo a livello puramente intellettuale e non per una costruzione sana di relazioni.

A tal proposito emblematico è “il caso Fritzl” (Austria, 2008), a cui successivamente si è ispirato il film Room (L. Abrahmson, 2015).

Josef Fritzl, ingegnere austriaco, dopo aver progettato un bunker nella cantina dell’abitazione di famiglia, inscenò la fuga di una delle sue cinque figlie, per poi imprigionarla al suo interno per 24 anni (dall’età di 18 a quella di 42 anni). Nel corso di questi anni egli si recava nel bunker ogni tre giorni per portarle cibo e altri rifornimenti ma soprattutto per abusare di lei sessualmente, dalle loro unioni incestuose nascono sette figli.

Fritzl è un uomo all’apparenza perfettamente lucido in grado di condurre una vita “normale” per 24 anni, senza il minimo scrupolo.

Solitamente un soggetto psichicamente sano alla vista di qualcuno in pericolo, istintivamente ne percepisce la sensazione e tende ad aiutarlo, questo non è possibile per uno psicopatico poiché ha un deficit nella mentalizzazione degli stati emotivi altrui.

Ragion per cui, in una conversazione, egli non possiede la capacità di comprendere l’impatto e la risonanza che hanno le sue parole sugli altri o su di sé, piuttosto ha una percezione degli stati emotivi dedotta dal contesto e dall’attivazione degli stati fisiologici di chi gli sta attorno.

Per lo psicopatico dunque, un essere umano ha la stessa importanza di un qualsiasi oggetto e come tale ha un unico scopo: quello di essere strumentalizzato. Egli è inoltre pienamente consapevole delle conseguenze delle proprie azioni, tuttavia l’idea del dolore o della punizione non hanno alcun effetto inibitorio, ragion per cui la detenzione non ha un esito positivo o di carattere rieducativo, la sua condizione è irreversibile.

Lo psicopatico mentendo riesce ad impressionare gli altri camuffando la sua vera natura, mentre lo fa non viene tradito da segnali emotivi di ansia, esitazione, imbarazzo o vergogna, anche di fronte a prove inconfutabili. Tuttavia i suoi racconti appaiono pieni di contraddizioni e incongruenze, ciò accade sia a causa delle sue verità improvvisate sia per la difficoltà ad integrare il racconto con le componenti emotive dello stesso. H. Cleckley attribuisce a questa anomalia il nome di afasia semantica.

Dal punto di vista nosografico descrittivo, si accenna alla psicopatia solo all’interno della sezione III del DSM 5, sotto la nomenclatura: “Modello alternativo del DSM 5 per i disturbi di personalità”, facendo riferimento alla patologia come una variante caratteristica del disturbo antisociale di personalità con cui spesso viene confuso. Lo psicologo R. Fare ha creato la “Hare Psychopathy ChecKlist”, una scala utile a discriminare il disturbo antisociale di personalità dalla psicopatia.

Tale condizione inoltre, molto spesso viene associata anche al disturbo narcisistico di personalità per l’assonanza di alcune caratteristiche come ad esempio l’egocentrismo. In entrambi i casi è preponderante, oltre ad uno spiccato senso di superiorità, anche la prepotenza, l’arroganza, l’idea di essere più intelligenti e più capaci rispetto agli altri senza avere alcun rispetto per le opinioni altrui.

La psicopatia in effetti, si può presentare in concomitanza ad altre condizioni mentali, sebbene la comorbidità sia poco frequente.

Ma quali sono i deficit neurologici?

Sin dai tempi di Lombroso, si è cercato di far risalire le origini di un comportamento deviante ad alterazioni strutturali in aree neurologiche circoscritte; tuttavia non esiste un’area specifica poiché sono implicate più strutture deficitarie.

Un comportamento aggressivo e violento è la conseguenza di un alterato giudizio morale e decisionale, quest’ultimo è modulato da un complesso circuito che include strutture cerebrali corticali e sottocorticali, regolate a loro volta da neurotrasmettitori e sistemi ormonali.

In un’ottica bio-psico-sociale, tale circuito agisce con l’ambiente unitamente alle relazioni ed i rapporti interpersonali del soggetto.

Tornando allo “scompenso” da un punto di vista puramente organico, la psicopatia potrebbe essere concettualizzata come un disordine del sistema paralimbico, che include parti del lobo frontale e di quello temporale, i quali presentano un’attività ridotta rispetto al normale.

Il lobo frontale è la struttura maggiormente coinvolta nella pianificazione e nella regolazione del comportamento, la corteccia frontale è la zona più estesa, costituisce circa 1/3 dell’intera superficie cerebrale. A tal proposito emblematico è il caso di Phineas Gage, largamente discusso da A. Damasio nel suo testo: “L’errore di Cartesio”, all’interno del quale cerca di indagare le basi neurali della ragione. Gage nel 1848, fu vittima di un incidente: una barra metallica gli trapassò la guancia sinistra, perforando la base della scatola cranica, attraversando la parte frontale del cervello per poi uscire dalla sommità della testa, portando con sé parti di tessuto cerebrale. Egli sopravvisse al fatto, tuttavia, una simile lesione ebbe ripercussioni irreversibili dal punto di vista comportamentale ed emotivo. Egli non era più l’uomo che era un tempo ed il problema non era in un difetto di abilità o capacità fisica, ma il suo nuovo carattere (Damasio, 1994).

L’uomo in seguito alla lesione frontale ebbe delle ripercussioni simili a quelle riscontrate nella psicopatia tra cui l’impulsività e un comportamento aggressivo. Il lobo frontale, in effetti, presiede alla regolazione delle cosiddette funzioni esecutive che implicano i processi decisionali, la pianificazione, l’attenzione, la memoria di lavoro e il controllo degli impulsi. Le altre strutture deficitarie sono: la corteccia temporale, presente bilateralmente e delimitata superiormente dalla scissura di Silvio, implicata nella pianificazione e regolazione del comportamento morale (Dizionario di Medicina; 2010), quindi nell’attribuzione di stati mentali e intenzioni; la corteccia occipitale, importante per l’elaborazione degli stimoli visivi, include la corteccia visiva primaria o striata e le aree extra striate; la corteccia parietale, importante in quanto rappresenta la sede delle aree sensoriali.

A determinare il disturbo, non vi è unicamente un deficit nelle strutture corticali ma anche in quelle sottocorticali come: l’amigdala, struttura sottocorticale limbica, che rappresenta il principale centro emotivo fondamentale nella risposta alla paura e ha un ruolo funzionale nel mediare sia le risposte allo stress che l’apprendimento delle emozioni; l’ippocampo, responsabile del rafforzamento della memoria a lungo termine, soprattutto di quei ricordi fortemente caratterizzati da una componente emotiva, della memoria spaziale e dell’inibizione comportamentale (Dizionario di Medicina, 2010); i gangli della base, piccoli agglomerati di sostanza grigia, implicati nella presa di decisione del comportamento da manifestare in un dato momento; ed infine il lobo dell’insula, collocata all’interno del solco laterale; una delle sue funzioni principali è quella di elaborare emozioni e, grazie alla presenza di neuroni mirror, è coinvolta nei processi di empatia, caratteristica palesemente deficitaria nello psicopatico.

Tuttavia le alterazioni neurologiche da sole, non sono in grado di spiegarne la fenomenologia nella sua pienezza.

 

La psicoterapia in bilico: tra possibilità e scetticismo

La Psicoterapia negli ultimi anni sta entrando in punta di piedi nel linguaggio comune.

 

Dopo la difficoltà di distinzione terminologica dalla classica Psicoanalisi, slegatasi dall’associazione intrinseca con il trattamento esclusivo delle psicopatologie, questa attività fa ancora fatica a far parte degli interventi sanitari ammissibili come soluzione alle problematiche di vita, come può essere un intervento dal dentista o dall’ortopedico, in quanto essa ci tiene molto più spesso in bilico tra l’intraprenderla o meno.

Benché sia ormai opinione comune che la psicoterapia sia una risorsa per tutti, l’idea di entrare in psicoterapia, anche in presenza di disturbi significativi, ci turba, paradossalmente meno del toglierci un dente, eppure a differenza di quest’ultimo lo riteniamo più prorogabile, meno indispensabile. Perché?

Il peso delle parole

Partiamo con l’utilizzo della parola. Nell’ultima Conference Nazionale sulla Psicoterapia al Tempo della Pandemia (La salute Mentale nel Cuore della Salute Pubblica – Roma, Gennaio 2021) è emerso come la parola psicoterapia abbia un peso che non le permetta di essere pronunciata con leggerezza, nemmeno da chi ci lavora. Intraprendere una psicoterapia personale, inserire la psicoterapia nel servizio pubblico, perfino promuovere la psicoterapia sembra avere un tono impegnativo, tanto da far esimere chi ne ha le intenzioni.

Eppure l’etimologia del termine ci da un significato tutt’altro che preoccupante: psiche deriva dal greco ψυχο- che significa anima, mentre terapia, dal greco ϑεραπεία, che sta per cura: letteralmente la “cura dell’anima”.

Ma cosa c’entra l’anima con la Psicoterapia?

Come ci suggerisce il Prof. Galimberti, l’anima non è un concetto esclusivamente cattolico. Fu inventato da Platone per spiegare non tanto un’entità ultraterrena, quanto un organo delle idee, della scienza, un sapere universale uguale per tutti. Tutti abbiamo un’anima, una psiche in questo senso, ovvero un agglomerato di idee e di sensazioni emotive condivisibili, un linguaggio comune che racconta il nostro vissuto, e la psicoterapia si veste del compito di prendersene cura, anzi di accompagnare l’individuo nel percorso di conoscenza di sé stesso, che lo porti ad imparare a prendersi cura di sé da solo.

Prendersi cura di sé in termini di benessere mentale, emotivo e simbolico. Quando si arriva a definire la Psicoterapia in questi termini però ecco che essa perde di credibilità, assumendo un carattere mistico, che poco ha a che vedere con la specializzazione medica alla quale è destinata, insieme a quella psicologica. Non si capisce bene cosa faccia e come lo faccia, diventa un’attività fantomatica, una chiacchierata che “non serve a niente”.

In questo modo la psicoterapia si riduce ad una prestazione sanitaria che non riesce a liberarsi del suo accento aleatorio. Nonostante la mole di contributi scientifici che continuamente vengono pubblicati, la popolazione vacilla ancora tra la sensatezza o meno di un intervento di questo tipo.

Il problema dell’introduzione della psicoterapia come intervento sanitario maggiormente ordinario riflette lo stesso obiettivo per cui è nata: contrastare la resistenza al cambiamento. Finché non riusciremmo a concepire il cambiamento come una possibilità, finché non inizieremo a credere che cambiare è meno faticoso del procedere avanti nonostante le nostre insoddisfazioni, la psicoterapia non riuscirà a trovare spazio nella concezione comune e condivisa da tutti, come metodo concreto di applicazione. Continuerà ad essere vista come impresa mitologica, un viaggio nell’odissea, con poca adesione al mondo reale, dove l’intelligenza si esprime nella realizzazione di una prestazione o nella descrizione di soluzioni quantificabili.

Cosa cambiare?

La problematicità del cambiamento sta nel creare nuovi percorsi neurologici: entrare in terapia significa creare nuovi significati, nuove connessioni neuronali, che permettono di esperire gli stessi avvenimenti che abbiamo vissuto con una prospettiva diversa. E’ come quando guardiamo due facce della stessa moneta. Se una delle due è scalfita, tenderemo a pensare che quella moneta è mal ridotta e non si può riparare. Cercheremo altri rimedi come magari una copertura o un posto dove riporla per non essere costretti a “vedere” quel difetto.

Le coperture però saltano, si consumano, i cassetti si aprono proprio quando ci dimentichiamo che cosa ci avevamo messo dentro ed ecco che la moneta risalta fuori, con quel suo lato difettoso.

Entrare in terapia significa “guardare l’altro lato della moneta”. Prendere atto del fatto che essa non ha perso il suo valore benché sia scalfita, anzi, è diventata anche più preziosa in quanto unica nel suo genere. Avere nella testa non solo e unicamente il suo difetto, ma la moneta nella sua interezza.

La maggior parte delle persone fatica a spiegare cosa li turba e in che modo, anche per questo presentano delle sintomatologie significative. Van Der Kolk, pioniere del trattamento dello stress post-traumatico, riporta una lunga serie di esempi di come le persone che hanno vissuto un trauma, anche di tipo relazionale, manifestino uno stato di confusione e di offuscamento che non gli permette di “vedere” chiaramente le cose. La psicoterapia, attraverso l’utilizzo della conduzione della narrazione, il primo tra gli altri strumenti di cui si avvale, porta l’individuo a raccontare i fatti significativi della propria vita passata e presente, collegandoli tra di loro attraverso domande che non sono state poste prima, aprendo porte verso nuovi significati, ponti di connessione mai immaginati, vere e proprie nuove elaborazioni.

Abbiamo paura di entrare nel nostro mondo interiore, nelle nostre ferite, è preferibile rifuggire con altri metodi, meno introspettivi, per non dover guardare quella lesione, ma ancora di più abbiamo paura della paura stessa, per questo anche quando ci balena l’idea di entrare in psicoterapia tendiamo ad attuare quel fenomeno fisiologico simile a un “freezing mentale” che ci immobilizza dal compiere l’azione.

Il cambiamento verso l’inserimento dell’introspezione è poco interessante a livello governativo, non è un’azione produttiva nell’immediato, è lunga e meticolosa, ma anche sorprendentemente naturale e spontanea.

Le stesse caratteristiche che ha l’evoluzione.

La psicoterapia forse non è mai stata tanto in bilico come in questo momento storico.

Sta a noi, produttori di tale impresa, contribuire alla sensibilizzazione collettiva, alla definizione del nostro lavoro attraverso la divulgazione e il perfezionamento della nostra attività, in modo che nei prossimi anni, si possa scegliere di investire su un tipo di moneta non più intesa come mezzo di possedimento economico, ma come valore diversificato caratteristico di ognuno.

 

 

This is us (2016): identità dei personaggi nel rapporto tra passato e presente

This is us è un brillante tv drama firmato Dan Fogelman in onda dal 2016 e ormai alla sua quinta stagione.

 

Attenzione! L’articolo contiene spoiler!

I protagonisti, Kevin, Kate e Randall vivono vite diverse, ciascuno alle prese con i propri problemi. Kevin è l’attore protagonista di una sitcom di successo, ma è insoddisfatto e stanco di essere notato solo per il suo aspetto; Kate è in sovrappeso e cerca di affrontare la sua condizione frequentando gruppi di auto aiuto per persone con il suo stesso problema. Randall lotta con diverse parti di sé cercando di mantenere il controllo su ogni aspetto della sua vita. Questi tre personaggi hanno in comune il giorno del loro compleanno, e non solo.

Si avvisano i lettori che il resto dell’articolo contiene spoiler sulle stagioni della serie andate finora in onda.

This is us è fondamentalmente la storia di una famiglia, i Pearson. Rebecca e Jack Pearson sono una giovane coppia in attesa di tre gemelli che si trova a fare i conti con la perdita di uno dei tre bambini durante il parto. Già dal pilot la serie mette in luce il suo carattere drammatico toccando il delicato tema del lutto perinatale. Al tempo stesso, rivela un altro lato, fatto di speranza, quando Jack e Rebecca riescono a non lasciarsi sopraffare dal trauma della perdita e – semi-citando una scena della serie – “prendono il limone più aspro che la vita potesse dargli e ne fanno qualcosa di simile ad una limonata”. Decidono infatti di tornare comunque a casa con tre bambini adottando un neonato che si trovava quello stesso giorno in quello stesso ospedale dopo essere stato abbandonato davanti alla caserma dei pompieri.

Così ha inizio la storia di Kevin, Kate e Randall e dei loro genitori, Jack e Rebecca. Veniamo quindi trasportati all’interno di un’intricata storyline che si sviluppa su più linee temporali presentandoci tutti i protagonisti in diversi momenti delle loro vite. La scelta di “saltare” da un tempo all’altro in ciascun episodio, dà allo spettatore la possibilità di osservare in che modo il passato ed il presente entrano in connessione.

Randall è probabilmente uno dei caratteri più complessi e interessanti della serie. La sua è la storia di un bambino, di un ragazzo e poi di un uomo che lotta con se stesso, con le tante parti che cercano di trovare posto nella sua identità. L’identità di un afroamericano cresciuto in una famiglia di bianchi; amato infinitamente, ma forse non totalmente compreso. Ossessivamente devoto allo studio e costantemente impegnato nel fare la cosa giusta, Randall deve misurarsi con l’immagine di due padri: prima con Jack, il suo padre adottivo, e più tardi con William, il padre biologico ritrovato dopo tanti anni. Entrambi, Jack e William, hanno avuto problemi di dipendenza – rispettivamente dall’alcol e dalle sostanze –  ma sono stati anche uomini altruisti e capaci di amare. Anche Randall è un padre e un marito amorevole, sempre pronto a battersi per gli altri. Ma la sua smania di fare sempre ciò che è giusto, il suo prendersi cura del prossimo, la sua ricerca di perfezione, finiscono per non essere solo delle buone qualità; al contrario, arrivano al punto da spingerlo verso il panico ogni volta che la realtà si scontra con le sue aspettative. Randall vive più volte episodi di panico e solo dopo la morte di suo padre William prova a sganciarsi da una routine troppo calcolata e a godersi gli attimi e le piccole cose. Nemmeno questo evento è però in grado di cambiare il suo approccio alla vita che lo spingerà ancora a confrontarsi con se stesso e con la sua storia passata. Randall è l’esempio di un uomo che vive una crisi perenne che lo porta a riformulare continuamente il significato della propria esistenza e da questo dubbio scaturisce la sua ansia. Nella crisi siamo portati a scorgere dubbi sul nostro valore e sul valore della vita. Laddove si pensava di conoscere il proprio io, il dubbio si insinua e lo rende estraneo rivelandoci la possibilità di perdere il controllo. I sintomi dell’ansia che spesso mimano una condizione organica, rappresentano invece una creazione della mente che ci segnala la presenza di una frattura. E proprio questa rottura, questa crisi, può avere come conseguenza il bisogno di riflettere su di sé reinterpretando la propria storia, inclusi gli avvenimenti passati, i fatti e le persone che hanno influenzato l’andamento della nostra esistenza (Ghezzani, 2008). In questo senso Randall è costantemente in bilico tra passato e presente e tra le molte parti che cercano di trovare posto nella sua identità.

Anche Kevin e Kate sono personaggi dall’emotività marcata. Kate non è solo una donna che cerca di affrontare i suoi problemi di peso, dietro a questo problema si celano le questioni irrisolte del suo passato, le insicurezze, l’immagine idealizzata di suo padre e le contraddizioni di una complessa relazione madre-figlia. Tutto questo si concretizza nel suo rapporto con il cibo che, se da un lato la rende decisa a portare avanti un percorso di miglioramento personale, dall’altro la fa ricadere in episodi di abbuffate alla ricerca di conforto. Kate ricorre al cibo in momenti difficili. Lo fa quando si ritrova ad affrontare il dolore causato dalla morte di suo padre, o per “guarire” le ferite emotive lasciate da una relazione malsana. Questo tipo di condotta si configura spesso nell’atto dell’abbuffata. Nelle persone con obesità non è raro osservare episodi di binge eating, ma non vi è una correlazione diretta: non tutti i soggetti obesi sono binge-eaters e non tutti i binge-eaters presentano una condizione di obesità (Eifert et al., 2016). Le abbuffate possono essere scatenate da vari fattori, quali ad esempio una precedente restrizione alimentare – una dieta – ma spesso si presentano in connessione con stati affettivi negativi; i disturbi legati all’alimentazione tendono a consolidarsi proprio in presenza di emozioni negative (Hofmann, 2020). Il personaggio di Kate racconta le varie sfumature di una condizione complessa che influenza la sua vita sul piano fisico e psicologico e, ormai adulta, la porta a confrontarsi con un’immagine di sé in cui si rivede ancora come la ragazzina sovrappeso insicura del proprio aspetto e del proprio valore.

Infine Kevin, che all’apparenza ha tutto ciò che si possa desiderare, è in realtà alla perenne ricerca di qualcosa. Rinuncia al ruolo che lo aveva portato al successo per guadagnare credibilità come artista. Si ritrova poi ad inseguire l’idea di una relazione romantica come quella dei suoi genitori, ma finisce ogni volta per scappare o deludere le sue partner. Tutti i tentativi di trovare la sua strada non lo portano mai dove vorrebbe, al contrario, finiscono per condurlo alla dipendenza dall’alcol che aveva sopraffatto anche suo padre Jack. In lui prevale il bisogno di attenzione, di essere riconosciuto come persona degna di affetto e ammirazione: lo ricerca nel suo pubblico, in rocambolesche relazioni pseudo-sentimentali e, infine, nell’amore di sua madre, le cui attenzioni sono da sempre oggetto di contesa tra lui e suo fratello Randall. Assistiamo quindi alla smaniosa ricerca di una vita appagante che sembra però non esserlo mai abbastanza.

Attraverso le storie dei protagonisti, This is us ci regala un quadro piuttosto completo di questi personaggi e della loro famiglia, mostrandoci come ciò che avviene nel presente sia indissolubilmente legato a ciò che è accaduto in passato, come ogni persona incontrata e ogni evento vissuto possa lasciare un segno e dirigere la vita in una direzione piuttosto che in un’altra. E al centro di questo processo, nella storia dei Pearson, si pone la famiglia come luogo e momento fondamentale per l’affermazione e il riconoscimento di sé.

La famiglia […] permette anche una relazione tra le generazioni. Al suo interno, […] le differenti generazioni trovano spazio per incontrarsi, confrontarsi, competere, completarsi, dividersi i compiti e ridefinire i propri confini. […] la maturazione dell’individuo viene accompagnata nell’integrazione delle diverse fasi di sviluppo nella personalità proprio dalla famiglia che permette questa ulteriore distinzione e completamento in quanto essa è il luogo che tiene unite più generazioni (Gambini, 2007, p. 49).

In questo senso, una storia come quella dei Pearson, è il racconto di intere generazioni che prende forma attraverso le vite dei protagonisti.

This is us è una serie ben costruita, complessa e semplice al tempo stesso. Semplice perché racconta qualcosa che in una certa misura è familiare a ciascuno di noi – la storia di una famiglia, delle generazioni passate, presenti e future – che ci rende in grado di apprezzare come la vita sia un’intricata trama della quale tutti facciamo parte. In questo modo, anche il passaggio dalla vita alla morte viene concepito non come qualcosa di netto, ma come un tassello da aggiungere al quadro che definisce chi siamo, attraverso il lascito di chi non c’è più. Seguendo gli intrecci tra passato, presente e futuro, questa serie ci invita dunque a riflettere sul grande disegno che è la vita e su come ognuno di noi sia il prodotto unico di un insieme di fattori ed esperienze che scrivono – spesso al di fuori della nostra consapevolezza – il senso del nostro stare al mondo.

 

L’ Amore come cura: dall’Alchimia della relazione terapeutica nasce un’opera d’arte inimitabile

Nel campo di forze generato all’interno del setting terapeutico fluttuano energie alla ricerca di quella combinazione in grado di costruire una relazione, una combinazione fatta di chimica, cognizione, emozione.

 

La relazione si muove come in uno spartito musicale, fatto di note predominanti, di tonalità, ma anche di pause. L’armonia si ricerca anche nel silenzio più profondo, perché spesso è proprio attraverso il linguaggio del corpo, fatto di autentiche verità, incapace di menzogne, che avviene l’incontro.

Risulta essenziale all’interno di questo spartito emozionale la costruzione di un’alleanza terapeutica, che coinvolga allo stesso modo paziente e professionista. Studi empirici sull’efficacy della psicoterapia dimostrano che tale alleanza risulta essere tra i fattori aspecifici predittivi di un buon esito del trattamento e, dunque, nucleo concettuale e clinico di estrema importanza (Meta-analisi, Horvath, Del Re, Flückiger et al., 2011).

Perché? Semplice, quanto complesso: perché induce cambiamento.

La coazione a ripetere, «quell’eterno ritorno dell’uguale», quell’eterno ritorno che si impone quasi come potenza demoniaca al paziente, ancorato ad uno stato di passività ed immobilità, ben si evidenzia anche nella relazione terapeutica. Appare fondamentale l’innesco di un movimento, che se pur piccolo o lento, verta all’evoluzione, partendo necessariamente da una forte coalizione con L’Io sano.

Forte rilevanza ha nel processo trasformativo la stimolazione dell’immaginario, proprio come accade nella musica: un dettaglio, un profumo che innescano un pensiero, a sua volta modulato in un suono, e poi in una melodia e poi in un’opera. Immaginario che risulta essere terreno fertile, humus in grado di coltivare, anche in mezzo ad un terreno arido, singoli semi che nascondono un potenziale infinito.

Tutto sta nello stimolare la mente all’interno di un setting protetto, un po’ “ovattato” e sospeso, come accade nel Rêve Eveillé, che secondo Desoille rappresenta la via regia di accesso all’Inconscio. Forte la correlazione con la rêverie bioniana, che a sua volta è fortemente legata a quel principio con cui Freud esprime il concetto di «sogno ad occhi aperti», ovvero sogno diurno. Con Bion questo “mondo sospeso” assume un forte potere in ambito psicoanalitico, ovvero la capacità materna di raccogliere e accogliere dentro di sé tutte le impressioni dell’infante a livello sensoriale e di restituirle, in una forma tale da renderla comprensibile alla mente del bambino, in questo modo capace di assimilarla. Ecco un vero e proprio processo trasformativo che innesca quell’alfabetizzazione di elementi beta primordiali, caotici, ancora immaturi dell’infante, per dare forma e significato agli stessi. Con la rêverie la madre provvede a quel bisogno di amore e di sete di conoscenza del piccolo, proprio come accade nel campo terapeutico, fortemente magnetico. Attraverso l’attenzione fluttuante (Freud) il terapeuta, libero da memoria e da desiderio valorizza quell’attività di pensiero onirico diurno, di quel sogno ad occhi aperti, in grado di accelerare il metabolismo basale stagnante del paziente e renderlo capace di movimento. La mente, in questo navigare fluttuante, libera sé stessa, approdando alle rive più nascoste dell’inconscio. Il terapeuta, in questo fruire di pensieri scolpisce nella sua mente, la melodia o l’opera pensata dal suo paziente. D’altro canto, il paziente sente di essere pensato dal terapeuta e dunque, finalmente, amato. L’Esperienza Immaginativa, in un setting estremamente confortante, ma sempre controllato da quelle che sono le regole della seduta psicoterapeutica, risulta essere liberatoria: la mente dà spazio al suo essere più autentico, mettendo in atto un processo di rivelazione di sé, senza più timori.

«Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura»: la mente del paziente supportata dagli spostamenti del terapeuta intraprende un cammino tortuoso alla ricerca della luce. Ecco riecheggiare un Archetipo della nostra cultura, secondo cui per arrivare in cima alla montagna e godere del suo splendido panorama, sudore, fatica accompagnati anche a momenti di frustrazione, sono necessari. Un’ immagine (ἀρχε, τύπος) congiunta all’Inconscio Collettivo junghiano dal quale deriva. Lo Stimolo Immaginativo sotto forma di opera d’arte diventa l’innesco per la creazione di un capolavoro inimitabile. La mente stimolata dalla creatività di un quadro o dai suoni melodici di una poesia viene travolta. Attraverso l’opera artistica si stimolano percorsi mai intrapresi dalla mente, che in un viaggio senza dubbio tortuoso, cerca la sua libertà.

La mente sconfina, da quei milleduecentocinquantagrammi di sostanza gelatinosa si attivano strutture neuronali correlate tra loro, in grado di accendere aree della memoria inconscia a lungo termine e di portare alla luce ricordi visibili sotto nuova prospettiva. Sconfinare spesso è frainteso con quel limite relativo tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che è normale e patologico, una sorta di irrispettoso o non cosciente salto nell’istinto pulsionale, spesso evidenziato in abuso di sostanze o in disturbi come il borderline, dove l’incapacità di contenimento è distruttiva. In realtà, qui lo sconfinare assume un potente significato liberatorio, capace di sciogliere i nodi conflittuali a cui la mente in-consapevolmente rimane aggrappata, per paura di cadere nell’abisso dell’ignoto, ovvero l’inconscio. Creatività che sconfina, dando vita ad un’opera d’arte.

Ma la relazione terapeutica non è essa stessa un’opera d’arte?

In effetti, il potere dell’alleanza all’interno del setting spazia oltre ogni limite. Attraverso l’interazione terapeuta-paziente si plasma un’opera irripetibile, fatta di molteplici sfaccettature che la rendono unica nel complesso. E sicuramente essere creativo, ma sempre correlato alla tecnica, da cui il professionista non può certo prescindere. E arte che è anche techne. Si scava nel profondo, ma mai in solitudine. E un essere nel mondo con, ossia un esserCi, che è allo stesso tempo un essere-CON, quello che Heidegger definisce il Dasein, ovvero quell’ente che strutturalmente è «con gli altri». Una vera forma di Amore che precede la Cura o forse meglio si intreccia a lei, in quanto l’Amore stesso è cura, che va oltre l’aspetto più meramente contrattuale: diventa un cammino di colori e di emozioni che si addentra in una dimensione più creativa per entrambe le componenti (Paziente-Terapeuta), dimensione che ha un vero e proprio effetto catartico.

L’Amore riesce a trascendere il mondo e permette all’essere di abbandonarsi nelle mani dell’Altro. La terapia diventa Amore all’interno di un luogo di cura.

Dunque la parola di chi ha guarito è proprio quella dell’Amore, che oltrepassa e ovviamente deve oltrepassare ogni dimensione materiale, non è né Eros, né Philia.

L’Alchimia nata in questo viaggio cura ogni singolo dettaglio, incessantemente instancabile, in quanto espressione assoluta di Agape.

Fattori di stress e adattamento dei migranti

Negli ultimi due decenni si è verificata la più grande migrazione forzata di popolazioni colpite da conflitti civili. La natura traumatica di questi eventi fa nascere un enorme bisogno di fornire salute mentale e supporto psicosociale ai migranti forzati colpiti dai conflitti (Fazel et al., 2012).

 

Ricerche precedenti, infatti, hanno riscontrato, fra essi, un’elevata frequenza di disturbi mentali, tra cui ansia, depressione e disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (Morina et al., 2018), oltre ad aver scoperto che il disagio psicologico tra i rifugiati migranti forzati è ampiamente spiegato dalle esposizioni a fattori di stress che si verificano lungo il processo migratorio (Zimmerman et al., 2011). Le caratteristiche demografiche pre-migrazione come l’età più avanzata, il sesso femminile, il livello di istruzione più alto e lo status socioeconomico più elevato non sono coerentemente associati al disagio psicologico (Bogic et al., 2015), al contrario delle esperienze post-migrazione, le quali sono state sempre più studiate: la vita quotidiana dopo l’esposizione al conflitto e la migrazione è spesso afflitta da richieste che minano la salute quanto o più dell’esposizione al trauma stesso (Chen et al., 2017).

Secondo il Daily Stressor Model (Miller e Rasmussen, 2014), vi è una categoria che coinvolge fattori di stress sociali e materiali presenti quotidianamente, come la povertà, l’isolamento sociale e quartieri poveri o non sicuri, e un’altra categoria che è costituita da fattori di stress potenzialmente traumatici che si verificano in modo ricorrente, ma non necessariamente nel quotidiano, come conflitti armati, violenza sessuale e morte di persone care. Questo modello presuppone che la precedente esposizione al trauma contribuisca a un maggior numero di esperienze negative nella vita quotidiana (cioè, maggiori fattori di stress quotidiani), che, a loro volta, predicono una salute mentale peggiore durante o dopo i conflitti (Miller e Rasmussen, 2014). Il modello ecologico sociale ha suggerito che il disagio psicologico dei rifugiati dipende dai fattori di stress in corso e dalla precedente esposizione al trauma (Miller e Rasmussen, 2017). I fattori di stress legati allo spostamento sono un sottoinsieme di fattori di stress quotidiani che hanno origine sia dai conflitti armati che dalla migrazione forzata. I fattori di stress combinati, sia materiali (ad esempio, la povertà, la perdita di beni) che interpersonali (ad esempio, il conflitto e la violenza in famiglia, la perdita di reti di supporto sociale), contribuiscono a peggiorare la salute mentale e il funzionamento della famiglia. Secondo la teoria Drive to Thrive (DTT) il trauma contribuisce a una minore regolarità delle routine quotidiane, che, a sua volta, predice una salute mentale più scadente. Il DTT distingue due tipi di routine quotidiane: (1) primarie, ovvero riferite a comportamenti necessari per la sopravvivenza, come l’igiene, il sonno, l’alimentazione e la manutenzione della casa; (2) secondarie, riferite a comportamenti opzionali che dipendono dalla motivazione e dalle preferenze, come l’esercizio fisico, il tempo libero, le attività sociali e l’occupazione o il coinvolgimento nel lavoro (Hou et al., 2019). In condizioni di privazione immediata come i contesti di post-migrazione o i disastri, una ridotta regolarità delle routine primarie piuttosto che secondarie potrebbe avere associazioni più forti con una cattiva salute mentale (Doğan e Kahraman, 2011). Un recente studio meta-analitico è stato condotto per fornire una revisione completa e quantitativa del legame tra le esperienze di vita quotidiana e la cattiva salute mentale, al fine di informare lo sviluppo di screening della salute mentale e l’intervento economicamente vantaggioso per gli individui a rischio dopo la migrazione forzata (Betancourt et al., 2010).

In primo luogo, gli autori hanno rivisto e identificato diversi tipi di esperienze di vita quotidiana post-migrazione sfavorevoli e gli esiti della salute mentale che sono stati studiati in migranti forzati colpiti da conflitti. In secondo luogo, hanno quantificato le associazioni tra esperienze di vita quotidiana e gli esiti più comuni di salute mentale: sintomi d’ansia, sintomi depressivi, sintomi PTSD, distress generale e benessere generale. Infine, hanno testato i potenziali mediatori e moderatori delle associazioni tra esperienze di vita quotidiana e salute mentale, e i loro effetti.

Gli studi sono stati reperiti tramite PsycInfo, PubMed e Web of Science. Sono stati inclusi quelli condotti prima e nel corso dell’anno 2018. I criteri di inclusione sono stati i seguenti: ricerche empiriche che coinvolgevano sia migranti forzati, sia quelle popolazioni colpite da conflitti, che avessero almeno una misura quantitativa, chiaramente definita, per ciascuna delle esperienze di vita quotidiana e degli esiti di salute mentale. Due ricercatori indipendenti (NL e LL) hanno estratto i seguenti dati dagli studi inclusi: disegno di ricerca, metodo di campionamento, età, sesso, tipo di popolazione, misurazione dell’esposizione al trauma, esperienze di vita quotidiana e salute mentale. I dati sulle esperienze della vita quotidiana sono stati categorizzati in: (1) fattori soggettivi di stress quotidiano, misurati a loro volta nella loro valenza emotiva o sentimenti di angoscia associati all’esperienza (Morville et al., 2015); (2) fattori interpersonali di stress quotidiano, a loro volta valutati in termini di interazioni interpersonali associate all’esperienza post-migrazione (Kashyap et al., 2019); (3) fattori materiali di stress quotidiano, riferiti a diversi tipi di difficoltà come ad esempio l’alloggio, il vicinato, le questioni legate all’occupazione e l’accesso ai servizi sociali e di salute mentale (Georgiadou et al., 2018); (4) fattori misti di stress quotidiano, ossia una combinazione degli stressors quotidiani precedentemente elencati (Idemudia et al., 2013). Punteggi più alti indicavano maggiori stressors quotidiani.

Dei 4.616 articoli ottenuti dalla ricerca iniziale, 59 sono stati ritenuti conformi ai criteri di inclusione predefiniti: questi hanno coinvolto 10.680 (60%) rifugiati, 1.755 (10%) richiedenti asilo, 2.054 (12%) rifugiati e richiedenti asilo (campione misto), e 3.274 (18%) immigrati. Complessivamente, le esperienze di vita quotidiana sfavorevoli sono state associate a esiti di salute mentale peggiori. Gli stressor quotidiani misti avevano la più forte associazione con i risultati di salute mentale, seguiti dagli stressor quotidiani interpersonali. I fattori soggettivi di stress quotidiano, definiti come il disagio emotivo percepito associato a diverse esperienze quotidiane, erano positivamente associati all’ansia e ai sintomi del PTSD e al distress generale. I fattori di stress quotidiani interpersonali (per esempio, conflitto, discriminazione, isolamento, mancanza di supporto emotivo) e misti sono stati associati positivamente all’ansia, ai sintomi depressivi e PTSD, e al distress generale. I fattori di stress quotidiani materiali (ad esempio, contesti abitativi/di vicinato, difficoltà di alloggio, problemi legati all’occupazione, accesso ai servizi sociali o di salute mentale) erano associati positivamente ai sintomi del PTSD, allo stress generale e alla compromissione funzionale. I fattori di stress quotidiani misti erano associati positivamente con i sintomi di ansia, i sintomi depressivi, i sintomi del PTSD e il disagio generale. Le analisi dei moderatori hanno rivelato che le dimensioni degli effetti erano più forti per (1) i paesi ospitanti in via di sviluppo rispetto ai paesi ospitanti sviluppati, (2) i fattori di stress misti rispetto ad altri tipi di stressor, (3) stress generale rispetto ai sintomi del PTSD e al benessere generale, e (4) bambini e adolescenti rispetto agli adulti. Inoltre, è emerso che il tipo di esito di salute mentale, il gruppo di età, e il tipo di paesi ospitanti hanno moderato le dimensioni degli effetti tra le esperienze di vita quotidiana e gli esiti di salute mentale. Pertanto, è possibile concludere che le esperienze di vita quotidiana sfavorevoli nei paesi ospitanti potrebbero avere un impatto più forte sulla salute mentale rispetto alla precedente esposizione al trauma tra i migranti forzati. L’analisi di mediazione, invece, ha rivelato che l’associazione positiva tra una precedente esposizione traumatica e una cattiva salute mentale (sintomi e angoscia generale) è stata completamente mediata da fattori di stress quotidiani soggettivi, interpersonali, materiali e dalle routine primarie, e parzialmente mediata dai fattori misti di stress quotidiano; l’associazione positiva tra trauma precedente e successivi sintomi di PTSD era completamente mediata da fattori di stress giornalieri soggettivi; l’associazione positiva tra precedente esposizione traumatica e successivi sintomi di ansia, depressione e PTSD è stata completamente mediata dagli stressor quotidiani interpersonali; le associazioni positive tra trauma precedente e i successivi sintomi di ansia e PTSD erano completamente mediate dalle routine primarie; le associazioni positive tra precedente esposizione traumatica esposizione e la successiva depressione, i sintomi del PTSD e l’angoscia generale erano parzialmente mediate da fattori di stress quotidiani misti.

Questo studio è una delle prime revisioni quantitative complete sull’adattamento dei migranti forzati. Nello specifico, questi risultati suggeriscono da un lato la necessità di valutare l’impatto di diversi tipi di esperienze sfavorevoli della vita quotidiana sulla salute mentale in contesti di post-migrazione, dall’altro di concentrarsi sul mantenimento delle routine quotidiane primarie, tra cui la dieta, il sonno, l’igiene e la manutenzione della casa, per favorire l’adattamento psicologico (Hou et al., 2019). Riassumendo tutti gli studi pertinenti fino alla fine del 2018, gli autori suggeriscono che mentre l’impatto negativo del trauma precedente sulla salute mentale rimane importante, il suo impatto negativo è probabilmente indiretto attraverso il peggioramento di diversi aspetti della vita quotidiana, principalmente l’angoscia soggettiva e le interazioni interpersonali.

Death Education (DeEd): l’educazione alla morte come esercizio di consapevolezza. Il COVID-19 evidenzia la nostra impreparazione al confronto con la morte

La Death Education, letteralmente “educazione alla morte”, ha come intento quello di scardinare tutte le difese che l’uomo ha nel tempo eretto contro la morte e che gli impediscono di giungere alla reale comprensione di quest’ultima.

 

Introduzione: Terror Management Theory (TMT)

La TMT (Terror Management Theory) spiega come la conoscenza della propria mortalità rappresenti una minaccia esistenziale per l’uomo in quanto la morte è in contrasto con l’innato istinto di sopravvivenza che contraddistingue tutti gli esseri viventi (Pyszczynski, Lockett, Greenberg & Solomon, 2020). La TMT descrive infatti come l’essere umano tenga a distanza l’ansia per la morte attraverso una serie di difese come ad esempio la fede religiosa, che funge da scudo protettivo per la persona. Assieme alla naturale tendenza dell’uomo ad allontanare la morte, la cultura di appartenenza spesso rinforza questo fenomeno, come nel nostro caso. Appare dunque quasi paradossale come si giunga così poco preparati a quella che forse è una delle poche condizioni a cui certamente andremo tutti incontro. Come se la morte fosse, sin dalla nascita, di default, qualcosa con cui ci si confronterà solo in un altro momento. Come se la paura suggerisse che è sempre troppo presto, senza accorgersi che il più delle volte è già troppo tardi.

L’ansia per la morte, o death anxiety, è la paura rispetto all’anticipazione della morte, nonché della consapevolezza della morte e della non-esistenza, di cui la persona può essere cosciente o meno (Barrett, 2013). Quando particolarmente marcata, la death anxiety, può manifestarsi anche attraverso forte ansia e/o ricorrenti pensieri ossessivi. Secondo alcuni studi, la paura della morte ha il suo apice tra i 40-60 anni per poi diminuire in età più avanzata (Fortner & Neimeyer, 1999). Contrariamente, altri autori suggeriscono che essa sarebbe maggiore verso i 20 anni per poi presentarsi nuovamente verso i 50 anni ma soltanto nelle donne (Russac, Gatliff, Reece & Diahann, 2007). Nonostante i diversi risultati presenti in letteratura, il pensiero della morte, e più generalmente della nostra e dell’altrui mortalità, è costantemente presente nella nostra vita già dall’infanzia (Nagy, 1948). Tale pensiero può essere più o meno costante ed essere riportato all’attenzione da eventi o situazioni della vita quotidiana, innescando stati emotivi spesso spiacevoli e poco approfonditi dall’individuo.

Lo studio della morte dal punto di vista psicologico e culturale prende il nome di tanatologia. Herman Feifel, uno degli autori fondamentali del movimento per la consapevolezza sulla morte, ha per primo suscitato l’interesse verso lo studio di questa da un punto di vista multidisciplinare e più umanistico (Wass, 2004). Più specificamente, la psicotanatologia, si occupa del sostegno psicologico diretto alle persone che si trovano in situazioni di prossimità alla morte, propria o di uno dei loro cari (es. pazienti terminali). Il modello psicotanatologico deve la propria nascita alla psichiatra svizzera E. Kubler Ross; il suo modello (1970) a cinque fasi descrive infatti le principali tappe di elaborazione psicologica della morte: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione.

Grazie al contributo dei pionieri nello studio psicologico del concetto di mortalità e di morte è possibile oggigiorno comprendere come l’individuo, e più ampiamente la società moderna, si rapporti al fenomeno, in particolare alla luce dei più recenti avvenimenti. Nell’ultimo anno la rapida diffusione del virus Covid-19 ha reso sempre più evidente l’inevitabilità della morte e quanto noi siamo impotenti di fronte ad essa. Come anticipato, la TMT postula che le persone cerchino di far fronte, come possono, all’ansia che risiede nei pensieri inerenti la morte, per esempio attraverso la religione o le relazioni interpersonali. Questi espedienti hanno infatti la precisa funzione di tamponare l’ansia di morte (Solomon et al., 2015). Ma per quanto l’uomo tenda a tener lontana la morte e tutto ciò che la riguardi, l’emergenza Covid-19 e la copertura mediatica che essa ha ottenuto a livello mondiale si è tramutata in un considerevole promemoria; inoltre, le conseguenze socio-economiche della pandemia, sommate all’isolamento che ne deriva, hanno messo a repentaglio le difese dell’uomo per fronteggiare l’ansia scaturita dai pensieri di morte (Pyszczynski, Lockett, Greenberg & Solomon, 2020). La distanza relazionale attorno alla morte che, come verrà approfondito, già si poneva come una piaga, in questa condizione non ha potuto che peggiorare. È diventato molto più difficile gestire il terrore della morte in tempi in cui essa fa da padrone. Come spiegano Pyszczynski e colleghi (2020) una maggiore consapevolezza della morte associata alla minaccia del Covid-19 è difficile da gestire con successo perché il Covid-19 ha minato l’accesso a molti aspetti dei buffer di ansia delle persone; buffer di ansia che se compromessi lasciano le persone vulnerabili a sperimentare livelli di ansia da morte più elevati del solito.

Death Education: alcune evidenze circa la DeEd primaria.

La Death Education, letteralmente “educazione alla morte” ha come intento quello di scardinare tutte le difese che l’uomo ha nel tempo eretto contro la morte e che gli impediscono di giungere alla reale comprensione di quest’ultima. La DeEd vede le sue origini nel mondo anglosassone a partire dal 1970. Negli anni a venire questi percorsi, così come altre iniziative inerenti al tema, si sono ampiamente diffusi anche negli Stati Uniti (Clifton, 2003). L’Europa, dal canto suo, per lungo tempo è rimasta arretrata fino all’istituzione di centri di ricerca appositi in tempi più recenti.

La Death Education può essere effettuata a tre livelli: primaria (quando le problematiche inerenti alla morte non sono presenti o vicine nel tempo), secondaria (quando la morte è in prossimità) e terziaria (quando la perdita è già avvenuta). Appare rilevante sottolineare come l’intento di impartire un’educazione alla morte può essere meglio raggiunto se si interviene sin dalla tenera età, in quanto un intervento precoce può essere quello con maggiori probabilità di successo.

Un esempio di DeEd primaria consiste in un percorso educativo atto a fornire delle informazioni realistiche sulla morte, svincolando quest’ultima dalle spettacolarizzazioni offerte dai media. Inoltre, ha l’obiettivo di fornire un alfabeto emotivo con cui poter dar voce ai propri vissuti rispetto al tema trattato (Testoni, 2015). Questa tipologia di iniziativa ha luogo spesso all’interno della scuola visto che essa risulta essere la seconda agenzia educativa subito dopo la famiglia. Lo scopo è quello di coadiuvare i più piccoli ad elaborare eventuali vissuti spiacevoli correlati a perdite passate e per far ciò è necessario, anzi indispensabile, che gli insegnanti per primi abbiano grande consapevolezza dei propri trascorsi (Edgar & Howard-Hamilton, 1994). Il fine ultimo è quello di sviluppare resilienza accompagnata da strategie di coping che, all’occorrenza, potranno fare la differenza, disincentivando così la probabilità di crescere fino a ritrovarsi adulti con una censura verso la morte e le sue implicazioni. Un buon livello di consapevolezza relativa alla perdita consente all’individuo di “non temere l’impossibile, imparando a gestire l’inevitabile” (Testoni, 2015). Il miglior tramite per ottenere questa maggiore consapevolezza sono i percorsi di Death Education. Un esempio proveniente da una scuola elementare italiana spiega come un percorso di educazione alla morte possa essere sviluppato in occasione della festa dei morti (2 novembre): è stato chiesto ai genitori di bambini di una classe di cinque anni di portare la foto di persone care defunte e di raccontarne la biografia. Un progetto del genere presuppone sia che i genitori ed insegnanti abbiano elaborato con successo i propri vissuti rispetto alla perdita, sia che vi sia una collaborazione tra la scuola e la famiglia, perché quanto esperito in un ambiente possa trovare sostegno anche nell’altro, in una sorta di continuum esperienziale ed emotivo in cui si acquisiscono delle skills per elaborare vissuti di perdita (Testoni, Tranquilli, Salghetti, Marini & Legrenzi, 2005).

Dal momento che il concetto di morte si sviluppa fin dalla tenera età, risulta chiaro quanto sia importante intervenire precocemente. Le prime ricerche eseguite in merito hanno abbracciato una visione stadiale. Ad esempio, Nagy (1948) identifica tre fasi temporali di sviluppo attraverso le quali si inizia a definire la morte, inizialmente vedendola come una “partenza temporanea” fino a giungere alla consapevolezza che essa sia un evento inevitabile ed invincibile. Intervenire in questi momenti cruciali consentirà di offrire un supporto grazie al quale apprendere come relazionarsi con tali pensieri.

Difficoltà e reticenza dell’adulto nell’affrontare il tema della morte ostacolano la comprensione nei più piccoli confondendoli e portando loro maggiori livelli di ansia. L’evidenza scientifica dimostra come tanto peggio è compreso il concetto di morte tanto più questo si associ ad un livello maggiore di paura; al contrario, più viene maturata un’idea completa di morte e meno essa sarà accompagnata da sentimenti di ansia (Slaughter, 2005; Slaughter & Griffiths, 2007).

Dall’analisi della letteratura in merito agli effetti della DeEd su ansia e paura della morte emergono numerose evidenze circa gli effetti positivi della prima sulla death anxiety e sulla più generale paura della morte. Numerosi sono gli studi che indagano questa relazione in gruppi di studenti, e, in particolare, in studenti iscritti a facoltà sanitarie (es. infermieristica). McClatchey e King (2015) hanno indagato l’impatto della Death Education sulla paura della morte e death anxiety in un gruppo di studenti iscritti ad un corso di laurea in Servizi Sociali (Human Services). Un gruppo di studenti ha partecipato a delle classi tenute da docenti e ospiti provenienti da contesti diversi, es. centri di oncologia, hospice, ospedali e studi legali, i quali hanno discusso vari temi legati alla morte quali lutto, eutanasia e suicidio. Dai risultati emerge come gli studenti che hanno partecipato alle classi di DeEd riportano livelli di death anxiety e sintomi ansiosi significativamente minori rispetto agli studenti che non hanno partecipato alle classi.

Altri studi mostrano invece come gli interventi di educazione alla morte possano invece, alcune volte, portare ad un aumento dell’ansia legata alla morte. Da uno studio condotto su un gruppo di studenti universitari è emerso che i partecipanti coinvolti in un programma di Death Education della durata di un semestre, rispetto agli studenti nel gruppo di controllo, mostravano livelli di ansia per la morte maggiori (Knight & Elfenbein, 1993). Secondo gli autori, i diversi risultati che emergono dagli studi presenti in letteratura mostrerebbero come, al di là dei possibili interventi, molto dipenda proprio dal significato che ciascuno dei partecipanti, e dunque ciascuno di noi, attribuisce alla morte. Infatti, all’interno del gruppo di controllo – studenti partecipanti alla classe di death education – il 41% (12 studenti) – ha riportato indici di death anxiety minori rispetto all’inizio del programma in quanto avevano iniziato ad associare alla morte un significato più positivo.

Risulta quindi fondamentale affrontare la morte da più prospettive: biologica, culturale, religiosa, etica e non inculcare una sua rappresentazione univoca, come ad esempio quella religiosa. La percezione dell’adulto, di una propria o altrui (es. dei bambini) incompetenza nel dialogare di morte, non è mai una buona ragione per lasciare i bambini da soli perché niente potrà impedirgli di porsi delle domande sulla morte atteso che, come si è visto, i pensieri sulla morte iniziano a comparire molto presto, e lasciare che si rispondano da soli senza alcun tipo di sostegno potrebbe essere deleterio. Se i percorsi di DeEd primaria venissero introdotti nel curriculum formativo scolastico si aumenterebbero di certo le probabilità di ottenere delle generazioni più accoglienti e meno reticenti rispetto al tema.

Congiura del silenzio attorno alla morte ed al morire

Venir meno a questa responsabilità nei confronti dei più piccoli significa perpetuare la cultura della cosiddetta “congiura del silenzio” – definita quasi come una patologia relazionale – attorno a questo tema, non rinforzando ma anzi mettendo più a rischio le impalcature emotive a fronte di una perdita, in quanto il soggetto non si troverà equipaggiato per affrontare la tempesta emotiva (Testoni, 2015). Questo atteggiamento è incentivato dalla cultura che negli ultimi decenni è andata sempre più perdendo quella dimensione collettiva della morte, vissuta sempre più in solitudine. Infatti, fino a qualche decennio fa il processo di elaborazione di una perdita veniva affiancato da un sostegno comunitario testimoniato da una fitta rete di supporto e da consuetudini ben radicate e tramandate nel tempo. Ad oggi, il confronto che spesso si tramuta in uno scontro con la morte è sempre più relegato alle mura domestiche. Se, come precedentemente argomentato, il singolo spesso risulta sprovvisto di un equipaggiamento emotivo per far fronte ad una perdita, appare evidente quanto il ritorno alla condivisione e all’incontro con l’altro risulti necessario. Se pensiamo alla situazione pandemica che ci troviamo a vivere, essa ha portato ancor più alla luce la sofferenza dell’isolamento. E’ noto come i riti funebri, ad esempio, aiutino l’elaborazione della perdita, consentendo di porgere l’ultimo saluto con modalità e tempi che favoriscano il distacco dalla persona defunta. La diffusione del Covid-19 ha fatto sì che anche questa possibilità venisse meno andando ad esacerbare tale dolore. La Testoni (2015) afferma che l’occultamento della morte abbia condotto a quelle che definisce generazioni di famiglie death-free, prodotto dell’aver relegato la morte dietro le quinte della vita sociale, illudendosi di potersene così in qualche modo liberare. Già Vovelle (1983) in merito asserì come la morte dovrebbe condurre ad una sensibilità collettiva perché solo così potrà aver luogo una presa di coscienza sociale.

Una buona Death Education svolge un ruolo cruciale anche per tutte quelle figure mediche e/o professionali che si interfacciano quotidianamente con la morte e che hanno un’influenza anche sul paziente e le sue figure di riferimento. I percorsi formativi di tali figure includono una preparazione procedurale che troppo spesso non è affiancata da un sostegno psicologico che li supporti nel loro dialogo quotidiano con la morte. Sono troppi i casi in cui una buona capacità comunicativa del personale sanitario potrebbe fare la differenza ed invece il dialogo è spesso ostacolato quando è necessario affrontare temi così delicati.

A tal proposito, con l’espressione Breaking bad news si indica una comunicazione di una brutta notizia il cui impatto risulta essere proporzionale a quanto il soggetto giunge “pronto” alla sua recezione. Partendo dal presupposto che difficilmente si possa giungere “pronti” ad un confronto diretto o indiretto con la morte, di certo molto si può fare per giungerci quanto meno attrezzati. Comunicare una bad news indica il riferire un’informazione che comporta la presa di coscienza di un punto di non ritorno, come ad esempio una prognosi infausta o traumi che colpiscono persone care (Testoni, 2015). A tal proposito risulta utile, per una più ampia comprensione, esplicitare i due modelli culturali di riferimento: il neo latino/mediterraneo (in cui si colloca/inserisce il contesto italiano) che occulta le reali condizioni al malato, e l’anglosassone che applica lo stretto principio del truth telling ovvero dire tutta la verità. Esistono numerosi protocolli (es. le linee guida dell’OMS) che si pongono come strumento atto a coadiuvare il clinico nella comunicazione delle bad news al paziente e alla famiglia. Nell’eventualità in cui si ha a che fare con la condivisione di una prognosi infausta, la comunicazione di essa non si esaurisce in un solo colloquio. Di contro, ci sono molteplici occasioni in cui non si dispone di un tempo utile per costruire una base solida, come nel caso delle morti improvvise. Ad oggi, siamo nel mezzo di una pandemia che ha causato innumerevoli decessi e molto spesso ciò che riesce ad alleviare il vuoto dell’isolamento ospedaliero e che ha fatto la differenza è la vicinanza mostrata dal personale medico. Come abbiamo visto, numerosi studi confermano che percorsi di DeEd giovino principalmente il personale sanitario, come per esempio quello infermieristico, riuscendo a diminuirne i livelli di ansia a seguito di percorsi educativi incentrati sulla morte (Lockard, 1989). Questo ci ha insegnato come dei percorsi di DeEd debbano trovare maggior spazio nell’iter formativo.

Si è già ampiamente argomentato come la propria consapevolezza sia la conditio sine qua non per poter essere veicolo di una buona DeEd nelle interazioni con il prossimo, sia egli un paziente o un familiare. La rilevanza di una sviluppata sensibilità a questi temi non può e non deve essere qualcosa a cui porre attenzione solo in situazioni di estrema sofferenza come quella che ci troviamo a vivere. Soprattutto, il sostegno emotivo e/o psicologico non deve essere affidato solo e soltanto al ménage familiare ma è necessario un sostegno reciproco grazie al quale sentirsi più forti nel confronto con la morte.

Conclusioni

L’intento del presente elaborato era quello di fornire al lettore una definizione quanto più esaustiva possibile della Death Education con il fine di creare uno spazio di riflessione sul tema della morte, alla luce, soprattutto, degli eventi più recenti. Consapevoli che un argomento di tale rilevanza offra svariati spunti, la scelta è stata quella di contestualizzare la morte, e le sue implicazioni, nel difficile panorama odierno, illustrando alcuni strumenti di intervento grazie ai quali è possibile ridurre tutte quelle paure ed ansie ad essa legate. Si è visto come la potenzialità insita nei percorsi di DeEd si ponga come uno strumento che, se diffuso ed incentivato a tutti i livelli, può fare la differenza, formando ed informando le persone, consentendo loro di acquisire una consapevolezza e una comprensione della morte e più in generale della mortalità, riducendo i livelli di ansia. In un momento storico controverso e complesso come quello attuale, che ci vede circondati ogni giorno da notizie di morte, numeri di decessi e avvertimenti circa i pericoli per la propria e l’altrui vita, appare necessario educarsi ed educare il più possibile alla morte. La salienza che il Covid-19 ha dato alla morte ci ha forse colti impreparati a fronteggiarla e ha sottolineato l’importanza di progettare interventi di sensibilizzazione alla morte. Se si riuscisse a svincolare tale argomento da tutte quelle rappresentazioni irrealistiche che spesso lo accompagnano si riuscirebbe ad avere certamente un confronto più realistico. Infatti, in una società che lascia così poco spazio alla reale comprensione della morte e del morire, la Death Education sembrerebbe essere un utile strumento non solo per gli operatori sanitari, ma bensì per tutti, a partire dall’infanzia. È soltanto attraverso un’adeguata formazione ed un dialogo il più possibile aperto rispetto alla morte e il morire che sarà possibile abbattere la congiura del silenzio.

 

La mindfulness come antidoto al multitasking

In un mondo che riconosce il multitasking come una qualità positiva e protettiva è facile compiere molte delle azioni quotidiane con il pilota automatico inserito. La mindfulness addestra a dirigere l’attenzione al momento presente, grazie ad un processo di autoregolazione attentiva con atteggiamento accettante, curioso ed aperto.

Togliamo il pilota automatico

La società odierna ci ha spinti ad inserire il pilota automatico, svolgendo molte azioni in contemporanea, assumendo una modalità multitasking.

Essere multitasking è riconosciuta come una qualità positiva e protettiva, in quanto permette all’individuo di poter essere efficiente e produttivo. Va da sé che nel XXI secolo, dominato da freneticità e competitività, essere in grado di stare al passo e dimostrarsi efficaci in più mansioni, rapidi nel portare al termine svariati compiti, rappresenta una dote e una qualità richiesta, in ambito lavorativo, sociale, nonché quotidiano.

Atteggiamento MIND FULL versus atteggiamento MINDFUL

Essere multitasking conduce a tenere in mente diversi oggetti, pensieri, potendo essere contemporaneamente presenti in diversi luoghi, a livello virtuale, pianificando, organizzando, rielaborando varie situazioni.

È un processo automatico e abbastanza spontaneo quello di compiere questi viaggi mentali.

Nonostante i benefici di tutto ciò, se ci fermiamo un attimo ed osserviamo l’immagine seguente possiamo ben comprendere come avere una mente “piena” conduce a non vivere veramente il momento presente, essendo essa colma di pensieri riguardanti azioni future da compiere, eventi passati, doveri da assolvere, mansioni da espletare.

Sicuramente la passeggiata risulterà maggiormente ristoratrice ed entusiasmante per il nostro cane, il quale, con atteggiamento mindful, riuscirà a cogliere ogni odore del paesaggio, ogni sfumatura visiva, ogni suono colpirà il suo apparato acustico.

D’altro canto noi potremmo pensare al traffico incontrato per strada per raggiungere il parco e nelle nostre orecchie potrebbero risuonare i clacson degli automobilisti, o ancora potremmo ragionare naturalmente sulla somma delle bollette da pagare. Bene, saranno solo le nostre gambe che “automaticamente” eseguiranno la passeggiata.

Per poter sviluppare un atteggiamento mindful occorre apprendere a sospendere il giudizio, avere pazienza, indossare la “mente del principiante”, inquadrando le cose come se le si vedesse per la prima volta, impegnandosi quotidianamente con autodisciplina.

Togliere il pilota automatico vuol dire eseguire le diverse azioni in modo consapevole, ovvero esplicito, con presenza. Quando una nuova abilità viene fatta propria, infatti, essa si automatizza e diveniamo in grado di svolgerla senza troppo impegno, essendo essa divenuta una memoria implicita (Ladavas & Berti, 2002).

Sviluppare la Mindfulness attraverso la meditazione

La Mindfulness addestra a dirigere l’attenzione al momento presente, grazie ad un processo di autoregolazione attentiva con atteggiamento accettante, curioso ed aperto (Bishop et al., 2004).

Jon Kabat Zinn, fondatore dell’uso clinico moderno della mindfulness, la definisce come

il processo di prestare attenzione in modo particolare: intenzionalmente, in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza nel presente momento dopo momento. (1994, p.16)

È importante sviluppare una relazione differente con i contenuti della mente: bisogna comprendere come i pensieri compaiano spontaneamente, senza invito. A questo punto occorre mettere in atto un processo di disidentificazione, dal momento in cui noi non siamo i nostri pensieri, e comprendere che gli stati interni sono per natura innocui, inconsistenti, impermanenti, anche se sgradevoli (Didonna, 2019).

La Mindfulness insegna il decentramento:

il semplice atto di riconoscere i tuoi pensieri come pensieri può liberarti dalla realtà distorta che essi spesso creano e permetterti di avere una prospettiva più chiara da cui vedere le cose e un maggior senso di controllo nella tua vita. (Kabat-Zinn, 1990)

La pratica di meditazione volta allo sviluppo di un atteggiamento mindful viene condotta o attraverso una modalità strutturata, con un tempo stabilito e in un setting silenzioso, o una modalità non strutturata, che non richiede un setting particolare e può essere svolta in diversi momenti del quotidiano.

Quando si inizia la pratica della meditazione ci si rende, da subito, conto di quanto sia difficoltoso mantenere l’attenzione consapevole su un oggetto per più di pochi secondi: la mente viene catturata da pensieri multipli e diversificati inerenti la nostra vita. Ciò è del tutto naturale e lo è ancor di più all’inizio della pratica. La mente tende naturalmente a vagare ed etichettare l’esperienza presente, giudicandola.

La meditazione addestra ad essere “svegli”, a togliere il pilota automatico e ad osservare queste modalità della mente, con atteggiamento osservante, ma non giudicante, gentile e compassionevole.

Ogni qualvolta la mente si allontana dall’oggetto attenzionato consapevolmente, l’istruzione è di osservare dove è andata, lasciando andare l’oggetto da cui è presa, sia esso un pensiero, un impulso, una sensazione, e di riporre il focus sul target iniziale.

La pratica della consapevolezza addestra a stare con l’esperienza interna ed esterna del momento presente senza cercare di modificarla in alcun modo: è la pratica del “non fare”.

Tra uno stimolo e una risposta c’è uno spazio: in tale spazio risiede la nostra interpretazione, dunque, il potere di scelta.

Le pratiche di meditazione favoriscono lo sviluppo della capacità di entrare intenzionalmente in uno stato mindful, dove esiste uno spazio tra esperienza ed azione, incrementando il tratto accogliente, accettante e non giudicante verso l’esperienza (Rainone, 2012).

Falsi miti sulla Mindfulness

Porre attenzione in maniera consapevole, sospendendo il giudizio, focalizzandosi sul momento presente, non conduce ad uno stato di trance, né tantomeno ad uno stato alterato di coscienza.

Al contrario, l’obiettivo è rimanere “svegli”, notando le fluttuazioni naturali del pensiero.

Un altro falso mito riguarda la fuga dalla realtà. La mindfulness non mira all’evasione del momento presente, elevando l’individuo a pensieri sublimi; al contrario, essa addestra a stare con la realtà, piacevole o dolorosa che sia, accogliendo ogni pensiero si affacci alla coscienza, accettandolo, osservandolo, senza mai giudicarlo, ricordando come ciascun pensiero sia uno stato transitorio.

È molto diffusa la convinzione che la meditazione e la mindfulness siano pratiche di rilassamento. La meditazione non ha uno scopo prestabilito, se non la meditazione stessa, dunque l’invito è a non cercare risultati. Lo stato di rilassamento, così come un maggior benessere, possono sopraggiungere, o meno, come effetti secondari, ma non rappresentano gli scopi ultimi della pratica.

Occorre sempre tenere a mente le motivazioni con cui ci si avvicina alla pratica mindfulness (Chiesa, 2011).

 

Una vita che consuma sé stessa

L’esperienza del Covid, ci ha portato ad un totale stravolgimento del senso del tempo, dello spazio e di una serie di credenze sulla relazione con noi stessi e con gli altri che davamo per scontate. Siamo obbligati a stare a distanza, ma ciò ci permette di considerare distanza e vicinanza come entità non necessariamente contrapposte.

 

L’attuale situazione del Covid ci ha messo e ci mette tuttora di fronte ad una profonda ed angosciante ambivalenza: la spinta della vita a volersi affermare senza riconoscere i limiti, i quali vengono percepiti come fonte di profonda ingiustizia e privazione, e la necessità di voler preservare i limiti di fronte al ritorno insistente della malattia (Recalcati, 2021). Massimo Recalcati, nell’articolo La nuova materia è la riscoperta dell’altro, si domanda:

Questa oscillazione, questa ambivalenza, che con tale termine presuppone quindi un’irriducibilità di entrambi i poli, non rappresenta forse un’esasperazione di quello con cui la vita, nella sua quotidianità, ci mette costantemente a contatto? (Recalcati, 2021)

L’esperienza del Covid, ci ha portato ad un totale stravolgimento del senso del tempo, dello spazio e di una serie di credenze sulla relazione con noi stessi e con gli altri che davamo per scontate. Le restrizioni, gli spazi chiusi, l’obbligo delle mascherine, ci pone una modalità differente di considerare la distanza e la prossimità. La distanza, il taglio netto delle restrizioni imposte, il contatto con un virus invisibile che è sempre lì, presente e pertanto ci porta ad abitare una dimensione di precarietà, ci mette a contatto con l’ingovernabile, con uno straniero che ci abita, con il silenzio, con il buio, con la solitudine di un percorso in cui ognuno di noi ha una responsabilità verso il proprio talento e verso la comunità in cui abita. Siamo obbligati a stare a distanza ma ciò ci permette di considerare distanza e vicinanza come entità non necessariamente contrapposte (Recalcati 2021). Ci sono relazioni coniugali di estrema vicinanza, prossimità fisica, concreta, in cui, andando oltre la superficie, quello che domina è un profondo evitamento dell’intimità, quand’anche attraverso un totale diniego della stessa, in cui la paura di prendersi le responsabilità rispetto al proprio desiderio, di coltivarlo attraverso il riconoscimento di un “limite non soltanto esterno ma anche interno”, uno sguardo troppo esterno, troppo orientato dall’ego, porta a ricercare “connessioni” e non relazioni. Zigmut Bauman, nel suo libro, Amore liquido, fa riferimento ad un uomo che nell’attuale società, abbia perso i legami indissolubili, legami dati una volta per tutte e che ricorre pertanto, sempre di più, ad una dimensione performativa (Bauman, 2003), in cui al di là della carica di euforia ed eccitazione, dell’attesa goliardica di ricompense, del bisogno di approvazione, non c’è lo spazio per riconoscere la paura di un intimità che porta sempre un limite nei confronti dell’altra persona, di una dimensione ingovernabile nei confronti della libertà dell’altro, un altro che non può fungere da contenitore dei propri fantasmi e di ciò che non vogliamo riconoscere di noi, un limite che fa parte della vita e della perdita che essa comporta; come direbbe Recalcati, del sacrificio simbolico quale aspetto fondamentale della crescita e del far parte di una comunità (Recalcati, 2021). Paura che se non accolta in quanto possibilità di dare spazio ad altro in noi, al cambiamento interno, porta a sperimentare impotenza. Lo stesso Recalcati, nel libro Le nuove melanconie, accenna all’importanza della dimensione corporea, lo “stare dentro un corpo”, che in quanto tale, comporta sempre una dimensione di angoscia e frustrazione (Recalcati, 2019). Come nelle anoressie, dove il soggetto, nel proprio ideale narcisistico di perfezione, perde il controllo sulla propria “spinta a controllare” tutto ciò che entra ed esce dal corpo, nel dismorfismo corporeo in cui l’angoscia relativa a modificazione nella propria corporeità porta a controllare compulsivamente parti del corpo nelle dimensioni nella forma. Un corpo che presuppone sempre il riconoscimento di una prossimità e di una distanza,  di uno spazio e di un tempo, della fluidità delle sensazioni e degli stati emotivi, della fragilità, del vortice del cambiamento, della vita del corpo che contiene il disordine, lo straniero, che non può essere controllata, programmata ma che vuole essere accolta, prendere forma, mettere radici, ma per farlo, a detta di Hillman, non può fare a meno di “discendere per crescere” (Hillman, 1997) di “fare anima” (Hillman, 2002) all’interno del mondo e non al di fuori, di trasformarsi nella relazione con l’altro e non per l’altro, una relazione che in quanto tale richiede, prima di tutto, di accogliere un’alterità che sta in noi. Bauman, nel suo libro Amore liquido, descrive una persona slegata da tutto, una persona che deve connettersi, costruire reti con frenesia e un senso di urgenza e il tutto per colmare un senso di vuoto. Nelle reti è possibile entrare ed uscire, connettersi e disconnettersi con molta facilità, essere sempre presenti, avendo tutto sotto controllo e contemporaneamente fuggire in un attimo (Bauman, 2003). Sempre Bauman scrive:

Una volta che hai il cellulare, non sei mai fuori o via. Sei sempre dentro ma mai bloccato in un singolo posto. Avvolto in una fitta rete di chiamate e messaggi, nessuno può estrometterti da nulla (Bauman, 2003).

Ciascuna connessione può anche durare poco ma la loro sovrabbondanza è indistruttibile. Non c’è distanza, non c’è separazione, non c’è profondità.

E’ tutto sempre lì, troppo reale, in superficie, una presenza costante, che in realtà porta con sé un vuoto schiacciante, un’assenza di immaginazione, una dipendenza dall’esterno in maniera coatta. Sempre a detta di Bauman, un “homo sexualis”, che è condannato a rimanere sempre incompleto e irrealizzato, in perpetuo movimento, assorbito dagli stimoli, dove l’itinerario viene ridefinito ad ogni stazione e la destinazione finale resta perennemente ignota (Bauman, 2003). Una condizione dove il soggetto vorrebbe colmare l’incertezza, ma che non fa altro che renderla ancora più intollerabile, in cui domina la paura della perdita, l’ossessione dubitativa di avere tralasciato qualcosa di “estremamente importante”, in cui chance di sconosciuta felicità totalmente diverse da qualunque chance esplorata fin ora siano  sempre altrove e non qui, dove uno “sguardo troppo esterno” (Morelli, 2020), come direbbe Morelli, non permette di accogliere quello che in realtà è un limite interno. Ciò che poi rimane in questo convulso bisogno di riempirsi, in questo voler essere dappertutto, in questo tempo che si consuma in una successione di istanti senza nessun legame tra loro, in puri presenti isolati in cui non c’è soggettivazione, non è altro che un senso di stordimento, un’anestesia dove il vuoto non fa altro che autoalimentarsi e ripetersi all’infinito.

Gianrico Carofiglio, nel suo libro Della gentilezza e del coraggio, espone due dinamiche molto interessanti, prese dalla quotidianità, che a mio avviso, permettono di cogliere i dettagli di quella che può essere la nostra relazione con il tempo e lo spazio: la fretta e la rapidità (Carofiglio, 2020). La prima, viene descritta come un’accelerazione fine a se stessa, “la vita che coincide con se stessa” come direbbe Massimo Recalcati (Recalcati, 2017), che dipende in alcuni casi da un’ansia strutturale, un’ipervigilanza che ostacola l’approfondimento e produce mezze verità, se non anche un totale fraintendimento delle idee e dei fenomeni. Un’accelerazione che può anche prendere forma in un eccitamento maniacale, quello che possiamo trovare nel gambling (gioco d’azzardo patologico), nella dipendenza da sesso e da sostanze, in quella che Recalcati definisce come una “Bulimia da denaro” (Recalcati, 2019), dove un ‘eccitazione febbrile del consumo non fa altro che consumare se stessa. Quella che può anche manifestarsi nell’illusoria convinzione di poter sapere tutto senza studio, senza impegno, senza fatica, in un eccesso di presunzione narcisistica, che porta a limitarsi alla superficie delle questioni, senza esaminarle, senza approfondirle, che porta con sé la credenza che se ci sia andata bene una volta, grazie a “doti speciali” e ad un “senso di diritto” in relazione ad esse, potrà andarci bene anche in futuro, e che può trasformarsi in un pericoloso rifiuto, quasi sprezzante, per le (vere) competenze e per i (veri) “saperi” (Carofiglio, 2020). Ciò può essere metaforicamente espresso come l’immagine di una sedia che viene lanciata nello spazio ad una velocità folle e che è destinata a sfracellarsi (Recalcati, 2019). Recalcati, nell’articolo La nuova materia è la riscoperta dell’altro, ci rimanda ad un’altra immagine presa dal romanzo di Paolo Giordano, Divorare il cielo: la folle corsa dei cavalli che tentano di fuggire dal mattatoio, per andare incontro alla vita (Recalcati, 2021). Ma la vita ci chiede di accogliere la perdita, il limite, le nostre paure, le nostre parti più buie. In questa accelerazione, in questa euforia maniacale, invece, si fa avanti un diniego della paura della perdita, della paura della morte, secondo quanto sosteneva la psicoanalista Melanie Klein che, in realtà, contiene un eccesso di vita incatenato alla vita, senza orizzonte, né trascendenza, il quale non accoglie la molteplicità, il paradosso, la metafora, il senso del limite e nessun tipo di argine simbolico. Recalcati, nel libro Contro il sacrificio, presenta una metafora dell’essere umano come “animale ferito”, un “animale morente”. La vita animale, dominata dall’istinto, è vita libera da ogni tabù, da ogni senso della vergogna. La verità di quest’affermazione può essere colta nell’esperienza della nudità. Nel mondo animale non c’è esperienza del corpo nudo, perché egli non è mai davvero nudo. Esso non è mai nudo perché non è mai vestito. Non può conoscere la sensazione dello svestirsi, del mettere a nudo il proprio corpo, perché non può tantomeno conoscere il senso della sua velatura. Perciò, per l’animale non può esistere l’erotismo del corpo, poiché esso si può affermare soltanto quando il nudo è colto attraverso l’abito, svestito, denudato. In quest’ottica, la vita umana è esiliata dalla natura, dalla vita animale e può essere “nuda vita”, soltanto attraverso la rivestitura simbolica (Recalcati, 2017). Tornando alla seconda dinamica tra quelle, sopra citate (fretta e rapidità), questa, viene presentata da Carofiglio, con un breve racconto sulla vita di Picasso. Carofiglio scrive:

Si racconta che una volta Picasso fosse seduto in un bistrot parigino con degli amici e, distrattamente, mentre chiacchierava, facesse un disegno su un tovagliolo di carta. Una signora, seduta ad un tavolo vicino, notò la cosa e chiese al maestro se potesse comprare il disegno. Quando la signora chiese il prezzo, Picasso le indicò una cifra spropositata, perciò la signora esclamò: “Ma come, le ci sono voluti soltanto due minuti”. Picasso stupito rispose: “Signora, si sbaglia: Mi ci è voluta una vita intera”. (Carofiglio, 2020)

La rapidità, quindi, fa riferimento ad un senso di padronanza e competenza, ad un talento che viene coltivato nella quotidianità, nell’allenamento, nello studio, nella pratica, nel “dare una forma alla forza della vita” (Recalcati, 2021), una forza che prende forma da un movimento interno, dal percepire, da uno “sguardo profondo”, in cui l’esperienza di un limite, che se in superficie ci arriva come oppressione della libertà e come  qualcosa imposto dall’esterno, nel profondo rappresenta la sua massima espressione.

 

Il metodo Simonton nella malattia oncologica

Carl Simonton, oncologo e radioterapista americano, ha notato come stati emotivi passivi, volti alla mancanza di speranza e di aspettative, uniti a vissuti di disperazione, rabbia e impotenza, avessero un effetto deleterio nei pazienti oncologici, in ogni fase della malattia.

 

Il potere di “immaginare” la guarigione

La diagnosi oncologica rappresenta un evento di indubbia portata critica, le cui conseguenze sono destinate a riverberarsi su ogni aspetto della vita. È per questa ragione che la terapia d’intervento, oltre ad una primaria ed essenziale attenzione all’aspetto organico, deve rivolgersi in maniera più ampia a tutte le dimensioni coinvolte dalla malattia: ciò anche nel rispetto dei dettami mutuati dal modello biopsicosociale, oggi largamente condiviso, in base ai quali la dimensione di salute è strettamente collegata all’interazione funzionale di corpo, psiche e ambiente.

Nel caso della patologia oncologica curare la dimensione emotiva si mostra ancor più importante, dato come studi di psiconeuroimmunologia abbiano dimostrato che la presenza di stati d’animo ed emozioni positive si ripercuota con effetti benefici sul funzionamento del sistema immunitario, in particolare sulla rispondenza dei mitogeni, coinvolti nella lotta alla proliferazione delle cellule tumorali e della metastatizzazione, e dei linfociti NK- Natural Killer, particolarmente importanti nel riconoscimento e nella distruzione delle cellule neoplastiche (Solano, 2001).

Sembra fondamentale che i pazienti riescano a sviluppare, anche di fronte alla malattia, capacità di coping attivo, resilienza e controllo emozionale, pieno dominio del proprio stato mentale – mastery, e percezione del Sé come agente di cambiamento in grado di intervenire sulla realtà ed esercitare sulla stessa un potere causale proattivo ed efficace.

Strumenti volti ad eliminare lo stress, ad evitare la formazione di stati di impotenza e ad agevolare risposte di autoefficacia, speranza e di ottimismo, si mostreranno un importante supporto integrativo alla terapia farmacologica, oltre che la base per la rieducazione e la ricostruzione funzionale del Sé in vista dell’obiettivo “guarigione”.

Il metodo Simonton

Carl Simonton, oncologo e radioterapista americano, ha notato come stati emotivi passivi, volti alla mancanza di speranza e di aspettative, uniti a vissuti di disperazione, rabbia e impotenza, avessero un effetto deleterio nei pazienti oncologici, in ogni fase della malattia. In particolare questi stati d’animo si sono rivelati in grado di inficiare l’efficacia e l’aderenza alle terapie, e, ponendo il soggetto in una dimensione emotiva priva di fiducia e reattività, hanno contribuito a compromettere la funzionalità del sistema immunitario deputato alla lotta contro le cellule cancerose (teoria dell’immunosorveglianza a carico dei globuli bianchi) (Simonton, 2005; Kaspar, 2018).

Se l’intero sistema integrato di mente, corpo ed emozioni, che costituisce l’intera persona, non converge in direzione della salute, allora nemmeno gli interventi fisici possono avere successo (Simonton, 2005 p. 27).

Quanto affermato dal dr. Simonton ha trovato effettivo riscontro nelle sue ricerche; nello specifico, un gruppo di pazienti oncologici venne sottoposto ad un trattamento di supporto psicologico settimanale, e monitorato longitudinalmente per la durata di 7 anni; al termine dell’osservazione sperimentale la percentuale dei sopravvissuti si rivelò doppia rispetto a quella di altri malati non sottoposti alla terapia e tre volte maggiore rispetto alla media nazionale (Vivini, 2016).

Obiettivi e funzioni

Simonton sostiene l’esistenza, in ogni individuo, di uno stato di salute innato. In pratica l’essere umano nasce sano per natura, e tale può tornare anche dopo l’intervento di una malattia. L’importante è concentrarsi su ciò che funziona nel paziente, tralasciando il riferimento continuo e reiterato alla patologie e ai suoi effetti negativi. Guarire è possibile in virtù dell’esistenza di un potere autocurativo, presente in ognuno di noi, una sorta di autocompensazione delle malattie grazie al quale è possibile ripristinare il benessere annientando ciò che ci mette in pericolo (Simonton, 2005).

Questo potere auto curativo, per quanto già in dotazione nell’organismo umano, può subire un adattamento incrementale grazie ad alcuni fattori in grado di potenziarne il funzionamento: il riferimento va a stati mentali autoriflessivi e consapevoli, una buona regolazione emotiva e soprattutto la capacità di identificare il nucleo di credenze disfunzionali che sono di ostacolo alla neutralizzazione del male e al ripristino del benessere, ovvero il pessimismo, la passività, l’isolamento, la negazione, l’impotenza appresa. Nemici giurati di una sana e combattiva risposta alla malattia.

Il metodo Simonton si compone di tre elementi fondamentali:

  • la meditazione, intesa come la profonda riflessione sul qui e ora, volta a sviluppare una piena consapevolezza del Sé e a tracciare una netta distinzione tra ciò che nuoce al Sé e ciò che è gli di beneficio;
  • la visualizzazione di immagini positive sulla malattia, la terapia, le proprie risorse di auto guarigione;
  • la trasformazione delle convinzioni malsane in convinzioni sane.

Gli obiettivi primari della terapia sono:

  • la costruzione di un pensiero solido e coerente riguardo il Sé;
  • l’incremento di pensieri positivi che consentano la nascita progetti di vita produttivi, ispirati dalla saggezza, dal desiderio di migliorare le proprie condizioni e di superare le difficoltà;
  • fiducia in se stessi in vista di obiettivi vitali;
  • incremento di coping e capacità di relazione sociale;
  • coscienza dei propri bisogni e capacità progettuale per la gratificazione degli stessi;
  • senso di self efficacy circa il mantenimento del proprio benessere, salute e felicità;
  • capacità di autoregolazione emotiva volta al monitoraggio e alla neutralizzazione delle emozioni negative e non produttive;
  • partecipazione al processo di guarigione con un ruolo attivo e consapevole.

La terapia formulata da Simonton si propone di raggiungere tali obiettivi attraverso l’intervento rieducativo su due dimensioni principali: il pensiero cognitivo e la capacità simbolico-immaginativa.

Il pensiero cognitivo

Il paziente deve comprendere i propri bisogni esistenziali e, nella finalità di gratificarli, deve liberarsi degli schemi limitanti e mortificanti causati dalla malattia, quali vissuti di disperazione, di autocolpevolezza o di negazione del male. Più che distruggere il reale è necessario mirare alla costruzione del potenziale, e dunque lavorare in vista di una realtà migliore di quella presente, di un progetto di vita che può essere raggiunto con impegno e assertività.

Un soggetto autoefficace e dotato di un locus of control interno sarà infatti in grado di affrontare meglio il rapporto con la patologia e con le sue conseguenze, ma soprattutto potrà costruire un più funzionale piano terapeutico con il qual costruire un autentico progetto di guarigione. Il paziente deve inoltre evitare di considerarsi come un soggetto malato, e per questo destinato ad un vissuto di fallimento e distruzione: al contrario deve percepirsi come un individuo vincente, in grado di guarire perché combattivo, positivo e sano per natura. Deve evitare l’isolamento, l’aspettativa negativa riguardo se stesso, la malattia e il mondo, e dovrà considerare le difficoltà contingenti che è chiamato ad affrontare come occasioni di rinforzo e crescita evolutiva, ostacoli momentanei che con impegno e forza interiore sarà in grado di superare.

Il pensiero dovrà tramutarsi in una fonte di razionalità produttiva, nella quale tutto ciò che si mostra di ostacolo al raggiungimento e al mantenimento di un profondo senso di fiducia del Sé, dovrà essere rifuggito come elemento ostativo alla guarigione.

Come perseguire un pensiero razionale e positivo

La dimensione simbolico-immaginativa

Elemento cruciale, nel metodo Simonton, è quello che vede l’utilizzo di un pensiero simbolico, attraverso cui elicitare fantasie immaginative con effetto terapeutico. L’obiettivo è quello di porre il paziente in una condizione meditativa con la quale riprodurre mentalmente una serie di immagini astratte dall’alto contenuto rasserenante.

Si tratta di semplici visualizzazioni, talvolta incoraggiate dalla voce narrante del conduttore, talvolta attivate dallo stesso pensiero del paziente: in entrambi i casi il fine è volto ad evocare stati d’animo rilassati e rassicuranti.

Studi di neuroimaging hanno dimostrato che il processo visivo e il processo immaginativo coinvolgono gli stessi circuiti cerebrali: in pratica, la vista e l’immaginazione di qualcosa implicano l’attivazione delle medesime zone cerebrali e comportano i medesimi effetti a livello neurale (Kosslyn, 1989). La percezione delle immagini mentali mostra per questo una valenza fortemente realistica, grazie alla quale è possibile ottenere un effetto immedesimante, e dunque identificativo, con la situazione evocata attraverso l’immagine stessa.

La salienza di questa visione interiore è tale da influenzare non solo il processo immaginativo, ma anche quello corporeo e infine quello cognitivo. Il paziente crede di vedere realmente ciò che è chiamato ad immaginare, e l’effetto visivo è così saliente da colonizzare, col suo contenuto corroborante, lo stesso pensiero cognitivo (Vicini, 2016, Simonton, 2005).

Il contenuto delle immagini

Simonton ha organizzato un modello terapeutico essenzialmente finalizzato alla visualizzazione di due immagini: quella di un Sé vittorioso sulla malattia e quella di una malattia fiaccata dalla forza reattiva del paziente. Le immagini, oltre che evocate in via astratta, devono essere concretizzate in un modello visivo in grado di conferire alle stesse una forma concreta e ben identificabile: ad esempio si chiede al paziente di  visualizzare le cellule cancerose e immaginarle come un coacervo di soldati deboli e confusi, o come fragili mucchi di sabbia che possono essere facilmente distrutte con un calcio o spazzate via da una folata di vento. Al contempo, la forza di cui è stato privato il nemico dovrà essere attribuita al proprio sistema immunitario, immaginato come un esercito di globuli bianchi che sconfigge le particelle nemiche, oppure un piede che le calcia via e le distrugge come si trattasse di lattine o fogli di carta.

Il terapeuta può aiutare, con parole suggestive, l’evocazione visiva dell’immagine: “Ora vedete, con gli occhi della mente, le cellule cancerose morte e sconfitte che vengono espulse dall’organismo; immaginate che, alla fine della battaglia, sia il tumore a dover consegnare le armi. Siete voi, i vincitori finali.” Non esistono regole precostituite. Il paziente è libero di immaginare qualsiasi cosa sia in grado di evocare la forza del Sé e la debolezza della malattia.

Al termine della seduta di visualizzazione egli potrà vedersi felice, guarito, impegnato a fare di nuovo le cose che ama fare e che la malattia, finalmente schiacciata e distrutta, gli aveva impedito di compiere.

Simonton notò da subito come le immagini mentali avessero un alto impatto motivante sui pazienti, oltre a rivelarsi fonte di importanti e preziose informazioni circa la malattia, la terapia, le proprie risorse di auto guarigione e quindi sulla prognosi. Il loro contenuto evocativo, rappresentato in modalità quasi didascalica, unisce sapientemente l’immagine al simbolo creando una potenzialità evocativa che, pur nel suo contenuto altamente soggettivo, mostra attendibili effetti positivi sul funzionamento del sistema immunitario, identificabili soprattutto nella ridotta produzione di citochine infiammatorie e in una più ampia e reattiva risposta immunitaria durante la terapia e nel follow-up (Simonton, 2005).

La valenza terapeutica del metodo

Oltre ad evidenziare l’importanza della resilienza di fronte ad eventi critici di portata potenzialmente devastante come il tumore, il metodo Simonton sostiene che uno stato di reattività funzionale possa essere raggiunto tramite l’attivazione dei maggiori apparati di integrazione del nostro organismo, cioè il sistema nervoso centrale, il sistema immunitario e quello endocrino, e la costruzione di rapporti di collaborazione reciproca e funzionale tra gli stessi. Ciò nell’attuazione di quei principi della psiconeuroendocrinologia e della immunologia integrata che da tempo sostengono l’esistenza di un legame interattivo e reciprocamente condizionante tra il sistema immunitario e quello nervoso, e dunque tra una dimensione corporea e una specificamente emotiva, ribadendo ancora una volta l’inscindibilità del binomio psiche-soma (Zacchetti e Castelnuovo, 2014).

È una battaglia tutta mentale, quella che viene svolta grazie all’immaginazione attivata dal metodo. Ma lungi dal rivelarsi una mera speculazione di pensiero, o più appropriatamente di pensiero visivo, essa costituisce lo strumento grazie al quale raggiungere risultati biologici e immunitari in grado di rendere più attiva e organizzata la risposta al cancro.

Il fine fondamentale, oltre a quello di integrare la terapia farmacologica con un trattamento psicologico mirato, è volto ad utilizzare ogni mezzo possibile per incrementare l’energia vitale del paziente, cancellando quelle idee disfunzionali in grado di annebbiare le sue possibilità cognitive ed emotive, in una prova che per poter essere superata necessita della presenza di tutte le risorse dell’individuo, da quelle corporali a quelle spirituali. Nella convinzione, non poi così infondata, che la presenza delle une rafforzi e determini quella delle altre.

 

Le emozioni non vanno in lockdown – Il vaccino delle 156 emozioni per ricominciare a vivere durante e dopo la pandemia

Tu chiamale, se vuoi, emozioni non è soltanto un verso di Lucio Battisti, ma è una necessità. Questo concetto sembra scontato, quasi risaputo, ma in questo periodo storico in cui siamo chiamati a contenerci, è importante non mettere i nostri stati d’animo in lockdown. Infatti, una rivoluzione emozionale intelligente non solo potrebbe salvarci da una prossima guerra mentale, ma aiutarci a costruire quella società civile e responsabile che auspichiamo a raggiungere.  

 

Le emozioni sono un mezzo importante per connettere il nostro mondo interiore con la realtà. Tuttavia, sapevate che il termine emozione è stato utilizzato dalla comunità scientifica solo intorno al 1830 grazie a Thomas Brown? (Smith, 2015) Prima, l’emozione era un qualcosa che un poeta o uno scrittore avrebbe descritto attraverso delle metafore. In passato, per esempio, la gente scambiava un attacco di panico con forme di torture demoniache. Questo non solo ha portato alla morte di moltissime persone, ma ha logorato l’idea che ognuno aveva di sé e degli altri.

Con lentezza, la società moderna si è aperta alla psicologia e alla comprensione del proprio sé pur di staccarsi da modelli patriarcali che, purtroppo, ancora condizionano e limitano le nostre scelte. Nonostante i passi avanti tanti nuclei (familiari, lavorativi e istituzionali) non hanno ancora compreso che la salute mentale è una priorità e che curare la mente significa comprenderla e renderla più elastica.

Adesso più che mai, soprattutto a causa delle conseguenze della pandemia, bisogna investire sulla salute mentale e aprirsi alla comprensione delle emozioni. Solo così, la macchina economica, culturale e umana, qual è la nostra società, potrà ripartire nel miglior modo possibile.

L’atlante delle emozioni umane

Secondo la ricercatrice Inglese, Tiffany Watt Smith, ci sono almeno 156 emozioni. Nel suo libro, Atlante delle emozioni umane, la ricercatrice esplora lo spettro delle emozioni umane, accostando studi psicologici, storiografici, letterari e antropologici.

Tiffany scrive che il gruppo indigeno degli inuit, per esempio, utilizza il termine iktsuarpok per definire quel senso di ansia, nervosismo, eccitazione e felicità che si prova mentre si aspetta l’arrivo di ospiti in casa; in Finlandia, kaukokaipuu rappresenta quella nostalgia per i luoghi dove non siamo mai stati; in Spagna, invece, vergüenza ajena rappresenta l’imbarazzo empatico di chi assiste alle figuracce altrui. In questi anni sono stati condotti altri studi a livello psicologico e neurologico, ma, in generale, possiamo dedurre che le emozioni umane sono strettamente legate alle esperienze di vita.

Purtroppo, da più di un anno, le nostre esperienze di vita, e di conseguenza molte delle nostre emozioni, sono state messe in standby. C’è da chiedersi, quindi, se una nuova emozione come la covid fobia, verrà, prima o poi, aggiunta all’atlante delle emozioni umane?

Una vita in lockdown

Se tutti avessero coscienza delle proprie emozioni, ci potrebbero essere meno crimini, così come una riduzione di casi di repressione, abusi e quant’altro. Ognuno ha un proprio modo di vivere e di gestire i propri stati d’animo. Quest’anno, però, le nostre abitudini sono state stravolte e chi già viveva una situazione instabile con la propria emotività, ha dovuto fare i conti con la reclusione.

In tutti questi anni, alla maggior parte di noi non è mai stato chiesto di rimanere in casa e di non avere contatti con gli altri; non abbiamo dovuto affrontare la paura di contagiare qualcuno, l’ansia delle fake-news e l’incertezza educativa e lavorativa causata da questo nemico invisibile. Adesso non si tratta più di ricostruire una società il cui tasso di disoccupazione sia pari a zero, ma di aiutare tanti esseri umani che improvvisamente si sono ritrovati a rinchiudersi dentro le loro mura domestiche e interiori, perdendo il proprio sé, oltre al lavoro.

In Ottobre 2020, The World Health Organisation (WHO) ha condotto un’indagine su 130 Paesi da giugno – agosto per dimostrare qual è stato l’impatto del Covid-19 sull’accesso ai servizi di salute mentale. Secondo WHO, sebbene l’89 percento di questi paesi abbia pianificato dei progetti terapeutici nazionali per fronteggiare il COVID-19, solo il 17 percento di questi paesi dispone di finanziamenti aggiuntivi che possano coprire queste attività.

Questo dimostra che c’è bisogno di investire sulla salute mentale adesso. Sempre WHO dichiara che, prima del COVID-19, aziende mondiali hanno perso quasi 1 trilione di dollari di produttività economica ogni anno solo a causa della depressione e dell’ansia. Tuttavia, gli studi dimostrano che ogni dollaro americano speso in cure per la depressione e l’ansia, può restituire 5 dollari.

Conclusione

Gli esseri umani non possono mettere le proprie emozioni in lockdown perché sono state fin troppo in tutto questo tempo. Ormai è certo che i danni che questa pandemia sta portando con sé sono anche mentali e se non ci si muove per fare qualcosa, le vite di molte persone verranno rovinate per sempre a causa dei loro problemi mentali. In effetti, oltre al vaccino che possa aiutarci a prevenire il virus, come si pensa di ricominciare tutto da capo senza delle menti sane?

 

Narrazioni e storie in Psichiatria (2020) di Piero Benassi – Recensione del libro

Narrazioni e storie in Psichiatria fa comprendere, a pieno titolo, cosa si intenda per Psichiatria, successi, fallimenti, critiche, apprezzamenti e consensi, raccolti in un crogiuolo per crearne una sintesi superiore: le narrazioni dei pazienti.

 

…eppure i fenomeni più strani non sono che variazioni spinte all’estremo di qualcosa che si trova virtualmente in tutti gli uomini… (Narrazioni e storie in psichiatria, pag. 48)

Ho apprezzato la pubblicazione di Piero Benassi, per l’onestà di “giocare a carte scoperte” senza bluff o discorsi tendenziosi. Più che offrire un tentativo nuovo, fa comprendere, a pieno titolo, cosa si intenda per Psichiatria: successi, fallimenti, critiche, apprezzamenti e consensi raccolti in un crogiuolo per crearne una sintesi superiore: le narrazioni dei pazienti. Il libro, Narrazioni e storie in Psichiatria, che pone le sue basi nella Medicina Narrativa (introdotta da Rita Charon) è utile “per riconoscere, assorbire, interpretare ed essere mossi dalle storie di malattie” dei pazienti. In altri termini è un approccio che tenta di prendere consapevolezza della disabilità, capire come è stata costruita l’identità personale del disabile quale membro di una famiglia o di un gruppo. La narrazione si deve affiancare ai dati oggettivi della patologia in una visione integrata. In questo ha un ruolo fondamentale la relazione medico-paziente.

La malattia mentale

La malattia diventa lo strumento più adeguato a interpretare la realtà (pag. 45)

La malattia mentale riguarda le alterazioni del nostro “palcoscenico interiore”, un palcoscenico il cui sipario non viene chiuso definitivamente neanche dalla morte, per la ragione che possono essere tramandate alle successive generazioni.

La malattia mentale è una colla destrutturante, che non è limitata alla propria mente ma si estende con valenza eco-sociale: in una società “standardizzata” nei comportamenti, sussiste il rischio di patologizzare piccole stranezze mediante forme di pensiero collettivo, i.e il modo in cui “le persone pensano a come pensi “ e a come ti comporti. Il pensiero degli altri – non essendo neutro –, se incentrato su una base culturale scettica e pessimistica, può risultare stigmatizzante della particolarità comportamentale e possiede l‘autorità (in quanto espressione della maggioranza) di innescare meccanismi perversi, amplificando difetti contenuti nell’individuo definito “strano”. Se questa prospettiva oggi è vera, altrettanto reale è stata in un passato abbastanza recente. Una prospettiva sociale che deve essere contemplata dallo specialista, insieme a quella individuale, ai vissuti, alle percezioni, alle emozioni ed ai sentimenti del paziente.

Invero, Benassi cita le tre fasi di conoscenza della malattia: a) disease, si riferisce alla malattia in senso biomedico basata su parametri organici di natura chimico-fisica (alterazioni ematologiche, temperatura, ecc.); b) illness, si riferisce al modo in cui il malato, la sua famiglia e la rete sociale percepiscono, definiscono, spiegano e valutano la patologia e vi reagiscono; c) sickness, si riferisce alla modalità con cui la società rappresenta la malattia.

Qualsiasi discorso generale sulla malattia mentale dovrebbe abbozzare queste doverose distinzioni.

Psichiatria

Psichiatria, parola oscura, eclissata nei pensieri della collettività. Pensieri non lucidi, di parole che recano una certa ansia poiché agganciate alle immagini manicomiali del secolo scorso e resi indelebili dalla filmografia: grida, urla, vomiti, offuscamento dei sensi, ribellioni, calci, pugni, sputi, spesso accompagnati da pratiche totalmente inadeguate alla cura: oli, salassi, decotti, isolamenti. Un vero e proprio  “nichlismo terapeutico”. Anche se siamo lontani dall’accusa di Foucault, che vedeva la psichiatria come “forza sociale repressiva che rende legittimo l’abuso di potere”, come potremmo lasciare questa rappresentazione? Questo habitat ovattato di conoscenze e frammenti di una scienza le cui vicende (a volte detentive, prepotenti, bizzarre), in termini etici, equiparavano quelle dell’eugenetica? Vicende che descrivono la paura di essere malati.

Piero Benassi, tenta di depurare questa visione, parlandoci della condizione di sofferenza del malato:

La psichiatria […] è chiamata a scendere nel cuore dei pensieri e delle emozioni malate, a mantenere un ascolto empatico e, quindi, ben comprensivo dell’ascolto dell’altro, essere in grado di immedesimarsi nella vita dell’interessato, al fine di comprenderne i fenomeni e, quindi, di raggiungere una reciprocità relazionale che rappresenta il rapporto veramente terapeutico (il psicofarmaco – naturalmente – deve ridurre – mai annullare – certe ideazione e smorzare le sofferenze più acute). (pag.62)

Energia e salute mentale

Il libro prosegue con particolari scientifici finanche curiosi, come la dottrina del magnetismo animale e del fluido magnetico universale, in cui tutte le malattie sarebbero dovute ad un disturbo (come nel sonnambulismo) della circolazione del fluido nel corpo umano, in cui la guarigione sarebbe preceduta da una “crisi”; fa comprendere “l’energia  e i suoi significati” legati al concetto di salute mentale.

Tuttavia, i discorsi, non si limitano al contesto terapeutico individuale ma gravitano (anche) attorno a quello gruppale, dato che “il gruppo, un “universo sociale in miniatura”, è la sede naturale in cui ciascuno soddisfa i propri bisogni”; ognuno può trasmettere idee, ansie e preoccupazioni…soluzioni per fornirle ad altri in una reciproca metabolizzazione.

(In un passaggio del libro Benassi afferma: “Le realtà connesse alla vita umana appartengono al dominio della complessità: i fenomeni che vi si producono sono il frutto di continue e reciproche interazioni”).

Evoluzione della cura e relazione medico-paziente

Il progresso nella cura è attuabile nel momento in cui

l’interessato prova l’esperienza emotiva della situazione terapeutica, per scoprire l’inadeguatezza delle proprie reazioni interpersonali tramite l’esame di altre realtà, cioè di verificare le opinioni altrui.

La terapia deve essere bio-psico-sociale, cioè deve coinvolgere gli aspetti biologici, psicologici ma ugualmente di derivazione esterna e sociale.

Importante è anche l’utilizzo degli psicofarmaci, non solo per l’effetto stabilizzante la reazione emotiva, ma per scatenare e far emergere un’ideazione dal subconscio del paziente che potrà essere elaborata (e risolta) insieme all’aiuto dello specialista. Importante il loro utilizzo a sub-dosi e sotto un profilo personalizzato. Durante il racconto di un caso, Benassi afferma:

Ho cercato pazientemente di dimostrargli che il dosaggio di un farmaco ansiolitico (dopo avergli spiegato l’effetto che fa il farmaco), deve essere individuato da colui che assume il medicinale, in rapporto agli effetti neutri – negativi o positivi – mano a mano ottenuti. In effetti molti medici somministrano psicofarmaci a dosi fissi, ma il rapporto medico-paziente si realizza completamente quando si raggiunge l’accordo sui fenomeni o disturbi che si devono curare.

Conclusioni e Narrazioni

Andiamo alla parte più concreta del libro, in termini Narrativi, ovvero “una serie di casi clinici”, in cui le storie dei pazienti, energizzate dal moto dialettico dell’autore, giungono al lettore semplici e attraenti. I racconti riguardano la materializzazione sul corpo di concetti simbolici; di geni e di pazzi (idee espresse da “una mente vulcanica di idee che lascia fluire come esempio di doti narrative che non hanno confini”); storie sulla paranoia e varie psicosi deliranti; storie di problemi con figli e di coniugi avvolti nella foschia della distanza; racconti di isolamento sociale in cui “si vive tutto, anche l’incubo, come fosse una cosa naturale”; problematiche adolescenziali, transgender, alcolismo, dipendenza da droghe e via dicendo.

Il libro ripercorrere impressioni, timori, ansie, turbamenti emotivi in cui se “non si può vivere la realtà, la si immagina” e, quindi, storie di gente “incastrata” nella propria vita immaginativa fatta di interpretazioni, idee fantastiche, spinte narcisistiche…  Assolutamente da leggere!

 

“Me la sono cercata?”: legame tra responsabilità percepita, contaminazione mentale e molestie sessuali

Il timore della contaminazione mentale, presente in quasi la metà degli individui con disturbo ossessivo compulsivo (DOC) (A. E. Coughtrey et al., 2012), rimanda alla paura di venir contaminati in assenza di contatto diretto con il contaminante, che viene affrontata con operazioni di lavaggio continuo.

 

Queste compulsioni, non ne riducono l’intensità, ed essendo le fonti di contaminazione non oggetti ma persone, dunque diffuse, l’individuo continuerà a sentire su di sé la sensazione di sporco (S. Rachman, 2004).

Secondo la teoria cognitiva, i sentimenti di contaminazione consistono in pensieri, ricordi o immagini percepiti come inappropriati o immorali (Elliott & Radomsky, 2009) che risalgono a insulti e aggressioni sessuali. Inoltre, tale violazione viene interpretata come segnale di assenza di valore e debolezza, che mina la fiducia in sé (Stanley Rachman et al., 2015).

La ricerca ha testato la relazione tra contaminazione mentale e sentimenti di violazione; inducendo il ricordo dell’abuso in vittime di traumi sessuali che, oltre a provare ansia, disgusto e senso di sporco (ovvero sentimenti di contaminazione), avevano attuato comportamenti di lavaggio ripetuto (Fairbrother & Rachman, 2004; Stanley Rachman et al., 2015).

Tali sensazioni venivano sperimentate anche in individui sani, che ascoltando registrazioni di scenari di violazione sessuale, si immaginavano vittime o autori di un bacio non consensuale (ad es. Fairbrother et al., 2005).

Utilizzando il paradigma del “bacio sporco”, Radomsky & Elliott (2009) avevano riscontrato un legame tra il grado di contaminazione mentale segnalata e fattori cognitivi, ovvero la percezione di responsabilità personale per il bacio e la percezione dello stesso come violazione.

La percezione di responsabilità inflazionata (Salkovskis, 1985) caratteristica del DOC, rimanda al sentirsi responsabili delle potenziali conseguenze negative legate alla contaminazione. Questa è stata manipolata in diversi studi, generando una maggiore sintomatologia compulsiva, come rituali di lavaggio, controllo comportamentale (Lopatka & Rachman, 1995) e ricerca di rassicurazione.

Senza considerare livelli così estremi di violazione sessuale, come un bacio non consensuale, anche le molestie sessuali possono compromettere la salute mentale delle vittime, danneggiare l’autostima, incrementare il rischio di autolesionismo, alimentazione scorretta e uso di sostanze  (Chiodo et al., 2009).

Tali molestie sono comportamenti sessuali deliberati o ripetuti, sgraditi dal destinatario, volte a creare un ambiente ostile, offensivo o degradante.

Lo studio di Krause & Radomsky (2021), ha cercato di identificare in un campione di studenti universitari, se la manipolazione della percezione di responsabilità individuale può essere un fattore chiave nell’indurre elevati livelli di contaminazione mentale, e dunque compulsioni di pulizia tipiche del DOC, come rituali di lavaggio.

Questi fattori sono stati esaminati dopo l’esposizione ad una registrazione che descriveva un caso di molestia sessuale sul posto di lavoro. I partecipanti sono stati randomizzati in tre condizioni (HR: alta responsabilità, LR: bassa responsabilità, NR: assenza di responsabilità).

Nelle condizioni HR e LR veniva chiesto di immaginarsi come vittime delle molestie sessuali. Mentre nella prima, dopo che l’evento era stato divulgato ad un amico, egli suggerisce che i comportamenti della vittima avevano contribuito alle molestie, nella seconda, l’amico suggerisce che la vittima non ha fatto nulla per cercarsele.

I partecipanti nella condizione NR dovevano immaginarsi mentre guardavano uno spettacolo televisivo in cui un personaggio femminile era vittima della molestia sessuale.

I partecipanti di tutte le condizioni avevano riportato livelli più elevati di disgusto, sporcizia e ansia, dimostrando come un paradigma di immagini di molestie sessuali, nonostante sia una delle forme meno estreme di violenza era sufficiente a provocare sentimenti di contaminazione mentale in assenza di preoccupazioni di contaminazione da contatto fisico.

Coloro che dovevano immaginare un episodio di molestie sessuali durante uno spettacolo (NR), avevano riferito un minore senso di responsabilità per l’evento, e minori livelli di contaminazione mentale rispetto alle altre condizioni.

Immedesimandosi nella vittima, la percezione di responsabilità non variava tra coloro ai quali veniva detto che il comportamento adottato invitava (HR) o no (LR) alla violenza. Infatti, tra i due gruppi non c’erano differenze di sporcizia e ansia percepita; che venivano riportate maggiormente dal gruppo LR rispetto alla condizione NR (in cui il partecipante non si immedesimava nella vittima e non avveniva l’induzione di responsabilità).

Il verificarsi delle molestie su di sé, o rivolte ad un altro personaggio, non solo manipola l’attribuzione di responsabilità delle stesse, ma soprattutto il livello di violazione percepito, che sembra giocare un ruolo maggiore nell’insorgenza e mantenimento della contaminazione mentale (Ishikawa et al., 2015).

Probabilmente non sono emerse differenze di responsabilità percepita tra chi era indotto ad averla (HR) e chi no (LR), poiché tutti gli studenti avevano frequentato un corso di formazione sulla violenza sessuale, e si trattava di un campione giovane.

Replicare l’indagine in diverse popolazioni, come anziani o abitanti in luoghi rurali, in cui le questioni relative alla colpa della vittima sono meno salienti, potrebbe fornirebbe spunti interessanti.

Il gruppo a cui era stato detto che la violenza non era giustificata dal comportamento della vittima (LR), aveva anche riportato maggiori livelli di ambiguità verso la responsabilità, rispecchiando da vicino la natura della sintomatologia del DOC (A. Coughtrey et al., 2018). Tale angoscia per una propria ipotetica responsabilità, potrebbe aver contribuito ad incrementare i livelli di contaminazione mentale.

Nello studio non sono emerse differenze nelle condizioni rispetto all’urgenza percepita dei partecipanti a lavarsi le mani o al tempo trascorso a lavarle. Tale impatto nullo viene ricondotto all’impiego di una violazione sessuale meno estrema rispetto alle indagini precedenti e non sufficiente a suscitare una compulsione legata al lavaggio. Dunque, non è emerso un aumento della sintomatologia legata al DOC all’aumentare della responsabilità percepita.

Sebbene non sia emerso il ruolo decisivo della percezione di responsabilità, viene rafforzato il ruolo della percezione di violazione, nei sintomi di contaminazione mentale. In altre parole, più ci si sente personalmente vicini alla violazione, maggiore è la sintomatologia negativa (cioè ansia, disgusto e sporcizia) che viene sperimentata.

La consapevolezza che la contaminazione mentale può essere indotta attraverso un’attività di immaginazione di molestie sessuali, sottolinea l’importanza da parte dei clinici di prendere sul serio tutte le forme di violazione sessuale, anche quelle “minori”, che possono impattare notevolmente sulla salute psichica.

 

Sognare ci protegge dalla neuroplasticità invasiva

David Eagleman si è soffermato sul ruolo della plasticità neurale durante il sonno per proporre una nuova ipotesi (pre-print, Eagleman, 2020); i processi di neuroplasticità sono infatti attivi anche quando apparentemente non siamo soggetti a stimolazioni sensoriali particolari.

 

Fin dall’antichità l’uomo si interroga sul significato dei sogni. Queste bizzarre allucinazioni notturne sono legate in qualche modo alle nostre attività quotidiane, celano oscuri significati sepolti sotto gli strati inconsci della mente, oppure si tratta di narrazioni del tutto casuali?

Quando in ambito psicologico parliamo di sogni, è difficile non tirare in ballo Freud; ma nonostante la teoria psicoanalitica sia tutt’ora criticata da molti per la mancanza di basi scientifiche oggettive, il padre della psicoanalisi si augurava che in futuro gli scienziati avrebbero avuto strumenti a disposizione per andare più a fondo nella questione (Freud, 1895). Lasciando a latere le questioni teoriche, sui sogni oggi sappiamo molte più cose che all’epoca, grazie soprattutto agli avanzamenti tecnologici e a numerosi e interessanti studi, che hanno evidenziato una possibile funzione adattativa (Grieser et al, 1972; Crick et al, 1983; Revunsuo, 2000).

In un recente lavoro, David Eagleman si è soffermato sul ruolo della plasticità neurale durante il sonno per proporre una nuova ipotesi (pre-print, Eagleman, 2020). I processi di neuroplasticità sono infatti attivi anche quando apparentemente non siamo soggetti a stimolazioni sensoriali particolari (come nel caso dell’assenza di input visivi mentre dormiamo) e più in generale consentono di adattare la connettività alle richieste dell’ambiente. Ad esempio, soggetti che hanno perso la vista in età adulta presentano riorganizzazioni neurali dinamiche piuttosto veloci, tali che una stimolazione sonora elicita attività (osservabile in fMRI) non solo nella corteccia uditiva ma anche in quella visiva occipitale (Voss et al, 2008); in altre parole, il cervello subisce rapidi cambiamenti anche quando l’input di un certo tipo si ferma. Quando un senso viene definitivamente perduto, ridistribuire connessioni e funzioni è certamente vantaggioso.

Questa riorganizzazione si può osservare anche per mezzo di una deprivazione sensoriale temporanea, ad esempio bendando i partecipanti a uno studio per qualche giorno. In un esperimento di questo tipo, soggetti bendati per cinque giorni sono stati in grado di discriminare le differenze in un testo braille in modo significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo, che aveva subito lo stesso paradigma di allenamento alla lettura in braille ma senza essere bendati (Merabet et al, 2008); anche in questo caso, sono state osservate attivazioni nella corteccia occipitale, oltre che in quella somatosensoriale. La corteccia visiva verrebbe reclutata da processi di natura sensoriale diversa, tramite dei cambiamenti rapidi nella connettività neurale, per giungere a un’elaborazione cross-modale dell’input; a conferma di ciò, interferendo nei circuiti occipitali tramite TMS è stata provocata un’interruzione del miglioramento nella discriminazione tattile nei soggetti del gruppo sperimentale. Il miglioramento è scomparso dopo un giorno dalla rimozione della benda, indicando che il processo è reversibile.

Tuttavia, se è sicuramente un vantaggio per il cervello poter ridistribuire la sua attività utilizzando anche distretti che una volta costituivano il substrato neurale di funzioni non più presenti (come la vista nel caso dei ciechi non congeniti), non lo è se la plasticità neurale coinvolge una corteccia sensoriale che riceve una minore stimolazione solo temporaneamente, ma spesso. Da questo punto di partenza, Eagleman propone la sua Teoria dell’Attivazione Difensiva: l’attività onirica durante il sonno REM costituirebbe un meccanismo di difesa per proteggere la corteccia visiva da una neuroplasticità invasiva e potenzialmente dannosa durante le ore in cui la funzione visiva è inibita, ovvero nelle ore di cecità fisiologica durante il sonno. Tenendo impegnata la corteccia visiva durante la notte, si impedirebbe la sua “riconversione”.

Il sonno REM viene innescato da una popolazione specializzata di neuroni che si trovano a livello del ponte; la loro attivazione stimola il nucleo genicolato laterale, in comunicazione con la corteccia visiva (oltre che un’inibizione muscolare, che ci mantiene più o meno immobili durante il sonno e ci impedisce di ‘agire’ ciò che stiamo sognando) (Hobson et al, 1975; Chase et al, 2008). Tale circuito, altamente specifico, difficilmente si è mantenuto nel corso dell’evoluzione senza nascondere una funzione importante dietro di sé.

Questa teoria avanza inoltre una previsione: quanto più forte è la plasticità neurale di un organismo, tanto più grande sarà il rapporto tra sonno REM e sonno non REM. L’analisi dei dati su numerose specie di primati oltre che sull’uomo confermerebbe l’ipotesi di Eagleman e colleghi: più sonno REM, più plasticità. In particolare, più ci si avvicina filogeneticamente all’uomo, più aumenterebbero i livelli di neuroplasticità e il tempo medio di sonno REM in rapporto al sonno totale. Questa scoperta sarebbe in linea con la letteratura sul sonno REM nelle varie fasi della vita: nei bambini il rapporto sonno REM/sonno totale è elevato, negli anziani è piuttosto basso, e la plasticità neurale è rispettivamente molto forte nei primi e quasi assente nei secondi (Abuleil, 2019).

 

Nomofobia: il sottile Confine tra Paura di stare senza Smartphone ed Uso Problematico del Dispositivo

Kaviani e colleghi hanno svolto uno studio in merito, che mirava a determinare se la nomofobia potesse aumentare la probabilità di uso problematico dipendente, proibito e pericoloso del telefono cellulare.

 

Al giorno d’oggi vivere senza un telefono cellulare può porre le persone in una posizione di svantaggio. Per molti, non è solo una questione di comodità. Sociologicamente parlando, il desiderio di cercare connessioni in un mondo sempre più individualizzato, di sviluppare un senso di appartenenza in una comunità frammentata e globale, di avere accesso a informazioni illimitate in una società che valorizza e preferisce la conoscenza e di godere della gratificazione istantanea associata alla comodità, non rappresenta, apparentemente, un insieme di motivazioni irrazionali (Bauman, 2001; Bauman, 2000; Lyotard, 1984; Shove, 2003). I telefoni cellulari stanno cambiando il comportamento, le relazioni, la comunicazione e le dinamiche che si verificano nella vita di ognuno di noi. A seguito di ciò, negli ultimi anni è esponenzialmente aumentata la dipendenza dal dispositivo, impiegato per moltissime attività quotidiane, ed è inoltre emersa una nuova fobia: la nomofobia. Questa patologia consiste proprio nella paura di rimanere senza il proprio telefono cellulare, e può colpire individui di sesso ed età differenti.

Kaviani e colleghi hanno svolto uno studio in merito, che mirava a determinare se la nomofobia potesse aumentare la probabilità di uso problematico dipendente, proibito e pericoloso del telefono cellulare. Con “uso problematico dipendente del cellulare” si intende una situazione in cui si ha incapacità di spegnere il telefono, in cui si avverte un senso di vuoto senza di esso e in cui talvolta ci si sente incapaci di vivere. Inoltre, questo tipo di situazione potrebbe generare un’incapacità di resistere all’impulso di usare il telefono. È stato anche documentato l’uso di alcune funzioni del telefono in aree proibite o vietate come biblioteche, cinema, aerei o spazi dove è richiesto il silenzio: questi eventi indicano un “uso problematico proibito del telefono”, anche definito antisociale. Oltre a quest’ultimo, è stato ampiamente documentato l’“uso problematico pericoloso degli smartphone”, che può ad esempio generare una guida distratta o un distratto attraversamento della strada (Bach et al., 2015; Stimpson et al., 2013).

Nello studio di Kaviani e collaboratori, il campione comprendeva 2838 partecipanti (maschi n = 1337 femmine n = 1501) reclutati da varie piattaforme online. Lo strumento utilizzato per misurare la nomofobia era il Nomophobia Questionnaire (NMP-Q), mentre l’uso problematico del cellulare è stato misurato utilizzando il Problematic Mobile Phone Use Questionnaire (PMPUQ-R). I risultati hanno rivelato una forte correlazione positiva tra la nomofobia e tutti e tre i fattori di uso problematico. Oltre alla nomofobia, ulteriori analisi statistiche hanno rivelato che una giovane età e un maggior tempo trascorso al cellulare durante il giorno aumentavano significativamente la dipendenza problematica, l’uso proibito e l’uso pericoloso. Per ciò che concerne il genere, la sperimentazione ha rivelato che i maschi erano più propensi a impegnarsi nell’uso proibito e pericoloso, mentre non sono state trovate differenze di genere significative nell’uso dipendente.

Come sostenuto da questo studio, esibire comportamenti problematici può indicare un’eccessiva dipendenza dal proprio telefono. Per porvi rimedio, non è sufficiente rimproverare l’individuo sul suo comportamento: gli interventi dovranno considerare l’esistenza e le ragioni della nomofobia e come questa possa incoraggiare un uso problematico. Questo potrebbe tradursi in campagne che, piuttosto che moralizzare sull’uso problematico del telefono, riconoscono le importanti funzioni sociali del dispositivo e offrono meccanismi per ridurre i comportamenti problematici senza disconnettere le persone dalla loro rete. Nel frattempo, tra i trattamenti indicati per questa tipologia di disturbo, è stato dimostrato che le pratiche di consapevolezza riducono i comportamenti problematici e pericolosi del telefono cellulare nell’ambito della sicurezza stradale (Feldman et al., 2011). Le tecniche mindfulness, infatti, possono essere efficacemente impiegate per ridurre l’uso problematico dei dispositivi mobili.

 

Lettura e COVID: come sono cambiate le nostre abitudini?

Negli ultimi decenni attenzione e ricerca sono state dedicate alla lettura e alle implicazioni psicologiche ed emotive legate a tale attività (Marshall, 2020 per una review).

 

Analizzando la letteratura, emergono cinque principali aree di interesse: lettura durante il tempo libero, lettura di notizie, lettura per studio o lavoro, lettura per la socializzazione e infine lettura condivisa con i bambini (Scales & Rhee, 2001; Mol et al., 2008; Torppa et al., 2020). Tuttavia, poco sappiamo dell’attività di lettura durante crisi collettive, come quella che stiamo sperimentando in questo periodo storico.

La pandemia COVID19 rappresenta un’occasione unica per studiare il modo in cui le persone gestiscono il loro tempo libero ed eventuali cambiamenti nelle abitudini che possono dipendere dalle caratteristiche individuali o dagli aspetti sociali. Che impatto ha avuto la pandemia COVID19 sulle nostre abitudini di lettura e ascolto dei media? E quali sono stati i cambiamenti dal punto di vista motivazionale e psicologico?

Il virus SARS-CoV-2, nelle sue prime fasi di diffusione, ha severamente colpito la popolazione europea, in particolare modo quella italiana e spagnola portando i rispettivi governi a prendere misure restrittive con l’intento di confinare la popolazione nelle loro case e ridurre, in tal modo, il contagio. All’interno di questo contesto senza precedenti, i ricercatori si sono mossi con l’obiettivo di indagare i cambiamenti nelle abitudini di lettura e media durante il lockdown spagnolo e italiano.

READ-COGvid: A Database From Reading and Media Habits During COVID-19 Confinement in Spain and Italy è la pubblicazione dello studio di un team di ricercatori in cui viene fornito un ampio database che raccoglie risposte di individui spagnoli e italiani, uno strumento unico che permette ad altri studiosi interessati di formulare ipotesi nel contesto delle scienze linguistiche e psicologiche (Ladislao et al., 2020).

Le risposte raccolte si riferiscono alla somministrazione di un questionario online, inviato ad associazioni educative, studenti di diverse università, amici e familiari con la richiesta di compilarlo. Dopo un’iniziale rilevazione degli indici socio demografici, viene chiesto ai partecipanti di completare le scale relative alle abitudini di lettura e di utilizzo dei media in tre momenti differenti: la prima scala si riferisce a situazioni in cui si è trascorso del tempo in casa (ad esempio durante il weekend) in periodi ante confinamento, la seconda si riferisce alle prime due settimane di lockdown e infine la terza scala si concentra sul periodo successivo (dopo alcune settimane di lockdown). Nello specifico, vengono indagate le abitudini legate alla frequenza di lettura e al tipo di supporto utilizzato (cartaceo vs digitale) per ogni categoria di lettura, e la frequenza di utilizzo dei media nei tre momenti osservati. Per la rilevazione degli indici psicologici viene indagato il distress, la motivazione alla lettura, la difficoltà percepita durate la lettura, la difficoltà di attenzione durante l’esecuzione di compiti e infine la disponibilità a valutare le fonti di informazioni, come cercare l’autore, scartare fonti inaffidabili e privilegiare articoli provenienti da fonti esperte.

Un totale di 11634 persone in Spagna e 2175 in Italia hanno risposto al questionario, ma ne sono stati considerati 4800 finali poiché alcuni di essi non hanno completato tutti gli item o non rispondevano ai requisiti richiesti per la compilazione, ad esempio non maggiorenni, non residenti in Spagna o in Italia.

Il campione finale preso in considerazione per le successive analisi statistiche è prevalentemente femminile, di media età e ben istruito.

Poiché la lettura durante il tempo libero è appurata essere un’attività benefica per la salute cognitiva ed emotiva (Marshall, 2020), gli autori dello studio hanno ipotizzato che la quantità di tempo impiegato in questa attività aumenti, alla luce anche del fatto che le persone durante le prime settimane di lockdown attuino comportamenti volti a migliorare il proprio stato di benessere (López-Bueno et al., 2020). Al contrario, sulla base dello studio di Garfin (2020), che dimostra che l’esposizione di notizie relative a crisi collettive determina un aumento degli stati di ansia e comportamenti di salute non adattivi (Garfin, 2020), gli autori si aspettano una diminuzione o una invariabilità della quantità di tempo trascorso nella lettura di notizie, in quanto ciò può aiutare a ridurre l’impatto emotivo spiacevole legato alla lettura di informazioni covid-relate.

I risultati dello studio mostrano che le donne spendono più tempo nella lettura rispetto agli uomini e tali differenze di genere sono più pronunciate nella lettura per la socializzazione rispetto alle altre categorie di lettura.

Indipendentemente dal genere, per quanto concerne la categoria “Lettura di notizie”, i risultati riportano un tempo di lettura maggiore all’inizio del lockdown rispetto alle settimane precedenti il lockdown, ma questo tempo tende a diminuire un mese dopo. Più stabile è il pattern della categoria “Lettura durante il tempo libero” in cui gli individui tendono a leggere di più le prime settimane di lockdown rispetto a prima e l’andamento rimane stabile un mese dopo. Anche il tempo di “Lettura di social network” è maggiore nelle prime settimane di lockdown rispetto a prima, ma nonostante l’utilizzo dei social network sia diminuito un mese dopo, il suo utilizzo è rimasto comunque superiore rispetto al livello basale. Infine, il tempo di “Lettura per studio o lavoro” è aumentato all’inizio del lockdown e continua ad aumentare un mese dopo rispetto al suo inizio. Riassumendo quindi, tutte le categorie di lettura hanno subito un incremento del loro tempo nelle prime settimane di lockdown rispetto ai momenti precedenti, con andamenti diversi nei momenti successivi. Lo studio conferma pertanto che la lettura durante il tempo libero aumenta nelle prime settimane di lockdown, mentre la lettura di notizie diminuisce nei momenti successivi.

La vastità del campione e la varietà di indici rilevati rendono il database un valido strumento per esplorare le abitudini di lettura durante crisi collettive. Ricerche future potrebbero utilizzare il database per indagare il modo in cui i fattori sociali e individuali modulano i cambiamenti in queste abitudini o, ancora, per approfondire i comportamenti strategici e critici delle persone nei confronti delle fonti delle informazioni. Arricchire la conoscenza sull’adattamento delle abitudini delle persone è di primaria importanza: ci aiuta a formulare indicazioni in contesti futuri simili e distribuire messaggi di positività che coinvolgano e spingano le persone a svolgere attività volte a promuovere il loro benessere mentale. La lettura è una di queste e, ancora una volta, ha dimostrato essere di supporto in questo periodo: ci ha permesso di viaggiare e ci ha dato un posto dove andare, anche quando dovevamo rimanere dove eravamo.

 

E quando diventerò grande? Analisi dell’evoluzione dei DSA nella scuola secondaria di secondo grado

La Legge 170/2010 riconosce e descrive quattro Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA): Dislessia, Disortografia, Discalculia e Disgrafia.

 

Essi, si legge, “si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana”. Si intende per Dislessia un disturbo specifico che si manifesta con una difficoltà nell’imparare a leggere, in riferimento soprattutto ai parametri di correttezza e rapidità della lettura. La Disgrafia è invece definita come un disturbo specifico di scrittura che si manifesta in difficoltà nella realizzazione grafica, ben distinta dalla Disortografia che riguarda, invece, l’abilità di scrittura rispetto ai soli processi linguistici di transcodifica. La Discalculia, infine, è definita come un disturbo che si manifesta con una difficoltà negli automatismi del calcolo e dell’elaborazione dei numeri.

La caratteristica principale di questi disturbi è, quindi, la specificità: ogni disturbo, infatti, interessa uno specifico dominio di apprendimento (lettura, scrittura o calcolo) lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale.

I DSA, pertanto, hanno una natura neurobiologica, sono determinati, cioè, da una modificazione nel funzionamento delle aree cerebrali deputate alla lettura, alla scrittura e/o al calcolo. Non si tratta di una malattia, quindi, ma sono il risultato di una modalità particolare di funzionamento delle reti neuronali, quella che ad oggi viene sempre maggiormente definita “neurodiversità”.

Questi disturbi sono, inoltre, evolutivi, ossia tendono ad avere una diversa espressività nelle varie fasi della vita dell’individuo.

Data la classe di età in cui si manifestano e diagnosticano (fine seconda primaria), l’insieme dei DSA è un argomento molto trattato nei programmi di formazione del corpo insegnate fin dalle primissime classi della scuola primaria. Ma non dimentichiamo che un dislessico è tale anche da adulto. Nella scuola secondaria di secondo grado, ad esempio, è più difficile, nei casi meno gravi, identificare gli studenti con difficoltà di apprendimento, grazie a strategie compensatorie che questi studenti nel tempo hanno imparato a mettere in atto, ma questo non vuol dire che tali caratteristiche non siano più degne di attenzione professionale o didattica.

Pertanto, risulta fondamentale capire come evolvono i DSA in età adulta. Si può asserire che l’evoluzione del disturbo dipende in buona misura dalla severità del profilo clinico.

Per quanto concerne la Dislessia, nel 45% dei casi è stato riscontrato come la lettura diventa più fluente e corretta: si parla in questo caso di “dislessia compensata” (Littyinen, 1998), termine che potrebbe indurre a pensare che ci sia stata, o sia in atto, una risoluzione del disturbo, mentre in realtà rimangono deficit di automatizzazione ed errori soprattutto nella lettura di parole a bassa frequenza (ad esempio termini specialistici e/o tecnici delle varie discipline, parole straniere, etc.) Resta comunque evidente, pertanto, una certa affaticabilità durante la lettura, difficoltà nella comprensione del testo, nelle prove strutturate, a tempo e a scelta multipla (Stanovich, 1986).

Da questi dati emerge, quindi, che difficoltà persistono anche al termine della scuola secondaria e oltre, nello studio in ambito domestico, anche come diretta conseguenza dell’aumento delle difficoltà strutturali e lessicali dei libri di testo e, in generale, della mole dei contenuti didattici. Nella scuola secondaria, in generale, pur intravedendosi un certo miglioramento dei parametri di rapidità e correttezza della lettura, si assiste di solito ad un peggioramento dell’andamento didattico legato ad un aumento della discrepanza fra richieste e prestazioni.

Nei casi più severi poi, (circa il 35%), la lettura resta invece molto stentata e lenta (< 3 sill/sec), inaccurata e spesso per questi studenti risulta impossibile studiare senza lettore umano /sintesi vocale. Si parla in questo caso di “dislessia persistente”.

L’aumento del carico di studio e la complessità crescente dei nuovi contenuti didattici, complica maggiormente il percorso scolastico se non vengono utilizzati, nella didattica e nello studio, strumenti compensativi e misure dispensative che, senza ridurre i contenuti, modifichino in maniera appropriata l’input e l’approccio al compito di apprendimento, riducano la mole di studio e diano spazio a tempi di lavoro più estesi. Basti pensare che i ragazzi con DSA non supportati rappresentano una delle principali cause di dispersione scolastica (Rapporto del MIUR “La dispersione scolastica nell’anno scolastico 2016/2017 e nel passaggio all’anno scolastico 2017/2018”).

Questa situazione, in un contesto scolastico e familiare non adeguatamente preparato, influenza negativamente il benessere emotivo dell’adolescente, conseguenze che si riflettono sull’aspetto comportamentale, sull’autostima, sulle dinamiche affettivo-relazionali rispetto ai pari (McNulty, 2003).

Anche per quanto riguarda la Disortografia, in base alla sua evoluzione, si può identificare una distinzione tra un profilo “compensato” e uno “persistente” (Fenzi e Cornoldi, 2015). Nel primo caso, con il passare del tempo, gli errori fonologici e fonetici (relativi alla conversione fonema-grafema) tendono a diminuire, mentre si riscontrano resistenze su quelli ortografici (legati esclusivamente agli aspetti grammaticali della lingua). Nei casi più severi, invece, permangono errori di tipo fonologico, fonetico e ortografico anche in età adulta.

Un discorso a parte va fatto poi per Disgrafia e Discalculia. Nel primo caso, essendo il problema legato esclusivamente all’aspetto grafico della scrittura, si tende a compensarlo facilmente grazie anche ad una didattica che è sempre più computer-based. Anche nei contesti lavorativi questa caratteristica è facilmente gestibile grazie al pieno inserimento di programmi informatici di scrittura in uffici, aziende e altri luoghi di lavoro.

Diverso è il discorso per la Discalculia che, chiamando in causa, nella sua forma pura, gli aspetti basali dell’intelligenza numerica, influenza molti aspetti della vita del soggetto, da quelli lavorativi a quelli personali e della vita privata (si pensi all’uso del denaro, alla concezione numerica di tempo e distanze, etc.). In questi casi si ha una vera e propria “cecità numerica” (Butterworth, 1999) in cui regna sovrana una scarsa comprensione intuitiva dei numeri e del concetto di numerosità e grandezza.

Di fatto, a prescindere dagli aspetti prettamente clinici, è fondamentale anche dire che l’evoluzione della persona con DSA molto dipende anche dal sostegno didattico, psicologico ededucativo-pedagogico potenziale già dai primi anni della scuola primaria. È assodato, infatti, che i DSA, nonostante siano disturbi a base neurobiologica, risentono molto dell’influenza positiva o negativa dell’ambiente (Stella, 2013), in termini di sviluppo sano ed equilibrato della persona e competenze acquisite in termini di gestione del disturbo.

 

 

Comprendere l’adolescente. Indicazioni cliniche in ottica Cognitivo Comportamentale (2021) di Simona Tripaldi, Marika Ferri, Clarice Mezzaluna – Recensione del libro

Comprendere l’adolescente si propone di analizzare e trattare il “mondo” adolescenziale a 360 gradi.

 

Il libro si apre in chiave teorica, dedicandosi poi ai temi connessi alla psicopatologia in adolescenza e mettendo in luce l’importanza degli stili di attaccamento e del ruolo genitoriale e quello della Psicoterapia, focalizzandosi su diverse tecniche evidence-based CBT.

L’adolescenza è sicuramente una delle fasi più delicate nella vita dell’essere umano. Per anni è stata spesso stigmatizzata e considerata solamente come una fase di passaggio e di preparazione alla vita adulta, ad oggi però grazie all’apporto fondamentale fornito dalla psicologia dello sviluppo, dalla ricerca e non solo, si è arrivati a comprendere come la sostanziale riorganizzazione del proprio assetto psicologico, che l’adolescente vive, sia un qualcosa di imprescindibile e con un proprio e profondo significato. L’adolescente deve infatti affrontare diversi compiti di sviluppo derivanti dai mutamenti evolutivi che vive, cercando di strutturare nuovi schemi e strategie per affrontare questi significativi cambiamenti. L’adolescente deve affrontare una riorganizzazione del proprio assetto psicologico per fronteggiare da una parte i cambiamenti a livello fisico e dall’altra una rielaborazione della propria identità e del concetto di sé affrontando inoltre scelte importanti per conseguire le proprie aspirazioni formative e lavorative future.

Il libro Comprendere l’Adolescente riesce a dare un’ottima visione in chiave teorica della tematica adolescenziale, analizzando gli aspetti psicopatologici e fornendo un grande contributo clinico e psicoterapeutico, dando importanza ai cambiamenti sopra descritti, tipici della terra di mezzo, ma approfondendo anche il ruolo cruciale degli stili di attaccamento e degli stili educativi, e infine, fornendo strategie funzionali per supportare una efficace genitorialità.

Il libro si apre con una prima parte in chiave teorica, in cui i primi capitoli sono dedicati alla descrizione e alla definizione di adolescenza e dei suoi tratti distintivi, definendo come caratterizzanti gli aspetti del cambiamento, della variabilità e della disarmonia: il cambiamento può avvenire attraverso la disorganizzazione, in cui l’individuo vive una vera e propria destabilizzazione prima di diventare adulto, inoltre tale percorso è altamente variabile e dipende dal contesto ambientale, da influenze culturali e temporali e infine è disarmonico, in quanto lo sviluppo psicologico ed emotivo non procede sempre di pari passo con quello fisico.

L’incipit del libro mostra inoltre l’influenza della cultura e della società sulla definizione di adolescenza e le influenze legate alle differenze tra il genere femminile e maschile. Viene offerta inoltre un’ottima revisione in chiave evolutiva delle sotto-fasi di sviluppo adolescenziale e una focalizzazione sul Modello di Concettualizzazione Clinica LIBET – Life themes and plans Implications of biased Beliefs (Sassaroli, Caselli & Ruggiero, 2016; Ruggiero, Spada, Caselli & Sassaroli, 2018), in cui la separazione e l’indipendenza dal nucleo familiare e dalle figure significative può generare sentimenti ambivalenti e contraddittori e stati di vulnerabilità emotiva ricorrenti caratterizzati da insicurezza, incertezza e destabilizzazione o senso di esclusione e solitudine che possono essere gestiti con strategie compensatorie di diverso tipo, che possono essere più o meno funzionali. La prima parte si chiude con una riflessione sull’importanza che ricoprono gli insegnanti ed i genitori in questo delicato periodo di vita.

I capitoli successivi offrono una visione della tematica in chiave neurocognitiva, dando una spiegazione dal punto di vista neuroscientifico della complessità dello sviluppo adolescenziale, focalizzandosi poi sull’importanza del ruolo che riveste lo sviluppo sessuale in adolescenza ed infine analizzando lo sviluppo dell’identità nelle sue sottocategorie: temperamento, carattere e personalità.

La seconda metà del libro si incentra invece maggiormente sugli aspetti clinici e psicopatologici, prendendo in considerazione gli aspetti di disregolazione emotiva e le strategie di coping.

La regolazione emotiva è infatti fondamentale per il benessere psicofisico e consente alle emozioni di stare in equilibrio tra loro, ricerche recenti evidenziano come la disregolazione emotiva in adolescenza sia connessa a livelli più elevati di sintomi depressivi, problemi comportamentali ed emotivi e impatta negativamente con le relazioni interpersonali. La capacità di far fronte a eventi e circostanze stressanti, di regolare le emozioni e di utilizzare strategie di coping adattive, svolgono un ruolo primario nello sviluppo della resilienza e nella riduzione del rischio di psicopatologia durante l’infanzia e l’adolescenza e permettono di utilizzare pensieri e comportamenti intenzionali e consapevoli.

Successivamente viene dato ampio spazio al ruolo che rivestono gli stili di attaccamento e gli stili educativi genitoriali nel vissuto adolescenziale e alle strategie funzionali da mettere in atto nelle interazioni e nel rapporto con gli adolescenti al fine di fornire ai genitori una base di supporto tenendo sempre in considerazione l’individualità dei ragazzi, tali strategie vanno dal Parental Monitoring all’autoefficacia genitoriale, dall’utilizzo di una comunicazione efficace alle capacità di ascolto attivo, da modalità di gestione dei problemi complessi basate sull’utilizzo del problem solving all’uso di una comunicazione assertiva e alla comprensione dei sistemi motivazionali.

Nella parte finale del libro infine gli autori si sono dedicati alla descrizione dei possibili quadri psicopatologici in adolescenza e all’importanza del ruolo che riveste la psicoterapia con la descrizione delle diverse tecniche evidence-based CBT per il trattamento di pazienti adolescenti, quali la REBT, la DBT, la Mindfulness ed il Parent Training.

Tutto questo grazie all’impegno degli autori: Simona Tripaldi, Marika Ferri e Clarice Mezzaluna, psicoterapeuti, formatori e ricercatori che operano da anni sul territorio nazionale, che grazie alla loro esperienza clinica, didattica e di ricerca, e alla collaborazione di giovani clinici e importanti autori del cognitivismo italiano, quali E. Abbate, V. Ascani, L. Candria, G. Costantini, M. Di Egidio, V. Mancini, M. Mascolo, R. Sciore e V. Valenti hanno permesso una riflessione così completa sul tema dell’adolescenza e non solo. La prefazione è stata curata dalla Prof.ssa Simona Scaini, vicedirettore del Dipartimento di Psicologia di Milano e vicedirettore ad interim del corso di Laurea triennale in Psicologia della Sigmund Freud University di Milano.

La lettura del libro risulta molto chiara e fornisce al contempo una visione completa e articolata del mondo adolescenziale, dando un contributo importante sia al professionista, accompagnandolo passo dopo passo nella comprensione dell’adolescente e nell’intervento in contesto clinico, sia al genitore, con l’obiettivo di sostenerlo nella costruzione di un’identità autonoma del figlio.

 

Tornare a dormire. Una guida pratica per dormire meglio e superare l’insonnia (2021) di Federica Farina

Dopo una prima parte che illustra e spiega i meccanismi del sonno, Tornare a dormire presenta strumenti e tecniche da utilizzare per ritornare a dormire in modo naturale.

 

Tredici milioni d’italiani soffrono d’insonnia, la qualità della loro vita ne è fortemente e negativamente influenzata e solo una piccola percentuale di queste persone riceve un trattamento.

Il DSM-5 definisce l’insonnia come “l’insoddisfazione per la qualità del sonno associata a difficoltà nell’addormentamento e/o nel mantenimento e/o risveglio precoce”.

La regolazione del nostro ciclo sonno/veglia è uno degli aspetti più importanti per mantenere un buon livello di salute, eppure oggi si dorme meno e spesso male. Una delle maggiori cause è da attribuire all’eccessivo utilizzo dei dispositivi elettronici e al ritmo frenetico della vita che ci impedisce di vivere con un atteggiamento consapevole il qui e ora, il momento presente. Si è creato un disallineamento tra biologia umana e civiltà determinato dall’evoluzione del progresso tecnologico e dell’organizzazione sociale (luce artificiale; mobilità e fuso orario; elettronica; ritmi di vita; tensioni e preoccupazioni generate dalle richieste sempre crescenti di prestazioni).

Il libro Tornare a dormire è un manuale di auto aiuto che propone al lettore tecniche cognitive e comportamentali per comprendere e gestire il disturbo.

È bene ricordare, come rileva Grazia Rizzotto nella Prefazione, che “la Task Force dell’European Sleep Research Society, nell’ambito delle linee guida per la diagnosi e il trattamento dell’insonnia, ha indicato la CBT-I come la terapia di prima scelta nella gestione del paziente con insonnia cronica, in linea, peraltro, con le più importanti società mondiali che operano nel settore, quali l’American Academy of Sleep Medicine, l’American College of Physician e la British Association for Psycofarmacology”.

La prima parte, illustrativa e propedeutica, del volume di Federica Farina introduce il lettore a conoscere tutto quello che c’è da sapere sul sonno. Viene illustrato il Modello del doppio processo di regolazione del sonno composto dal processo S (omeostatico) che induce e regola il sonno, ed è influenzato da fattori umorali, ormonali, da fattori genetici, psicologici, ambientali e socioculturali e dal processo C (circadiano) che regola numerose funzioni fisiologiche e metaboliche nelle 24 ore, tra cui il ciclo sonno-veglia. Sono presi in considerazione, inoltre, gli stadi del sonno REM e non-REM. Leggendo questa parte potrete scoprire se siete gufi o allodole e non mi soffermo di più su questi aspetti per non togliere la curiosità al lettore. È valutato, ancora, il fabbisogno di sonno riguardo all’età e le modalità del sonno (luoghi, persone con cui si dorme, tempi, durata e regolarità); le differenze di genere; le conseguenze dell’insonnia (stanchezza e faticabilità; difficoltà di concentrazione, memoria e attenzione; conseguenze sulla salute generale; alterazione della regolazione emotiva; ripercussioni sulle relazioni affettive e sociali; conseguenze economiche e sociali) e le caratteristiche dell’insonnia determinata da fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti.

La seconda parte è una sezione pratica in cui sono illustrati gli strumenti e le tecniche da utilizzare per ritornare a dormire in modo naturale.

L’autrice ha un’esperienza pluriennale nel campo, lavorando da molto tempo nel Centro di Medicina del Sonno  del Servizio di Neurofisiopatologia della Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli” Presidio Columbus.

Il testo è corredato da schede di automonitoraggio, diari del sonno ed esercizi pratici utili se sperimentati con costanza per tornare ad avere un sonno tranquillo e riposante.

 

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