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Beck cognitivista: un’altra storia – 100 anni di Aaron T. Beck – Parte 2

Il rifiuto che Aaron T. Beck subì da psicoanalisi e comportamentismo lo spinse in uno spazio intermedio che portò all'origine della terapia cognitiva

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 21 Lug. 2021

Il racconto di come Beck iniziò a diventare cognitivista negli anni ’60 ma arrivò ad esserlo solo nel 1975.

 

Sebbene Beck non abbia mai cercato attivamente di rompere con la psicoanalisi organizzata e sebbene dagli anni ‘60 abbia iniziato a formulare il modello cognitivo della depressione mentre era ancora un membro attivo della comunità psicoanalitica e come una elaborazione interna alla teoria psicodinamica, egli fu gradualmente emarginato dall’ambiente psicoanalitico. Per questo Beck iniziò a confrontarsi con i terapisti comportamentali. All’inizio andò male anche con loro. Wolpe non vide motivo di accettarlo come uno di loro. Fu proprio questo rifiuto del comportamentista Wolpe che indusse Beck a chiamare il suo approccio terapia cognitiva (Beck, 1997) e per un po’, e questo Beck non lo dice sempre, il rifiuto di Wolpe lo aveva tornato a convincere che l’impostazione cognitiva fosse un aspetto della psicoanalisi e non una terza via (Rosner, 2012, 2014).

Tuttavia, nel decennio successivo si aprì uno spazio tra psicoanalisi e comportamentismo, e il doppio rifiuto che Beck continuava a subire lo spinse in questo spazio intermedio dove incontrò un gruppo di terapisti comportamentali desiderosi di incorporare il mediatore cognitivo nel paradigma comportamentale stimolo-risposta. Era il gruppo di Lazarus, Mahoney e Meichenbaum. Quel gruppo aveva bisogno di Beck e viceversa (Rosner, 2012). Eppure, non fu un approdo definitivo. Lazarus, Mahoney e Meichenbaum, quando incontrarono Beck, erano studiosi già maturi e terapisti con una impostazione comportamentale solida ma che in fondo li rendeva poco adatti a sviluppare concretamente l’intervento sul mediatore cognitivo. Se leggiamo il testo in cui anni dopo Mahoney nel 2003 raccolse le sue esperienze cliniche troviamo una raccolta di interventi provenienti sia dal vecchio repertorio comportamentale pre-beckiano che dal nuovo catalogo di ristrutturazioni cognitive proposto da Beck (e da Albert Ellis), più una delle prime comparse dei futuri interventi di meditazione processuale, tutti tenuti insieme da una concezione che sarà quella costruttivista. Costruttivista? Cosa è questa parola? È a sua volta un’altra storia. Insomma, la concezione era di Mahoney ma il repertorio tecnicamente cognitivo era di Beck (e di Ellis) e consisteva in una rivisitazione delle interpretazioni psicodinamiche reindirizzate verso l’alto della superficie cosciente e non verso la profondità inconscia. Quindi la domanda era: in quale campo da gioco clinico Beck aveva creato questo nuovo repertorio, questa rivisitazione dell’interpretazione psicodinamica?

Lo aveva creato nel campus della Penn State University di Philadelphia dove era andato a insegnare e dove aveva incontrato un gruppo di specializzandi in psichiatria e in psicologia clinica, dotati di formazioni psicoterapeutiche di varia fedeltà. Altrove questo tipo di studenti univa alla pratica degli psicofarmaci quella della psicoanalisi, in una doppia fedeltà. Alla Penn State, invece, era possibile apprendere -grazie alla presenza ad esempio di Wolpe e Lazarus, suo allievo venuto con lui dal Sudafrica- anche l’impostazione comportamentale. Altri, come Hollon, avevano avuto una formazione esperienziale-umanistica. Una molteplice specializzazione che però rischiava di creare il caos. In questo caos si inserì Beck che, tra mille oscillazioni, nel 1970 aveva pubblicato su Behavior Therapy (rivista chiave del movimento comportamentista), un saggio in cui presentava la terapia cognitiva, stavolta come modello a sé stante (Beck, 1970c). Un bel pasticcio, se pensiamo che in quello stesso 1970 Beck (1970b) aveva presentato quello stesso modello sotto l’etichetta della psicoanalisi! Nella presentazione su Behavior Therapy Beck aveva deciso, in una delle sue fluttuazioni, di minimizzare le sovrapposizioni del suo modello con la psicoanalisi e, significativamente, di sottolinearne -nonostante le perplessità di Wolpe- le affinità (ma anche le differenze!) con la terapia comportamentista, in una chiave che sembrava proporre una sorta di alleanza contro la psicoanalisi.

Quali erano queste affinità tra comportamentismo e questa terapia cognitiva di Beck, che, ripetiamolo, in quegli stessi anni poteva ancora capitare di ritrovarsela pubblicata dallo stesso Beck in qualche altra rivista come una variante della psicoanalisi? Stavolta egli sosteneva che sia la terapia cognitiva sia quella comportamentista evitavano le libere associazioni per ricostruire il vissuto inconscio della sessualità infantile; che sia la terapia cognitiva sia quella comportamentista si basavano invece su interviste terapeutiche strutturate, volte a definire i problemi comportamentali del paziente, che questi problemi comportamentali costituivano l’obiettivo terapeutico sia della terapia cognitiva sia di quella comportamentista, partendo dall’assunto che i comportamenti maladattivi potessero essere disappresi (Beck, 1970b).

Di fronte ai possibili dubbi dei comportamentisti sull’uso cognitivista dei resoconti soggettivi dei pazienti, inverificabili per un buon comportamentista da parte di osservatori esterni, Beck asseriva che tali resoconti potevano comunque dare origine a ipotesi testabili: ripetute correlazioni tra le ipotesi sui contenuti cognitivi e i comportamenti osservabili avevano offerto risultati coerenti con le aspettative. L’articolo finiva proponendo che il modello cognitivista potesse assorbire le tecniche comportamentiste, fornendo però “un framework teorico più ampio” (Beck, 1970b, p. 198). Beck si era insomma deciso: la terapia cognitiva era una terapia comportamentale. Diplomaticamente, in quella prima metà degli anni ‘70, Beck lasciava la titolarità del paradigma al comportamentismo, di cui la sua terapia cognitiva si proponeva come un sottoinsieme. In seguito, i rapporti gerarchici si sarebbero capovolti e Beck audacemente avrebbe definito successivamente la terapia comportamentista come un sottoinsieme della terapia cognitiva (Beck, 1976, p. 229). L’ospite si era impadronito dell’appartamento.

Questi giochi di parole, tuttavia, non sarebbero bastati a Beck per conquistare il centro della scena della nuova terapia ma in procinto di soppiantare il genitore (adottivo) ancora comportamentale. Senza contare che il gioco di parole fu imposto in realtà da Mahoney, il vero divulgatore del nuovo termine “terapia cognitiva”. E lo fece nel 1977 quando Mahoney fondò la rivista “Cognitive Therapy and Research”, lo fece in diretta polemica con la rivista fino allora dominante e che si chiamava, non a caso, “Behavior Research and Therapy”. Ma quel che più contò fu nel primo numero di quel giornale scientifico cognitivo e non più comportamentale dove fu pubblicato un articolo destinato a fare la storia, l’articolo che riportava il trial che permise a Beck per la prima volta di dimostrare che una psicoterapia era efficace come un farmaco (Rush, Beck, Kovacs, & Hollon, 1977). E quella terapia era la sua, la terapia cognitiva. Non si trattava più di parole ma di fatti. Questa è ancora un’altra storia che racconteremo.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Beck A. T. (1997). The Past and Future of Cognitive Therapy. The Journal of Psychotherapy Practice and Research, 6, 276-284.
  • Beck, A. T. (1970a). The Core Problem in Depression: The Cognitive Triad. Science and Psychoanalysis, 17, 47–55.
  • Beck, A. T. (1970b). Roles of fantasies in psychotherapy and psychopathology. Journal of Nervous and Mental Disease, 150, 3-17.
  • Beck, A. T. (1970c). Cognitive Therapy: Nature and Relation to Behavior Therapy. Behavior Therapy, 1, 184 –200.
  • Beck, A. T. (1971). Cognitive patterns in dreams and daydreams. In J. H. Masserman (Ed.), Dream dynamics (pp. 2-7). New York: Grune and Stratton.
  • Beck, A. T. (1976). Cognitive therapy and the emotional disorders. Penguin.
  • Beck, A. T. (1995). Cognitive therapy: Past, present and future. In M. J. Mahoney (Ed.), Cognitive and constructive psychotherapies: Theory, research, and practice (pp. 29–41). Springer Publishing Co.
  • Beck, A. T., & Emery, G. (1985). Anxiety disorders and phobias: A cognitive approach. New York, NY: Basic Books.
  • Rosner, R. I. (2012). Aaron T. Beck's drawings and the psychoanalytic origin story of cognitive therapy. History of Psychology, 15(1), 1.
  • Rosner, R. I. (2014). The “splendid isolation” of Aaron T. Beck. Isis, 105(4), 734-758.
  • Rosner, R. I. (2018). Manualizing psychotherapy: Aaron T. Beck and the origins of Cognitive Therapy of Depression. European Journal of Psychotherapy & Counselling.
  • Rush, A. J., Beck, A. T., Kovacs, M., & Hollon, S. D. (1977). Comparative efficacy of cognitive therapy and pharmacotherapy in the treatment of depressed outpatients. Cognitive Therapy and Research, 1, 7-37.
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