Il racconto di come Beck rimase psicoanalista fino al 1975, appena un anno prima di pubblicare il suo manuale di terapia cognitiva per la depressione
Beck non era quell’ex-comportamentista che a volte abbiamo finto che fosse, quello che comprese che tra lo stimolo e la risposta c’è il mediatore mentale. Quelli erano Lazarus, Mahoney e Meichenbaum. Aaron T. Beck, Tim per gli amici e gli allievi più vicini, era uno psicoanalista che tentò per anni di rimanere psicoanalista, ben oltre quella crisi che lo avrebbe colto all’inizio degli anni ’60 e che lo avrebbe di colpo reso un ex-psicoanalista. La storia che ci raccontiamo tra cognitivisti è quella di un Beck splendidamente isolato, finito chissà come in mezzo a un gruppo di psicoanalisti in un qualche momento imprecisato all’inizio della sua carriera dopo aver concluso la specializzazione in psichiatria. In mezzo a questi psicoanalisti Beck è messo a far ricerca sui depressi per scovare in questi pazienti le loro pulsioni inconsce, che sarebbero di tipo rabbioso. E invece di scovare queste pulsioni inconsce Beck si mette a indagare i pensieri consapevoli dei pazienti. Sono pensieri di rovina, autosvalutazione, perdita di senso: non valgo nulla, non ho combinato nulla di buono, nessuno mi ama e io non riesco ad amare nessuno, è finita, la mia vita non ha senso, mi butto dalla finestra, e così via.
Non solo; Beck scopre che incoraggiando i pazienti a mettere in discussione questi pensieri (vediamo, è proprio così? Davvero non ha mai combinato nulla di buono? Davvero nessuno la ama? Addirittura, lei non ama nessuno? E non ne sarebbe capace? Davvero si vede così male? Ne siamo sicuri? Vediamo assieme, cosa fa e cosa non fa uno che non ama? E vediamo assieme cosa ha fatto lei nella vita. Lei è davvero così?) anche l’umore migliora, il paziente si conforta, sta meglio. Insomma, la depressione non dipende da una inconscia pulsione aggressiva verso il mondo e se stessi ma da una consapevole, ed erronea, convinzione di non valer nulla, convinzione che è accessibile a una ristrutturazione paziente, amichevole e confortante rivalutazione di sé stessi e della propria esistenza fatta in collaborazione con un terapista incoraggiante, non inquisitorio, dal tono tranquillo e accogliente.
Potremmo pensare: ecco la collaborazione, quell’empirismo collaborativo che non è solo indagine cooperativa tra paziente e terapeuta ma anche calore e accoglienza. Calma. Ne parleremo più in là in questo buon compleanno a Tim che vado scrivendo. Ora torniamo a quel Beck isolato che nel 1963 concepisce la terapia cognitiva in mezzo a una banda di psicoanalisti.
Non andò proprio così. Come sta dimostrando da alcuni anni la storica della psicoterapia Rachael Rosner (2012, 2014, 2018), il modello cognitivo di Beck non nacque nonostante la psicoanalisi ma nella psicoanalisi e addirittura dalla stessa psicoanalisi come suo sviluppo naturale. Beck giovane psichiatra aveva intrapreso la formazione da analista negli anni ’50 ad Austen Riggs, un ospedale del Massachusetts, con lo psicologo psicoanalitico di origine ungherese David Rapaport. Rapaport fu un dei più prestigiosi esponenti di quel ramo della psicoanalisi che fiorì in America negli anni del dopoguerra noto come psicologia dell’Io. Il lavoro di Rapaport si basava su quello di Anna Freud, Heinz Hartmann e Ernst Kris, lavoro che dava importanza (e qui dobbiamo fare attenzione) a come i pazienti valutano e danno significato al loro mondo. Rapaport sviluppò questi concetti e li chiamò (e qui dobbiamo fare ancora più attenzione) “le capacità dell’Io di testare la realtà”, o la “forza dell’Io” del paziente.
Insomma, fu con lo psicoanalista Rapaport che Beck imparò a capire i pazienti che erano depressi (o ansiosi) perché affetti da strutture dell’Io “difettose”. Rapaport sosteneva che la cognizione, l’attenzione, la percezione, l’apprendimento e la memoria erano il ponte che collegava la teoria psicoanalitica con la psicologia sperimentale e che l’Io era il luogo in cui operavano le funzioni mentali “prive di conflitti” della psicologia normale. È ormai certo che l’influenza di Rapaport e della psicologia dell’Io rimanessero forti per tutta la vita intellettuale di Beck (Rosner, 2012, 2014). In realtà, non solo Beck ma anche altri che studiarono con Rapaport negli anni ’40 e ’50 hanno sempre mantenuto questa attenzione per il pensiero cosciente: da quelli che si sono mantenuti nella psicoanalisi, George Klein, Robert Holt e Roy Schafer; a chi si è dato a studi di psicologia sociale e sperimentale come lo psicologo e premio Nobel Daniel Kahneman, che studiò con Rapaport nel 1959.
Ciò che non è chiaro è che Beck continuò a definirsi psicoanalista per tutti gli anni ’60 e per buona parte degli anni ‘70, ritenendo la sua psicoterapia cognitiva una forma psicoanalisi neo-freudiana appartenente alla psicologia dell’Io di Anna Freud, Hartmann e Rapaport. Beck non si distaccò affatto dalla psicoanalisi nella prima metà degli anni ‘60, come si è sempre pensato e come lui stesso ha talvolta fatto pensare, peraltro smentendosi altrove e in anni tardi quando per esempio nel 1995 (si noti la data) scrisse che l’attenzione per i pensieri consci l’avesse ereditata dalla psicoanalisi e non dal comportamentismo (che infatti non dava alcun peso alla coscienza) e che perfino la successiva svolta processuale di “terza onda” (che qui tratteremo brevemente: troppa carne al fuoco) lui la accoglie perché corrisponde in parte alla distinzione freudiana tra processo primario e secondario (Beck, 1995, p. 41).
Insomma, Beck continuò per tutti gli anni ’60 e per la prima metà degli anni ’70 a sperare che il suo modello potesse essere accolto nel mainstream psicoanalitico, e per la precisione in una associazione psicoanalitica denominata American Academy of Psychoanalysis. Beck si unì all’Academy nel 1968, una data piuttosto tarda e che fa a pugni con il racconto di un Beck cognitivista incompreso in mezzo agli analisti per tutti gli anni ‘60. Beck parlava ai congressi di quella associazione, era membro del comitato scientifico e pubblicava sulla rivista della società.
Pubblicava cosa? Articoli di psicoanalisi? No. O almeno, non solo. Nel 1970 Beck pubblicò un articolo sulla triade cognitiva nella rivista psicoanalitica dell’Academy (Beck, 1970a) e descrisse il suo modello come un’integrazione tra concetti neo-freudiani e comportamentisti, in cui la triade cognitiva giocava un ruolo di mediazione tra il trigger e la risposta comportamentale. In quei primi anni ‘70, Beck esplorava il ruolo delle fantasie e dei sogni in psicologia (Beck, 1970b, 1971) e riteneva ancora che fosse proprio la sua personale appartenenza alla neo-freudiana psicologia dell’Io che avesse permesso alla terapia cognitiva di interessarsi all’attività cosciente piuttosto che inconscia, mentre l’interesse per l’interazione con l’ambiente piuttosto che sui processi psicodinamici interni lo avrebbe ricavato dalla psicoanalisi interpersonale di Karen Horney e Stak Sullivan. Tuttavia, i neo-freudiani dell’Accademy alla lunga non furono propensi ad accettarlo come uno di loro. Nelle parole dello stesso Beck:
Quando presentai questo materiale (…) dissi: ‘questa è davvero neo-analisi’; e loro risposero: ‘Beh, Beck, questa non è più analisi. È meglio che tu smetta di chiamarti analista (Beck, 1997, p. 7).
Di conseguenza, Beck si dimise dall’Academy, ma lo fece solo nel 1976.
Ciò che era originale nelle intuizioni di Beck sul pensiero e sulla depressione e ciò che lo distingueva dagli psicoanalisti della scuola della psicologia dell’Io, era che egli concluse che le distorsioni cognitive erano esse stesse la psicopatologia piuttosto che le conseguenze della psicopatologia. Mentre George Klein, Roy Schafer e altri credevano che la psicopatologia fosse il risultato di un conflitto tra i desideri primitivi e la valutazione della realtà, che qualsiasi distorsione nel pensiero di un paziente era conseguenza dell’incapacità dell’Io di gestire quei conflitti e che la terapia consistesse nell’individuare quei conflitti per poi modificare le distorsioni, Beck propose di lavorare direttamente sulle distorsioni. Beck rifiutò l’idea psicodinamica che il problema risiedesse nei desideri e nei conflitti primitivi e sostenne invece che sia le strutture mentali che la psicopatologia risiedesse nelle cognizioni. Le strutture cognitive e non le strutture dell’Io erano difettose. Eppure: che differenza c’è tra strutture cognitive e strutture dell’Io? Meno di quel che sembra.
Nella prima metà degli anni ’60, Beck iniziò a esaminare dettagliatamente i contorni di queste strutture cognitive, gli “schemi”. Smentendo chi vede oggi nel modello cognitivo interesse solo per il presente del qui e ora e continuando a mostrare la sua persistente identità di psicoanalista, Beck radicò lo sviluppo degli schemi nell’infanzia dei pazienti, quando essi si presentano in maniera rigida, dicotomica e strettamente legata alle emozioni. Man mano che il bambino matura, gli schemi assumono flessibilità e distanza dalle emozioni e l’individuo acquisisce la capacità di valutare le situazioni razionalmente, imparando a usare le emozioni come fonte di informazioni dei bisogni senza però cedere alla spinta comportamentale emotiva, strutturalmente impulsiva e semplicistica, ridotta al repertorio limitato dell’attacco e della fuga. La psicopatologia deriva dal fallimento dello sviluppo maturo di questi schemi, che rimangono allo stadio primitivo della valutazione tutto o nulla e della reazione impulsiva. Per Beck, questi concetti cognitivi erano rinconducibili a quelli freudiani di complesso primario e di agito (Rosner, 2012) e lo scrisse in un libro collettivo su cognitivismo e costruttivismo curato da Mahoney del 1995 (Beck, 1995, p. 41).
La conclusione è che Beck non si è mai separato completamente dalla psicologia dell’Io, anche dopo essersi alleato con terapisti comportamentali negli anni ’70. Si potrebbe persino sostenere che il suo primo libro sulla terapia cognitiva e i disturbi emotivi (Beck, 1976), fosse in realtà un testo di psicologia dell’Io. Del resto, Beck nel 1990 confidò allo psicologo comportamentale Paul Salkovskis che egli non aveva mai smesso di sentirsi uno psicoanalista.