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Catcalling e Victim blaming: inezia o problema?

Victim blaming, catcalling, revenge porn sono termini sempre più noti, grazie al grande uso che ne viene fatto sul web e nella cronaca giornalistica, che descrivono atteggiamenti ancora largamente diffusi, nonostante la società “ufficialmente” si stia impegnando verso la loro condanna.

 

Il victim blaming è l’atteggiamento di chi colpevolizza la vittima ritenendola responsabile o corresponsabile (anche per elementi come abbigliamento e atteggiamento) della violenza subita.

Ma cosa spinge le persone a condannare la vittima, soprattutto se è donna, in caso di stupro?

Il vestiario femminile diviene immediatamente un’arma, una prova del fatto che la donna sia colpevole. Indossare un top o una gonna corta, aver sorriso e scherzato, ma anche esprimere l’intenzione di voler fare la modella, attrice, cantante, scienziata, fino all’uscire di casa senza essere accompagnata da un uomo (il suo) sono tutti elementi in grado di rendere colpevole la donna di “essersela cercata” e di, in fondo, aver desiderato l’aggressione.

Questa associazione fra condotta femminile e colpevolezza è storia antica: il comportamento della donna deve essere grazioso, docile, premuroso, e non mostrare la presenza di “grilli per la testa”.

Deve sorridere, ma non troppo, deve essere gentile, ma non troppo, deve camminare bene, in modo sensuale, ma non troppo e, se la donna dovesse superare questo limite e sconfinare in questo “troppo”, allora starebbe provocando e questo giustificherebbe come normale il fatto che possa subire continuamente catcalling (o peggio).

In presenza di abiti succinti le grida anche troppo tipiche della società saranno: “se l’è cercata” e, in difesa del criminale di turno, “all’uomo parte l’ormone, è istintivo, è la sua natura”. Fino, nei casi opposti, come ad esempio quando la vittima risultasse senza un centimetro di pelle scoperta, pioverebbero frasi come: “è brutta, deve ringraziare il Dio che c’è chi la guarda e la desidera”.

Nel 2018 nacque l’hashtag #MosqueMeToo per segnalare le molestie subite dalle donne durante lo hajj, il Pellegrinaggio alla Mecca, un momento di ricerca di purezza spirituale, di contatto con il divino, che si trasforma in un altro tipo di ricerca che sembra tirare in ballo il voler “toccare con mano” per essere sicuri.

Ma quando queste violenze avvengono in contesti religiosi, l’esigenza di nascondere il fatto cresce ancora di più, con la scusa di un silenzio mantenuto in difesa di un bene superiore.

La frase tipica? Dio vede e provvede.

E così subentrano silenzi, malessere psichico e fisico causati dal non poter e non dover dire nulla nell’impossibilità di denunciare molestie che forse nemmeno potrebbero essere provate.

Ma la cosa peggiore è che, persino in questo caso, ad essere colpevolizzata è la donna, anche se del tutto vestita e coperta, con la sola esclusione delle mani e del viso.

In base a questo possiamo dedurre come non siano i vestiti a chiamare la violenza, ma piuttosto una mentalità retrograda in cui la donna è vista come un oggetto. Mentalità, questa, spesso interiorizzata e poi promossa dalle donne stesse. Velata o non velata la donna viene sempre criticata.

La letteratura e l’arte affrontano la tematica della rappresentazione della donna nella società in vari periodi storici.

Non è l’arte in sé ad essere maschilista, ma il contesto socio-culturale nel quale le opere vengono create, anzi, riproporre il pensiero della società nella prosa, nei versi, nella pittura, significa fornire un’immagine di come sia la realtà in un dato tempo, allo scopo di offrire una testimonianza che possa riportare a galla e risolvere ogni lato negativo e ogni contraddizione.

Anche per questo gli attacchi nei confronti delle opere artistiche e dei loro autori, separati dal loro contesto, hanno ben poco senso.

Prendiamo un esempio abbastanza recente e molto attuale.

E dalle macchine per noi
I complimenti del playboy
Ma non li sentiamo più
Se c’è chi non ce li fa più

Il testo della canzone di Fiorella Mannoia affronta una tematica assai interessante, un atteggiamento che è presente sin dalla notte dei tempi, quello del fischiare quando una donna passa, con complimenti e altri “apprezzamenti” non richiesti, che è proprio quello che viene definito come catcalling. La canzone è stata condannata per promuovere il maschilismo, ma è davvero così?

L’arte non è solo immaginazione fine a se stessa, ma è anche pensiero in grado di affrontare e analizzare i problemi che affliggono le società. Tuttavia l’arte sa farlo non solo per vie esplicite, ma anche in modi molto sottili che potrebbero essere fraintesi.

È quindi inutile auto eleggersi a giudici per condannare una poesia, una canzone o un romanzo, quando sarebbe invece sensato analizzare testo e contesto per comprendere le motivazioni alla base di quelle espressioni ritenute, anche giustamente, problematiche.

Analizzando il testo della canzone della Mannoia, si percepisce molto bene il modo in cui vengono viste le donne dalla società: vanitose, amanti di complimenti e fischi, confuse, non sanno ciò che vogliono.

Donne che nell’immagine sociale dicono sempre sì anche quando è no.

La donna è tale se nasconde il dolore, se sorride sempre, se in fondo, anche se nega, “le è piaciuto”.

Il testo non fa altro che rappresentare questo immaginario collettivo che vede protagonista la donna insieme a tutti gli stereotipi annessi.

No, questa canzone non è un inno al catcalling, ma una rappresentazione culturale di come il mondo spesso vedeva e vede le donne tutt’ora.

Oggi la nascita e la diffusione di internet hanno esasperato gli scontri sociali e, in certi ambienti, pregiudizi e stereotipi risultano addirittura amplificati. Oggi quello che avviene nei social ha una rilevanza talmente elevata che ne devono tenere conto le aziende di marketing, i programmi politici, i candidati alle elezioni e persino gli enti pubblici.

La giustizia si sposta sul web

Il web non è solo un luogo di scambio di opinioni, ma sembra essere diventato avvocato, pm, procura, magistrato e tribunale e, quando si diffondono certe affermazioni, sarebbe bene pensare alle possibili conseguenze, soprattutto se ha farlo è un personaggio dotato di grande visibilità e seguito.

In merito a questo basti pensare alle recenti dichiarazioni di Beppe Grillo.

Il figlio di Grillo, con alcuni suoi amici, viene accusato di stupro, ma cosa succede in relazione a ciò? La reazione è sempre la stessa, non cambia mai: la colpevole per Grillo è la stessa donna presunta vittima e questo diviene, nel web, fatto pubblico che rischia di sottolineare e amplificare ulteriormente questa distorta opinione comune.

Grillo alle accuse nei confronti del figlio reagisce in modo nevrotico attraverso video interviste e dichiarazioni.

La presunta vittima era in vacanza nello stesso luogo in cui si trovava anche il figlio di Grillo, con alcuni suoi amici. Dopo aver creato un rapporto amicale con i ragazzi, sarebbe uscita con loro e, in seguito, il gruppo, l’avrebbe fatta bere per poi abusare di lei.

Grillo con un tono paternalistico arriva a sostenere senza dubbio che, nel video, si veda più che bene come la ragazza fosse consenziente.

La ragazza “si stava divertendo”.

Per Grillo basta questo per gridare mediaticamente come non esista nemmeno un dubbio minimo per tirare in ballo un possibile stupro.

La ragazza nel filmato era “ferma” e “se una donna viene stuprata urla, si agita, grida, non aspetta che passino dei giorni per denunciare”.

Come se di fronte a certe situazioni così estreme non ci possa che essere, come reazione, solo quella che Grillo riterrebbe opportuna.

Dall’alto delle sue conoscenze, quindi, Grillo, condanna senza appello la presunta vittima e assolve incondizionatamente il figlio, insieme ai suoi amici.

Anche Parvin Tadjik, moglie di Grillo, sostiene che una ragazza che subisce stupro “non vada a fare kitsurf, per poi denunciare a ben 8 giorni di distanza dai fatti”.

Si dimentica, la signora, di come sia tipico che le donne stuprate vadano a lavorare come se niente fosse successo, per paura, per l’opinione pubblica, per le accuse che riceverebbero (come in questo caso, ad esempio), per aver interiorizzato questi messaggi errati che colpevolizzano la vittima.

Anche lei sembra dimenticarsi che la paura immobilizza e blocca, e non proprio tutti riescono a reagire con le urla e con la fuga: quando si è sotto shock le reazioni non sono univoche.

Si dimenticano i coniugi Grillo che per denunciare una violenza sessuale, per legge, si hanno a disposizione fino a sei mesi di tempo. E che, se vogliamo, sono pure pochi.

Sarà la giustizia a determinare le colpa o l’eventuale innocenza delle parti, non possiamo certamente affermare che i ragazzi siano per forza colpevoli, ma sarebbe opportuno fare molta attenzione alle parole che si usano nel sostenere, a spada tratta, l’innocenza o la colpevolezza di qualcuno, soprattutto in pubblico, cercando apposta un consenso da parte delle masse e sperando che questa opinione abbia perfino ruolo in sede legale.

Questo è ancora più grave se fatto, come in questo caso, diffondendo idee preconcette che non tengono conto di noti fattori psicologici, come i pregiudizi per cui si debba per forza denunciare subito o per cui l’aver accettato un’uscita di gruppo sia la prova indubitabile di atti sessuali consenzienti.

Questi falsi luoghi comuni vanno combattuti con decisione e con una corretta informazione.

Victim blaming e catcalling quali conseguenze?

Viviamo in un mondo che cambia alla velocità della luce e in cui l’essere umano non sempre riesce a stare al passo delle sue stesse innovazioni.

L’essere umano ha bisogno di rassicurazioni che tutto vada bene, ha bisogno di sapere che non ci sono pericoli o che, nel peggiore dei casi, si possano comunque evitare o nascondere.

La zona di comfort che ognuno si costruisce è sacra e, se viene spezzata, tale rottura può mandare facilmente in crisi una persona.

Pensare di vivere in un mondo fatto di rischi e pericoli che possono trovarsi dietro ogni l’angolo può generare o aumentare l’ansia; per gestire tutto ciò gli individui hanno bisogno di trovare delle scuse per poter vivere in modo tranquillo, scuse che possiamo chiamare meccanismi di difesa.

Dare la colpa all’atteggiamento femminile e al suo vestiario rientra in questa serie di “trucchi”, bugie che raccontiamo a noi stessi e, “protetti” dal falso mito che, nascondendoci, nessun male mai ci affliggerà, rischiamo di divenire a nostra volta promotori inconsapevoli della violenza.

Paura e violenza sono infatti facce della medesima medaglia che si nutrono l’una dell’altra.

Da un lato la violenza e la sua possibilità spaventano, fanno paura e creano un senso di timore, ma dall’altro anche il panico, a sua volta, produce reazioni violente con l’aspettativa di risolvere velocemente la causa delle ansie e delle insicurezze.

La vittima della molestia o dello stupro viene colpevolizzata ulteriormente proprio perché a nessuno piace identificare il mondo come un luogo non sicuro. La visione di un mondo in cui esiste un bilanciamento per cui ognuno semina ciò che raccoglie e ha “quello che si merita”, paradossalmente, riesce invece ad essere rassicurante.

In questo modo risulta semplice illudersi di avere tutto sotto controllo, in base al nostro comportamento.

Ma la possibilità o l’idea che violenze di ogni tipo possano capitare a tutti noi, senza il meritarcele in alcun modo, ci spaventa e risulta difficile, se non impossibile, da accettare.

Le false credenze che si generano come risposta semplice a questi bisogni psicologici, tuttavia, nel tempo hanno distrutto le vittime, rendendole vittime due volte, anche di sentenze moraliste ed esclusione dal tessuto sociale.

Ma non è tutto.

La colpa proiettata verso la vittima cambia, nei modi, in base a società e cultura di riferimento: il viaggio è lungo, tra vestiari, profumi, trucchi, lingue e abitudini, ma ciò che resta immutato è sempre il risultato finale: l’atteggiamento di fondo, cioè il victim blaming: la colpa è della vittima, su questo sono quasi tutti in accordo.

Cause identiche stanno anche alla base del catcalling, un insieme di complimenti non richiesti, fischi, versi, esclamazioni.

Le frasi più comunemente usate sono: “Vabbè, hai visto come era vestita?”, “mamma mia, che bambola”, “dai vieni qui che ti faccio vedere io cos’è un uomo vero”, “che bel culo”, “ma cosa sei”, ecc.

Oltre alla esternazione verbale le donne non di rado vengono fermate e inseguite da coloro che fanno i suddetti “complimenti”, spesso in gruppo rassicurati dall’appartenenza al “branco”.

A dimostrazione di quanto siano radicate le idee del victim blaming, una ricerca condotta da Laboratorio Adolescenza e dall’istituto IARD dal titolo “Adolescenti e stili di vita”, pubblicata nella parte finale del 2018, ha restituito dati preoccupanti.

Il 46% del campione composto da 2654 giovani studenti ritiene che nelle violenze sulle donne le stesse siano corresponsabili e il 7,6% ritiene che le violenze siano giustificate dagli atteggiamenti provocatori delle donne.

Questi dati restituiscono una fotografia della violenza sulla donna che non si discosta dal maschilismo che caratterizza la società nel suo insieme.

Gli adolescenti si mostrano preoccupati dai sempre più frequenti episodi di violenza sulle donne, ma non si rendono conto di non avere un atteggiamento di ferma condanna degli stessi.

Purtroppo, in questo modo se ne rendono partecipi, almeno nella misura in cui tramandano e trasmettono idee e condotte maschiliste.

Ma la donna non è soggetto che cerca avventure disinteressandosi dei traumi che potrebbe attrarre col suo atteggiamento e l’uomo non è soggetto incapace di trattenere le sue pulsioni! È ora di affermarlo con forza.

E per riuscirci bisogna puntare sull’educazione, con sani spazi di discussione sulla ricerca delle motivazioni, e con le relative riflessioni su se stessi, sull’altro e sulla società nel suo insieme.

Nel periodo marzo-giugno 2020, con il lockdown per la pandemia, le chiamate al numero antiviolenza 1522, secondo l’istat, sono aumentate del 119,6% passando da 6.956 a 15.280. Probabilmente l’esser costretti in casa ha fatto emergere rapporti nocivi, le cui tensioni erano tenute “in sordina” dal fatto da non esser costretti a condividere gli stessi spazi per troppo tempo.

Quella della violenza è una vera emergenza e, per vincere la sfida, e sradicarla, è necessario agire su più fronti.

Uno è sicuramente quello di dare alla giustizia più strumenti, per fare in modo che le denunce siano prese in considerazione e le vittime siano messe al riparo da altre violenze, ma questo, diversamente da quello che si potrebbe pensare con un’analisi superficiale, non sarebbe per niente sufficiente: è necessario lanciare una sfida educativa.

Il primo trigger da innescare è rendere quante più persone possibile consapevoli del fenomeno.

Atteggiamenti come il victim blaming allontanano la nostra responsabilità dagli atti di violenza, ci rendono passivi e sminuiscono il problema. In fondo noi (che potremmo e dovremmo controllarci) non perpetriamo alcuna violenza, sono gli altri che se la attirano addosso con il loro modo di fare e che quindi ne sono responsabili.

E cosa c’è di male a fare un complimento a una bella ragazza?

Questi discorsi, che molti si raccontano, hanno diversi effetti, tutti negativi.

Ad esempio quello di abbassare i campanelli di allarme: se si è vittima di complimenti o palpeggiamenti si sarà portati a pensare che, se la violenza si limita a quello, allora in fin dei conti non è poi cosa così grave.

Solo se ci si dovesse spingere oltre allora sarebbe “vera” violenza.

Il problema è che, se si entra nelle dinamiche di un rapporto affettivo, quando quell’oltre è già stato superato, ci si ritrova incapaci di reagire nel modo più totale, in quanto ci si aggrappa alle esperienze positive che si sono vissute, finendo con il restare disarmati. Anche il solo pensare di ribellarsi o denunciare rischia di divenire impossibile.

Questo non coinvolge solo le persone che fanno o subiscono il victim blaming o il catcalling, ma anche gli amici o gli estranei che vi assistono: saranno anche loro educati alla passività, anche di fronte a violenze conclamate e le accetteranno come “cose normali”.

Il secondo trigger da “attivare” è complesso e difficile da strutturare, soprattutto emotivamente, mentalmente e psicologicamente: la costruzione di un io solido, ma equilibrato.

I rischi sono alle porte: anche se è giusto insegnare a puntare sulle proprie forze, bisogna comunque fare attenzione a non esagerare con l’importanza data a questo aspetto e al controllo.

Se si finisce sovraccarichi di questo senso del dovere e non si conseguono i successi sperati, si è più portati a sviluppare forme di sofferenza esagerata, anche relativa alle delusioni inevitabili e normali della vita, e a sviluppare vere forme di depressione.

Se si insiste troppo con questo schema mentale si può arrivare a costruire l’illusione di poter controllare tutto con facilità e al bisogno di governare anche le persone attorno a noi, addirittura con mezzi manipolatori.

Tuttavia un io strutturato e sano è utilissimo per comprendere certe situazioni e saper prendere in tempo le giuste distanze da dinamiche che possono includere o portare a subire forme di violenza.

Una percentuale considerevole delle violenze subite dalle donne risale all’ambiente domestico e al partner. Difficilmente in queste “relazioni tossiche” il carattere violento del partner risulta manifesto sin da subito. Viene costruita una dipendenza affettiva a piccoli passi, in cui si alternano momenti di positività a momenti di inganno, urla e pretese. Si fa credere che molte cose, dai gusti personali agli spazi quotidiani, debbano cambiare: questo rende la vittima ancora più debole, soprattutto facendo credere alla stessa che il tutto sia per il suo bene, per renderla “migliore”, nascondendo in realtà un preciso intento di controllo.

Chi subisce queste dinamiche relazionali corre il rischio di entrare in un vortice affettivo che, anche per una persona indipendente e dotata di una buona base caratteriale, sarà difficile da interrompere.

Il victim blaming, in questo caso, è uno degli strumenti principe con cui questi atti manipolatori possono essere messi in atto e, come dicevamo poco fa, anche solo l’esposizione a questi comportamenti può contribuire a indebolire la nostra capacità di reagire alla violenza e al sopruso.

Terzo trigger, se le idee vengono trasmesse con il dovuto impegno, si propagano poi da sole. Nel male, ma anche nel bene!

A quanto pare la società occidentale è quasi completamente schierata contro la violenza sulle donne, ma come gli adolescenti della ricerca succitata, continua ad accettare molti degli strumenti con cui questa viene messa in atto.

Bisogna diffondere le giuste idee e smantellare i vecchi pregiudizi!

Dovendo pensare a un percorso educativo, nella speranza che nelle nuove generazioni si possa assistere a un cambiamento, è necessario che si rifletta più in profondità sulle azioni e sulle dichiarazioni, soprattutto pubbliche, e le loro conseguenze a lungo termine.

La strada da fare per formare una coscienza collettiva davvero consapevole di quegli atteggiamenti violenti che la storia ha passato come “normali”, è ancora lunga, ma non si può dire che il viaggio non sia iniziato.

Gli organi legati all’istruzione, come quelli di stampa e informazione, oggi hanno notevoli responsabilità verso le quali non possono fare finta di nulla: è importante dare giusto spazio a messaggi e informazioni corrette, avendo anche il coraggio di evidenziare come errati quei comportamenti e quei preconcetti che, nonostante appartengano ad una sorta di tradizione, non fanno altro che permettere alla violenza di continuare a diffondersi indisturbata e, a volte, nei casi più gravi, con conseguenze anche letali.

 

L’incontinenza in bambini e adolescenti. Guida per genitori, insegnanti e operatori sanitari (2021), di A. Von Gontard – Recensione

L’incontinenza fecale (encopresi) o urinaria (enuresi) in bambini e adolescenti è un problema frequente e non di poca rilevanza, basta pensare a tutte le conseguenze emotive che porta con sé.

 

L’incontinenza in età evolutiva è un problema ben più comune di quel che si pensi. È pur vero che se ne parla un po’ poco, ma presumibilmente questo è dovuto al fatto che il diretto interessato, così come l’adulto di riferimento, prova vergogna nell’esternare la cosa.

Questo testo ha pertanto un’utilità cruciale: informare e fornire strategie circa l’incontinenza in bambini e adolescenti.

La chiarezza con cui l’autore ha stilato questa guida non può non balzare all’occhio: fin dalle prime pagine vengono fornite una serie di domande per l’adulto di riferimento. Egli sarà così in grado di inquadrare il problema a cui si trova di fronte e, a seconda della risposta, troverà un capitolo dedicato.

L’incontinenza fecale (encopresi) o urinaria (enuresi) in bambini e adolescenti è un problema frequente e non di poca rilevanza, basta pensare a tutte le conseguenze emotive che porta con sé.

Questo testo ha lo scopo di fornire un valido aiuto al problema, fornendo informazioni pratiche sull’incontinenza e suggerirne il trattamento.

La guida riunisce due volumi stilati da Von Gontard originariamente separati – uno dedicato all’enuresi, l’altro all’incontinenza fecale – pubblicati in tedesco e poi tradotti in inglese.

Una prima edizione completa fu stilata nel 2010, a cui sono seguite numerose ristampe, fino a quella italiana, curata da Marco Carotenuto.

In quest’ultima edizione vengono inserite una serie di simpatiche e piacevoli illustrazioni che fanno da cornice a varie testimonianze di bambini e genitori alle prese con il problema.

L’adulto di riferimento coinvolto non potrà non riconoscersi in alcune delle tante esperienze raccontate nel libro.

E se il genitore alle prese con tale problema pensa di conoscere già bene i concetti di enuresi o encopresi, potrà ricredersi, in quanto esistono varie tipologie di incontinenza.

Come già anticipato il testo si divide in due parti, e la prima è dedicata all’incontinenza fecale. La guida è stilata secondo un ordine ben preciso. Sicuramente colui che si trova alle prese con l’encopresi si chiederà inizialmente se il problema è frequente tra la popolazione oppure no. L’autore a questo interrogativo dà una risposta affermativa. Lo sporcarsi è uno dei disturbi più comuni dell’infanzia, e non solo: se il problema presente nel bambino non viene trattato potrebbe perdurare anche in età adolescenziale.

Detto ciò il lettore vorrà conoscere le cause di tale problema. Purtroppo i pregiudizi a tal merito sono frequenti e spesso si tende a pensare che un bambino che si sporca sia semplicemente ancora immaturo nello sviluppo. Eppure non si tratta di un segno di ritardo di maturazione. Talvolta potrebbe trattarsi di un problema di tipo psicologico, ma anche in tal caso molti studi hanno dimostrato che solo il 40% delle cause è attribuibile a ciò. Dunque non esistono cause univoche e talvolta la disposizione genetica potrebbe giocare un ruolo importante. L’autore fornisce una brillante descrizione di tutte quelle che potrebbero essere le varie cause al problema, per poi riservare un’accurata parte del testo al trattamento.

Inutile negare che un problema di questo tipo porterà con sé delle conseguenze di tipo psicologico, e il libro non trascura ciò, soprattutto dando all’adulto di riferimento adeguati consigli al fine di riconoscere tali risvolti. Perché sovente il genitore privilegerà il voler risolvere il problema in sé, tralasciando il resto, che ha comunque notevole importanza.

Relativamente alla seconda parte del testo l’attenzione si sposta sull’incontinenza urinaria.

Anche in questo caso l’autore va ad elencare le varie tipologie di enuresi presenti, facilitando le distinzioni anche mediante l’utilizzo di tabelle. Lo schema è simile a quello mostrato nella sezione dedicata all’encopresi: un focus sui pregiudizi, le cause e i suggerimenti vari per il trattamento. Inoltre l’autore consiglia più volte di sentire il parere di un esperto pediatra, senza perdere mai di vista l’obiettivo finale.

Il libro si chiude con una dettagliata appendice contenente utilissimi strumenti: dei questionari volti ad inquadrare al meglio il problema e una serie di schede efficaci per il trattamento. In questo modo l’adulto di riferimento potrà tenere sotto controllo il problema mediante una serie di tabelle da compilare a seconda del disagio esperito e della conseguente strategia utilizzata.

Si tratta senz’altro di un’ottima guida, che amplia le vedute sui vari problemi di incontinenza, apre gli occhi sulle possibili cause e fornisce le giuste strategie e suggerimenti.

Il linguaggio molto scorrevole fa sì che il testo possa essere utilizzato anche dagli adulti meno esperti in materia.

Il messaggio conclusivo sarà senz’altro rassicurante: i disturbi da incontinenza sono frequenti, ma tutti possono essere adeguatamente trattati con ottimi risultati per la maggior parte dei bambini e degli adolescenti.

 

Ossitocina: il potenziale ruolo terapeutico nel mantenimento dei legami di coppia e nella riduzione della gelosia

Con l’intento di studiare gli effetti dell’ossitocina sulla gelosia, Zheng e colleghi (2021) hanno condotto uno studio sottoponendo i soggetti a compiti riguardanti l’infedeltà dopo la somministrazione di ossitocina.

 

La gelosia è un’emozione complessa definita come “la percezione di una minaccia di perdita di una relazione di valore con un rivale reale o immaginario che include componenti affettive, cognitive e comportamentali” (Mullen 1991), che può comportare una serie di emozioni come ansia, depressione, disperazione, rabbia, comportamenti intimidatori, tentativi di controllo, violenza e, in alcuni casi, può portare alla morte (Leahy & Tirch, 2008).

Una teoria ampiamente diffusa che tenta di spiegare il perché gli esseri umani provino gelosia è la teoria evoluzionistica, che la concettualizza come un sistema comportamentale che si è evoluto per proteggere l’”investimento” di un individuo in una relazione in cui esiste la possibilità di procreare (Buss, 2000). Seguendo questa teoria, e secondo i risultati degli studi sulle differenze di genere, i fattori che scatenano la gelosia nei maschi e nelle femmine sono differenti: gli uomini, tendenzialmente, sembrano sentirsi più gelosi nei casi di infedeltà sessuale, mentre le donne esperiscono livelli di gelosia maggiori per l’infedeltà emotiva (Zheng, Xu, Xu, Kou, Luo, Ma, & Kendrick, 2021).

Nonostante quindi la gelosia sia un’esperienza comune nelle relazioni sentimentali, essa può assumere forme più gravi e patologiche.

La gelosia ossessiva e la gelosia delirante

A livello diagnostico, il DSM 5 prevede due forme di gelosia patologica: la gelosia patologica inserita nella classe di Disturbo Ossessivo-Compulsivo non altrimenti specificato (comunemente chiamata gelosia ossessiva) e il delirio di gelosia come specifica del Disturbo Delirante (comunemente chiamata gelosia delirante) (American Psychiatric Association, 2013).

Nella gelosia ossessiva le tematiche del tradimento assumono la forma delle caratteristiche del disturbo Ossessivo-Compulsivo: il dubbio dell’infedeltà del partner crea pensieri invadenti, irrazionali e spiacevoli, che spesso sfociano in comportamenti di controllo, come la ricerca di indizi di tradimento e comportamenti di ricerca di rassicurazioni da parte del partner. Al contrario della gelosia ossessiva, nella gelosia delirante il dubbio riguardo il tradimento non esiste. Il tradimento da parte del partner è, per l’individuo che ne soffre, una certezza, nonostante non sussistano prove reali e oggettive a favore (Batinic et al., 2013).

Un caso letterario che rappresenta questo ultimo tipo di gelosia è il personaggio di Otello che, convinto erroneamente dell’adulterio commesso dalla moglie Desdemona, la uccide prima di togliersi la vita.

Il trattamento della gelosia

La Terapia Cognitivo-Comportamentale ha dimostrato una grande efficacia nel trattamento della gelosia, focalizzandosi sulla correzione o la modifica di interpretazioni o credenze disfunzionali che danno origine a questa complessa emozione (Leahy & Tirch, 2008); per i casi in cui la gravità della sintomatologia rende necessaria la somministrazione di farmaci, i più utilizzati sono gli antipsicotici per la gelosia con sintomi deliranti e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) per la gelosia con caratteristiche ossessivo-compulsive  (Zheng & Kendrick, 2021).

Le basi neurali della gelosia

Studi recenti che hanno indagato le basi neurali della gelosia (patologica e non), hanno dimostrato il coinvolgimento del sistema serotoninergico e dei sistemi di ricompensa cerebrale dopaminergica (Marazziti et al., 2013; Zheng et al., 2019; Zheng et al., 2021).

Essendo l’ossitocina un neuropeptide che influenza l’esperienza della ricompensa agendo sul sistema dopaminergico e sul serotoninergico, negli ultimi anni è diventato un tema di ricerca gettonato per i suoi potenziali effetti terapeutici.

L’ossitocina, anche denominato l’ormone dell’amore, è un ormone prodotto dall’ipotalamo riconosciuto come fondamentale durante il travaglio, il parto e successivamente nel processo di allattamento, più in generale nella cura e nella vicinanza materna (Mitra, 2021).

Recentemente, diversi studi hanno dimostrato che l’ossitocina può apportare molti benefici agli individui influenzando differenti aree cerebrali coinvolte nella regolazione dell’appetito, nelle relazioni sociali, nello sviluppo della fiducia e della cooperazione, può ridurre il conflitto all’interno delle coppie e influenza persino la formazione e il mantenimento dei legami con il partner in una relazione sentimentale (Quintana et al., 2019; Zheng & Kendrick, 2021; Mitra, 2021).

Il metodo di somministrazione intranasale è molto comune negli studi perché permette ai vasi sanguigni del naso di assorbire l’ossitocina trasportandola oltre la barriera emato-encefalica nel cervello (Zheng & Kendrick, 2021).

Con l’intento di studiare gli effetti dell’ossitocina sulla gelosia, Zheng e colleghi (2021) hanno condotto uno studio sperimentale con 140 soggetti (70 coppie eterosessuali) sottoposti a compiti riguardanti l’infedeltà in contesti immaginari o reali dopo la somministrazione di ossitocina per via intranasale (o dopo la somministrazione di uno spray placebo per il gruppo di controllo).

Nel primo task sono state presentate brevi frasi che descrivevano esempi immaginari di infedeltà emotiva o sessuale da parte del partner; i soggetti hanno letto le frasi in silenzio e, conseguentemente erano chiamati ad immaginare le situazioni descritte per poi valutare i propri sentimenti di gelosia, di eccitazione generale, di rabbia, tristezza, sorpresa e felicità. Il secondo compito prevedeva un gioco online chiamato Cyberball (Harmon-Jones et al., 2009), durante il quale i partecipanti erano chiamati ad interagire preferenzialmente con uno sconosciuto del sesso opposto, oltre che con il proprio partner, per creare situazioni di “infedeltà” reale.

I risultati di questo studio (Zheng et al., 2021) hanno dimostrato che la somministrazione di ossitocina intranasale ha ridotto i sentimenti di gelosia e le valutazioni di eccitazione nei confronti di altri individui estranei in entrambi i sessi, dimostrandosi così efficace nel ridurre la gelosia in scenari di infedeltà emotiva e/o sessuale immaginati o reali. Ha inoltre ridotto significativamente i sentimenti negativi (tristezza e rabbia) e aumentato i sentimenti positivi esperiti dai partecipanti. Quindi, nel complesso, i risultati di questo studio, assieme ai risultati degli studi precedenti, sottolineano la funzione dell’ossitocina come promotore di maggiore attrazione verso gli attributi positivi del proprio partner nelle relazioni, che può aumentare di conseguenza la fiducia riposta nei loro confronti, diminuendo la gelosia percepita.

Considerando inoltre che i trattamenti con ossitocina intranasale non sono stati associati ad alcun effetto collaterale avverso, questo metodo sembra delinearsi come un modo sicuro ed efficace per facilitare la riduzione della gelosia presente all’interno delle relazioni sentimentali e per rafforzare e mantenere i legami tra partner (Zheng & Kendrick, 2021).

Per quanto riguarda le dimensioni patologiche, finora non sono stati pubblicati studi che riportano un’efficacia terapeutica dell’ossitocina intranasale sulla gelosia patologica, nonostante alcuni studi dimostrino l’influenza del neuropeptide sulle risposte e sulla connettività funzionale dei sistemi sia dopaminergici che serotoninergici, che sono gli attuali principali bersagli terapeutici per questo disturbo (Kendrick et al., 2017 ; Jiang et al., 2021).

 

L’infertilità e la dimensione del lutto nella coppia

L’impatto della diagnosi di infertilità conduce anche le coppie più unite e stabilmente legate a prendere contatto con le proprie fragilità.

 

Abstract

 Di fronte alla diagnosi di infertilità i partner sperimentano, seppur in modalità differenti, un dolore molto affine all’esperienza di lutto. L’attesa silenziosa e prolungata della gravidanza mette a dura prova il rapporto e l’intimità della coppia. Una possibilità è che ciascun partner reagisca alla perdita chiudendosi alla comunicazione con l’altro e che anche la coppia si chiuda rigidamente in se stessa, in un circolo vizioso che può essere interrotto attraverso l’elaborazione del vuoto percepito e, solo in seguito, all’apertura verso altre forme di generatività.

L’impatto della diagnosi di infertilità

Non riuscire a concepire un figlio è un evento, o meglio un non-evento, che crea un forte disagio all’interno di una relazione di coppia. I timori che investono i partner si rinforzano a ogni tentativo naturale non andato a buon fine, sfociando nella paura più grande: non riuscire a realizzare il proprio progetto di genitorialità condivisa. E così, nell’apparente perfezione di una melodia a due voci, l’ombra dell’infertilità irrompe come un’assordante nota stonata.

L’impatto della diagnosi conduce anche le coppie più unite e stabilmente legate a prendere contatto con le proprie fragilità e con il considerevole impatto sulla famiglia allargata: i partner, infatti, devono non solo confrontarsi con le proprie aspettative di genitori, ma anche mettere in discussione la possibilità per i familiari di diventare nonni e zii (Riccio, 2017). Riprendendo il concetto di “lealtà invisibili” di Boszormenyi-Nagy e Spark (1973, trad. it. 1988), in questa condizione la coppia potrebbe veder minata la possibilità di portare a termine il proprio dovere generazionale, sdebitandosi con i propri genitori.

La condizione vissuta dalle coppie infertili ricorda metaforicamente il dramma di Samuel Beckett “Waiting for Godot”, in cui i protagonisti trascorrono la propria vita in perenne attesa. Questo misterioso signor Godot, che fa continuamente sperare il suo arrivo, in scena non compare mai e i due vagabondi sono costretti a riempire il tempo con discorsi vuoti e senza senso. In questo dramma, come evidenziato da Auhagen Stephanos (1991, trad. it. 2008), i due protagonisti sono in una situazione di stallo, proprio come le coppie infertili che sperano, di ciclo in ciclo, di veder realizzato il proprio desiderio di genitorialità. In questa dimensione circolare in cui l’attesa si configura come parte strutturante della vita di coppia, si è destinati a una sofferenza senza fine, in un tempo che, pur sembrando immobile, scorre.

L’attesa silenziosa e prolungata della gravidanza gioca un ruolo determinante per la relazione: l’assenza di una dimensione sociale in cui condividere la propria esperienza dolorosa trascina la coppia in una condizione di solitudine; vengono così portati all’estremo gli aspetti simbiotici, corrispondenti al bisogno di vicinanza e coesione (Riccio, 2017). Analogamente alle esperienze di lutto perinatale, sentire che il proprio partner condivide gli stessi stati d’animo è un fattore protettivo per il legame di coppia e aumenta le possibilità di affrontare il lutto con successo (Swanson, Karmali, Powell, Pulvermarker, 2003; Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018). Nonostante i buoni propositi però, spesso i partner reagiscono mettendo in atto strategie di evitamento che trasformano l’argomento in tabù e non permettono di sciogliere i nodi irrisolti (Riccio, 2017).

Le differenze di genere nell’affrontare l’infertilità

La capacità della coppia di superare il lutto della diagnosi d’infertilità risente delle differenze di genere. Spesso nell’uomo predomina il piano simbolico legato alla trasmissione dei geni, mentre nella donna a essere privilegiato è il piano dell’immaginario, in cui il figlio tanto desiderato è parte della propria identità (Vegetti Finzi, 1997). Talvolta il dolore femminile per la maternità negata è così intenso da escludere il partner, nel tentativo di proteggerlo o nella convinzione di non poter essere compresa (Riccio, 2017). La ricerca ha dimostrato, infatti, come vi sia un esito positivo nell’elaborazione del lutto per tutte quelle coppie in cui la donna riesce ad accettare la propria condizione (Repokari, Punamäki, Unkila-Kallio, Vilska, Poikkeus, Sinkkonen, Almqvist, Tiitinen, Tulppala, 2007). Più precisamente “la capacità di una donna di accettare una diagnosi di infertilità è direttamente proporzionale alla presenza di un uomo e di una coppia in grado di sostenere e proteggere” (Riccio, 2017, p. 69).

Conclusioni

Una diagnosi d’infertilità è, dunque, paragonabile a una vera e propria perdita ed è spesso accompagnata dai sentimenti tipici di un’esperienza di lutto (Weaver, Clifford, Hay, Robinson, 1997). L’infertilità è una perdita che riguarda il corpo, la salute, la quotidianità, la speranza e la progettualità condivisa (Salerno, 2010) e a cui i partner cercano di sopravvivere nonostante la rottura, a volte insanabile, dell’equilibrio della relazione. Solo attraverso un’adeguata elaborazione del vuoto percepito, possibile anche attraverso un percorso terapeutico, la coppia potrà dire di aver superato la diagnosi e abbracciare nuove forme di generatività.

 

Pandemia e isolamento sociale: quale impatto hanno avuto sulla salute fisica e mentale della popolazione anziana?

La pandemia da COVID-19 dovuta al virus SARS-Cov-2 si è diffusa ed è progressivamente aumentata in tutto il mondo a partire da dicembre del 2019.

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS; Fonte: Health Emergency Dashboard) aggiornati al mese di luglio 2021 contano oramai quasi 190 milioni di casi dall’inizio della pandemia e più di 4 milioni di morti in tutto il mondo. La prevalenza nella comunità è comunque in parte incerta a causa dei molti casi asintomatici, ma tutti i gruppi anagrafici sembrano essere stati ugualmente colpiti.

La popolazione anziana tuttavia, è a maggior rischio di andare incontro ad esiti negativi, i quali possono portare a un tasso elevato di mortalità, che è stato visto essere cinque volte superiore alla media globale per le persone di età superiore agli 80 anni (World Health Organisation, 2020).

Oltre il 95% dei decessi dovuti a COVID-19 in Europa e circa l’80% in Cina hanno incluso persone di età superiore ai 60 anni (Zazhi, 2020). Negli Stati Uniti, l’80% dei decessi sono stati tra gli adulti di età pari o superiore a 65 anni.

Le diverse strategie messe in atto dai Governi (come le misure di quarantena e il distanziamento sociale) sono state e sono ancora molto importanti per evitare la diffusione del coronavirus e per la salvaguardia della salute della popolazione.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha tuttavia più volte evidenziato come ci sia una stretta relazione tra il livello di partecipazione sociale nella comunità e le funzioni fisiche e mentali.

Per partecipazione sociale si intende la partecipazione attiva dei soggetti alle attività religiose, culturali, politiche, sportive e di volontariato della propria comunità. Vari studi hanno sottolineato gli effetti protettivi della partecipazione alle attività sociali, sulla salute della popolazione più anziana, considerata uno stimolo per aumentare il livello di attività fisica e le funzioni cognitive (Douglas, Georgiou, & Westbrook, 2017; Sepúlveda-Loyola, Ganz, Maciel, et al., 2020).

La partecipazione sociale è stata associata ad una migliore qualità della vita, ad una maggiore massa muscolare, a delle migliori funzioni cognitive e ad un livello inferiore di comorbidità e disabilità nella popolazione anziana (Douglas et al., 2017; Smith, Banting, Eime, Sullivan, & Uffelen, 2017).

Durante la pandemia, molte strutture e organizzazioni comunitarie sono state chiuse come misura preventiva; molte persone anziane sono state costrette per lungo tempo a non ricevere più visite dai loro familiari, conseguentemente la partecipazione sociale è stata drasticamente ridotta e in molti casi annullata. Possiamo quindi ipotizzare come la diminuzione dell’interazione sociale prodotta dal distanziamento sociale abbia potuto causare un impatto negativo sulla salute mentale e fisica delle persone anziane.

Nella popolazione anziana l’attività fisica ha un impatto positivo sulla salute e sulla qualità della vita, riducendo il rischio di decadimento fisico e cognitivo, il rischio di cadute, fratture, depressione e di sindromi geriatriche, di ospedalizzazione e conseguentemente di mortalità (Ozemek, Lavie, & Rognmo, 2019). Le ricerche, condotte durante precedenti quarantene, hanno documentato non solo gli effetti dell’isolamento sulla salute fisica della popolazione anziana, ma anche le conseguenze sulla salute mentale, come il maggior rischio di depressione, disturbi emotivi, stress e insonnia (Lee, Chan, Chau, Kwok, & Kleinman, 2005), fattori che sono stati associati a percentuali di suicidi più elevati tra la popolazione più anziana (Yip, Cheung,  Chau, & Law, 2010).

Tuttavia, gli effetti della quarantena causata dal COVID-19 sulla salute della popolazione anziana non sono stati ancora documentati.

Stando queste precedenti considerazioni una recente review (Sepùlveda-Loyola, Rodrìguez-Sánchez, Pérez-Rodríguez, Ganz, Torralba, Oliveira, & Rodríguez-Mañas, 2020) ha approfondito e analizzato questi temi:

  • gli effetti potenziali dell’isolamento sociale causato dalla pandemia da COVID-19 sulla salute fisica e mentale nella popolazione anziana
  • le raccomandazioni e le attività consigliate da svolgere a casa, per contrastare il declino cognitivo e funzionale.

I ricercatori hanno incluso nella review 41 articoli, pubblicati tra il 2019 e maggio 2020. Gli articoli selezionati dovevano includere soggetti di ricerca con più di 60 anni. Per quanto riguarda le linee guida e le raccomandazioni gli autori hanno selezionato quelle provenienti da diverse organizzazioni internazionali che si occupano di salute mentale e attività fisica.

Covid-19 e popolazione anziana: i risultati

La salute mentale

I dati emersi dalle ricerche condotte hanno evidenziato un effetto negativo generale sulla salute mentale della popolazione anziana durante il periodo di isolamento sociale dovuto al COVID-19.

Questo effetto si declina innanzitutto con livelli più alti di ansia, depressione e una qualità del sonno peggiore.  La prevalenza di ansia e depressione varia tra i diversi studi, con tassi di prevalenza che vanno dall’8,3%  al 49,7% per l’ansia e dal 14,6% al 47,2% per la depressione. Alcuni studi hanno evidenziato anche vari potenziali fattori di rischio associati a questi risultati:

  • il sesso femminile (Mazza, Ricci, Biondi, S. , et al., 2020);
  • avere una percezione negativa della propria età (Losada-Baltar, Jimenez-Gonzalo, Gallego-Alberto, Pedrosos-Chaparro, Fernades-Pires, & Marquez-Gonzáles,2020);
  • l’essere un operatore sanitario ( Huang & Zhao, 2020),
  • avere scarse risorse personali e familiari (Losada-Baltar et al., 2020),
  • la quantità di tempo dedicata alle ricerca di notizie e informazioni sul COVID-19 (Losada-Baltar et al., 2020);
  • e l’avere un conoscente o un familiare ammalato di COVID-19 o una storia pregressa di problemi di salute (Mazza, et al., 2020).

La salute fisica

Il distanziamento sociale dovuto alla pandemia potrebbe condurre a conseguenze negative per la salute della popolazione anziana. Questo effetto sulla salute fisica è stato studiato in particolare da due ricerche (Castañeda-babarro, 2020 ; Goethals, Barth, Guyot, Hupin, Celarier & Bongue, 2020) dove è emerso che esso è dovuto alla diminuzione dei livelli di attività fisica a causa dalle restrizioni imposte. Il numero di anziani che frequentano programmi di attività fisica di gruppo e l’attività fisica in generale, come il tempo dedicato alle passeggiate, sono fortemente diminuiti durante il confinamento.

La partecipazione sociale ha molti effetti positivi. Le ricerche hanno dimostrato infatti che gli anziani che partecipano con costanza alle attività sociali hanno più forza muscolare, un apparato polmonare e respiratorio più sano, minori infiammazioni croniche  e disabilità rispetto a quelli che non vi partecipano (Tomioka, Kurumatani, & Hosoi, 2017).

Per tal ragione, la partecipazione alle attività di gruppo è un’importante componente per un sano invecchiamento. Le ricerche evidenziano come la relazione tra l’interazione sociale e la salute fisica operi lungo vie differenti. Ad esempio, la partecipazione alle attività sociali è in grado di stimolare i sistemi muscolo scheletrico, cardiovascolare, respiratorio e nervoso attraverso l’attività fisica e l’interazione sociale (Fernandez-Alonso, Muñoz-García, & La Touche, 2016). L’attività fisica genera benefici sulla salute fisica stimolando la contrazione muscolare, il dispendio energetico, diminuendo il sistema infiammatorio e lo stress ossidativo e riducendo la prevalenza di vari disturbi cronici e di sindromi geriatriche (Jiménez-Pavón, Carbonerll-Baeza, & Lavie , 2020)

Raccomandazioni per la salute mentale e fisica della popolazione anziana durante la quarantena

Dai risultati in letteratura emergono le seguenti raccomandazioni e linee guida per preservare il più possibile la salute mentale e fisica della popolazione anziana:

  • Rafforzare le connessioni sociali, utilizzando ad esempio video chiamate, applicazioni telefoniche o attraverso la partecipazione a gruppi di supporto telefonici;
  • Adoperare delle modificare al proprio stile di vita (applicando delle routine quotidiane, regolarizzando i ritmi sonno-veglia, le abitudini alimentari e l’attività fisica);
  • Impiegare tecniche di rilassamento (la respirazione diaframmatica o il rilassamento muscolare);
  • Non tralasciare la stimolazione cognitiva (impiegando esercizi di stimolazione mentale mediante anche l’utilizzo di applicazioni ad hoc, soprattutto per quei soggetti già affetti da deterioramento cognitivo).

I caregivers possono avere un ruolo cruciale nel promuovere il benessere fisico e mentale dei soggetti più anziani. Per ridurre gli stati di ansia e la sensazione di essere “poco utile”, viene molto raccomandato, a prescindere dal quadro cognitivo del soggetto, di far partecipare l’anziano ad adeguate attività quotidiane, (Chinese Society of Geriatric Psychiatry, 2020). L’esposizione ai media deve essere regolata evitando il rischio che i soggetti anziani possano eccederne o reperire informazioni da fonti non ufficiali. Spiegare le notizie provenienti dai media in modo chiaro e accompagnare le informazioni con delle illustrazioni può essere molto utile, specialmente in quella fascia della popolazione affetta da decadimento cognitivo.

Per aumentare la resilienza della popolazione più anziana è fondamentale una giusta combinazione tra educazione alla salute e counselling psicologico. Rinforzare il concetto di come la quarantena sia di aiuto per la loro e altrui sicurezza, adottare un linguaggio inclusivo quando si fa loro riferimento, valorizzando anche il loro contributo, sono elementi utili per raggiungere questo obiettivo. È importante anche garantire agli anziani continuità nei controlli medici e nelle terapie: aiutarli ad avere accesso alla telemedicina con consulti medici on line ad esempio, è fortemente raccomandato (DiGiovanni, G, Mousaw, K, Lloyd T, et al., 2020).

Come abbiamo sottolineato, il distanziamento sociale ha fortemente ridotto il livello di attività fisica con un impatto negativo sulla salute fisica. A tal proposito, nella review, sono state prese in considerazione le indicazioni di otto organizzazioni mondiali (American College of Sports Medicine (ACSM), American Heart Association (AHA), American Physical Therapy Association (APTA), International Association of Physical Therapists working with Older People (IPTOP), World Health Organization (WHO), World Confederation for Physical Therapy (WCPT) e l’International Network of Physiotherapy Regulatory Authorities (INPTRA) le quali raccomandano tutte l’incremento dei livelli di attività fisica.

In particolare vengono raccomandati: 150-300 minuti a settimana di attività fisica aerobica di moderata intensità e due sessioni a settimana di allenamento per la forza muscolare; circuiti misti di esercizi cardio e di potenziamento da eseguire a casa; esercizi di coordinazione e di mobilità. Anche in questi casi è fondamentale il supporto e la supervisione dei caregivers, e possono essere impiegate proficuamente anche applicazioni telefoniche o piattaforme digitali.

 

Esiste il rapporto sessuale? (2021) di Massimo Recalcati – Recensione del libro

Il punto di partenza nel volume Esiste il rapporto sessuale?, come avviene spesso nelle riflessioni di Recalcati, è ancora una volta Lacan.

 

Il connubio psicoanalisi/sessualità appare inscindibile sin dall’inizio con Freud e la sua rivoluzione. Non stupisce affatto, quindi, che Recalcati, dopo aver affrontato in testi divulgativi di ampio successo temi quali la madre, il padre, l’insegnamento come passione, le varie declinazioni dell’amore, la biografia di alcuni artisti, l’importanza dei libri, tralasciando i volumi più specialistici e complessi dedicati alla teoria e alla pratica clinica, abbia dedicato l’ultima sua fatica letteraria alla sessualità.

La psicoanalisi condivide il principio dell’identità di genere secondo cui non è il sesso anatomico ad essere decisivo nella determinazione dell’identità sessuale, quanto la scelta soggettiva che, sebbene non possa prescindere né dall’anatomia né dai condizionamenti culturali, non può essere ridotta a funzione di essi. Recalcati nota come il tema dell’identità di genere fosse assente nella prima fase dei movimenti di liberazione sessuale iniziati sotto la spinta della contestazione del Sessantotto, mentre oggi ha acquisito centralità. Tuttavia, in questa legittima rivendicazione della scelta anche inconscia del proprio sesso, egli segnala giustamente il rischio di reputare come automaticamente pacificata e risolta una sessualità che abbia adeguato il proprio genere non all’anatomia ma alla scelta soggettiva.

Il punto di partenza, come avviene spesso nelle riflessioni di Recalcati, è comunque ancora una volta Lacan. Stavolta, si tratta dell’affermazione relativa all’inesistenza del rapporto sessuale. Affermazione di certo paradossale e, come spesso avviene per le tesi di Lacan, e ancor più per quelle di novelli allievi che si autodefiniscono da lui ispirati, si tratta di assunti che vanno contro il pensiero comune. Banalizzo, e so di farlo, ma per fare un esempio: tutti pensiamo che l’amore materno sia importante e fondante e, allora, giù a segnalarne le potenzialità distruttive. In questo caso, se pensavamo che la sessualità fosse un momento di profondo incontro con l’altro, ebbene, ci sbagliavamo: mai come durante l’atto sessuale siamo soli con noi stessi e distanti dall’altro. Insomma, l’esperienza erotica è quella che ci consente di sentire il corpo e l’anima del partner nella loro massima vicinanza, fino a poter raggiungere vette estatiche come nelle pratiche tantriche, o si tratta sempre solo del proprio godimento, anche quando si esprime nella capacità di far godere l’altro? Inoltre, la questione del rapporto tra desiderio sessuale e dimensione affettiva/amore non è mai facilmente risolvibile. La potenziale forza eversiva della sessualità, con il conseguente timore che suscita in chi detiene il potere, è testimoniata dal fatto che anche le lotte della comunità Lgbt sinora si siano risolte più nel diritto al matrimonio piuttosto che condurre al riconoscimento del diritto a un sesso libero, svincolato dal legame affettivo. Ad esempio, come segnala Manzotti, anche in tempi recentissimi nella emancipata California è stata sdoganata la poligamia, ma solo a patto che avvenga all’interno di relazioni affettive significative tra più persone. Insomma, il piacere sessuale puro, fine a se stesso, continua a essere un tabù. Ma perché è cosi? Perché, in tante culture, è considerato sbagliato che persone adulte e consenzienti traggano piacere dai loro corpi attraverso pratiche sessuali?

Tornando al libro, la tesi di Lacan secondo cui il “rapporto sessuale non esiste” mira a ricordarci come nella sessualità umana, a prescindere dalla declinazione in cui essa si concretizzi, vi sia qualcosa che rende impossibile il rapporto. Anche se fosse possibile emancipare la sessualità da tutti i dispositivi disciplinari e morali che la opprimono, essa resterebbe comunque perturbante e disarmonica. Per la posizione psicoanalitica non si tratta di combattere per i diritti civili di tutti, battaglia in sé sacrosanta, ma di affrontare il tema più profondamente. La lezione della psicoanalisi ci impone di credere che il desiderio, prima di incontrare il partner, sia guidato sul piano inconscio da una pluralità di fantasmi che regoleranno tale incontro.

È ciò che rende irriducibilmente diversa la vita sessuale umana da quella animale: la sessualità umana, a prescindere da come si realizza, non poggia su nessun istinto ed è, dunque, obbligata a separarsi dalla natura. L’accoppiamento sessuale nella vita umana non dipende solo da risposte e reazioni istintuali e le nostre complessità perverso-polimorfe ci impongono tragitti tortuosi e contraddittori, dice Recalcati. “Contrariamente a quanto accade nel mondo animale, dove colori, odori, stagioni, maturazione degli organi riproduttivi sono comandi naturali sufficienti a innescare un accoppiamento tra i sessi senza inciampi, il percorso del desiderio sessuale umano è inevitabilmente labirintico e accidentato”. L’istinto obbedisce alla legge universale della natura, mentre la pulsione sessuale è senza legge, per principio sregolata, deviata, assolutamente singolare, anarchica, iperedonista, perversa e polimorfa. Ciò che ci differenzia dagli animali è l’esperienza del godimento, che va oltre l’istinto. Questa esperienza comporta sempre, oltre all’estasi e alla gioia, all’eccitazione e all’erotismo, al piacere e al godimento, una quota irriducibile di turbamento e di inquietudine. Il rapporto dell’essere umano con il proprio corpo è sempre un “rapporto disturbato” dal godimento che si pone come un’esigenza, un eccesso, una spinta che irrompe nella routine della vita altrimenti regolata dal sonno istintuale. Infatti, mentre il piacere si mantiene in un’area di equilibrio e di moderazione, il godimento con il suo carattere eccessivo scompagina questa zona che diviene tumultuosa, eccitante e inquietante insieme. La natura anarchica del desiderio umano rivela il suo statuto nomade, erratico, che mal si combina con la normatività di una relazione coniugale monogama. La potenza del desiderio rischia di mettere a repentaglio ciò che si è costruito in tanti anni ed in tante situazioni, che a volte ritroviamo nella pratica clinica; è proprio l’irruenza del desiderio a mettere in crisi relazioni stabili e durature dove non manca l’affetto ma è venuta meno la passione.

In ogni caso, nonostante tutto, Recalcati lascia aperta una speranza. Il confine oltre il quale il piacere deborda nel godimento è sempre sottile. La vita sessuale dell’uomo, per definizione, va oltre il principio del piacere. Il godimento spinge a travalicare questo limite. Quando ciò avviene in negativo assistiamo alla trasformazione dell’eccitazione in impeto violento, della tenerezza in possesso, del desiderio in brama incontrollabile, dal trovarsi insieme al perdersi. Tuttavia, questo andare oltre, che può diventare un eccesso rovinoso e distruttivo, può costituire anche un’eccedenza positiva, che arricchisce la vita. Il godimento perverso è distruttivo, ma il godimento erotico afferma la vitalità della nostra esperienza umana. L’essenza della perversione non risiede nella scelta di talune pratiche piuttosto che altre ma è più radicale e consiste nella riduzione del partner a puro oggetto del proprio godimento. L’altro diviene solo uno strumento e il perverso accentua la dimensione autistica, senza rapporto, del sesso. Non si tratta, come è ovvio, di un’opposizione rigida tra sessualità buona e cattiva. Il rapporto tra piacere e godimento è molto complesso ma non necessariamente irrisolvibile. Mentre infatti il piacere si mantiene in una zona di equilibrio e di moderazione, il godimento scompagina quella zona rendendola tumultuosa, eccitante e inquietante insieme. Tuttavia, è possibile che tale perturbazione possa essere “il nome di una gioia” (p.200). Ciò  avviene quando c’è l’amore che sottrae il corpo sessuale all’anonimato, per renderlo unico e insostituibile. Come dire, nonostante Freud e Lacan, duemila anni di cristianesimo non si possono buttare…. E sarà dunque ancora una volta la forza dell’amore a renderci migliori…

 

É possibile temere di ricevere un complimento? La paura della valutazione positiva nel disturbo borderline di personalità

Il disturbo borderline di personalità (DBP) colpisce circa l’1,6% della popolazione generale; diagnosticamente, è definito come un pattern pervasivo di instabilità, in molteplici aspetti della vita dell’individuo, tra cui l’immagine di sé, delle relazioni interpersonali e dell’umore.

 

Inoltre, gli individui con disturbo borderline di personalità mostrano un’impulsività marcata, che si manifesta in comportamenti ad alto rischio, comportamenti autolesivi e suicidi, esperienze di rabbia intensa e/o difficoltà nel controllarla. Questo quadro sintomatico si sviluppa entro la prima età adulta ed è presente in vari contesti ed ambiti (American Psychiatric Association, 2013).

Come espresso nel primo criterio per la diagnosi di disturbo borderline di personalità del DSM-5, i pazienti con questo disturbo compiono sforzi disperati per evitare un reale o immaginario abbandono. La percezione della separazione o del rifiuto imminenti, possono portare ad alterazioni profonde dell’immagine di sé, dell’umore, della cognitività e del comportamento. (APA, 2013).

La cognizione sociale nel disturbo borderline di personalità

La letteratura dimostra che spesso gli individui con disturbo borderline di personalità sono caratterizzati da bias nel percepire ed elaborare adeguatamente i segnali sociali emessi durante un incontro, che comprendono non soltanto il linguaggio, ma anche l’espressione facciale e i gesti corporei (Roepke, Vater, Preißler, Heekeren, & Dziobek, 2012). Tali bias sono una caratteristica distintiva anche e soprattutto dei soggetti con disturbo di ansia sociale (DAS), i quali temono di essere giudicati negativamente (Wells, Clark, Salkovskis, Ludgate, Hackmann, & Gelder, 1995). Recentemente la ricerca ha evidenziato che le difficoltà sperimentate nella cognizione sociale, non riguardano soltanto le informazioni negative, ma anche quelle positive; alcuni dati dimostrano infatti che diversi soggetti sperimentano una vera e propria paura della valutazione positiva (Fear of Positive Evaluation- FPE) altrui (Rodman, 2008). Quest’ultima si verifica come effetto di un’anticipazione o di un’effettiva ricezione di lodi o feedback favorevoli durante situazioni sociali. È noto infatti che spesso i soggetti con disturbo borderline sono caratterizzati da compromissioni nella positività; queste ultime includono alterazioni sia nello sperimentare affetti positivi, sia nell’interpretare informazioni positive rimandate dagli altri (Fredrick & Luebbe, 2020).

La paura della valutazione positiva è stata studiata raramente in altri disturbi mentali diversi dal disturbo da ansia sociale, sebbene esistano alcuni risultati preliminari di un’associazione tra la paura della valutazione positiva e i sintomi del disturbo borderline di personalità. Secondo alcuni autori come Linehan (1993) la paura e il disagio potrebbero verificarsi come conseguenza del timore dell’abbandono dei pazienti borderline: se sembra che stiano migliorando nel trattamento o nella vita quotidiana, i terapeuti o le persone significative potrebbero pensare che non abbiano più bisogno di cure o di trattamento, interrompendo così la terapia o la relazione. Questa ipotesi può spiegare le tendenze autodistruttive spesso osservate negli individui con disturbo borderline di personalità e la loro propensione a minare se stessi proprio prima di raggiungere un obiettivo: essere considerati abbastanza autosufficienti da essere abbandonati. Così, gli obiettivi sono spesso sabotati per evitare un abbandono o un rifiuto. Weinbrecht, Roepke, e Renneberg, nel 2020, hanno confrontato la paura della valutazione positiva in un campione di 100 soggetti, che comprendevano individui con disturbo borderline di personalità, con disturbo d’ansia sociale e un un gruppo di controllo, esaminando le associazioni tra la paura della valutazione positiva, l’ansia sociale e la sensibilità al rifiuto. In particolare gli autori, somministrando differenti test tra i quali il Social Phobia Inventory (SPIN; Connor, Davidson, Churchill, Sherwood, Foa, Weisler, 2020) par valutare l’ansia sociale, il Rejection Sensitivity Questionnaire (RSQ; Feldman, Downey, 1994) per valutare la sensibilità al rifiuto e il Fear of Positive Evaluation Scale (FPES; Weeks, Heimberg, Rodebaugh, 2008) per valutare la paura della valutazione positiva, prevedevano che anche il disturbo borderline fosse caratterizzato da un’elevata paura della valutazione positiva, e ipotizzavano che il campione clinico (DAS e DBP) avrebbe ottenuto dei livelli più elevati di paura di valutazioni positive rispetto al gruppo di controllo. Inoltre si aspettavano che l’ansia sociale, caratteristica distintiva di entrambi i disturbi, potesse spiegare l’aumento di paura di valutazioni positive e che negli individui con disturbo borderline di personalità quest’ultima fosse associata alla sensibilità al rifiuto.

La valutazione positiva nel disturbo borderline e nell’ansia sociale

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati mostrano che la paura della valutazione positiva aumenta nei pazienti con disturbo d’ansia sociale e disturbo borderline di personalità rispetto al gruppo di controllo, sebbene non ci siano differenze significative tra i due gruppi; risultati simili sono stati ottenuti anche per la sensibilità al rifiuto. Inoltre, come previsto, la paura della valutazione positiva risulta correlare significativamente con l’ansia sociale in tutti i gruppi di soggetti: la maggior parte della varianza nella paura di essere valutati positivamente è spiegata infatti dall’ansia sociale. La sensibilità al rifiuto risulta invece correlare con la paura della valutazione positiva solo nei soggetti borderline.

Lo studio di Weinbrecht e colleghi fornisce quindi supporto all’ipotesi che non soltanto i soggetti con ansia sociale ma anche i soggetti con disturbo borderline di personalità valutano le informazioni sociali positive in maniera più ansiosa rispetto ad un campione sano; sembrano infatti caratterizzati da problemi nell’integrazione di informazioni positive autoreferenziali (Korn, La Rose, Heekeren, Roepke & 2016). Inoltre gli individui borderline riferiscono di essere particolarmente a disagio nel ricevere complimenti, probabilmente perché possono provare emozioni negative come rabbia e vergogna, a causa di un’incongruenza tra la ricezione di un feedback positivo da parte di qualcuno e l’idea negativa di sé (Winter, Bohus & Lis, 2017). Un’elevata paura della valutazione positiva può quindi comportare problemi sociali, con una conseguente minore qualità della vita (Reichenberger & & Blechert, 2018), un funzionamento psicosociale compromesso (Alvarez-Toma et al., 2017) e una riduzione dell’affetto positivo. Infine, nella pratica clinica, lo studio fornisce alcune indicazioni per i terapeuti, i quali devono essere consapevoli che per un paziente borderline ricevere un complimento o un feedback positivo potrebbe risultare difficile da accettare (Weinbrecht, Roepke, & Renneberg, 2020).

 

Cosa ci piace così tanto dei social network – Psicologia Digitale

Il rapporto tra noi ed i social network non è a senso unico: non solo le nostre caratteristiche ma anche le loro specificità ci influenzano.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 24) Cosa ci piace così tanto dei social network

 

Perché le persone utilizzano i social network

 Per avere una stima di quanto siano diffusi i social network basta un numero: ad oggi gli utenti attivi sulle piattaforme social superano i 4 miliardi (report We are social, 2021).

Da quando Myspace, Facebook e poi via via tutti gli altri sono approdati sui nostri computer prima e sui nostri smartphone dopo, sono passati più di 10 anni. Nel tempo i social network sono cambiati per aspetto, opzioni, funzionalità, e con tutto questo è mutato anche come li usiamo e perché.

Inizialmente si riteneva che le persone li usassero per rientrare in contatto con vecchi amici, parenti, conoscenti e per trovare possibili partner (per esempio: Gülnar et al., 2010; Nadkarni & Hofmann, 2012); adesso fa sorridere pensarla così, ma se torniamo indietro nel tempo (per chi c’era e può ricordarlo!) possiamo ritrovarci in questa visione.

Mantenere i contatti con amici e familiari però non è bastato. Si è fatta largo la voglia di esprimere opinioni e socializzare con persone nuove con i nostri stessi interessi: dalle ricette alla politica, dalla musica allo sport, condividere punti di vista su specifici argomenti è diventata una funzione importante dei social network.

Bisogni e motivazioni dei social network

Perché li usiamo, quali sono le motivazioni e i bisogni cui i social network assolvono e in definitiva perché i social network ci piacciono così tanto?

In linea generale l’uso dei social network è modulato da differenze individuali e da uno spettro di motivazioni.

Le prime ricerche a riguardo (per esempio: Gülnar et al., 2010; Nadkarni & Hofmann, 2012) suggerivano che l’uso (in particolare di Facebook) è motivato da alcuni bisogni primari: bisogno di appartenenza, di espressione di sé, desiderio di essere parte di una comunità e necessità di estendere la rete delle amicizie. Questi bisogni sono influenzati da fattori demografici e culturali oltre che personali, come timidezza e autostima.

Più recentemente, applicando il modello dei Big Five, è stato indagato come specifici tratti di personalità siano correlati all’uso dei social network (Kircaburun et al., 2020). Come intuibile, persone con tratti di estroversione usano i social media per lo più per mantenere le loro relazioni; chi ha mostrato bassi livelli di coscenziosità tende a volersi esprimere e presentarsi in un certo modo per ottenere più popolarità. Alti tratti di nevroticismo invece sono legati alla visione dei social network come passatempo ed infine alti livelli di apertura all’esperienza sono predittivi di chi li vede come strumento per mantenere relazioni, informarsi e imparare cose nuove.

Alcuni contributi arrivano anche dalle neuroscienze. Diversi autori si sono interessati alla comprensione di quali strutture e processi neurali sono implicati nell’elaborazione degli stimoli presenti nei social network.

Per esempio, il “like”, funzione presente in tutti i social media con piccole variazioni, sarebbe associato al circuito neurale delle ricompense: le specifiche aree cerebrali che rispondono a ricompense primarie e secondarie sarebbero coinvolte anche nell’elaborazione di questi stimoli/feedback che modellano l’apprendimento per rinforzo (Sherman et al., 2018).

Ci sono anche delle differenze tra i diversi social: Instagram e YouTube sono più legati a tempo libero, intrattenimento, una rappresentazione di sé più popolare, Facebook e Twitter al tenersi aggiornati e mostrarsi informati, mentre Whatsapp al mantenimento dei rapporti con le persone che conosciamo (Kircaburun et al., 2020).

Che sia per esprimere le proprie opinioni, tenersi aggiornati o per mantenere i rapporti con i nostri amici, bisogni e motivazioni influenzano la scelta su come e quali social utilizziamo.

Ma il rapporto tra noi ed i social network non è a senso unico: non solo le nostre caratteristiche ma anche le loro specificità ci influenzano. Infatti, il nostro comportamento, i bisogni e le motivazioni sono condizionati dalle digital affordance.

Il modello NAF e le affordance digitali

Le digital affordance possono essere definite come “possibilità di azione offerte dalla tecnologia agli utenti, o le affordance sono ciò che un utente può potenzialmente fare attraverso l’uso della tecnologia” (Karahanna et al., 2018). Analogamente a quelle teorizzate da Gibson nel 1977, anche nel mondo virtuale sono presenti delle affordance, cioè delle proprietà, qualità o funzioni che ci suggeriscono delle azioni: cliccare su “condividi” o su “mi piace” sono delle affordance perché indicano all’utente cosa può fare. Per esempio, le paralinguistic digital affordances (PDA), le affordances digitali paralinguistiche, sono tutti quei simboli e segnali che permettono agli utenti di interagire ed esprimersi in maniera non verbale, come i “like” su Facebook (Hayes et al., 2016). Altre digital affordance sono “iscrivi”, “commenta”, “cerca”, un bottone, un link, insomma qualsiasi elemento che guidi ad una azione; alcune sono comuni a quasi tutti i social (come il “commenta”), altre sono più specifiche (come il pin su Pinterest).

Secondo il modello NAF (need-affordance-features) di Karahanna e colleghi (2018) il motivo fondamentale per cui ci piacciono così tanto i social network è che sono pieni di affordance che soddisfano uno o più bisogni. I bisogni considerati particolarmente rilevanti quando si tratta di social network sono: autonomia, far qualcosa perché si sceglie liberamente di farlo e non per obblighi (sociali, normativi); competenza, sentirsi competenti ed efficaci; il bisogno di ‘avere un posto’, cioè il desiderio di avere un ambiente personale che viene sentito come “proprio”; relazione, il bisogno di sviluppare relazioni interpersonali; il senso di identità che si riferisce all’avere un chiaro e definito senso di sé ed, infine, il bisogno di continuità dell’identità, cioè di avere un senso di sé stabile nel tempo.

Per tradurre tutto questo in un esempio pratico, pubblichiamo quello che ci va quando ci va (autonomia), perché sappiamo usare il mezzo (competenza), sul nostro profilo che possiamo personalizzare come vogliamo (avere un posto), abbiamo un network di contatti (relazione), esprimiamo noi stessi (identità) attraverso contenuti che rimangono nel tempo sul nostro profilo (continuità).

Quindi siamo motivati ad utilizzare le opzioni e le funzioni che ci forniscono affordance che soddisfano questi bisogni.

Non tutti i bisogni sono sempre soddisfatti e non tutte le affordance li soddisfano tutti. Per esempio, si può pubblicare ciò che si vuole nei limiti di ciò che è consentito all’interno del sito; pubblicare contenuti può rispondere al bisogno di esprimere la propria identità ma non a quello di relazione.

In generale, inquadrare meccanismi, bisogni e motivazioni che influenzano gli utenti sui social network è utile per comprendere quali sono le leve che spingono le persone a comportarsi online in un certo modo. Ricordandoci, però, che i social, come qualsiasi strumento, non sono in sé buoni o cattivi: come per tutti i mezzi, dipende dall’uso che se ne fa.

 

Adolescenza adottiva e devianza

Diversi studi hanno indagato la relazione tra problemi comportamentali e ragazzi adolescenti adottati.

Antonio Albanesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

L’adolescenza è identificata come forse il più critico dei periodi del ciclo di vita: questo perché rappresenta un fondamentale momento di transizione, che porta con sé enormi cambiamenti fisici, psicologici e sociali, spesso estremamente difficili da accettare o da comprendere per i ragazzi che li affrontano. Da un lato, infatti, l’adolescente percepisce di non essere più un bambino: il ragazzo si trova ad affrontare nuovi doveri e responsabilità, le persone cambiano nei suoi confronti e le aspettative riposte in lui si trasformano. A questo si aggiunge il fatto che le relazioni che hanno caratterizzato il suo mondo affettivo per tutta la vita si modificano radicalmente. Dall’altro, risulta per loro molto difficile sentirsi “completamente” adulti: in parte perché non possiedono ancora i mezzi e le competenze sufficienti, ma soprattutto perché non sanno come muoversi in un mondo nuovo, in cui nessuno risparmia critiche e giudizi. Inoltre, il loro corpo muta rapidamente e spesso i ragazzi fanno molta fatica ad accettare le loro nuove forme. Questo certo non contribuisce a farli sentire a loro agio nella loro “nuova veste di adulto”. Se aggiungiamo il fatto che la società si sta evolvendo sempre più in fretta e che anche gli adulti, talvolta, si trovano senza i mezzi per accompagnare i loro figli (o allievi) in questa transizione, possiamo mettere la ciliegina sulla torta (Pianfetti, G. 2017)

Il ruolo dell’aggressività negli adolescenti adottati e non adottati

Alcune revisioni meta-analitiche e sistematiche hanno concluso che gli adolescenti adottati mostrano una vasta gamma di difficoltà nei domini cognitivi, comportamentali, emotivi e interpersonali (Van den Dries e colleghi, 2009; Van Ijzendorn e colleghi, 2005). Sembra che questi tipi di problemi li mettano ad alto rischio di sviluppare problemi di salute mentale, in particolare problemi comportamentali esternalizzanti, rispetto ai loro coetanei non adottati (Askeland e colleghi, 2017; Barroso e colleghi, 2017). Tuttavia, anche se le esperienze avverse prima dell’adozione possono aumentare la probabilità che gli adolescenti adottati sviluppino problemi di aggressività, solo alcuni studi si sono concentrati specificamente sul dominio dell’aggressività negli adolescenti adottati (Torres-Gomez e colleghi, 2018). Uno studio recente ha esaminato gli effetti delle norme genitoriali e dell’attaccamento sicuro sull’aggressività, valutando il contributo distinto di madri e padri in un campione di adolescenti adottati e non adottati (Juffer, van Ijzendorn e Palacios, 2011). I risultati qui hanno supportato il suggerimento di un effetto diretto dei comportamenti coercitivi paterni sull’aggressività degli adolescenti, mentre l’effetto della coercizione materna era mediato dall’attaccamento sicuro. Questo modello è valido sia per le ragazze che per i ragazzi adottati e non. Estendendo i risultati precedenti circa la mediazione di attaccamento alla genitorialità e all’aggressività, i risultati mostrano l’importanza di valutare separatamente le fasi della prima e tarda adolescenza per una migliore rappresentazione delle differenti dinamiche evolutive durante l’adolescenza. Inoltre, lo studio conferma le relazioni predette tra accettazione/coinvolgimento e rigore/imposizione, come osservato in studi in Spagna con altri indicatori, estendendo quindi l’esistenza di un’aggressività multidimensionale (Gallarin e Alonso-Arbiol, 2012).

I risultati supportano un modello di mediazione parziale in cui l’accettazione/coinvolgimento di entrambi i genitori prevedeva l’attaccamento sicuro nei loro confronti e dove la coercizione/imposizione del padre e l’attaccamento sicuro materno predicevano l’aggressività dell’adolescente. Questi risultati sono un po’ diversi da quelli trovati da Gallarin e Alonso-Arbiol (2012) per la tarda adolescenza, dove l’attaccamento sicuro mediava pienamente la relazione tra genitorialità e aggressività. Caratteristiche idiosincratiche delle fasi adolescenziali possono spiegare questa differenza. Nella tarda adolescenza, le ragazze e i ragazzi possiedono sufficienti capacità cognitive ed emotive per integrare sia le norme disciplinari che affettive nella rappresentazione dell’attaccamento sicuro. Quindi, l’attaccamento farebbe da intermediario tra la norma genitoriale della coercizione/imposizione e quella dell’accettazione/implicazione. A differenza della tarda adolescenza, la prima adolescenza non ha tali capacità cognitive e la maturità emotiva per poter integrare le diverse sfaccettature delle regole genitoriali nella loro rappresentazione dell’attaccamento sicuro. Questi adolescenti più giovani sarebbero in grado di distinguere le interazioni affettive e coercitive con i genitori, come esempio di pensiero concreto o ragionamento “bianco e nero”. Questa idea si riflette nell’approccio della struttura di mentalizzazione, il cui sviluppo è sostenuto da modelli interni funzionanti alla base dell’attaccamento. La mentalizzazione è intesa come un tipo di abilità immaginativa per percepire e interpretare il proprio comportamento e quello degli altri in termini di stati mentali intenzionali (cioè desideri, sentimenti, bisogni, e obiettivi). Come tale, i cambiamenti sono identificati nella fase evolutiva dell’adolescenza. La ricerca ha dimostrato che le capacità di mentalizzazione migliorano con l’età, essendo migliori nella tarda rispetto che nella prima adolescenza (Gallarin, Torres-Gomez e Alonso-Arbiol, 2021). Pertanto, è sensato pensare che le capacità di mentalizzazione basate sull’attaccamento degli adolescenti più grandi, consentono loro una posizione più riflessiva per comprendere e integrare le due dimensioni delle norme di educazione genitoriale che sono alla base degli stati mentali dei genitori. Da ciò si può dedurre che l’attaccamento sicuro non medi tra le variabili coercizione/imposizione e aggressività in questa fase adolescenziale. Tuttavia, la ricerca futura dovrebbe testare questo tentativo di spiegazione in un campione congiunto di adolescenti precoci e tardivi.

La previsione di un’associazione più diretta di norme paterne (vs. materne) nell’aggressività, è stata parzialmente corroborata dall’effetto diretto della variabile coercizione/imposizione relative ai padri. Tuttavia, i risultati mostrano anche un’interessante mediazione non prevista di attaccamento materno nel rapporto tra la variabile accettazione/coinvolgimento e la variabile aggressività che non è stata osservata nel modello di Gallarin e Alonso-Arbiol (2012) sulla tarda adolescenza. Questi risultati sono congruenti con la precedente divisione dei ruoli di genere trovata nella genitorialità e nell’attaccamento. Come hanno osservato alcuni autori (Koehn e Kerns, 2018) nella loro meta-analisi, esiste un’associazione più forte tra l’attaccamento sicuro degli adolescenti e la genitorialità reattiva nelle madri, mentre i padri sembrano svolgere un ruolo di autorità. Di conseguenza, nello studio condotto in Spagna, l’affettività delle madri è stata più rilevante nel predire l’aggressività durante la prima adolescenza, mentre l’effetto del padre è stato direttamente associato a comportamenti coercitivi. Pertanto, i risultati sembrano essere in linea con un modello di genere tradizionale sulla distribuzione delle funzioni genitoriali, vale a dire, madre legata all’affettività e il padre associato all’autorità; la minore capacità dei ragazzi più giovani di integrare entrambi gli elementi, rafforza la percezione di questa divisione dei ruoli. Al contrario, i tardi adolescenti sono più capaci di integrare la genitorialità legata all’affetto e alle regole coercitive, così come riescono ad integrare diversi aspetti delle esperienze di attaccamento in un’unica organizzazione complessiva dell’attaccamento dovuta al consolidamento della fase di pensiero operativo formale e alle capacità di mentalizzazione aumentate. Inoltre, negli adolescenti più grandi, le risorse riguardanti l’affetto variano sia in funzione dell’importanza che assume il gruppo dei pari sia all’aumento delle figure di attaccamento.

I comportamenti devianti negli adolescenti adottati

La letteratura ha individuato diversi studi che hanno indagato la relazione tra problemi comportamentali e ragazzi adolescenti adottati. Ad esempio, Miller e colleghi (2000) suggeriscono che i genitori adottivi possono essere più sensibili alle disfunzioni psicologiche e avere maggiori probabilità di ottenere servizi clinici per i loro figli adottivi. I genitori adottivi possono anche essere più consapevoli dei servizi clinici in quanto risultato del processo di adozione e di eventuali consulenze ricevute. In particolare, esiste un corpo di ricerca significativo in letteratura che suggerisce che gli individui adottati sono ad alto rischio di sviluppare una psicopatologia, in particolare, problemi di condotta. Una meta-analisi condotta da Wierzbicki (1993) ha esaminato 66 studi pubblicati che confrontavano i partecipanti adottati con i loro coetanei non adottati su sette domini di funzionamento. Sebbene non furono riscontrate differenze significative sui livelli dei disturbi internalizzanti (attribuibili a cause interne), delle anomalie neurologiche o delle caratteristiche psicotiche, i partecipanti adottati mostrarono rappresentazioni significativamente maggiori nei campioni clinici, livelli significativamente più alti nei disturbi esternalizzanti (attribuibili a cause esterne) e nei problemi scolastici, nonché una gravità generale significativamente maggiore rispetto ai partecipanti non adottati. Altri ricercatori suggeriscono invece che gli studi riferenti alti livelli di problemi comportamentali tra gli individui adottati, sono stati spesso condotti utilizzando un campione clinico di individui adottati, e che i risultati non sono generalizzabili all’intera popolazione adottata (Smith, 2001). Molti altri studi che suggeriscono che gli individui adottati possano avere un rischio maggiore di sviluppare problemi comportamentali, basano i loro risultati sull’elevata rappresentanza degli individui adottati nei contesti clinici (Kotsopoulos e colleghi, 1988). Mentre gli individui adottati costituiscono circa l’1% – 2% della popolazione adolescente degli Stati Uniti, rappresentano l’8,7% – 21,2% degli adolescenti in trattamento con ricovero e l’1,1% – 7,5% dei pazienti ambulatoriali (Haugaard, 1998). Anche se i ricercatori hanno concluso che gli adolescenti adottati sono generalmente sovrarappresentati tra coloro che ricevono un trattamento psicologico, non sono d’accordo riguardo le influenze che determinano la maggiore prevalenza. C’è un corpo di ricerca in crescita che suggerisce esista una maggiore prevalenza per il semplice fatto che potrebbe essere in parte dovuta alla maggiore disposizione a cercare assistenza psicologica tra genitori adottivi (Miller e colleghi, 2000). Ad esempio, Stams e colleghi (2000) hanno esaminato le differenze relative ai problemi comportamentali nei partecipanti adottati e non adottati attraverso le valutazioni delle madri e degli insegnanti. In quel caso non furono trovate differenze statisticamente significative tra i due gruppi su nessuno dei domini misurato attraverso le valutazioni degli insegnanti. Al contrario, le madri delle ragazze adottate riportarono in modo significativo un comportamento più aggressivo e problemi comportamentali esternalizzanti rispetto alle madri delle ragazze non adottate; ancora, le madri dei ragazzi adottati riportarono invece problemi significativamente maggiori in ogni ambito misurato tranne problemi di pensiero, rispetto alle madri dei ragazzi non adottati. Questi risultati sostengono l’ipotesi che le persone che scelgono di adottare bambini possano essere più sensibili a cambiamenti comportamentali rispetto ai genitori biologici.

Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l’alto rischio di sviluppare una psicopatologia degli individui adottati sia relativo a problemi di abbandono irrisolti, confusione di identità e pensieri sulla nascita dei genitori (Hollingsworth, 1998; Feigelman, 1997; Smith, 2001). Nel momento in cui gli individui adottati raggiungono la fase adolescenziale, iniziano a diventare più consapevoli delle differenze fisiche tra loro e i loro genitori adottivi, innescando ulteriori fantasie sui genitori naturali (Silin, 1996).

“Se un tale problema è fondamentale per la crescita dell’adottato, allora tale ricerca dell’identità e il turbamento si manifesterebbero attraverso una condotta più disfunzionale rispetto al non adottato, in quanto l’adottato passa direttamente dall’infanzia all’età adulta” (Feigelman, 1997).

La soddisfazione per l’adozione, o la soddisfazione della famiglia, è un possibile fattore protettivo che ha ricevuto poca attenzione in letteratura. Grotevant e colleghi (2001) hanno esaminato la compatibilità tra i partecipanti adottati e i genitori adottivi per un periodo di otto anni come segnalato dai genitori adottivi. Dopo aver classificato le famiglie in cinque gruppi che vanno da coerentemente compatibile a coerentemente incompatibile, i ricercatori hanno osservato che i punteggi dei problemi comportamentali aumentavano al diminuire della compatibilità.

Influenze genetiche e ambientali sul comportamento antisociale

Una considerevole ricerca si è concentrata sull’obiettivo di spiegare l’eziologia del comportamento antisociale. In particolare, è stato studiato in maniera estesa il ruolo delle influenze familiari. Le influenze familiari disfunzionali come la psicopatologia nei genitori (Robins, 1966), gli stili genitoriali coercitivi (Patterson, Reid e Dishion, 1992), gli abusi fisici (Dodge, Bates e Pettit, 1990) e i conflitti familiari (Norland, Shover e colleghi, 1979) sono stati dimostrati essere significativamente correlati con il comportamento antisociale. Spesso, queste variabili sono state considerate facenti parte delle influenze ambientali e la possibilità che esse possano riflettere anche influenze genetiche, non è stata molto considerata. In particolare, in uno studio condotto da Rhee e Waldman nel 2002, gli autori hanno effettuato una meta analisi su 51 studi riguardanti i gemelli e l’adozione al fine di stimare la rilevanza delle influenze genetiche e ambientali sul comportamento antisociale. Ebbene, i risultati furono che la grandezza delle influenze familiari era più bassa negli studi sull’adozione genitore-figlio rispetto sia agli studi sui gemelli che alle adozioni di fratelli. L’operatività, il metodo di valutazione, il metodo di determinazione della zigosità (la zigosità è il grado in cui entrambe le copie di un cromosoma o di un gene hanno la stessa sequenza genetica; in altre parole, è il grado di somiglianza degli alleli in un organismo) e l’età, funsero da moderatori significativi sull’importanza delle influenze genetiche e ambientali nel comportamento antisociale, ma non si evidenziarono differenze significative sulla rilevanza delle influenze genetiche e ambientali per maschi e femmine.

In un altro studio condotto da King e colleghi nel 2009, gli autori hanno esaminato le influenze genetiche e ambientali dell’alcolismo dei genitori sul comportamento disinibito della progenie, confrontando un campione di adolescenti adottati e non adottati cresciuti in famiglie in cui, almeno un genitore, aveva una storia di dipendenza da alcol rispetto a quelli cresciuti in famiglie senza storia di alcolismo. I risultati emersi furono diversi. Innanzitutto, gli effetti della storia di dipendenza da alcol dei genitori erano condizionati dallo stato di adozione, in modo tale che una storia di dipendenza da alcol dei genitori fosse associata a livelli più elevati di disinibizione solo quando gli adolescenti erano biologicamente legati ai genitori accuditori. Questa scoperta suggerisce che l’associazione tra una storia di dipendenza da alcol dei genitori e la disinibizione comportamentale della prole è in gran parte attribuibile alla trasmissione genetica piuttosto che ambientale. Inoltre, è stato scoperto che la dipendenza da alcol dei genitori era associata a livelli elevati nella prole biologica di una varietà di indicatori di disinibizione comportamentale, e non solo all’uso di alcol o altre sostanze. Questi risultati implicano che ciò che viene trasmesso geneticamente è una tendenza generale verso il comportamento di disinibizione, che si estende attraverso l’uso di sostanze, i tratti della personalità, gli atteggiamenti e i comportamenti. Questi risultati rafforzano le ricerche precedenti, che hanno stabilito un fattore esternalizzante altamente ereditabile che collega i disturbi mentali che hanno in comune tratti comportamentali disinibiti. Gli autori sostengono anche la tesi secondo cui il comportamento disinibito, antisociale e l’uso di sostanze siano espressioni variabili di una vulnerabilità comune e generale. Inoltre, gli studiosi hanno ottenuto alcune prove sull’abuso di alcol da parte dei genitori come fattore di rischio ambientale condiviso. Un nuovo contributo della presente indagine è stata la capacità degli autori di vivisezionare le influenze ambientali e familiari dagli effetti genetici. Le loro analisi sull’esposizione all’abuso di alcol da parte dei genitori tra gli adottati ha fornito un test diretto dell’effetto ambientale di esporre un bambino a un genitore accuditore con problemi di alcol, mostrando come l’esposizione all’abuso di alcol da parte dei genitori fosse associato a una probabilità sostanzialmente maggiore di avere consumato alcol negli adolescenti adottati. Le probabilità di aver usato alcol erano circa quattro volte maggiori tra gli adottati esposti all’abuso di alcol da parte dei genitori rispetto ad adottati che non erano similmente esposti. In sintesi, l’esposizione all’abuso di alcol da parte dei genitori durante la propria vita ha rappresentato un fattore di rischio ambientale per il consumo di alcol negli adolescenti adottati. Tuttavia, nessuno degli altri effetti dell’esposizione dei genitori sulla disinibizione della prole fu significativo. Ciò è in contrasto con una storia di dipendenza da alcol in un genitore imparentato biologicamente, che ha conferito una vulnerabilità generalizzata, in gran parte genetica, al comportamento disinibito nella prole adolescenziale, che era indipendente dall’esposizione diretta ai genitori con problemi di alcol.

 

La formazione sull’umanizzazione della cura in ambito sociosanitario. L’esperienza pluriennale di corsi in Residenza sanitaria assistenziale per anziani (RSA): una riflessione qualitativa

La nostra definizione di umanizzazione della cura è quella di processo che consiste nel ricondurre al centro dell’intervento la persona, con la propria esperienza di malattia e i propri vissuti.

 

Il contesto normativo e teorico

Ricevuto la prima volta l’incarico di un intervento informativo e formativo sull’umanizzazione delle cure, ci è sembrato subito un terreno scivoloso. Nel 2014 in Regione Lombardia è stato approvato un decreto regionale attinente l’accreditamento delle strutture sociosanitarie del territorio, con nuovi vincoli e responsabilità. All’interno di tale documento si obbligano le realtà interessate a svolgere formazione a tutto il personale di contatto sul tema dell’umanizzazione della cura. Una decisione maturata sia dopo recenti denunce di episodi di maltrattamenti verso gli utenti, sia perché finalmente è diventata legge l’idea che la qualità di un sistema sanitario si misuri anche con la capacità di accogliere i pazienti nella loro interezza, con tutte le loro esigenze psicologiche e sociali e non solo con l’efficienza economica, l’efficacia degli esiti, la disponibilità di innovazioni assistenziali, tecnologiche e terapeutiche. (DGR 2569/2014). Ma che cosa vuol dire umanizzazione della cura? E come poterne parlare al personale che, almeno sulla carta, è già specializzato e con esperienza? Ed anche quando avremo trovato materiale formidabile da fornire, come evitare la sensazione nei corsisti di sentire giudicato il proprio lavoro, oppure di sentire una sfilza di banalità su ciò che è alla base del loro operato quotidiano?

Allora abbiamo rinunciato a questa strada invertendo la rotta di 180 gradi: abbiamo pensato che la cornice vincente fosse quella di non considerare la cura umanizzata o disumanizzata “in sé”, ma che qualsiasi cura può essere umana o meno. Ovviamente un trattamento disumano “in sé” (maltrattante, per esempio) sarebbe già perseguibile a norma di legge e lontano dal tema del corso.

Noi ci stiamo muovendo invece in un’area grigia, più complicata, mutevole e incostante.

Come si fa a misurare se un tocco è fatto in modo umano? E com’è l’igiene quotidiana umanizzata? Si può misurare quanto sono umanizzate le cure? Anche qui avremmo potuto parlare di empatia e magari cercare qualche strumento per aumentarne i livelli. Ancora una volta però la sensazione è stata di non sapere “dove” questi strumenti sarebbero arrivati negli operatori, né se e quanto l’umanizzazione sarebbe stata presente nel personale che avremmo visto in aula.

Che cosa intendiamo con umanizzazione

Abbiamo allora proceduto per gradi.

Per la definizione di “umano” ci siamo chiesti cosa distinguesse una persona da un oggetto: pensieri, emozioni, sentimenti, sensazioni corporee (proprie ed esterne).

Non esaustivo ovviamente, però non è poco ed è sufficiente, secondo noi.

Porre questa domanda in aula ha infatti aiutato molto i partecipanti. Qualsiasi fosse la loro mansione si sono sentiti interrogati come esseri umani e non come funzione, cosa che purtroppo sempre più accade nei contesti lavorativi che frequentano.

Le lavagne mobili si sono rapidamente riempite di molte parole e riflessioni, tutte ascrivibili ad una delle 4 categorie elencate più sopra.

Questa è stata la base per proporre la nostra definizione di “umanizzazione”, che descriviamo come il processo che consiste nel ricondurre al centro dell’intervento la persona, con la propria esperienza di malattia e i propri vissuti.

Questa definizione poggia su tre pilastri teorici: è processuale, impermanente e relazionale.

Processuale nel senso etimologico di “muoversi in avanti” (pro-cedere). Indichiamo così il senso dell’insieme di azioni da intraprendere per raggiungere l’obiettivo e mantenerlo nel tempo. Abbandoniamo l’idea che ci sia qualcosa di preciso e definito da fare una volta per tutti per essere operatori umanizzati.

Impermanente perché uno stato mentale è transitorio. Questo costrutto permette all’operatore di riferirsi ad un tratto più “maneggiabile”. La persona prova ad auto-osservarsi e modificare il proprio stato, notando come sia fisiologicamente mutevole, sgravandosi così da un senso di giudizio più o meno esplicito. Si tratta infatti di “ri-condurre al centro dell’intervento” perché assumiamo come dato di fatto (gli attacamentologi e i clinici lo hanno ampiamente dimostrato e spiegato) che non è possibile, e probabilmente nemmeno auspicabile, rimanere sintonizzati con l’altro per tutto il tempo della relazione, nemmeno nella relazione madre-bambino più sicura, figuriamoci fra anziano, operatore e minutaggio. In Regione Lombardia per ogni anziano inserito in una residenza sanitaria assistenziale (RSA), da normativa regionale, vengono prescritti mediamente 901 minuti di assistenza settimanali comprensivi di personale assistenziale, medico, infermieristico, animativo e fisioterapico. In questi anni i nuovi ingressi stanno evidenziando un carico sanitario sempre più grande facendo aumentare le ore di intervento di personale medico e infermieristico con una netta riduzione del personale assistenziale che si ritrova a svolgere le stesse mansioni (igiene quotidiana, assistenza all’alimentazione, idratazione…) con meno tempo a disposizione. 901 minuti in definitiva sono 15 ore. 15 ore di assistenza su un complessivo di 168 ore settimanali disponibili…meno del 9% di attenzione settimanale!

Relazionale perché considerare l’Altro come umano significa considerarne sensazioni, emozioni, pensieri in relazione e provare a sintonizzarsi con essi; altrimenti è solo una speculazione metacognitiva, magari corretta, ma non relazionale.

Questi tre pilastri dunque sorreggono la cornice entro cui muoversi, fatta di un continuo riassestarsi fra sintonizzazione emotiva, auto-osservazione e pratica.

Per questo pensiamo non esista consiglio valido per tutti gli operatori.

Anzi, pensiamo che questa modalità abbia insito il pericolo di scivolare verso la disumanizzazione del nostro intervento formativo, portandoci a non considerare le specificità della persona che ci ascolta, considerandolo un operatore e non una persona con il proprio vissuto lavorativo e personale.

Che cosa intendiamo con disumanizzazione

Anche questa definizione ha le stesse difficoltà della precedente, dunque c’è sembrata una buona idea partire dalla definizione di umanizzazione mettendo un segno meno davanti.

Quali sono quindi i segnali che indicano che l’assetto umanizzato ed umanizzante si è perso o si è indebolito? Anche qui abbiamo pensato con semplicità. Succede quando smettiamo di considerare una persona come portatrice di specifici stati mentali preferendo considerarla un oggetto che, come abbiamo provato a definire, non ne ha.

Quando l’operatore tende a riferirsi ad una persona come per esempio “un posto letto”, “un Alzheimer” o “un aggressivo”. Quando cioè la complessità che è stata descritta riccamente nella lavagna mobile si contrae in un unico termine: giudicante o affettuoso che sia, il problema è la contrazione di un’intera persona in una sola parola.

Talvolta può portare a trascuratezza, altre volte a cicli interpersonali disfunzionali, altre volte può essere innocuo. Ma è sempre una riduzione, questo è il problema.

Un ospite “da sistemare” o “tranquillo” mentre due operatori chiacchierano fra loro, è un esempio di cure magari tecnicamente impeccabili ma scivolate nella disumanizzazione: perché in quell’istante l’esperienza dell’anziano curato non è al centro dell’intervento degli operatori né viene considerato l’effetto del proprio agito.

In altri casi la rappresentazione mentale dell’Altro come “oggetto” è tacita e innesca cicli interpersonali problematici. Lo stato di timore e scoraggiamento implicito ma condiviso fra due operatori che entrano nella stanza di un ospite “violento” o “testardo” può costituire esso stesso il trigger per i comportamenti problematici dell’anziano verso gli operatori.

Cosa vuol dire “curare”?

Se è ora chiaro cosa intendiamo per “umanizzazione” e “disumanizzazione”, è altrettanto chiaro cosa si intende per “cura” e “curare”? Sono dieci anni che lavoriamo nelle strutture per anziani ma già notiamo che la popolazione geriatrica sta cambiando. Le famiglie, probabilmente per motivi legati al momento di crisi non del tutto risolto, all’elevato costo delle strutture e alla difficoltà di delegare a terzi le cure, mantengono a casa sempre di più i propri cari, accedendo alle RSA solo quando le persone sono molto anziane o molto compromesse.

In un periodo pandemico come quello che stiamo attraversando, lo stigma sociale verso forme di istituzionalizzazione vissute come “delega alla cura”, spesso con senso di colpa da parte del caregiver, viene amplificato ritenendo i luoghi comunitari di assistenza come ospedali o case di cura, meno sicuri e più a rischio contagio. Questa convinzione è errata e i dati dell’Istituto Superiore di Sanità sul monitoraggio del contagio dimostrano come le misure ad oggi adottate nei luoghi di cura siano efficaci nel contenere la diffusione della malattia.

Quadri complessi di patologie, disturbi comportamentali su base neurologica o persone con disturbi psichiatrici residuali: davanti a quadri di pazienti ad alta intensità assistenziale e disturbi per lo più cronici o degenerativi, cosa vuol dire “curare”? Eliminare la patologia che li affligge? Allietarli per rendere meno pesante questo ultimo tratto di vita?

Chi cura non evita la morte e spesso non può nemmeno prevenirla. Aiuta la persona a vivere la più alta qualità di vita accettabile e, quando non è più possibile, la più alta qualità di morte. Perché nella cronicità, l’appropriatezza della cura sta nel migliorare le condizioni di vita, non semplicemente la salute. Questo si ottiene unicamente migliorando le relazioni che intercorrono tra operatore e paziente. Così nasce la distinzione tra “cura” e “prendersi cura”: quest’ultimo assume la consapevolezza dell’impossibilità di guarire, così da riuscire ad attendere, ad assistere senza intervenire, misurando l’intervento secondo il desiderio e non esclusivamente secondo il bisogno, spesso oggi interpretato più dal familiare che non dall’anziano stesso. Prendersi cura è quindi, nella nostra idea, accompagnare e condividere. Atteggiamenti che anche nell’esperienza portata dagli operatori, rendono il lavoro più facile, meno stressante e meno rischioso.

Come un operatore smette di essere umano?

Avevamo ora bisogno di una spiegazione che aiutasse gli operatori a farsi un’idea di come un operatore smetta di essere umano.

Come descritto sopra, il focus dell’intervento è passato dall’essere sulle caratteristiche della cura che l’operatore pratica, alle caratteristiche delle rappresentazioni mentali che l’operatore ha del paziente residente. Come auspicabile e prevedibile è stato frequente trovare una buona accoglienza su questo approccio e spesso abbiamo trovato personale molto centrato sui bisogni degli ospiti.

Utilizzando la teoria dei sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, 1994) abbiamo ipotizzato che il sistema di accudimento attivato da quello dell’attaccamento nell’anziano aiuti questo processo. Tipicamente però la sollecita attenzione e disponibilità alla sintonizzazione dell’accudimento scompare quando la relazione diventa agonista, lasciando il posto a rapide (e più adattive in senso di lotta per le risorse o la sopravvivenza) letture metacognitive ostili dell’altro: è violento, è testardo… I pazienti considerati difficili sono quelli descritti solo come arrabbiati o aggressivi, che trovano operatori che entrano nella loro stanza con questa rappresentazione mentale di sé-con-l’altro.

L’operatore ha una rappresentazione di sé-con-l’altro basata sulla propria impotenza o aggressività, reagendo al proprio stato interno ancor prima dell’effettiva azione dell’ospite e così talvolta causandola, come una profezia che si auto-avvera. In questo caso quindi al centro dell’intervento dell’operatore sarà la rappresentazione dell’altro come pericoloso e non la sua peculiare esperienza di malattia e sofferenza. Malattia, dolore, morte sono fenomeni ai quali non ci si abitua e che da esseri umani motivati alla sopravvivenza, manteniamo a distanza. Costituiscono però il milieu entro il quale un professionista sanitario opera e che può condurre al burnout, se non supervisionato, abbattendo i livelli di empatia e metacognizione verso l’ospite. Pensiamo però non sia questa la sede per occuparsi di una situazione patologica, preferiamo invece concentrarci sull’andamento che abbiamo notato negli operatori in salute.

L’altro ambito denso di agonismo sono le relazioni fra operatori e parenti dell’anziano. Nei parenti è frequente il senso di colpa, e l’impotenza genera spesso aggressività verso i professionisti che, sentendosi attaccati, generano cicli interpersonali agonisti. In entrambe le parti possono nascere credenze patogene sull’incompetenza ed inadeguatezza dell’altro: l’operatore pensa che il familiare non capisca nulla di anziani e il parente che l’operatore non sappia nulla del proprio familiare.

Affrontando questa comune situazione abbiamo trovato utile porre chiaramente agli operatori questa domanda: “secondo voi, come sta il familiare?”.

Le risposte solitamente hanno permesso di far recuperare ai partecipanti le riflessioni iniziali sulle caratteristiche tipiche dell’operatore umanizzato dotato di pensieri, emozioni e sensazioni e di riprendere la consapevolezza di come lo siano anche i parenti. Recuperare l’assetto empatico ha permesso agli operatori di accedere nuovamente alla propria esperienza di essere familiari di qualcuno che ha avuto bisogno di cure. È stato interessante notare che l’atto di pensare ai familiari come “persone” abbia istantaneamente abbassato il clima di aggressività e impotenza in aula, permettendo una diversa visione del problema, (ri)costruendo una rappresentazione del familiare come persona in difficoltà e non come minaccia.

L’esito è stato di restituire all’operatore sia potere di gestione sia permettergli di rassicurarsi, per tornare libero  di  sintonizzarsi con l’esperienza del parente.

Pensiamo inoltre che sia stato utile spiegare ai corsisti come questo accada per un fisiologico meccanismo di adattamento ad un ambiente percepito come pericoloso o troppo difficile per essere affrontato (distress), da entrambe le parti.

A questo punto invitiamo a una riflessione individuale sulle peculiarità dello stress lavoro correlato nel sociosanitario e considerarlo una probabile (la nostra esperienza ce ne dà certezza, in realtà) fonte di disumanizzazione delle cure.

Aversi in mente

Infine, la domanda che ci siamo posti è stata: che cosa vogliamo che l’operatore si porti a casa da questo percorso? Quali strumenti pratici vogliamo implementi nel corso del tempo?

Per come abbiamo affrontato il problema è evidente che qualsiasi informazione hard sarebbe potuta bastare allo scopo, senza una dimensione pratica.

Il processo di umanizzazione e disumanizzazione è basato su un funzionamento cognitivo influenzato da attivazioni emotive. È su queste che l’operatore deve poter avere un controllo, dunque abbiamo pensato che fosse la pratica esperienziale a poter fornire l’esempio su cui modellare gli strumenti per la pratica quotidiana dell’operatore.

Aversi in mente significa percepire sé e gli altri, utenti e colleghi, come attori di un insieme relazionale e non solo come portatori di caratteristiche fisse ed immutabili alla quali reagire nell’unico modo che si conosce, sia esso positivo o negativo.

Siamo convinti che la capacità osservativa e di curiosità verso i fenomeni relazionali e psicologici in cui si è immersi sia una caratteristica di tutti gli esseri umani (Fisher, 2017). La tecnica è quella di provare a sospendere il giudizio, e osservarsi, anche nell’atto di giudicare.

In questo senso gli esercizi di mindfulness si sono dimostrati particolarmente utili. Partendo da piccole osservazioni sul corpo, osservando il proprio respiro o la sensazione dei propri piedi a contatto con il pavimento si è arrivati alla possibilità di osservare anche i propri pensieri. Ad esempio è stato più volte apprezzato l’esercizio di guardarsi fissi negli occhi a coppie ed al contempo osservarsi imbarazzati, ridere, annoiati o infastiditi.

Abbiamo anche notato come mediamente le persone ritenevano impossibile passare 5 minuti di orologio osservando il proprio respiro. Senza che se ne accorgessero lo hanno fatto per 10 o 12 minuti senza problemi, con un senso di contentezza e incredulità una volta scoperto.

Questo tipo di esercizi mindfulness-based hanno fornito la pratica esperienziale per aversi in mente: non essere in balia di pensieri, emozioni proprie ed altrui o di utenti più o meno simpatici o aggressivi.

Come sto ora? Con chi sono i miei pensieri e le mie emozioni in questo istante? Sono le domande che speriamo abbiano acquisito senso e funzione di strumento per gli operatori, aiutandoli nel faticoso, continuo e soddisfacente recupero dell’assetto di cooperazione e cura necessario per fornire cure umanizzate.

I limiti e il non cambiamento

Le difficoltà che abbiamo incontrato in questo percorso formativo sono state principalmente relazionali con gli operatori sanitari che non condividevano il nostro modello.

La contrapposizione è stata con la valutazione dell’appropriatezza tecnica come unica chiave di valutazione della professionalità, mettendo in discussione la possibilità di un modello basato sulla relazione verso l’altro.

La nostra fatica è stata sospendere il nostro giudizio (automaticamente ci sembra impossibile che un operatore non consideri il fattore umano, proprio mentre lavora rivolto a questo obiettivo).

E’ possibile che un operatore non abbia mai avuto nella propria formazione l’occasione di riflettere ed esplorare la dimensione relazionale del proprio lavoro. La sensazione è che non ci siano momenti di formazione specifica nei corsi ASA ed OSS, né che nel corso di Laurea di Scienze Infermieristiche vi siano esami di Psicologia, se non Clinica orientata alla nosografia. Probabilmente vi è più attenzione nei corsi di Laurea di Medicina e Chirurgia, ma non con un ruolo centrale nella formazione della prassi medica.

Al nostro fastidio abbiamo dovuto ricostruire l’oppositività in termini di essere una difficoltà emotiva, notando il ciclo interpersonale che talvolta può sfociare in palese aggressività, come testimoniano i recenti fatti di cronaca in tema di aggressioni in ambito sanitario. L’atteggiamento oppositivo, o più semplicemente di impermeabilità a un nuovo modello interpretativo, nell’operatore compare nelle descrizioni delle situazioni “impossibili”: noi formatori ci sentivamo nel ciclo interpersonale disfunzionale che veniva messo in atto col paziente e con i familiari: rabbia, frustrazione, chiusura.

La sfida per noi ė stata continuare ad incarnare il modello che proponevamo, cercando di diventare a nostra volta “formatori umanizzati”, trasformando prima nella nostra mente l’operatore chiuso/oppositivo in una persona che non vuole mollare ciò che gli ha permesso fino a lì di lavorare in un ambiente emotivamente duro, per provare a portarlo verso l’idea che il lavoro cooperativo è il miglior assetto per garantirsi la sopravvivenza in un ambiente dove è frequente sentirla minacciata.

 

Ridurre il rumore e aumentare l’igiene decisionale: la nuova missione di Daniel Kahneman – Recensione del libro “Rumore”

Dove c’è giudizio c’è anche rumore, ovvero una variabilità sistematica di cui spesso non si tiene conto nelle proprie valutazioni e azioni.

 

In circostanze complesse e di fronte a domande difficili, prendere una decisione non è una scelta facile. Quando questo capita, l’essere umano per praticità e utilità non segue sempre criteri oggettivi o precise regole di ragionamento ma talvolta ricorre a delle scorciatoie di giudizio per semplificare la scelta. Tuttavia, nella maggior parte dei casi queste scorciatoie conducono ad errori di giudizio sistematici e ce ne accorgiamo quando per esempio assistiamo a due medici che danno due diverse diagnosi allo stesso paziente sulla base degli stessi esami, o quando ci viene chiesto di stimare o prevedere la durata temporale per il completamento di un progetto e diamo per esso una stima molto più bassa rispetto il tempo realmente necessario.

Ne consegue che, ovunque si eserciti il giudizio umano, che sia uno studio medico, un’aula di tribunale o all’interno di una compagnia assicurativa o azienda, non c’è immunità dall’errore di giudizio e questo per colpa del rumore.

Non ci troviamo impreparati di fronte al concetto di bias psicologico o euristica nei processi decisionali ma il nuovo libro del premio Nobel Daniel Kahneman va ancora più a fondo in un fenomeno onnipresente, finora largamente ignorato, che influenza le decisioni, le previsioni e le valutazioni umane: il rumore.

Nel libro Rumore, edito da UTET, Daniel Kahneman assieme a Olivier Sibony, and Cass R. Sunstein sostiene che dove c’è giudizio c’è anche rumore, ovvero una variabilità sistematica – talvolta prevedibile – nei giudizi che dovrebbero portare alla stessa conclusione e che, nonostante il rumore possa essere identificato in tutti i contesti decisionali, sia le persone che le organizzazioni spesso ne ignorano la presenza e la portata nelle loro valutazioni e azioni.

In medicina, nelle previsioni economiche, nelle scienze forensi, nelle valutazioni delle prestazioni, nella selezione del personale e nella salute pubblica, spesso ci si trova davanti a giudizi complessi in cui ci si aspettano risposte e conclusioni accurate e affidabili ma è proprio in questi giudizi che il rumore e i bias psicologici hanno matematicamente un ruolo e un’influenza equivalente.

Il libro riporta diverse rassegne e resoconti dell’evidente presenza e portata del rumore in questi contesti, in cui ci sono criteri vaghi e complessi o maggiormente legati alla variabilità delle decisioni sia tra diversi professionisti ed operatori che all’interno dello stesso decisore.

In merito a questo, basti pensare che è molto più probabile che i medici prescrivano al paziente uno screening per la prevenzione del cancro al mattino presto anziché nel tardo pomeriggio.

Una possibile spiegazione di questo fenomeno risiede nel fatto che inevitabilmente i medici accumulano stanchezza psicofisica e ritardo nelle visite giornaliere ambulatoriali e di conseguenza questo “rumore occasionale” nella decisione medica diagnostica fa sì che i medici saltino il colloquio sulle misure di screening e prevenzione per le ultime visite, sebbene previsti da linee guida ben definite.

Quando si parla di decisioni, l’avere una diversità di punti di vista e giudizi all’interno di un gruppo è solitamente un ottimo fattore per trovare la soluzione migliore e più utile rispetto ad un gruppo dove al contrario tutte le opinioni dei membri sono omogenee tra loro; tuttavia è necessario bilanciare questa necessità di mantenere una diversità nel gruppo con quella di raggiungere una decisione finale che sia poco “rumorosa”, i cui effetti negativi siano ridotti e meno impattanti su terzi.

La soluzione per gli autori esiste ed è perseguibile attraverso l’“igiene decisionale”, ovvero tramite una serie di procedure e strategie che mirano ad eliminare i bias psicologici e prevenire il rumore prima che questi possano verificarsi migliorando così la qualità dei giudizi.

Le linee guida sono molto utili nella riduzione del rumore sia interpersonale che occasionale in quanto scompongono una decisione complessa in un certo numero di sottogiudizi in merito a dimensioni predefinite, così come la presenza di osservatori all’interno delle aule dove i gruppi di decisori si riuniscono; questi infatti sono in grado di individuare in tempo reale e contestualmente i segnali indicanti la presenza di uno o più bias che stanno incidendo sulle decisioni o sulle indicazioni dei membro del gruppo.

Nel libro l’analisi del rumore si sviluppa in tre macroaree. La prima è più concentrata sulla definizione di “rumore” a partire dalle sue differenze con i bias psicologici e sulla sua presenza all’interno dei contesti pubblici e privati. La seconda tratta la misurazione dell’accuratezza decisionale e dei vari tipi di errori – interpersonali ed occasionali – che possono verificarsi all’interno dei vari contesti decisionali. L’ultima parte invece affronta l’igiene decisionale, ovvero la descrizione delle possibili strategie e protocolli volti a migliorare i giudizi, ridurre il rumore ed evitare di incappare in quegli errori che renderebbero il giudizio meno affidabile.

Ma non sveliamo di più.

Rumore cambierà il vostro modo di pensare e riflettere sull’affidabilità delle decisioni che si prendono e prendiamo tutti i giorni.

Il fenomeno degli “sugar daddies”

Con il termine “sugar daddies” ci si riferisce agli uomini che scambiano denaro o regali in cambio di favori sessuali con ragazze significativamente più giovani di loro. Tale scambio può avvenire all’interno di una relazione stabile o in rapporti più occasionali. 

 

Il fenomeno degli sugar daddies: come è percepito il ruolo della donna

All’interno della letteratura si rinvengono due percezioni contrastanti delle giovani donne che iniziano a frequentare uomini più grandi in cambio di denaro o regali (Zwane, 2016): il minimo comune denominatore di entrambe le percezioni, però, riguarda lo squilibrio di status che caratterizza tali interazioni (Stoebenau et al., 2016). In media, gli uomini che scambiano denaro in cambio di favori sessuali, sono in una posizione economica privilegiata rispetto alle ragazze con cui intrattengono tale relazione (Bandali, 2011). Una percezione vede le ragazze come vittime all’interno dell’interazione con uomini più grandi (Shefer & Strebel, 2012). Di contro, la percezione alternativa vede le donne come parti attive, che influenzano consapevolmente questi rapporti e negoziano i termini e le condizioni a loro vantaggio (Luke & Kurz, 2002).

Studi precedenti suggeriscono che la posizione delle giovani donne sia in realtà una combinazione di queste due posizioni contrastanti (Luke & Kurz, 2002). La decisione di iniziare una relazione del genere può essere dovuta a varie ragioni, che differiscono a seconda del contesto. Il denaro è considerato la motivazione principale, tuttavia, può assumere significati diversi a seconda della natura specifica del bisogno di ottenere denaro o di ottenere altri benefici (Kaufman & Stavrou, 2004). Alcune giovani ragazze possono essere spinte dalla necessità di soddisfare i loro bisogni personali o di sostenere le loro famiglie (Smith, 2002). Altre donne possono richiedere denaro per oggetti che non sono essenziali, ma che permettono loro di vivere secondo lo stile di vita desiderato (Hunter, 2002).

A lato di queste considerazioni, le ragazze potrebbero preferire le relazioni con uomini più grandi, per via della loro esperienza o per mera curiosità (Luke & Kurz, 2002). Difatti, uscire con un uomo più grande è considerato, da alcune adolescenti, un passo importante all’interno del processo di crescita (Kaufman & Stavrou, 2004).

Le norme sociali e i limiti degli interventi

In questo fenomeno, le norme sociali giocano un ruolo importante: la società tende a lodare gli uomini che possiedono più partner sessuali (Shefer & Strebel, 2012) o, ancora, è più diffusa e accettata l’idea che l’uomo debba provvedere a una donna. Ciò porterebbe molte ragazze ad aspettarsi un sostegno finanziario dagli uomini che frequentano, i quali, a loro volta, accettano di adempiere a questo ruolo.

I diversi interventi che mirano a ridurre la frequenza dei rapporti intergenerazionali, però, fomentano proprio tali valori patriarcali, in quanto mirano a modificare il comportamento delle ragazze, portandole ad astenersi dalle relazioni con uomini più grandi (Harling et al., 2014). L’obiettivo di fondo è dunque quello di creare un tabù che mostri alle ragazze come il loro comportamento non sia socialmente accettabile (Harling et al., 2014). Ciò che manca, nella maggior parte degli interventi, è la messa in discussione dei valori di fondo che portano entrambi i partner a cercare una relazione di questo tipo (Shefer & Strebel, 2012) e l’analisi delle motivazioni che spingono ciascuno dei due partner ad avere tale relazione.

Una prospettiva più ampia: il fenomeno degli sugar daddies visto dalle ragazze

Lo scopo di un recente studio è stato quello di gettare nuova luce sul fenomeno degli Sugar Daddies e per questo promuovere una prospettiva più complessa del problema sociale. Sono state intervistate 32 ragazze frequentanti due scuole superiori in Sudafrica, luogo dove recentemente vi è stata una crescente preoccupazione pubblica rispetto al fenomeno degli “sugar daddies”.

Sono stati così raccolti sia dati qualitativi, attraverso le interviste, che dati di natura pù quantitativa, attraverso strumenti psicometrici indaganti la salute mentale delle ragazze. Attraverso le interviste è stata analizzata la percezione delle ragazze sul fenomeno degli sugar daddies, attraverso racconti personali o racconti di esperienze occorse ad altre ragazze, e le ragioni che potrebbero spingere le più giovani a iniziare la relazione con un uomo più grande.

Le analisi quantitative avevano invece lo scopo di misurare le difficoltà delle ragazze che hanno un impatto sulla loro salute mentale. Questo ha permesso di comprendere meglio il contesto di violenza strutturale in cui queste ragazze vivono. L’analisi dei dati quantitativi ha evidenziato come più della metà delle partecipanti intervistate spesso sperimentano sintomi depressivi, di differente intensità. Inoltre, una partecipante su cinque ha soddisfatto i criteri per il Disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Le difficoltà emerse includono l’alto tasso di gravidanza adolescenziale, la paura di gravidanze indesiderate, le difficoltà accademiche e le esperienze di violenza multipla. Le partecipanti infatti riferiscono di aver vissuto esperienze di violenza emotiva, come bullismo; violenza fisica a scuola e a casa; molestie sessuali, soprattutto dai ragazzi più grandi, e abusi sessuali a scuola e a casa. Questi elementi forniscono un quadro più ampio del contesto nel quale il fenomeno degli Sugar Daddies si palesa.

Cosa ci dicono i dati: il ruolo del contesto sociale

Dall’analisi delle interviste emerge come, secondo le più giovani, in linea con quanto rinvenuto in letteratura (Zwane, 2016), il ruolo delle ragazze nelle relazioni con gli uomini più anziani non può essere ridotto né a quello di una vittima completamente vulnerabile, né a quello di donna che ha il pieno controllo sulla relazione. In generale infatti, secondo una delle idee più diffuse, la decisione di iniziare una relazione con uomini più anziani fa parte di un processo di sviluppo sessuale delle ragazze, in cui le relazioni con gli uomini più anziani sono il passo successivo all’aver frequentato i ragazzi. Di contro, è diffusa anche l’idea che il comportamento e le aspettative dei coetanei, così come la paura del giudizio sociale, sono vissuti dalle ragazze come i principali fattori che le spingono a intrattenere relazioni con uomini più anziani. Raggiungere uno status sociale più elevato le farebbe sentire speciali, dunque non più bisognose dell’approvazione dei pari.

Le ragazze intervistate tuttavia riconoscono l’eterogeneità delle interazioni, sostenendo che il fenomeno degli sugar daddies potrebbe non essere spiegato da un’unica semplice narrazione. Ciò che dovrebbe essere importante considerare è la vulnerabilità delle ragazze all’interno di uno specifico contesto che modella la loro vita quotidiana e la loro posizione sociale. La situazione delle ragazze in comunità svantaggiate, quale quella sudafricana, porta a sperimentare disuguaglianza, povertà, disoccupazione e alti livelli di disparità di genere.

Anche l’assenza di una precisa idea da parte delle ragazze sul ruolo della donna nel fenomeno, le loro diverse opinioni e i comportamenti in relazione allo stesso, riflettono il modo in cui le giovani donne si muovono incerte nel trovare la loro posizione all’interno di strutture sociali spesso caratterizzate da ineguaglianze e gap di genere.

Il fenomeno degli sugar daddies fa parte delle esperienze quotidiane di violenza strutturale vissute dalle ragazze (Galtung, 1969) e della disuguaglianza di genere, e può essere considerato come il sintomo di una più ampia struttura sociale e delle norme che la caratterizzano. I partecipanti a questo studio infatti vivono in una comunità sistematicamente svantaggiata e credono che i rapporti sessuali con uomini più anziani possano essere una via d’uscita dai fattori di stress socio-economici che sperimentano (Luke & Kurz, 2002; Shefer & Strebel, 2012).

Concludendo, i risultati preliminari ottenuti in questo studio aprono la strada ad ulteriori approfondimenti, affinché si possa mettere un punto a tale fenomeno e possano essere strutturati interventi che, prendendo in esame aspetti psicologici, sociali e culturali, mirino a migliorare la salute mentale, nonché la qualità di vita delle giovani donne.

 

Superschiappe o supereroi? – L’illusione dietro l’attacco di panico

Superschiappe o supereroi? L’illusione dietro l’attacco di panico, e il suo grande potere nel trarci in inganno e farci sentire in pericolo, mentre in realtà siamo molto forti.

 

Gli attacchi di panico (AP) sono tra gli eventi più spaventanti e comuni che possono accadere nella vita dell’uomo. La maggior parte della popolazione mondiale ha sperimentato almeno un attacco di panico, e molti anche più di uno. È un evento esplosivo che ci catapulta al di là del controllo normale del nostro corpo e ci getta nella paura più totale. Ognuno di noi può sperimentare sintomi diversi: chi avverte tachicardia, sudorazione, tremore; chi pressione sul petto, senso di leggerezza alla testa, come non si fosse più nel proprio corpo, mal di pancia o di stomaco, paura di morire o di impazzire. In tutti i casi si avvertono dei sintomi nuovi, mai sperimentati, prima fastidiosi e poi che ci terrorizzano poiché non abbiamo idea di cosa ci stia succedendo.

Chiunque, sottoposto ad una serie di sintomi simili spuntati fuori dal nulla, ne sarebbe terrorizzato e soprattutto farebbe di tutto per evitare di provarli in seguito.

A poco servono le rassicurazioni del medico del pronto soccorso, al quale magari ci siamo rivolti in seguito ad una violenta tachicardia: il fatto che non ci sia spiegazione medica dietro ciò che ci ha terrorizzato, aumenta la nostra paura, non la diminuisce. Ci sentiamo soli e avvolti dal dubbio.

“È una cosa di testa, devi stare più tranquillo, sei troppo stressato”, queste in genere le parole che accompagnano la nostra dimissione e che ci confondono ancora di più.

Ognuno di noi si sente intimamente e inspiegabilmente rassicurato nel momento in cui un medico scopre l’origine di un sintomo: mentre quando quell’origine resta misteriosa siamo avvolti dalla confusione.

L’attivazione fisiologica che accompagna gli attacchi di panico

Per spiegare cosa succede durante un attacco di panico, è necessario fare un piccolo passo indietro e spiegare come la nostra mente è solita dare un’interpretazione a tutto ciò che vediamo. Senza neanche accorgercene, e moltissime volte nell’arco della stessa giornata, effettuiamo delle valutazioni, spesso di pochissimo conto, sulla realtà che ci circonda. Un po’ come se appiccicassimo delle etichette a tutto ciò che osserviamo, e che per noi ha un qualche significato.

Il significato che noi attribuiamo a ciò che accade, determina il modo in cui reagiamo: come ci sentiamo e come ci comportiamo di conseguenza. Ad esempio se incontriamo un cane mentre camminiamo per strada, e siamo dei grandi amanti dei cani saremo propensi a provare un’emozione positiva e magari anche fermarci per accarezzarlo. Al contrario, se abbiamo storicamente paura dei cani, magari in seguito ad un incidente quando eravamo piccoli, saremo portati ad etichettare l’evento come pauroso e ad allontanarci velocemente.

Senza accorgercene, compiamo decine di valutazioni simili nella nostra vita quotidiana.

Un’etichetta di “pericolo” attiverà un allarme, un po’ come se venisse suonata una sirena dei pompieri nella nostra mente, che mette in atto tutta una serie di reazioni.

Quando ci troviamo di fronte ad un evento che valutiamo come minaccioso, dentro di noi si attivano degli allarmi molto molto antichi, che l’evoluzione ha favorito nei millenni allo scopo di proteggerci. Fin dall’uomo preistorico sono due i comportamenti che gli esseri umani mettono in atto, di fronte ad una minaccia: la fuga o l’attacco. La scelta fra l’una o l’altro dipende da cosa c’è in ballo. Ad esempio se la minaccia è palesemente troppo pericolosa da affrontare, se siamo soli di fronte ad essa, oppure se abbiamo dei piccoli da difendere o una nostra proprietà a noi molto cara.

Sono meccanismi ormai automatici, che attivano nella nostra mente, e nel nostro corpo di conseguenza tutta una catena di eventi che li rendono possibili.

Per far sì che possiamo attaccare o fuggire, il nostro corpo deve essere potenziato al massimo in pochissimo tempo: immaginiamo di dover iniziare una corsa velocissima per la sopravvivenza o di dover attaccare violentemente una minaccia.

Quando questo allarme vecchio di milioni di anni scatta, nel nostro cervello accadono una serie di cose predefinite e difficilmente modificabili: essendo molto antico ed avendo resistito per tanto tempo, questo meccanismo è ancora molto valido per consentirci questi due comportamenti.

È necessario avere a disposizione molto sangue in più, che porterà con sé molto più ossigeno prodotto da un’attività maggiore dei polmoni; è necessario che il sangue raggiunga le estremità velocemente per scattare, che l’ossigeno e il glucosio vengano dirottati verso il cervello che potrà così coordinare il corpo al massimo dell’efficienza; è necessario che vengano interrotte le attività corporee che consumano molta energia come quelle del sistema gastrointestinale, e che l’allerta sia massima. Questo è solo un esempio di tutta la catena di eventi che si rendono necessari per far sì che si attacchi un nemico o si fugga da esso.

Ma oggi non siamo più nella preistoria, per nostra fortuna.

D’altra parte a questo meccanismo di allerta, estremamente efficiente, dobbiamo la vita da milioni di anni, e nell’ottica evolutiva è molto difficile che scompaia nel nulla solo perché oggi giorno non abbiamo più davanti mostri spaventosi che ci inseguono.

Il meccanismo di allerta è sempre molto efficiente, e pronto a scattare nel momento in cui valutiamo una situazione come pericolosa per noi: una minaccia percepita.

All’inizio abbiamo detto che decine di volte al giorno, inconsapevolmente appiccichiamo delle etichette a ciò che ci succede e che questo determina le emozioni che proviamo ed il nostro comportamento. La nostra mente è perfettamente in grado di generare situazioni di allarme e mettercele di fronte agli occhi: sappiamo bene quanto sia facile entrare in ansia immaginando delle conseguenze catastrofiche per una situazione che temiamo. Una volta che parte l’allarme, si generano gli eventi che abbiamo descritto sopra. Questi eventi che avvengono nel nostro corpo, saranno però nuovamente oggetto di valutazione, da parte della nostra mente che è già in preda all’ansia per l’immagine catastrofica che ha di fronte.

Ed ecco che percepiremo tachicardia, senso di pesantezza al petto, difficoltà a respirare, “testa leggera”, formicolio alle estremità, mal di stomaco e pancia con episodi di vomito e/o diarrea, senso di svenimento e soffocamento. Che altro potremo pensare se non di stare per morire?

Ma questa è solo un’interpretazione erronea. Tutti i sintomi che stiamo avvertendo sono perfettamente spiegati dall’enorme dispiegamento di forze che il nostro fisico mette in atto per affrontare quella che interpreta come minaccia.

Il cuore batte molto più velocemente per permettere un maggiore afflusso di sangue sotto forma di tachicardia, i polmoni si dilatano di più e più spesso all’interno della gabbia toracica per produrre più ossigeno dandoci l’impressione di costrizione al petto, il sangue affluirà in massa alle estremità facendoci percepire un marcato formicolio (avete presente quando ci si addormenta un piede e poi si risveglia?), una grande quantità di ossigeno affluirà al cervello dandoci l’impressione di respirare in alta montagna, le attività di stomaco e intestino verranno bloccate per risparmiare energia preziosa provocandoci crampi e rigetto, la nostra pelle avrà bisogno di carpire dall’aria tutta l’umidità possibile per idratare al massimo il corpo, provocando il sollevamento dei peli e la cosiddetta “pelle d’oca”.

Ciò che la nostra mente interpreta come pericoloso di morte immediato, in realtà è la trasformazione del nostro fisico, per un tempo limitato, da uomo a superuomo con delle capacità potenziate disponibili per breve tempo, che ci faciliteranno proprio quelle reazioni di attacco e fuga di cui parlavamo.

Quando sperimentiamo per la prima volta le attivazioni suddette, senza essere a conoscenza di questa capacità millenaria del nostro corpo, diamo di esse un’interpretazione catastrofica: il pericolo di morte immediato, quando in realtà stiamo sperimentando una sorta di superpotere momentaneo.

Perché gli attacchi di panico ci spaventano?

Che cosa succede se la minaccia non si palesa? Il nostro fisico non è in grado di sostenere un livello di attivazione così potente, quindi avviene una sorta di “crollo” ad opera del sistema nervoso autonomo, che bilancia il sistema di allarme. È come se ci rilassassimo di botto, un po’ come accade in seguito ad un orgasmo. Ovviamente chi ha sperimentato un attacco di panico, difficilmente utilizzerà termini così piacevoli.

Ma quindi, se è tutto un fraintendimento, se durante un attacco di panico da uomini ci trasformiamo in superuomini, perchè ci terrorizza così tanto e soprattutto perché dopo il primo in molti casi dedichiamo ogni nostra energia a far sì che non si ripeta mai più, modificando la nostra vita e quella di chi ci sta attorno e privandoci di un numero di esperienze sempre maggiore?

Una soluzione efficace e vecchia di millenni diventa essa stessa il problema. Ma perché?

Innanzitutto perché non lo sappiamo: pochissimi sanno cosa accade al nostro cervello e al nostro corpo durante una crisi d’ansia, e siamo abituati a considerare l’ansia come una malattia, come qualcosa di cattivo e limitante, da eliminare. La società ci dà una grande mano in questo.

Ma l’ansia è un’emozione fondamentale per la sopravvivenza: senza di essa non saremo in grado di valutare i pericoli ed agire di conseguenza.

Allora qual è il problema?

Il problema è cosa inizialmente fa scattare l’allarme: quella minaccia percepita di cui abbiamo parlato inizialmente. Ognuno di noi ha un proprio sistema di valori, di credenze, di cose importanti che vale solo per noi stessi e che spesso è molto diverso da quello degli altri. Questo fa sì che ognuno di noi ha degli scopi, delle cose importantissime per le quali vale la pena lottare ad ogni costo; ma anche degli antiscopi, l’esatto opposto, cose dalle quali fuggire a gambe levate. Scopi e antiscopi si esplicitano nella vita quotidiana nelle situazioni più varie, il più delle volte senza che ce ne rendiamo conto. Quella minaccia originale che ha dato il via alla cascata di eventi dell’AP, sarà quindi il frutto di una valutazione di pericolo per noi, che lo sia o meno.

È proprio sulla minaccia percepita che abbiamo “appiccicato” inconsapevolmente a ciò che è successo in un dato momento, che dovremo concentrarci, e non sull’attacco di panico, la cui unica colpa è quella di averci trasformato in supereroi momentanei.

 

The Boston Process Approach: una tecnica di osservazione qualitativa

Il Boston Process Approach è descrivibile come “flessibile” perché si tratta di una tecnica che si può applicare ad uno svariato numero di test, mirando a non comprometterne la validità e specificità.

 

Il Boston Process Approach mira a valutare qualitativamente il comportamento del paziente all’interno della valutazione neuropsicologica, basandosi sul paradigma concettuale della neuropsicologia sperimentale e delle neuroscienze cognitive. Il suo sviluppo ha permesso di conciliare la parte descrittiva con quella quantitativa, migliorando la validità clinica di molti strumenti testistici di nuova generazione. Il concetto fondamentale dell’approccio consiste proprio in questo: andare oltre il semplice punteggio al test e considerare invece il “processo” che ha portato il paziente ad ottenerlo (Milberg et al., 2009).

Breve storia descrittiva del Boston Process Approach

L’approccio è stato sviluppato dalla Dott.ssa Kaplan nel 1983 tramite i primi studi su pazienti con aprassia, in seguito alla constatazione che la qualità delle loro risposte differiva significativamente in base alla localizzazione della lesione cerebrale presente. Una strategia di osservazione simile è successivamente stata applicata alle scale Wechsler, soprattutto per quanto riguarda la WAIS-R NI e la WMS nelle quali, sebbene non vengano più utilizzate, è visibile per la prima volta l’influenza di questo approccio.

L’approccio segue due principi fondamentali (Russell, 1981):

  • La differenza tra le funzioni cognitive fluide, ovvero l’abilità intellettiva; cristallizzate, ovvero le conoscenze apprese; e complesse, nel momento in cui vengono messe in atto entrambe per svolgere un compito (Horn e Cattell, 1967).
  • La natura multi-componenziale delle funzioni cognitive (Neisser, 2014), il cui utilizzo può variare da individuo a individuo in base a quali processi dei vari componenti vengono messi in atto, suddividendosi per stile (Hunt, 1983), livello generale di intelletto (Hunt, 1983, Sternberg, 1980) e livello di abilità (Neisser et al., 2014).

Il gruppo di Boston ha dunque combinato una serie di test quantitativi con osservazioni sistematiche delle strategie di problem-solving dei pazienti, ed il risultante metodo permette sia un assessment quantitativo della performance che una valutazione qualitativa dello stile di processamento di informazioni (Milberg et al., 2009).

Boston Process Approach: Tecniche flessibili

L’approccio è meglio descrivibile come “flessibile” perché si tratta di una tecnica che si può applicare ad uno svariato numero di test, mirando a non comprometterne la validità e specificità. Per questo, ciò che viene cambiato non è la procedura stessa del test quanto le tecniche di raccolta dati e analisi dei punteggi.

Una prima tecnica, utilizzata originariamente da Kaplan ed il suo gruppo, consiste nel “spingere ai limiti” i pazienti, ovvero:

  • Continuare con il test anche in seguito a fallimento (es. anche se commette molti errori, non interrompere il test ma lasciarlo continuare);
  • Cercare di ottenere una risposta anche nel caso il paziente dica “non lo so” o risponda a monosillabi, utilizzando anche domande a scelta multipla che aumentano la possibilità che il paziente risponda (questo fu applicato ai subtest Informazioni e Comprensione della WAIS-R NI);
  • Ripetere spesso le domande del test ed incoraggiarlo a provarci nuovamente in caso di fallimento.

Questo metodo è utile in caso di pazienti la cui lesione o disturbo provocano fluttuazione nella performance o inibizione nelle risposte. Nel primo caso, il paziente potrebbe rispondere bene alle domande più difficili e fallire in quelle facili per via di fluttuazione attentiva oppure di utilizzo di strategie non più efficaci (Milberg e Blumstein, 1981). Nel secondo caso, il paziente potrebbe essere in grado di eseguire il compito, sebbene l’inibizione lo blocchi (Milberg et al., 2009).

Una seconda tecnica consiste nel modificare i limiti di tempo in test cronometrati per pazienti particolarmente rallentati. Per non inficiare la validità statistica, occorre considerare sia il punteggio ottenuto entro il limite di tempo, sia il punteggio ottenuto senza limite di tempo (Milberg et al., 2009). Un esempio di questa tecnica si può ritrovare nello strumento Matrici Attentive (Della Sala et al., 1992) che permette di valutare la prestazione speed-form, con un limite di tempo di 45 secondi, e la prestazione power-form, senza limite di tempo. La power-form non influisce sul punteggio quantitativo ma fornisce indicazioni qualitative importanti.

Una terza tecnica consiste nel presentare item verbali sotto forma di stimoli visivi, in modo che siano maggiormente comprensibili per pazienti con span ridotti. Ciò permette di differenziare coloro che falliscono nel compito a causa di deficit collegati ad esso da coloro che falliscono per via di problemi di memoria a breve termine. Questo fu applicato al subtest Aritmetica della WAIS-R NI, nel quale in caso di punteggio deficitario si presentavano visivamente i problemi aritmetici e si permetteva al paziente di rappresentarli su un foglio con la matita (Milberg et al., 2009).

Queste non sono le uniche tecniche presenti, ve ne sono altre che sono state applicate a numerosi strumenti. Tutte, comunque, consistono in facilitazioni che si danno al paziente (es. item extra, risposte a scelte multiple, ripetizione di consegna, etc.) che permettono di annotare le strategie cognitive messe in atto al di là del punteggio deficitario ottenuto.

Boston Process Approach: Influenza nei test di nuova generazione

Successivamente all’introduzione dell’approccio all’interno delle scale Wechsler (WAIS-R NI e WMS) e in alcuni test di screening (GEMS, Boston/Rochester, MicroCog) vi sono state alcune critiche riguardo all’uso indiscriminato di queste modifiche. In particolare, le critiche erano dirette all’approccio qualitativo utilizzato per generare predizioni cliniche in cui non sussisteva una base statistica vera e propria. Per questo motivo, i test di nuova generazione sono stati creati con l’idea di combinare qualitativo-quantitativo per accrescere la validità e generalizzabilità statistica.

Esempi di test:

  • CVLT (California Verbal Learning Test): consiste nel presentare 16 parole al paziente per cinque volte consecutive. Dopo ognuna di esse, il paziente è invitato a ripeterne il maggior numero possibile. In seguito viene presentata una seconda lista, e viene poi richiesto di ricordare la prima per valutare se vi è un apprendimento a lungo termine. Se il paziente presenta difficoltà, si può effettuare un test di riconoscimento. L’influenza dell’approccio di Boston risiede nella suddivisione degli item della lista in 4 categorie semantiche (fornendo dunque una possibile strategia che il paziente può usare) e nel test di riconoscimento finale.
  • Test dell’Orologio: già a partire dalle sue versioni iniziali, questo test ha sempre permesso di evidenziare molti aspetti qualitativi della performance del paziente nei domini esecutivi, visuo-spaziali, prassici e mnemonici. La dott.ssa Kaplan ha introdotto il Boston Parietal Lobe Battery in cui si richiede di posizionare le lancette alle 11 e 10 per determinare se vi è ancoraggio allo stimolo.
  • DKEFS (Delis-Kaplan Executive Function System): consiste di 9 subtest che valutano una varietà di funzioni esecutive, con modifiche atte a inferire quali delle funzioni sono maggiormente compromesse o conservate.
  • Quantified Process Approach: una batteria testistica sviluppata da Poreh nel 2000 con l’intento di standardizzare le procedure di analisi qualitativa e osservazionale.

Utilità clinica del Boston Process Approach: osservare il comportamento qualitativo per localizzare lesioni e descrivere funzioni cognitive

All’interno dell’articolo di Milberg e collaboratori (2009) vengono presentate due tipologie di strategie messe in atto dai pazienti all’interno di compiti visuo-spaziali, utili nella localizzazione delle lesioni, nella descrizione delle funzioni cognitive e di conseguenza nello sviluppo di programmi riabilitativi:

Dettagli o globalità?

Quando si osserva una figura, un film, una scena, si possono mettere in atto due strategie per imprimerla nella memoria: concentrarsi sui dettagli oppure sul contesto globale. La strategia migliore, messa in atto da soggetti sani, è utilizzare entrambi gli approcci. Al contrario, pazienti che hanno subito lesioni o che presentano disturbi neuropsicologici solitamente danno priorità ad una delle due strategie, con una perdita di informazioni dovuta alla mancata elaborazione totale.

Questo si può osservare in vari test (come la Figura di Rey) nei quali coloro che danno priorità al contesto possono riuscire a riprodurre gli elementi principali della figura omettendo dettagli interni. Coloro che si concentrano sui dettagli solitamente riproducono la figura come se la stessero “scannerizzando”, parte per parte, con una rievocazione differita scarna poiché assente di una visione di insieme. Per poter considerare questi aspetti, Stern e colleghi (1994) hanno sviluppato uno scoring qualitativo per la Figura di Rey nel quale si considera non solo la accuratezza della copia ma anche la frammentazione, la rotazione, la perseverazione, la precisione e così via. Anche Shorr e colleghi (1992) hanno sviluppato una taratura simile per analizzare il perceptual clustering ovvero il raggruppamento di dettagli. L’osservazione di queste strategie può rendere prevedibile il comportamento futuro del paziente, il quale potrà avere difficoltà a prendere decisioni a lungo termine (strategia basata sui dettagli) o potrà avere difficoltà ad essere efficiente e preciso (strategia globale).

Priorità emispaziale

Un’altra strategia importante riguarda il processo cognitivo utilizzato per analizzare lo spazio. Possono, infatti, sussistere disturbi sub-clinici di neglect e deficit attentivi che non emergono dai dati quantitativi ma che possono influire sulla prestazione del paziente. Solitamente un soggetto sano destrimane analizzerà una figura partendo da sinistra verso destra, cambiando direzione se necessario. Al contrario, pazienti con lesioni all’emisfero destro tendono ad analizzarlo inflessibilmente da destra a sinistra (viceversa per pazienti con lesioni all’emisfero sinistro). Inoltre, pazienti con lesioni sinistre tendono a commettere errori o omettere dettagli nella parte controlaterale della lesione. Osservare che tipo di strategia mettono in atto fornisce informazioni preziose per presupporre la localizzazione della lesione cerebrale.

Quali sono i vantaggi del Boston Process Approach?

Come esposto precedentemente, si tratta di un approccio valido per la detezione e localizzazione delle lesioni cerebrali da utilizzare congiuntamente all’evidenza radiologica. A livello clinico può aggiungere informazioni precise che i dati quantitativi, considerati da soli, non riescono a fornire: è il caso di pazienti che, sebbene nel Mini Mental State Examination superino il cut-off previsto per il test, a livello qualitativo presentano difficoltà di gran lunga superiori alla loro probabile performance premorbosa. Il vantaggio principale si può riscontrare quindi a livello clinico nella pianificazione del trattamento dei pazienti e nella delineazione delle funzioni compromesse e conservate. È ciò che accadde nella riabilitazione di pazienti affetti da prosopagnosia nello studio di Degutis e collaboratori (2007): osservando le strategie di processamento configurale, misero in atto un training cognitivo per portare allo sviluppo di nuove strategie che permettessero un miglior riconoscimento visivo. Inoltre, si è rivelato resistente all’effetto della pratica (Glosser et al., 1982), dell’età (esclusi i pazienti con disturbo neurocognitivo lieve) e dell’educazione. Permette, infine, di differenziare tra pazienti con patologie psichiatriche severe, come la schizofrenia, e pazienti con deficit neuropsicologici (Milberg et al., 2009).

Riassunto conclusivo

In conclusione, l’approccio di Boston non è da considerarsi come una metodologia a sé, quanto più come una serie di tecniche che possono essere applicate ai test standardizzati permettendo una integrazione tra livello qualitativo e quantitativo e portando ad informazioni cliniche estremamente utili per programmare la riabilitazione o localizzare la lesione del paziente. Applicando queste tecniche, si procede ad osservare le strategie di problem-solving che il paziente mette in atto e che rivelano la patologia sottostante. In conclusione, consente una valutazione combinata della relazione cervello-comportamento.

Integrare le psicoterapie efficaci nel trattamento dei disturbi di personalità

Dagli studi di esito e dalle linee guida internazionali diversi trattamenti sono risultati efficaci per il trattamento dei disturbi di personalità, può essere funzionale una loro integrazione?

 

Nella pratica clinica siamo a contatto con il trattamento di casi complessi di pazienti con le più svariate storie di vita. Soprattutto per quanto riguarda la cura dei disturbi di personalità, il terapeuta si trova a dover essere molto creativo nel percorso trattamentale, in quanto il mantenere fede solamente ad un orientamento teorico per il piano di cura si rivela poco efficace, o meglio, non esaustivo nella ristrutturazione completa o quasi della personalità.

Questa non esaustività dei diversi trattamenti specializzati è data dal fatto che gli stessi hanno storicamente posto l’accento su un aspetto piuttosto che un altro della patologia di personalità (per esempio nella DBT la disregolazione emotiva, nella Schema Therapy gli schemi e i bisogni, nella TFT la diffusione dell’identità, ecc.), per cui il trattamento che viene somministrato ottiene sì una efficacia in senso diagnostico (cioè il paziente non è più borderline, paranoide o narcisista), ma non vengono trattate tutte le aree problematiche.

Questa breve introduzione è in linea con quanto affermato da Livesley et al. (2016), i quali con la pubblicazione del libro Il trattamento integrato dei disturbi di personalità, già recensito su questo portale da Sofia (2017), hanno già sollevato queste obiezioni.

Tale articolo ha l’obiettivo di stimolare i colleghi a trovare dei punti di incontro delle psicoterapie efficaci e nello stesso tempo identificare possibili limiti di questa integrazione.

Quali sono i trattamenti efficaci per i disturbi di personalità e cosa trattano

Dagli studi di esito e dalle linee guida internazionali (vedi APA div12; NIMH; NICE) i trattamenti maggiormente efficaci per il trattamento dei disturbi di personalità sono essenzialmente questi sotto elencati:

  • Terapia Cognitivo Comportamentale e Terapia Basata sulla Mindfulness (Beck, 1976; Ellis, 1988; Segal et al., 2013)
  • Schema Therapy (Young et al., 2003)
  • Psicoterapia Interpersonale (Klerman et al., 1984; Benjamin, 2019)
  • DBT, RO DBT, ACT (Linehan, 1993; Lynch 2018; Hayes et al., 1999)
  • Colloquio Motivazionale e Psicoterapia Centrata sul Cliente (Miller, Rollnick, 1991; Rogers, 1951)
  • Terapia Focalizzata sul Transfert (Kernberg, 1987; Clarkin, 2011; Yeomans et al., 2017)
  • Terapia Basata sulla Mentalizzazione (Bateman, Fonagy, 2005; 2010; 2019).

Ci permettiamo di aggiungere una postilla sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale già citata dalla letteratura internazionale e che è di per sé una psicoterapia integrata, e che utilizza strategie e tecniche contenute nella lista di psicoterapie qui riportata.

Problemi e limiti dell’integrazione

  • Come e da cosa è composta una struttura di personalità. La personalità è un set organizzato in modo non rigido di sottosistemi che include i sistemi del sé e interpersonale, un sistema di processi regolatori e modulatori, e i tratti. Si ritiene che la personalità si sviluppi attorno a predisposizioni ereditarie che fanno emergere i tratti di personalità. Da sempre la letteratura come DSM (APA, 2013) e altri autori (Widiger, Simonsen, 2005), hanno cercato di raggruppare le tipologie di personalità in cluster. C’è un accordo unanime nel ritenere che la personalità abbia una struttura cognitivo-emotiva e che l’obiettivo delle psicoterapie sia quello di cercare di ristrutturare le sottostrutture più disfunzionali. A nostro avviso, dovrebbe essere studiata maggiormente la struttura sana di personalità che permetterebbe al clinico di verificare anche le aree non problematiche di cui il paziente dispone e che rappresentano il suo punto di forza.
  • Epistemologia delle psicoterapie specializzate esistenti. Integrare non significa fare un mix di strategie e tecniche al bisogno, ma seguire una coerenza prima di tutto concettuale tra le varie teorie su cui si basano strategie e tecniche specifiche. In questo senso, un grosso ostacolo a una integrazione dei trattamenti è dato dall’epistemologia talvolta molto differente sulla quale poggiano le diverse scuole di pensiero. Un atteggiamento vantaggioso potrebbe essere quello di accettare i punti di contatto e di non contatto tra le varie teorie (tra cognitivo comportamentali e psicoanalitiche e psicodinamiche) senza polarizzarsi per principio per difendere il proprio territorio. Va anche detto che è opportuno probabilmente operare nella pratica attraverso dei moduli di intervento (preposti in fasi) piuttosto che asserire una epistemologia di base sulla struttura totale del trattamento. Su questo tema vedi Morgese (2018), che fa un ottima analisi sull’integrazione assimilativa (Messer) e la differenzia dall’integrazione teorica Lamproupolos (2001), dall’eclettismo tecnico Paul (1967) e dall’approccio basato sui fattori comuni (Grencavage, Norcross, 1990). Già Ruggiero (2015) su questo portale denunciava il fatto che l’integrazione in psicoterapia dovesse essere qualcosa di più del mero eclettismo tecnico.
  • Quali sono le aree deficitarie nei disturbi di personalità. Su questo punto troviamo ampia letteratura, dal DSM-5 sistema dimensionale (APA, 2013), a molti autori come Lenzeweger, Clarkin, 2005 e Livesley et al., 2016. Pare ci sia accordo nel ritenere che le aree deficitarie su cui dovrebbe basarsi un trattamento integrato efficace siano: l’area dei sintomi, l’area della regolazione e modulazione; l’area interpersonale; l’area del sé
  • La questione della gravità. Con l’avvento dei sistemi dimensionali c’è stata una forte sensibilizzazione dei clinici alla questione relativa alla gravità dei disturbi e in particolare ai disturbi di personalità, perché in passato nelle linee guida si era parlato sostanzialmente della presenza/assenza o della numerosità di item diagnosticabili, ma non della portata del disturbo nella sua globalità, a parte il lavoro di Kernberg (1984) ormai famoso sui “Disturbi Gravi della Personalità”. La letteratura contemporeanea è in fermento su questo tema (Bornstein, 1998; Parker, Barrett, 2000; Widiger et al., 2002; Hopwood et al., 2011; Riccardi et al., 2016; Livesley, Clarkin, 2016), e si spera tale fermento possa riflettersi nell’aggiornamento dei sistemi diagnostici, anche se attualmente non esiste una indicazione ufficiale.

Come integrare? Una proposta di trattamento

Livesley et al. (2016) propongono una terapia modulare. Sulla scorta dei limiti concettuali e pratici dell’integrazione di psicoterapie diverse, gli autori hanno identificato le aree problematiche dei disturbi di personalità: sicurezza, contenimento, regolazione e modulazione, esplorazione e cambiamento, integrazione e sintesi. Riportiamo qui le fasi che, secondo gli autori, (Clarkin, Livesley, 2016) devono essere affrontate:

  • Sintomi (Farmaci; struttura e supporto; interventi di contenimento; interventi comportamentali specifici).
  • Regolazione e modulazione (Farmaci; interventi cognitivo comportamentali specifici; ristrutturazione cognitiva; interventi metacognitivi).
  • Interpersonale (Interventi focalizzati sugli schemi; interventi psicodinamici; interventi interpersonali; interventi metacognitivi).
  • Sé/identità (Moduli di cambiamento generale; Interventi metacognitivi; Interventi cognitivi; Interventi psicodinamici; Terapia cognitivo-analitica; Metodi narrativi; Ingegneria sociale).

Questa linea guida è utilissima per chi si occupa di trattamento di disturbi di personalità perché coglie in maniera coerente gli aspetti da trattare presenti in qualsiasi disturbo della personalità e con qualsiasi psicoterapia. Tale proposta ricalca, inoltre, la linea della psicoterapia sensomotoria (Ogden, Fisher, 2016; Ogden et al., 2012; Van der Hart et al., 2010; Van der Kolk, 2015; Fisher, 2017; Steel et al., 2017) e altre centrate sul trauma che asseriscono il passaggio del trattamento su tre fasi: fase di stabilizzazione emozionale, fase di elaborazione del trauma, fase di integrazione.

E nello specifico? Linee guida per le diverse fasi

Fase di Pre-Trattamento

Tutti gli autori sostengono che prima della somministrazione del trattamento vero e proprio deve essere impartito un pre-trattamento di 3-4 sedute nel quale il terapeuta deve lavorare sulla valutazione della patologia del paziente, sull’apprendimento della sua anamnesi e sulla costruzione della relazione terapeutica. Dopo il colloquio di conoscenza può essere necessario somministrare test e questionari di personalità come la SCID-5PD (First et al., 2016), il MMPI-2 (Butcher et al., 1996), il MCMI-IV (Millon et al., 2015), o altri; batterie di questionari per valutare la presenza di ansia, depressione, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi somatici, disturbi alimentari, dipendenze, psicosi o altro; ed inoltre, una prima valutazione della presenza di schemi disfunzionali attraverso lo YSQ (Young et al., 2003).

Linee guida per il mantenimento di una buona relazione terapeutica e successivamente di una buona alleanza di lavoro (Bordin, 1979) includono le tecniche provenienti dal Colloquio Motivazionale e dalla psicoterapia rogersiana centrata sulla persona (Miller, Rollnick, 1991), dalla psicoterapia relazionale di Safran e Muran (2000) per il riconoscimento e la risoluzione di cicli interpersonali disfunzionali molto presenti nelle terapie con i disturbi di personalità, e più in generale dall’empirismo collaborativo tipico della psicoterapia cognitivo comportamentale, tenendo in considerazione l’attivazione dei sistemi motivazionali nel dialogo clinico (Liotti, Monticelli, 2008, 2014).

Al paziente viene insegnato fin dall’inizio del trattamento ad avere un atteggiamento metacognitivo (Carcione, Semerari, 2016), così come viene mantenuto dal terapeuta, e a mentalizzare l’apprendimento, rafforzando fin da subito la funzione metacognitiva di monitoraggio.

Una volta concluso il pre-trattamento si restituisce la diagnosi al paziente e si condivide un contratto terapeutico che comprende gli obiettivi che dovranno essere raggiunti. Alcuni terapeuti utilizzano un vero e proprio contratto scritto, ma è sufficiente una condivisione ampiamente discussa.

Sintomi

Se è presente una minaccia alla sicurezza del paziente (suicidio o simili) deve essere affrontato per primo questo argomento, fino a che la persona non è in grado di continuare la sua vita senza farsi del male; ed in questo caso ci viene incontro la DBT (Linehan, 1993), che è stata prima di tutto concettualizzata per le pazienti borderline suicidarie.

Se sono presenti sintomi come ansia, depressione, fobie, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi alimentari, dipendenze, psicosi, ecc. si preferisce la risoluzione di essi attraverso l’utilizzo della psicoterapia cognitivo comportamentale e della psicoterapia interpersonale (depressione) come riportato dalle linee guida internazionali. Una nota per il trattamento delle dipendenze comprende l’utilizzo del Colloquio Motivazionale, e l’appoggio a gruppi di auto-aiuto.

All’inizio di questa fase può essere consigliato un lavoro d’équipe con uno psichiatra, poiché la scelta migliore per l’eliminazione della sintomatologia risulta essere l’associazione di somministrazione di psicofarmaci (anche se di breve durata) e la psicoterapia. Nei casi di disturbi gravi di personalità, è buona prassi creare ad hoc una equipe multidisciplinare che si occupi del paziente, in quanto, di solito, si ha a che fare con prese in carico di tipo sociale.

Sempre in questa fase è opportuno fare una buona psicoeducazione della situazione clinica del paziente (sia sul disturbo sintomatologico che sul disturbo di personalità).

Regolazione e Modulazione

In questa fase si cerca di stabilizzare il paziente dal punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale. Sono ancora presenti comportamenti di coping, esplosioni emotive o ritiri e distorsioni cognitive esposte ancora in maniera eccessiva che rendono persistentemente il paziente disturbato. La psicoterapia cognitivo comportamentale e la DBT sono le tecniche elettive ed è anche consigliata la frequenza, oltre alla terapia individuale, di gruppi di skills training come quelli proposti sia dalla DBT (Lineahn, 1993) che dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale di Gruppo (Colle, Fiore 2016). La regolazione e modulazione prevede la riduzione di comportamenti che possono interferire con la terapia e/o con la qualità di vita della persona. In questa fase sono molto utili le tecniche basate sulla mindfulness (Segal et al., 2013), la programmazione delle attività settimanali (Beck, 1979) e l’analisi funzionale (Ellis, 1988) che rendono il paziente sempre più consapevole dei propri meccanismi interni.

Interpersonale, Sé/Identità

Una volta che il paziente è stabilizzato dal punto di vista emotivo ed è consapevole della ripetitività dei propri processi mentali e dei comportamenti di coping, è possibile lavorare in maniera più focalizzata sugli schemi disfunzionali che mantengono la patologia di personalità, e nello specifico la disfunzionalità nell’area delle relazioni interpersonali e del Sé.

In questa fase è possibile utilizzare strategie e tecniche provenienti dalla Schema Therapy, dall’Emotional Focused Therapy (Lehay), dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013), per identificare e cercare di disattivare i meccanismi disfunzionali abituali che il paziente mette in atto da molto tempo e che risultano fattori di mantenimento dei suoi problemi emotivi e sociali, e non gli permettono di mantenere relazioni soddisfacenti (Psicoterapia interpersonale) e di esperire emozioni congruenti ai fatti.

Quando il paziente riconosce in maniera automatica il suo schema è capace di differenziare, e questo rappresenta un ottimo miglioramento nel suo percorso terapeutico.

Lavorare sul cambiamento degli schemi significa lavorare anche sulle memorie autobiografiche altamente traumatiche come quelle presentate dalla maggior parte dei nostri pazienti con disturbi di personalità. L’elaborazione delle esperienze traumatiche può essere fatta attraverso tecniche esperienziali, corporee, cognitive e comportamentali provenienti da tutte le scuole di psicoterapia efficace come la Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, la Schema Therapy (Young, 2003), la psicoterapia Sensomotoria (Ogden, Fisher, 2016; Ogden et al., 2012; Van der Hart et al., 2010; Van der Kolk, 2015; Fisher, 2017; Steel et al., 2017), la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013), l’EMDR (Shapiro, 1998). Si ricorda inoltre, l’importanza dei contributi dell’ACT (Hayes et al., 1999) e della CFT (2010) nel trattamento di vissuti dolorosi.

Per quanto riguarda il lavoro sull’identità e il senso di vuoto attingiamo alle strategie psicodinamiche proposte dalla Terapia Focalizzata sul Transfert di Kernberg, (Kernberg, 1987; Clarkin, 2011; Yeomans et al., 2017) e altri autori fondamentali come Gunderson et al., 2018 sul senso di vuoto, una delle caratteristiche centrali nei disturbi di personalità.

Integrazione e Prevenzione delle Ricadute

Successivamente alla fase di elaborazione delle memorie traumatiche il paziente si trova a guidare un nuovo Sé nell’esperienza del mondo. La ristrutturazione della personalità è un processo lento, molto complesso e comprende molti passi falsi o ricadute del paziente in vecchi meccanismi, i quali sono altamente consolidati seppur disfunzionali. Occorre lavorare con il paziente alla stabilizzazione delle parti ristrutturate del Sé in modo tale che le percepisca come identitarie (integrazione). Il paziente deve riuscire a dare un senso e una spiegazione dei suoi processi interni, della sua esperienza e del suo cambiamento e percepirsi come coerente (senso di identità coerente). Questo processo di integrazione in realtà viene effettuato durante tutto il trattamento, perché si cerca di dare coerenza ai frequenti cambi di stati dell’io che il paziente manifesta. Avere un forte senso di integrazione significa sapere come si è “switchati” da uno stato all’altro e cosa ha “triggerato” lo switch. Queste informazioni di cui il paziente finalmente dispone permettono di dare senso alla sua esperienza e di migliorare il proprio meccanismo previsionale dei fatti, di vedersi nel futuro e nel passato in maniera coerente. Le tecniche di integrazione vengono dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013), dalla Terapia Focalizzata sul Transfert (Kernberg, 1987; Clarkin, 2011; Yeomans et al., 2017) e dalla Psicoterapia Basata sulla Mentalizzazione (Bateman, Fonagy, 2005; 2010; 2019).

 

Le avventure della SMAgliante Ada – Recensione del fumetto

Le storie fantastiche vissute dalla SMAgliante Ada raccontano come ognuno di noi sia unico e diverso dagli altri.

 

Le avventure della SMAgliante Ada è un fumetto prodotto nell’ambito di un progetto realizzato dall’Associazione Famiglie SMA in collaborazione con Roche Italia ed i Centri Clinici NeMO. Il primo volume è stato presentato nel settembre 2020 ed attualmente è disponibile anche il secondo volume. Il fumetto è reperibile online sul sito www.lasmaglianteada.it

Il progetto ha l’obiettivo di promuovere una cultura dell’inclusione sociale partendo dalla convinzione che la disabilità, legata all’atrofia muscolare spinale (SMA), possa essere affrontata ponendo attenzione, non ai deficit che la malattia genera, ma alle risorse che possiede chi ne è affetto. Inoltre il messaggio che la SMAgliante Ada vuole trasmettere è quello che è possibile trovare nella malattia una dimensione di leggerezza.

Le avventure della SMAgliante Ada 2020 2021 Recensione del fumetto Fig 1

 

L’atrofia muscolare spinale è una malattia neuromuscolare causata dalla mutazione di un gene che codifica per la proteina SMN necessaria per la vita cellulare dei motoneuroni e per il loro corretto funzionamento. È importante, per i bambini in genere e per i piccoli affetti da SMA, conoscere da tutti i punti di vista, anche quello scientifico, questa patologia genetica e progressiva così che sarà più semplice raggiungere l’inclusione che migliora la vita dei bimbi malati e di quelli sani.

Protagonista di entrambi i fumetti, realizzati da un team multidisciplinare di educatori, psicologi, medici, disegnatori, sceneggiatori e consulenti dell’associazione famiglie SMA, è Ada una cagnolina nata con l’atrofia muscolare spinale, che si muove sulla sua carrozzina elettrica di color rosso intenso. Nel fumetto vi sono delle tavole didattiche semplici che riguardano gli aspetti scientifici della malattia e vengono spiegate da Ada ai bambini.

La SMAgliante Ada vive tante avventure, ciascuna di queste è pensata e realizzata con un intento didattico. Le peripezie della cagnolina riguardano fatti delle quotidianità e mostrano come vivere le emozioni e gestire le relazioni. Le storie fantastiche vissute dalla SMAgliante Ada e dai suoi compagni raccontano come ognuno di noi sia unico e diverso dagli altri e come questa diversità sia preziosa perché ciascuno possa realizzarsi al meglio.

Questo fumetto che può essere definito ‘’letteratura disegnata’’ è uno strumento di comunicazione a tutto tondo, che tratta in un modo nuovo il tema dell’inclusione sociale dei bambini con disabilità. Il gruppo di lavoro, che ha permesso la realizzazione di questo progetto, ha dimostrato un’eccezionale capacità e professionalità.

 

E se una sostanza allucinogena fosse essa stessa un rimedio per il disturbo da uso di sostanze?

Il disturbo da uso di sostanze (ing. Substance Use Disorder, SUD) è una condizione per la quale l’utilizzo di uno o più psicoattivi porta a una compromissione clinicamente significativa o a disagio (American Psychiatric Association, 2013).

 

Il disturbo da uso di sostanze si riferisce quindi all’uso eccessivo di una droga che porta a effetti dannosi per la salute fisica e mentale di un individuo, o per il benessere di altri individui. Questo disturbo è caratterizzato da un modello di uso continuato patologico di una sostanza, che si traduce in conseguenze sociali avverse, come il mancato rispetto degli obblighi di lavoro, di famiglia o di formazione, ma anche in conflitti interpersonali e problemi legali (Mosby’s Medical, Nursing & Allied Health, 1998).

Secondo lo studio sul carico globale delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità, circa 11,8 milioni di persone in tutto il mondo soffrono di tossicodipendenza (Degenhardt et al., 2010). Diversi fattori contribuiscono al rischio di sviluppare il disturbo da uso di sostanze, inclusi fattori socioeconomici, come stile ed eventi di vita, episodi avversi (sia durante l’infanzia, sia in corso), disponibilità di farmaci o accettazione culturale dell’uso di droghe, e disturbi psichiatrici, come depressione, disturbo bipolare, disturbi d’ansia, e schizofrenia (Weiss et al., 1992).

Il trattamento del disturbo da uso di sostanze

Il trattamento del disturbo da uso di sostanze spesso comporta interventi sia farmacologici, sia psicologici, come la terapia cognitivo comportamentale, il colloquio motivazionale, la terapia familiare. Nonostante la crescente efficacia del trattamento di questo disturbo, ancora il 50-60% dei pazienti con disturbi da uso di droghe e alcol presenta delle recidive entro 6-12 mesi dopo il trattamento (Cornelius et al., 2003). Sono quindi urgentemente necessari nuovi trattamenti che si concentrino preferibilmente sulla riduzione del craving e del successivo uso massiccio di sostanze.

Sebbene possa risultare paradossale, alcuni studi hanno dimostrato come alcune sostanze allucinogene abbiano effetti significativi sulla riduzione della sintomatologia correlata al disturbo da uso di sostanze.

Come risultato della sua popolarità ricreativa degli anni ’60, il potenziale di abuso di LSD è stato vietato nel 1967, e ciò ha ridotto notevolmente la ricerca scientifica in questo campo. Recentemente, un altro allucinogeno, la psilocibina, ha guadagnato popolarità nella ricerca neuropsicologica. È stato dimostrato che la sostanza allucinogena contenuta in particolari specie di funghi, possa aumentare la flessibilità cognitiva e comportamentale (Gallimore, 2015) e le valutazioni di atteggiamento positivo, umore, effetti sociali e comportamento a due mesi di follow-up (Griffiths et al., 2008). Uno studio ha anche riportato cambiamenti positivi nell’atteggiamento e nel comportamento dopo una singola dose di psilocibina, cambiamenti persistenti per 25 anni (Doblin, 1991). È stato anche dimostrato che la psilocibina riduce i sintomi depressivi nei malati terminali di cancro (Grob et al., 2011). Questi risultati suggeriscono che la psilocibina potrebbe essere un composto prezioso per il trattamento delle condizioni psicologiche e psichiatriche.

L’uso della psilocibina nel trattamento del disturbo da uso di sostanze

Nella review del 2017 di de Veen e colleghi, gli autori evidenziano come la struttura chimica della psilocibina sia simile a quella della serotonina. Le disregolazioni del sistema serotoninergico sono associate ad alterazioni degli ormoni dello stress, come il cortisolo, e a variazioni dell’umore. Dopo la somministrazione di psilocibina, i livelli di cortisolo tendono ad aumentare, attivando la rete di controllo esecutivo, con conseguente aumento del controllo sui processi emotivi, nonché sollievo dal pensiero negativo e dalle emozioni negative persistenti. È importante sottolineare che la psilocibina ha un basso rischio di tossicità e di induzione di dipendenza e può essere utilizzata in sicurezza in condizioni cliniche controllate (de Veen et al., 2017).

Con la quantità limitata di effetti collaterali segnalati e i potenziali effetti benefici della psilocibina nel disturbo da uso di sostanze, de Veen e collaboratori credono fermamente che ci siano valide ragioni per indagare ulteriormente sull’efficacia terapeutica e sulla sicurezza della psilocibina come potenziale trattamento del disturbo da uso di sostanze (de Veen et al., 2017). Gli autori ipotizzano in particolare due meccanismi d’azione della psilocibina che potrebbero mediare le sue proprietà anti-assuefazione. Da un lato, la sostanza può esercitare le sue proprietà anti-assuefazione con effetti benefici su stati emotivi negativi e stress. D’altra parte, la psilocibina può migliorare la rigidità cognitiva e la compulsività. Data la sua implicazione nella modifica dei processi emotivi e comportamentali, il team di de Veen ipotizza che essa possa migliorare il funzionamento cognitivo e alleviare i sintomi legati all’ansia e alla depressione associati al disturbo da uso di sostanze (de Veen et al., 2017).

La ricerca sull’efficacia della psilocibina sul disturbo da uso di sostanze è ancora limitata; di conseguenza, molti importanti quesiti relativi all’uso dell’allucinogeno come complemento all’attuale trattamento del disturbo da uso di sostanze e ai suoi meccanismi di funzionamento rimangono senza risposta. Prima che la psilocibina possa essere implementata come opzione di trattamento per il disturbo da uso di sostanze, è bene sottolineare l’indispensabilità di studi sperimentali più approfonditi.

 

Niente più Esame di Stato per psicologi e non solo – Approvata in Senato l’abilitazione alla professione tramite titoli universitari

Niente più Esame di Stato per psicologi e non solo. Il titolo di studio magistrale sarà abilitante alla professione, ciò consentirà ai giovani laureati di entrare nel mondo della formazione specialistica e/o del lavoro in modo più veloce e diretto. 

 

Abolizione dell’Esame di Stato: approvato in Senato il Ddl 2305

Nella giornata di giovedì 28 Ottobre 2021, durante la 372ª Seduta pubblica, il Senato ha approvato definitivamente, con 184 voti favorevoli, il ddl 2305, collegato alla manovra di bilancio, recante disposizioni in materia di titoli universitari abilitanti. Il provvedimento prevede, all’articolo 1, che l’esame di laurea magistrale abiliti all’esercizio delle professioni di odontoiatra, farmacista, medico veterinario e psicologo (Senato della Repubblica, 2021).

Già approvato alla Camera dei Deputati lo scorso giugno, il provvedimento dà attuazione a uno degli interventi di riforma indicati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che l’Italia ha inviato alla Commissione europea, pensato per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro a giovani professionisti.

Cosa cambia?

Niente più Esame di Stato dunque, ma l’esame conclusivo del corso di studi universitario sarà coincidente con l’Esame di Stato, sì da ridurre i tempi di inserimento nel mercato del lavoro e nel mondo delle specializzazioni post-lauream.

Il primo corso di laurea per cui era stata eliminata l’abilitazione professionale è stata quello di Medicina, a seguito del decreto Cura Italia, scelta motivata dal forte bisogno di operatori sanitari durante la prima fase dell’emergenza Covid-19 (Redazione SkyTG24, 2021). Ora tale decisione si estende, tra le altre, alle lauree in odontoiatria e protesi dentaria (classe LM-46), in farmacia e farmacia industriale (classe LM-13), in medicina veterinaria (classe LM-42), nonché alla laurea magistrale in psicologia (classe LM-51).

L’abolizione dell’Esame di Stato e l’abilitazione diretta tramite conseguimento di titoli universitari saranno rese possibili da una modificazione dei percorsi di studio, in cui sarà garantita una più alta preparazione tecnico-pratico e la verifica della stessa. Questo aspetto consentirà all’Italia di allinearsi al resto d’Europa, imponendo agli atenei di ripensare l’offerta formativa in una direzione meno teorica e più pratica, per l’appunto, e maggiormente orientata alla professione grazie all’integrazione nel percorso di studi di stage e tirocini formativi.

Nell’ambito delle attività formative professionalizzanti previste per le classi di laurea magistrale, infatti, almeno 30 crediti formativi universitari saranno acquisiti con lo svolgimento di un tirocinio pratico-valutativo interno ai corsi di studio. Le specifiche modalità di svolgimento, valutazione e certificazione del tirocinio, saranno stabilite dalle singole classi citate e dai regolamenti didattici di ateneo dei relativi corsi di studio.

L’abilitazione tramite conseguimento di titoli universitari avrà decorrenza dall’anno accademico successivo a quello in corso alla data di adozione dei decreti rettorali cui è demandato l’adeguamento dei regolamenti didattici di ateneo ai sensi del disegno di legge in esame.

E per chi consegue la laurea prima dell’entrata in vigore del ddl?

Ci saranno modalità semplificate di espletamento dell’Esame di Stato per coloro che hanno conseguito o che conseguono i titoli di laurea previsti “dalla presente legge” in base ai previgenti ordinamenti didattici (privi del carattere abilitante). A tal fine, le università sono tenute a riconoscere le attività formative professionalizzanti svolte durante il corso di studio o successivamente al medesimo. Per gli studenti che hanno conseguito o conseguono la laurea magistrale in psicologia in base ai previgenti ordinamenti didattici non abilitanti, si stabilisce che questi ultimi acquisiscono l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo previo superamento di un tirocinio pratico-valutativo e di una prova pratica valutativa. Ai fini della valutazione del citato tirocinio, le università riconoscono le attività formative professionalizzanti svolte successivamente al corso di studi.

Coloro che invece hanno concluso il tirocinio professionale (ai sensi della normativa vigente, ex articolo 52, comma 2, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 giugno 2001, n. 328) acquisiscono l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo previo superamento di una prova orale su questioni teorico-pratiche relative all’attività svolta durante il medesimo tirocinio professionale, nonché su aspetti di legislazione e deontologia professionale (Quotidiano Sanità, 2021).

Titoli abilitanti e mondo del lavoro

Il ministro dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, ha così commentato (Il Sole 24ore, 2021):

L’approvazione all’unanimità al Senato della legge sui titoli universitari abilitanti è il segno che l’attenzione verso i giovani sta davvero tornando protagonista nel Paese. Con questa norma permettiamo alle nostre studentesse e ai nostri studenti di accedere al mondo del lavoro subito, senza aspettare anni di tirocinio e l’esame di stato per potere iniziare, li mettiamo in collegamento con i professionisti già durante il corso di laurea e diamo ancora più valore al loro tempo e ai loro studi

 

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