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Vaccino anti Covid-19: una riflessione sul funzionamento della mente in situazioni critiche

Nel momento storico attuale il tema principale è il vaccino anti COVID-19 e anch’esso ha portato con sé implicazioni che dobbiamo affrontare.

 

Questo articolo propone una riflessione sul possibile funzionamento della nostra mente quando ci troviamo ad affrontare eventi critici, che potrebbero innescare alti livelli di tensione emotiva. La pandemia COVID-19 ha rappresentato e rappresenta a tutti gli effetti un evento critico; profonde conseguenze si sono verificate progressivamente su ogni aspetto della nostra vita, ogni campo della nostra esistenza è stato travolto da significativi e dolorosi cambiamenti.

Nel momento storico attuale il tema principale è la vaccinazione anti COVID-19 e anch’essa ha portato con sé implicazioni che dobbiamo affrontare. Le istituzioni sono impegnate da mesi a raggiungere, attraverso la vaccinazione di massa, l’immunità di gruppo, che appare essere l’unica soluzione per sconfiggere il COVID-19. L’approvazione dei vaccini da parte dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e dell’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali), i dati scientifici divulgati, l’appello alla responsabilità civile, i miti anti-vaccinali sfatati e, in ultima battuta, l’introduzione del green pass, hanno diminuito in parte il numero delle persone che non intendono vaccinarsi, senza però, purtroppo, azzerarlo. È interessante, a tale riguardo, poter far luce e riflettere sui potenziali meccanismi di funzionamento della mente in questa peculiare situazione. In particolare, l’attenzione viene qui posta sul funzionamento della mente borderline (Cancrini, 2006; Kernberg, 1984) e di come essa possa attivarsi in situazioni che percepiamo come avverse e che generano elevati livelli di tensione.

Il funzionamento della mente borderline è caratterizzato dal fornire giudizi estremi (“o bianco o nero”) su noi stessi e sulla realtà esterna; tale meccanismo di difesa è conosciuto come scissione. La mente che presenta questo meccanismo giudica tutto buono o tutto cattivo, senza nessuna sfumatura, ha difficoltà a intercettare i gradi di positività e negatività di una persona o di un oggetto esterno (Cancrini,2006; Kernberg, 1984). La mente funziona in questo mondo per il bambino fino ai 15-21 mesi: una madre presente è la nutrice buona e disponibile che lo rende felice e riconoscente, mentre una madre assente viene vissuta come cattiva e lo rende pieno di rabbia e di odio. È soltanto verso i 3 anni, quando il piccolo può ricordare con chiarezza la madre che c’era e immaginare quella che ci sarà, che questa fase critica ha termine. Il superamento dell’angoscia di separazione segnala la raggiunta stabilità con l’oggetto d’amore; essa indica la capacità acquisita del bambino di integrare l’immagine della madre cattiva (assente) con quella buona (presente), preparandolo agli aspetti maturativi della separazione che seguirà la sua reale nascita psicologica (Mahler et al., 1975).

Nello sviluppo normale, la capacità di integrare le rappresentazioni buone e cattive aumenta gradualmente con l’età e dovrebbe raggiungere i massimi livelli nell’età adulta. Gli individui maturi fondano il loro equilibrio sulla consapevolezza profonda della propria e altrui imperfezione, possono interrogarsi con sospetto (“mi sto arrabbiando troppo?”), con ironia (“forse mi sto arrabbiando troppo”) o con aperto compiacimento (“quando vado allo stadio posso arrabbiarmi o entusiasmarmi troppo”) allo sviluppo di emozioni unilaterali (“tutto bianco” o “tutto nero”). La tendenza a regredire verso posizioni più primitive, tuttavia, può presentarsi in situazioni di particolare tensione, come nei passaggi evolutivi critici (preadolescenza, adolescenza, nascita di un figlio, etc.), nel momento del lutto e della perdita (cui si reagisce, per un lasso di tempo, in modo borderline), negli entusiasmi basati sull’identificazione proiettiva con un ideale, nell’innamoramento (Cancrini, 2006).

Il funzionamento della mente borderline è un riflesso difensivo molto significativo nella misura in cui consente al singolo e al gruppo di darsi una spiegazione di quello che sta accadendo evitando lo smarrimento depressivo di chi è sopraffatto da eventi “incomprensibili”. Ciò non esclude che possano esserci singoli o gruppi di persone che riescono a mantenere un funzionamento normale anche in situazioni caratterizzate da alti livelli di tensione, che vivono esprimendo un dubbio o una mancanza di certezze su ciò che sta realmente accadendo. Se la crisi vissuta è particolarmente intensa e drammatica, se le pressioni esterne sono particolarmente forti, può accadere che gli individui vengano travolti da ondate di funzionamento borderline, cercando di trovare rinforzi positivi per le proprie convinzioni e per i propri atteggiamenti. Coloro che esprimono dei dubbi vengono rapidamente assimilati a dei nemici. Si potrebbe, a questo punto, osservare l’utilizzo del meccanismo di difesa dell’idealizzazione per quanto riguarda l’interno (chi appartiene alla stessa corrente di pensiero) e di svalutazione per l’esterno (coloro che non vi aderiscono). L’esterno e l’interno appaiono, in tal modo, scissi e viaggiano su binari estremi opposti: il “buono” e il “cattivo”. Tale pervasività di funzionamento borderline è un fenomeno che tende ad autoalimentarsi. Mentre nelle situazioni in cui la crisi e la tensione viene sperimentata in modo meno drammatico, una parte cospicua di persone e di gruppi riesce a mantenere la propria capacità di riflessione e può opporsi in modo funzionale allo sviluppo di un’ulteriore pervasività del funzionamento borderline, in quest’ultimo caso ad autoalimentarsi è la tendenza a organizzare un pensiero maggiormente strutturato. Quello che appare più verosimile, e che trova conferma negli studi di Freud (1921) sulla psicologia delle masse, è l’idea che in tali circostanze si stabilisca una regressione a livelli primitivi di funzionamento di un numero rapidamente crescente di individui che si “contagiano” l’uno con l’altro. Il rinforzo della regressione è connesso ai messaggi che provengono dallo schieramento opposto all’interno di sequenze comunicative caratterizzate dalla escalation progressiva dei toni, delle minacce, delle accuse e delle aggressioni reciproche (Cancrini, 2006).

Tale funzionamento della mente borderline potrebbe essersi attivato di fronte all’evento critico della pandemia e, in particolare, nel caso della vaccinazione anti COVID-19: le tensioni emotive a cui siamo soggetti potrebbero aver attivato un funzionamento mentale primitivo, legato a meccanismi difensivi arcaici, come quello della scissione, dell’idealizzazione e della svalutazione, lasciando, in tal modo, poco spazio a un funzionamento psichico più maturo, caratterizzato da un pensiero maggiormente strutturato e non soggetto a giudizi totalizzanti. Risulta, a mio avviso, pertanto importante poter effettuare una lettura complessa del fenomeno della vaccinazione che prenda in esame anche i risvolti psicologici e il potenziale funzionamento mentale sottostante, in modo tale che questa lettura possa essere una guida e un ausilio ai potenziali interventi da mettere in opera in questo delicato momento storico.

 

Il concetto di olobionte umano-microbiota e l’effetto imbuto dei telomeri

Il concetto di olobionte implica una mente umana quale sistema integrato che, non solo cerca di soddisfare le teleonomie bio-psico-sociali implementate dal DNA della specie umana, ma include anche le teleonomie dell’ecosistema.

 

Il settore scientifico del microbiota ha fatto emergere la necessità di introdurre il concetto di olobionte mentre la scienza dei telomeri ha evidenziato la natura convergente di molti aspetti psicofisici umani. La mente, in questo scenario complesso, assume un ruolo nuovo di mediatore tra esigenze bio-psico-sociali umane e degli altri microorganismi che ospitiamo.

Abstract

L’epigenetica e lo studio del microbiota supportano il concetto di olobionte cioè di organizzazione formata da un ecosistema di agenti biologici che non condividono il medesimo DNA, ma che interagiscono simbioticamente al fine di massimizzare la fitness dell’unità globale. In questo contesto la velocità di consumo dei telomeri, le strutture cromosomiche che determinano la nostra longevità e qualità di vita complessiva, assumono un significato nuovo e ancora più complesso. Mentre il concetto relativo l’“effetto imbuto” (detto anche “a collo di bottiglia”) dei telomeri ben rappresenta la dinamica estremamente convergente ed in parte indipendente delle teleonomie umane e non, la mente assume il ruolo di spazio in cui queste eterogenee teleonomie convergono in maniera integrata per essere negoziate all’interno dei processi decisionali umani.

Il microbiota

Sulla nostra pelle, all’interno della nostra bocca e delle vie respiratorie, ma soprattutto nell’intestino, il complesso ecosistema di microorganismi con un DNA diverso dal nostro chiamato microbiota svolge un ruolo fondamentale ed indispensabile per la nostra salute e la nostra sopravvivenza.

Seppur largamente sottostimato fino a pochi anni fa anche dalle scienze biomediche, oggi sappiamo finalmente che dalle funzioni digestive a quelle metaboliche o immunitarie, il microbiota è essenziale per il funzionamento del nostro organismo sia nei suoi aspetti più strettamente fisiologici che psicologici.

Il ruolo e l’impatto del microbiota, ossia l’insieme di microorganismi (batteri, virus e funghi) che coabitano con le nostre cellule, finora non ha mai trovato il suo reale spazio logico perché fino a pochi anni fa era considerato solo come un insieme di agenti biologici tollerati dal nostro organismo, ma che parassitavano le cellule umane senza apportare alcun beneficio.

Attualmente, in considerazione delle conoscenze emerse dal settore del microbiota, occorre cambiare paradigma per incorporare le teleonomie espresse da questo vasto ecosistema che vive in simbiosi con le cellule umane, soprattutto perché siamo sempre più coscienti che la loro interazione con le teleonomie bio-psico-sociali che caratterizzano la specie umana è fondamentale ed imprescindibile (Agnoletti, 2021a).

Il microbiota risulta indispensabile per capire l’eziologia di molte problematiche di natura sia fisiologica (si veda ad esempio la celiachia, l’obesità o la colite ulcerosa) che psicologica come l’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia, etc. (Caio et al., 2019; Cheung et al., 2019; Kelly et al. 2016; Li & Zhou, 2016; Foster & McVey Neufeld; 2013; Garrett et al. 2007; Koenig et al., 2011; Mangiola et al., 2016; Ottman et al., 2012; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Sharon et al., 2019; Simpson et al., 2021).

Questa considerazione comporta dei cambiamenti piuttosto radicali dei paradigmi delle scienze biomediche e psicologiche perché aumentano notevolmente la complessità dei fenomeni da analizzare, anche se offre contemporaneamente tutta una serie originale di processi esplicativi finora mai considerati scientificamente (Agnoletti, 2021b; Agnoletti, 2021c).

L’olobionte

In passato, anche prima di quella che viene attualmente chiamata “microbiota revolution” per il suo forte impatto sulle scienze biomediche, alcuni biologi evoluzionisti e microbiologi avevano già sentito l’esigenza di parlare di “olobionte”, per meglio descrivere un organismo caratterizzato dalla convivenza simbiotica di agenti biologici che non condividono lo stesso DNA.

La famosa biologa Lynn Margulis propose in passato la teoria dell’endosimbiosi in riferimento soprattutto a strutture biologiche intracellulari (si veda ad esempio il ruolo dei mitocondri), introducendo anche il concetto di olobionte come entità in cui vari organismi cellulari che non possiedono lo stesso DNA condividono una prossimità spaziale e funzionale, pur mantenendo una propria autonomia cellulare (non si trovano cioè all’interno della stessa cellula come nel caso dell’endosimbiosi).

Il concetto di olobionte implica necessariamente una mente umana quale sistema integrato che, non solo cerca di soddisfare le teleonomie bio-psico-sociali implementate dal DNA della specie umana, ma include anche le teleonomie dell’ecosistema rappresentato dall’insieme di microorganismi del microbiota che non condividono il nostro DNA ma che globalmente possiamo considerare all’interno un’unità olobiontica (Agnoletti, 2021b).

Un esempio pratico di questa interazione complessa e bidirezionale può essere rappresentato dal fatto che, ad esempio, una corretta quantità di serotonina o dopamina può non essere sintetizzata in una situazione disbiotica (di perdita cioè dell’equilibrio stabilito nel microbiota) con tutte le conseguenze esperienziali, motivazionali ed emotive del caso, così come la consapevolezza di alcune conoscenze riguardo gli stessi argomenti di questo scritto può condurre a decidere di alimentarsi in una maniera favorevole al ristabilirsi di una situazione eubiotica (in cui si recupera l’equilibrio all’interno del microbiota introducendo il Lactobacillus Rhamnosus) riportando quindi vantaggi anche a livello psicologico.

È chiaro quindi che il ripristinare un certo tipo di benessere psicologico passi inevitabilmente dal considerare e favorire la teleonomia di alcuni ceppi specifici di batteri, decidendo di effettuare delle scelte alimentari (intervenendo quindi a livello mentale) favorevoli la loro proliferazione.

La transizione da una teleonomia all’altra (rispettivamente da quella biologica di specie microbiotiche a quella biologica umana a quella psicologica e culturale e “ritorno”) è necessaria, in questo esempio, per descrivere la dinamica complessiva del fenomeno.

Il legame tra olobionte e telomeri

Se da una parte il microbiota richiama il concetto di olobionte implicando una visione della mente quale dominio dove le varie teleonomie convergono per essere continuamente negoziate al fine di ottimizzare la fitness complessiva, l’altrettanto recente scienza dei telomeri ci offre un punto di vista diverso e sotto certi aspetti ancora più sfidante, perché rappresenta un altro luogo dove convergono tutte queste teleonomie.

In estrema sintesi i telomeri sono il nostro orologio biologico perché la loro lunghezza determina la nostra aspettativa di vita residua nel senso che la lunghezza assoluta di queste strutture molecolari che si trovano sulle estremità terminali dei nostri cromosomi definiscono la nostra longevità e, di conseguenza, la nostra probabilità di sviluppare problematiche e malattie legate all’invecchiamento cellulare.

La letteratura esistente relativa alla scienza dei telomeri evidenzia che diversi fattori incidono quantitativamente sulla dinamica che determina l’attivazione degli enzimi della telomerasi (gli enzimi responsabili della ricostruzione strutturale dei telomeri stessi).

Queste “macchinette” biologiche sono deputate a ricostruire i telomeri contrastando, almeno in parte, il fisiologico consumo e quindi l’invecchiamento globale cellulare e dell’intero organismo.

Più è efficace il lavoro di manutenzione fatto sugli stessi telomeri per opera della telomerasi, più lunga è la vita residua della cellula e migliore sarà la sua fitness globale.

Per la stessa logica, minore è la lunghezza assoluta dei telomeri, più la cellula tenderà ad avere problemi d’invecchiamento fino al punto limite in cui i telomeri, non riuscendo più a soddisfare il loro ruolo strutturale nei confronti del resto del cromosoma, avviano il processo di disgregazione decretando il declino irreversibile di tutta la struttura e la funzione cellulare (Andrews & Cornell, 2017; Blackburn, 2010).

Dopo una certa soglia specifica, pari a circa 5000 basi azotate, l’accorciamento telomerico predispone quindi a molte malattie di natura cardiocircolatoria, immunitaria ed oncologica (Prinz, 2011).

L’invecchiamento cellulare determinato dalla lunghezza dei telomeri ha quindi una proprietà plastica “esperienza dipendente” nel senso che può essere accelerato o rallentato in base alla tipologia di esperienza epigenetica che influenza l’attività della telomerasi e, in ultima analisi, della lunghezza assoluta dei telomeri.

I fattori responsabili dell’accelerazione od il rallentamento dell’attività della telomerasi, e quindi dell’invecchiamento cellulare, sono stati ben identificati dalla letteratura scientifica.

La nutrizione, l’attività motoria, la qualità del sonno, della rete sociale che percepiamo ed il benessere psicologico, contribuiscono tutti a modificare l’attività della telomerasi (in senso positivo o negativo) influenzando in ultima analisi la lunghezza assoluta dei telomeri.

In altre parole gli aspetti psicologici, motori, del sonno, nutrizionali e relativi le relazioni sociali hanno la medesima capacità di modificare le dinamiche della telomerasi e quindi della lunghezza assoluta dei telomeri determinando la longevità potenziale residua dell’organismo intero.

Tutti questi fattori sociologici, psicologici, fisiologici, nutrizionali e motori, con le loro rispettive teleonomie, “bersagliano” quindi in maniera convergente ed almeno in parte indipendente i telomeri perché tutte queste “esperienze” epigenetiche vengono “tradotte” in codici biologici che si esprimono, in ultima analisi, in termini di attività della telomerasi.

Quanto appena descritto sottolinea chiaramente la natura almeno in parte indipendente e convergente che coinvolge molti livelli delle nostre teleonomie bio-psico-sociali e che hanno importanti implicazioni pratiche relative il nostro benessere psicofisico (Agnoletti, 2018a; Agnoletti, 2018b).

Ho chiamato “effetto imbuto” o “effetto collo di bottiglia” telomerico questa dinamica dei telomeri appunto per descrivere l’evidente convergenza di molti processi parzialmente indipendenti, che influenzano l’attività della telomerasi, determinando cambiamenti nella longevità e nella qualità di vita cellulare.

Le implicazioni, anche cliniche, di questo concetto sono rilevanti per quanto riguarda il benessere psicofisico e la salute umana e rappresentano un cambiamento piuttosto radicale rispetto gli standard applicati attualmente (Agnoletti, 2018b; Agnoletti, 2019).

Nel contesto descritto precedentemente, che prevede il concetto di olobionte caratterizzato dalla convivenza di teleonomie umane e relative i microorganismi del microbiota, il livello d’analisi dei telomeri rappresenta uno spazio particolare dove il grado di negoziazione tra queste diverse teleonomie viene in qualche modo sintetizzato sia attraverso l’attività della telomerasi che attraverso la lunghezza totale dei telomeri.

Risulta particolarmente importante sottolineare il fatto che questo livello di analisi è oggettivo e già misurabile in maniera sufficientemente affidabile, anche se è prevedibile che nel prossimo futuro si svilupperà una ancora maggiore precisione ed affidabilità.

Quindi riassumendo abbiamo uno spazio mentale (conscio e non), dove le teleonomie umane e non umane si incontrano per essere negoziate globalmente all’interno dei processi decisionali che dirigono i nostri comportamenti, ed uno spazio rappresentato dai telomeri, dove queste scelte vengono sostanziate in termini di fitness biologica di tutte queste scelte globali.

Lo spazio psicologico umano è il dominio caratterizzato dall’incontro dell’oggettività e della soggettività, dall’incontro delle dinamiche che caratterizzano la nostra specie, così come le particolarità individuali derivanti dalla nostra storia personale in tutti i suoi aspetti bio-psico-sociali.

Lo spazio dei telomeri è un luogo biologico, oggettivabile, perché definito da una natura digitale, e quindi misurabile, in cui convergono tutte le dinamiche dello spazio psicologico espresse in comportamenti psico-neuro-endocrino-immunologici.

Il nostro concetto di benessere psicofisico non può ormai prescindere da questi macro concetti che la scienza ha identificato, e che ho provato a descrivere sinteticamente in questo testo, perché la consapevolezza delle loro dinamiche si declina in aspetti pratici sia per i professionisti del benessere (nel modo di supportare i loro assistiti) sia per tutte le persone che vogliono migliorare la propria salute e la loro qualità di vita.

 

“Redenzione” il primo singolo tratto da “Essenziale”, il nuovo album di Massimo Priviero uscito il 1 ottobre

Redenzione nasce nel pieno della pandemia, quando il mondo ha trovato conforto nella musica che ha aiutato a sentire ed amplificare un sentimento di condivisione, facendoci sentire meno soli, uniti ad affrontare un nemico comune. Uniti e per questo più forti.

 

Lo spazio temporale della canzone è quello post Covid, di un paese che sta cercando di ripartire dopo lo sconvolgimento causato dalla pandemia. Si cerca di guardare avanti pur non essendo ancora liberi dai vincoli e dai timori che sono nostri compagni ormai da un anno e mezzo.

All’inizio, nel febbraio 2020, nessuno aveva immaginato quello che stava per travolgerci, la sorpresa e il senso di disorientamento erano più forti della paura.

Nella primavera 2020 – racconta Massimo Priviero – mi ritrovai forzatamente chiuso in casa. Naturalmente, come gran parte del mondo. Confesso che all’inizio mi sentissi molto più sorpreso che terrorizzato. Ovviamente, parecchio intristito dalla quantità di quotidiane vittime innocenti a seguito di quel che abbiamo vissuto. Scrivere e comporre era quanto di più naturale potesse accadermi. Allo stesso modo, chiaro che hai tanto tempo per riflettere, per guardare dentro di te.

Con il passare delle settimane, poi dei mesi, si è fatta strada l’idea che quello che stava succedendo ci stava soverchiando. Ci siamo sentiti sempre più piccoli e impotenti in balia di qualcosa di incontrollabile che stava ridimensionando in modo irreversibile quell’eterno desiderio di onnipotenza che ci portiamo dentro. Cominciano a emergere debolezze, contrasti e fragilità che forse senza che nemmeno ce ne accorgessimo ci stanno dominando.

Avevo spesso questi pensieri mentre scrivevo, parlavo a me stesso, mettevo in fila immagini, tante immagini, fatti che ben sapete, poveri sempre più poveri, sempre di più, pezzi di mondo emarginati in mille modi, crisi ambientali come non ne abbiamo mai viste, trionfo dell’indifferenza, generazioni schiave di tecnologia e di rapporti umani falsati, drammi sul colore della nostra pelle.

​Apri anima e testa per sentire di più
Non lo vedi tuo figlio che cerca un lavoro
E il tuo benessere a debito che fotte il futuro
Globalizzati e ubriachi di tecnologia
Figli di grandi fratelli e bella democrazia
Te li immagini i cristi davanti a un confine
Con esistenze dal costo di un pezzo di pane
Tra volontari di pace perseguitati ogni giorno
Mentre gli idioti contenti qui ballano intorno

Da qui il pensiero che forse, in qualche modo, questo mondo deve finire, finire per poter ricominciare attraverso una sorta di redenzione umana:

Ma sembra la fine, sembra la fine
Sembra la fine del mondo che abbiamo visto noi

È in questo preciso momento, con questo stato d’animo, che nasce Redenzione:

La rabbia, la paura, la denuncia, il bisogno di amore e di purificazione. Il menestrello solo nel mezzo di una strada che suona e canta quel che i suoi occhi vedono e quel che la sua penna scrive da sola, invitando il mondo ad aprire la sua finestra. La finestra della mente e finestra dell’anima.

Eppure le contraddizioni del mondo sembrano non attenuarsi nemmeno con la pandemia. Su una presa di coscienza seria e un’onesta autocritica sembra prevalere una voglia di leggerezza sterile:

Lo vedi bene anche tu cosa siam diventati
​Indifferenti al mercato finché siamo scaduti
​Uomini senza le facce che chiamiamo gente
​Intossicati dal troppo, dal troppo di niente
​Governati da inetti e nullità senza fine
Banditi del tuo domani e senza bene comune
Terrorizzati dal gioco dell’economia
Contiamo morti innocenti di un’epidemia

Strano però, scrivevo strofe su strofe, anche cariche di peso, di denuncia di rabbia, di fame di giustizia, dategli voi il nome. È una cosa difficile da fare oggi, in un tempo in cui parliamo di bisogno di leggerezza che il più delle volte è desiderio di non vedere, è una grande bugia che ci raccontiamo, il fatto è che abbiamo fatto coincidere la leggerezza con l’indifferenza e spesso col cinismo.

Sento molto dire: “Con quel che abbiamo passato vuoi che non sia ora di divertirci e di metterci tutto alle spalle”, bene avremmo un mondo libero di essere più scemo e pure più criminale giustificato da quello che abbiamo passato, oppure verrà un giorno in cui cercheremo una nuova strada e una nuova salvezza, soprattutto per chi verrà dopo di noi.

Siamo schiavi del mercato, schiavi dei soldi, siamo uomini contenti di vivere senza alcuna idealità, senza domani, uomini illusi di vivere senza domani, non lo vediamo neanche il domani.

C’è l’amara considerazione che di questo fardello d’indifferenza e superficialità non siamo ancora riusciti a liberarci, ma resta anche viva la speranza che almeno per alcuni si possa essere aperto uno spiraglio di consapevolezza, magari proprio attraverso la musica.

Non ho creduto per un solo momento che il mondo sarebbe uscito migliore da quel che ha vissuto. La mia resistente idealità non è illusione. Credo, questo sì, che alcune minoranze possano aver trovato invece nuova forza dentro a una tragedia. Il bisogno di redenzione e se volete di conoscenza, oltreché essere un fatto molto individuale, riguarda essenzialmente loro.

Eppure mi sono trovato assurdamente felice mentre scrivevo e incidevo redenzione, eppure mi aspettavo e mi aspetto ancora che una minoranza di pazzi o di santi possa sentire la chiamata a raccolta del menestrello (…) aspettando altre voci che si aggiungano alla mia, come succede alla fine di questa canzone che inizia da sola in mezzo a una piazza vuota ma che poi si riempia di suoni, di altre voci, di altre menti, di altre anime.

L’ascolto di Redenzione innesca un processo che recupera i ricordi e contribuisce a creare la colonna sonora della nostra vita.

L’arte, e la musica nello specifico, è fonte di benessere emotivo e nutrimento interiore, ha potere salvifico, specie nei momenti di sofferenza.

A volte, nei mesi passati, richiusi tra quattro mura, abbiamo assistito a esibizioni improvvisate e concerti in streaming, talvolta spinti più dalla voglia di apparire e riappropriarsi di un palcoscenico che da una reale esigenza artistica. Ma la MUSICA è altro, la musica ha bisogno del contatto col pubblico, non si può fare da soli, in casa. È collettività e fisicità.

La musica ha bisogno di tornare nelle piazze e nei teatri, ed è li che troveremo Redenzione.

 

Guarda il video di Essenziale, di Massimo Priviero:

 

Il disturbo ossessivo-compulsivo nello spettro autistico: implicazioni nella diagnosi differenziale e nel trattamento

I disturbi dello spettro autistico (ASD) e il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), secondo recenti studi epidemiologici, presentano dei tassi di prevalenza dall’1% al 2% e dall’1% al 3%, rispettivamente (Pazuniak & Pekrul, 2020).

 

Introduzione

Il DOC è caratterizzato dall’interrelazione tra pensieri intrusivi (ossessioni) e azioni fisiche e/o mentali intenzionali (compulsioni), finalizzate a ridurre l’ansia causata dall’ossessione (APA, 2013). Il profilo dei disturbi dello spettro autistico, invece, presenta: iper- o iporeattività sensoriale, carenza di reciprocità socio-emotiva, mancanza di espressività facciale con anomalie del contatto visivo, stereotipie, scarsa flessibilità cognitiva e gamma di interessi limitata (APA, 2013).

Prima della pubblicazione della 4° edizione revisionata del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-IV-TR; APA, 2000), i criteri diagnostici dell’ASD e del DOC precludevano la diagnosi dell’altro disturbo (Jiujias, Kelley & Hall, 2017). Questi criteri di esclusione erano in parte basati sull’idea che il comportamento ripetitivo e ristretto, nonché gli interessi limitati e stereotipati riscontrati nell’ASD, sembravano essere simili alle ossessioni e alle compulsioni riscontrate nel DOC.

Tuttavia, la ricerca suggerisce che esistono differenze nel comportamento ripetitivo e limitato tra i due disturbi (Pazuniak & Pekrul, 2020). Inoltre, gli studi indicano che bambini e adolescenti con ASD e DOC in comorbilità (ASD-DOC) possono presentare una sintomatologia differente rispetto ai pazienti con ASD senza DOC.

La diagnosi differenziale tra autismo e DOC

Date le differenze negli approcci terapeutici con ASD e DOC, è importante che il clinico riconosca un criterio di demarcazione tra i due disturbi, al fine di implementare gli interventi terapeutici più appropriati ed efficaci (Pazuniak & Pekrul, 2020).

Inoltre, i bambini e gli adulti nello spettro autistico possono presentare un’ampia variazione in termini di gravità: da quelli con significative disabilità linguistiche e a basso funzionamento, a quelli considerati più ‘funzionali’; nonostante siano tutti accomunati da una difficoltà pervasiva, più o meno marcata, nella comunicazione e manifestazione dei loro stati interni (Postorino et al., 2017).

L’identificazione di situazioni e stati mentali, che precedono episodi di disregolazione emotiva e comportamentale, può anche aiutare nella diagnosi di DOC nell’ASD: una delle caratteristiche chiave per distinguere i comportamenti ripetitivi primari dell’ASD dal quadro clinico del DOC, è che soltanto nello spettro autistico i comportamenti sono egosintonici e finalizzati alla ricerca sensoriale, mentre nel DOC sono spesso ego-distonici, causano angoscia e sono principalmente guidati dall’ansia (Pazuniak & Pekrul, 2020). Inoltre, i sintomi del disturbo ossessivo compulsivo possono apparire come nuovi comportamenti e diversi da quelli stereotipati di base che gli individui con autismo potrebbero aver manifestato per lunghi periodi di tempo, prima dell’insorgenza del disturbo ossessivo compulsivo.

L’attitudine verso l’accumulo di oggetti, in un bambino o adolescente con ASD, può indicare una diagnosi di comorbidità ASD-DOC. Si raccomandano, però, maggiori studi per discernere quali ossessioni e compulsioni sono più comuni nella popolazione con ASD, in quanto perseverano risultati contrastanti in merito alla diagnosi differenziale.

Trattamento del DOC in persone con autismo

Per quanto riguarda il trattamento, se a un paziente con disturbo dello spettro autistico è stato diagnosticato il DOC, si consiglia di seguire le linee guida cliniche standard per il DOC con alcune modifiche. Ad esempio, si consiglia di iniziare con una Terapia Cognitivo-Comportamentale (Cognitive Behavioural Therapy, CBT) modificata per gli individui con ASD ad alto funzionamento e/o con buone capacità di linguaggio espressivo-ricettivo. In particolare, la prevenzione dell’esposizione e delle ricadute può essere utile, specialmente con adattamenti per bambini e adulti con ASD. Tali adattamenti possono includere sessioni a domicilio, per aumentare la generalizzabilità della terapia, con una maggiore attenzione sull’identificazione affettiva e una minor enfasi sulla modulazione dello schema cognitivo.

Sebbene in letteratura non sia dimostrata un’efficacia conclamata per un farmaco specifico per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nei pazienti con ASD, ci sono alcune prove a sostegno dell’uso di clomipramina, fluoxetina e fluvoxamina. Tuttavia, poiché le persone con ASD tendono a presentare tassi più elevati di effetti collaterali con i farmaci psicotropi, viene raccomandato di iniziare con un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (SSRI), che ha evidenza di efficacia solo nel DOC (Skapinakis et al., 2016), partendo gradualmente e a basso dosaggio.

Sebbene si raccomandi di iniziare con la CBT e di integrare un trattamento farmacologico solo nei casi di scarsa o parziale aderenza alla terapia, con alcuni pazienti con disturbi dello spettro autistico, specialmente quelli con un basso funzionamento e/o un significativo ritardo del linguaggio, risulta necessario iniziare sincronicamente con un trattamento psicoterapico e farmacologico. Per questi pazienti potrebbe essere utile iniziare con un intervento psicotropo, in aggiunta agli interventi comportamentali standard per l’ASD. Qualora il trattamento di prima linea con un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina risultasse inefficace o dimostrasse solo una risposta parziale, potrebbe essere necessario provare la clomipramina. Se la clomipramina non viene tollerata, è inefficace o mostra una risposta parziale, il medico può considerare di aumentare o sostituire questi farmaci con un antipsicotico di seconda generazione, che abbia evidenza di efficacia nel disturbo ossessivo compulsivo, come ad esempio risperidone o aripiprazolo (Dold et al., 2015). Tuttavia, risulta doveroso ribadire che sono emersi risultati contrastanti in merito all’utilizzo di risperidone e aripiprazolo nei casi di comorbidità di ASD e DOC.

Conclusioni

Il confine di demarcazione diagnostico tra le due categorie di disturbi costituisce un’area che necessita ulteriori approfondimenti in ambito clinico e di ricerca. A tal proposito, gli argomenti suggeriti per la ricerca futura includono: (1) l’eventuale identificazione di sottogruppi specifici all’interno della macro-categoria ‘comorbilità DOC-ASD’, in quanto questa vasta popolazione clinica costituisce un raggruppamento eterogeneo che può implicare manifestazioni sintomatologiche e trattamenti diversi; (2) elaborare ulteriori adattamenti nel protocollo CBT per i diversi livelli di funzionamento dello spettro autistico (3) e ulteriori studi randomizzati e controllati che valutano l’efficacia degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e degli antipsicotici (Pazuniak & Pekrul, 2020).

Rimuginio e timidezza nell’ansia sociale: fattori di rischio o di mantenimento?

L’ansia sociale è riportata come la seconda più comune condizione ansiosa, con una prevalenza nel corso della vita di circa il 10% (Kessler et al., 2014).

OPEN SCHOOL – Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Caratteristiche dell’ansia sociale

 Si caratterizza per la presenza di un’intensa paura nelle situazioni sociali in cui si è sottoposti allo sguardo e alla valutazione di altre persone. Il tema centrale di questa difficoltà è rappresentato dalla convinzione di essere continuamente sottoposti al giudizio degli altri, e il conseguente timore è quello di essere oggetto di una valutazione negativa (Grimaldi, 2018).

Pertanto, l’apprensione di chi ne soffre è strettamente legata alla rappresentazione di come è percepito e valutato dalle altre persone. Diverse sono le situazioni temute dalle persone con ansia sociale, tra cui generalmente tutte le situazioni nuove o quelle in cui si è chiamati a difendere i propri diritti o a sostenere un’opinione diversa da quella di un’altra persona. Questo porta chi ne soffre a evitare molte delle situazioni sociali per paura di possibili giudizi negativi e per la preoccupazione di potersi sentire sotto osservazione. In questa prospettiva, si è continuamente alla ricerca di un giudizio positivo, in uno scenario, tuttavia, in cui la paura di poter subire un rifiuto tende a innescare un circolo vizioso che può gradualmente portare ad un peggioramento dell’ansia stessa (Grimaldi, 2018).

Fattori di mantenimento dell’ansia sociale

Una delle caratteristiche più rilevanti così è la necessità di voler dare sempre una buona impressione durante le interazioni sociali, cercando di evitare di ricevere giudizi negativi. L’ansia sociale, tuttavia, è una condizione che viene mantenuta ed alimentata da diversi fattori, tra cui: tratti di personalità caratterizzati da introversione e timidezza, una forte ansia anticipatoria che precede le azioni da eseguire in pubblico e un costante rimuginio. Più di altri disturbi d’ansia è mantenuta da pensieri di autosvalutazione, che si generano automaticamente, in corrispondenza di una situazione temuta e che fanno perdere alla persona il focus sulla situazione in cui si trova, facendola concentrare soltanto sui propri timori. Questo porta così a rappresentarsi già l’esito negativo della propria prestazione, sociale o individuale, facendo emergere di riflesso l’emozione della vergogna, che nell’ansia sociale si caratterizza per essere un tratto distintivo.

Un altro fattore di mantenimento, inoltre, sono i comportamenti di evitamento che la persona mette in atto nel tentativo di proteggersi. La persona con ansia sociale, sottraendosi alle situazioni sociali temute, evita non solo un’eventuale valutazione negativa, ma anche le possibili disconferme dei propri timori. Si innesca così un circolo vizioso dove, evitando le situazioni sociali temute per paura di essere criticati, si finisce per far realizzare il proprio timore attraverso una profezia che si autoavvera. Un fattore determinante al mantenimento della problematica, infine, è rappresentato dal fatto che la persona con ansia sociale, raffigurandosi di continuo l’esito negativo delle proprie prestazioni, rimugina costantemente sulle proprie prestazioni. Ovvero, anticipa anzitempo i problemi che gli si potrebbero presentare, riflette sulle situazioni future in una prospettiva spesso catastrofica, richiamando anche alla memoria tutti i fallimenti passati.

Il rimuginio, così, non solo non aiuta la persona ad affrontare meglio le situazioni sociali, ma fa anche sì che si possa riproporre sempre lo stesso scenario negativo.

Rimuginio fattore di rischio? Il circolo vizioso dell’ansia

Il rimuginare, ovvero il preoccuparsi insistentemente rispetto a una situazione futura, è un aspetto caratteristico presente nelle persone con ansia sociale ed è presente in generalmente in due momenti: prima e dopo l’evento ansioso. Il rimuginio, che tende ad essere vissuto prima dell’evento ansioso, è dovuto al fatto che le persone con ansia sociale tendono a preoccuparsi a lungo della situazione che stanno per vivere, focalizzando la propria attenzione su tutti i potenziali problemi che potrebbero presentarsi. Tali riflessioni, compiute in modo prolungato, possono ad esempio riguardare tutte le conversazioni che potrebbero avvenire o i comportamenti sociali che la persona con ansia sociale teme possano esserci (Wells et al, 1995). Per evitare le conseguenze temute, l’ansioso sociale mette in atto comportamenti protettivi che in realtà altro non fanno che incrementare l’ansia e i pensieri di poter essere valutato negativamente, con la possibilità che i comportamenti protettivi che mette in atto possano influenzare negativamente la situazione sociale, facendo apparire la persona meno amichevole e disponibile (Wells e Clark, 1995).

Quando l’evento sociale giunge al suo termine, l’esposizione agli aspetti negativi non è ancora finita, dal momento che il rimuginio si focalizza sul comportamento messo in atto.

Le persone con ansia sociale si preoccupano così, in maniera insistente, su possibili aspetti giudicati potenzialmente come negativi, e passando anche interi giorni a rivivere l’episodio nei minimi dettagli, enfatizzano piccoli o grandi errori e ripensando alla performance sociale come fossero i protagonisti di un film, il tutto in un profondo stato di angoscia. Questo tipo di rimuginio, cosiddetto “post”, oltre a non fornire alcuna nuova informazione utile, rafforza i pensieri che c’erano prima dell’evento sociale e li intensifica nel tempo, rappresentando una fonte di nuovi interrogativi e dubbi alla persona con ansia sociale (Clark e Wells, 1997).
Se quindi da un lato il rimuginio che si verifica prima dell’evento sociale può rappresentare un fattore di rischio per la comparsa e l’incremento dell’ansia sociale, il rimuginio che avviene una volta trascorso l’evento sociale mantiene il circolo vizioso dell’ansia, rafforzandola nel tempo e causando un forte senso di timidezza.

La timidezza: tra desiderio di avvicinamento e di fuga

Zimbardo, studioso di psicologia, all’alba del 1997, metteva in luce come nelle persone timide, il fatto che i propri stati emotivi possano emergere di fronte ad altre persone, tende a generare un forte stato di allarme e preoccupazione, rispetto a come si è percepiti dagli altri (Zimbardo, 1997). Jones (2014) ha approfondito questa tematica, evidenziando come la timidezza sia caratterizza, da un lato, per la presenza di una “preoccupazione ansiosa” in risposta a situazioni sociali reali o immaginate, e, dall’altro, per la tendenza all’evitamento di situazioni sociali, per il timore di essere oggetto di valutazione da parte di altre persone. La possibilità di poter ricevere un giudizio negativo contraddistingue il comportamento delle persone timide all’interno di un gruppo, in cui pur essendoci un forte desiderio di farne parte, è anche presente una evidente fatica a fare la prima mossa. Alcune volte, le persone con ansia sociale aspettano un cenno prima di provare a inserirsi in una conversazione, mentre altre volte attendono un giudizio positivo che consenta loro di fare parte di un gruppo. Si innesca così un meccanismo per cui il desiderio di inserirsi in un contesto relazionale e la tendenza all’evitamento coesistono simultaneamente all’interno di uno stile di pensiero spesso orientato a una forte preoccupazione su ciò che gli altri potrebbero pensare. All’interno di questa prospettiva secondo studi recenti la timidezza rappresenterebbe un fattore che potrebbe predisporre all’ansia sociale. Diversi studi, tra cui (per primi) quello di Chavira e Malcarne (2002), hanno cercato di analizzare se la timidezza rappresentasse un fattore di rischio o di mantenimento, mettendo in luce come il livello di ansia sociale fosse molto più alto nei gruppi di persone “particolarmente timide”, rispetto a un campione timido nella norma. Questo tenderebbe a verificarsi ancor di più quando c’è una forte paura del giudizio altrui ed è allo stesso tempo presente un’intensa emozione di vergogna in seguito ad eventi sociali vissuti.

La vergogna e la paura del giudizio nell’ansia sociale

La vergogna è un’emozione molto complessa che può insorgere nei momenti di interazione sociale. Si caratterizza in particolare per un insieme di pensieri e comportamenti a valenza negativa, che fanno riferimento a una propria svalutazione e inadeguatezza in contesti socio – relazionali, in cui le altre persone sono percepite come migliori. L’emozione della vergogna, tuttavia, ha uno scopo specifico, che è quello di segnalare alla persona che vi può essere un possibile attacco alla propria autostima o ad il proprio status sociale. In particolare, è connessa a determinati canoni della cultura di riferimento, può assumere diverse sfaccettature e riguardare diversi ambiti. La persona che la prova può percepire, ad esempio, di non aver fatto bene in una determinata prestazione o, proprio come avviene nel caso dell’ansia sociale, può vergognarsi di ricevere dei complimenti poiché crede di non meritarli. Quest’emozione può diventare disfunzionale a seguito di determinate esperienze vissute nel corso dell’età evolutiva, in particolare quando le figure di riferimento, come genitori e insegnanti, espongono il bambino a valutazioni negative globali di sé, anche attraverso umiliazioni o mancati apprezzamenti. Crescendo, poi, si formano delle credenze che possono mantenere quest’emozione. In particolare quando si inizia a concepire come non degno di stima o ad essere estremamente attento ai giudizi altrui. Così, il timore del giudizio da parte dell’altro può emergere con elevata intensità, in particolar modo, ad esempio, quando la persona deve mettere in atto una prestazione in pubblico. La persona sperimenta così una profonda sofferenza nelle situazioni che teme, finendo spesso per evitarle. Altre volte, mette in atto strategie che ritiene possano proteggerla dal giudizio altrui, come nascondersi il viso, parlare il meno possibile e molto velocemente quando si deve intervenire in una discussione di gruppo, o ancora evitare del tutto di esprimere la propria opinione, dando sempre ragione all’altro (Caccico, 2019). Il timore di essere giudicato in modo negativo dagli altri, per le proprie prestazioni, fa sì che si generi una profonda angoscia nel momento in cui la persona si trova a svolgere in pubblico determinate azioni, che potrebbero essere giudicate negativamente.

La terapia metacognitiva di Wells come intervento di cura per l’ansia sociale

Fino agli anni ’80 del secolo scorso, il disturbo d’ansia sociale era un disturbo del quale si sapeva poco e i trattamenti per la cura di questa problematica erano pochi, come erano anche carenti le ricerche che ne davano prova di effettiva efficacia. Attualmente la situazione per quanto riguarda gli interventi per la cura della fobia sociale è radicalmente cambiata. Vi sono infatti diversi studi che riportano l’efficacia degli interventi cognitivi-comportamentali per la riduzione dei sintomi connessi (Wells & McMillan, 2004).

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è risultata efficace nel mantenimento dei miglioramenti anche nel lungo termine rispetto ad altri interventi psicoterapici o agli psicofarmaci (Studi Cognitivi, n.d.).

La CBT va a migliorare, sul piano cognitivo, i processi disfunzionali che mantengono il disturbo, mentre dal punto di vista comportamentale, attraverso esposizioni graduali, fa affrontare al paziente le situazioni temute, utilizza inoltre tecniche di rilassamento e training per apprendere abilità sociali (Rapee & Heimberg, 1997). Tuttavia grazie all’avvento della terza ondata della terapia cognitiva, vi sono nuovi interventi che si sono rivelati anche per certi versi migliori rispetto alla terapia cognitivo-comportamentale standard. Il nuovo trattamento cognitivo di Clark e Wells, la Terapia Metacognitiva (MCT) si focalizza direttamente sui meccanismi psicologici che mantengono la sintomatologia e secondo gli studi produce maggiori livelli di riduzione del sintomo rispetto ai precedenti trattamenti psicologici, compresa la CBT. Stando alle ricerche, l’MCT darebbe risultati superiori per quanto riguarda la riduzione dei sintomi anche rispetto agli SSRI, il trattamento farmacologico di prima linea per la fobia sociale (Wells &McMillan, 2004). Il focus dell’intervento non è sul contenuto dei pensieri disfunzionali del paziente, come avviene nella CBT standard, quanto piuttosto alle modalità di pensiero che risultano inflessibili e ricorrenti, come avviene nel processo del rimuginio. Assunto base dell’MCT è che alla genesi delle psicopatologie, tra cui la fobia sociale, vi siano degli stili di pensiero disfunzionale che prende il nome di CAS: sindrome cognitivo attentiva. La CAS si caratterizza per la presenza del rimuginio come stile di pensiero e per la focalizzazione della propria attenzione su stimoli interni o esterni alla persona considerati minacciosi, che mantengono lo stesso stato ansioso. La CAS, secondo gli autori, non ha origine da credenze su di sé e sul mondo, bensì da metacredenze riguardo le proprie modalità di pensiero. Queste possono essere a valenza positiva: “se ripenso costantemente all’evento riuscirò a fare bella figura”, che fanno riferimento sostanzialmente all’utilità di focalizzare la propria attenzione su determinati stimoli, oppure a valenza negativa: “prima o poi impazzirò a forza di ripensarci su”, che invece si riferiscono all’incapacità di gestire i propri pensieri ed emozioni. Nella terapia metacognitiva, all’opposto della CAS si ha la DM, ovvero la Detached Mindfulness, che è l’obiettivo finale di questa terapia. Detached Mindfulness, si traduce con: consapevolezza distaccata. Il termine fa riferimento alla modifica delle modalità con cui le persone si approcciano ai propri pensieri, sviluppando capacità di flessibilità cognitiva e di controllo dei processi attentivi. La consapevolezza distaccata è sostanzialmente la capacità di non farsi invischiare in tutti quei processi cognitivi disfunzionali che mantengono la sintomatologia ansiosa, in particolare il rimuginio. La persona, gradualmente, diviene in grado, grazie ad essa, di discostarsi da questi processi, non eliminandoli, ma prendendone consapevolezza e imparando a gestirli.

In conclusione, obiettivi terapeutici della Terapia Metacognitiva sono la rimozione della CAS, che si ha modificando le modalità di pensiero e le strategie utilizzate per gestirlo, la modifica delle metacredenze sia a valenza positiva che negativa e l’apprendimento di nuove modalità di orientare il proprio flusso di pensieri grazie alla DM (Melli, 2018).

L’MCT si prefigura come trattamento di intervento innovativo e d’elezione per il trattamento della fobia sociale, consente di ridurre i circoli viziosi che incatenano le persone con questa psicopatologia, consentendo di aumentare in loro il senso di autoefficacia e sentirsi di nuovo parte attiva nei contesti sociali. Diviene così possibile poter condurre una vita più appagante e maggiormente caratterizzata da interazioni relazionali piuttosto che da stati di rimuginio ed isolamento.

 


LA TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DEL DISTURBO D’ANSIA SOCIALE - CORSO ECM FAD
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Robotica Psico-sociale: i progressi nell’interazione Uomo-Macchina

Qual è il compito dei robot? Uno dei compiti è sicuramente quello di sostituire l’uomo, ma non con il progetto di eliminarlo, bensì per evitare lavori pericolosi o stancanti.

 

Le persone sono da tempo interessate alle macchine che simulano i processi naturali, in particolare alle tecnologie che replicano il comportamento e/o l’aspetto umano. Questo desiderio ha radici antiche: partendo dalla creazione di una varietà di ‘simulacri’ in Egitto circa 2000 anni fa, fino alla costruzione di dispositivi altamente sofisticati, creati utilizzando le conoscenze scientifiche (Richter, 2015). Altri esempi impressionanti di simulazioni umane includono prime forme di androidi costruiti nel XVI, XVII e XVIII secolo in Europa, dove sono state costruite una varietà di macchine, in grado di simulare attività umane, come la scrittura o la danza. Da questi primi interventi di simulazione nasce l’ambiziosa sfida tecnologica e scientifica del tentativo di replicare la flessibilità e l’adattabilità dell’intelligenza umana (Breazeal, 2004).

In questa veloce evoluzione, a delinearsi è un dilemma morale: e se l’uomo fosse sostituito dalle macchine? Questa domanda è sempre più esasperata in relazione al progresso dell’Intelligenza Artificiale (IA) fino alla comparsa dei robot. In risposta a questo dilemma morale, invero, alcune parti della cultura contemporanea reagiscono infondendo un rifiuto e una paura apocalittica. Questo è visibile anche da scenari trasmessi dal cinema, dove il robot è rappresentato come uno schiavo meccanico, che si ribella e conquista il mondo eliminando il nemico umano. Ciò che, infatti, spaventa di più la società contemporanea è l’autonomia, ovvero la capacità di ragionare, apprendere e risolvere i problemi in maniera autonoma.

Ma cosa sono i robot? La parola “robot” deriva dal ceco ‘robota’, ovvero ‘lavoro servile’, con cui lo scrittore cèco Karel Čapek denominava gli automi che lavorano al posto degli operai nel suo dramma fantascientifico R.U.R., del 1920. Al di là di questa immagine fantascientifica di Čapek, è evidente che i robot fanno parte della nostra vita: pensiamo alle aspirapolveri automatiche, capaci di mappare il territorio ed evitare gli ostacoli. Qual è, quindi, il compito dei robot? Uno dei compiti è sicuramente quello di sostituire l’uomo, ma non con il progetto di eliminarlo, bensì per evitare lavori pericolosi o stancanti. Il fatto che, con l’evoluzione tecnologica, ci siano più generazioni di robot (dal doll-like allo human-like) non ci deve far dimenticare che il robot non è in grado di attribuirsi da sé “stati mentali”, che restano sotto il controllo esterno ed estraneo (Damiano et al., 2019, p. 21), in genere di chi lo programma, ovvero dell’essere umano.

Questo modo di risignificare il robot come “sostituto”, per cercare di rispondere al dilemma etico, ci fa comprendere che è necessario anche ripensare il rapporto Uomo-Macchina, o meglio, Uomo-Robot. La ricerca scientifica, soprattutto, psico-sociale non si limita a prendere una posizione nel dibattito sulla natura della mente, ma i robot diventano strumenti di una trasformazione sociale (Damiano et al., 2019, p 22). In questa trasformazione sociale, ad esempio, i robot possono interagire con i bambini per aiutarli nella raccolta differenziata (De Carolis et al., 2019) o ad “empatizzare” con persone anziane (Garcia et al., 2017). La logica, quindi, non è quella di sostituzione di figure professionali, che interagiscono con i bambini o con gli anziani, ma quella di supportare, ad esempio gli operatori, magari oberati di lavoro, nella pratica clinica o educativa. Da queste premesse, risulta necessaria la branca della psicologia che si occupa di interazione Uomo-Robot, verso una robotica psico-sociale, capace, ad esempio, di interrogarsi sull’interazione emotiva Uomo-Robot, dando, magari, avvio ad una generazione di Robot con Intelligenza Emotiva Artificiale (Papapicco, 2021).

 

Il funzionamento sessuale nei disturbi di personalità – FluIDsex

Collazzoni e colleghi (2017) hanno lavorato ad una review che raccoglie i risultati di una serie di studi che hanno indagato il funzionamento sessuale delle persone con disturbi di personalità.

 

Nelle interazioni con gli altri gioca un ruolo fondamentale la personalità, ovvero come da definizione di Castronguay e Oltmanns (2016) la modalità con cui un individuo tende ad esprimere le proprie emozioni, a pensare a se stesso e agli altri e ad interpretare la realtà circostante. Tale modalità può portare a vivere frequentemente situazioni conflittuali, provoca difficoltà a formare o mantenere legami con gli altri, interferisce con la realizzazione di un piano di vita, portando a rigidità e difficoltà persistenti e dispendiose a livello sociale (Castonguay & Oltmanns, 2016). La disfunzione sociale è uno degli aspetti più rilevanti dei disturbi di personalità, in quanto il malessere soggettivo e la menomazione della vita sociale interferiscono in modo significativo con il senso di efficacia e di realizzazione personale e sociale degli individui (Castonguay & Oltmanns, 2016).

Generalmente esistono diverse ragioni e scopi sottostanti alle relazioni sentimentali e sessuali che le persone intrecciano (Jonason, 2013). Le principali motivazioni indagate sono: supporto socio-emotivo, incremento dell’autostima, raggiungimento di una gratificazione sessuale o semplicemente distrazione dalla noia (Jonason, 2013). In base agli scopi relazionali si distinguono relazioni romantiche, amicizie o relazioni principalmente sessuali ed episodi di sesso occasionale. È necessario partire dal presupposto che gli individui con disturbo di personalità presentano tendenzialmente livelli alterati di empatia e ricerca di intimità (Collazzoni et al., 2017), ma con differenze che possono dipendere dalla tipologia specifica di disturbo. Difatti, purtroppo, la letteratura che indaga la sfera sessuale e seduttiva di questi disturbi è inconsistente e per lo più focalizzata sul disturbo borderline di personalità (Collazzoni et al., 2017). L’analisi della letteratura può dunque risultare limitata.

Collazzoni e colleghi (2017) hanno lavorato ad una review che raccoglie i risultati degli studi pubblicati tra il 2000 ed il 2016, che hanno indagato il funzionamento sessuale delle persone con disturbi di personalità.

Disturbi di personalità del Cluster A: Gelosia e Disinteresse

Le caratteristiche più diffuse nei disturbi di Cluster A di personalità sono una forte incapacità di instaurare relazioni, disinteresse affettivo e gelosia. Inoltre, studi recenti hanno riscontrato una correlazione fra disturbi di personalità di Cluster A e predisposizione ad ideologie omofobiche e transfobiche.

Paranoide: nella letteratura è emerso che individui che presentano il disturbo paranoide di personalità nutrono rabbia, sospettosità e gelosia nei confronti dei loro partner, a volte rischiando di sfociare in episodi violenti (Disney et al., 2012)

Schizoide: per quanto riguarda il disturbo schizoide di personalità generalmente vi è una mancanza di interesse ad entrare in intimità con altre persone che può condurre ad una vera e propria asessualità (Holtzman & Strube, 2013).

Schizotipico: la sfera intima legata al disturbo schizotipico di personalità appare variegata in quanto, nonostante la tendenza all’isolamento ed una pervasiva paura dell’altro, la desuetudine comportamentale ed ideologica tipica di questo disturbo sembra influire positivamente sulle opportunità di attirare partner sessuali. Difatti, è stata riscontrata una correlazione fra impulsività (che motiva la ricerca attiva di un partner) e desiderio di esperienze sessuali inusuali (Nettle & Clegg, 2005).

Disturbi di personalità del Cluster B: Sofferenza, Confusione ed Insoddisfazione

L’intimità degli individui con un disturbo di Cluster B è tendenzialmente caratterizzata da confusione, sofferenza ed indifferenza.

Borderline: il disturbo di personalità maggiormente studiato, per quanto riguarda l’ambito relazionale e sessuale, è il disturbo borderline di personalità (BPD). Essendo il disturbo borderline associato ad instabilità emotiva e deficit nella rappresentazione del sé, le persone che soffrono di questo disturbo tendono ad esperire una forte precarietà relazionale collegabile anche ad insoddisfazione, episodi di violenza, matrimoni precoci e gravidanze indesiderate (Daley et al., 2000). Alcuni studi hanno riscontrato che la sensibilità empatica di uomini con diagnosi di disturbo borderline risulta alterata in quanto tendono ad equivocare le espressioni emotive delle proprie partner. Un esempio di fraintendimento empatico riscontrato negli studi è lo scambiare la felicità per disgusto che sfocia in una forte paura abbandonica con conseguenze comportamentali (Marshall & Holtzworth-Munroe, 2010).

Gli uomini con disturbo borderline di personalità possono presentare una comorbidità con disturbi parafilici, specialmente nei casi in cui essi soffrano di una disfunzione sessuale (Prunas et al., 2016). Le donne con disturbo borderline di personalità che hanno subito un evento traumatico, quale l’abuso sessuale, possono sviluppare disfunzioni sessuali o comportamenti sessualmente rischiosi quali prostituzione e promiscuità sessuale non protetta con rischio di contrarre malattie veneree (Harned et al., 2011). Il disturbo borderline di personalità ha un ruolo anche nella determinazione dell’orientamento sessuale in quanto le persone con BPD tendono a dichiarare di essere omosessuali o bisessuali più frequentemente rispetto agli individui con altri disturbi di personalità (Sansone & Sansone ,2011).

Antisociale: le persone con disturbo antisociale di personalità mostrano una preferenza per le relazioni a breve termine. L’intimità tendenzialmente consiste in chiamate notturne a possibili partner sessuali con lo scopo esclusivo di soddisfare i propri bisogni sessuali, oppure in pratiche sessuali violente (Jonason et al., 2012).

Narcisistico: i soggetti con disturbo narcisistico di personalità tendono a preferire rapporti sessuali occasionali o friends with benefits (“amici di letto”) piuttosto che relazioni a lungo termine. Queste due preferenze sembrano essere più collegate agli uomini con questo disturbo, mentre le donne tendono a frequentare persone con tratti di personalità simili ai loro (Jonason et al., 2012). L’infedeltà è la caratteristica maggiormente riscontrata negli individui narcisisti poiché, non entrando in intimità con i partner in quanto iperfocalizzati su di sé, spesso subentra la noia che porta a cercare nuovi stimoli più soddisfacenti.

Istrionico: rimanendo nel Cluster B, le donne istrioniche tendono ad essere sessualmente seduttive ambendo ad una costante attenzione sessuale per attrarre diversi partner (Disney et al., 2012). È stata, inoltre, riscontrata un’alta frequenza di sexting correlata a tratti istrionici (Ferguson, 2010).

Disturbi di personalità del Cluster C: Ambiguità e Comfort Zone

La sfera intima del Cluster C presenta un insieme di elementi contrastanti quali paura, insoddisfazione e bisogno degli altri.

Ossessivo-compulsivo: il perfezionismo tipico del disturbo ossessivo compulsivo di personalità correla con costanti momenti di stress ed insoddisfazione coniugale (Porcerelli et al., 2004).

Dipendente: gli individui con disturbo dipendente di personalità sono iperfocalizzati sull’evitamento dell’abbandono, attuando però comportamenti morbosi che portano ad ottenere l’effetto opposto (Okuda et al., 2015).

Evitante: per quanto riguarda le persone con disturbo evitante di personalità, è stata riscontrata una tendenza a prediligere rapporti sessuali e relazioni con persone che sentono simili a loro o con fobia sociale, per sentirsi a proprio agio (Isomura et al., 2014).

Conclusioni

In conclusione, l’organizzazione della personalità sembrerebbe essere strettamente collegata alla sexual function, definita da Collazzoni e colleghi (2017) come l’intenzione legata a tutte le strategie di seduzione ed i comportamenti sessuali; di conseguenza, la personalità ha una forte influenza sulla vita relazionale ed intima in svariati modi.

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

Genitori come pilastri dell’infanzia. “Aspettando Chandra” di Rossano Crotti – Recensione del libro

Chandra è un bambino indiano in attesa di essere adottato. Rossano Crotti, già padre di Mansi, racconta in una narrazione autobiografica, in Aspettando Chandra, il periodo che va dalla scelta di accogliere un secondo figlio fino al primo incontro e all’arrivo a casa.

 

Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi,
se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti,
una per sempre, ma di continuo
e infinitamente mutabile

Luigi Pirandello

Chandra è un nome maschile e femminile, significa “lucente come la luna”. Chandra è un bambino indiano in attesa di essere adottato. Rossano Crotti, già padre di Mansi, racconta in una narrazione autobiografica, il periodo che va dalla scelta di accogliere un secondo figlio fino al primo incontro e all’arrivo a casa.

Fra paure e titubanze, riflessioni sul futuro incerto del mondo e attese che sembrano non finire, su tutto, vince il desiderio. Il desiderio di avere un secondo figlio, di permettere alla prima di avere un fratello e di vivere quella “fratellanza” che né lui né la moglie, in quanto figli unici, hanno mai sperimentato. Ma c’è anche la speranza di vedersi un uomo felice. Non solo quell’anelito a rappresentare per il nuovo arrivato il “pilastro dell’infanzia”, a garantirgli il grado di felicità maggiore possibile, ma fuori da dimensioni legate al sacrificio, l’autore è alla ricerca anche della propria, di fortuna.

Dai giorni nostri ai ricordi d’infanzia, dalla gratitudine per le donne che hanno concepito i suoi figli, alle domande sul ruolo di genitore, l’autore racconta la vicenda personale attraverso uno stile che sembra muoversi fra prosa e poesia. Nell’attesa di diventare di nuovo padre, non può non ricordare cosa significhi essere stato figlio e anche rispetto a questa trasformazione di ruoli, induce delle domande che sono significative per noi psicoterapeuti, per i genitori adottivi e per quelli naturali. È un romanzo che ha a che fare anche con lo “stare in relazione con”. Con il diverso, con lo sconosciuto, con chi arriva avendo una storia da raccontare o che non vuol essere raccontata. I primi incontri con i due bambini indiani, nella loro terra di origine, sono fatti di silenzi, colori, sguardi accennati, brevi contatti, ma c’è già quel tentativo di sintonizzarsi con l’altro che è alla base di tutte le relazioni che funzionano.

Tante le emozioni suscitate nel lettore, in particolare quando il futuro padre, dopo una visita, rivolge al figlio un pensiero: voglio che “tu creda che torneremo”. Non può dirlo perché non parlano la stessa lingua, ma in qualità di psicoterapeuti, noi sappiamo che ai figli fa bene essere pensati, stare al centro di quel contenitore che è la mente, se la fantasia è luogo di accoglienza, di accettazione, di comprensione dell’alterità.

La genitorialità adottiva è diversa da quella naturale. I bambini adottati vivono sapendo di avere quattro genitori, il periodo dell’attesa è caratterizzato da esperienze differenti e l’attaccamento con la famiglia che accoglie spesso non si costituisce alla nascita. Può essere però un’esperienza che permette al genitore di sentirsi pienamente padre o madre, fortemente affettiva, anch’essa come quella naturale, caratterizzata da certezze e insicurezze. Rossano Crotti non fa riferimento nello specifico all’esperienza della paternità, che negli ultimi anni è sempre più osservata e studiata (Recalcati, 2017), ma a quella della “genitorialità” nel senso più ampio del termine.

È un libro che si rivolge ai genitori ponendo loro implicitamente una domanda: quando una genitorialità può definirsi buona e sicura per il figlio che la riceve? Quando invece preoccuparsi? Per il proprio benessere. Per il benessere del bambino. L’identità personale si forma grazie ad un riconoscimento sociale che avviene principalmente all’interno della famiglia. I bambini devono sentire accettazione, disponibilità alla comprensione, sintonizzazione sui bisogni e sulle caratteristiche tipiche dell’età che stanno attraversando. Laddove il figlio manifesti comportamenti che suscitano emozioni negative nell’adulto, è preferibile che quest’ultimo risponda con la riflessione. La mentalizzazione da parte dell’adulto rispetto a quello che sta accadendo nella relazione, favorisce anche il benessere del figlio. In una fase di disaccordo, è la comprensione del punto di vista dell’altro a permetterci di incidere in modo affermativo nella conversazione, di giocare un ruolo nella relazione con chi si ha davanti. Solo dopo aver capito, possiamo esprimere eventualmente la nostra disapprovazione, senza giudicare, senza ferire. Ed è proprio la frequenza e il modo con cui un genitore pensa, sente, esprime le emozioni negative a costituire uno degli anelli più difficili della genitorialità.

Un rapporto che funzioni, è una strada vissuta da entrambi come piacevole e sicura, in cui la reciprocità garantisce la diversità, la fusione lascia progressivamente spazio all’affermazione di sé, il disaccordo ha un ruolo trasformativo che in qualche modo ha la possibilità di ridefinire entrambi. Una relazione in cui il genitore, pronto a mettere in discussione se stesso, è disponibile ad osservare i cambiamenti di chi ha davanti con uno sguardo sulla sua unicità, sulle sue risorse, sulle sue difficoltà.

Un romanzo che racconta una storia di adozione, ci permette di osservare due costrutti teorici e la relazione che intercorre fra questi: quello di “Modello Operativo Interno” formulato da Bowlby (1973, pp. 259-260) e il “Corollario della Socialità” elaborato da Kelly (2004, pp. 87-94). Il primo ha a che fare con la tematica dell’attaccamento, il secondo con la capacità di comprendere gli altri. Sono due tematiche intimamente legate nei percorsi di adozione perché il bambino ha delle dimensioni di attaccamento che il genitore adottivo non conosce, già parzialmente formate, già parzialmente strutturate, quando l’incontro non avviene alla nascita. Ciò richiede particolari capacità di comprensione dell’altro da parte del genitore adottivo al fine di poter instaurare una buona relazione. I Modelli Operativi Interni del bambino sono influenzati dalla relazione che ha instaurato con la madre sin dalla nascita o con altri caregiver, e sono rappresentati da un insieme di emozioni, immagini comportamenti più o meno consapevoli che raccontano le modalità di relazione messe in atto  dal bambino stesso con gli adulti significativi. Sono una specie di mappa affettiva che  gli permette di entrare in contatto con chi si prende cura, sulla base delle sue esperienze pregresse. Un bambino che ha dovuto affrontare la separazione dalla madre in età precoce e che è stato affidato a degli educatori di cui non conosciamo le qualità di care giving, ha dei modelli operativi interni, un modo di mettersi in relazione con gli adulti che è frutto della sua storia. Ed è qui che assume un particolare significato il “Corollario della Socialità” :

Per avere un ruolo di comprensione nella relazione con un’altra persona, occorre che in qualche modo si riesca a costruire la prospettiva di quella persona. (…) è necessario non tanto costruire gli eventi nello stesso modo, ma costruire il modo di vedere gli eventi dell’altra persona. (p. 87)

Possiamo sintetizzare affermando che il genitore adottivo si trova davanti ad una sfida particolare: il bambino adottato se non è un neonato, ha già dei Modelli Operativi Interni, ha già un suo modo di porsi in relazione con i caregiver, condizionato da separazioni e da modalità di cura pregresse. Il genitore dovrà essere dotato dunque di buone capacità di comprensione dell’altro per capire la prospettiva del bambino, il suo modo di interagire, la ragione di alcuni stati emotivi. Non gli saranno utili solo alcune qualità empatiche ma anche delle ottime capacità di costruire il punto di vista dell’altro. Per questa ragione, i genitori che hanno adottato un figlio, dovrebbero avere la possibilità di fare riferimento a psicoterapeuti attraverso una modalità gratuita, laddove ne sentissero la necessità.

 

Emicrania ed ansia: esplorazione del legame tra le due patologie

L’emicrania è un disturbo neurologico molto comune in tutto il mondo, più frequente nelle donne in età fertile rispetto ai maschi.

 

Precedenti studi hanno spesso dimostrato la comorbilità dell’emicrania con altri disturbi psichici, ma una revisione sistematica in particolare si è focalizzata sulla comorbilità dell’emicrania con l’ansia, e sulla sua distribuzione tra i sessi.

La revisione di Karimi e colleghi includeva studi di prevalenza e studi clinici che riportavano la frequenza dell’emicrania con l’ansia all’interno del campione dello studio. A seguito di una prima fase di screening, sono stati selezionati undici studi che avevano come campione partecipanti di età pari o superiore a 16 anni con diagnosi di emicrania provenienti da Canada, Stati Uniti, Turchia, Cina, India, Corea, Europa e Brasile (Karimi, 2020).

I principali risultati della revisione hanno mostrato come l’ansia sia una delle principali comorbilità dell’emicrania in tutto il mondo, con un ampio intervallo di prevalenza (16-83%) e una media di circa 43% dei pazienti manifestanti sintomi in comorbilità, il che è coerente con gli studi precedenti (Beghi et al., 2010, Breslau, 1998). I sintomi di ansia percepiti sembrano essere maggiori tra i maschi rispetto alle femmine, e ciò potrebbe essere attribuibile a differenti predisposizioni ambientali, ormonali, o genetiche.

I risultati hanno mostrato che la prevalenza delle donne con emicrania era significativamente più alta rispetto ai maschi, cosa ben consolidata da studi precedenti (Seneratne et al., 2010; Peres et al., 2017). Tuttavia, la prevalenza dell’emicrania con ansia era molto più alta tra gli uomini rispetto alle donne. Nonostante le diverse impostazioni di studio, paesi, età e altre caratteristiche individuali, l’evidenza di una maggiore prevalenza nei maschi era coerente in 9 studi su 11, vale a dire nella maggior parte degli studi inclusi nella revisione.

In presenza di tali differenze di genere, è opportuno considerare il fatto che molte donne soffrono di emicrania durante il ciclo mestruale, arrivando ad aspettarsi questo sintomo come un evento mensile; a ciò consegue che la consapevolezza di tale previsione può ridurre i livelli di ansia percepita. D’altronde, è possibile che i maschi trovino l’emicrania socialmente insolita e quindi più “preoccupante”. È interessante notare come uno studio abbia evidenziato che la comorbilità di emicrania e ansia nei maschi sia accompagnata da bassi livelli di testosterone (Shields et al., 2019).

I risultati della revisione evidenziano inoltre l’importanza che il personale sanitario dovrebbe attribuire all’elevata prevalenza di ansia ed emicrania in concomitanza nei contesti clinici. L’identificazione precoce delle condizioni di comorbilità può contribuire a migliorare la qualità della prognosi e della cura dei soggetti (Ratcliffe et al., 2009).

Le cause della comorbilità di emicrania ed ansia non sono attualmente disponibili in letteratura. Pertanto, ricerche future potrebbero identificare le caratteristiche cliniche associate a queste condizioni complesse, come le predisposizioni genetiche e le caratteristiche neurologiche dei pazienti. I risultati di tali studi porterebbero a una migliore comprensione delle strategie terapeutiche per le condizioni e alla progettazione di migliori strategie di trattamento. Ad esempio, nei casi in cui l’ansia funge da innesco per attacchi di emicrania frequenti, o viceversa, strategie di trattamento comportamentale mirate alla gestione dell’ansia potrebbero portare a miglioramenti nella gestione dell’emicrania.

Ad ogni modo, la revisione del team di Karimi, ha portato in luce l’importante relazione tra ansia ed emicrania in donne e uomini, aprendo la possibilità ad una ridefinizione degli obiettivi diagnostici e delle modalità terapeutiche correlate.

 

Victim Blaming: quando la vittima diventa colpevole

Il termine Victim Blaming indica la tendenza a colpevolizzare, in toto o in parte, le vittime di violenza, in quanto corresponsabili dei trattamenti loro inflitti.

 

Victim Blaming e inversione dei ruoli di vittima e colpevole

Biasimare chi subisce un’aggressione fisica, sessuale o verbale, significa non soltanto giustificare la condotta di chi schiaccia, picchia, tortura o uccide l’altro, ma anche incrementare la responsabilità della stessa vittima per l’accaduto e, di conseguenza, ridurre quella del carnefice. È come se i ruoli si invertissero: l’errore commesso viene trasferito dall’oppressore all’oppresso, che avrebbe agito in maniera tale da meritare quel torto, quello schiaffo, quel pugno, quell’insulto, quella morte.

Nonostante gli studi sul fenomeno abbiano indagato per lo più le questioni relative alla violenza carnale (Garland, Policastro, Richards, Miller; 2016), è possibile parlare di Victim Blaming anche in riferimento ai banchi di scuola: si pensi a quando la colpa di una rissa non viene attribuita al bullo, ma a chi, dopo aver stuzzicato il can che dormiva, è stato morso.

Victim Blaming nei casi di violenza sessuale o domestica

Purtroppo, la questione interessa prevalentemente le vittime di violenza sessuale e/o domestica (Gravelin, Biernat, Bucher; 2019): in entrambi i casi, il martire è di solito una donna che, secondo il parere di chi le punta il dito contro, è troppo distante dall’idea stereotipata di “vittima indifesa, autentica, vera, leale” e peccherebbe di credibilità (Randall; 2016) in quanto, a causa del suo comportamento o atteggiamento provocatorio, del suo abbigliamento inopportuno e provocante, ha dato fuoco alla miccia. Tutto ciò, non soltanto aumenta la sofferenza di chi già patisce, ma ne raddoppia anche l’umiliazione (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021).

Nel caso specifico dei soprusi sulle donne, è chiaro quanto la tendenza a condannare chi non è in difetto sia alimentata, in parte e non solo, dagli stereotipi di genere (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021), ovvero da un “insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti e l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere”; tali credenze influenzano negativamente gli atteggiamenti e i pensieri della società nei confronti di chi subisce violenza, specie a sfondo passionale, e portano a formulare pensieri e frasi del tipo “Se la donna avesse tenuto un comportamento da donna, se non fosse stata tanto sconsiderata, allora non avrebbe fatto quella fine”.

Come se si scegliesse di soccombere alla violenza altrui. Come se una ferita fosse causata da chi riceve il colpo, e non da chi impugna il coltello.

 

Cosa può dirci la neuroestetica sul legame tra bellezza e movimento

Neuroestetica: le arti visive offrono alle neuroscienze cognitive un’interessante opportunità di studio dei processi con cui il valore soggettivo di bellezza, intesa come piacevolezza estetica, viene costruito a partire da rappresentazioni supportate da diversi sistemi neurali.

 

 In un recente studio (2021) condotto da Humphries, Rick, Weintraub e Chatterjee presso il Penn Center for NeuroAesthetics (University of Pennsylvania), i ricercatori hanno osservato che in pazienti con morbo di Parkinson la degenerazione della funzione motoria provoca effetti anche sulla percezione del movimento nelle opere d’arte astratte, che risulta significativamente peggiore se paragonata a quella di un gruppo di controllo. Non è inappropriato parlare di movimento per le opere d’arte, poiché anche quando implicito, il nostro sistema nervoso lo elabora (ad esempio nelle pennellate di un dipinto) e lo utilizza per la valutazione estetica soggettiva.

Nel caso specifico, i ricercatori hanno esaminato l’esperienza estetica di pazienti e soggetti non patologici nella valutazione di 10 dipinti di Jackson Pollock e 10 di Piet Mondrian, utilizzando diverse categorie (come piacevolezza, bellezza, familiarità, complessità, saturazione) attraverso la somministrazione di scale Likert a 7 punti. I dipinti di Piet Mondrian, nonostante l’assenza delle pennellate, possono evocare rappresentazioni astratte del movimento piuttosto che simulazioni corporee specifiche, mediate tra gli altri dai neuroni specchio, come più probabilmente accade per la visione dei lavori di Jackson Pollock, in cui il metodo di applicazione della pittura e il numero crescente di colori sovrapposti evocherebbero sensazioni “riflesse” di movimento.

I pazienti con Parkinson hanno dimostrato preferenze stabili e internamente coerenti per l’arte astratta, ma la loro percezione del movimento nei dipinti è risultata significativamente inferiore rispetto ai soggetti di controllo in entrambe le condizioni (low-motion e high-motion art, rispettivamente Mondrian e Pollock). Questo risultato va a confermare la letteratura in merito: il sistema motorio del nostro cervello è senz’altro coinvolto nella traduzione di informazioni non rappresentative da segnali visivi statici nell’immagine in rappresentazioni di movimento, che vengono utilizzate anche per la valutazione estetico-affettiva degli stimoli.

Una ricerca precedente (Battaglia, Lisanby e Freedberg, 2011) aveva utilizzato, tra altri, l’Espulsione dal Paradiso di Michelangelo come stimolo per valutare gli effetti sul sistema motorio, indagati tramite i potenziali evocati motori (MEP) e il periodo corticale silente (CSP) con la stimolazione magnetica transcranica (TMS). L’eccitabilità cortico-motoria riferita a un particolare muscolo del braccio (extensor carpi radialis longus destro) aumenta quando i partecipanti osservano un certo movimento ritratto nel dipinto, in fotografia o immaginato, ma non quando osservano lo stesso muscolo a riposo. Gli autori attribuiscono questo fenomeno all’attività dei neuroni specchio.

 La ricerca in neuroestetica suggerisce sempre di più che l’apprezzamento estetico correla con una facilitazione percettiva e un’amplificazione sensoriale che derivano dall’interazione tra le dinamiche sensoriali del percettore e le caratteristiche del percetto. Sarasso e colleghi (2019) dell’Università degli Studi di Torino hanno indagato la relazione tra apprezzamento estetico e modulazione dei processi attenzionali, individuando una correlazione sia a livello comportamentale che a livello neurofisiologico. Ramachandran e Hirstein in passato (1999) hanno proposto che le esperienze sensoriali estetiche siano prodotte da stimoli che “attivano in modo ottimale le aree visive del cervello”, e numerosi altri autori concordano nel descrivere la percezione della bellezza come uno stato mentale in cui l’attenzione è focalizzata sulle caratteristiche percettive dello stimolo.

L’idea che la valutazione affettiva dell’esperienza estetica abbia un effetto facilitatore sull’apprendimento è dibattuta da secoli, ma recentemente, convergenze multidisciplinari hanno evidenziato un netto collegamento tra i due processi, in cui gioca un ruolo chiave anche l’inibizione dell’attività motoria. In altre parole, le emozioni legate all’esperienza estetica emergerebbero di pari passo con un’inibizione del comportamento motorio (ad esempio, con un rallentamento o riduzione al minimo delle azioni), promuovendo inoltre un miglioramento del processamento percettivo a livello delle cortecce sensoriali – e di conseguenza, dell’apprendimento. È possibile quindi che l’apprezzamento estetico rappresenti un feedback di tipo edonico relativo ai processi di apprendimento, che motiva il soggetto a inibire le routine motorie nel tentativo di acquisire ulteriore conoscenza. A conferma di ciò, lo stesso gruppo di ricerca ha individuato una forte associazione tra le esperienze estetiche e l’attivazione del sistema dopaminergico della ricompensa (Sarasso et al, 2020).

 

Il tragico dilemma del narcisista – REPORT dell’intervento del Prof. Gabbard al Convegno Internazionale di Suicidologia e Salute pubblica, XIX Edizione

Spesso si tende a pensare che un soggetto con disturbo narcisistico di personalità passi la vita a creare disagio all’altro, quando in realtà il disagio permea nella sua struttura ed essenza. Il Prof. Glen Gabbard ha trattato questa difficile tematica e la relazione tra narcisismo e suicidio.

 

 Comunemente si pensa al narcisista come ad un soggetto tutt’altro che sofferente. In effetti, nella sua accezione come aggettivo, si associa a termini negativi come persona estremamente presuntuosa o arrogante.

“In realtà questo è un mito da sfatare”

Così esordisce il Prof. Glen Gabbard in un esemplare intervento il 10 settembre 2021, invitato dal Prof. Maurizio Pompili, responsabile scientifico del Convegno Internazionale di Suicidologia e Salute Pubblica, XIX edizione, evento totalmente gratuito accreditato ECM.

In effetti, si pensa che un soggetto con disturbo narcisistico di personalità passi la vita a creare disagio all’altro, quando in realtà il disagio permea nella sua struttura ed essenza, catapultandolo in una vita intrisa di un profumo apparente, con il solo scopo di sviare sé stesso e l’altro da quella che è la sua tragica realtà. In uno studio condotto da Eaton et al. (2017) su un campione di 34.365, soggetti il disturbo narcisistico di personalità viene definito come un disturbo del disagio sia in donne che uomini, disagio oscurato da meccanismi di difesa come la grandiosità e il disprezzo.

Questi soggetti conducono spesso una vita caratterizzata da una frastornante disperazione, buona parte della quale nasce dal fatto che non ricevono sempre quel riscontro positivo che si aspettano dagli altri. Non esiste un vero contatto con l’altro, perché la loro principale preoccupazione è quella di essere ammirati costantemente per il loro valore e la loro unicità, rendendo dunque impossibile un vero collegamento relazionale. Il loro desiderio è prevalentemente di uno sfrenato controllo onnipotente sull’altro con l’obiettivo di sentirsi al sicuro, dietro un’apparente e accecante unicità. La leggenda di Narciso esplica questo bisogno di costruire ad hoc un’immagine seducente di sé che prenda le veci del suo vero sé. Una spasmodica ossessione che lo porta a rimanere aggrappato in tutti i modi ad una costruzione che non giunge mai ad una vera definizione, rimanendo sospesa nella potenzialità di essere e di fare, ma mai capace di vera esistenza e di vera azione. Spasmodica ossessione che ripara nella costante tentazione di riflettere la propria immagine senza alcuna sbavatura negli occhi degli altri. Occhi di cui mai coglie l’essere Altro da Sé, occhi dunque per lui senza emozioni ed intenzioni, occhi da non perlustrare, ma semplicemente oggetto del suo desiderio di primeggiare. Un dilemma che non si consuma nell’essere o non essere, ma nell’errore di voler far coincidere il proprio Sé con quel Se ideale desiderato ardentemente, ma vivo solo nella sua costruzione illusoria. C’è una sorta di craving verso quell’immagine riflessa in uno specchio d’acqua con la convinzione di poterne immortalare un’eterea bellezza fiabesca. Un dilemma accentuato da quella compulsione ad emergere presente nella società moderna digitalizzata, che permette a chiunque di filtrare a piacimento la propria forma, in nome di un ideale estetico impossibile.

Del resto l’uomo, in generale, risulta essere un po’ narcisista e allora il Prof. Gabbard mette ben in evidenza la possibilità di ipotizzare la presenza di una linea di continuum che metta, ad un polo, un narcisismo definito sano che caratterizza ognuno di noi propenso a sentirsi bene, gratificato e rispettato nel proprio lavoro o nella propria vita privata, ma, dall’altro, un narcisismo patologico, caratterizzato da un’ossessione compulsiva verso mete irraggiungibili.

Ma dove sta la linea di confine tra i due opposti?

Impossibile da definire e da delimitare e dunque solo arbitraria.  Arbitraria rispetto alle differenze individuali, arbitraria rispetto alle varie fasi evolutive, arbitraria già solo nel fatto che assuma molto frequentemente un’accezione peggiorativa sempre proiettata all’esterno. E qui emerge quell’ipocrisia nell’etichettare l’altro con il termine narcisista, mai collegandolo ad un significato gratificante, come la stima, ma sempre in tono dispregiativo. D’altronde si vive in una società che già Lasch definiva negli anni ’70 sempre più propensa ad una cultura del Narciso, aggrappata e sottomessa alla richiesta di rimanere in superficie nella forma più accattivante e attraente possibile, cancellando ogni segno di imperfezione, soffocato nell’abisso oscuro della profondità, come se fosse maligno.

Molto significativa la rappresentazione che il Prof. Gabbard fa del narcisista: viene paragonato a Hýdra, un leggendario mostro della mitologia greca e romana, descritto come un serpente marino a nove teste, pleomorfo, capace di cambiare forma, di avere caratteristiche diverse nei diversi soggetti, caratteristiche che possono far incorrere in diagnosi errate, se non considerato attentamente.

Da un punto di vista descrittivo, lungo il continuum descritto in precedenza, nell’area patologica, ad un estremo è presente colui che è definito “narcisista inconsapevole”, dall’altro un “narcisista ipervigile” (Gabbard, 1989), tenendo conto nello specifico dello stile di interazione prevalente, sia nella vita che nel transfert con il terapeuta. Il primo si avvicina molto più ai criteri diagnostici definiti dal DSM-5 (APA, 2013), ossia caratterizzato da un pattern pervasivo di grandiosità nel pensiero e nel comportamento, assorbito da fantasie di successo, potere, fascino, desideroso di eccessiva ammirazione, incapace di provare empatia nei confronti dell’altro. Nel “narcisista ipervigile”, invece, ritroviamo un’immagine lontana da quanto descritto, in quanto il soggetto è sorprendentemente sensibile al modo in cui l’altro possa reagire nei suoi confronti e, dunque, profondamente suscettibile alle offese altrui. Nel core di questo tipo ipervigile permea un assordante senso di vergogna legato alla propria svalutazione rispetto agli standard desiderati e a un’assillante sensazione di essere inadeguato e imperfetto. I due opposti possono essere correlati rispettivamente ai sottogruppi di narcisismo manifesto e narcisismo celato di Wink (1991), attraverso un’analisi accurata delle componenti delle sei scale sul narcisismo che sono presenti nel Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI).

 Un contributo importante giunge da una ricerca di Rus et al.(2008) che, utilizzando una classificazione in base alla rigorosa scala Shedler-Westen Assessment Procedure-II (SWAPP-II), coinvolgendo 1200 professionisti nel campo della salute mentale tra psichiatri e psicologi e un totale di 255 pazienti corrispondenti ai criteri diagnostici del disturbo narcisistico di personalità secondo il DMS-IV, hanno individuato un terzo sottotipo definito “narcisismo ad alto funzionamento/esibizionistico”, caratterizzato da un’alta percezione della propria grandiosità, ma in grado di avere relazioni con gli altri, in quanto affascinante, attraente e apparentemente interessato a comprendere l’altro, anche se poi, nella relazione terapeutica emerge tutta la propria finzione e il proprio egocentrismo.

Si tratta, come già osservato, solo di una classificazione descrittiva, in quanto la variabilità riscontrata in ambito clinico supera ogni aspettativa; inoltre non bisogna dimenticare che spesso in comorbilità è possibile trovare tendenze ossessivo-compulsive, masochistiche, organizzazione borderline, abuso di sostanze, sex addiction, disturbi dell’umore o disturbi d’ansia che non vanno trascurate nella diagnosi (Stinson et al., 2008).

Addentrandosi nel tema centrale del Congresso, il Prof. Gabbard fa delle interessanti considerazioni sul tema della suicidalità nei soggetti con disturbo narcisistico di personalità. A riguardo in letteratura non si hanno ancora contributi importanti, in quanto la tematica viene spesso respinta o comunque non verbalizzata dai pazienti narcisistici, perché è troppo alto il senso di vergogna e di imbarazzo rispetto a quella che viene definita una debolezza. Links (2013) cerca di analizzare in profondità la tematica, rilevando dai suoi studi che il desiderio di uccidersi può essere presente anche in assenza di uno stato depressivo e, dunque, completamente discordante dalla linea comunemente seguita rispetto al suicidio. L’ ideazione suicidaria può scaturire proprio dal disagio stesso del narcisista, soffocato dalla disperazione di proteggere la propria autostima e di confermare quell’autoimmagine patologica di perfezione pervasiva ed invasiva da cui non riesce a liberarsi. Proprio dall’impossibilità di raggiungere standard così elevati potrebbe scaturire l’idea di morire come unica opzione disponibile. Il sentimento di umiliazione potrebbe raggiungere un’intensità tale da non permettere valutazioni ragionevoli da parte del narcisista, costretto nella morsa di un Super-Io così rigido da non riuscire a respirare.

In realtà, ancora non può essere confermato chi realmente è più vulnerabile al suicidio, proprio per l’incapacità comunicativa del soggetto narcisista che oscura la propria vergogna e qualsiasi altra debolezza nel profondo. Sicuramente da qui scaturisce l’importante necessità da parte del terapeuta di una valutazione accurata ed attenta e di un’esplicazione diretta della tematica suicidaria, esplicazione che davvero può salvare molte vite. In effetti, è risaputo che il comportamento suicidario è causa di una mortalità significativa dal punto di vista clinico, ma sottostimata e sottovalutata nei disturbi di personalità. In una ricerca di Blasco-Fontecilla et al.(2010) è emerso che in un campione di 446 soggetti che avevano tentato il suicidio ben 254 avevano avuto diagnosi di disturbo di personalità del cluster B; se valutati in termini di impulsività e letalità prevista secondo il the Beck Suicidal Intent Scale (BSIS) e il the Barratt Impulsivity Scale-11 (BIS-11) gli stessi soggetti risultavano meno impulsivi, ma con un’alta percentuale di letalità, in quanto l’esperienza era vissuta in maniera così soffocante da rimanerne completamente travolti.

E nell’Amore?

Ben spiega il Prof. Gabbard quanto sia tragica l’esperienza vissuta dal soggetto narcisista, in quanto occasione troppo sfuggente e impalpabile: l’amore risulta tanto desiderato quanto impossibile, proprio per la visione distorta che ne ha. Il desiderio di essere sentito dall’altro come perfetto risulta irrealistico; la sensazione di non provare quell’Amore unico fantasmatico porta il soggetto ad un ardente desiderio di controllare l’altro per plasmarlo secondo la propria volontà, con l’unico risultato di rendere l’altro ancora più sfuggente ed irraggiungibile.

A questo punto è ben chiaro il tragico destino del narcisista: la ricerca di una perfetta fusione primaria all’oggetto perfetto porta solamente alla disfatta e alla frammentazione dello stesso, da qui l’ambivalenza idealizzazione/svalutazione in cui vive il soggetto narcisista, catapultato da un polo all’altro senza mai riprendere fiato, in uno stato di perenne potenzialità sospesa, bloccata in un destino senza azioni, alla ricerca di quella stella accecante di successo e di bellezza che non ha mai un lieto fine.

In effetti, afferma Gabbard, la parte più triste di questo tragico destino è che questi soggetti, spesso, invecchiano da soli.

 

Credenze metacognitive nel Binge Eating – PARTECIPA ALLA RICERCA

Partecipa allo studio sul valore che attribuiamo alla metacognizione sul cibo. Questo permetterà una migliore comprensione dei pensieri sui nostri pensieri relativi al cibo e di sviluppare interventi adeguati per le persone la cui metacognizione ha un impatto significativamente negativo sulla loro vita.

 

 Gentile partecipante,

stiamo conducendo una ricerca sulle metacognizioni relative al cibo, ovvero sui pensieri sui nostri pensieri relativi al cibo. La partecipazione è volontaria e non ti costerà nulla se non un po’ di tempo.

Binge Eating Disorder e Metacognizione

Il Binge Eating Disorder è caratterizzato da ricorrenti episodi di abbuffata, che consistono nel mangiare in un dato periodo di tempo una quantità di cibo maggiore rispetto a quanto la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili; l’abbuffata è caratterizzata dalla sensazione di perdere il controllo durante l’episodio e spesso è associata a disgusto verso se stessi, depressione o senso di colpa dopo l’episodio (APA, 2013).

In letteratura sono stati proposti numerosi modelli psicologici per i disturbi alimentari e in particolare per il Binge Eating Disorder, molti dei quali focalizzati sul ruolo del limite di quantità alimentare, sulla scarsa autostima, sulla scarsa tolleranza alla sofferenza, su una sopravvalutazione del proprio peso corporeo e della propria forma, e sulle specifiche metacognizioni che invalidano la persona. È perciò particolarmente importante valutare e riconoscere le convinzioni metacognitive che stanno alla base dello sviluppo e del mantenimento del Binge Eating Disorder, affinché il trattamento psicologico possa essere utile ed efficace nel tempo (Covolan, 2020).

L’intervento rivolto a questi pazienti non può essere semplicemente nutrizionale o chirurgico, ma è necessario un intervento integrato che preveda anche un percorso psicoterapeutico, volto a intervenire sulle aree più problematiche utilizzando le strategie cognitive e/o le tecniche comportamentali più opportune nei diversi momenti della terapia (Tosi, 2017). Per poter condurre un intervento efficace è però necessario ampliare le conoscenze ad oggi disponibili sul disturbo attraverso ricerche sperimentali come quella oggetto dello studio in corso.

Perché dovresti partecipare?

 Mentre i comportamenti sul cibo sono un argomento ampiamente studiato, questo studio esamina il valore che attribuiamo alla metacognizione sul cibo. Sviluppando una migliore comprensione dei pensieri sui nostri pensieri relativi al cibo, possiamo sviluppare interventi adeguati per le persone la cui metacognizione ha un impatto significativamente negativo sulla loro vita.

La partecipazione alla ricerca comporterà la compilazione di alcuni questionari che non ti dovrebbe richiedere più di 20 minuti. Non saranno richieste informazioni identificabili e tutti i dati rimarranno anonimi e riservati. Se in qualsiasi momento desideri ritirarti dalla partecipazione, puoi semplicemente chiudere il browser prima di completare i questionari e i dati non verranno raccolti.

Ti saremmo molto grati se potessi aiutarci con il nostro progetto. In caso di domande, non esitare a contattarci.

Ti saremmo grati, inoltre, se inoltrassi questo link a colleghi, amici e/o familiari per raggiungere quante più persone possibili.

Ti ringraziamo anticipatamente per il tuo tempo.

 

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Bushido. A Complete History of British Jujutsu (2019) di Simon Keegan – Recensione

Bushido è un libro scritto da Simon Keegan, marzialista figlio d’arte, che si propone in veste di storico contemporaneo nella descrizione del ben noto Jujutsu britannico.

 

Partendo dall’esplicazione dell’etimologia giapponese di Jujutsu come ‘arte della cedevolezza’, nel suo libro l’autore ripropone, passo dopo passo, tutte le tappe evolutive del percorso che ha portato all’attuale stato dell’arte di questa disciplina.

Il suo arrivo in Gran Bretagna, alla fine dell’ottocento, corrisponde al periodo in cui erano protagonisti della letteratura personaggi come l’assassino seriale Jack ‘Lo squartatore’ ed il detective ‘Sherlock Holmes’.

Negli ultimi anni del XIX secolo Edward Willam Barton-Wright, nella capitale inglese, fonda il ‘Bartitsu Club’ in cui veniva insegnata una primitiva forma di autodifesa basata sul jujutsu nipponico miscelato con il wrestling e l’uso del bastone corto di Vigny.

Da Londra a Liverpool, allora una delle città più violente del Regno Unito, il passo fu breve. Qui il Jujutsu diviene ben presto appannaggio delle forze di polizia che lo utilizzano per la gestione dell’ordine pubblico ed in seguito dei corpi militari che serviranno il loro paese sia durante il Primo che nel Secondo Conflitto Mondiale.

Anche il movimento di emancipazione femminile delle suffragette inglesi, guidato da Edith Garrud, entrerà in contatto con questa dottrina, che ben si presta ad una sua pratica nel campo della difesa personale della donna proprio per le sue caratteristiche che limitano l’uso della forza bruta a favore di tecniche che sfruttano flessibilità ed armonia, senza tuttavia ridurre l’efficacia difensiva di quest’arte.

Con il tempo la popolarità del Jujutsu aumenta in maniera esponenziale, nascono così i primi consorzi, in primis la ‘British Jujitsu Association’ (BJA) e poi la ‘World JuJitsu Federation’(WJJF) del Soke Robert Clark,  ancor oggi, dopo varie vicissitudini, icone di questa dottrina.

Un panorama quello del Jujutsu d’oltremanica che, dal punto di vista tecnico, nasce in Giappone per poi evolversi in un qualcosa di nuovo grazie all’integrazione della forma tradizionale con tecniche di combattimento, come la lotta ed il pugilato occidentale, e che vede, come ultimo gradino evolutivo, la nascita dell’MMA ovvero delle attualissime arti marziali miste.

Ma perché dare un titolo come Bushido ad un testo che, pur nel suo estremo rigore storico, fatto di citazioni ed illustrazioni grafiche di alto livello, non tratta praticamente mai aspetti morali?

È risaputo che sarebbe impossibile parlare di filosofia senza inquadrare il pensiero stesso all’interno di un determinato momento storico, ed è proprio quello che Simon Keegan ritengo che sottenda nel suo testo.

Il termine Bushido si riferisce ad un definito codice di condotta morale a cui, nel passato, facevano riferimento le caste guerriere giapponesi. La sua traduzione, in termini occidentali, viene usualmente scomposta in una serie di sette principi: onestà e giustizia, eroico coraggio, compassione, gentile cortesia, completa sincerità, onore, dovere e lealtà. Tuttavia l’ideogramma, ovvero il simbolo grafico che ne rappresenta l‘immagine e dunque il concetto, è semplicemente uno.

Per capire il Bushido dobbiamo dunque ricorrere ad un approccio olistico ovvero al fatto che il tutto possa esser semplicemente descritto da un solo vocabolo rappresentato in un singolo iconogramma che, in questo caso, può risultare molto evocativo e che riflette la storia dell’autore stesso: lui talento ereditario e dunque radice storico-filosofica, nonchè morale, di questa disciplina in Gran Bretagna, il suo paese d’origine.

Il Bushido di Simon Keegan dà forma, dunque, al ‘British Jujutsu’ di cui lui stesso è testimonial: un po’ come dire che l’etica e la morale trovano significato all’interno di un ben definito periodo storico e nel loro rappresentante più emblematico.

Al momento, il testo è scritto in lingua inglese ed unicamente distribuito nel Regno Unito, proponendosi, a mio avviso, come uno dei contributi più significativi in questo campo e definendo, in un qualche modo, un movimento che nel tempo era stato dai più narrato senza tuttavia trovare fino ad oggi una collocazione così ben delineata nella storia inglese contemporanea.

 

Quando la malattia mentale colpisce gli psicoterapeuti: un limite o una risorsa?

La malattia mentale, al pari di qualsiasi altra forma di malattia, può colpire chiunque, compresi i professionisti della salute mentale.

 

Prevalenza della malattia mentale tra i terapeuti

Tuttavia, pochi studi si sono proposti di valutare la prevalenza delle diagnosi di malattia mentale tra i terapeuti, ma gli attuali dati suggeriscono che un numero significativo di professionisti è affetto da una malattia mentale e/o ha cercato una terapia per sé stesso. Uno studio che ha coinvolto 264 psicoterapeuti, ad esempio, ha mostrato che il 57% dei terapeuti ha avuto episodi depressivi, l’11% ha ammesso di aver avuto problemi di tossicodipendenza e il 2% ha dichiarato di aver tentato il suicidio (Deutsch, 1985).

Ulteriormente, una ricerca condotta su un campione di 727 psicoterapeuti ha mostrato che l’84% del campione era stato in terapia almeno una volta nella vita con differenti motivazioni, tra cui problemi coniugali (20%), depressione (13%) e ansia o stress (10%; Bike, Norcross, & Schatz, 2009). In effetti, andare in terapia è così comune tra gli psicoterapeuti che coloro che non l’hanno fatto potrebbero essere in minoranza (Orlinsky et al., 2011).

Stigma verso la malattia mentale

Lo stigma verso le persone con malattia mentale si riferisce alla condivisione di stereotipi negativi e pregiudizi che rafforzano la discriminazione o comportamenti scorretti verso lo stigmatizzato (Corrigan, 2005). Paradossalmente, la ricerca ha dimostrato che alcuni professionisti della salute mentale nutrono atteggiamenti negativi verso le persone con malattia mentale (Henderson et al., 2014). In particolar modo, si è visto come i suddetti atteggiamenti possano variare a seconda della diagnosi psichiatrica. Per esempio, alcuni psicoterapeuti preferiscono astenersi dal lavorare con pazienti schizofrenici (Nordt et al., 2006) o con clienti affetti da un disturbo borderline di personalità (Black et al., 2011).

Ulteriormente, alcune ricerche hanno mostrano che, talvolta, i professionisti della salute mentale accettano di prendere in carico alcuni pazienti e allo stesso tempo, però, giudicano i colleghi che presentano i medesimi disturbi (Zerubavel & Wright, 2012).

Esistono, però, dei potenziali benefici per i terapeuti che hanno vissuto l’esperienza della malattia mentale: difatti, un’esperienza di recupero e di remissione dai sintomi può essere una risorsa sul lavoro (Zerubavel & Wright, 2012). L’autoconsapevolezza può permettere ai terapeuti di comprendere le esperienze dei loro clienti e promuovere la loro guarigione (Hayes, 2002).

Allo stesso tempo, la malattia mentale da cui sono affetti alcuni professionisti può interferire con la loro capacità di praticare la psicoterapia, ad esempio ostacolando la loro capacità di concentrazione (Gilroy et al., 2002).

In sintesi, le malattie mentali colpiscono i professionisti della salute mentale proprio come accade per il resto della popolazione.

Malattia mentale tra i terapeuti: uno studio

Uno studio preso in esame si è proposto di intervistare 12 terapeuti affetti da una malattia mentale. Gli autori hanno riportato come lo scopo originale dello studio fosse quello di “dare voce agli individui che esercitano un ruolo rilevante nella società e che, allo stesso tempo, affrontano i sintomi e lo stigma della loro malattia”.

Le interviste hanno incluso domande sulla salute mentale degli individui, sulla loro carriera, sulle esperienze di esposizione a pregiudizi e discriminazioni, le tendenze a rivelare o nascondere le loro malattie mentali dentro e fuori dal lavoro. Inoltre, ai terapeuti è stato chiesto di discutere come la loro malattia mentale avesse influito sulla loro capacità di trattare i pazienti in terapia.

Rispetto all’esposizione al pregiudizio e alla discriminazione verso le persone con malattia mentale da parte di altri terapeuti, l’esperienza più comune è stata il pregiudizio indiretto, che aveva comportato l’aver sentito altri professionisti esprimere commenti denigratori nei confronti delle persone con malattie mentali. Il pregiudizio diretto e, dunque, esplicito e la discriminazione sono stati relativamente rari, in parte perché si basavano sul fatto che i terapeuti avessero deciso di condividere la loro malattia mentale, ma molti si sono mostrati restii alla condivisione. Solo due terapeuti hanno riportato di essersi aperti con i loro colleghi, la maggior parte ha scelto di condividere solo alcune informazioni, mentre due si sono mostrati completamente riservati. Si trattava di due uomini con posizioni di rilievo, che avevano effettuato la diagnosi autonomamente. Entrambi erano preoccupati di come la divulgazione avrebbe potuto influenzare la loro carriera e temevano che i colleghi avrebbero messo in dubbio la loro idoneità alla pratica professionale.

Indipendentemente dal fatto che i terapeuti fossero aperti con i loro pazienti sulla loro malattia mentale, la condividessero in circostanze specifiche, o non ne avessero mai parlato, 11 dei 12 terapeuti hanno sottolineato come la loro malattia mentale fosse una risorsa preziosa sul lavoro.

Alcuni hanno sottolineato come l’essere affetti da una malattia mentale li avesse aiutati a vedere i loro pazienti come esseri umani, con tutte le capacità necessarie per recuperare e avere successo. I terapeuti hanno spiegato come l’aver vissuto l’esperienza della malattia mentale li abbia aiutati a comprendere il dolore dei loro clienti ma, allo stesso tempo, gli intervistati hanno anche riferito come l’empatia a volte fosse problematica. “Mi immedesimo troppo perché lo capisco”, ha riportato una professionista, “spesso mi sono sentita sopraffatta dalle emozioni e tuttavia è stato molto soddisfacente, perché in parte sentivo di prendermi cura anche di me stessa”.

Conclusioni

Quanto appena esposto mette in luce come gli psicoterapeuti non siano immuni alle malattie mentali e come talvolta essi siano i primi ad essere giudicanti nei confronti di certi temi. Secondo gli autori, i terapeuti affetti da malattie mentali dovrebbero essere consapevoli di non essere soli e di come altri professionisti descrivano la loro malattia come una risorsa.

Per questo motivo, gli autori sottolineano la necessità di programmi di intervento che includano una discussione aperta sulle preoccupazioni dei soggetti, l’analisi dell’impatto della malattia mentale sulla competenza professionale e delle conseguenze derivanti dallo stigma. Tale intervento potrebbe ridurre la necessità di segretezza, permettendo ai terapeuti di essere più consapevoli dei loro punti di forza e delle sfide personali e professionali che potrebbero incontrare sul loro cammino. Inoltre, secondo gli autori, il programma renderebbe i professionisti attivi nella lotta al pregiudizio, per il bene dei loro clienti e di loro stessi.

 

L’11 Ottobre si celebra il Coming Out Day – La differenza tra coming out e outing

Oggi è il Coming Out Day, una giornata che ha l’obiettivo di celebrare le varie sfumature identitarie. Con questo articolo cercheremo di illustrare la differenza tra coming out e outing e capiremo le implicazioni di queste due azioni.

 

Oggi è il Coming Out Day, una giornata che ha l’obiettivo di celebrare le varie sfumature identitarie. “Coming out” e “outing” sono ad oggi divenuti rapidamente termini di uso comune e, come spesso accade quando adottiamo vocaboli stranieri si può inciampare in storpiature di significato. Con questo articolo cercheremo di illustrare la differenza tra coming out e outing e capiremo le implicazioni di queste due azioni.

Coming out e outing: quale differenza

Immaginiamo il caso di un ragazzo di 14 anni, Giovanni, che vive in un piccolo paese e sta iniziando ad esplorare la sua affettività e sessualità. Giovanni, tuttavia, sa che i suoi genitori sono ostili nei confronti delle persone LGBTQ+, perché li sente i loro commenti quando guardano la televisione, e vive la propria esplorazione affettivo-sessuale con grande sofferenza. Un giorno, dopo scuola, decide di fare coming out con Marta, la sua migliore amica. Gli racconta che gli piace Marco, un ragazzo dell’altra classe e che sente di essere bisessuale. Compiendo questa azione, facendo coming out, Giovanni decide dunque di esporre volontariamente il suo orientamento sessuale a Marta e di essere sottoposto ad un possibile rifiuto da parte dell’amica. Marta lo abbraccia forte e gli confessa di essere felice che lui se la sia sentita di condividere con lei questo aspetto della sua vita.

Dopo qualche giorno, Giovanni e Marta sono a casa di un’amica in comune per finire un compito di gruppo che la professoressa di Italiano ha assegnato loro. Ad un certo punto, Marta, senza pensarci troppo, rivela l’orientamento sessuale di Giovanni all’amica. Marta in questo caso ha fatto outing a Giovanni, ovvero ha condiviso a qualcun altro delle informazioni relative all’orientamento sessuale di Giovanni senza il consenso del ragazzo.

In questo piccolo esempio si può intuire come Marta e l’amica non hanno una reazione di rifiuto di fronte all’identità sessuale di Giovanni, eppure rimane comunque “outing”. Qualora la reazione dell’amica fosse stata contraddistinta da un’intensa emotività con polarità negativa sarebbe stato considerabile comunque “outing”. Ed infine, il fatto che Marta abbia condiviso questa informazione relativa all’orientamento di Giovanni senza il suo consenso rimane “outing” nonostante l’intenzione di Marta non fosse quella di ferirlo o di schernirlo.

Questo breve racconto, di fantasia, è normalità per le persone che possiedono uno status minoritario occultabile, come, ad esempio, le persone della comunità LGBTQ+, che possono costantemente valutare se fare coming out o meno a seconda delle circostanze, e del possibile rifiuto o fenomeno discriminatorio (Pachankis, 2007). Quanto appena descritto è ancora più rilevante se si tiene conto del contesto socioculturale in cui la persona vive. Giano e colleghi (2020) hanno, infatti, notato che più una persona che vive in un contesto a bassa urbanizzazione è aperta riguardo al proprio orientamento sessuale, più si amplificano gli effetti deleteri legati al rifiuto a causa dell’orientamento. Fare coming out non è, quindi, la migliore scelta per tutti ed in ogni momento della propria vita, in quanto l’esito dello stesso è strettamente connesso al contesto socioculturale in cui si vive. Molto spesso, la soluzione migliore è quella di un coming out selettivo con le persone di cui ci si fida maggiormente (Giano et al., 2020).

Le conseguenze dell’outing

Alla luce di quanto detto, ogni persona che fa volontariamente, o meno, outing sta esponendo la persona di cui condivide informazioni ad un possibile rifiuto o fenomeno discriminatorio che può sfociare, purtroppo, anche a gravi conseguenze come il suicidio, la violenza verbale e/o fisica, e l’omicidio (Meyer, 2003; Pachankis, 2007).  Inoltre, è importante considerare che ogni persona con status minoritario viene esposta quotidianamente ad uno stress cronico originato dall’interazione con il gruppo maggioritario che la discrimina e la stigmatizza (Meyer, 2003). Infatti, secondo il Minority Stress Model di Meyer (2003), la persona con status minoritario, tralasciando lo stress generico che ognuno di noi esperisce, è sottoposta a:

  • Stressor distali, che per definizione sono oggettivi e rappresentano le varie forme di discriminazione e stigmatizzazione (stigma interpersonale e strutturale);
  • Stressor prossimali, che dipendono dalla percezione individuale e sono formati dalle risposte affettive, cognitive e comportamentali degli individui allo stigma, come la sensibilità al rifiuto, l’omofobia interiorizzata e la dissimulazione.

Di conseguenza, fare outing a qualcuno vorrebbe dire esporre questa persona a maggiori livelli di stressor distali e prossimali che portano a disturbi d’ansia, specialmente ad ansia sociale, depressione, rischio suicidario e comportamenti autolesionistici, e abuso di alcol e sostanze (Feinstein, 2019).

In conclusione, lo scopo di questo articolo è quello di sensibilizzare chi legge rispetto alle conseguenze dell’outing. Come abbiamo visto ogni persona LGBTQ+ porta con sé tanta sofferenza e può essere sottoposta a gravi rischi psicofisici a causa di una confessione da noi rilasciata ad altri senza il suo consenso.

L’obiettivo del Coming Out Day potrebbe essere quello di comprendere, fare domande, simpatizzare ed empatizzare con una persona LGBTQ+. Dall’altra parte, se si è una persona che appartiene alla comunità LGBTQ+, si potrebbe fare dell’attivismo gentile: essere sé stessi e mostrare l’amore che si ha nella propria vita, agli altri. Buon Coming Out Day!

 

Figli adottivi: caratteristiche emotive, comportamentali e psicopatologia

Il bambino adottato, a causa delle esperienze negative preadottive, può sviluppare un’idea di sé come individuo sbagliato, incapace e non degno di amore. Egli spesso si rappresenta il mondo come un luogo pericoloso e quindi può utilizzare diverse strategie per far fronte alla sensazione di essere una persona fragile che si muove in un mondo minaccioso.

Serena Pierantoni e Mariasilvia Rossetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

L’incontro adottivo si staglia sullo scenario di una doppia mancanza: a una coppia manca un figlio, a un bambino mancano dei genitori. Se gli attori saranno in grado di colmarla potranno realizzare l’evento intensamente carico di emozioni di una doppia nascita: due esseri che diventano genitori e un essere che diventa persona attraverso la filiazione” (Farri Monaco M. & Castellani P., 1994).

L’adozione è un percorso molto delicato per i genitori e soprattutto per i bambini.

L’attuale ricerca relativa alle adozioni nazionali e internazionali evidenzia come i figli adottivi sono spesso sovra rappresentati nei servizi psichiatrici.

Disturbi psicologici e comportamentali tra i figli adottivi

Le ricerche cliniche che hanno confrontato bambini adottati e non adottati, mostrano che i primi presentano più frequentemente sintomi “internalizzanti” quali somatizzazione, depressione, ansia, disturbi psicotici dagli 1 ai 5 anni. Queste problematiche sembrano essere preponderanti subito dopo l’adozione per poi diminuire gradualmente nel corso del tempo. Dopo i 5 anni sono più frequenti i disturbi “esternalizzanti”: comportamenti aggressivi e/o oppositivi, bugie, fughe da casa, uso di sostanze stupefacenti, comportamenti antisociali. Si rilevano inoltre, con maggiore frequenza nei bambini adottivi, difficoltà di apprendimento, deficit di attenzione, iperattività (D. Bramanti & R. Rosnati, 1998).

Dagli studi non clinici che hanno confrontato campioni di bambini adottati e non adottati scelti dalla popolazione generale si ottengono invece risultati abbastanza contrastanti. Alcuni non hanno rilevato differenze tra i due gruppi; altri evidenziano una maggior frequenza di problemi psicologici e comportamentali e un maggior numero di difficoltà scolastiche. Da alcune ricerche si evince che le differenze tra adottati e non, sono consistenti in età scolare, si riducono in adolescenza per poi scomparire; altre evidenziano invece maggiori problematiche proprio durante il periodo adolescenziale (Miller et al., 2000).

I risultati della ricerca di Barcons-Castel et al. (2011) indicano che, a fronte di un adeguato sviluppo, rispetto ai coetanei, i bambini adottivi presentano più problemi legati alla somatizzazione, all’aggressività e alla depressione. Inoltre, i ragazzi non adottati, in particolare maschi, hanno migliori capacità adattive rispetto agli adottati, differenza che non sembra essere significativa per le ragazze (Barcons-Castel et al., 2011).

Uno studio molto recente di Paine et al. (2021) ha indagato su un campione di 42 bambini dai 4 agli 8 anni il ruolo che può avere la capacità di riconoscimento delle emozioni sui problemi comportamentali e psicologici mostrati dai bambini adottivi.

Comprendere, saper individuare e discriminare le emozioni è fondamentale per un buon adattamento sociale e psicologico. Le difficoltà a riconoscere le emozioni sono associate a rifiuto sociale, vittimismo e sintomi clinici in infanzia. Ad esempio, lo scarso riconoscimento delle emozioni negative come tristezza, paura e rabbia è evidente nei bambini con disturbi comportamentali (Van Goozen SHM, 2015).

La ricerca conferma che in generale i bambini (sia adottivi che non) con problemi emotivi e comportamentali identificano con maggiore precisione le espressioni emotive positive rispetto a quelle negative (tristezza, paura, rabbia). Tuttavia, rispetto ai bambini non adottati, quelli adottati hanno ottenuto risultati significativamente peggiori nella discriminazione di volti tristi, arrabbiati e spaventati (Paine et al., 2021). I risultati suggeriscono che le difficoltà a riconoscere i segnali di angoscia tipici dei volti impauriti, possono ostacolare la capacità di imparare a inibire il comportamento aggressivo. L’evidenza indica che gli interventi basati sulle emozioni potrebbero migliorare le capacità dei bambini adottivi di riconoscere le espressioni emotive e ridurre i loro problemi comportamentali.

Molti studi evidenziano che anche in adolescenza i ragazzi adottati manifestano problemi emotivo/ relazionali, scolastici e comportamenti devianti in misura maggiore rispetto ai propri pari non adottati. Lo studio di Miller et al. (2000) mostra che gli adolescenti adottati, in particolare di sesso maschile, hanno più problemi scolastici (assenteismo, scarsi risultati), di abuso di sostanze, litigi con i genitori, e in generale più problemi psicologici (maggiore sofferenza psicofisica, minore autostima, minore speranza per il futuro) dei non adottati.

Da uno studio di Verhulst et al. (1990) emerge che i soggetti adottivi presentano problematiche comportamentali nel 23% dei casi contro il 10%; problemi con la giustizia in 1,8% dei casi contro lo 0,4%; problemi internalizzanti nel 7,1% dei casi rispetto al 2,2% dei non adottivi (M. Chistolini, 2010).

Altre caratteristiche maggiormente prevalenti negli adottati riguardano comportamenti delinquenziali (Sharma et al.,1998), difficoltà interpersonali, comportamenti oppositivi, comportamenti aggressivi (Austad and Simmons, 1978) e antisociali (Offord et al., 1969).

Una ricerca condotta presso l’Università del Minnesota su un campione di 692 ragazzi adottati e 540 non adottati, ha indagato se lo stato di adozione può rappresentare un fattore di rischio per il tentativo di suicidio. Emerge che la probabilità di tentativo di suicidio è quattro volte superiore negli adottati. La relazione tra tentativo di suicidio e stato di adozione è mediata da fattori noti per essere associati al comportamento suicidario: ambiente familiare, sintomi psichiatrici, tratti di personalità, abbandono scolastico (Keyeset al., 2013).

Uno studio recente di Murray et al. (2021) ha analizzato il ruolo delle esperienze traumatiche sui comportamenti suicidari dei soggetti adottivi rispetto ai coetanei non adottati. Si riscontra un’alta percentuale di esperienze potenzialmente traumatiche tra gli individui adottati (oltre il 93%) e si conferma la maggiore probabilità degli adolescenti adottati di ideazioni o comportamenti suicidari. Tuttavia, quando vengono aggiunti al modello i sintomi del politrauma o trauma, l’adozione non risulta più un predittore significativo per l’ideazione suicidaria. Sebbene l’associazione tra adozione e rischio suicidario sia ancora da approfondire, lo studio attuale indica che lo stress traumatico gioca un ruolo critico (Murray et al., 2021).

Disturbi di personalità tra i figli adottivi

Diversi studi hanno indagato l’adozione come fattore di rischio per specifici disturbi di personalità come il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, il disturbo antisociale, schizotipico, schizoide, paranoide, evitante (Westermeyer, et al., 2015). Tuttavia questi studi non hanno comparato la percentuale di disturbi di personalità tra soggetti adottati e non adottati in un campione nazionale abbastanza rappresentativo.

Westermeyer et al. (2015) hanno confrontato i dati relativi alla storia di vita e alla presenza di disturbi di personalità in adulti adottati e non adottati considerando sette disturbi di personalità: istrionico, antisociale, evitante, paranoico, schizoide, ossessivo-compulsivo e personalità.

I risultati ottenuti mostrano una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo di personalità in coloro che sono stati adottati rispetto ai non adottati. In particolare, la correlazione più forte sembrerebbe quella con i disturbi del Cluster B (istrionico e antisociale), meno significativa, ma comunque rilevante, la correlazione con il Cluster A (paranoide e schizoide) e C (evitante e ossessivo-compulsivo). L’unica correlazione che non si è mostrata significativa è con il disturbo dipendente di personalità.

Questi risultati si ottengono in particolare per la fascia di età 18-29 anni, le differenze tra adottati e non adottati diminuiscono invece dai 45 anni in poi (Westermeyer et al., 2015).

I fattori che contribuiscono allo sviluppo di disturbi di personalità negli adottati potrebbero originare da aspetti genetici e non genetici relativi ai genitori biologici (ibidem).

Fattori di rischio per i figli adottivi

Tutti i bambini adottivi provengono da situazioni di abbandono o di separazione dalle famiglie di origine per trascuratezza, povertà, maltrattamento o abuso

Gli effetti negativi sullo sviluppo neuropsicologico dei bambini adottati potrebbero in alcuni casi dipendere da “danni biologici” dovuti a condizioni di vita sfavorevoli: malattie dei genitori, assunzione di sostanze stupefacenti in gravidanza, controlli sanitari assenti, denutrizione.

Possono però anche derivare da esperienze traumatiche vissute nei primi mesi di vita.

Per comprendere i meccanismi e le dinamiche che sono alla base dello sviluppo psicoaffettivo del bambino adottivo è necessario far riferimento alla teoria dell’attaccamento di Bowlby. L’attaccamento è stato definito come un sistema comportamentale, biologicamente predeterminato, che spinge il bambino a cercare un legame affettivo, vicinanza e conforto con una figura specifica, principalmente la madre o, più in generale, tutte quelle figure che interagiscono in modo precoce con il bambino al fine di ottenere protezione, cura e regolazione degli stati emotivi (Bowlby, 1979).

In base alla risposta del caregiver, nel cervello del bambino si formano delle rappresentazioni mentali (Modelli Operativi Interni) di se stesso, della Figura di Attaccamento e della relazione tra sé e l’altro.

I Modelli Operativi Interni si formano alla fine del primo anno di vita e restano abbastanza stabili nel tempo; sono utilizzati per interpretare noi stessi, il mondo, l’altro e per interagire con l’esterno (Liotti, 2001).

I bambini adottati spesso fanno esperienza preadottiva di relazioni di attaccamento che non forniscono loro un senso di sicurezza. Howe (2001) distingue tre storie preadottive e diversi stili di attaccamento insicuro che i bambini adottivi possono aver sviluppato: good start, poor start, institutional care.

I good start, quei bambini che hanno avuto un buon rapporto con i caregiver biologici nei primi anni di vita e solo successivamente hanno vissuto esperienze negative, potrebbero strutturare un attaccamento sicuro con aspetti ansiosi. Potrebbero assumere comportamenti di dipendenza con i genitori adottivi per la paura di perdere di nuovo le figure di attaccamento (Howe, 2001).

I poor start, ossia i bambini che fin dalla nascita hanno sperimentato scarse cure, se non abusi, maltrattamenti e trascuratezza, potrebbero sviluppare uno stile di attaccamento insicuro resistente, evitante o disorganizzato. I bambini resistenti hanno interiorizzato un modello di genitori incostanti, quindi possono mostrarsi richiedenti e possessivi nei confronti dei genitori adottivi. Gli evitanti hanno fatto esperienza di genitori freddi e distaccati che li hanno fatti sentire rifiutati. Questi bambini potrebbero evitare il contatto emotivo per mostrarsi forti e invulnerabili. Infine, i bambini con attaccamento disorganizzato hanno un senso di sé poco chiaro e definito e una rappresentazione dell’altro come spaventato/spaventante. Possono manifestare atteggiamenti volti a controllare emotivamente la relazione oppure atteggiamenti punitivi nei confronti di se stessi.

Infine i bambini institutional care, istituzionalizzati fin dalla nascita, possono sviluppare o ricerca di cura indifferenziata o assenza di legame di attaccamento (Howe, 2001).

L’abbandono o la separazione dai genitori biologici rende il bambino adottivo fragile. Oltre all’esperienza traumatica, gli viene anche richiesto di sviluppare in poco tempo nuovi apprendimenti cognitivi, relazionali, di adattarsi a un nuovo contesto di vita a lui sconosciuto e per di più spesso senza aver sviluppato le capacità necessarie.

Il bambino adottato infatti, a causa delle esperienze negative preadottive, può sviluppare un’idea di sé come individuo sbagliato, incapace e non degno di amore, un’immagine di sé distorta che lo rende particolarmente permaloso e sensibile alle critiche.

Il bambino adottato spesso si rappresenta il mondo come un luogo pericoloso e quindi può utilizzare diverse strategie per far fronte alla sensazione di essere una persona fragile che si muove in un mondo minaccioso. Potrebbe ad esempio cercare di tenere tutto sotto controllo utilizzando una strategia di ipermonitoraggio. Questo aspetto può essere la causa delle difficoltà di attenzione/concentrazione e dei comportamenti oppositivi. Opporsi ai genitori adottivi dà la sensazione al bambino di avere il controllo della situazione.

Strategie più prudenziali sono la compiacenza e il ritiro depressivo. Alcuni bambini per evitare un altro rifiuto, nel nuovo nucleo familiare aderiscono perfettamente alle aspettative dei genitori nascondendo però totalmente le proprie necessità. Il ritiro depressivo e l’autoesclusione allo stesso modo danno la sensazione di essere al sicuro da eventuali fallimenti (Chistolini, 2010). In alternativa, potrebbero reagire con comportamenti di attacco (aggressività) o fuga (agitazione motoria che prepara a scappare o freezing) (ibidem).

In adolescenza i maggiori fattori di rischio da considerare per i disturbi comportamentali riguardano ancora il legame di attaccamento sperimentato con la famiglia biologica e con quella adottiva e le difficoltà incontrate nel tentativo di costruire la propria identità personale. Uno dei compiti di sviluppo di un adolescente è differenziarsi dai propri genitori e metterli in discussione per acquisire una propria individualità e autonomia. Ciascun adolescente necessita di distanziarsi dai genitori e al tempo stesso di essere ancora guidato e contenuto. Per il ragazzo adottato questo processo diventa più difficile perché potrebbe riemergere la paura dell’abbandono e il vissuto di colpa (ibidem). Allo stesso modo potrebbe esser complesso per l’adolescente adottato costruire una propria identità coerente se non ha la possibilità di ricostruire la sua storia preadottiva (Grotevant, Perry e McRoy, 2005).

Fattori protettivi per i figli adottivi

Considerando la fragilità psicologica dei figli adottati, è fondamentale che i genitori adottivi siano capaci di mentalizzare con i figli e di comprendere la sofferenza e la paura dell’abbandono che guidano i loro atteggiamenti. La sicurezza dei Modelli Operativi Interni sembra essere un fattore protettivo, è dunque importante che i genitori adottivi permettano al bambino di sperimentare la presenza di una “base sicura”. Le famiglie adottive dovrebbero aiutare il bambino ad acquisire fiducia nella disponibilità del caregiver, promuovere la riflessività e l’intelligenza emotiva, l’autonomia e la self-efficacy (Santona, Zavattini, 2005).

In particolare, in adolescenza i genitori adottivi dovrebbero riuscire a riconoscere fino a che punto il figlio si sente di appartenere a quella famiglia piuttosto che a quella di origine, favorendo l’accessibilità alle informazioni inerenti il passato. Conoscere la propria storia preadottiva è un fattore protettivo che aiuta il ragazzo a dare un senso a quanto accaduto e a costruire il proprio sé.

Non esistono i problemi dell’adozione. Ma esistono i bisogni degli adottati e questi […] sono il riflesso della loro storia personale” (Anna Genni Miliotti, 2013)

 

La comprensione emotiva e cognitiva negli adolescenti delle risposte dell’autorità giudiziaria nel processo penale minorile

Quali variabili influiscono sulla comprensione, negli imputati minorenni, delle decisioni dell’autorità giudiziaria?

 

In tanti anni di lavoro presso il Tribunale per i Minorenni, mi sono convinta che le variabili sono tante e in stretta interrelazione tra di loro: il contesto giudiziario, l’adolescente e il suo sviluppo cognitivo ed emotivo, la capacità di noi adulti di “far comprendere” cosa accade.

Il processo penale minorile

Il processo penale minorile (DPR 448\88) è stato creato ad hoc per intervenire allorquando un minore, tra i quattordici e i diciotto anni, commette un illecito penale. Le decisioni devono tutte contemplare, ove possibile, una veloce fuoriuscita del minore dal circuito penale.

In questo senso due istituti giuridici, rispettano appieno questo principio: “l’irrilevanza del fatto” art. 27 del DPR 448\88 e il “perdono giudiziale”, art. 169 del Codice Penale.

Il primo, l’art. 27, è una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto: “Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne”. Questa decisione può essere presa anche nelle fasi successive del processo, nell’udienza preliminare e in dibattimento.

Il secondo è il Perdono Giudiziale per i minori degli anni diciotto: “Se, per il reato commesso dal minore degli anni diciotto la legge stabilisce una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a euro 5 anche se congiunta a detta pena, il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio al giudizio, quando, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art.133, presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati.[…].Il perdono giudiziale non può essere concesso più di una volta”.

In questa sede non mi dilungherò ulteriormente nella disquisizione puramente giuridica, è solo importante ricordare come anche la giurisprudenza si è fatta carico non solo di assolvere al suo compito sanzionatorio di fronte alla commissione di un reato da parte di imputati minorenni, con un riconoscimento della responsabilità, ma ha tenuto conto, nei principi che hanno ispirato il processo, del soggetto e della necessità di assolvere anche ad un compito educativo, riabilitativo e di veloce fuoriuscita dal circuito penale.

Processo penale minorile, adolescenti e sviluppo cognitivo

Altra variabile è rappresentata dall’adolescente e dal suo sviluppo cognitivo. La differenza più rilevante tra il funzionamento mentale del bambino e quello dell’adolescente sta nella capacità di riflettere sul proprio pensiero. È una conquista sconvolgente: coinvolge le capacità metacognitive del soggetto, cioè quelle abilità che consentono di riflettere sulla propria conoscenza e sulle proprie strategie per operare conoscenza, ricordo e apprendimento.

Sono in esso coinvolti due livelli: quello dichiarativo e quello procedurale. Un importante contributo viene dato da quelle variabili come il livello socio-culturale, di scolarizzazione, le opportunità che l’adolescente può avere di socializzazione e di confrontarsi con il gruppo dei pari, che influenzano lo sviluppo cognitivo e le capacità mentali.

Tutte queste abilità sono soprattutto legate allo sviluppo dell’area prefrontale, individuata come zona di principali stazioni dei circuiti neurali implicati nei processi decisionali. Molti studi effettuati con neuroimaging strutturale, hanno posto in evidenza come queste aree subiscano, nel corso della fase evolutiva dell’adolescenza, profondi cambiamenti sia in termini di connessioni possibili sia in termini di mielinizzazione.

Accade però a volte che quando vengono fatte domande legate al contesto giuridico in cui ci ritroviamo, nello specifico sulla storia penale del ragazzo (sentenze pronunciate in precedenza, eventuali pendenze, e via dicendo), le risposte fanno intendere una mancanza di comprensione delle pronunce dell’autorità giudiziaria, come se poco o nulla fosse rimasto in memoria.

Processo penale minorile e comprensione della sentenza

Ma cosa accade quando un Tribunale pronuncia una sentenza, o di irrilevanza del fatto o di perdono giudiziale per una condotta dell’adolescente che ha richiesto la presenza di fronte al giudice? Quali meccanismi complessi intervengono affinché l’adolescente restituisca quelle risposte? Coinvolgono fattori cognitivi, emotivi?

Di seguito proverò a fare delle riflessioni, forse assurde, ma che sono il frutto della curiosità che nutro per comprendere sempre un po’ di più la fase “dell’età dell’oro”, così definita da Fabbrini e Melucci nel loro libro, l’adolescenza.

La sensazione di non aver inciso nella memoria del ragazzo è anche data dal fatto che lo ritroviamo di fronte a noi in occasione di un nuovo reato commesso dopo la precedente sentenza, oltre che dalle risposte di cui parlavamo prima.

Se consideriamo le parole scelte dal giurista come “irrilevanza” o “perdono”, e le analizziamo dal punto di vista del loro significato nella lingua italiana, potremmo trovarci di fronte, per un soggetto adolescente in crescita e a volte cresciuto in ambienti poco stimolati, in una sorta di “paradosso”, inteso, come riportato da Zingarelli nel vocabolario della lingua italiana, come una “asserzione incredibile, in netto contrasto con la comune opinione”.

Nel dizionario, irrilevanza significa “essere irrilevante”, e il secondo, perdono, “remissione di una colpa e del relativo castigo”.

Già come si può vedere dal loro significato, e in un adolescente in progressiva evoluzione, i termini possono indurre in uno stato di disorientamento e non comprensione profonda di quanto accade, come se ci fosse una dissonanza tra la decisione e il comportamento passato: ho commesso un illecito “è irrilevante?” “mi perdonano?”, “è comunque finita bene, senza alcuna conseguenza?” “non vado in carcere?”.

Ma come accennavamo all’inizio, entrambe le risoluzioni riconoscono una colpevolezza dell’imputato, anche se l’art. 27 non risulta sul certificato penale, mentre l’art. 169 rimane fino al 21 esimo anno di età e ci si deve attivare per la sua eventuale cancellazione.

Mi sembrava interessante a tal proposito la teoria di Leon Festinger, della dissonanza cognitiva. Il giovane potrebbe trovarsi di fronte ad una complessa elaborazione cognitiva in cui credenze, ed io aggiungerei evidenze (il Tribunale si pronuncia con una sentenza di colpevolezza, dunque con un riconoscimento di responsabilità circa il fatto-reato), esplicitate in contemporanea e in contrasto “funzionale” tra loro potrebbero indurlo in confusione.

Vogliamo poi aggiungere il meccanismo di selezione delle informazioni che i soggetti umani operano. Secondo Atkinson e Shiffrin, il meccanismo di selezione, conterebbe di tre sistemi in connessione tra loro ma preposti ognuno a specifiche funzioni e con caratteristiche strutturali anch’esse particolari. I tre sistemi sono la memoria sensoriale, la memoria a breve termine (MBT) e quella a lungo termine (MLT).

Anche in questo caso non voglio dilungarmi sui tre processi, c’è molta letteratura in merito. Quello che ci interessa è il terzo sistema: la memoria a lungo termine, capace di mantenere per un tempo lungo, indeterminato, il materiale proveniente dalla memoria a breve termine. Tra gli infiniti utilizzi che l’uomo fa delle informazioni presenti in questo serbatoio, è bene anche ricordare che questa memoria è capace di attivare meccanismi come l’oblio o il falso ricordo.

Potremmo ipotizzare che per provare a risolvere il conflitto tra le proprie azioni, la risposta dell’autorità giudiziaria e il significato della terminologia usata, il soggetto potrebbe ricorrere a tecniche che neutralizzano quanto contenuto nella pronuncia. Il risultato di questa “operazione” tende ad affievolire, a volte anche ad escludere, il senso di responsabilità individuale attraverso una ridefinizione del senso del proprio agire: è irrilevante, sono stato perdonato…non fa nulla.

È qui che giungiamo all’ultima variabile importante a mio avviso, affinché l’adolescente operi una esperienza educativa: il ruolo ricoperto da noi adulti.

Il ruolo degli adulti nel processo penale minorile

Gli adulti coinvolti nel processo penale, sono tanti, figure diverse, con ruoli e competenze diverse: i magistrati, togati ed onorari, i servizi sociali della giustizia minorile, la difesa, i genitori.

È nostro preciso compito, così dice il DPR 448\88, spiegare e fornire al minore imputato tutte le informazioni e gli elementi per capire dove si trova, perché e cosa accadrà nelle varie fasi del processo.

Il Processo Penale rappresenta un esempio di innovazione, pensata dai nostri legislatori a cui ha fatto riferimento l’Unione Europea per le Garanzie Procedurali per i Minori Penalmente imputati. Coniuga l’obiettivo di dare una risposta al reato con quella di fare attenzione e di proteggere la fase evolutiva del minore.

Altro aspetto interessante del DPR è lo sviluppo di una attitudine “responsabilizzante” per l’imputato. E‘ attraverso questa che si attivano durante tutto il permanere nel circuito penale, competenze autoregolative che si basano su principi condivisi socialmente e che hanno una funzione strutturante per il futuro dello stesso. Assumono dunque anche un aspetto preventivo, dando le coordinate attorno alle quali egli può costruirsi un diverso percorso evolutivo.

Spiegare al minore la decisione presa dall’autorità giudiziaria in merito al suo comportamento “illecito”, sottolineando il riconoscimento di responsabilità e la sanzione che ne consegue, può  aiutare l’adolescente nel faticoso processo, prima di tutto di comprensione e forse poi di immagazzinamento nella memoria, come elemento significativo nella costruzione delle direttive verso la strutturazione di un percorso evolutivo diverso, lontano da comportamenti illeciti, quei comportamenti che hanno contemplato una pronuncia di colpevolezza.

“La memoria, che ci permette di avere ricordi dei fatti del nostro passato, è da considerarsi tra le manifestazione più elevate del nostro cervello umano e tra le più importanti della nostra vita; facoltà straordinaria, tra le più fantastiche che abbiamo, strettamente legata alla coscienza” (G. Maira, p. 145). Sarebbe interessante poter condurre degli studi sulla possibile recidiva in quei giovani che hanno avuto la possibilità di cogliere appieno il significato di istituti come l’art 27 e l’art 169 codice penale.

La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza sostiene che questo periodo comprende un “processo di responsabilizzazione che porta all’età adulta, che dovrebbe essere l’età delle responsabilità” (art. 29 lettera d, Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza).

Attraversare l’età delle responsabilità significa anche comprendere appieno la relazione tra un comportamento agito, il reato, e la risposta degli adulti, la sentenza del Tribunale. Solo così noi adulti abbiamo assolto al compito di sanzionare, ma anche di far sì che l’esperienza penale rappresenti anche un’esperienza educativa e si trasformi in un utile strumento per la costruzione di un futuro diverso.

 

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