expand_lessAPRI WIDGET

La possibilità di reinserimento degli autori di crimini a sfondo settario – Abstract congresso SIC Ottobre 2021, Milano

Crimini a sfondo settario: che cosa sono le sette? Il termine, in latino secta, deriva dalla radice del verbo sector che vuol dire: seguire, andare dietro; potremmo ricondurlo anche al verbo seco che significa: tagliare, separare.

 

 L’obiettivo di questo mio intervento è quello di fornire un contributo per analizzare e comprendere, per quanto lo spazio concessomi mi permetterà, la possibilità di reinserimento degli autori di crimini a sfondo settario. Per dare una spiegazione esaustiva di questo fenomeno è bene capire che cosa sono le sette. Il termine, in latino secta, deriva dalla radice del verbo sector che vuol dire: seguire, andare dietro; potremmo ricondurlo anche al verbo seco che significa: tagliare, separare. Nella prima ipotesi, la setta può essere inquadrata come un gruppo di seguaci di una persona, di un gruppo di esse o anche di una particolare dottrina; nel secondo caso, come un gruppo che si potrebbe essere separato da un’aggregazione maggioritaria.

Le sette sono organizzazioni di stampo religioso che costruiscono la propria dottrina basandosi sugli insegnamenti di una o più religioni ufficiali, ma se ne separano e si oppongono a queste attraverso l’affermazione di nuovi principi.

Il focus del problema sarà incentrato sul satanismo acido; si tratta di un mondo fai da te, con una conoscenza, spesso acquisita sulle bancarelle dei libri usati o sui siti internet dedicati ma di stampo commerciale. È un fenomeno settario clandestino, che spesso rimane “fluido” poiché i gruppi si aggregano e si separano con estrema facilità. Non c’è organizzazione nella struttura. I gruppi variano da un numero di dieci ad un massimo di quindici ragazzi, tra i 14 e i 25 anni di età. È importante ricordare che a questi piccoli gruppi aderiscono soprattutto adolescenti con problematiche principalmente collegate al nucleo familiare; è molto facile che un adolescente che abbia gravi problemi familiari o conflitti con se stesso possa trovare nel contesto settario una nuova idea di conforto e famiglia. Il reclutamento dei giovani ragazzi avviene in maniera mirata attraverso il “flirty fishing”, una pratica di avvicinamento elementare messa in atto dai soggetti già inseriti e che si sanno già muovere all’interno della setta; il gruppo può mettere in atto dei processi di indottrinamento molto rozzi per aumentare la permanenza del nuovo entrato. La persona modifica il proprio stato psicofisico attraverso l’uso smodato di droghe sintetiche, proprio per questo tale gruppo viene definito “acido”; oltre a eventuali comportamenti orgiastici da parte di tutto il gruppo.

Sotto il punto di vista penale i crimini commessi dalle cosiddette sette sataniche giovanili sono specifici, reati a basso profilo; si parla infatti di dissacrazione di tombe, danneggiamenti di luoghi sacri, furti all’interno di chiese, soprattutto di ostie e oggetti ornamentali che verranno poi utilizzati durante le “messe nere”; in casi molto particolari, per fortuna rari, si possono palesare anche omicidi rituali, uccisione di animali, stupri e/o istigazione al suicidio.

In moltissimi casi, i neofiti hanno a disposizione pochi contenuti, quasi sempre, di bassa “qualità”; nonostante ciò, nella tipologia acida, hanno la possibilità di creare un linguaggio comune che li avvicina nell’esecuzione di eccessi e devianze mediante il consumo di droghe e una sessualità spesso fuori controllo.

I demoni, di cui tanto si parla e dietro cui ci si nasconde, risiedono fra questi ragazzi e vengono amplificati dalle loro fragilità psicologiche e dalle droghe ad ampio spettro. Il meccanismo disfunzionale potrebbe essere messo in moto dal fenomeno di aggregazione innescato dalla condivisione degli stessi gusti musicali (Hard metal o Death metal). Infatti, nei giovani di età compresa tra i dieci e i vent’anni, uno dei più importanti fattori culturali con effetti di condizionamento è rappresentato dalla musica. Occorre, assolutamente, sottolineare che per quanto il genere musicale possa essere trasgressivo, non è da considerare prodromico e necessario rispetto alla potenziale commissione di reati nell’ambiente del satanismo giovanile.

I crimini a sfondo settario in Italia

Nella cronaca nera del nostro paese emerge, per violenza e crudeltà, una vicenda che si svolge a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Stiamo parlando delle Bestie di Satana, presunta setta satanica che ha preso vita nella provincia di Varese, in un momento di difficoltà sociale davvero profondo. Sarebbe importante capire se questo gruppo di giovani ribelli e oltraggiosi verso la vita sia stato davvero una setta o meno; il primo a parlarne in questi termini e a definirla tale è stato Andrea Volpe; ciò avviene nella prima confessione che lui rese nel Maggio 2004. Da lì in poi lo si è dato per acquisito.

Nel gruppo, ove non emerge la dose di fanatismo tipica di altre realtà settarie, a posteriori c’è stata anche confusione sulla designazione dei leader. Il gruppo non esprimeva neanche una forte impronta religiosa poiché, alcuni di loro, non credevano alle messe nere ed ai vari riti che si sarebbero potuti praticare. Tale aggregazione non si è dimostrata totalizzante: ognuno viveva la sua vita ed aveva proprie occupazioni indipendenti.

I soggetti possono essere catalogati all’interno del cosiddetto Satanismo Acido. Erano ragazzi annoiati, confusi, ribelli contro le principali “istituzioni” sociali: la famiglia, la scuola e la chiesa.

Manifestavano bisogni di evasione dalla “noia” di una provincia che in quegli anni offriva ben poco in termini di stimoli coinvolgenti e motivanti, orientandosi in alternativa verso una vita fatta di eccessi ed emozioni forti. Il tutto è stato caratterizzato da fatti di micro criminalità.

L’uso eccessivo di sostanze psicotrope portava con sé una dose massiccia di allucinazioni, vita disregolata e un comportamento disfunzionale e disadattivo. In tutta la vicenda possiamo osservare le famiglie adottare strategie poco adatte per contenere e modulare gli agiti dei figli nella loro crescita e nelle loro fasi di transizione.

Il leader viene indicato in tale Paolo Leoni, secondo il parere della maggioranza degli “adepti”, forse a causa del carattere forte e di una personalità “importante”. Mentre il Volpe ha sempre additato Nicola Sapone come vera guida del gruppo e Mario Maccione ha fatto vari nomi in momenti diversi.

In questo tipo di contesto, spesso, non servono minacce o paura; può bastare un timore reverenziale consolidato, per giustificarsi il proprio restare, o anche la voglia di non perdere il senso di appartenenza ad un gruppo vitale per il proprio essere, “perso” in una fase della vita di transizione o quando si cercano punti fermi a cui fare riferimento. Questo è necessario per affermare che, in un caso come questo, possiamo escludere un eventuale “lavaggio del cervello”; ricordiamo che l’Art. 603 del codice penale è stato derubricato (reato di plagio) dalla Corte Costituzionale con sentenza n.96 9/4/1981.

Hanno fornito dati confusi sui libri su cui si sarebbero documentati come presunti satanisti; oltretutto, alcuni non erano interessati all’occultismo come specifico fenomeno. Sono stati compiuti rituali molto confusi e approssimativi. Vengono fornite spiegazioni infantili che caratterizzano un livello di immaturità generale e/o mancanza di consapevolezza, soprattutto per quanto riguarda i moventi degli omicidi e la loro stessa esecuzione.

Un modo per sentirsi vivi era la ricerca di una vita parallela e l’interesse per un mix di esoterismo, spiritismo e occulto. C’era una forte dose di de-individualizzazione; nessuno ha più senso da solo. Venivano compiute prove di coraggio, molto pericolose, che apparivano normali, di quella normalità finta che tutto mescola e tutto confonde.

Vi erano forti componenti sessuali, ludiche e anche psicopatologiche. Tutto è iniziato per gioco con le “sedute spiritiche” presiedute da Mario Maccione; poi sono arrivate le droghe mischiate ad una sessualità promiscua e selvaggia, senza limiti. Annotiamo la presenza di psicopatologia pregressa in Eros Monterosso con Disturbo Borderline di Personalità, diagnosticato in seguito alle visite per la leva militare; oltre a lui, Pietro Guerrieri, il 3 e 10 aprile 1999, ha avuto due ricoveri in psichiatria a Monza. Scompenso psicotico per abuso continuato di droghe. Sono state elaborate delle ipotesi di tratti borderline di Andrea Volpe. Guerrieri: grande fragilità personologica, vizio parziale di mente.

L’associazione a delinquere non è mai stata riconosciuta al gruppo per l’estemporaneità delle decisioni omicide, improvvise e senza progettazione, con molta distanza tra l’una e l’altra. Non c’era un programma criminoso da seguire e, nonostante si ritenesse ci fossero figure carismatiche come Sapone, Leoni e Volpe, il resto dei ruoli tra i membri era intercambiabile. Se quel gruppo sia stato una setta o meno, probabilmente, può essere solo una valutazione giuridica.

Crimini a sfondo settario: dopo la condanna

Ad oggi, quasi tutti i componenti del gruppo sono in stato di libertà. Elisabetta Ballarin è cresciuta ed è diventata una donna. È stata correa nel brutale omicidio di Mariangela Pezzotta insieme ad Andrea Volpe, da cui era stata iniziata alla droga ed alla tossicodipendenza.

Dopo l’arresto e l’inizio del processo, è iniziata la ripresa alla vita, dopo anni di confusione, ribellione e oblio sintetico causato dalle sostanze psicoattive. In carcere ha potuto lavorare su se stessa, libera dagli stimoli e dalle persone negative di cui si era circondata per troppo tempo prima dei tragici fatti di Golasecca e Somma Lombardo in cui hanno perso la vita Fabio Tollis, Chiara Marino e la Pezzotta. Possiamo ipotizzare che, all’epoca delle “Bestie di Satana”, punto di aggregazione per un disagio sociale sempre più accentuato nella provincia di Varese alla fine del secolo scorso, la stessa non avesse le risorse personali e familiari per comprendere il disvalore dell’ambiente in cui era inserita e di conseguenza allontanarsi da esso.

Poc’anzi abbiamo usato la parola ribellione; ribellarsi ad un sistema famiglia percepito come troppo distante da sé, non rassicurante e che non operava come una base sicura nei momenti di difficoltà della Ballarin.

La droga come anestetico per il male di vivere, contro le paure di un’adolescente ancora troppo inesperta e sprovveduta per fronteggiare da sola le asperità della vita.

L’ipotesi del Satanismo Acido costituisce un punto di partenza per analizzare la voglia di evadere dai confini di una realtà avvertita come estranea; è andata alla ricerca di un’alterità che potesse dare spazio, in maniera eccessiva e disregolata, alle sue frustrazioni e ai suoi bisogni di rivalsa ed indipendenza a dispetto di una realtà composta da adulti che, molto probabilmente, non l’hanno considerata e tenuta da parte in un’età particolarmente sensibile.

Come emerge dalla perizia del Dott. Picozzi, non si erano create relazioni di dipendenza con gli altri componenti, soprattutto con Andrea Volpe; ipotizziamo che la suddetta abbia attuato delle strategie di coping e ipercompensazione di tipo maladattivo nei confronti di un mondo troppo grande e vuoto per lei.

Fortunatamente ha avuto modo di incontrare Silvio Pezzotta, padre di Mariangela, secondo il principio di giustizia riparativa. Quest’uomo è riuscito a ricucire uno strappo dolorosissimo con una degli assassini di sua figlia. Tutto ciò ha permesso di far progredire in avanti Elisabetta per continuare sulla sua strada di persona nuova, memore di tutto il percorso fatto in carcere. In questi anni ha potuto acquisire delle risorse, delle strategie di coping nonché un senso di self-efficacy per far fronte a nuove situazioni negative che potrebbero presentarsi nuovamente, probabilmente non della stessa valenza negativa dei tragici fatti di cui siamo a conoscenza.

Siamo entrati dentro uno dei casi più atroci di quest’ultimo spaccato di secolo, che ci lascia dentro una forte angoscia e disagio; nonostante ciò, ed a dispetto dei culti settari più estremisti come la cosiddetta mafia nigeriana, nel tema da noi trattato potremmo ipotizzare una maggiore possibilità di reinserimento.

Questa affermazione la possiamo sostenere sottolineando l’efficacia della generatività creata dall’esperienza della giustizia riparativa e dei contesti applicativi, di studio e lavorativi collegati allo stato carcerario.

Abbiamo valutato l’importanza della componente psicopatologica in un caso in particolare, quello di Eros Monterosso. Il suo stato di malattia, aggravato dalle condotte di dipendenza, può essere contenuto e modulato attraverso un adeguato percorso di cura psicofarmacologico e di terapia.

Elisabetta Ballarin si è laureata: “Posso ritrovare una data di inizio, era il quinto anniversario della morte di Mariangela. Si stava svolgendo la messa nella sezione del carcere e lì mi sono avvicinata alla fede. Mia madre e Silvio Pezzotta mi hanno impedito di restare ferma di fronte alla tragedia, mi hanno spinta a perdonarmi”.

Cosa resterebbe al carnefice senza questo percorso di riabilitazione? Solo la vittima. Legati per sempre, in ogni tempo, in ogni spazio; in momenti di distrazione e svago. Anche quando avrà una smorfia dura, guardando in faccia la cruda verità: la vita che gli è passata davanti troppo velocemente.

 

Forze del destino (2021) di Christopher Bollas – Recensione

Bollas, nel suo testo Forze del destino, descrive quella che definisce come pulsione del destino, affrontando in maniera molto chiara la distinzione tra fato e destino.

 

Bollas, in questo testo, ripropone il concetto di “vero sé” esposto da Winnicott, al fine di dare un’enfasi particolare a quella che risulta la “configurazione unica dell’essere” o, come viene definita da lui, “idioma personale” e quanto, in questo processo, sia fondamentale l’uso che il paziente fa degli elementi dello psicoterapeuta, “l’uso dell’oggetto” descritto da Winnicott, lo sviluppo di “spazi intermedi e potenziali” e la possibilità di stimolare un processo creativo di realizzazione del proprio potenziale.

Uno degli aspetti fondamentali che caratterizza questo lavoro di Bollas, è proprio l’importanza dell’uso dello psicoterapeuta da parte del paziente, attraverso il quale articolare ed elaborare il proprio idioma personale, che si potrebbe ricollegare a ciò che Recalcati (2020) definisce come un “dare forma alla forza della vita”.  Winnicott, definisce il vero sé come “una potenzialità ereditata di sentire la continuità dell’esistenza e di acquisire a modo proprio, con un proprio ritmo, una realtà psichica e uno schema corporeo personali”. Il vero sé della persona, o l’idioma per come viene definito da Bollas, è un insieme di possibilità specifiche che, per potersi articolare, hanno bisogno dell’esperienza vissuta nel mondo reale, e quindi, nei singoli villaggi viventi, composti da oggetti scelti per coltivare necessità, desideri, interessi e che vengono costantemente creati nella vita di ciascuno di noi. Quindi, nel dare vita a spazi potenziali, “spazi psichici” che consentano l’espressione del proprio idioma, risulta essenziale una dialettica tra idioma personale e cultura umana, che favorisca un sano equilibrio di forze tra il vero sé della persona e il mondo reale.

In particolare, questa dialettica, rappresenta ciò che venne messo in rilievo da Winnicott, attraverso “i fenomeni transizionali”. Esperienze di attaccamento sicuro, che consentano al bambino di sperimentare un senso di continuità nell’esperienza di sé e dell’altro, in cui i genitori abbiano un buon senso intuitivo del figlio, riescano a rappresentarselo nel viso, nei gesti, nel linguaggio in modo sensibile al suo idioma personale e, a detta di Bollas, gli presentino gli “oggetti da usare”, permettono al bambino di “giocare con la realtà”, di godere nel rappresentare se stesso, di acquisire quella che Fonagy definisce “mentalità psicologica” e celebrare quindi l’arte della trasformazione nell’esperienza con l’altro. Per Winnicott, un iniziale adattamento attivo ai bisogni del bambino risulta essenziale per dar vita ai fenomeni transizionali, i quali quindi non possono prescindere da una condizione di dipendenza. In particolare, esperienze di illusione da parte dei caregiver, consentono al bambino di fare esperienza di onnipotenza.

Winnicott (1965), scrive: “La madre colloca il seno reale, laddove il bambino è pronto a crearlo e al momento giusto”. Senza l’esperienza dell’illusione, non c’è per nessun essere umano alcun significato nell’idea di una relazione con un oggetto e che quindi costituisce la base fondante della creatività primaria. Sempre Winnicott (1965) scrive come le graduali esperienze di delusione portino ad un rapporto con la realtà esterna che riconosca il limite, ma senza un equilibrio tra esperienze di illusione e delusione il bambino non impara che esiste un limite all’esperienza della frustrazione, non crea spazio psichico e la continuità dell’esperienza resta bloccata in stati mentali congelati. Bollas, inoltre, scrive che il concetto di uso dell’oggetto presuppone che il bambino possieda un senso relativamente sicuro dell’amore dell’oggetto, il che gli permette di sperimentare tutta un’ampia gamma di stati emotivi e mentali in relazione a se stessi e all’altro e quindi di comprendere la realtà in termini di stati mentali intenzionali e del loro rapporto con l’esterno. L’oggetto è reale e sopravvive alla distruzione in quanto oggetto interno, dotato di uno spazio psichico. Ciò, a mio avviso, si riconnette a quello che Bromberg (2011) definisce come capacità di essere sé stessi nel cambiamento. Winnicott (1965) afferma: “Si suppone quindi che il compito dell’accettazione della realtà non sia mai terminato, che nessun essere umano si liberi dallo sforzo di collegare la realtà esterna con quella interna e che tale sforzo venga alleviato da quest’area intermedia”.

Bollas, nel suo testo, continua descrivendo quella che lui definisce come pulsione del destino, affrontando in maniera molto chiara la distinzione tra fato e destino, essenziale peraltro nella distinzione tra le manifestazioni di un “vero sé” e di un “falso sé”. Fato, participio passato del verbo fari, che significa parlare, viene definito nel testo come il potere che si ritiene determini il risultato degli eventi prima che essi avvengano e che, quindi, volendolo utilizzare come metafora, permette di cogliere come la persona maturi l’impressione, che può diventare certezza, di essere determinata dalla propria storia di vita. Una persona colpita dal fato, è già una persona che non ha sperimentato la realtà favorevole alla soddisfazione del suo idioma interno e che quindi darà agli oggetti interni scissi e proiettati all’esterno maggior potere di influenzare la propria vita, con il solo risultato di avere delle esperienze abortite di se stesso in relazione agli altri. Il soggetto in questione si cristallizza nella credenza che gli eventi gli accadano, in una realtà dove ciò che prevale è lo stimolo e non la rappresentazione, in cui il sé è formato da isole e in cui le aree intermedie di esperienza tra l’interno e l’esterno risultano morte.

Una persona che si sente predestinata può immaginare opzioni per il futuro che portano il peso della disperazione. Invece di possedere opzioni per il futuro che nutrono la persona nel presente e che servono ad esplorare creativamente i percorsi di viaggi potenziali, la persona predestinata proietta solo gli oracoli. Bollas, all’interno del testo, accenna al caso di Nancy, la quale, per come descritto dall’autore, era solita fare affermazioni sciocche che mettevano un sigillo alle azioni, privando se stessa e l’altro di ogni potenziale autenticità d’incontro. Ad esempio, seduta in salotto con il suo ragazzo gli diceva: “Andiamo all’opera”. Non usava espressioni che coinvolgessero realmente l’altro come del tipo: “Mi piacerebbe andare all’opera”. Poteva annunciare azioni improvvise che potevano alterare il corso della vita in qualunque momento. La relazione con i genitori era pervasa da un clima di costrizione e assolutizzante, in cui obbligavano lei e loro stessi ad azioni drasticamente alternative, quali cambiare improvvisamente scuola, stile di abbigliamento, casa, amici. La continuità nell’esperienza di sé e dell’altro, l’equilibrio tra illusione e delusione, la possibilità di fare esperienza di una molteplicità di aspetti di sé e dell’altro, di coltivare un senso di responsabilità nei confronti della propria libertà, erano state del tutto soffocate. Bollas, continuando il racconto dell’esperienza con questa paziente, fa riferimento ad un’apparente spontaneità nel modo in cui Nancy esordiva in tali affermazioni, maturando pertanto l’impressione che i suoi annunci impulsivi fossero una via di mezzo tra comandamenti fatali e destino. In particolare, un impulso poteva essere considerato un’espressione del movimento del vero sé e quindi, quando dichiarava di volere andare all’opera, in parte sposava un futuro per dare spazio ad un elemento che necessitava di un’esperienza particolare in quel momento. Ma ciò che veniva a mancare era il rispetto della soggettività dell’altro, del suo idioma, di cui probabilmente ne veniva colta una parte, ma che veniva comunque strumentalizzata e quindi soffocata nel tentativo di prepararsi a riattualizzare uno scenario fatale. Tutto ciò rappresenta la morte dell’oggetto transizionale, a detta di Bollas, un oggetto interno morto, che rimane in un aldilà spettrale e quindi impossibilitato a trasformarsi nell’esperienza.

Ricollego quest’esperienza di morte dei fenomeni transizionali e quindi di ogni generatività nel rapporto con gli altri, a ciò che Yalom (1980) dice a proposito di individui terrorizzati dalla propria solitaria vulnerabilità. Questi individui, tentano di mitigare l’angoscia attraverso modalità relazionali rigide e coatte in cui l’altro viene incorporato, o meglio la relazione con l’altro viene svuotata di potenzialità trasformative. Bollas fa riferimento a quelle che definisce “personalità spettrali”, in cui vi è il netto rifiuto di permettere agli oggetti interni di diventare esseri esistenziali, definiti dallo stesso Bollas come “oggetti alternativi”. Essi sono segreti del soggetto, che devono essere agiti verso l’interno. Il soggetto si sente come se nutrisse questi altri sé e oggetti e allo stesso tempo li incarcerasse. Questi sé vengono costantemente scissi e mantenuti interni. Secondo l’autore, ciò rappresenta una continua uccisione, in cui prevalgono sentimenti di colpa (a mio avviso connesso anche alla colpa esistenziale di cui parla Yalom (1980), in cui l’individuo si sente costantemente in difetto, esiliato dal proprio potenziale generativo e dal proprio idioma), di paura inconscia di un attacco vendicativo da parte di questi sé soffocati e di odio. Queste persone conservano il vero sé come potenziale, in uno spazio interno non intermedio, né tantomeno psichico, ma piuttosto si tratta dell’immagine di un aborto in cui il vero sé, totalmente separato dal resto del mondo, rimane potenziale senza alcuna possibilità di articolazione di un idioma personale.

All’interno del testo, viene fatto riferimento al caso di Adreinne, la quale conobbe un ragazzo in spiaggia che la invitò a cena. Fecero passeggiate romantiche sulla spiaggia e dopo qualche giorno l’uomo le dichiarò il suo amore e le disse che voleva vederla spesso. A questo punto lei non sapeva cosa fare. Andava bene come bell’oggetto sulla spiaggia, ma come persona vera con cui vivere nel tempo, era soltanto fonte di angoscia assoluta. Così cominciò a rivolgerglisi con toni sempre più bassi, come se stesse parlando ai suoi spettri, per poi interrompere il contatto visivo diretto con lui e cominciare a fargli maglioni, comprargli libri e circondarlo di doni. A detta di Bollas, questa paziente tentava di trasformare una persona viva in un oggetto interno. Una vera e propria lotta contro la vita, afferma Bollas, come se in seduta questa paziente dicesse costantemente: “Non azzardarti a portarmi alla vita”. Si sentiva costretto esistenzialmente alla non esistenza.

Altro aspetto importante, è il concetto di destino fornito da Bollas. Come accennato precedentemente, nel destino e quindi nel dare forma all’idioma personale è implicato l’uso degli oggetti e la creazione di spazi potenziali, che non può prescindere da un senso interno di aver creato la propria vita. In questo è importante che i genitori favoriscano “l’esperienza dell’onnipotenza”, la quale si sposa con un altrettanto senso interno dell’evoluzione personale nello spazio e nel tempo. Un’evoluzione che segue la maturazione progressiva dell’individuo e quindi l’integrazione tra passato, presente e futuro. Un senso del destino si potrebbe pertanto definire come quella sensazione da parte del soggetto di stare compiendo alcuni dei termini del suo idioma personale mediante oggetti familiari, sociali, culturali e intellettuali. Nondimeno quindi, lo si potrebbe intendere come un corso naturale del vero sé che, tramite spazi potenziali creati all’interno dei vari tipi di uso dell’oggetto, e quindi anche di connessione psichica con l’ambiente, coltiva un senso interno di intimità permanente che non preclude la scoperta di sé nell’incontro con l’altro ma piuttosto la incoraggia.

Nell’esperienza della psicoterapia, Bollas, indica un elemento essenziale al fine di permettere al paziente di dar forma all’idioma personale, ovvero la “spietatezza” e la disponibilità da parte dello psicoterapeuta “a farsi distruggere”. Ogni uso di transfert dell’analista è, per certi versi, una distruzione della vera personalità del terapeuta e questo uso spietato risulta essenziale per consentire al paziente di formarsi rappresentazioni sulla vita psichica in termini di stati della mente e per oltremodo riuscire ad elaborare il vero sé attraverso l’esperienza. Ma per fare esperienze di “gioco con la realtà” che permettano fenomeni transizionali, e quindi anche quella che a detta di Fonagy (2005) risulta una comprensione della realtà in termini di “stati come se”, il terapeuta deve indicare al paziente quando sia pronto ad essere distrutto. In questo senso è importante che vi sia uno spazio che consenta l’uso immaginativo del terapeuta. In questa direzione bisogna anche considerare l’uso che il terapeuta faccia del paziente, attraverso le manifestazioni del controtransfert. Interessante, a tal proposito, risulta un altro caso presentato da Bollas, in cui la paziente Jill, durante le sedute, sprofondava in silenzi mortali. Le iniziali interpretazioni di Bollas in merito alla fredda rabbia della paziente, al suo sentirsi tradita e trattata ingiustamente rispetto al fatto di non poter incontrare il terapeuta durante il fine settimana, non sembravano sortire alcun effetto, se non un ulteriore congelamento della paziente. E ciò inoltre, non permetteva alla paziente di sperimentare più parti di sé nella relazione e di formare rappresentazioni, precludendo oltretutto al terapeuta la possibilità di viaggiare tra stati della mente. Perciò, iniziò a chiedersi come si sentisse in presenza di questa paziente, che sensazioni, stati d’animo, emozioni, sentimenti stesse provando e che parte avesse lui nell’incoraggiare la paziente in questi comportamenti. Si rese conto, di non riuscire a sopportarla un minuto di più e che questi congedi freddi e morti, fossero semplicemente orribili. Perciò decise di dirglielo spontaneamente: “Lei è un mostro”, “Ciò che lei fa è mostruoso, un comportamento disumano”. La paziente, dopo un iniziale pianto di rabbia, cominciò a protestare sostenendo l’enorme ingiustizia da parte del terapeuta per poi arrivare a litigare con lui. Questa affermazione di Bollas, per quanto apparentemente possa sembrare non etica, in realtà ha favorito una molteplicità di usi dell’analista, la quale ha permesso alla paziente di passare a nuovi stati del sé. Il litigio, in questo, ha favorito un’aggressione reciproca con l’oggetto, esperienza che le era totalmente nuova. Jill si identificava con il suo fato, rendendo morta se stessa e gli altri. L’affermazione fatta da Bollas, oltre ad avere spezzato un circolo, ha avuto un carico di spietatezza non indifferente, nell’ottica presentata in questo libro. Lo stesso autore scrive: forse era determinata dal bisogno del mio vero sé di distruggere un rapporto oggettuale patologico nel tentativo di trovare e usare gli oggetti che formano la mia identità professionale e dare alla paziente la possibilità di riscoprire il suo vero sé nel processo psicoterapeutico.

Una persona colpita dal fato sprofonda in un mondo interiore in cui si ripete lo stesso scenario, o meglio, la persona si prepara a rivivere lo stesso scenario, disponendo di uno scarso senso del futuro che può essere completamente diverso dall’ambiente interno che essa porta con sé. In questo senso, la persona dispera di poter influire sul corso della propria vita, tutto le accade, si sente travolta dagli eventi. Nel senso del destino, la persona sente di muoversi nel progredire della propria personalità. Le persone che hanno un senso del destino investono psichicamente sul futuro, con una “spietatezza necessaria” e una distruttività creativa, del passato e del presente, per cercare le condizioni necessarie alle opzioni sul futuro. E, in tutto questo, vivono uno stato di solitudine fondamentale ed esistenziale che caratterizza tutti gli incontri autentici con l’altro. Winnicott scrive: “Essere soli è la condizione di fondo del nostro essere; la solitudine è il contenitore del sé”. Nel vero sé siamo soli. Anche se negoziamo il nostro io con gli altri, e popoliamo il nostro mondo interiore di sé ed altri, veniamo espressi da quell’altro che è la parola (teoria del simbolico di Lacan), il nucleo assoluto dell’essere è una solitudine senza parole e senza immagini. Scrive Bollas: “La psicoterapia è un’esperienza di solitudine”. A mio parere, la solitudine di cui parla Bollas può essere connessa alla solitudine esistenziale a cui fa riferimento Yalom, ovvero un abisso incolmabile tra l’individuo e ogni altro essere, che porta ad incontrare l’altro su un piano umano.

 

È facile smettere di pensare se sai come farlo… Ma è vantaggioso?

Sulla base della teoria di Wegner, una meta-analisi ha supportato l’effetto di miglioramento immediato tenendo conto del carico cognitivo durante la soppressione del pensiero.

 

La teoria dei processi ironici si riferisce al fenomeno in cui gli individui che cercano di liberare la propria mente da un pensiero attraverso una strategia di soppressione sperimentano ironicamente maggiori livelli di occorrenza del pensiero stesso rispetto agli individui che si concentrano deliberatamente su quella credenza (Wegner, 1994).

Il controllo dei pensieri

Il controllo dei pensieri indesiderati attraverso la soppressione è un’importante funzione umana che può portare a risultati adattativi in ​​più domini, come l’inibizione di giudizi stereotipati (Galinsky e Moskowitz, 2007), la cessazione del fumo, la dieta (Erskine, Georgiou e Kvavilashvili 2010) e il benessere psicologico in generale (Wenzlaff & Wegner, 2000). Tuttavia, la ricerca ha suggerito che l’atto di soppressione del pensiero può essere un mezzo controproducente per controllare i propri pensieri (Slepian et al., 2014; Wegner, 1994). Gli studi hanno dimostrato effetti ironici della soppressione del pensiero per cui l’evitamento attivo della credenza bersaglio portava a una maggiore preoccupazione per quel pensiero (Cioffi & Holloway, 1993). In poche parole, provare a non pensare a un elefante rosa, non solo non impediva di pensare all’animale, ma accresceva la preoccupazione rispetto allo sforzo di non pensare. Sebbene la ricerca meta-analitica abbia mostrato il verificarsi di questo effetto rebound (lett. effetto rimbalzo) dopo la soppressione del pensiero, pochissimi studi hanno messo in luce l’effetto di miglioramento immediato durante la soppressione, dimostrando che è possibile non pensare all’elefante rosa, seppur per pochissimo tempo (Abramowitz et al., 2001; Magee et al., 2012).

Gli effetti temporanei della soppressione del pensiero

Secondo Wegner (1994), una condizione necessaria per osservare l’effetto di miglioramento immediato è la presenza di un carico cognitivo che impedisca di concentrarsi su distrattori per sopprimere il pensiero indesiderato. Sulla base della teoria di Wegner, Wang, Hagger e Chatzisarantis, hanno svolto una meta-analisi che ha supportato l’effetto di miglioramento immediato tenendo conto del carico cognitivo durante la soppressione del pensiero. Coerentemente con le previsioni degli autori, gli effetti rebound sono stati osservati indipendentemente dal carico cognitivo, mentre gli effetti di miglioramento immediato sono stati osservati solo in presenza di carico cognitivo durante la soppressione del pensiero (Wang, Hagger e Chatzisarantis, 2020).

L’assenza di un effetto di miglioramento immediato in condizioni di assenza di carico cognitivo indica che quando il sistema intenzionale non è appesantito dal carico, la soppressione del pensiero è solitamente efficace. Tuttavia, l’effetto di miglioramento immediato osservato sotto carico cognitivo suggerisce che quando l’individuo è in stato di preoccupazione non solo fallisce nella soppressione, ma, ironia della sorte, sperimenta una maggiore frequenza di accadimento e accessibilità del pensiero indesiderato (Wang et al., 2020). Come previsto da Wegner, il carico cognitivo sembra essere un catalizzatore per il fallimento intenzionale del sistema e quindi una precondizione per la manifestazione di effetti di miglioramento immediati.

I risultati della meta-analisi di Wang e colleghi suggeriscono che il valore della soppressione del pensiero come strategia di controllo mentale sia contingente ai criteri utilizzati per valutarne l’efficacia (Wang et al., 2020). Prendendo per esempio la variabile tempo, è possibile osservare come a breve termine la soppressione del pensiero sembra essere adattiva se gli individui sono alleggeriti dal carico cognitivo, ma controproducente se è presente un carico elevato. A lungo termine, la soppressione del pensiero sembra, nel complesso, essere un mezzo disadattivo per controllare i pensieri indesiderati, dato che gli individui che si dedicano alla soppressione tendono a sperimentare un livello esacerbato di preoccupazione per il pensiero bersaglio una volta soppresso rispetto a coloro che non lo fanno (Wang et al., 2020). Tuttavia, data la dimensione dell’effetto relativamente piccola del rebound, si potrebbe sostenere che gli effetti insidiosi della soppressione del pensiero potrebbero essere sopravvalutati (Najmi et al., 2009).

Conclusioni

In sintesi, la teoria attuale e l’evidenza empirica suggeriscono che sebbene la soppressione del pensiero possa essere un’efficace strategia di controllo mentale quando gli individui dedicano la loro totale attenzione alla soppressione di un particolare pensiero, ciò è arduo in quanto spesso la nostra attenzione è divisa su stimoli differenti, nonché non vantaggioso, poiché ciò potrebbe accrescere i livelli di preoccupazione. In particolare, quando la ricerca intenzionale di distrattori appesantisce il carico cognitivo, gli individui sono più vulnerabili ai pensieri indesiderati durante la soppressione del pensiero piuttosto che se fossero effettivamente concentrati sullo stesso pensiero.

 

I fumatori e la dissonanza cognitiva

La dipendenza da nicotina causa difficoltà a smettere di fumare. Fumatori che cercano di smettere possono provare ansia, irritabilità, agitazione, cattivo umore, frustrazione, aumento dell’appetito, insonnia.

 

Secondo quanto riportato dal Ministero della Salute i morti in Italia a causa del fumo sono oltre 93.000 all’anno. Per l’Unione Europea si stima un numero di decessi pari a circa 700.000 persone. Per quello che riguarda i dati a livello mondiale, l’OMS ritiene che muoiano, ogni anno, più di 8 milioni di persone.

Gli effetti del fumo

È stato evidenziato che una persona che inizia a fumare a 25 anni e che fuma 20 sigarette al giorno, perde 4,6 anni di vita; si può quindi dire che per ogni settimana di fumo si perde un giorno di vita.

Per 1.000 maschi adulti che fumano, uno morirà di morte violenta, sei a seguito di incidente stradale e 250 a causa del fumo. Oltre alla ben conosciuta correlazione tra fumo e tumori polmonari, il fumo può causare anche tumori del cavo orale, della gola, dell’esofago, del pancreas, del colon, della vescica, della prostata, del rene, del seno e delle ovaie; può inoltre far insorgere alcuni tipi di leucemie.

Il fumo, inoltre, è causa anche di malattie respiratorie non neoplastiche tra cui, ad esempio, la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Può inoltre determinare episodi asmatici e infezioni respiratorie. Un ulteriore rischio è quello cardiovascolare: un fumatore ha un rischio di mortalità per coronaropatia da 3 a 5 volte maggiore rispetto a un non fumatore.

Il fumo può determinare danni alla sessualità maschile. Vi sono poi rischi anche per l’apparato riproduttivo femminile: il fumo può indurre una menopausa precoce anche di due anni. Ciò in quanto il fumo influenza la produzione di ormoni sessuali femminili.

Non sono da sottovalutare anche i danni estetici: gengive bianche, ingiallimento dei denti, invecchiamento della pelle. Il fumo determina inoltre anche un calo delle difese immunitarie contro la placca batterica e aumenta il rischio di gengiviti.

Anche il fumo passivo è dannoso per la salute: in Italia si calcola che ogni anno ci siano circa 1.000 decessi.

Il contenuto delle sigarette

Ogni sigaretta contiene circa 600 ingredienti che, quando bruciano, danno origine a più di 7.000 molecole di varie sostanze. Tra queste ci sono, ad esempio:

  • acetone;
  • acido acetico, corrosivo, può irritare gli occhi e le vie respiratorie;
  • acido cianidrico, una delle sostanze da cui deriva il cianuro. Veniva usato per la produzione dello zyklon B adoperato dai nazisti nelle camere a gas;
  • ammoniaca, gas incolore, dall’odore pungente. In genere è usato come disinfettante;
  • arsenico, metallo pesante tossico. Notoriamente impiegato come veleno;
  • benzene, usato come additivo per gasolio e solventi industriali. È una sostanza cancerogena;
  • butano. È il gas usato negli accendini;
  • metanolo, detto anche alcol metilico. Adoperato come solvente o reagente industriale. È anche utilizzato illecitamente come additivo nel vino. Può essere letale;
  • mercurio. Metallo pesante tossico ed inquinante per l’ambiente;
  • cadmio, viene utilizzato per le batterie. Metallo pesante tossico;
  • nichel, metallo contenuto in molti materiali, ma anche cosmetici ed alimenti. Può causare irritazioni, dermatiti ed allergie;
  • polonio 210. Sostanza radioattiva, è presente nelle sigarette in quanto contenuto nei fertilizzanti usati per le piantagioni di tabacco. Il polonio raggiunge l’apparato bronco-polmonare fissandosi nelle biforcazioni dei bronchi più piccoli.

La dipendenza da nicotina

La nicotina, anch’essa sostanza presente nelle sigarette, causa la dipendenza del fumatore dalla nicotina stessa. Ciò in quanto questa aumenta la secrezione di neurotrasmettitori che regolano l’umore ed il comportamento. Tra questi è inclusa la dopamina, che genera una sensazione di piacere.

La dipendenza da nicotina causa difficoltà a smettere di fumare. Un fumatore che comunque cerca di smettere, può provare ansia, irritabilità, agitazione, cattivo umore, frustrazione, aumento dell’appetito ed insonnia. Le maggiori difficoltà si hanno nei primi quattro giorni; i sintomi tendono comunque ad attenuarsi entro un mese, anche se il malessere può durare per alcuni mesi.

La dissonanza cognitiva

Secondo Leon Festinger (Leon Festinger, 1957) si possono definire come cognizioni o elementi cognitivi “ogni conoscenza, opinione, o credenza che riguardi l’ambiente, la propria persona o il proprio comportamento”. In particolare, si prova dissonanza quando il rapporto tra due elementi cognitivi è incongruente. Ad esempio, se io sono consapevole che fare esercizio fisico è importante per la mia salute, ma non ne faccio, ho un comportamento incoerente. Ciò in quanto la mia consapevolezza sull’importanza dell’esercizio fisico è in contrasto con la mia pigrizia.

Peraltro, come evidenziato sempre da Festinger “l’individuo mira alla coerenza con se stesso”. Ciò significa che, nel momento in cui una persona sperimenta dissonanza, cercherà di ridurre tale dissonanza; gli sforzi saranno poi maggiori quanto più grande è la dissonanza stessa, che dipende dall’importanza degli elementi.

Ma come faccio a ridurre la dissonanza tra due elementi cognitivi? Festinger evidenzia tre azioni possibili:

  • posso cambiare il mio comportamento;
  • posso introdurre un nuovo elemento cognitivo;
  • posso mutare un elemento ambientale.

Peraltro, mentre il cambiamento del comportamento e l’introduzione dell’elemento cognitivo sono, nella maggioranza dei casi, sempre possibili, posso avere difficoltà a mutare l’elemento ambientale.

Tornando all’esempio dell’esercizio fisico, posso quindi cambiare il mio comportamento ed incominciare ad allenarmi. Oppure posso introdurre un nuovo elemento cognitivo, ad esempio convincendomi che non ho tempo per andare in palestra. Di contro, non posso mutare l’elemento ambientale, cioè il fatto che l’attività fisica sia importante.

I fumatori e la riduzione della dissonanza

La teoria della dissonanza cognitiva è stata definita come una delle più importanti e influenti teorie nel campo della psicologia sociale (Julia Kneer, Sabine Clock, Diana Riger, 2012). Ma cosa c’entra con i fumatori? L’analisi della dissonanza cognitiva in questi soggetti, è senza dubbio uno degli esempi più utilizzati da Leon Festinger (Omid Fotuhi, Geoffrey Zong, Mark Zenna, e altri, 2013).

I fumatori, infatti, sperimentano una forte dissonanza. Da una parte sono consapevoli che, fumando, mettono in atto un comportamento dannoso, dall’altra, continuano a fumare; ciò comporta un costo non solo in termini economici, ma soprattutto in termini di salute.

I fumatori sono quindi portati a ridurre la loro dissonanza. Ma quali strategie adottano? Ormai non ci sono più dubbi sul fatto che il fumo sia dannoso per la salute. È stato infatti osservato (Omid Fotuhi, Geoffrey Zong, Mark Zenna, e altri, 2013) che le strategie basate sulla minimizzazione dei rischi sono piuttosto rare: è alquanto difficile che un fumatore tenti di negare i danni causati dal fumo. In linea generale, infatti, i fumatori preferiscono ridurre la dissonanza (e giustificare il loro comportamento) introducendo degli elementi c.d. “funzionali”.

Una ricerca condotta su alcuni fumatori (Daisy Jane Orcullo, Teo Hui San, 2016) ha evidenziato come le “giustificazioni” siano le più varie. C’è quindi chi fuma perché sul luogo di lavoro lo fanno tutti e quindi fumare risulta anche un modo per “sentirsi parte del gruppo”. C’è chi fuma perché lo trova rilassante. C’è chi fuma perché ormai è un’abitudine giornaliera “un po’ come quando ti lavi i denti”. C’è chi fuma perché ha incominciato a fumare con il proprio partner e quindi il fumo “è come un legame” che unisce la coppia.

Il fumo causa problemi di dipendenza fisica, come evidenziato prima, a causa della nicotina. Molto forti sono però anche le giustificazioni razionali (quindi nuovi elementi cognitivi) che ostacolano la cessazione della dannosa abitudine.

È stato suggerito (Sharham Heshmet, 2016) di riflettere, a mente fredda, sull’opportunità di non fumare, soppesando i vantaggi di non fumare (tanti) e i vantaggi derivanti da questa pessima abitudine (nessuno).

È stato inoltre evidenziato (Julia Kneer, Sabine Clock, Diana Riger, 2012), in ogni caso, che le tecniche di comunicazione utilizzate per convincere a smettere di fumare, dovrebbero far leva sulle giustificazioni del fumatore. Quindi, la focalizzazione non dovrebbe avvenire sul rischio per la salute, in quanto questo è conosciuto e accettato dal fumatore. La comunicazione dovrebbe invece concentrarsi sugli elementi cognitivi utilizzati dal fumatore per giustificare il proprio comportamento.

Ad esempio, se un uomo pensa di essere “figo” perché fuma, bisogna fargli capire che essere “figo” non dipende dalla sigaretta.

 

Un concetto base della psicologia sociale: l’anticipazione degli eventi – I Parte

Questo e il prossimo articolo cercheranno di introdurre il lettore poco esperto ai principi teorici della psicologia della predizione.

Ndr – Il presente articolo è il primo di una serie di due articoli sul tema dell’anticipazione degli eventi. Il secondo contributo sarà pubblicato nei prossimi giorni su State of Mind

 

Sono fuori dall’ufficio del professore in attesa di essere ricevuto. Mi è stato dato appuntamento per discutere del progetto per la tesi di laurea. Non sono nervoso, ma non saprei con precisione cosa aspettarmi. I pensieri girano cercando di predire in anticipo quali domande e quali osservazioni saranno fatte al mio lavoro, e sulla base di queste supposizioni inizio a preparare le mie risposte. Penso anche nel frattempo a cosa potrei fare per migliorare il progetto e dove troverò il tempo per farlo, dato che siamo a ridosso dell’estate e, francamente, desidererei stare in spiaggia anziché davanti a un computer in camera.

Ogni giorno le persone spendono gran parte del proprio tempo per pensare, parlare e fare calcoli su cosa le aspetta nel futuro: cosa faranno gli altri, cosa faranno loro stessi, cosa accadrà nel mondo. Anche molte professioni sembrano fondarsi sulla capacità del professionista di leggere le informazioni presenti nell’ambiente, per poi estrapolarne previsioni sul futuro e sostenerne la ragionevolezza di fronte al proprio pubblico: il medico cerca di prevedere il decorso di una malattia, l’operatore di borsa l’evoluzione dei prezzi sui mercati, lo psicologo forense e lo psichiatra la probabilità che l’imputato possa riattuare una condotta deviante. Gli esempi possono essere molti.

La psicologia della predizione cerca di studiare i processi che descrivono adeguatamente la capacità delle persone di crearsi un’idea di ciò che faranno loro stessi, gli altri, e ciò che accadrà nel mondo. Nel complesso questa disciplina dimostra come gli individui raramente possiedono tutta l’informazione necessaria per fare predizioni accurate e, comunque, anche se la possedessero, il risultato sarebbe fortemente influenzato da bias e distorsioni cognitive derivanti da abitudini di pensiero scorrette e dalla mancanza di consapevolezza degli elementi della psicologia individuale che influenzano tali risultati.

Sulla base di queste osservazioni Dunning (2007) fornisce un resoconto teorico che sintetizza i limiti della cognizione umana appena considerati, come anche per fornire indicazioni su come ‘riparare’ (rendere più accurate e valide e, quindi, aderenti alla realtà) le proprie previsioni.

Questo e il prossimo articolo cercheranno di introdurre il lettore poco esperto ai principi teorici della psicologia della previsione, considerando i quali potremmo non solo comprendere i meccanismi tramite cui costruiamo le nostre previsioni sul futuro, ma anche migliorarne l’aderenza alla realtà.

Gli errori nella previsione degli eventi

Sono fondamentalmente due gli errori che le persone fanno quando considerano i risultati attesi in una situazione. Vediamoli uno a uno.

Innanzitutto, tendiamo in diversi modi a crearci previsioni eccessivamente ottimistiche. In primo luogo, tendiamo a sovrastimare la probabilità di esiti positivi e a sottostimare la probabilità di eventi negativi, dando origine a previsioni eccessivamente ottimistiche, soprattutto per le nostre azioni future. Quanto spesso abbiamo iniziato, ad esempio, ad andare in palestra a fare esercizio fisico animati dalle migliori intenzioni, per poi ritrovarci dopo qualche tempo non più così motivati di ritrovare la nostra forma fisica di quando avevamo vent’anni, perché troppo faticoso? Oltre a ciò, sembra che non siamo in grado di stimare adeguatamente neanche il tempo di completamento di un piano d’azione, di una scadenza, di un progetto (planning fallacy; Buehler, Griffin & Ross, 1994). Alzi la mano chi è riuscito a preparare la propria tesi entro i tempi previsti al momento della consegna del progetto in segreteria.

Il secondo errore riguarda poi il dare eccessiva fiducia alle nostre previsioni, siano esse positive o negative. Vediamo, infatti, quella che è una mera sensazione soggettiva di certezza come la garanzia che il mondo e gli altri si conformeranno alla nostra intelligenza acuta, penetrante, infallibile. Leggiamo nel futuro. Nostradamus o megalomani? Pensate a tutte le volte che le cose non vi sono andate come avevate immaginato e giudicate voi. Ma non vi preoccupate, lo facciamo tutti. Persino i professionisti in ambito medico (Oksam, Kingma & Klasen, 2000), psicologico (Oskamp, 1965) e i professionisti coinvolti nella politica internazionale (Tetlock, 2002). Se iniziate ad avere qualche timore vi capisco perfettamente.

In sintesi, sembra quindi che tendiamo a fare previsioni eccessivamente ottimistiche e a darvi eccessiva fiducia.

I principi alla base di una previsione ottimistica

Ma perchè accade questo? La risposta ce la danno alcuni principi che guidano i processi cognitivi responsabili della creazione di queste previsioni (Dunning, 2007).

Il primo principio riguarda la natura delle previsioni stesse. Esse sono scenari che ci costruiamo in base alle informazioni che possediamo sugli eventi, sull’ambiente, sugli altri; scenari che tentano di costruire successioni di eventi plausibili in relazione causale tra loro, per noi dotate di senso.

Più lo scenario che ci costruiamo ci sembra semplice, facile da costruire, plausibile e contenente un gran numero di oggetti, persone o eventi, più esso ci sembrerà probabile che accada (ad esempio Atance & O’Neil, 2001). Se vi sembra troppo meccanicista come risposta, provate a pensare a voce alta quando state cercando di prevedere qualcosa e valutatene questi aspetti (Dougherty, Gettys & Ogden, 1999). Potreste farlo, ad esempio, con la vostra dolce metà, cercando di prevedere se il bello e la bella protagonisti del film che state guardando si troveranno prima o poi in una qualche situazione romantica e tesa e finiranno per mettersi insieme (quasi certamente).

Il secondo principio riguarda la completezza degli scenari, e ci informa che gli scenari che ci costruiamo sono spesso parecchio tendenziosi. Nello specifico, attueremmo uno o più di questi cinque errori (Dunning, 2007):

  • Focalizzarci sugli aspetti astratti senza considerare adeguatamente quelli concreti. Più è astratto uno scenario, più semplice e rapida ne sarà la costruzione, e più valido ci sembrerà il risultato, poiché basato su conoscenza schematica e stereotipata, soprattutto se l’evento è distante nel futuro (Vallacher & Wegner, 2007);
  • Concentrarci eccessivamente sui risultati cui siamo principalmente interessati, trascurando risultati per noi secondari (Redelmeier, Koehler, Liberman & Tversky, 1995); e a non aggiornare le nostre previsioni anche se l’ambiente ci manda informazioni utili a riguardo (Koriat, Lichtenstein & Fischoff, 1980). Spendiamo molto tempo a pensare cosa faremmo se ottenessimo qualcosa (ad esempio ‘verrò quasi certamente promosso, vado in concessionaria a comprare un’auto nuova’), senza pensare a cosa faremmo se non la ottenessimo (‘cosa accadrebbe nel caso non venissi promosso e non guadagnassi di più?’);
  • Concentrarci su elementi ottimistici a scapito di quelli potenzialmente pessimistici, che tendiamo a minimizzare, se non a ignorare, soprattutto per previsioni molto in là nel tempo (Eyal, Liberman, Trope & Walther, 2004). Una volta che l’evento previsto si avvicina sembra invece accadere l’opposto. In questo caso tendiamo invece a far slittare le nostre predizioni ottimiste su una china pessimista, progressivamente diminuendo la nostra stima sulla probabilità che l’evento accada (Gilovich, Kerr & Medvec, 1993). In altre parole, se a inizio semestre penso di prendere trenta al prossimo esame, all’avvicinarsi di questo potrei pensare o che, dopotutto, non è detto che prenda un voto alto (in termini di probabilità), oppure pensare che questo voto non sarà alla mia portata;
  • Un quarto errore, il focalismo (Wilson, Wheatley, Meyers & Gilbert, 2000), si presenta nel momento in cui falliamo nel considerare come il risultato desiderato avrà un impatto sul nostro quotidiano, come anche nel concentrarsi sugli aspetti condivisi da eventi diversi senza considerarne gli aspetti distintivi.
  • Le persone, infine, tendono a essere troppo concentrate sulla forza delle evidenze che usano per creare le proprie previsioni, piuttosto che sul peso delle evidenze stesse (ad esempio, Griffin & Tversky, 1992). In altre parole, tendiamo a mettere insieme ragioni per dare supporto delle nostre previsioni (c’è fumo, quindi c’è fuoco) senza valutare l’affidabilità delle evidenze considerate (c’è del fumo, ma mi trovo in un appartamento in centro, forse è solo l’arrosto che brucia nel forno).

In sintesi, in questo articolo abbiamo visto alcuni dei principali errori che le persone tendono a fare quando si formano una previsione su un futuro scenario, sul proprio comportamento o sul comportamento degli altri. Ciò accade perché le nostre previsioni non sono altro che simulazioni mentali di scenari che reputiamo probabili, sulla base delle informazioni a nostra disposizione.

Nel prossimo articolo vedremo in che modo la costruzione di simulazioni mentali di scenari futuri sia di per sé un procedimento soggetto a incertezza. Vedremo poi gli errori che le persone di solito fanno nel tentativo di stimare l’impatto emotivo che un evento futuro avrà su di sé e, infine, alcuni procedimenti che potremmo utilizzare per tentare di correggere questi limiti intrinseci alla cognizione umana.

 


UN CONCETTO BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ANTICIPAZIONE DEGLI EVENTI – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

Come funziona il nostro cervello?

La neuroeconomia propone l’idea della contabilità mentale, in base alla quale le persone suddividono i budget mentali in specifiche categorie di spesa e acquistano considerando questi diversi budget.

 

Come funziona il nostro cervello? Cognitive style, brain imaging e mental accounting sono solo alcuni dei metodi utilizzati dalla neuroscienza per dare una risposta a questa curiosa domanda.

Il nostro cervello è un organo complesso, spesso al centro di ricerche e studi volti a cogliere e analizzare le sue funzioni. Esistono diverse tecniche che hanno permesso di approfondire l’argomento in questione, tra le più importanti c’è sicuramente il neuroimaging. Esso è composto da specifici strumenti come la fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), in cui l’approccio neuroscientifico indaga l’anatomia del cervello e rileva quali aree vengono attivate durante l’esecuzione di un compito specifico. La fMRI è oggi l’unica tecnologia che permette di osservare, nel modo più preciso, il funzionamento delle aree cerebrali in risposta a determinati stimoli, ancor prima che avvenga l’elaborazione cosciente (Schaefer, 2009).

La neuroeconomia e la teoria della contabilità mentale

Esperti, ricercatori e Nobel provenienti da diverse formazioni educative come psicologi, economisti, neuroscienziati e sociologi, hanno formulato teorie relative al cervello. La neuroeconomia, per esempio, propone l’idea della contabilità mentale, in base alla quale le persone suddividono i budget mentali in specifiche categorie di spesa (ad esempio “cibi”, “hobby”, “casa”, “vestiti”, ecc.) e poi acquistano considerando questi diversi budget (Banerjee et al., 2019). Quindi, il denaro non è considerato un bene fungibile e vengono considerati due nuovi traguardi: la definizione di budget diversi per specifiche categorie di spesa e il monitoraggio delle spese correnti rispetto a budget prestabiliti (Huang et al., 2020).

Questa teoria della contabilità mentale mette in luce il possibile verificarsi di comportamenti economici irrazionali. Inoltre, una volta stabilito un budget per una specifica categoria, il consumatore tenderà a effettuare acquisti relativi ai prodotti con essa più congruenti, definendoli tipici. Da queste considerazioni, gli studi hanno mostrato come le “carte regalo” possono influenzare la mente dei consumatori e modificare le loro preferenze. Chi tende a fare acquisti con una gift card di una marca specifica sarà più propenso ad acquistare prodotti tipici di quella marca (Reinholtz et al., 2015). Nel suo studio del 2015, Reinholtz dimostra come una persona, ricevendo una carta regalo da uno specifico rivenditore, abbia maggiori possibilità di spenderla per uno di quei prodotti di quel marchio, creando un conseguente account mentale che influenza il modo in cui le persone rappresentano mentalmente i potenziali acquisti dal rivenditore emittente. In questo modo, gli acquisti tipici, basati su uno specifico account mentale, diventano maggiormente preferiti verso un determinato brand. Un altro aspetto importante è la capacità del rivenditore di stimare quando le persone acquisteranno con la carta regalo specifica del rivenditore, in modo che il rivenditore sarà in grado di personalizzare l’offerta per quel particolare consumatore.

La neuroeconomia e lo stile cognitivo del consumatore

È importante considerare altri due aspetti fondamentali: il budget assegnato a una specifica categoria di spesa dal consumatore e il suo stile cognitivo. Il primo consiste in acquisti personali, guidati da un budget del consumatore stabilito per quella particolare categoria di spesa, che può implementare il rischio di un sotto o sovra consumo (Huang et al., 2020). Il secondo punto chiave riguarda lo stile cognitivo del consumatore che è un processo cognitivo in grado di influenzare la contabilità mentale e il suo consumatore. Secondo lo studio di Banerjee (2019), lo stile cognitivo può essere suddiviso in analitico e olistico, entrambi soggetti allo specifico background culturale del singolo consumatore. Lo stile olistico, infatti, è prevalente nelle culture orientali e si concentra sull’interrelazione tra oggetti diversi. Quella analitica, invece, è tipica delle culture occidentali ed è caratterizzata dalla focalizzazione sullo specifico oggetto centrale in un contesto determinante, che implica decisioni basate su regole. È molto interessante notare come i due diversi stili cognitivi comportino due diversi processi contabili: uno molto frammentato (per lo stile analitico) e uno completo (per lo stile olistico).

In sintesi, come è stato mostrato in questo articolo, le persone sono caratterizzate da un forte comportamento irrazionale quando prendono decisioni economiche. Pertanto, è fondamentale che i rivenditori studino il loro cervello con un approccio di neuroimaging. Ad esempio, la neuroeconomia può mostrare come il cervello umano reagisce ai marchi e l’impatto che esercitano sul suo comportamento (Schaefer, 2009).

Ci sono tante teorie economiche classiche che sostengono come un essere umano sia un soggetto razionale, e tante altre teorie economiche che sono più focalizzate sul comportamento del consumatore, evidenziando come spesso le decisioni si basino su comportamenti irrazionali e istintivi. La neuroeconomia sembra essere un valido strumento per comprendere il cervello di un consumatore ed essere in grado di soddisfare le esigenze individuali, personalizzando le offerte e segmentando i clienti in cluster specifici. Pertanto, dai profili psicologici e sociali, le aziende hanno la capacità di analizzare il soggetto economico attraverso degli strumenti che sono in costante sviluppo. Questi consentono alle aziende di capire davvero il cliente, offrendo la migliore soluzione personalizzata e su misura per le sue esigenze.

 

Chimica Sociale (2021) di Marissa King – Recensione

Chimica Sociale si compone di dieci capitoli, ciascuno approfondisce aspetti diversi della socialità e adotta diversi punti di vista per una maggiore comprensione dei contenuti riportati.

 

Il libro Chimica Sociale di Marissa King intende analizzare il complesso fenomeno della socialità e delle reti sociali facendo affidamento sia a dati scientifici (provenienti dalla ricerca neuroscientifica, ma soprattutto della psicologia sociale) così come da dati divulgativi, raccolti da storie quotidiane e celebri. Una struttura di questo tipo permette di affrontare un tema complesso quale è la socialità nel modo più semplice possibile, dando al lettore, anche senza particolari conoscenze in ambito sociologico e della psicologia sociale, le basi necessarie per poter comprendere l’intero contenuto. Allo stesso tempo, l’uso di storie realistiche permette al lettore di inserirsi nei contesti sociali che altrimenti verrebbero affrontati solo teoricamente: ciò, chiaramente, consente una comprensione immediata e una lettura leggera, stimolata dallo stile narrativo, dei capitoli.

Come sostenuto nella prefazione, Chimica Sociale interviene in un momento di estrema adeguatezza: a seguito della pandemia Covid-19, l’importanza delle relazioni interpersonali reali (e non solo virtuali) ha manifestato la sua estrema rilevanza nella vita degli individui umani.

Più precisamente, il libro si compone di dieci capitoli, ciascuno dei quali approfondisce aspetti diversi della socialità e adotta diversi punti di vista che possano consentire una maggiore comprensione dei contenuti riportati. Particolarmente interessante è la scelta adottata dalla scrittice, tale per cui all’inizio di ogni capitolo viene riportata una breve narrazione appartenente ad un individuo più o meno celebre: in questo modo, il lettore è trasportato all’interno del contesto sociale che si intende analizzare e, come accennato precedentemente, è più stimolato a proseguire la lettura al fine di comprendere cosa la ricerca ha dimostrato essere alla base di un fenomeno tanto comune e quotidiano.

Il primo capitolo introduce semplicemente la questione delle relazioni sociali e della necessità del creare delle connessioni, facendo innanzitutto riferimento al caso di Vernon Jordan. Viene posta una riflessione relativa a come nelle prime fasi dello sviluppo (ma anche successivamente) le relazioni interpersonali si fondano sulle diadi, che poi successivamente (soprattutto nell’adolescenza) possono essere allargate al fine di formare gruppi dalle dimensioni maggiori. Nel primo capitolo vengono anche introdotti i tre tipi principali di attori sociali, sulla base delle connessioni che essi tendono a formare, ai quali sono dedicati interi capitoli al fine di definirne i vantaggi/svantaggi e le caratteristiche principali (aggregatori, capitolo 3; intermediatori, capitolo 4; espansionisti, capitolo 5). Una riflessione interessante posta nel primo capitolo riguarda la difficoltà del creare nuove connessioni e di quanto spesso le persone considerino il creare dei fili invisibili intenzionalmente come qualcosa di immorale e da cui prendere le distanze.

Il capitolo secondo, invece, approfondisce la definizione di rete sociali, aprendo la discussione attorno alla domanda cos’è un amico. Introducendo come primo fattore distintivo tra amici e conoscenti la quantità di tempo condiviso, la discussione porta poi al considerare come ulteriori fattori determinanti l’intimità, la reciprocità e l’intensità emotiva del rapporto. I rapporti di amicizia forte forniscono sostegno emotivo ed agiscono da fattore di protezione contro la depressione, incrementando i sentimenti positivi e la sensazione di benessere. Tuttavia, non è facile prevedere quando un legame debole genererà valore: la trasformazione di un legame debole in uno forte è in gran parte casuale. Il capitolo secondo contiene anche una riflessione attorno alla legge della prossimità ossia alla tendenza umana all’instaurare rapporti più forti con individui simili a sé, nonché anche sulla forte limitatezza data dal contesto sul range di individui con cui è possibile instaurare un rapporto positivo (effetto della mera esposizione).

Il capitolo sesto contiene alcune riflessioni, tra tutte probabilmente una delle più interessanti è quella relativa alle vecchie connessioni e la loro utilità. Questi vengono spesso definiti dai ricercatori come legami dormienti e spesso gli individui provano forte imbarazzo al provare a rianimarli. Tuttavia, spesso, questi contatti possono fornire informazioni e suggerimenti preziosi in quanto potrebbero contenere punti di vista nuovi non presenti all’interno della propria cerchia (soprattutto se siamo aggregatori).

Anche il capitolo settimo contiene riflessioni di vario tipo come ad esempio le relazioni con gli estranei, l’importanza del contatto visivo, dell’ascolto e del porre domande follow-up per mostrare interesse. Particolarmente interessante è la riflessione attorno al tatto, un senso spesso trascurato anche se estremamente importante nei contesti sociali (basta pensare a quanto imbarazzo tocchi in relazioni ambigue tra amici-conoscenti possono causare).

Il capitolo ottavo è per lo più incentrato sulle relazioni interpersonali in contesti lavorativi, argomento introdotto osservando come spesso in diversi ambienti i dipendenti abbiano paura di esprimere le loro vere opinioni e pensieri per le conseguenze che potrebbero emergere. La riflessione prosegue quindi cercando di delineare le caratteristiche del team perfetto, all’interno del quale i partecipanti si esprimono senza timore dando così grandi opportunità di creatività e innovazione al gruppo stesso. Tra queste emerge come particolarmente rilevante la sicurezza psicologica, un sentimento emergente a livello gruppale e non individuale. Tale sentimento è però estremamente fragile e può essere leso anche da commenti che potrebbero essere considerati sarcastici e non particolarmente maligni. Così come la sicurezza psicologica è estremamente contagiosa, anche la negatività lo è, il che potrebbe portare a difficoltà nel contesto lavorativo, nonché stress e sensazioni negative. Per questo è importante intervenire e far notare come certi commenti possano aver ferito la propria sensibilità: spesso le persone non si rendono neanche conto di quanto le loro affermazioni possano essere percepite negativamente, oppure potrebbero essere state mosse da una condizione stressante e non da avversità personali.

Il capitolo nono contiene un’interessante analisi delle relazioni tra vita personale e lavoro. In particolar modo viene sottolineato come tendenzialmente le persone possano distribuirsi lungo un continuum che va dagli integratori ai segmentatori. I primi sono a loro agio quando i confini tra amicizia, famiglia e lavoro tendono a confondersi, mentre i secondi preferiscono mantenere separati il lavoro e la vita famigliare. Il continuum contiene diverse variabili che riflettono i tipi di reti che l’individuo preferisce mantenere. Inoltre, a determinare le proprie preferenze per la segmentazione o l’integrazione intervengono anche diversi aspetti quali la propria crescita, personalità, genere… Nel capitolo vengono anche esaminate le motivazioni alla base della difficoltà nell’instaurare dei rapporti amicali in contesti lavorativi. Tra queste vengono citati il fatto che non si hanno molte opzioni relative ai propri colleghi e il fatto che il posto di lavoro assume spesso delle caratteristiche transienti, che non si addicono ai rapporti di amicizia.

Il libro si conclude con il capitolo decimo molto più breve rispetto ai capitoli precedenti, ma comunque contenente un interessante riflessione al limite con la filosofia. La domanda principale affrontata, citando direttamente il libro, è: “Che si tratti di amici su Facebook, di un agente di cambio del Massachusetts o di Rick Warren e Yo-Yo Ma, siamo tutti strettamente connessi in qualche modo?”. Il mondo potrebbe essere reso piccolo sia da una rete regolare perfettamente ordinata, sia da una rete assolutamente casuale che non prevede uno schema in grado di determinare legami. Per quanto riguarda il mondo sociale, molto probabilmente questo si colloca a metà del continuum, tra caos e ordine. Precisamente è la combinazione di intermediatori, espansionisti e aggregatori a rendere piccolo il mondo e consentire l’equilibrio tra ordine e caos.

 

Gaslighting: esistono tratti di personalità associati a questa dinamica relazionale manipolatoria?

Numerosi studi hanno indagato l’associazione tra gaslighting e caratteristiche psicologiche degli abusatori e delle vittime, ma non è ancora chiara l’interazione tra esse.

 

Tra le forme di violenza psicologica nella coppia, il gaslighting indica un comportamento manipolativo, spesso difficile da identificare, in cui un individuo (il cosiddetto “gaslighter”), cerca di controllare e alterare le sensazioni, i pensieri, le azioni, le emozioni e persino la percezione di realtà del proprio partner (il “gaslightee”) (Calef & Weinshel, 1981).

Stern, (2007) suggerisce che i partner coinvolti in una relazione di gaslighting tendono a mostrare tratti complementari che strutturano diversi tipi di comportamenti abusanti. Il “glamour” gaslighter esercita il controllo del partner adulandolo e facendolo sentire speciale, difendendosi normalizzando tali comportamenti. Il gaslighter “bravo ragazzo” si impegna a preservare un’immagine positiva di sé, fingendosi interessato al partner, ma soddisfando di base i propri bisogni narcisistici. Infine, i gaslighter “intimidatori” sono apertamente critici e disapprovanti, inducendo sentimenti di disperazione e impotenza nei loro partner.

Le vittime di gaslighting attraversano tipicamente tre fasi: incredulità, difesa e depressione. Nelle fasi iniziali, questa forma di relazione può essere molto insidiosa; nonostante la vittima riesca a preservare il proprio senso di realtà, possono non emergere segni tangibili di abuso emotivo, come insulti o comportamenti di controllo (Stern, 2007). Nelle fasi successive il gaslightee si ritrova sopraffatto dal partner abusante (Stern, 2007).

Numerosi studi hanno indagato l’associazione tra gaslighting e caratteristiche psicologiche degli abusatori e delle vittime (Ehrensaft et al., 2006; Ornduff et al., 2001), ma non è ancora chiaro come i tratti di personalità di gaslighters e gaslightee interagiscano e si completino a vicenda.

Secondo studi precedenti, la violenza nella coppia è associata a tratti di personalità antisociali (White & Widom, 2003), schizoidi (Hamberger et al., 2000), narcisistici (Yang & Mulvey, 2012) e borderline (Holtzworth-Munroe & Meehan, 2004); espressione di tre domini disfunzionali della personalità: il distacco, (ossia una grave mancanza di empatia e difficoltà nel coinvolgimento in relazioni intime); la disinibizione, (ovvero l’incapacità di gestire l’impulsività); infine, l’antagonismo, (cioè la tendenza a denigrare il proprio partner). D’altra parte, il rischio di essere vittima di una relazione disfunzionale correla con tratti di personalità borderline (Gunderson & Sabo, 1993; Ménard & Pincus, 2014) e antisociali (Daigle & Teasdale, 2018), ricondotti al dominio della disinibizione, dell’affettività negativa (ossia l’incapacità di gestire gli affetti negativi) e dello psicoticismo (che può portare all’incapacità di proteggersi).

L’indagine di Miano et al. (2021), ha valutato relazioni di 250 giovani adulti italiani, per indagare domini disfunzionali di personalità dei gaslighter e delle vittime.

Secondo i risultati, aver vissuto un’esperienza di gaslighting non variava in relazione all’età o al genere del partecipante, poiché non sono emerse differenze significative tra uomini e donne.

Alcuni domini di personalità si associavano a determinati comportamenti di gaslighting.

Il distacco correlava al glamour gaslighter, che, sebbene impegnato a controllare il proprio partner attraverso l’adulazione e la gratificazione, si rivela incapace di esprimere un reale affetto. L’adulazione costituisce un tentativo di manipolare l’altra persona (Stern, 2007) e li porta ad essere percepiti come attraenti, mentre instaurano una relazione apparentemente priva di conflitti e incomprensioni.

Al gaslighter “bravo ragazzo”, corrispondeva il dominio della disinibizione ed in particolare la tendenza a ricercare una gratificazione istantanea, che consiste nell’utilizzare la relazione come un mezzo per ottenere ricompense narcisistiche (Stern, 2007).

Contrariamente alle ipotesi, l’antagonismo, caratterizzato da una grave mancanza di abilità interpersonali, non sembrava impattare in nessuna delle tre categorie di gaslighting. Anche l’affettività negativa non correlava direttamente con i comportamenti di gaslighting, sebbene contribuisca negativamente al clima emotivo relazionale.

Inaspettatamente, lo psicoticismo si associava a tutte e tre le categorie di gaslighting. Essendo un tratto caratterizzato da una generale incapacità di adattamento, può portare a comportamenti dannosi nei confronti del proprio partner (Yang & Mulvey, 2012), mentre a lungo termine condiziona la capacità da parte delle vittime di valutare oggettivamente la relazione (Stern, 2007).

Tratti di personalità delle vittime, si associavano a determinati comportamenti di gaslighting.

Soggetti con elevata disinibizione (con impulsività e ricerca di sensazioni) agiscono senza considerare l’esperienza passata o le conseguenze future, cosa che potrebbe indurli a non percepire il comportamento abusivo del partner, vedendo un minimo segno di apprezzamento come un buon motivo per mantenere la relazione. La regolazione emotiva disfunzionale incrementa la probabilità di coinvolgimento in una relazione abusiva (Gunderson & Sabo, 1993; Ménard & Pincus, 2014); e un’elevata ricerca di sensazioni comporta l’incapacità di evitare ambienti interpersonali non sicuri (Stoel et al., 2006).

La presenza di psicoticismo, caratterizzato da comportamenti e pensieri bizzarri, comporta una grave mancanza di mentalizzazione (Lamotte & Murphy, 2017; Moskowitz, 2004) che si associa ad una vulnerabilità alle relazioni abusive (Asen & Fonagy, 2017; Pallini et al., 2017) compromettendo la capacità di identificarle.

Il distacco non era un dominio caratteristico delle vittime di gaslighting, poiché sono gli individui con tratti di personalità dipendenti più a rischio di essere coinvolti in una relazione violenta (Loas et al., 2011).

Anche l’antagonismo dei gaslightee si associava ai comportamenti di gaslighting. Poiché si tratta di un dominio legato alla grandiosità e quindi al bisogno di attenzione, è probabile che le vittime ricevano gratificazione narcisistica dal partner affascinante o che si comporta da “bravo ragazzo”.

Tradizionalmente, i tratti narcisistici si associano alle esperienze di abuso relazionale (Ménard & Pincus, 2014) per cui il bisogno di validazione della vittima verrebbe rispecchiato dalla tendenza del gaslighter ad essere lusinghiero e reattivo (Stern, 2007).

Questa indagine ha rilevato come sia gli uomini che le donne possano essere soggetti al gaslighting e che l’età non ha un impatto significativo. Inoltre, ha cercato di individuare i correlati di personalità dell’abuso prolungato nella relazione di coppia, al fine di individuare i soggetti più a rischio e sviluppare futuri interventi per prevenire efficacemente il loro coinvolgimento in una dinamica abusante (Hines & Saudino, 2008).

 

State of Mind compie 10 anni!

10 anni del nostro web journal State of Mind (SoM). SoM è nato da una idea: dare una informazione sì comprensibile a tutti, non solo agli specialisti, ma anche seria, il meno possibile basata su opinioni arbitrarie e gusti individuali, portando anche documentazione su ciò che si sta affermando.

 

10 anni del nostro web journal State of Mind (SoM). Questo anno è importante perché segna -non soltanto il nostro ventennale come scuola di formazione in psicoterapia ma anche il decennale del nostro webjournal SoM.

SoM è stato importante per tante cose. Vale la pena di fare un po’ di storia.

Nell’autunno del 2010 si parlava molto di giornalismo online. Cominciavano a essere letti e apprezzati tanti giornali online, negli Stati Uniti l’Huffington Post aveva grande successo, in Italia era da poco nato il Post e si stava ragionando sui destini, la funzione e il futuro della informazione attraverso la rete. Si aveva la sensazione di un mondo che rapidamente stava cambiando e che portava tante cose con sé: quale informazione online? Quanto è autorevole? Cosa porta di veramente nuovo un giornale online? Sarebbe diventato mai indipendente economicamente? Aveva senso un giornalismo esclusivamente online?

Insomma, le incertezze di un nuovo mondo. Noi psicoterapisti e psicologi avevamo una specifica insoddisfazione perché l’informazione su argomenti psicologici nei giornali tradizionali era molto carente. Era una continua frustrazione leggere sui giornali tradizionali le rubriche di psicologia e psicoterapia che riportavano le opinioni del tutto personali di alcuni giornalisti o terapisti. Consideravamo l’informazione sul mondo della psicoterapia terribilmente obsoleta, ricca di dichiarazioni basate su gusti personali, con un dominio assoluto di una certa psicoanalisi -non la più aggiornata-, una trascuratezza delle novità che apparivano nel mondo della psicologia e della psicoterapia. Tutto sembrava fermo e inalterato.

SoM, come molte cose della nostra vita, nasce da questa insoddisfazione profonda e porta una idea: dare una informazione comprensibile a tutti, non solo agli specialisti, ma che sia seria, il meno possibile basata su opinioni arbitrarie e gusti individuali e ove possibile portando anche documentazione su ciò che si sta affermando. Come diciamo noi: una bibliografia che si possa consultare. Fu così che, dopo un breve esperimento di qualche mese su un piccolo blog, il 25 ottobre 2011 nasceva State of Mind, il Giornale delle Scienze Psicologiche.

Nel decennale percorso che ci ha portato fino a oggi abbiamo avuto alcune fortune. Abbiamo avuto la disponibilità di Flavio Ponzio che, esperto di comunicazione, ci ha condotti per mano dalla nascita del giornale a oggi e che da allora regge sulle sue spalle il giornale, aiutato da Marina Morgese, Valentina Davi e da alcuni clinici che si sono presi l’incarico di verificare gli articoli che riceviamo in redazione, e da alcuni stagisti che a turno per alcuni periodi ci hanno accompagnato. Una redazione piccolissima che ha fatto e continua a fare miracoli!

Giovanni Ruggiero si è speso come Direttore del giornale con pazienza e aggiungendo la scrittura e la discussione sui problemi che via via si presentavano in SoM alle sue molte cariche e responsabilità all’interno delle scuole di terapia e della nostra piccola Università di psicologia.

Abbiamo fornito in questi 10 anni una quantità significativa di informazioni. Speriamo di avere aiutato a modernizzare questo nostro mondo che aveva bisogno di divenire più scientifico e informato.

Abbiamo partecipato ad alcune campagne di informazione su argomenti generali, come il femminicidio, tentando di mettere in discussione l’interpretazione del raptus come movente principale delle aggressioni alle donne, ma anche su argomenti più attinenti al nostro mondo: l’idea che tutto nel lavoro dello psicoterapista fosse trauma o tutto andasse fatto governando la relazione.

Queste battaglie ci sono costate molto, abbiamo fatto scelte dure, poco di moda e impopolari, e abbiamo discusso e litigato con colleghi, abbiamo imparato molto e insegnato molto, abbiamo perso tantissimo tempo a organizzare il dibattito ma non ce ne pentiamo, ci piace mettere in discussione il mainstream quando si fa pigro e scontato. Abbiamo dato voce a tutti, a tutti quelli che ci scrivevano e che avevano da dire cose che ci sembravano una informazione utile sul nostro mondo, tentando di non essere mai settari!

Siamo diventati economicamente indipendenti come SoM? No, SoM deve la sua vita ogni giorno agli investimenti che le nostre scuole di terapia si prendono sulle spalle per rendergli l’esistenza possibile. La riteniamo una delle imprese più belle, promettenti e importanti che abbiamo fatto in questi anni, uno sforzo che andava fatto a qualsiasi costo e che ci avrebbe ricompensato migliorando le conoscenze di chi è curioso di psicologia e psicoterapia e di chi come noi, in questo mondo vive ed è cresciuto.

Vorrei ringraziare infine i giovani e meno giovani che contribuiscono a rendere bello e unico SoM e anche tutti voi lettori che in questi anni non vi siete mai stancati e non ci avete mai abbandonato.

 

Diamo i numeri!! 10 anni di State of Mind

Il 25 ottobre 2011 andava online la prima versione del sito che sarebbe poi diventato il riferimento in Italia per l’informazione sulla psicologia e la psicoterapia: il punto di approdo per gli utenti che cercano informazioni corrette e puntuali e un luogo di incontro e di confronto per i professionisti della salute mentale.
Una volta ogni dieci anni ci concediamo un po’ di autocelebrazione.

Prima di tutto un ringraziamento ai 3 pilastri che sorreggono questo giornale

  1. I nostri autori, che da 10 anni su base volontaria, per passione, scrivono i contenuti che diventeranno poi gli articoli che leggete.
  2. Il Gruppo Studi Cognitivi, che finanzia State of Mind. SoM nasce come missione culturale: educare alla psicologia in maniera corretta e scientificamente fondata. Facilitare lo scambio di idee e informazioni tra colleghi clinici e ricercatori. E’ un’operazione in perdita: la raccolta pubblicitaria porta un aiuto importante ma non sufficiente. Studi Cognitivi paga di tasca propria per far vivere e prosperare il giornale.
  3. I lettori (si, voi!). Quelli che ogni giorno sempre più numerosi atterrano sulle pagine del nostro giornale partendo da una ricerca sui motori di ricerca, cercando informazioni e chiarezza e -speriamo- trovandole qui. Quelli ci hanno oramai scelto e che tornano ogni giorno o ogni settimana. Che ci seguono sui nostri canali social media e che si sono iscritti alla nostra newsletter. Un’ovvietà che ci teniamo a ribadire: SoM non esisterebbe senza le persone che lo scelgono e lo leggono. E noi non lo dimentichiamo.

Dopo questa doverosa premessa, un po’ di numeri e fatti per raccontare State of Mind:

10370: gli articoli pubblicati ad oggi, organizzati in più di 630 sezioni tematiche. Molte di queste sezioni tematiche sono prime o nei primi 5 risultati di Google per molte parole chiave di ricerca. Questo dato restituisce un’idea dell’autorevolezza e della fiducia che il colosso del web ci ha attribuito dopo anni passati a pubblicare contenuti accurati e verificati da una commissione scientifica.

430 gli autori che negli anni si sono confrontati con la scrittura sulle pagine di State of Mind. Per molti ha significato un semplice passatempo o una passione. Per altri è stato l’inizio di una carriera. I nostri autori sono stati spesso intervistati e cercati dalla stampa generalista, dalle radio e dalle televisioni. State of Mind è da sempre anche una vetrina che permette agli autori di promuovere le proprie professionalità.

71 milioni di pagine viste fino ad oggi. Può sembrare poco se si confrontano questi numeri con quelli di un qualsiasi quotidiano generalista. Ma State of Mind è un giornale di un piccolo settore, è relativamente giovane (nemmeno maggiorenne!). Per una rivista online che parla in massima parte di psicologia e psicoterapia è un risultato veramente notevole.

69.079: le pagine visitate il 15 gennaio 2021, record di sempre per visite giornaliere su State of Mind.

1,577,294 quelle visitate nel Maggio 2020: il nostro mese record, complice anche un lungo lockdown che ci ha costretti a casa, per molti ha significato più tempo libero e più tempo per leggere e informarsi. Purtroppo è stato anche un momento di maggiore ansia, paura e ricerca di aiuto per la propria salute mentale. In tantissimi si sono rivolti a State of Mind per cercare aiuto o informazioni utili.

14,796,375 le pagine viste nel 2020, il nostro anno migliore fino ad ora.

Roberto Lorenzini: l’autore più cercato e visitato su State of Mind. Al cospetto dei miti non servono nemmeno i numeri. Il contributo di Roberto nei dieci anni di SoM è stato semplicemente ineguagliabile. La vera rockstar di State of Mind, ha fatto ridere e commuovere e riflettere e arrabbiare tutti quanti. Nessuno che è entrato in contatto con le parole di Roberto Lorenzini ne è rimasto indifferente. Tantissimi i suoi articoli, sempre brillanti e provocatorie le sue rubriche.
Lorenzini è mancato da poco e ha lasciato -perdonate l’espressione retorica- un vero vuoto nel giornale. SoM paga un grande tributo a Roberto e non ce lo dimenticheremo mai, come credo tutti i lettori che si sono appassionati dei suoi scritti.

La TOP 10 degli articoli più letti:

  1. Il manipolatore perverso: come riconoscere un narcisista maligno
  2. Tachicardia: è sempre ansia? Differenze tra attacchi di panico e patologie cardiache
  3. Lo sviluppo cognitivo secondo la teoria di Piaget – Introduzione alla Psicologia
  4. Un viaggio alla scoperta delle emozioni: la differenza tra quelle primarie e secondarie
  5. Il metodo ABA e l’autismo. Principi, procedure e tecniche di base
  6. L’ Orgasmo Femminile: ma le Donne come Funzionano?
  7. La terapia EMDR: come funziona? un viaggio nella nostra mente
  8. Disturbo ossessivo compulsivo da relazione: quando l’ossessione riguarda i rapporti sentimentali
  9. Il concetto di vuoto e i quadri psicopatologici associati
  10. Le paure nei bambini: quali sono le più frequenti e come gestirle

La TOP 10 delle sezioni più visitate:

  1. Depressione
  2. Ansia e disturbi d’ansia
  3. Empatia
  4. Bullismo
  5. Disturbo bipolare
  6. Disturbi specifici dell’apprendimento
  7. Burnout
  8. Schizofrenia
  9. Stress
  10. Narcisismo 

L’impatto di State of Mind nel panorama italiano

Una delle tante lezioni utili della psicologia cognitiva è quella (perdonate la mia estrema semplificazione) secondo la quale da un determinato fatto si possono trarre tutta una serie di conclusioni. Possiamo provare a osservare con obiettività le cose e provare a capire, guardandole con distacco, in che modo ci è più utile viverle e considerarle.

State of Mind è nato con l’intento di portare qualcosa che mancava: informazione corretta e aggiornata sui temi delle scienze psicologiche e della psicoterapia, in uno scenario, quello italiano, che era particolarmente carente. Ci piace pensare di esserci riusciti e di aver fatto scuola. SoM è arrivato come un sasso buttato in uno stagno, le onde dell’impatto si sono propagate in tutte le direzioni generando quasi sempre effetti positivi. Il giornale ha costretto gli altri siti ad adeguarsi a più alti standard ed ha educato il pubblico a pretendere di più dalle informazioni psicologiche. Questo è guardare al bicchiere mezzo pieno.

Il bicchiere mezzo vuoto è che i nostri articoli e contenuti vengono quotidianamente copiati e plagiati da innumerevoli siti, fortunatamente molto meno rilevanti e autorevoli di State of Mind. Essere copiati dai competitors ci danneggia, certo, ma solo relativamente. Come diceva qualcuno “L’imitazione è la più sincera delle adulazioni”, e d’altro canto il furto più o meno lampante di proprietà intellettuale è un male del nostro tempo: dal più piccolo dei blog che copiaincolla un articolo alle grandi piattaforme social media e di aggregazione di contenuti che sono in guerra con gli editori di mezzo mondo. Lasciamo il bicchiere mezzo vuoto sul tavolo e ignoriamolo, dal momento che rimuginare su questa cosa non servirebbe veramente a niente.

Motivo di orgoglio e soddisfazione: ogni giorno riceviamo segnalazioni dai docenti universitari che ci conoscono o che collaborano con noi di qualche contributo di State of Mind che è finito nei riferimenti bibliografici delle tesi di laurea dei loro allievi. Quasi ogni giorno veniamo contattati da studenti delle università che ci hanno letto e che vorrebbero consigli, aiuti per le loro ricerche -ci piacerebbe rispondere a tutti e aiutarli ma non ne abbiamo purtroppo quasi mai il tempo e le risorse-.

Sempre più spesso veniamo contattati da autori ed editori per l’autorizzazione ad inserire qualche parte di brano dentro libri in prossima uscita o nei libri di testo per le scuole. Qualche mese fa abbiamo dato l’autorizzazione all’utilizzo della homepage di State of Mind per la scena di un film di prossima uscita.
Questo testimonia come -piano piano e in punta di piedi- SoM sia lentamente entrato sia nella cultura alta che nell’immaginario collettivo italiano quando si parla o scrive di psicologia e psicoterapia. Era quello che volevamo fin dall’inizio: dare un contributo e portare un piccolo cambiamento e un click alla volta, con grande fatica, ci stiamo riuscendo.

Non smettete di seguirci e un grazie sincero.

Pensieri ossessivi, rimuginio e ruminazione: la Detached Mindfulness come forma di intervento

Le pratiche di consapevolezza distaccata, o detached mindfulness, suggeriscono un innovativo intervento basato su due elementi essenziali: la presenza mentale e il distacco.

Andrea Coluccia – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Le ossessioni sono pensieri o immagini mentali che sono percepite come molto spiacevoli dalle persone, causando alti livelli di stress.

Quando sono frequenti e accompagnate dai fenomeni di rimuginio e ruminazione, si possono presentare difficoltà psicologiche, come ansia e depressione, con la mente che può vagare tra le preoccupazioni del futuro e i ricordi spiacevoli del passato.

Come disinnescare questo meccanismo e aumentare il proprio benessere attraverso le pratiche di detached mindfulness?

A molti può essere capitato di avere avuto alcuni pensieri ripetitivi o che hanno generato stati d’ansia, in alcuni momenti della propria vita particolarmente stressanti.

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’80% degli individui ne ha fatto esperienza, attraverso contenuti vissuti come indesiderati e riferiti in particolar modo alle relazioni, alla salute e alla sessualità, e che tuttavia non per forza hanno poi avuto un impatto significativo nella propria vita (Caselli, 2016). Se tuttavia i pensieri tendono ad essere ossessivi, a manifestarsi cioè con una certa frequenza, e ad essi si accompagnano i fenomeni di rimuginio e ruminazione, possono comparire stati di ansia e di depressione.

Le pratiche di consapevolezza distaccata, o detached mindfulness, suggeriscono un innovativo intervento basato su due elementi essenziali: la presenza mentale e il distacco. Se con presenza mentale si fa riferimento all’essere consapevoli della presenza di un pensiero o di una convinzione, con distacco si fa riferimento alla sospensione del giudizio dai propri pensieri, ampliando il ventaglio di risposte possibili delle proprie emozioni, con i pensieri che sono vissuti, così, attraverso un’altra lente e sentiti nella maggior parte dei casi come meno angoscianti. In questo modo, anche un pensiero automatico negativo (PAN), che compare all’improvviso creando stati di ansia e preoccupazione, viene vissuto come meno spiacevole, causando minori stati di stress e di agitazione.

I pensieri automatici e i pensieri ossessivi

Si immagini che, immersi in un’attività importante, squilli il cellulare e che sia appena arrivato un messaggio. Quale può essere la prima reazione? Guardare subito il cellulare o rimandare la lettura ad attività conclusa? Restare lì con il pensiero di quale può essere il contenuto del messaggio o rimanere immersi nell’attività? I pensieri automatici (PAN) sono fenomeni cognitivi che, proprio come un messaggio, compaiono all’improvviso e interrompono un’attività. Sono associati a emozioni spiacevoli e sono particolarmente comuni: circa l’80% degli individui ne ha fatto esperienza più volte, con contenuti vissuti come indesiderati. Questi pensieri possono emergere all’improvviso e in modo involontario mentre si è immersi in un’attività, sotto forma di autovalutazioni negative di sé (“non sono capace”), oppure giudizi generalizzati sul proprio presente e sul futuro. Quando non sono messi in discussione ed emergono regolarmente si instaura quello che è il pensiero ripetitivo. Possono allora presentarsi stati di tristezza e di ansia, creando una distorsione negativa della percezione di sé stessi e dell’ambiente circostante (Beck, 1989).

Esperienza simile è rappresentata proprio dalle ossessioni. Queste ultime appaiono alla mente come dei fotogrammi. Sono immagini mentali percepite come sgradevoli dalla persona, sono difficili da ignorare e causano alti livelli di ansia (APA, 2013).

La differenza tra PAN e pensieri ossessivi risiede principalmente nella frequenza di comparsa e nella valutazione di questi pensieri, giudicati come pericolosi e inaccettabili. Entrambi questi fenomeni, tuttavia, sono fortemente orientati al futuro o al passato, creano preoccupazione, e il focus viene raramente puntato sul presente.

Questo si verifica anche, ad esempio, nel caso dei traumi. Studi che hanno approfondito questo tema hanno messo in luce come le persone che hanno avuto un trauma tendono a presentare maggiormente pensieri ossessivi, che possono comparire con forte intensità e ripetitività, influenzando fortemente il presente e facendo sì che ci sia una difficoltà a discriminare tra il passato, il presente e il futuro.

Così come in questi casi, anche le persone con forti stati di tristezza e ansia, tendono ad avere diversi pensieri automatici al giorno, con la comparsa di pensieri ossessivi che possono causare talora anche disturbi ossessivo – compulsivi.

Come prima conseguenza, la comparsa di questi pensieri può causare una costante impossibilità ad agire e ad attuare un cambiamento sul qui e ora, in particolar modo se sono presenti anche i fenomeni rimuginio e ruminazione.

Il rimuginio e la ruminazione

A quasi tutti involontariamente è capitato di rimuginare: in vista di una scadenza importante, per un lavoro urgente, per un incontro con una persona o per un’esibizione importante.

Il rimuginio, d’altra parte, altro non è che una forte preoccupazione riferita al futuro e in molti la sperimentano, a volte anche in modo automatico durante le giornate. In “piccole dosi” può essere funzionale al raggiungimento di un obiettivo. Tuttavia, se è frequente e si accompagna a pensieri di tipo ossessivo tende a essere una delle caratteristiche principali dei disturbi d’ansia. Il rimuginio, in questi casi, implica una preoccupazione costante, particolarmente intensa e sempre orientata a un futuro in cui tutto può risultare imprevedibile, con la sensazione che stia sempre per accadere il peggio. In questa prospettiva infatti, il rimuginio è strettamente correlato all’ansia anticipatoria, e si contraddistingue per essere uno stile di pensiero orientato costantemente a un tema di minaccia del proprio futuro, in cui tutto sembra essere incerto (Borkovec, Stober, 1998).

Il rimuginio inoltre, in quanto attività anticipatoria, restringe l’attenzione solo attorno ai potenziali problemi futuri, ben prima che si possano realizzare, raramente intorno alle possibilità positive, difficilmente verso scenari di successo. Nelle persone con ansia il rimuginio permane nel tempo e diventa lo stile preferenziale di lettura delle situazioni, andando a creare uno stato costante di allerta, in una ricerca continua delle possibili minacce. Tutto questo fa sì che la mente sia sempre, o quasi, rivolta al domani, piuttosto che all’oggi. Così, può capitare che le persone inizino a rimuginare e continuino in questo processo di pensiero senza accorgersene, senza esserne consapevoli, rimanendo intrappolate in un loop di pensieri spiacevoli che possono perdurare per diverso tempo. In questa prospettiva lo sguardo è sempre diretto avanti più di quanto ce ne sia realmente bisogno e quello che conta nel presente rischia di essere lasciato indietro.

La ruminazione invece rappresenta un pensiero che affonda le proprie radici nel passato ed è fortemente orientata a quello che è stato. Chi tende a ruminare particolarmente, infatti, richiama spesso alla mente ricordi spiacevoli e si focalizza sull’impatto che hanno avuto e sulle conseguenze che hanno portato (Smith, 2009). Chi rumina spesso, peraltro, è portato a pensare che gli eventi negativi del passato non solo abbiano portato a conseguenze negative nel proprio presente, ma che ne porteranno, anche, altrettante nel futuro. È quindi un pensiero negativo circolare, che porta la mente ad essere ingabbiata negli eventi trascorsi. Esempi di ruminazione sono: «Perché è successo a me?»; «Perché in quell’occasione non ho reagito?»; «Perché non sono riuscito a dare un senso a quello che mi è successo?». Se questo pensiero si ripete in modo continuo può portare a stati di forte tristezza, generando quello che tende poi a diventare un umore depresso.

Quindi, se il rimuginio si focalizza soprattutto sul futuro e si attiva attraverso una catena di pensieri con cui una persona contempla una gamma di eventi minacciosi, la ruminazione si focalizza prevalentemente sul passato, attraverso una serie di ricordi, pensieri e immagini che appaiono nella mente come fotogrammi e che amplifica e mantiene stati di tristezza. Sia il rimuginio sia la ruminazione fanno sì che una persona faccia fatica a dedicarsi ad altre attività, in quanto la propria mente è sempre impegnata, sempre turbata, e non si riesca a focalizzare sul presente.

La mindfulness e la detached mindfulness

La mindfulness è un particolare modo di porre l’attenzione ai propri pensieri e rappresenta una chiara antitesi a molti dei fenomeni ossessivi e, in tal senso, anche al rimuginio e alla ruminazione (Didonna F., 2008). I training di mindfulness costituiscono un intervento privilegiato anti – rimuginio e anti – ruminazione, poiché addestrano le persone, soprattutto se presentano forti stati d’ansia e di tristezza, a spostarsi dalla “modalità del fare” alla “modalità dell’essere” (Segal e colleghi, 2002), anteponendo le attività che si stanno conducendo ai pensieri automatici orientati al futuro o al passato. Così, ogni qual volta la mente tenda a vagare (mind-wandering) verso pensieri, emozioni, suoni, che non rappresentano il “qui e ora”, la persona si attiva in modo gentile ma deciso, per riportare la consapevolezza al focus originario dell’attenzione e tornare al centro del suo vissuto. Alla base degli interventi di mindfulness vi è il principio dell’accettazione. In alcuni casi può essere complesso riuscire ad arginare i pensieri automatici negativi o i pensieri ossessivi, senza focalizzarsi troppo su di essi o senza rimuginare sulle conseguenze temute. Talvolta, ancora, può essere complesso accettare alcuni eventi trascorsi che hanno lasciato delle cicatrici emotive. Il principio di base di questo genere di pratiche, tuttavia, (e il punto di forza), fa sì non che vi sia mai un coinvolgimento eccessivo su questo genere di pensieri. L’accettazione è anche un punto di partenza: la persona ha modo di costruire, grazie a queste pratiche, “un processo continuo attraverso cui esce da una prospettiva in cui vede i pensieri e le emozioni come realtà o cose che necessitano di esser cambiate e inizia ad accoglierli come eventi interni che non hanno bisogni di alcuna modifica, evitando sforzi per cambiare la loro frequenza o forma, specialmente quando questi possono avere un impatto negativo sulle sue emozioni” (Hayes, 2009).

In modo parallelo a questo approccio, e sempre in contrasto ai processi di rimuginio e ruminazione, si può inoltre sperimentare un tipo di esperienza chiamata “detached mindfulness” – in italiano consapevolezza distaccata – dove il termine “mindfulness” si riferisce, in questo caso, all’essere consapevoli dei propri pensieri come eventi mentali verso cui è possibile dirigere l’attenzione flessibilmente senza rimanerne intrappolati, mentre “detached” indica l’astenersi dal reagire o dal valutare quel pensiero, prendendone – se necessario – le distanze. La consapevolezza distaccata condivide alcuni aspetti con le forme di mindfulness ma a differenza di questo approccio si focalizza sul distacco costante dal contenuto dei propri pensieri. La persona che adotta questo approccio si pone nelle vesti di “osservatore distaccato” dei propri pensieri e delle emozioni che prova in quel momento. Adrian Wells (2008) propose diverse pratiche che promuovono un modo nuovo e diverso di vivere i propri pensieri, consentendo la rimozione degli stili di pensiero inadeguati, come rimuginio e ruminazione, alla base dei disturbi d’ansia e di depressione. In questo modo, secondo Wells, il focus non viene mai diretto al contenuto dei propri pensieri, e su di essi non viene mai apposto alcun giudizio, bloccando sul nascere ogni tipologia di pensiero ruminativo e ossessivo. Una pratica che va di pari passo è il rinvio del rimuginio, attraverso cui una persona, anziché farsi assorbire da una preoccupazione che può generare ansia, si riesce invece a dire: «Posso rimandare questo pensiero. Lo lascerò stare, per ora e me ne occuperò più tardi». Il pensiero può anche rimanere presente in sottofondo, ma la persona così facendo decide di non reagire, in quel preciso momento, non rimuginando come altrimenti potrebbe fare. Esattamente nel caso in cui decidesse di non leggere subito il contenuto di un messaggio appena arrivato. Così, inoltre, si può avere la sensazione di aver comunque dato una risposta al proprio pensiero, ma senza averci dedicato una grande quantità di tempo e senza essere rimasti intrappolati nella spirale dello stress e dell’ansia (Wells, 1997). Il rinvio del rimuginio viene abitualmente utilizzato anche in terapia insieme alla detached mindfulness. Se il paziente inizia a rimuginare su un contenuto, in seduta, il terapeuta concorda con lui la possibilità di abbandonare quel contenuto per un po’, rimandando il tema ossessivo per poi riprenderlo più tardi e abbandonandosi così al presente e alle attività in corso (Wells, 2008). Il terapeuta, ad esempio, può suggerire al paziente di considerare questi pensieri come delle registrazioni audio, con la possibilità di ascoltarle quando vuole, anche subito, ma rimandando la risposta in un altro momento. Proprio come quando squilla il telefono e si decide di non rispondere subito o come quando non si ascolta il rumore di una radio in sottofondo, perché impegnati in altre attività (Sassaroli, 2017): quello che conta è il presente.

La resilienza: un piegarsi senza spezzarsi

La resilienza è così sinonimo di chi, anche di fronte alle situazioni stressanti della vita, non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità (Trabucchi P., 2019).

 

Di fronte alla sofferenza l’uomo ha sempre cercato, e continuerà a farlo, di trovare modi, siano essi magici o razionali, in grado di ridurre la probabilità che un processo morboso si manifesti (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Nella mitologia greca e poi nella mitologia romana, Igea e Panacea, figlie di Esculapio, Dio della medicina, incarnavano simbolicamente la prevenzione e la cura. Pensare, quindi, che la prevenzione sia un concetto tipico dell’età moderna è un errore. Tuttavia, la sistematizzazione delle conoscenze a riguardo ha avuto bisogno di molto altro tempo e forse tutt’oggi siamo ancora lontani da una chiarezza concettuale e da una sistematicità operativa (Ammaniti M., 2006).

Le origini del termine resilienza

Fino a qualche tempo fa, il termine resilienza era utilizzato solo per designare la proprietà fisica di un materiale, indicando così l’attitudine di un corpo a riacquistare la propria forma iniziale dopo aver subito una deformazione causata da un impatto (Castelletti P., 2006). La resilienza è, quindi, la capacità dei materiali di resistere ad urti improvvisi e di sopportare sforzi applicati bruscamente senza spezzarsi e senza riportare incrinature (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Conoscere la resilienza di un materiale è fondamentale perché consente di prevedere il suo comportamento qualora fosse sottoposto a forti sollecitazioni. Riportando tale concetto nell’ambito della psicologia, potremmo dunque pensare che la resilienza sia una qualità che una persona possiede oppure non possiede. Eppure, a differenza dei materiali, l’uomo possiede una caratteristica in più: è capace di apprendere (Trabucchi P., 2019).

Per questo motivo, c’è chi preferisce ricollegare il concetto di resilienza al suo significato etimologico, facendo così riferimento al verbo latino “resalio” (saltare, rimbalzare per indicare il movimento repentino di risalita in barca). Infatti, nell’antichità veniva utilizzato questo verbo per indicare coloro che, durante una tempesta quando la barca si era rovesciata, lottavano strenuamente per risalirvi sopra. La resilienza è così sinonimo di chi, anche di fronte alle situazioni stressanti della vita, non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità (Trabucchi P., 2019).

Le caratteristiche delle persone resilienti

Come osserva la psicologa e professoressa universitaria, Marie Anaut, essere resiliente non significa essere invincibili. Le persone resilienti non sono immuni alla sofferenza, non ignorano l’esperienza dolorosa, ma riescono ad apprendere da essa. Secondo l’Anaut, è più corretto paragonare la persona resiliente ad un Batman piuttosto che ad un Superman, ossia ad un eroe che possiede molte qualità ma non è dotato di super poteri. Così la persona resiliente può restare ferita, ma riesce ad andare oltre questa ferita per affrontare con coraggio e competenza la propria vita (Anaut M., 2003).

Dunque, affinché si possa parlare di resilienza sono fondamentali due condizioni: l’incontro con circostanze altamente stressanti, da un lato, e l’evoluzione soddisfacente in termini di adattamento psicosociale e di benessere soggettivo, dall’altro (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Non bisogna quindi pensare che la resilienza sia l’equivalente della “resistenza”; si potrebbe anche dire che essa ne rappresenta l’opposto, cioè una “non resistenza” funzionale alla sopravvivenza, “un piegarsi senza spezzarsi” (Castelletti P., 2006). Essere una persona resiliente non significa impedire nella nostra vita la presenza di preoccupazioni, dolori o paure; al contrario, essere resilienti significa accettare i carichi e le difficoltà come parte integrante della vita e avere la certezza di poter uscire più forti di prima dalle crisi, avendole vissute ed avendo appreso da esse (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Non è difficile riconoscere un individuo resiliente, poiché egli presenta sempre una serie di caratteristiche inconfondibili: è un ottimista, riconosce gli eventi negativi come momentanei e circoscritti, è fortemente motivato a raggiungere i suoi obiettivi e tende a vedere i cambiamenti come un’opportunità (Centro di Ascolto Psicologico, 2017).

Ad utilizzare il termine di resilienza per la prima volta è stata la psicologa americana Emmy Werner: nel corso di una ricerca longitudinale sui bambini delle isole Hawaii, non scolarizzati, senza famiglia e abbandonati alla violenza e alle malattie, constatò che a 30 anni ben il 30% di loro era alfabetizzato, lavorava e aveva creato una famiglia. La Werner aveva incentrato per la prima volta la sua ricerca su quei soggetti piegati dalle avverse condizioni socioeconomiche e bisognosi di aiuto: studiò le modalità con le quali un bambino su tre era riuscito, nonostante tutto, a trovare una forma adeguata di adattamento e a vivere una vita serena (Werner E. E., Smith R. S., 1989). Gli psicologi americani hanno così adottato negli anni ‘90 il termine resiliency per descrivere la capacità dei bambini di resistere a stress anche molto acuti (Castelletti P., 2006).

I fattori di rischio e di protezione della resilienza

Tutt’oggi è attivo e irrisolto un dibattito relativo alla formulazione di una definizione condivisa dei fattori di rischio e di protezione e ad una coerente differenziazione tra tali variabili (Prati G., Pietrantoni L., 2006). Gli individui resilienti riescono a trovare in loro stessi, nelle relazioni e nei contesti di vita quegli elementi di forza per superare le avversità, definiti anche fattori di protezione, che si contrappongono ai fattori di rischio, cioè tutto ciò che diminuisce la capacità della persona stessa di sopportare il dolore (Becciu M., Colasanti A.R., 2016).

Coie e colleghi raggruppano i fattori di rischio in 7 classi (Coie J.D. et all, 1993, p. 114):

  • Circostanze familiari: classe sociale bassa, conflitto familiare, malattia mentale in famiglia, famiglia molto numerosa, scarso legame con i genitori, disorganizzazione familiare, comunicazione disturbata;
  • Difficoltà emozionali: esperienze di abuso nell’infanzia, apatia, chiusura, immaturità emozionale, eventi di vita stressanti, bassa autostima, scarso controllo emotivo;
  • Problemi scolastici: insuccesso, demoralizzazione scolastica;
  • Problemi interpersonali: rifiuto dei pari, alienazione e isolamento;
  • Contesto ecologico: disorganizzazione sociale, ingiustizie razziali, disoccupazione, povertà estrema;
  • Handicap costituzionali: complicazioni perinatali, disabilità sensoriali, handicap organici, disfunzioni di natura innata;
  • Ritardi nello sviluppo di abilità: intelligenza sotto la norma, incompetenza sociale, deficit attentivi, disabilità di lettura, scarse abilità e attitudini al lavoro

I fattori protettivi, invece, hanno un ruolo fondamentale nel contrastare gli effetti negativi delle circostanze di vita avverse, potenziando così la resilienza dell’individuo (Trabucchi P., 2019). Differenti ricerche hanno indicato l’esistenza di tre macroaree di fattori protettivi: le caratteristiche individuali, l’ambiente famigliare e il contesto sociale allargato (Werner E., Smith R.S., 1992). Relativamente alle caratteristiche individuali, tra i fattori di protezione è possibile distinguere l’autonomia, il senso di fiducia personale, l’apertura alle relazioni sociali, la capacità di risolvere i problemi e prendere decisioni, il porsi degli obiettivi ed essere in grado di raggiungerli. Inoltre, affinché una persona diventi resiliente, è necessario che nella propria storia di vita abbia una figura di riferimento positiva sia dentro che fuori dalla famiglia, abbia la possibilità di fare delle esperienze che aumentino la propria autostima e autoefficacia. Una comunità competente, infine, riesce ad effettuare degli interventi di promozione del benessere favorendo la coesione sociale, la partecipazione e la solidarietà (Losel F., 1994). Altri importanti fattori protettivi sono l’ottimismo, l’autostima, la robustezza psicologica (hardiness) e le emozioni positive (Cantoni F., 2014).

Pertanto, è importante ricordare che la resilienza è dinamica, frutto dell’interazione individuo e ambiente ed è sia individuale che sistemica; ne consegue che è più adeguato riferirsi ad essa come ad un processo piuttosto che ad un concetto (Becciu M., Colasanti A.R., 2016). E solo imparando a conoscerla meglio potremo riconoscerla in ognuno di noi stessi e potenziarla.

 

“Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali” (2020) a cura di Perdighe e Gragnani – Recensione

Psicoterapia cognitiva rappresenta un ricchissimo e dettagliato contributo dell’approccio psicoterapeutico ad indirizzo cognitivo comportamentale nel trattamento e nella presa in carico dei disturbi mentali.

 

Mutuando e parafrasando la prefazione, il volume può essere consultato per cercare di rispondere a due domande essenziali nella pratica clinica: come nasce e come la pensa una persona?

Metaforicamente parlando, infatti, una psicopatologia non nasce mai da sola: nasce sempre inserita in un contesto preciso, in un’epoca storica e in una famiglia, oltre che nella mente di un singolo individuo. E infine, per poterla “gestire” è essenziale, in particolar modo per questa tipologia di approccio clinico, capire quali sono i pensieri ad essa sottesi, ossia i meccanismi di funzionamento mentale che generano e perpetuano la sofferenza.

Il manuale segue la classificazione dei disturbi riportata dal DMS 5, con l’obiettivo di mantenere una linea di comunicazione e una cornice di comprensione della patologia “universalmente riconosciuta”.

Questo rende i diversi capitoli anche fruibili come componenti a sé stanti, parti di un unico corpo che possono funzionare in autonomia perché guidati e sorretti dai medesimi principi.

Nonostante il volume sottolinei l’importanza delle prove di efficacia per ogni singolo disturbo (ossia, quale approccio terapeutico ha i risultati migliori per quello specifico disturbo?), allo stesso tempo viene sottolineato come una relazione terapeutica efficace travalichi lo specifico approccio.

La relazione che si costruisce insieme al paziente e la capacità del terapeuta di infondere fiducia e di poter lavorare con creatività, adattando se stesso e le proprie “tecniche” alla persona che si ha davanti, sembrano “valere” più di una singola tecnica applicata “alla perfezione”.

L’approccio cognitivo comportamentale illustrato nel testo ritiene fondamentale un’accurata formulazione del caso, così da poter rintracciare i processi psicologici che generano e mantengono la sofferenza, non consentendo al paziente di evolvere e cambiare.

Altro punto focale è la concezione della psicopatologia come sofferenza emotiva, cioè “emozioni dolorose qualitativamente appropriate ma di intensità e durata esagerate”.

Infine, la Teoria della Mente (Theory of Mind) rappresenta un altro caposaldo che fa da cornice al volume, sostenendo che i costrutti di scopo e rappresentazione sono strumenti indispensabili per comprendere le emozioni, i pensieri e le condotte delle persone (e, di conseguenza, di coloro che nel continuum “normalità” vs patologia, si collocano verso quest’ultima).

Il testo è scritto in un linguaggio preciso, tecnico ma fruibile anche da chi è agli inizi della propria pratica clinica o sta iniziando a conoscere il congitivismo di Beck, la Schema Focused Therapy e il costruttivismo di Kelly (tutti e tre capisaldi auto-dichiarati del volume).

Il manuale non tratta semplicemente di psicopatologia, ma nella sua estensione, parte da una disanima critica del disagio emotivo (comprenderlo prima che curarlo), per poi illustrare alcune tecniche che producono il cambiamento (seguendo sempre la cornice teorica di riferimento e di partenza, chiaramente), per poi dettagliare ogni disturbo (seguendo, come anticipato, la struttura del DSM 5) e “illustrandolo” con brevi vignette cliniche.

La lettura è scorrevole, piacevole e chiara, oltre che ricca di bibliografia a cui attingere qualora si volesse approfondire uno o più aspetti trattati al suo interno.

Come ogni manuale, ogni lettura e rilettura consente di scoprire o approfondire qualcosa di nuovo, ma i primi capitoli possono anche essere “vissuti” e sentiti come un’interessante approfondimento o introduzione (a seconda dei casi) dell’approccio cognitivo – comportamentale.

 

“Guardare, ma non toccare”: gli effetti della capacità di autoregolazione sul rischio di infedeltà

L’infedeltà può determinare conseguenze dannose sia per coloro i quali compiono atti infedeli (Foster & Misra, 2013), sia per i loro partner (Charny & Parnass, 1995).

 

Non sorprende che il tradimento sia il predittore più comune della fine di una relazione (Amato & Previti, 2003). Dunque, il sentirsi attratti da altre persone potrebbe rappresentare un campanello d’allarme per coloro i quali possiedono una relazione sentimentale stabile. Ma è realmente così?

Il legame tra l’infedeltà e l’attenzione rivolta ad altri

Secondo alcuni autori evitare di guardare alternative desiderabili riduce la tentazione e, di conseguenza, la probabilità di tradire (Maner, Gailliot, & Miller, 2009).

Una cosa però è certa: le persone attraenti sono difficili da ignorare e, dal momento in cui si è evinto che le persone sono più propense a perseguire cose desiderabili – come il cibo delizioso – dopo aver dedicato loro attenzione (Harris, Bargh, & Brownell, 2009), è stato sostenuto che, guardare soggetti attraenti, motivi le persone a perseguire rapporti con loro (Buss, 2016).

Diverse teorie relazionali sostengono che le persone impegnate in relazioni stabili dovrebbero dunque essere motivate ad evitare di prestare attenzione ad altri. Per esempio, Kenrick, Li e Butner (2003) sottolineano il valore adattativo del mantenimento di relazioni a lungo termine, al fine di assicurare la sopravvivenza della prole e, dunque, suggeriscono che gli esseri umani abbiano sviluppato bias, come ignorare i partner alternativi attraenti, per proteggere le loro relazioni primarie.

Il legame tra l’infedeltà e l’autoregolazione

Numerose ricerche concordano con l’idea che le persone prestino meno attenzione agli altri, a seconda della qualità della loro relazione sentimentale (Birnbaum et al., 2019; Maner et al., 2009). Tuttavia, solo uno studio ha esaminato se tale attenzione aumenti effettivamente il rischio di infedeltà. In particolare, McNulty e colleghi (2018) hanno condotto due studi longitudinali su coppie appena sposate ed hanno dimostrato che il prestar meno attenzione ad alternative attraenti diminuiva la probabilità che i partecipanti mostrassero il desiderio di avere rapporti sessuali con qualcuno che non fosse il loro coniuge. Tuttavia, il fatto che guardare altri soggetti affascinanti conduca all’infedeltà dovrebbe dipendere dalla capacità di resistere a tali tentazioni. In particolare, prestare attenzione agli altri dovrebbe aumentare il rischio di infedeltà solo quando le persone non possiedono la capacità di autoregolazione, ovvero la capacità di resistere agli impulsi inizialmente soddisfacenti che ostacolano gli obiettivi a lungo termine (Carver & Scheier, 2004). La capacità di autoregolazione è influenzata sia da fattori disposizionali che situazionali. In particolare, sebbene le differenze individuali nell’autocontrollo siano in qualche modo stabili nel tempo (Hay & Forrest, 2006), la capacità di autoregolazione può anche essere temporaneamente compromessa, ad esempio quando le persone sono malate o stressate (Hagger et al., 2010).

Quindi, la capacità di autoregolazione dovrebbe far sì che i soggetti resistano alle tentazioni, nonostante essi siano attratti da persone differenti dal proprio partner ma, attualmente, ciò non è ancora stato verificato.

Due studi presi in esame si sono posti l’obiettivo di dimostrare se le persone in relazioni stabili abbiano maggiori probabilità di attuare comportamenti infedeli, come risultato dell’attenzione iniziale designata ad alternative attraenti. Nello specifico, gli autori hanno ipotizzato che ciò sarebbe avvenuto solo tra coloro i quali manifestano difficoltà nel resistere a tali tentazioni. Di contro, hanno supposto che prestare attenzione alle alternative attraenti non avrebbe aumentato il rischio di infedeltà tra coloro i quali possiedono una maggiore capacità di autoregolazione.

Gli studi analizzati hanno dimostrato come la relazione tra l’infedeltà e l’attenzione dedicata a soggetti attraenti differenti dal proprio partner, dipenda per lo più dalla capacità di autoregolazione dei singoli. In particolare, l’attenzione rivolta verso alternative attraenti era associata ad un maggior interesse verso soggetti differenti, ad una maggiore probabilità di iscrizione su siti di incontri progettati ad hoc per promuovere l’infedeltà e ad un’infedeltà effettiva, ma solo per coloro i quali possedevano un basso livello di autocontrollo disposizionale. Al contrario, per i partecipanti con una maggiore capacità di autoregolazione, l’attenzione rivolta ad alternative attraenti non era associata a questi risultati. Così, la tendenza ad osservare soggetti attraenti comportava un maggior rischio di infedeltà, o di comportamenti che contribuiscono al tradimento, solo quando le persone non possedevano la capacità di resistere a tali tentazioni.

Conclusioni

Questi risultati comportano implicazioni teoriche e pratiche rilevanti. In primo luogo, il presente studio è tra i primi a mostrare le conseguenze comportamentali determinate dalla presenza di alternative attraenti. Dal momento in cui le persone impegnate evitano i soggetti affascinanti (Miller, 1997), è stato a lungo postulato (Rusbult et al., 2004) che evitare le suddette alternative sia un meccanismo con cui le persone possono mantenere le loro relazioni. Il lavoro appena presentato, invece, mette in luce come ciò dipenda dalla capacità di autoregolazione situazionale e disposizionale dei singoli.

In secondo luogo, la ricerca sfida l’idea che prestare attenzione alle alternative sia sempre dannoso per le relazioni (Maner et al., 2009). Difatti, se la capacità di autoregolazione viene mantenuta, l’impulso di prestare attenzione ad alternative seducenti non deve necessariamente essere soffocato. Infatti, evitare deliberatamente di guardare gli altri potrebbe anche sortire l’effetto opposto, aumentando il rischio di infedeltà (DeWall et al., 2011).

Infine, questi studi comportano implicazioni preliminari per i professionisti che aiutano le coppie a prevenire l’infedeltà. Ad esempio, dato che le persone hanno diverse aspettative e credenze sulle relazioni (Snyder, Baucom, & Gordon, 2008), le coppie potrebbero beneficiare di una discussione esplicita su ciò che sia o meno accettabile all’interno della loro relazione, come guardare e/o perseguire delle alternative. Oltre a ridurre il conflitto su credenze divergenti, questa disputa potrebbe anche prevenire l’infedeltà, dal momento in cui le persone possiedono maggiori probabilità di raggiungere i loro obiettivi quando questi ultimi vengono esplicitati (Locke, 1996). Allo stesso tempo, potenziare le strategie di autoregolazione, tra coloro i quali possiedono maggiori difficoltà nel resistere alle tentazioni, permetterebbe loro di preservare i propri rapporti sentimentali (Baumeister, et al., 2006).

 

Quando psicoterapeuta e paziente sono in un ambiente virtuale condiviso. Realtà virtuale multi-utente e le nuove frontiere della psicoterapia a distanza

Le applicazioni terapeutiche maggiormente esplorate coinvolgenti la Realtà Virtuale riguardano le tecniche di rilassamento e di esposizione, ora si aprono però nuove possibilità.

Greta Riboli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Già nel 2015 uscì un articolo sull’International Journal of Child-Computer Interaction, che indagava l’efficacia di un game in realtà virtuale multi-utente per favorire la collaborazione nei bambini con disturbi dello spettro autistico (Pearson, 2015). Ma da allora ad oggi come ci siamo mossi nel campo della terapia in virtuale?

La realtà virtuale è uno strumento tecnologico che è capace di creare la completa illusione di trovarsi in un posto diverso rispetto a quello reale, sia esso un ambiente fantastico o realistico.

La realtà virtuale costituisce una nuova modalità di conoscenza esperienziale, che pone la persona al centro dell’apprendimento stesso (Lanier & Biocca, 1992). In questa esperienza l’utente è immerso a livello sensoriale in un mondo altro, in cui le percezioni sensoriali provenienti dal mondo “reale” non sono più accessibili. Quando una simulazione virtuale riesce a riprodurre anche le componenti sensoriali oltre a quella visiva e uditiva (es. olfattiva, o tattile) si fa riferimento ad un’esperienza multisensoriale oppure estensiva (“extensivevirtual reality”).

Il poter sperimentare mondi immateriali è permesso dall’immersività, ovvero dal livello di fedeltà sensoriale stesso dell’esperienza virtuale e dal livello di interazione, in cui è osservabile una corrispondenza ben sincronizzata tra movimenti dell’utente e interfacce virtuali.

La presenza è un altro fenomeno fondamentale per lo studio della realtà virtuale come strumento terapeutico, infatti è definibile come la risposta psicologica soggettiva dell’utente all’interno dell’esperienza di realtà virtuale, o meglio, la sensazione di “essere lì” (Blascovich, 2010). Il fenomeno della presenza in realtà virtuale può assumere diverse forme, tra cui quella della presenza spaziale, sociale e dell’auto-presenza.

Le tecniche di rilassamento ed esposizione attraverso la realtà virtuale

Le applicazioni terapeutiche maggiormente esplorate nell’ultimo decennio (Freeman et al., 2017), coinvolgenti l’uso della Realtà Virtuale riguardano (i) le tecniche di rilassamento; (ii) la tecnica dell’esposizione applicata alle componenti ansiose e traumatiche; (iii) la tecnica dell’esposizione applicata ai disturbi alimentari.

Per quanto riguarda il rilassamento, le tecniche di rilassamento con biofeedback sono integrabili al sistema virtuale, misurando la risposta psicofisiologica del paziente (ad esempio tramite rilevazione dell’attività elettrodermica) in corrispondenza a scenari virtuali, con il possibile scopo di esporre il paziente a scenari stressanti, oppure immergerlo al contrario in ambienti rilassanti in cui vi è una guida al rilassamento.

La tecnica dell’esposizione graduale o il flooding sono le tecniche più implementate in realtà virtuale per il trattamento di diversi disturbi (ad esempio disturbi d’ansia). La letteratura scientifica parla di un’efficacia dell’esposizione in realtà virtuale parificabile a quella in vivo, e maggiore rispetto all’esposizione in immaginato (Carl et al., 2019). I vantaggi citati più e più volte dell’esposizione in realtà virtuale sono riassumibili nei seguenti punti: personalizzazione degli stimoli fobici in base alla specificità del disturbo; possibile creazione di una gradualità di esposizione ad hoc; vantaggio ecologico di poter esporre ad ambienti che in vivo comporterebbero un dispendio di risorse importante, tanto da rendere impossibile l’applicazione della tecnica; tutelare la privacy del paziente rimanendo nelle mura dello studio; ed infine il fatto di poter esporre il paziente allo stimolo fobico in un setting protetto. La tecnica dell’esposizione è stata applicata ai disturbi d’ansia, al disturbo da stress post-traumatico, al disturbo ossessivo-compulsivo (esposizione prevenzione risposta) e alle psicosi (Freeman, et al. 2017).

La tecnica dell’esposizione è stata anche spesso usata nel campo dei disturbi alimentari, attraverso la mirror exposure therapy. Grazie alla realtà virtuale, oltre a esperire ambienti immateriali ricreati ad hoc, è possibile anche incarnarsi in corpi ricreati (avatar), con caratteristiche corporee uguali, simili o diverse dalle proprie. Manipolando il corpo virtuale è così possibile indagare le reazioni emotive dell’utente attraverso le risposte fisiologiche dello stesso, le risposte comportamentali e gli atteggiamenti, e di conseguenza lavorare su questi aspetti. Il processo di incarnazione o embodiment emerge quando l’utente percepisce le caratteristiche del corpo avatar come se fossero appartenenti al proprio corpo reale (Maselli & Slater, 2014). La tecnica usata per favorire l’incarnazione consiste in correlazioni visuo-percettive sincrone, ispirate all’illusione della mano di gomma (Botvinick& Cohen, 1998), precedentemente illustrata nell’articolo Embodiment in Avatar in Realtà virtuale: gli effetti a livello comportamentale, cognitivo ed emotivo (Riboli, 2021).

In un recente studio di Porras-Garcia e colleghi (2020), un campione di pazienti con anoressia nervosa è stato esposto sistematicamente e gerarchicamente ad una rappresentazione virtuale della propria forma corporea, il cui indice di massa corporea aumentava progressivamente di sessione in sessione (in totale 5). In base alla compilazione del test Physical Appearance State and Trait Anxiety Scale (PASTAS, Reed et al., 1991), i ricercatori invitavano il partecipante a soffermarsi con lo sguardo su diverse parti del corpo, iniziando con le parti del corpo connesse a minori livelli di ansia esperiti, e procedendo con le aree capaci di generare una maggiore ansia nel soggetto. Ogni trenta secondi il livello di ansia veniva misurato con una scala visuo-analogica (paura di prendere peso e ansia per il corpo 0-100) e quando questo risultava al di sotto del 40% rispetto alla misurazione iniziale, avveniva il passaggio all’area corporea successiva (illuminata per facilitare la focalizzazione del paziente). In seguito ad ognuna delle 5 esposizioni, il paziente veniva esposto ad un ambiente rilassante per una durata di 5 minuti.

Studi come questo (Ferrer-García et al, 2017; Ferrer-Garcia et al., 2019), hanno dimostrato che l’esposizione a stimoli critici (come ad esempio parti del corpo specifiche) in realtà virtuale, può aiutare il paziente, oltre a ridurre i livelli di ansia sperimentati, anche a interrompere il ri-consolidamento dei ricordi negativi relativi al corpo, inquadrati teoricamente come bias cognitivi associati alla modalità di elaborazione visiva (Thompson et al., 1999).

La realtà virtuale multi utente in psicoterapia

Le forme di terapia in Realtà Virtuale precedentemente illustrate si basano su un’integrazione di terapia non virtuale a tecniche precise, quali rilassamento o esposizione. Ma la ricerca scientifica ed i protocolli terapeutici si sono mossi in questi anni anche sull’implementazione di sistemi terapeutici in virtuale capaci di essere “somministrati” a distanza. Tra questi si annoverano i famosi progetti del dottor Freeman, in cui, tramite sistemi di intelligenza artificiale, coach virtuali guidano il paziente in ambientazioni virtuali contraddistinte da specifici task e training. Eppure, una delle nuove frontiere dell’uso della realtà virtuale in campo psicoterapeutico è la realtà virtuale multi-utente, che permette a più utenti di condividere ambientazioni virtuali contemporaneamente. La realtà virtuale multi-user è già usata ampiamente nel campo delle scienze mediche, in particolare recenti studi fanno riferimento all’uso della stessa per permettere a diversi partecipanti (medico, paziente e/o caregivers) di interagire tra loro nel mondo virtuale simultaneamente allo scopo di manipolare oggetti virtuali e ad esempio svolgere della fisioterapia nei casi di ictus (Thielbar et al., 2020; Triandafilou et al., 2018; Tsoupikova et al., 2016).

Questa tecnologia apre ampie possibilità, connesse all’uso della realtà virtuale anche come strumento psicoterapeutico in cui la relazione terapeutica viene vissuta nell’ambiente virtuale stesso, senza essere integrata ad un percorso terapeutico vis-a-vis in reale. Questa modalità terapeutica potrebbe essere semplicemente considerata come la versione 2.0 della psicoterapia a distanza, largamente discussa in questo periodo pandemico (Sars-Covid-19, 2020-2021). Eppure, da un recente studio condotto sull’applicazione terapeutica della realtà virtuale multi-user sono emersi diversi spunti di riflessione intorno ai quali ogni psicoterapeuta dovrebbe interrogarsi.

Le sfide della realtà virtuale multi utente

Nello studio di Matsangidou e colleghi (2020) l’obiettivo era quello di esplorare le sfide della realtà virtuale multi-utente (MUVR), come facilitatore tecnologico per la psicoterapia a distanza. In particolare nel presente studio, lo scopo principale era quello di indagare l’accettabilità dello strumento da parte di psicoterapeuti e di pazienti ad alto rischio di sviluppare un disturbo alimentare, attraverso un’intervista semi-strutturata.

Per indagare in modo ampio la fattibilità della terapia a distanza in virtuale, i ricercatori del presente studio hanno progettato diversi ambienti terapeutici e compiti in VR: (i) il compito dei valori ACT; (ii) terapia del gioco; (iii) terapia dell’esposizione allo specchio. All’inizio di questi tre step il partecipante ha modo di esperire le modalità di utilizzo in realtà virtuale tramite un tutorial introduttivo.

Come ben sappiamo, l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è una terapia cognitivo-comportamentale che sostiene il paziente nel percorso atto a perseguire i propri obiettivi e valori, ma per fare questo uno dei primi step è quello di far emergere i valori individuali significativi di ciascuno. In questo studio è stato usato il protocollo AcceptME (Karekla&Nicolaou, 2015), un programma di gamification dedicato a pazienti che soffrono di disturbi alimentari o preoccupazioni legate al peso, con l’obiettivo di guidarli nell’accettazione dei propri pensieri e delle proprie emozioni, per poi muoversi a livello comportamentale verso una direzione, nonostante la presenza di queste emozioni e pensieri indesiderati (anche relativi alle forme o al peso corporei) (Hayes et al., 2011). Per lavorare in questa direzione, i ricercatori hanno sviluppato due compiti virtuali in VR in cui il partecipante può entrare in contatto con i propri valori e costruire, secondariamente, una mappa dei propri valori afferrandoli e maneggiandoli. In seguito a questi compiti, i ricercatori si aspettano che i pazienti abbiano una maggiore chiarezza valoriale e di conseguenza le scelte comportamentali possano divenire più semplici da perseguire.

Il secondo step prettamente terapeutico è la play therapy, contraddistinta da due compiti specifici, uno di pittura e l’altro di lancio della palla. Questi giochi sono stati introdotti nel protocollo per ridurre l’impulsività, migliorare la regolazione emotiva, e per esprimere le proprie emozioni e pensieri (Fagundo et al., 2013)

Infine, attraverso la tecnica dell’esposizione allo specchio, il partecipante, o meglio il suo avatar, una figura antropomorfa a fumetti, modificata a somiglianza dai partecipanti stessi, si specchia virtualmente, esponendosi alla propria forma corporea. A poco a poco, l’abbigliamento dell’avatar viene rimosso lasciando l’avatar in intimo, e durante questo processo di disvelamento, viene indicato al partecipante di guardare attentamente ogni parte del proprio corpo dando risalto alle proprie emozioni e ai propri pensieri, così da poter essere discussi con il terapeuta.

In questo studio, una delle maggiori particolarità è la scelta dell’avatar terapeuta, rappresentato da un cartone animato anziché da una figura antropomorfa, coerentemente ai risultati ottenuti nello studio di Lee e colleghi (2012), i quali fanno riferimento ad una riduzione dello stress percepito dal paziente in terapia di fronte alla visualizzazione di figure animate.

Dalle interviste semi-strutturate e dai questionari sull’usability e sul senso di presenza in virtuale compilati dai 14 partecipanti e dai 7 terapeuti, i quali non si sono mai incontrati di persona tra di loro, sono emersi diversi spunti di riflessione importanti relativi a (a) il ruolo della gamification; (b) la figura terapeutica non antropomorfa e alla modalità senza incontro di persona tra paziente e terapeuta; (c) il ruolo dello stress e della paura nell’uso del sistema virtuale da parte degli utenti.

Dalle interviste è emerso da parte di partecipanti e terapeuti come la gamification ha migliorato la comunicazione tra paziente e terapeuta, permettendo ai pazienti di esprimere più liberamente le proprie emozioni, creando un senso di fiducia e comprensione. In questo modo il terapeuta è stato spogliato agli occhi dei pazienti dal suo ruolo autoritario e formale, ritagliandosi anche un ruolo diverso che permette al paziente di relazionarsi in modo più naturale. Detto questo un terapeuta ha riportato come, a suo parere, proporre diverse attività di play therapy possa essere funzionale allo scopo di coprire un ventaglio di opzioni di gioco coerenti con gli interessi dei partecipanti. Infatti ha avuto modo di notare come un paziente sembrava trarre più beneficio dalla pittura, piuttosto che dal lancio della palla, mentre l’altro paziente sembrava più interessato al “basket”. Il vantaggio della gamification è stato anche quello, riportato dai pazienti, di diminuire le preoccupazioni e aumentare la sensazione di calma e tranquillità.

Il fatto che il terapeuta fosse una figura non antropomorfa è stato vissuto dai pazienti come un vantaggio ai fini della propria self-disclosure, in quanto la figura umana viene connotata di uno sguardo giudicante, mentre la figura animata è percepita come meno stressante, implementando positivamente la relazione terapeutica. Il fatto che il terapeuta non sia riconoscibile, e così il paziente agli occhi del terapeuta, nonostante ci sia un avatar a rappresentarlo, ha permesso ai partecipanti di sentirsi sicuri anche nella garanzia della propria privacy.

Per quanto riguarda il ruolo dello stress e della paura nell’uso del sistema virtuale da parte degli utenti, alcuni partecipanti hanno manifestato reazioni fobiche nel setting virtuale, eppure nessuno di essi ha chiesto di interrompere la sessione. Sicuramente i partecipanti con minore conoscenza del sistema virtuale hanno manifestato una maggiore difficoltà. Oltre alla parte iniziale, in cui alcuni si sono sentiti spaesati nel sistema virtuale, alcuni hanno vissuto con forte ansia la tecnica dell’esposizione al proprio corpo. Le reazioni ansiose innanzi al proprio corpo, in questo tipo di popolazione, erano state preventivate dai ricercatori, ed è proprio parte del percorso terapeutico sperimentarle per poi andare a ridurle così come nella realtà, così in virtuale e così in virtuale con terapeuta a distanza. La possibilità di osservarsi e di farsi osservare anche dal terapeuta, contraddistinto dalle caratteristiche citate al punto precedente è sicuramente parte della creazione di nuovi apprendimenti.

Grazie a questo studio, che ha il vantaggio di aprire le danze relativamente alla psicoterapia in MUVR e ai futuri studi, i quali dovranno anche orientarsi nell’ottica della verifica dell’efficacia degli interventi terapeutici a distanza con la realtà virtuale multi-user, ci possiamo spingere verso la possibilità di implementare protocolli comportamentali in cui il terapeuta sente la necessità di affiancare il proprio paziente durante l’esercizio stesso anche nelle terapie a distanza. Così come riflettere sul valore dell’eventuale assenza di informazioni fisiognomiche e non verbali (extra postura, che rimane percepibile) nella relazione terapeutica, sicuramente da un lato in un’ottica di minore stress, ma al contempo perdendo informazioni che potrebbero essere utili nella concettualizzazione del paziente. Inoltre, in aggiunta ai classici strumenti a disposizione nelle terapie online a distanza non virtuali, anche la possibilità di cogliere i movimenti del corpo di un paziente anche se mediati da un avatar. Questi sono alcuni esempi, ma la potenzialità dello strumento permetterebbe anche terapie di gruppo in realtà virtuale a distanza, oltre all’implementazione di diversi protocolli terapeutici, godendo della presenza simultanea di terapeuta e paziente, senza sacrificare le capacità del virtuale. Indubbiamente questo terreno pone nuovamente i terapeuti in quell’ottica di continuo aggiornamento e interlocuzione riflessiva tipica del lavoro psicologico.

I giovani e il Covid-19

La mancanza di libertà che abbiamo vissuto e, in parte, stiamo vivendo a causa del Covid rappresenta per gli adolescenti un importante disagio.

 

Il 31 dicembre 2019 le autorità sanitarie cinesi hanno rilevato un focolaio di casi di polmonite a eziologia non nota nella città di Wuhan. Successivamente le stesse autorità hanno confermato la trasmissione interumana del virus e l’11 febbraio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha annunciato che la malattia respiratoria causata dal 2019-nCoV è stata chiamata COVID-19 (Corona Virus Disease) (Buccolo M., Ferro Allodola V., Mongili S., 2020).

Da febbraio 2020 il Covid-19 ha repentinamente cambiato la vita all’intera popolazione globale, con importanti ripercussioni sul benessere psicosociale dell’intera collettività: tutti noi, infatti, ci siamo ritrovati in una progressiva condizione di allarme, a causa di un virus che ci ha allontanati gli uni dagli altri, costringendoci a rimanere chiusi in casa.

Inizialmente, mossi dalla paura e dalla inesperienza, la prova più grande da superare è stata imparare come mettere e levare i guanti una volta tornati a casa, come disinfettare nel modo corretto le mani, non salutare le persone con una stretta di mano o con un abbraccio ma con il tocco di un gomito, tenere sempre la mascherina e tanto altro.

In realtà la reale e cruda sfida alla quale siamo stati costretti è la capacità di adattamento. Il Covid-19 ci ha costretti a rivedere il nostro concetto di libertà, a rinunciare a ciò che sembrano essere le cose più ovvie, come abbracciare un amico, per il bene di tanti; abbiamo dovuto riorganizzare la nostra routine, combattere con la voglia di rimanere tutto il giorno in pigiama, abbiamo dovuto sopportarci e supportarci all’interno delle nostre quattro mura domestiche, che ormai erano diventate il nostro mondo, dove l’unica finestra alla quale potevamo affacciarci era la televisione. Si è trattato di una «situazione che ha impedito di attingere a delle risorse per fronteggiare i consueti problemi», come ha scritto la psicoanalista Costanza Jesurum su una pagina di L’Espresso (Jesurum C., 2020).

E quindi stavamo lì, sul divano, tutti i giorni alle 18 in punto, in attesa del “bollettino” del giorno, in cui si parlava di numeri difficili da quantificare, che facevano impressione solo quando ti fermavi a pensare che quel numero erano persone, genitori, fratelli, amici, che non c’erano più e che non potevano essere neppure salutati un’ultima volta.

Fin da subito i media hanno sottolineato la scarsa vulnerabilità dei più piccoli agli effetti sistemici del virus: questo ci ha dato un’apparente tranquillità e serenità, sapendo che un male così terribile non avrebbe toccato i nostri figli.

Tuttavia, il benessere dei più piccoli appare assediato allo stesso modo degli adulti, a causa del riflesso delle condizioni familiari, emotive e psicologiche di chi li circonda. Per tutto il tempo, i bambini hanno respirato e continuano a respirare l’aria che li circonda, densa di incertezze, paure e pensieri. Secondo l’UNICEF, almeno 139 milioni di bambini ed adolescenti nel mondo hanno vissuto per almeno 9 mesi un regime restrittivo obbligatorio di permanenza a casa e per poco meno di 200 milioni la permanenza a casa è stata raccomandata (UNICEF, 2021).

Dalle prime fasi della pandemia, l’Istituto Giannina Gaslini di Genova ha attuato un programma di sostegno e di monitoraggio delle condizioni dei bambini e delle loro famiglie, con l’ulteriore obiettivo di individuare precocemente possibili situazioni di criticità in ambito psichico comportamentale (Uccella S., 2020). Tale programma non ha solo fornito un aiuto nella fase acuta della pandemia, ma ha anche permesso di attivare un nuovo servizio, che potrebbe ridurre i rischi di sintomatologie post-traumatiche perduranti nel tempo (Ibidem).

Dall’analisi dei dati di famiglie con figli minori di 18 anni a carico è emerso che nel 65% e nel 71% dei bambini con età rispettivamente minore o maggiore di 6 anni sono insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione. Nei bambini al di sotto dei sei anni, i disturbi più frequenti sono stati l’aumento di irritabilità, disturbi del sonno e disturbi d’ansia. Nei bambini ed adolescenti (6-18 anni) i disturbi più frequenti interessano la componente somatica (disturbi d’ansia e somatoformi) e disturbi del sonno; in particolare è stata osservata un’aumentata instabilità emotiva con irritabilità, cambiamenti del tono dell’umore ed una significativa alterazione del ritmo del sonno con tendenza al “ritardo di fase”, come in una sorta di “jet lag domestico” (Ibidem).

Oltre a quanto emerso da questi dati, è bene considerare che non tutti i bambini o adolescenti manifestano le stesse reazioni psicologiche. La National Child Traumatic Stress Network (NCTSN) ha evidenziato alcuni indicatori da tenere in considerazione rispetto al benessere dei propri figli (Brymer M., Schreiber M., Gurwitch R., Hoffman D., Graham M., Garst L., Speier A., 2020):

  • I bambini di 2 anni possono piangere più spesso del solito e richiedere più attenzioni e affetto, mentre i bambini in età prescolare possono presentare comportamenti regressivi, come episodi di enuresi, ansia da separazione dalle figure genitoriali, capricci o manifestazioni di rabbia e difficoltà nel sonno;
  • I bambini tra i 7 e 10 anni possono sperimentare tristezza o paura che l’emergenza possa ripresentarsi; inoltre, alcuni bambini possono manifestare difficoltà di concentrazione o focalizzarsi sui dettagli dell’evento e parlarne durante buona parte della giornata, mentre altri possono manifestare evitamento;
  • I preadolescenti ed adolescenti possono manifestare disturbi comportamentali o, d’altro canto, ridurre il tempo di frequentazione con i pari. Possono talvolta sperimentare vissuti emotivi di elevata intensità e sentirsi incapaci di esprimerli a parole, manifestandoli così attraverso irritabilità e comportamenti oppositivi verso fratelli, genitori o altri adulti;
  • I bambini con neuro-diversità o problematiche psicologiche, infine, possono sperimentare uno stress più intenso ed un minore senso di controllo, necessitando quindi di maggiori rassicurazioni ed un maggiore conforto attraverso il contatto fisico.

Nella realtà italiana, ad alcuni mesi dall’inizio della pandemia, numerose strutture ospedaliere con posti letto dedicati alla gestione dell’emergenza-urgenza psichiatrica in età adolescenziale hanno segnalato un allarmante aumento di accessi al pronto soccorso e di ricoveri di ragazzi e ragazze in stato di sofferenza psicologica acuto (Lo Parrino R., Landi M., Leonetti R., 2021). Il motivo principale di tali accessi è dovuto all’autolesionismo, ai disturbi alimentari, al consumo di sostanze d’abuso, sino ad arrivare a tentati suicidi, ai quali si affiancano disturbi di panico e d’ansia acuti e stati dissociativi con alterazioni senso-percettive (Ibidem).

La mancanza di libertà che abbiamo vissuto e, in parte, stiamo vivendo, rappresenta per gli adolescenti un importante disagio. La libertà è un bisogno primario degli adolescenti, poiché permette loro di dare un senso ed una forma al processo di individuazione e concretizzazione di un’identità e fiducia nelle proprie capacità (Biondi G., 2020). La chiusura delle scuole, non avere la possibilità di ritrovarsi con gli amici e il lockdown hanno messo in pausa momenti di sperimentazioni, mediazioni, conoscenze importanti nella vita di un adolescente.

Così come i più piccoli, anche e soprattutto gli adolescenti si troveranno costretti ad affrontare delle difficoltà dovute ai tanti cambiamenti che si concretizzeranno una volta finita la pandemia. Dover riprendere a frequentare la scuola in presenza, poter uscire con gli amici, andare a cena fuori, incontrarsi in piazza, saranno “comportamenti normali”, che avranno un sapore diverso dal solito.

Difatti non sono pochi gli adolescenti che manifestano un certo timore del “fuori”: i giovani manifestano un’ambivalenza tra il forte desiderio di poter uscire e riprendere i legami e l’insicurezza per come sarà vivere tutto questo con le mascherine, i distanziamenti e le limitazioni a cui sono obbligati (Biondi G., 2020). In questo è necessario che intervengano gli adulti, pronti ad accogliere questo loro senso di inquietudine, così da farli sentire ascoltati, capiti ed aiutati e così da concedere loro una chiave di lettura a ciò che stanno provando.

Dunque, appare evidente come, seppur non ad alto rischio di infezione, i bambini e gli adolescenti sono soggetti estremamente vulnerabili in questa pandemia da Covid-19: i ragazzi necessitano grandi attenzioni e cure non solo per proteggerli dall’infezione di un virus, ma anche per salvaguardarli da un punto di vista emotivo e psicologico. Concludendo con le parole del Direttore generale UNICEF, Henriette Fore: «Se non abbiamo compreso pienamente l’urgenza prima della pandemia da COVID-19, sicuramente lo faremo adesso» (UNICEF, 2021).

 

Self-efficacy e sport: quando l’autoefficacia percepita fa la differenza

Il senso di autoefficacia è la percezione che l’atleta ha delle proprie possibilità di raggiungere il successo nell’esecuzione di un compito, e cioè il senso di competenza, di “poter fare”.

 

Gli sport agonistici richiedono requisiti molto elevati negli atleti in termini di prestazioni fisiche e psicologiche. Gli atleti sono chiamati a resistere a stress significativi sia durante la competizione che durante l’allenamento quotidiano, il tutto fin dalla tenera età iniziale richiesta dagli sport di alto livello.

Self-efficacy

L’autoefficacia (self-efficacy) viene definita da Bandura come “la fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico”. Il senso di autoefficacia agisce quindi come spinta motivazionale, può essere infatti considerato il motore dell’azione.

Gli effetti positivi di un buon senso di autoefficacia si estendono anche alla continuità dell’impegno, alla persistenza nel tempo dello sforzo, nonché alla creatività e alla libertà di operare autonomamente delle scelte.

Autoefficacia e attività fisica

McAuley (1992) considera l’autoefficacia e l’attività fisica in una relazione circolare, dove chi si sente più efficace è maggiormente portato ad intraprendere l’attività fisica, ma anche dove chi fa attività fisica sperimenta sentimenti di maggior efficacia personale. È quindi presente un’autoefficacia iniziale che spinge l’individuo a praticare attività fisica. (Figura 1)

Situazioni di stress e competizione

Le abilità atletiche richiedono un lungo periodo di sviluppo e perfezionamento. Durante questo processo evolutivo, gli aspiranti atleti devono riuscire a tenere duro nelle difficoltà e a non abbandonare mai la speranza quando si trovano di fronte a ostacoli scoraggianti e ai fin troppo comuni giudizi scettici sulle loro capacità di riuscita. È necessaria una salda convinzione di autoefficacia per sostenere l’impegno necessario a convertire le potenzialità in competenza atletica.

In vari sport, il livello del senso di efficacia è il fattore psicologico che, fra gli atleti d’élite, differenzia più attendibilmente quelli che hanno successo da quelli che ne hanno meno (Mahoney, 1979).

I processi psicologici attivati dalle convinzioni di efficacia influenzano quasi tutti gli aspetti del funzionamento atletico. Gli atleti devono lavorare duramente e a lungo per padroneggiare le abilità richieste dal loro sport e per tenere duro di fronte ad ostacoli, stressor o infortuni.

Un aspetto che contraddistingue gli atleti di successo è la capacità di gestire gli stressor nella competizione e momenti sfavorevoli con un incrollabile senso di efficacia. Chi ha un senso di efficacia elevato aumenta le aspirazioni e migliora il livello delle prestazioni; chi ha un senso di efficacia moderato si accontenta e riposa sugli allori; chi dubita di poter ripetere il successo per cui ha tanto faticato riduce le aspirazioni e la motivazione personale.

È facile restare fedeli ai propri obiettivi sportivi quando i successi arrivano senza troppa fatica. Ma è difficile continuare a perseguire obiettivi impegnativi quando gli insuccessi, i passi falsi e lunghi periodi di difficoltà li fanno apparire al di là della propria portata. In circostanze scoraggianti come queste, le convinzioni di efficacia contribuiscono a rafforzare il sostegno offerto dagli obiettivi preposti. (Bandura, 2014)

L’autoefficacia è rappresentata dalla fiducia nelle proprie capacità per affrontare una situazione competitiva che può influenzare fortemente la prestazione.

Atleti con capacità simili e un diverso grado di sicurezza di sé non forniscono prestazioni dello stesso livello. Gli atleti dotati ma tormentati da dubbi su di sé hanno prestazioni molto inferiori alla loro possibilità, e quelli che hanno meno talento ma sono molto più sicuri di sé possono superare avversari più dotati che non credono nelle proprie capacità. Tali discrepanze tra capacità e risultati mettono in luce l’importante contributo delle convinzioni di efficacia nella performance sportiva.

Gli sport agonistici rivelano la fragilità del senso di efficacia. Una serie di insuccessi capace di indebolire la convinzione della propria efficacia crea una crisi prestazionale negli atleti professionisti che, a causa delle loro insicurezze, non mettono adeguatamente a frutto le loro abilità nonostante ne abbiano completa padronanza e la loro stessa sussistenza poggi sulla qualità delle loro prestazioni sportive.

La motivazione e la prestazione secondo Locke sono regolate dagli obiettivi che le persone scelgono di perseguire e la considerazione di sé risulta essere un forte fattore motivazionale.

A parità di doti atletiche, le proprie convinzioni di efficacia sportive sono già un predittore di chi sceglierà di intraprendere certe attività sportive e in che misura queste persone miglioreranno le loro abilità partecipando a programmi di allenamento. Gli atleti che superano questo processo di selezione altamente competitivo possiedono, oltre al talento naturale per l’attività sportiva scelta, la capacità di motivarsi abbastanza da affrontare un processo lungo e impegnativo di continuo perfezionamento.

Quando si compete con avversari molto capaci, vincere o perdere può dipendere anche da un breve calo di attenzione o di impegno o di precisione.

Nell’ambiente sportivo si riconosce da tempo l’importanza di un resiliente senso di efficacia per una prestazione ottimale. In condizioni di forte pressione competitiva, per eseguire efficacemente le abilità apprese, gli atleti devono esercitare un controllo sugli effetti inabilitanti tipici delle attività atletiche agoniste (stressor, cali di motivazione, affaticamento…).

Dallo sport allo sviluppo sociale e cognitivo

La convinzione di autoefficacia è stata studiata ampiamente nell’ambito sportivo poiché rappresenta un importante fattore per la promozione del successo, data l’influenza che esercita sull’atleta, sia nella fase di competizione, sia in quella di allenamento. Il successo di conseguenza aumenterà la fiducia in sé e l’autostima, l’insuccesso la farà diminuire.

Lo sport è un‘attività idonea sia per migliorare abilità fisiche sia per migliorare lo sviluppo cognitivo e sociale in altri ambiti.

L’esperienza sportiva non solo influenza la percezione fisica dell’atleta, ma si traduce in sicurezza nelle proprie capacità, autocontrollo e gestione dello stress.

 

L’impatto dell’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 sui medici anestesisti rianimatori

Il Congresso ICARE2021, della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva – Siaarti, ha analizzato l’impatto della pandemia sui medici anestesisti rianimatori.

 

In un recente articolo pubblicato su Doctor33.it, vengono riportati i dati esposti al Congresso ICARE2021 riguardanti l’impatto della pandemia sui medici anestesisti rianimatori.

Pandemia, operatori sanitari e burnout

Come sappiamo la diffusione del Covid-19 ha influenzato la popolazione mondiale con conseguenze sulla mentale soprattutto in termini di sintomatologia ansiosa e/o depressiva (De Mola, 2020), ma particolarmente significativo è stato il vissuto degli operatori sanitari che si sono occupati in modo diretto di questi pazienti e si sono trovati ad affrontare un carico importante sia dal punto di vista pratico che da quello emotivo.

Gli operatori sanitari sono generalmente esposti al rischio di burnout, caratterizzato da logorio psicofisico ed emotivo e da vissuti di ansia, insofferenza, demotivazione e disinvestimento emotivo. In particolare, nella situazione pandemica, si sono aggiunte o enfatizzate condizioni che hanno aumentato il carico di stress, tra queste la costante esposizione al pericolo di contrarre la malattia e di poter contagiare i propri cari, l’esposizione continua alla malattia e alla morte, non solo dei pazienti, ma anche dei colleghi, con un’esposizione ripetuta ad eventi traumatici ed infine un sovraccarico di lavoro legato al dover svolgere turni eccessivamente lunghi e al doversi fare carico del paziente non solo dal punto di vista medico, ma anche dal punto di vista emotivo ed assistenziale, parte di cui di solito si occupano i familiari (Scarola, 2020).

Il burnout nei medici anestesisti rianimatori

Tra gli operatori maggiormente coinvolti rientrano i medici anestesisti rianimatori, che si occupano dei pazienti in sala operatoria ma anche di quelli in rianimazione, motivo per cui il loro lavoro è stato estremamente intenso nei periodi con il numero di contagi più elevato.

Durante il Congresso ICARE2021 sono stati presentati i risultati di una survey che ha raccolto i risultati di una serie di questionari somministrati a 1042 anestesisti rianimatori con lo scopo di osservare l’impatto del Covid-19 su questa specifica categoria; i questionari utilizzati nella ricerca sono stati il Maslach Burnout Inventory (MBI), il Resilience Scale (RS-14), il Coping Inventory to Stressful Situations (CISS) e l’Intolerance of Uncertainty Scale-Revised (IUS- R) (Doctor33).

Analizzando il rapporto tra livelli di burnout, caratteristiche socio-demografiche e variabili legate al contesto lavorativo, sono emersi quattro profili di anestesisti rianimatori durante l’emergenza sanitaria:

  • resilienti (33% dei partecipanti), caratterizzati da elevate capacità di gestione della condizione lavorativa e dello stress correlato;
  • in burnout (20% dei partecipanti), professionisti che hanno sperimentato grave disagio professionale con alti livelli di esaurimento emotivo e depersonalizzazione e scarsa gratificazione operativa;
  • in riserva emotiva (20% dei partecipanti), medici che hanno accumulato fattori preoccupanti di stress e di esaurimento emotivo, gruppo costituito in maggioranza da donne e da una popolazione anagraficamente giovane;
  • in distacco (27% dei partecipanti), operatori che hanno maturato un atteggiamento difensivo, con l’allontanamento dalle condizioni umane, emotive e tecniche del lavoro e delle persone in esso coinvolte (pazienti, colleghi, altri operatori), gruppo costituito in maggior percentuale  da uomini.

Il quadro emerso dallo studio ha considerato il periodo legato al Covid-19, ma:

Ha insegnato che è indispensabile inglobare nella formazione specialistica le competenze comunicative e relazionali – ha spiegato Maria Grazia Frigo, Responsabile Anestesia Ostetrica presso FBF Isola Tiberina Roma – Questo diventa possibile attraverso una formazione continua finalizzata alla ‘manutenzione’ del benessere psicosomatico degli anestesisti rianimatori in modo da potenziarne la resilienza anche in funzione di una gestione proattiva del rischio clinico.

Infine, date le condizioni di estrema fatica e complessità in cui gli operatori sanitari lavorano, diventa importante essere solleciti nel fornire loro un adeguato e repentino sostegno anche dal punto di vista psicologico (Scarola, 2020).

 

Leggi l’articolo originale:
Covid-19 e burnout medici. Ecco l’impatto dello stress pandemico sugli anestesisti rianimatori

 

cancel