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Un costrutto di base della psicologia sociale: l’aspettativa – Seconda parte

La ricerca ha individuato cinque parametri per definire la natura di un’aspettativa (Roese & Sherman, 2007): la probabilità di occorrenza dell’evento, la fiducia sul giudizio di probabilità, l’accessibilità dell’aspettativa, il suo grado di astrattezza e la sua chiarezza.

Ndr – Il presente articolo è il secondo di una serie di tre articoli sul tema delle aspettative. Il primo contributo è stato pubblicato ieri su State of Mind, il terzo verrà pubblicato nei prossimi giorni

 

Nell’articolo precedente abbiamo visto che le aspettative sono uno dei blocchi fondamentali della mente umana. Esse sono credenze riguardanti una situazione attuale o futura, in chiave probabilistica e basate sull’esperienza diretta (ad esempio la memoria di situazioni simili nel passato) o indiretta (ad esempio un resoconto scritto o parlato), e la loro funzione fondamentale è quella di guidare il comportamento in situazioni anche molto complesse (Roese & Sherman, 2007).

Nei prossimi paragrafi si cercherà di definire quali sono gli aspetti in base ai quali caratterizzare le aspettative che possediamo, in modo tale da comprenderle meglio e, nel caso, valutarne l’utilità. Ciò, infatti, ci renderebbe in grado, una volta venuti a conoscenza di quali aspettative ci guidano in una determinata situazione, di prestarvi attenzione e correggerle in modo da facilitare il perseguimento dei nostri obiettivi nella situazione considerata. Consideriamo, ad esempio, l’andare in macchina. Se la mia aspettativa sulla guida dell’auto è di dover stare attento perché la strada è un posto pericoloso e in genere l’automobilista tipo è un omone arrabbiato, manesco e fortemente suscettibile, probabilmente non prenderei mai la macchina! In questo caso, cercare di identificare le mie aspettative sulla guida e poi sottoporle a revisione potrebbe semplificarmi parecchio la vita.

La ricerca ha individuato cinque parametri in base ai quali definire la natura di un’aspettativa (Roese & Sherman, 2007): la probabilità di occorrenza dell’evento considerato, la fiducia soggettiva su tale giudizio di probabilità, l’accessibilità dell’aspettativa, il suo grado di astrattezza, la sua chiarezza. Vediamoli uno a uno.

Aspettativa e probabilità

Il primo parametro è la probabilità di occorrenza dell’evento considerato. In questi termini si intende la stima, da parte del soggetto possessore dell’aspettativa, che l’evento previsto accada o non accada, e si situa in un punto tra la piena certezza e la piena incertezza (in termini probabilistici, tra 0 e 1). Maggiore la probabilità stimata, più probabile è che essa influenzi il nostro comportamento e i nostri pensieri in linea con la situazione prospettata (credo che pioverà? Mi porto un ombrello). L’aspettativa potrà essere così confermata o disconfermata dalla situazione attuale. Se confermata, a parità di condizioni e in situazioni future simili, l’evento previsto (‘pioverà’) verrà considerato più probabile (conferma dell’aspettativa), o meno probabile (disconferma).

Aspettativa e fiducia

Il secondo parametro è la fiducia che diamo alla probabilità stimata per l’evento, ovvero il grado di fiducia che diamo alla nostra credenza. Per tornare all’esempio precedente potremmo farci una domanda del tipo: ‘Quanto mi fido del mio giudizio sul fatto che pioverà?’. Il fatto è che magari non sono un esperto, non ho visto le previsioni meteo, non ho ancora preso il caffé etc. In altre parole, potrei non credere che le mie previsioni meteo siano molto affidabili e, in base a ciò, agirò di conseguenza (ad esempio potrei andare contro la mia previsione e non portare con me l’ombrello, con il rischio di bagnarmi).

Aspettativa e astrattezza

Il terzo parametro per valutare un’aspettativa è il suo grado di astrattezza. In questi termini si risponde alla domanda se l’aspettativa sia stata creata a partire da esperienze concrete e specifiche (immagazzinate nella memoria episodica) oppure a partire da generalizzazioni astratte (immagazzinate nella memoria semantica), che sintetizzano l’esperienza fatta a partire da molti eventi, persone e contesti. La differenza tra le due modalità non sono di poco conto.

Infatti, se nel primo caso (memoria episodica) avremo delle aspettative che verranno formulate e applicate ex novo, sul momento, esse ci richiederanno tempo e risorse cognitive per essere calcolate, saranno meno generalizzabili a situazioni anche simili e potrebbero portarci a sbagliare perché errate. Nel secondo caso (memoria semantica) invece, esse saranno già pronte, articolate in strutture coese ad attivazione rapida, e terranno conto delle diverse situazioni possibili, permettendoci di adattarci più velocemente e con meno sforzo. Prendiamo come esempio la guida dell’auto e pensiamo alla prima volta che abbiamo messo mano al cambio manuale o abbiamo attraversato un incrocio trafficato. Probabilmente in quelle circostanze alcuni di noi avranno provato un brivido freddo e il desiderio urgente di scappare, tuttavia con l’esperienza abbiamo imparato a guidare automobili di tipo diverso e attraversato incroci anche molto complicati senza battere ciglio. A partire dalle molte esperienze fatte con cambi manuali e incroci stradali, abbiamo creato strutture di aspettative utilizzabili in diverse circostanze che presentano tratti simili, e ci sentiamo più sicuri.

Aspettativa e accessibilità

Il quarto parametro è l’accessibilità, ovvero la facilità con la quale l’aspettativa tende ad attivarsi in una determinata situazione, spingendoci ad agire e pensare in conseguenza di essa. Esso deriva da quanto recentemente e con quale frequenza l’aspettativa considerata si è attivata nel corso del tempo in situazioni tra loro simili. Maggiore la frequenza e la recenza di attivazione, più probabile che essa sia molto attiva e influenzi il nostro agire e pensare. Torniamo all’esempio precedente. Di solito quando mi trovo davanti a un semaforo rosso la mia aspettativa è che tutte le macchine della mia corsia saranno ferme in attesa del verde come me e nel caso in cui ciò non accadesse, la mia reazione sarebbe di sorpresa. Ciò avviene perché possiedo aspettative molto forti riguardanti il fatto che di fronte a un semaforo rosso si resta fermi, persino nelle gare di formula uno.

Aspettativa e chiarezza

L’ultimo parametro per mezzo del quale valutare un’aspettativa è la sua chiarezza, ovvero il grado con cui è possibile esplicitarla in forma verbale. Nel caso ciò non sia possibile l’aspettativa sarà posseduta dall’individuo nella sua forma implicita, non verbale, e il soggetto agirà in base ad essa in modo inconsapevole (Bargh & Ferguson, 2000). Questo parametro può essere in relazione sia al grado di complessità che all’articolazione tra le aspettative possedute.

Le aspettative più basilari sono, infatti, il prodotto di semplici e immediate associazioni tra concetti e/o attributi relativi agli eventi che osserviamo nel mondo, e che con l’accumulo di esperienza tendono a divenire via via più complesse e connesse. La maggior parte delle aspettative che possediamo, comunque, sono molto complesse, ricche e differenziate in relazione alle situazioni cui si riferiscono. Nel momento in cui riuscissimo a identificarle e a darvi una forma verbale avremmo la possibilità di rifletterci sopra con calma, condividerle con altri e procedere così ad un lavoro critico atto alla valutazione della loro utilità, della loro aderenza alla realtà e della loro adeguatezza in relazione ai nostri obiettivi.

Purtroppo la sola introspezione non ci permette di identificarle né tantomeno coglierne la portata per i nostri nostri pensieri e comportamenti, anche perché, quand’anche ciò accadesse, entrerebbero in gioco altri fattori (come ad esempio la promozione dell’autostima e di un’immagine di sé desiderabile) che ci impedirebbero di riconoscerle con chiarezza (Eagly & Chaiken, 1993). Tuttavia, esplicitare a parole un’aspettativa può essere un potente mezzo per indurre cambiamenti nel proprio modo di pensare e di agire, come ben sanno i terapeuti di orientamento cognitivo-comportamentale.

Partendo da queste considerazioni, allora, un primo modo con il quale potremmo acquisire una maggiore consapevolezza e controllo di noi stessi potrebbe essere cercare di cogliere con l’intuizione quali sono le aspettative che ci guidano nelle situazioni e prendere atto del loro influsso sul comportamento, sul pensiero e sulle emozioni. L’influenza delle aspettative su queste tre aree sono oggetto del prossimo articolo, che chiuderà l’introduzione a questo costrutto così importante per la psicologia sociale e per la comprensione del comportamento umano.

 


UN COSTRUTTO DI BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ASPETTATIVA – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

L’impatto del benessere psicologico dei genitori sul trattamento del disturbo autistico

I dati dello studio suggeriscono che i genitori o i principali caregivers di bambini con autismo che affrontano stress particolari possono beneficiare di un trattamento incentrato sulla famiglia.

 

L’esperienza della disabilità è un terremoto emotivo che sconvolge l’esistenza di una persona costringendola a ricostruire la propria vita su basi diverse. La nascita di un bambino disabile mette fine al sogno di avere un figlio perfetto. Da questa fase a quella successiva di accettazione della disabilità intercorre un tempo variabile nel quale si mischiano senso di colpa, vergogna verso se stessi e verso il figlio, rabbia, impotenza, depressione e nuovo slancio propositivo, sentimenti che si ripropongono a ogni stadio evolutivo del figlio (La Rovere, 2019). Cosa vuol dire essere genitore di un bambino autistico?

Cos’è l’autismo?

I disturbi dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD) sono disturbi del neurosviluppo a eziologia multifattoriale, caratterizzati da deficit nell’interazione sociale e nella comunicazione (verbale e non verbale), associati alla presenza di comportamenti ripetitivi e interessi ristretti e stereotipati. (AmericanPsychiatric Association, 2013).

Fu lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler a coniare nel 1911 il termine autismo, dal greco autós («sé stesso»), per descrivere un aspetto sintomatologico nuovo della schizofrenia in età adulta, caratterizzato da autoreferenzialità, negazione dell’altro e di ciò che è differente da sé, mancanza del senso della realtà, pensiero ripetitivo e bizzarro, incomunicabilità e isolamento.

Leo Kanner, pediatra americano, nel 1943 propose il termine autismo infantile precoce, staccandosi definitivamente dalla definizione di schizofrenia grazie allo studio su un gruppo di bambini osservati presso il Johns Hopkins Hospital di Baltimora. In particolare Kanner scriveva di un bambino: “la cosa che più impressiona di Charles è la sua inaccessibilità, il suo distacco. Cammina come stesse nella sua ombra, vive in un mondo tutto suo, dove non può essere raggiunto.” (Kanner, 1943).

L’impatto della diagnosi di autismo sui genitori

La diagnosi è il punto chiave per pianificare un trattamento e per i successivi esiti dello stesso. Una mancanza di conoscenza sulle pratiche diagnostiche può alterare l’efficacia del trattamento e portare ad un aumento di disagio emotivo nei genitori. Molti genitori vivono esperienze stressanti, come i problemi comportamentali dei bambini e le difficoltà del trattamento degli stessi. (Osborne, Reed, 2012).

Sapere come i genitori reagiscono alla diagnosi di autismo del loro bambino può contribuire a una maggiore comprensione del processo diagnostico, a un miglioramento della comunicazione della diagnosi e all’ottimizzazione delle decisioni relative al trattamento (De Aguiar, Pondè, 2020).

Le ricercatrici Pondè e De Aguiar hanno effettuato uno studio nel 2015 su 9 padri e 21 madri. Le interviste sono durate dai 13 ai 117 minuti, con una durata media di 35 minuti e sono stati osservati dodici casi nel momento in cui la diagnosi di autismo è stata comunicata ai genitori dei bambini. Quasi tutte le madri intervistate hanno espresso sentimenti di tristezza, angoscia e disperazione quando sono venute a conoscenza della diagnosi. Questi sentimenti sono stati descritti come uno shock; un momento devastante; la peggiore esperienza della loro vita. Per quanto riguarda i padri, la maggioranza ha descritto il momento come difficile e triste, uno shock, un colpo (De Aguiar, Pondè, 2020).

L’apprendimento della diagnosi del proprio figlio esercita un impatto emotivo negativo sui genitori, che può essere meglio elaborato da strategie di coping e dalla comunicazione della diagnosi che, oltre a fornire informazioni tecniche, offre conforto, sostegno emotivo e speranza riguardo allo sviluppo del bambino.

Tra le strategie di coping, la negazione può rappresentare una forma di convivenza con le difficoltà del bambino, conservando speranza e aspettative in relazione ai suoi aspetti positivi. […] Nel ricevere le strategie di coping, i genitori hanno chiarito che hanno bisogno di sostegno emotivo per prendersi cura dei loro figli e questo è un aspetto importante da ricordare non solo al momento della diagnosi ma durante l’intero processo di cura delle persone con autismo (De Aguiar, Pondè, 2020).

Relazione tra autismo e stress genitoriale

I genitori di bambini con disabilità dello sviluppo affrontano sfide che li mettono a rischio di alti livelli di stress e di esiti psicologici negativi. Fare da genitore a un bambino con autismo può portare ulteriori fattori di stress legati alla difficoltà del bambino nella comunicazione, comportamenti disfunzionali, isolamento sociale, difficoltà nella cura di sé e mancanza di comprensione. Diversi studi tra i genitori di bambini con autismo e disturbi dello spettro autistico correlati hanno riportato un aumento del disagio psicologico, compresa la depressione, l’ansia e componenti legati allo stress, come la diminuzione della coesione familiare, l’aumento dei disturbi somatici e burnout, in confronto ai genitori di bambini con sviluppo tipico o ai genitori di bambini non autistici con ritardo mentale o altra disabilità dello sviluppo. Inoltre, in diversi studi sui genitori di bambini con ASD, il comportamento del bambino e i problemi di condotta erano più strettamente legati a stress dei genitori, piuttosto che ad altri sintomi dell’autismo, gravità di ritardo dello sviluppo o abilità adattive. Gli studi fino ad oggi sono stati limitati da un piccolo campione, dal basso potere statistico e dai bassi tassi di risposta con possibile bias di selezione. La generalizzabilità era anche limitata perché i campioni sono stati tipicamente prelevati da strutture cliniche, scuole o organizzazioni di genitori (Schieve et al., 2015).

I bambini con autismo affrontano molti problemi di sviluppo e sfide fisiche, che spesso richiedono numerose terapie provenienti da diversi ambiti. Il trattamento basato sui modelli che enfatizzano una collaborazione di squadra, in cui le famiglie sono parte integrante, rispetto ai modelli centrati sul bambino, sta guadagnando attenzione. Tale centratura sul modello della famiglia considera le preoccupazioni familiari e la qualità della vita nello sviluppare piani di trattamento.

I dati dello studio suggeriscono che i genitori o i principali caregivers di bambini con autismo che affrontano stress particolari possono beneficiare di un trattamento incentrato sulla famiglia. In futuro saranno necessari ulteriori studi per confermare e ampliare questi risultati con un focus su specifici stressors che possono avere un impatto negativo sulla famiglia con un bambino con diagnosi di ASD (Schieve et al., 2015).

I genitori di bambini affetti da autismo fanno fatica o sono impossibilitati a svolgere una vita normale e, a causa della natura permanente del disturbo, si trovano perennemente angosciati dall’incertezza sia per il futuro prossimo del proprio bambino sia per quello più lontano. La terapia che si protrae per tutta l’esistenza e l’assenza di cure implicano che le famiglie si occupino del figlio disabile per molti anni.

I risultati di uno studio sul benessere psicologico (Dryer et al., 2014) di genitori di bambini autistici hanno riportato che i problemi comportamentali ed emotivi si verificano sia in casa che in pubblico, causando imbarazzo, restrizioni e impatto sui genitori che riportano stati emotivi di angoscia nella maggior parte degli ambiti della loro vita. Allo stesso modo, Tomanik et al. (2004) hanno scoperto che le madri hanno riportato più stress quando i loro figli si mostravano più irritabili, socialmente introversi, iperattivi e incapaci di interagire con gli altri.

Questo studio sottolinea l’importanza di affrontare l’ASD nell’ottica del benessere psicologico dei genitori. Fornire ai genitori maggiore assistenza e supporto sulle difficoltà comportamentali, emotive e sociali dei figli li aiuterà probabilmente a ridurre i loro livelli di angoscia. I risultati di questo studio mostrano che i genitori che beneficiano di una maggiore educazione e consapevolezza riguardo la gravità dei problemi comportamentali/emotivi del proprio figlio godono di una salute psicologica migliore. Una maggiore consapevolezza può portare a una maggiore accettazione di assistenza professionale per la cura del bambino e a un miglior supporto al benessere psicologico dei genitori di bambini con autismo (Dryer et al., 2014).

 

Il Demone del Grasso (2021) di Valeria Bobbi – Recensione

Il Demone del grasso è un libro scritto da Valeria Bobbi. Un racconto in parte autobiografico.

 

Una descrizione cronologica di emozioni caratterizza tutto il libro, una fame immonda, che contorce viscere e anima, affligge la protagonista fin dalla pubertà. È un demone appunto, che ad ogni emozione si sveglia e si impossessa di lei. Si placa di notte, tanto da far svegliare la giovane, ogni mattina, convinta di poter vincere la sua battaglia contro il senso di colpa e la voglia di dimagrire.

Alternando periodi di controllo del peso a periodi di fluttuazione incontrollabile, il demone ad un certo punto si impadronirà completamente di Caterina che si arrenderà a questo circolo vizioso, almeno fino ad un incontro con una persona che si rivelerà fondamentale.

L’equilibrio è l’obiettivo più complicato da acciuffare e non far scappare tra le intemperie dell’esistenza

Quanto è vero!

Leggendo questo libro ho riflettuto su quanto dovrebbe essere fatta promozione alla prevenzione dei disturbi alimentari, tanto quanto le dipendenze da droga e alcol. Una dipendenza, una particolare mal gestione emotiva, ha molte strade in cui incanalarsi e i disturbi del comportamento alimentare fanno parte di questi canali, fintamente accettabili rispetto a droghe ed alcol, fanno meno rumore e quando li viviamo, addirittura spesso non ce ne rendiamo neanche conto.

Leggere il racconto di chi ha vissuto certe dinamiche è un grande strumento per non sentirsi soli, strani, per vedere che, sebbene per ognuno di noi le esperienze sono personali, spesso hanno un comune denominatore.

Da leggere sicuramente, lo consiglio soprattutto ad un pubblico in età adolescenziale e, perché no, anche ai genitori che troppo spesso non danno troppo peso a certi comportamenti.

 

Quando la penna dà voce all’anima: scrittura espressiva e benessere

La scrittura espressiva permette non solo di sfogarsi, ma anche di comprendere maggiormente gli avvenimenti scritti.

 

I primi studi che hanno indagato la relazione tra scrittura espressiva e benessere psicofisico sono stati condotti da Pennebaker (Niles, Haltom, Mulvenna, Lieberman, Stanton; 2014), il quale considerava la scrittura come uno strumento catartico che consentiva non solo di “sfogarsi”, ma anche di prendere consapevolezza dei propri vissuti.

Negli ultimi 20 anni, una mole corposa di letteratura ha dimostrato gli effetti benefici che la scrittura di eventi traumatici, stressanti, esperienze di malattia e sentimenti negativi ha a livello fisico e psicologico (Baikie, Wilhelm; 2005): lo stesso Pennebaker scoraggiava l’inibizione delle emozioni negative o il controllo eccessivo delle stesse, in quanto richiedevano un lavoro fisiologico che comportava livelli malsani e cronici di stress (Lepore; 2002). L’inibizione delle emozioni negative, infatti, è deleteria per la salute, in particolar modo per quella cardiovascolare e per il sistema immunitario, a differenza dell’espressione emotiva, che è un moderatore significativo degli esiti dell’ansia (Niles, Haltom, Mulvenna, Lieberman, Stanton; 2014) ed è legata a condizioni di salute migliori.

Lo scrivere consente di mettere nero su bianco quello che si prova, incidendo sul foglio emozioni e sentimenti che altrimenti soccomberebbero nell’abisso dell’anima: è come se, tracciando su carta consonanti e vocali, si desse al mondo interiore la possibilità di parlare, di farsi vivo, quando le parole non lo consentono. Perché, quando la gola si chiude e la lingua si paralizza, la penna riesce a far vibrare le corde vocali.

La scrittura espressiva, dunque, permette all’individuo non soltanto di sfogarsi, ma anche di comprendere maggiormente gli avvenimenti scritti: in sostanza, rileggendo il proprio elaborato, si diventa osservatori esterni di sé stessi e si ha la possibilità di riflettere sul testo.

Vari studi dimostrano che scrivere dei propri pensieri più profondi, a lungo termine, comporta: miglioramento dell’umore e del funzionamento del sistema immunitario, minori visite mediche a causa dello stress, pressione sanguigna ridotta, miglioramento della funzione polmonare e della funzionalità epatica (Baikie, Wilhelm; 2005).

Alcuni studiosi, tuttavia, credono che la scrittura espressiva, in pazienti con difficoltà a riconoscere e verbalizzare le proprie emozioni (ad esempio gli alessitimici), non abbia alcun effetto benefico; altri, invece, sostengono la tesi opposta, attestando che coloro con maggiori difficoltà ad identificare e/o esprimere i propri vissuti, sono quelli che potrebbero trarre i più grandi vantaggi dall’expressive writing.

In sintesi, per molti quest’ultima non è uno strumento universalmente vantaggioso, ma in ogni caso, che si tratti di testi autobiografici, lettere, poesie o racconti fantastici, la scrittura è un mezzo di espressione emotiva (Smyth, Helm; 2003).

Un costrutto di base della psicologia sociale: l’aspettativa – Prima parte

Quello di aspettativa è un costrutto base in psicologia e uno dei blocchi principali costituenti la mente umana.

Ndr – Il presente articolo è il primo di una serie di tre articoli sul tema delle aspettative. Gli altri contributi verranno pubblicati nei prossimi giorni

 

Esse entrano in gioco quando ci alziamo la mattina, quando andiamo al lavoro, quando incontriamo gli amici, quando siamo impegnati in compiti nuovi, quando ci troviamo in situazioni ordinarie come in situazioni eccezionali. Esse ci permettono di considerare il mondo prevedibile, in una certa misura controllabile; ci permettono di costruire progetti dal brevissimo (secondi) al lunghissimo termine (anni), formulare piani di azione, impegnarci in obiettivi da raggiungere, simulare mentalmente scenari non ancora incontrati e massimizzare i risultati dello sforzo e dell’inventiva personale. Il loro impatto sulla nostra vita è ubiquo e soprattutto silenzioso, in quanto per la maggior parte del tempo esse ci guidano senza che ne siamo consapevoli (Roes & Sherman, 2007).

Per fare alcuni esempi, esse sono responsabili dell’apprezzamento estetico, che si baserebbe su una loro parziale disconferma quando viene fatta esperienza dell’opera d’arte (Berlyne, 1974); sono fondamentali nel definire gli atteggiamenti che abbiamo su eventi e oggetti del mondo (Ajzen & Fishbein, 1980); sono fondamentali nello humour (Wyer & Collins, 92), che si baserebbe sulla risoluzione di un’incongruità percepita tra quanto osserviamo/ ascoltiamo e le attese di come il mondo funziona; infine, hanno un ruolo chiave nella genesi e nello sviluppo della depressione, in cui le aspettative sugli eventi sono spesso perlopiù negative, cupe, fino a essere disperate (Abramson,  Metalsky & Alloy, 1989).

Cosa ci può dire la psicologia sociale sulle aspettative? Cosa sono? Quale è la loro funzione? In base a quali parametri si valutano? Se poco aderenti alla realtà sono passibili di modifica/revisione? Quali conseguenze esercitano sul comportamento, la cognizione e le emozioni? Questo e i prossimi articoli tenteranno di dare una risposta accessibile al lettore non specialista a queste domande.

Una definizione di aspettativa e delle sue funzioni

Innanzitutto serve una definizione di comodo. Consideriamo le aspettative come “credenze riguardanti futuri stati di cose” e, in quanto tali, sono stime soggettive della possibilità che uno o più eventi si presentino, con la possibilità espressa tra gli estremi della certezza incrollabile e dell’impossibilità (Rose & Sherman, 2007). Sono, in altri termini, credenze che costruiscono scenari che riteniamo probabili e che utilizziamo come guida per agire nel mondo, e che si formano a partire dalle informazioni che possediamo in base alla nostra esperienza passata o per esperienza indiretta (dal racconto di un conoscente, da un libro, osservando gli altri, etc.).

La loro funzione primaria è di guidare il comportamento per raggiungere uno o più obiettivi in base a un confronto, che avviene a livello non consapevole, tra la situazione attuale – di cui il soggetto sta facendo esperienza – e uno stato di cose futuro che crede possibile. In base alle ‘piste’ fornite dalle aspettative, il comportamento che il soggetto attua sarà costantemente monitorato dal sistema cognitivo affinché sia raggiunto l’obiettivo e, se necessario, attuare delle modifiche al corso d’azione scelto.

Per fare un esempio, pensiamo a quando guidiamo l’automobile. Sappiamo che per partire da fermi dobbiamo effettuare tutta una serie di operazioni che crediamo daranno dei risultati (accendere l’auto, tirare la frizione, ingranare la prima etc.) senza i quali non partiremmo mai. Le aspettative ci dicono cosa dobbiamo fare, che sarà molto probabile che la macchina parta e, inoltre, cosa fare nel caso ciò non accada. Più la situazione attuale è percepita come complessa, più le aspettative tenderanno ad articolarsi di conseguenza, a formare un sistema che possa guidarci in essa. Avremo così diversi piani di azione disponibili, molteplici rappresentazioni di possibili situazioni future, diversi modi di affrontare una situazione, tutto ciò a concorrere per i nostri scopi (Rose & Sherman, 2007).

Il rapporto tra l’aspettativa e la realtà

Ma non c’è il rischio che le aspettative che possediamo siano sbagliate rispetto alla situazione attuale, ovvero che le nostre credenze non siano ancorate adeguatamente alla realtà? Non proprio. La maggior parte di esse sono accurate e rispecchiano molto fedelmente la realtà, perché basate su un bagaglio consistente di esperienza passata direttamente vissuta dall’individuo. Tuttavia possono contenere errori. Quando ciò accade il comportamento non porta gli esiti previsti e tra la aspettativa posseduta dal soggetto e la situazione reale verrà percepita una discrepanza, il soggetto percepirà che ‘c’è qualcosa che non va’, e l’aspettativa verrà disconfermata in una parte più o meno consistente, portando il soggetto a rivedere il comportamento, l’aspettativa stessa, o entrambi (Roese, 2001).

Ritornando all’esempio dell’automobile, avete mai provato a partire da fermi con la quarta marcia ingranata? Cosa avete sentito in quel momento, a parte il fatto che la macchina non partiva? Quella sensazione che c’era ‘qualcosa di storto’, era il sistema cognitivo che vi diceva di prestare attenzione a ciò che stava accadendo in quel momento.

Oltre a essere per la maggior parte corrette, precise e affidabili (per ora, quasi ogni mattina riusciamo a far partire l’auto) le aspettative agiscono perlopiù al di sotto della piena consapevolezza (in ‘automatico’; Rose & Sherman, 2007), il che le rende uno strumento che la nostra mente applica in modo efficiente e veloce alle situazioni che incontriamo nella vita quotidiana, soprattutto quando è necessario prendere decisioni rapide e in circostanze difficili, quando in genere sperimentiamo stanchezza, confusione e urgenza di pensare a una soluzione (come ad esempio scegliere un percorso alternativo se siamo in ritardo, o se inchiodare o sterzare se un pedone ci passa davanti).

Nella seconda parte si tenterà di fornire i parametri necessari per comprendere la natura e il funzionamento di questo indispensabile strumento cognitivo.

 


UN COSTRUTTO DI BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ASPETTATIVA – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

Il microbiota influenza il comportamento sociale attraverso i neuroni dello stress

Il microbiota è un ecosistema complesso che influenza, modula ed è continuamente influenzato e modulato da molti sistemi attraverso il cosiddetto asse “microbiota-intestino-cervello”.

 

Una recente ricerca non solo ha confermato la forte connessione tra la composizione del microbiota ed i comportamenti sociali espressi dall’organismo ma ha anche identificato nei topi sia lo specifico gruppo di neuroni sensibili alle influenze del microbiota (nucleo paraventricolare dell’ipotalamo) sia il particolare ceppo di batteri (Enterococcus faecalis) che ne modulano il funzionamento neurale e comportamentale.

Il ruolo del microbiota nell’organismo

Fino a pochi anni fa le scienze biomediche consideravano il microbiota semplicemente come un insieme piuttosto passivo e statico di microorganismi (batteri, virus, funghi) che parassitavano il nostro organismo senza attribuire loro alcuna funzione vantaggiosa per le cellule umane.

Molto recentemente però, grazie soprattutto allo sviluppo della tecnologia necessaria a sequenziare i genomi dei batteri che fanno parte di questo complesso ecosistema (metagenomica, trascriptomica e metabolomica), si è cominciato a comprendere il ruolo imprescindibile (e per alcuni versi quasi disorientante rispetto ad alcuni assunti precedenti) del microbioma anche per la fitness umana.

La stima della massa totale del microbiota è circa un kilogrammo e, anche se è presente in tutte le superfici interne ed esterne del nostro corpo (pelle, bocca, stomaco, intestino, polmoni, ecc.), si trova maggiormente concentrata nel tratto dell’intestino tenue e del colon per il suo ruolo strategico sia per quanto riguarda l’elaborazione alimentare che per quanto riguarda il nostro sistema immunitario.

L’organismo umano è costituito da circa 30 mila miliardi di cellule che contengono DNA umano che convivono in maniera generalmente simbiotica con un numero almeno pari o superiore (probabilmente di circa un terzo) di cellule appartenenti al microbiota (Sender, Fuchs, & Milo, 2016).

Diversamente da quanto creduto in passato è quindi lecito domandarsi se, quando ci riferiamo al “nostro” organismo, intendiamo esclusivamente l’insieme di cellule che condividono il DNA della specie umana o stiamo invece considerando il concetto di olobionte che include il complesso ecosistema che comprende anche tutte le cellule con un DNA “extra” umano che ci permettono di sopravvivere e prosperare (Agnoletti, 2021a).

Molecole biologiche fondamentali per il funzionamento del nostro organismo quali, ad esempio, la serotonina e la dopamina, non sono sintetizzate da cellule con il DNA umano ma da organismi che appartengono al microbiota.

Il microbiota ha quindi un ruolo di assoluto protagonista della “nostra” fitness anche se finora è stato grandemente sottostimato.

Ormai sia le scienze biomediche con gli studi ad esempio sulla celiachia, sull’obesità o la colite ulcerosa, che quelle psicologiche con gli studi sull’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia ed altre ancora (Caio et al., 2019; Cheung et al., 2019; Kelly et al. 2016; Li & Zhou, 2016; Sharon et al., 2019; Foster & McVey Neufeld; 2013; Garrett et al. 2007; Mangiola et al., 2016; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Simpson et al., 2021) rendono facilmente prevedibile, nel prossimo futuro, un radicale cambiamento di molti paradigmi di entrambi questi settori scientifici (Agnoletti, 2021b; Agnoletti, 2021c).

Grazie alle ricerche molto recenti sul microbiota sappiamo ad esempio che soprattutto i primi anni di vita dell’organismo sono fondamentali per il benessere e la qualità di vita psicofisica di tutto l’arco temporale umano perché ci sono particolari esperienze quali il parto, l’allattamento, la presenza di altri esseri viventi con i quali siamo in stretto contatto (per esempio animali domestici), l’assunzione o meno di antibiotici, la tipologia di stress psicosociale percepito, etc. (Koenig et al., 2011; Ottman et al., 2012) che determinano il particolare assetto e composizione del microbiota e quindi il suo impatto nell’intero organismo.

Il microbiota è un ecosistema complesso che interagisce in maniera biunivoca con molti sistemi cellulari costituiti da DNA umano nel senso che influenza, modula ed è continuamente influenzato e modulato da molti sistemi attraverso il cosiddetto asse “microbiota-intestino-cervello” (Cryan et al., 2019).

Effetti dei trapianti di microbiota

Esistono in letteratura già numerosi studi relativi a trapianti di microbiota (tra modelli animali, da modelli umani ad animali e tra umani) che dimostrano, per esempio, che trapiantando il microbiota di un ratto stressato negativamente al punto di renderlo ansioso o depresso, all’interno dell’intestino di un topolino né ansioso né depresso, si inducono velocemente (nel giro di pochi giorni) in quest’ultimo comportamenti ansiosi o depressivi simili al donatore (Kelly et al., 2016; Winter et al., 2018).

Anche il trapianto nella direzione opposta, trapiantando cioè il microbiota di un topolino non ansioso e non depresso nell’organismo di uno ansioso o depresso, si riscontrano significativi miglioramenti sulla qualità di vita e la salute del topolino ricevente questa componente biologica che non fa parte del DNA dei topolini.

Microbiota e comportamento sociale

Già alcune ricerche quindi avevano dimostrato nei topi una connessione tra il loro microbiota ed il comportamento sociale che esprimevano (Buffington et al. 2016; Desbonnet, 2014; Rogers, G. B. et al. 2016; Sharon, Sampson, Geschwind & Mazmanian, 2016), ma solo attraverso uno studio molto recente, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, si è identificato il meccanismo specifico attraverso il quale avviene questa dinamica (Wu et al. 2021).

Questa ricerca ha dimostrato infatti che il microbiota modula l’attività neuronale di specifiche regioni del cervello dei topi dedicate al meccanismo di gestione dello stress ed i comportamenti sociali.

Il comportamento sociale dei topi privi di microbiota e trattati con antibiotici è associato ad elevati livelli di cortisolo che viene prodotto principalmente dall’attivazione dell’asse endocrino ipotalamo-ipofisi-surrene (il cosiddetto asse HPA dall’inglese hypothalamic–pituitary–adrenal axis).

In questo studio si è visto che l’adrenalectomia (operazione chirurgica che consiste nell’asportazione di uno o entrambe le ghiandole surrenali), la funzione antagonista dei recettori glucocorticoidi e l’inibizione farmacologica indotta nella sintesi del cortisolo correggono tutti efficacemente i comportamenti sociali espressi dai topolini causati dalla situazione disfunzionale del microbioma.

Anche l’intervento di silenziamento genetico indotto per ridurre l’attività dei recettori dei glucocorticoidi in specifiche regioni del cervello e l’inattivazione chemogenetica dei neuroni nel nucleo paraventricolare dell’ipotalamo (quelli che producono il rilascio della corticotropina, CRH, che induce a sua volta la produzione surrenalica di cortisolo) migliorano significativamente i disturbi sociali espressi nei topi trattati con antibiotici (somministrati precedentemente per indurre uno stato disbiotico, di disequilibrio, nel microbiota).

A conferma di quanto già rilevato, lo studio condotto da Wu e colleghi, ha dimostrato che l’attivazione specifica dei neuroni che esprimono corticotropina nel nucleo paraventricolare induce deficit sociali nei topi con un normale microbiota.

Attraverso la profilazione del microbiota ed un intervento in vivo, questi ricercatori hanno anche identificato una specie batterica, l’Enterococcus faecalis, che promuove l’attività sociale nei topi riducendo i livelli di cortisolo indotti attraverso uno stress psicosociale.

Questi studi suggeriscono che specifici batteri intestinali possono limitare l’attivazione dell’asse HPA e mostrano come il microbiota possa influenzare i comportamenti sociali attraverso specifici circuiti neuronali del sistema nervoso centrale che mediano la gestione psicofisica dello stress.

I risultati presentati in questo lavoro molto recente indicano la necessità di esplorare dinamiche simili anche nelle persone per il ruolo sempre più importante attribuito all’asse intestino cervello nel determinare i comportamenti umani.

Anche se deve essere ancora dimostrato sperimentalmente nei suoi dettagli umani, le evidenze già presenti in letteratura lasciano supporre la definizione di nuovi paradigmi interpretativi legati allo sviluppo dei disturbi d’ansia, relativi alla depressione ma anche a tutti quelli stress correlati.

 

Mostri di casa (2021) di Eleonora Marton – Recensione del libro

Mostri di casa è un albo illustrato rivolto ai bambini dai 4 agli 8 anni.

 

Eleonora Marton, autrice di numerosi libri per l’infanzia, ha realizzato una storia ironica e divertente per aiutare i piccoli lettori a superare una tra le paure più diffuse, la paura del buio.

Ludovica, la protagonista, ci fa entrare nella sua casa che di giorno è un posto tranquillo, mentre di notte è popolata da creature minacciose acquattate nell’oscurità.

Ludovica conosce l’aspetto e i nomi di questi temibili nemici: nell’ingresso appare il minaccioso Barabao dalle unghie affilate, nel soggiorno c’è Sbobb lingua bavosa, Cucinosauro regna in cucina, Sgorgo è il cattivissimo mostro dello sgabuzzino, Walter si nasconde nel bagno mentre Tenebro vive nella stanza degli ospiti.

Solo la camera di Ludovica e quella dei suoi genitori sono libere da mostri, sono i posti sicuri della casa. Ma come mai, si domanda Ludovica, i mostri compaiono solo di notte? Di giorno che fine fanno? Per venire a capo del mistero non resta che arrivare fino alla fine dell’albo illustrato, quando Ludovica scopre una inattesa verità.

Il libro, con le sue spiritose illustrazioni, è molto utile per aiutare i bambini a sdrammatizzare le proprie paure senza, però, correre il rischio di operare una svalutazione; può, in questo, rappresentare un utile aiuto anche per l’adulto che vuole sostenere il bimbo, accompagnandolo nella crescita.

Il timore di ciò che non riusciamo a vedere, a conoscere e, di conseguenza, a controllare, è insito in tutti noi; è per questo che è importante imparare a convivere con le nostre paure più recondite, imparando, come il libro invita a fare, ad andare oltre le apparenze.

 

Esordi psicotici: un’attenzione particolare ai processi di recovery

Il decorso del disturbo nei casi di psicosi è fortemente condizionato dalla tempestività della presa in carico e dall’adeguatezza degli interventi integrati attuati nei primi due anni successivi all’esordio psicotico.

Annalisa D’Errico – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Resta comunque ancora molta strada da fare. Anche se gli antipsicotici di seconda generazione riescono finalmente a colpire il cuore biologico della malattia, non potranno però mai trovare al paziente un lavoro o degli amici: nessuna molecola sarà mai così potente da donargli magicamente la capacità di sviluppare d’un colpo rapporti sociali normali. Questa è una prerogativa che spetterà sempre all’uomo: al medico, al familiare e, da oggi in poi, anche al malato stesso (L’Enciclopedia – Dizionario Medico, Roma, La biblioteca di Repubblica, 2004, pag. 1178)

Cosa s’intende con il termine psicosi ed esordio psicotico?

Il termine psicosi indica una vasta gamma di disturbi psichiatrici che si manifestano con severi sintomi di varia natura, in cui l’individuo sperimenta una distorsione o una perdita di contatto con la realtà, ossia un’incapacità di distinguere il proprio mondo interiore dalla realtà esterna. La psicosi può essere intesa come un cambiamento radicale che ha effetti sconvolgenti sul sé causando il deragliamento, l’interruzione o la paralisi della traiettoria di sviluppo della persona.

I disturbi psicotici hanno un’età di insorgenza compresa tra i 14 e i 35 anni, si manifestano con sintomi positivi (inizialmente dispercezioni, fino a franchi deliri ed allucinazioni) e negativi (ritiro sociale, apatia, rallentamento, appiattimento emotivo). In sintesi, comprendono disorganizzazione del pensiero e del linguaggio, bizzarrie comportamentali, disturbi affettivi e marcato calo del funzionamento (APA, 2013). Inoltre, possono essere presenti altri sintomi quali deflessione dell’umore, ansia, disturbi del sonno, disturbi dell’attenzione, della concentrazione e della memoria che comportano spesso scarsa prestazione scolastica o lavorativa. I principali disturbi psicotici o forme di psicosi sono: Schizofrenia, Disturbo delirante, Disturbo schizofreniforme, Disturbo schizoaffettivo e Disturbo psicotico breve.

L’esordio psicotico (FEP – First Episode Psychosis) avviene in genere prima dei 30 anni, l’insorgenza in età adolescenziale, con esordio prima dei 18 anni, è stimata del 18% (Davi, 2014). Si presenta come un evento apparentemente improvviso ma in realtà è preceduto da fasi prodromiche (della durata media di cinque anni), durante le quali avvengono una serie di cambiamenti e anomalie psicologiche e comportamentali (Larson et al, 2010; Heiden& Hafner, 2000). L’esordio psicotico può comportare la riduzione dei movimenti verso l’autonomia dalla famiglia e inibire la formazione dell’identità e la padronanza di sé.

L’importanza della presa in carico precoce degli esordi psicotici

Come precedentemente sottolineato, diverse ricerche svolte durante gli anni ‘90, hanno mostrato come fosse possibile rintracciare nella storia di vita di pazienti psicotici una serie di segnali e sintomi predittivi dello sviluppo patologico, la cui presenza in ragazzi giovani determina uno Stato Mentale a Rischio (ARMS – At Risk Mental State) (McGorry& Singh, 1995;  Yung et al, 1996). L’intervento precoce e tempestivo nei confronti di questi casi può avere effetti positivi sul decorso stesso della patologia, ritardando o prevenendo il primo episodio psicotico (Cozzi, 2017).

Diventa quindi fondamentale effettuare una corretta raccolta anamnestica volta a individuare i fattori di rischio che possono avere un ruolo nello sviluppo della psicosi. E’ stata riscontrata una frequente comorbidità dell’abuso di sostanze nei giovani, in particolare di sesso maschile, con recente esordio psicotico; si è ipotizzato che la tendenza ad usare droghe sia un tentativo di mitigare i sintomi psicotici negativi, la depressione o il disagio derivante dalle conseguenze del disturbo. Nonostante il sollievo soggettivo che può portare, l’abuso di sostanze ha spesso effetti deleteri sulla psicosi: peggiora la sintomatologia, aumenta le ricadute ed i conseguenti ricoveri ripetuti e incrementa la violenza e i suicidi (Smith e Hucker,1994). Il periodo in cui si manifestano i primi sintomi senza essere adeguatamente trattati è definito DUP (Duration of Untreated Psychosis), la sua durata è una variabile importante nella prognosi del disturbo, in particolare per quanto riguarda la remissione dei sintomi positivi (Norman, Lewis & Marshall, 2005).

Le ricerche ed evidenze scientifiche hanno portato dunque allo sviluppo di nuovi ed efficienti approcci e modelli di riconoscimento ed intervento, focalizzati sulle fasi prodromiche del disturbo, approcci che vengono definiti Interventi Precoci (EarlyIntervention). Si è assistito sempre più ad una visione ottimistica riguardo agli esiti nel trattamento delle psicosi. Le ragioni si possono riconoscere in due aspetti: nello sviluppo di farmaci antipsicotici di nuova generazione che hanno dimostrato una maggiore efficacia e minori effetti collaterali e nella consapevolezza che un intervento nelle fasi precoci della malattia potesse garantire una migliore qualità di vita al paziente ed ai suoi familiari e una prognosi maggiormente favorevole.

Un intervento precoce efficace dovrebbe essere (Malla e Norman, 2001) tempestivo, adattato a persone giovani che spesso vivono con le loro famiglie e che non hanno familiarità con i servizi e avere i seguenti obiettivi (Spencer, Birchwood, &McGovern, 2001): ridurre il tempo di DUP, accelerare il processo di guarigione attraverso efficaci interventi biopiscosociali, ridurre l’impatto negativo della psicosi sull’individuo e massimizzare il funzionamento sociale e lavorativo, prevenire le ricadute e la resistenza al trattamento farmacologico.

Situazione italiana: Programma 2000 e programma strategico GET UP

La letteratura internazionale e l’esperienza clinica hanno evidenziato come il decorso del disturbo, che presenta un’elevata variabilità in termini prognostici, sia fortemente condizionato dalla tempestività della presa in carico e dall’adeguatezza degli interventi integrati attuati nei primi due anni successivi all’esordio.

La prima e pionieristica esperienza organica di prevenzione secondaria delle psicosi nata in Italia è rappresentata dal “Programma 2000®”, programma di individuazione e intervento precoce all’esordio di patologie mentali che, dopo un iter burocratico e di definizione organizzativa e concettuale iniziato nel 1997 da un’idea di Angelo Cocchi e Anna Meneghelli, ha avviato l’attività sul campo nel 1999 come iniziativa sperimentale regionale, attuata dal Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano. Anche alla luce dei risultati ottenuti il Programma è stato reiterato a partire dal gennaio 2002, rendendo possibile un assetto più esteso e più articolato. Attualmente ha sede operativa presso il Centro Psicosociale di via Livigno 3 a Milano, DSM Psichiatria 2.

Il Programma 2000® nasce come una possibile risposta preventiva di fronte alle usuali abitudini terapeutiche prevalentemente riparative, ed ha come destinatari giovani al primo episodio psicotico, o comunque al primo contatto con il Servizio e con una durata della psicosi non trattata (DUP) inferiore a 2 anni, e giovani considerati, per una combinazione di fattori e di evidenti segnali, ad alto rischio di psicosi.

Nell’ambito del “Programma 2000®” sono stati condotti, in un quadro di stretti collegamenti e collaborazioni internazionali, alcuni filoni di ricerca strategici, oltre ad aver sviluppato nel tempo un preciso e personalizzato modello di cura e intervento nelle psicosi all’esordio riconosciuto e valorizzato in ambito nazionale e internazionale. Un esempio di come l’esperienza e la competenza maturate in questo campo dall’équipe clinica di Programma 2000® ha potuto coinvolgere la partecipazione di docenti, esercitatori e supervisori all’interno della grande ricerca nazionale denominata Programma Strategico GET UP (Genetics, Endophenotypes and Treatment: Understanding early Psychosis), finanziato dal ministero Della Salute nell’ambito della Ricerca sanitaria finalizzata nazionale e promosso dall’università di Verona che si fonda sull’attuazione precoce di specifici interventi farmacologici e psicosociali, inclusivi di una psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale per il paziente, di un intervento psicoeducativo con le famiglie e di un’organizzazione dell’assistenza secondo il modello del case management che coinvolga tutte le figure professionali del dipartimento. Consta di 4 progetti e si pone l’obiettivo di testare l’efficacia di interventi innovativi per soggetti all’esordio di psicosi e per le loro famiglie, attuato in 115 centri di salute mentale dislocati tra Veneto, Emilia Romagna, le provincie di Bolzano, Firenze e Milano. Gli operatori che hanno ricevuto la formazione agli interventi specifici hanno acquisito competenze organizzative e cliniche che hanno modificato le pratiche attuate nei servizi. Sono entrati inoltre a far parte del programma dai 400 agli 800 soggetti all’esordio psicotico, che sono stati valutati al baseline e con un follow-up a breve termine in cui è stato raccolto DNA e materiale biologico che, con alcuni dati clinici d’esordio, ha costituito una biobanca di notevole importanza per l’identificazione di marcatori evolutivi.

Riabilitazione e Recovery: dalla malattia alla persona

La Disabilità è da dove partiamo, la Recovery è la nostra destinazione e la Riabilitazione la strada che percorriamo (Liberman, 2008)

Oltre all’individuazione dei fattori potenzialmente predittivi della possibilità di un esordio psicotico, come abbiamo fin qui visto, è diventato fondamentale anche l’aspetto riabilitativo ed il recupero in giovani che hanno avuto almeno un esordio psicotico. La riabilitazione psichiatrica è quell’insieme di interventi mirati a migliorare il funzionamento di persone con disabilità psichiche, in modo di essere in grado di svolgere un ruolo con successo e soddisfazione nell’ambiente di vita scelto con il minor sostegno continuativo possibile (Anthony, Farkas, Cohen, Gagne, 2002).

Un altro termine che ha preso piede da qualche anno e sul quale ci si concentra è quello di recovery, dal verbo inglese to recover che significa riaversi, riprendersi, recuperarsi, indica il percorso o processo che si compie nel superamento della psicosi. Il termine non significa necessariamente guarigione clinica, ma enfatizza il viaggio compiuto da ciascuno nel costruirsi una vita al di là della malattia. A differenza della parola “guarire”, recovery implica un’idea di processo, di percorso evolutivo e di viaggio che non ha una vera e propria fine; non si tratta dunque di un esito coincidente al ritorno alla condizione precedente al problema, quanto più di un percorso volto alla attivazione di risorse che permettono al soggetto di vivere in maniera piena la sua vita (Coleman, 1999).

Condurre una vita produttiva e soddisfacente anche in presenza delle limitazioni imposte dalla malattia mentale. È lo sviluppo, personale e unico, di nuovi significati e propositi man mano che le persone evolvono oltre la catastrofe della malattia mentale (Anthony, 1993)

Esistono diversi tipi di recovery (Anthony, 1993):

  • Recovery clinico (criteri oggettivi e misurabili): consiste nella remissione prolungata dei sintomi che costituiscono la diagnosi, presenti ad un livello subclinico per frequenza ed intensità; riduzione delle ospedalizzazioni e delle recidive; aderenza terapeutica.
  • Recovery funzionale/sociale (criteri oggettivi e misurabili): coinvolgimento a tempo pieno o parziale in un’attività che presuppone l’esercizio di un ruolo valido – come il lavoro o la scuola – che sia costruttiva e appropriata all’età. Una vita parzialmente o totalmente indipendente dalla supervisione da parte della famiglia o dei servizi, in modo che l’individuo sia responsabile per le esigenze quotidiane nella gestione del denaro, dei beni personali, dei famaci, degli appuntamenti nel fare la spesa e preparare da mangiare. Buoni rapporti con i familiari. Attività ricreative in luoghi e contesti normali in cui è richiesto il rispetto di regole. Relazioni soddisfacenti con i pari, caratterizzate dal curare in modo attivo le amicizie più strette e il mantenere una rete sociale di conoscenti.
  • Recovery personale (criteri soggettivi e oggettivi in parte misurabili): consiste nella crescita personale e nella riappropriazione delle proprie esperienze di vita, una speranza realistica per un futuro migliore che deriva dal fronteggiare i sintomi e la disabilità in maniera attiva, recuperando un senso di sé positivo. Empowerment che deriva dal successo nel raggiungere i propri obiettivi, dalla partecipazione al trattamento e dal trovare per sé nuovi ruoli soddisfacenti e socialmente validi. Si focalizza sul processo attivo di costruzione di un’esperienza di vita significativa, così come definita dalle persone stesse.

Sebbene il termine recovery comprenda aspetti appartenenti a tutte e tre queste categorie, esso implica in primo luogo un processo di cambiamento personale e di riappropriazione del potere e del controllo della propria vita al di là della remissione sintomatologica.

Dal punto di vista pratico è fondamentale nel recovery agire tempestivamente su più livelli:

  • Biologico: assumere regolarmente la terapia, fare attività fisica all’aperto, controllare la propria dieta, evitare l’assunzione di alcool e droghe.
  • Psicologico: instaurare un’alleanza e un dialogo continuo con un operatore del Centro di Salute Mentale (psichiatra, infermiere, psicologo, assistente sociale o tecnico della riabilitazione) poichè conosce questo disturbo e sa come aiutare nell’affrontare i pensieri e le difficoltà che accompagnano la psicosi.
  • Sociale: riprendere gli studi, cercare un lavoro con l’aiuto dei tecnici della riabilitazione, riallacciare i rapporti con gli amici o risperimentarsi al più presto in nuove occasioni di incontro e svago. L’interruzione di alcuni di questi passaggi può rallentare la ripresa o favorire una ricaduta.

Secondo l’approccio del recovery, quindi, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, fenomeni inusuali, tra cui udire le voci, non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona (Casadio, 2014).

Nel mese di marzo 2012, l’amministrazione dei servizi per l’abuso di sostanze e la salute mentale (SAMHSA) ha annunciato una definizione aggiornata di “recupero” dai disturbi mentali. Definiscono la recovery come “un processo di cambiamento attraverso il quale gli individui migliorano la loro salute e benessere, vivono una vita autodiretta e si sforzano di raggiungere il loro pieno potenziale”. Sulla base della visione del recupero come diritto, la cura della salute mentale orientata al recovery è concettualizzata come una collaborazione tra utenti del servizio e fornitori che deve essere guidata dalla visione del tipo di vita che una persona vorrebbe condurre.

Servizi di salute mentale orientati al recovery

In passato, la diagnosi di una grave malattia mentale, come può essere la psicosi, era associata ad una vita di disabilità (Frese, Knight, & Saks, 2009). I trattamenti per la malattia mentale erano focalizzati principalmente sull’uso di farmaci per ridurre i sintomi, con disabilità a lungo termine sia attesa che accertata (Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti, 2003). Gli utenti del servizio, i membri della famiglia ed i professionisti della salute mentale hanno sostenuto una visione più ampia di recupero che non si limitava al sollievo dai sintomi, ma che includeva un ripristino dei vari domini per i quali la maggior parte delle persone riteneva importante la propria salute mentale e il proprio benessere. Tali domini includevano sicurezza e alloggi a prezzi accessibili, occupazione significativa, sostegno tra pari/sociale/familiare, sviluppo personale e arricchimento e impegno con la comunità, attività e organizzazioni. Approcci precoci alla cura della salute mentale o non avevano riconosciuto l’importanza di questi domini del tutto, o non erano riusciti ad affrontarli efficacemente.

L’aumento delle evidenze scientifiche per l’implementazione di pratiche e sistemi orientati al recovery ha portato ad un maggior riconoscimento e consenso (Compagni et al., 2007). Tuttavia, è necessario identificare con maggiore chiarezza il contributo che i servizi di salute mentale possono dare in questo senso (Slade et al., 2011) e come queste pratiche possano essere integrate comportando un cambiamento all’interno dei sistemi di cura dei Paesi anziché rimanere realtà singole ed isolate che non si contaminano.

Il paradigma del recovery propone un riorientamento ed una trasformazione delle politiche di salute mentale, in grado di dialogare con il modello di psichiatria inaugurato in Italia con la legge 180 e allo stesso tempo in grado di promuovere una modalità di trattamento multidisciplinare, flessibile, personalizzata che fa affidamento ridotto sui farmaci e include la partecipazione dell’utente e della sua famiglia, enfatizzando il ruolo del contesto e riducendo pratiche coercitive e di ricovero ospedaliero. Lo scopo dei professionisti è quello di dotare la persona di risorse, informazioni, abilità, reti sociali e supporti per gestire la loro condizione e per aiutarli ad accedere alle risorse di cui ritengono di avere bisogno per vivere le loro vite. Ciò implica una relazione tra i professionisti e le persone che essi servono radicalmente diversa da quelle tradizionale in termini di potere e dipendenza (Casadio, 2016).

Questo significa che i servizi di salute mentale devono essere molto più interessati al benessere e alla salute complessiva della persona e devono fornire supporti per dare la possibilità alle persone di funzionare come cittadini nella loro comunità.

Ci sono diversi modi in cui il sistema di cure può supportare la ripresa di persone affette da disagio mentale e questo avviene promuovendo relazioni, benessere e offrendo trattamenti che migliorino le possibilità di inclusione sociale (Slade, 2009).

Gli obiettivi dei «servizi di salute mentale orientati al recovery» sono pertanto diversi dagli obiettivi dei «servizi tradizionali di trattamento e di cura». Passaggio: da uno staff che è sentito lontano, perchè considerato in una posizione di “esperto” che ha una “autorità”, a qualcuno che si comporta più come un “personal coach o trainer”, mettendo a disposizione le proprie abilità e conoscenze professionali, mentre nel contempo impara dagli utenti e conferisce loro un valore, che è esperto attraverso l’esperienza (Robert & Wolfson, 2004). Poichè gli individui con malattia mentale possono condurre vite relativamente normali e realizzate anche se sono vulnerabili alle ricadute e devono essere seguiti per un tempo indefinito, i servizi devono diventare, da un posto dove gli utenti ricevono assistenza e trattamento, a posti che li dotano di strumenti per gestire se stessi e per costruire le loro vite dove e come desiderano farlo. Tali servizi tendono ad andare oltre la tradizionale assistenza clinica per aiutare la persona con malattia mentale a reinserirsi nel tessuto sociale, incorporando nel concetto di guarigione gli esiti raggiunti nelle dimensioni della qualità di vita, del lavoro, dell’abitazione, dell’amicizia e della vita sociale (Appleby, 2007).

I principi dei servizi di salute mentale orientati al recovery dovrebbero essere:

  • Unicità dell’individuo
  • Scelte individuali e indipendenti
  • Diritti e atteggiamento proattivo
  • Dignità e rispetto
  • Comunicazione e partnership con i Servizi
  • Continua valutazione e misurazione della pratica clinica orientata alla recovery
    (Herefordshire partnership NHS Foundation Trust «Recovery Principles in the UK)

Soprattutto nei paesi anglosassoni, negli ultimi 30 anni una serie di fattori concomitanti hanno determinato la nascita e lo sviluppo del “Recovery Movement” che si articola in diversi criteri tra cui: la deistituzionalizzazione e l’integrazione nella vita comunitaria, il desiderio degli utenti psichiatrici di avere maggior controllo sul proprio destino, il crescente movimento per i diritti umani, la disponibilità di psicofarmaci meglio tollerati.

In sintesi, nella pratica orientata al Recovery (Davidson et al., 2009) i criteri da considerare sono:

  • Primarietà della partecipazione
  • Favorire l’accesso e il coinvolgimento
  • Garantire la continuità della cura
  • Utilizzare una valutazione basata sui punti di forza
  • Offrire una pianificazione individualizzata del percorso di Recovery
  • Fungere da “guida per il Recovery”
  • Conoscere e sviluppare l’inclusione comunitaria
  • Identificare e affrontare le barriere al Recovery

Ogni servizio o trattamento o intervento o supporto deve essere valutato in questi termini: quanto aiuta il paziente a raggiungere i suoi obiettivi di guarigione?

È possibile misurare il recovery?

Grazie ad un maggior riconoscimento del concetto di recovery nel trattamento della malattia mentale, si è dato via alla progettazione di diversi strumenti per valutare sia il recovery personale che l’orientamento in questa direzione dei servizi sanitari. Infatti, la necessità di orientare i servizi di salute mentale verso il recupero personale richiede l’utilizzo di misure che consentano di valutare sia il processo di recupero individuale degli utenti sia quanto un particolare programma, agenzia o sistema nel suo insieme sia efficace nel promuovere tale recupero (White, 2006).

In letteratura si trovano diverse review che hanno cercato di fare una rassegna dei principali strumenti utilizzati attualmente. Al riguardo, nonostante l’esistenza di definizioni comunemente accettate, la variabilità relativa alla concettualizzazione di un processo tanto soggettivo, complesso e multidimensionale come il recupero personale ostacola la creazione e selezione di misure oggettive per la sua valutazione. Inoltre, c’è una grande variabilità per quanto riguarda le dimensioni utilizzate dagli attuali strumenti valutativi.

Uno strumento ad oggi utilizzato per la maggiore è il RAS (Recovery Assessment Scale) che misura il recovery personale. I fattori psicologici indagati sono:

  • Fiducia in sé stessi e speranza
  • Disponibilità a chiedere aiuto
  • Orientamento ad obiettivi ed al successo
  • Fiducia negli altri
  • Non sentirsi dominati dai sintomi

Il RKI (Recovery Knowledge Inventory) (Bedregal et al. 2006) valuta le attitudini e le conoscenze dei professionisti della salute mentale riguardo al recovery. Le aree valutate sono:

  • Ruoli e responsabilità nel Recovery
  • Non linearità del processo di Recovery
  • I ruoli della autodefinizione e dei pari nel Recovery
  • Aspettative rispetto al Recovery

Possiamo concludere evidenziando come sia necessario specificare, unificare e chiarire il concetto ed il modello di recovery. Questo è l’unico modo per raggiungere il consenso sui domini che lo compongono; ciò consentirà a sua volta di selezionare gli strumenti più appropriati per valutare tale concetto. Nello stesso modo, se gli elementi che contribuiscono al processo di recovery sono compresi e specificati, sarà possibile scegliere gli strumenti che servono per valutare i servizi di salute mentale e, quindi, sarà possibile migliorare il processo e l’approccio attuato nei confronti della persona.

 

La Fiaba: un racconto solo per bambini?

Tutti abbiamo, almeno una volta nella vita, avuto la possibilità di entrare in contatto con la narrazione delle fiabe. Tradizioni tramandate di generazione in generazione, dai più grandi ai più piccoli.

 

Ma chi in età adulta, con il senno di poi, con l’acquisizione di una struttura di personalità più matura, si è mai domandato od incuriosito sui significati profondi ed intrinsechi racchiusi nel racconto?

La Sirenetta

Alcuni di questi concetti li possiamo facilmente ‘interpretare’ e incorporare all’interno di una delle famose Fiabe dello scrittore danese Hans Christian Andersen, La Sirenetta, successivamente reinterpretata nel 1989 nel film d’animazione prodotto da Walt Disney Feature Animation.

Quando accadrà no non lo so…ma del tuo mondo parte farò, guarda e vedrai che il sogno mio si avvererà! [cit. Ariel de La Sirenetta]

Il soddisfacimento del desiderio si può manifestare sotto diverse forme, assumere diversi aspetti, varie interpretazioni possono spingere l’uomo al compimento di azioni e/o reazioni.

Nella realtà odierna, ancora oggi basata su concezioni e fondamenti etici e morali, può risultare complesso riuscire ad appagare i propri istinti più reconditi, giungendo in alcune occasioni ad una condizione di mancata accettazione del sé od impossibilità nel mostrarla, fattore di grande importanza ai fini del raggiungimento di uno stato di benessere psicofisico.

Il senso di autorealizzazione, presente in ognuno di noi, viene amplificato o ridotto in base alla motivazione e perseveranza del singolo. In alcune circostanze si assiste ad un vero e proprio ricercare il compromesso pur di ottenere il desiderato. Azione, quest’ultima, che spinge la protagonista della Fiaba, nonché Ariel, a rinunciare alla sua suadente voce, donandola alla Strega del Mare, in cambio di arti umani.

Non pretendo molto, un compenso del tutto simbolico…una sciocchezza! Una cosa di cui puoi fare a meno. Quello che voglio da te è….la tua voce. [cit. Ursula de La Sirenetta]

Una continua ricerca verso l’emancipazione, un allontanarsi dalle restrizioni e costrizioni dettate dal contesto esterno, per poter finalmente approdare sull’isola della libertà, così come Ariel desiderosa di lasciare per sempre la pinna e poter godere di gambe umane che le permettessero di affrontare nuove avventure, lontana dagli stereotipi e dalle pressioni del Regno.

Mi sono sempre reputato un tritone ragionevole. Ho stabilito certe regole e pretendo che quelle regole vengano rispettate da tutti. [cit. Tritone de La Sirenetta]

Un Re del mare che si oppone al carattere ribelle della propria figlia, cercando di dissuaderla nel suo voler esplorare la terra ferma, entrare in contatto con gli umani e varcare la sua tanto sicura comfort zone.

Quello che viene riportato nel mondo immaginario altro non è che una trasposizione della realtà, anche la fantasia può celare un significato profondo, che verrà rivelato solo ad occhi attenti.

Lo vede? E poi non mi dica che l’avevo avvertita, Maestà. I giovani devono essere lasciati liberi di scegliersi il loro avvenire. [cit. Sebastian de La Sirenetta].

Fiaba e Realtà

Innumerevoli gli ostacoli incontrati duranti il percorso di vita, a volte demoralizzanti e ostili, altre coinvolgenti e portatori di novità. Fattori che non vengono però elicitati nel film di animazione della Disney, in quanto Ariel e il principe Eric alla fine della storia si sposano vivendo finalmente ‘Felici e Contenti’.

La società odierna, nonostante il suo continuo evolversi, in alcuni casi tende a camuffare quello che per molte persone può risultare un’avversità, una difficoltà nell’esprimere se stessi cercando di negare ciò che in realtà provano.

Nella Fiaba originale di Andersen possiamo riscontrare questo cammino impervio. Ariel, fortemente innamorata, sceglie di non utilizzare il pugnale donatole dalle sorelle per uccidere il principe così da continuare a vivere, ma decide di accasciarsi su uno scoglio e bagnata dall’acqua salina concludere la sua vita da Sirena tramutandosi in schiuma di mare.

La comunità, può, dunque volontariamente o involontariamente infrangere il desiderio del singolo, il quale stigmatizzandosi è costretto ad adeguarsi al contesto, al conformarsi all’etica, rinunciando all’esser libero.

Notiamo, dunque, un forte significato che in questo caso l’autore ha voluto lasciare in eredità al mondo.

Un aspetto psicologico che può inficiare il benessere psicofisico dell’individuo, la mancata realizzazione del sé, il contrasto con l’esterno e la morale e quanto questo possa influenzare le nostre decisioni, incidere sui nostri pensieri ed atteggiamenti. Non bisogna racchiudere la propria voce all’interno di una conchiglia, ma esprimerla, facendo sentire al mondo che esisti e puoi creare valore anche andando al di là dei confini della realtà.

Andersen conclude il suo racconto con la salvezza, la rinascita di Ariel, ripagando la sua purezza.

Invisibile baciò la sposa sulla fronte, sorrise al principe e salì con le altre figlie dell’aria su una nuvola rosa che navigava nel cielo. Fra trecento anni entreremo nel regno di Dio! [cit. Hans Christian Andersen]

In conclusione, la protagonista prende in mano la sua vita, affrontando scelte ardue ma personali, nonostante le barriere imposte dai profondi Abissi del mare.

Ma nella realtà, tutti riescono a gestire tali fattori ostacolanti od incapacità nel giunge ad uno sblocco interno? E se Ariel avesse avuto al suo fianco il supporto di uno Psicologo?

 

Report dal Congresso della International Society for the Study of Personality Disorders

Si è appena concluso il congresso della International Society for the Study of Personality Disorders (Società Internazionale per lo studio dei Disturbi di Personalità, ISSPD), organizzato in collaborazione con l’ospedale universitario di Oslo, ma svoltosi interamente online.

 

Nel corso di 3 giorni si sono alternati numerosi relatori affrontando temi centrali nel dibattito internazionale (e italiano) sui disturbi di personalità (DP) e sulla psicoterapia in genere. Particolare attenzione è stata infatti dedicata al rapporto della psicoterapia con l’evidence-based practice e alle prospettive evolutive (epistemi trust, unmet needs, etc.) e dimensionali (fattore p, tratti, etc.) della personalità. Ne emerge un quadro caratterizzato da marcate contraddizioni, ma anche da una significativa propensione ad innovare una disciplina che ambisce ad una visione sovraordinata e comprensiva dell’esperienza umana.

L’eredità di Theodore Millon

Chiunque lavori nell’ambito della personalità non può non confrontarsi con l’opera di Theodore Millon, la cui eredità è centrale nella ISSPD. Nell’aprire il congresso, Carla Sharp, presidentessa in carica della ISSPD, ha evidenziato una lettura critica di questa eredità che ha trovato il suo naturale esito nella prima keynote sul tema dell’evidence-based practice.

L’elaborazione del pensiero di Millon nella ISSPD sembra procedere lungo due linee. Primo, nel riconoscerne il ruolo fondativo, si pone l’accento non sul modello prototipico dei disturbi di personalità, quanto sul concetto di “personality-guided synergistic therapy” (lett. terapia sinergica guidata dalla personalità) con cui questi aprì il primo congresso della società nel 1984 (Ronningstam et al., 2021). L’idea è quella di perseguire una psicoterapia in cui, a prescindere dal target e dal format, la comprensione della personalità guida l’agire clinico secondo una prospettiva che supera la tradizionale definizione di integrazione. L’integrazione diviene infatti non un generico approccio eclettico tra scuole di pensiero, quanto piuttosto un processo di personalizzazione in cui tratti e sintomi specifici della persona orientano la scelta di obiettivi e interventi. Secondo, si riconosce un limite nella quasi esclusiva focalizzazione da parte di Millon su un metodo empirico e deduttivo, che diviene limitante nel fronteggiare una disciplina in cui si intersecano numerose variabili e che rischia di polarizzare sterilmente il dibattito tra approcci quantitativi e qualitativi (Pincus & Krueger, 2015).

Questa visione critica di Millon aiuta forse a capire il razionale del programma in cui la prima lettura magistrale si è focalizzata sulle metodologie meta-analitiche e in cui centrali sono stati gli interventi personality-guided. Da un lato la prima keynote tenuta da Pim Cuijpers ha mostrato quello che possiamo apprendere dagli studi sulla depressione per implementare in chiave evidence-based i trattamenti sui disturbi di personalità. Notevole interesse ha suscitato il database open-access METAPSY (Cuijpers et al., 2019) in cui è possibile visionare e condurre online meta-analisi sui trial esistenti sulla depressione. Dall’altro lato gli approcci più ricorrenti nei simposi rientrano chiaramente in una prospettiva personality-guided per come suggerita da Millon. Tra questi oltre a Mentalization Based Treatment (MBT), Dialectical Behavior Therapy (DBT) e Schema Therapy (ST) troviamo anche la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), rappresentata da Giancarlo Dimaggio in due simposi rispettivamente su cognizione sociale e disturbo evitante. La TMI si inserisce pienamente in questa prospettiva presentando un intervento transdiagnostico di gruppo (Popolo et al., 2021) e un tentativo di integrazione con la MBT per pazienti evitanti (Simonsen et al., 2021).

La prospettiva evolutiva dei disturbi di personalità

Per quanto numerose siano le differenze, tutti i modelli di diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità rimarcano un’età di insorgenza precoce e un decorso di lunga durata. Non stupisce dunque che la quasi totalità delle psicoterapie personality-guided presenti al congresso ponessero l’accento su meccanismi evolutivi di vulnerabilità o resilienza. Il simposio più seguito del primo giorno ha cercato ad esempio di rispondere alla domanda: quali fattori promuovono la resilienza nei confronti dei disturbi di personalità? Tra gli speaker Patrick Luyten e Arnoud Arntz che hanno presentato rispettivamente la prospettiva della MBT sull’epistemic trust e della ST sugli unmet needs. Al di là delle differenze terminologiche e cliniche entrambi gli approcci riconoscono l’impatto di bisogni e relazioni primarie in età evolutiva nel predire successive problematiche alla base dei disturbi di personalità (Caspi et al., 2016). Luyten ha portato buone evidenze neurofisiologiche su come i pattern disfunzionali nella relazione con i genitori creino un deficit nella regolazione dell’arousal e conseguentemente della mentalizzazione (Luyten & Fonagy, 2015). I dati clinici sull’efficacia nel targetizzare la relazione genitoriale per migliorare la salute mentale del paziente sono invece ancora parziali (Barlow et al., 2015). Arntz ha optato per mostrare la complessa articolazione di bisogni insoddisfatti, schemi maladattivi e modes della più recente formulazione della ST (Arntz et al., 2021), suggerendo come favorire una comprensione e prevenzione di parenting disfunzionali.

La prospettiva evolutiva emerge come fondamentale nella comprensione dei disturbi di personalità anche nel simposio della seconda mattina sul futuro dei trattamenti. Peter Fonagy pone da subito l’accento sia sulla dimensione evolutiva che dimensionale. La psicoterapia del futuro deve superare i limiti di un modello nomotetico e orientare l’intervento a partire da una comprensione della traiettoria evolutiva e delle caratteristiche di personalità individuali. A questa visione concorrono gli sviluppi della DBT (con in particolare l’approccio trauma-focused di Martin Bohus), della Transference Focused Psychotherapy (TFP; sottolineandone la prospettiva transdiagnostica con John Clarkin) e ovviamente della MBT (speaker Anthony Bateman). Tutti i relatori concordano su un modello evolutivo della vulnerabilità che converge su un fattore generale di psicopatologia in linea con l’ambizione “sinergica” di Millon e della ISSPD. In molti hanno utilizzato il costrutto di epistemic trust per come formulato da Fonagy sottintendendo una relazione diretta tra vulnerabilità evolutiva e psicopatologia generale. Tale costrutto vuole portare avanti il lavoro della MBT su un’altra importante funzione dell’attaccamento (oltre alla mentalizzazione): ovvero una fiducia nell’autenticità e rilevanza personale della conoscenza trasmessa interpersonalmente, che rappresenterebbe un fattore centrale di resilienza (Fonagy & Campbell, 2017).

La prospettiva dimensionale dei disturbi di personalità

Fonagy ha più volte citato nei suoi interventi la necessità di ripensare la psicoterapia a partire dagli studi sul fattore p o in genere sui modelli dimensionali (Alternative Model of personality Disorders – AMPD) o gerarchici (Hierarchical Taxonomy of Psychopathology – HiTOP) di psicopatologia (Caspi et al., 2013). E questo tema ha dominato i maggiori simposi della seconda giornata e non solo. Se in molti dibattiti nazionali la prospettiva dimensionale o gerarchica sembra ancora fronteggiare gli stessi dubbi che portarono l’APA ad inserirli in una sezione a parte del DSM-5, nel programma congressuale rappresentano la posizione maggioritaria. Simili dubbi, per quanto giustificati dalla iniziale utilità di una descrizione prototipica del paziente, contrastano fortemente con la mole dei dati raccolti e con un approccio che come sopra riportato non vuole contrapporre quantità a qualità quanto piuttosto promuovere interventi personalizzati basati però su evidenze (Pincus & Krueger, 2015; Ronningstam et al., 2021).

Il criterio A dell’AMPD, ovvero il livello generale di funzionamento della personalità, è il tema di un simposio coordinato da Donna Bender, nonché il risultato di un lavoro quasi ventennale di revisione delle teorie psicopatologiche (Bender et al., 2011). Al di là dei diversi modelli di concettualizzazione e label utilizzati, tutti gli approcci personality-guided presuppongono dei fattori generali di funzionamento che rappresentano il fulcro stesso della terapia (es. la mentalizzazione per la MBT; la metacognizione per la TMI; la disregolazione emotiva nella DBT). Ma soprattutto, è difficile sostenere che un modello psicopatologico tanto flessibile e idiografico come il criterio A (o il fattore p) sminuisca l’unicità di pazienti e terapeuti come spesso affermano i suoi detrattori (Sharp & Wall, 2020).

Segue poi un simposio attesissimo sulla convergenza tra AMPD e HiTOP, praticamente la criptonite per gli avversari di dimensioni e tratti. Leonard Simms (affettività negativa), Thomas Widiger (distacco), Donald Lynam (antagonismo), Stephanie Sweatt (disinibizione) e David Cicero (psicoticismo) discutono lo sviluppo teorico e clinico delle dimensioni di personalità. Particolare attenzione è dedicata alla validazione in corso di nuovi strumenti psicometrici per promuovere sempre più una connessione tra ricerca e pratica (Ringwald et al., 2021).

Da segnalare infine l’intrigante prospettiva gerarchica di Dan McAdams (2013) sullo sviluppo della personalità secondo il suo modello a tre fattori e il metodo dinamico di analisi delle situazioni interpersonali di Hopwood e colleghi (2019), presentati rispettivamente il secondo e il terzo giorno.

Tra contraddizioni e innovazioni

Provando a trarre un bilancio emergono molti entusiasmanti filoni di ricerca, ma ancora notevoli contraddizioni. Tra i primi dobbiamo sicuramente annoverare gli studi sui modelli dimensionali e gerarchici e i primi tentativi di applicare in psicoterapia tali modelli secondo un’ottica sinergica ed evidence-based. Nel comprendere le contraddizioni conviene invece riflettere su tre indicatori. Il primo è linguistico ed ha come emblema il disturbo borderline di personalità che imperversa in ogni simposio e presentazione. Quasi a ricordarci che le categorie sono dure a morire, soprattutto se associate a grant e progetti di rilievo. Il secondo è sostanziale ed emerge dalla difficoltà a passare da una teoria integrativa e dimensionale ad una pratica che richiede un atteggiamento anti-ideologico e quasi buddistico nei confronti delle proprie amate teorie. Il terzo è fortemente umano e riguarda le resistenze personali che ognuno di noi mostra verso i cambiamenti. Per quanto siano ormai oltre 20 anni che si mette in discussione il modello categoriale, vi è una strenua resistenza all’emergere di una nuova generazione di ricercatori e modelli che si teme, forse, possano spazzare via il passato. Credo che il taglio assai equilibrato con cui è stato scritto il position paper della ISSPD possa rassicurarci a riguardo. Personalmente, per quanto mi definisca un fervente sostenitore dei modelli dimensionali, ritengo che le descrizioni prototipiche di Millon siano sempre di aiuto per quanto non conclusive. E conviene a tal proposito ricordare un detto taoista che recita: impara i riti, dimentica i riti.

 

La malattia oncologica in età pediatrica: qualità di vita del bambino e della sua famiglia

Per offrire una buona qualità di vita al bambino con malattia oncologica e al suo nucleo familiare occorre elaborare una rete di lavoro che coinvolga anche le associazioni dei genitori, i volontari, le istituzioni e l’intera società. 

 

La malattia terminale è stata sempre affrontata con atteggiamenti di rifiuto e vergogna che fanno sì che il malato e la famiglia diventino responsabilità esclusiva della Struttura Ospedaliera, conducendo a una medicalizzazione della fase finale della vita che potrebbe sfociare nelle forme di un vero e proprio accanimento terapeutico.

Un bambino con malattia oncologica costituisce una realtà estremamente spaventosa soprattutto per i genitori che sviluppano una forte paura per il futuro unita al senso di impotenza e perdita della speranza per cui diventa fondamentale la possibilità di contare sul supporto offerto dalle figure significative nel contesto di vita, ma anche e soprattutto dagli operatori sanitari che hanno in carico il bambino che dovrebbero attuare strategie rispondenti sia ai bisogni di cura sia ai bisogni psichici dei protagonisti (Jankovic, 2013). In questo contesto ricordiamo la nuova filosofia di cura proposta dal dottor Momcilo Jankovic, (onco-ematologo pediatrico noto per la presenza e disponibilità costante che offre ai propri pazienti) che riconosce l’accompagnamento, l’ascolto e il rispetto come i 3 elementi chiave del lavoro terapeutico (Scaccabarozzi, 2017): l’accompagnamento, inteso come condivisione, richiede che il clinico sia in grado di mostrare il proprio interesse nei confronti del paziente, stimolando il genitore a trasformare il proprio dolore in fonte di energia; l’ascolto è fondamentale nel percorso di cura: il terapeuta deve essere in grado di “ascoltare” e comprendere anche i silenzi del paziente, prestando particolare attenzione al linguaggio del corpo che, spesso, rivela informazioni preziose che il paziente non vuole o non riesce a esprimere a parole; il silenzio, invece, può essere estremamente dannoso: ci sono situazioni in cui le persone che gravitano attorno al paziente hanno una paura tale della perdita da non riuscire ad affrontare l’argomento, facendo finta che nulla sia cambiato, atteggiamento che non aiuta la persona malata, che non trova nelle persone vicine qualcuno con cui sfogarsi; la solitudine e l’abbandono, infatti, sono aspetti che compromettono il benessere del paziente e del suo nucleo familiare, forse ancor di più rispetto ai sintomi fisici della malattia (Jankovic, 2020). È necessario stabilire un approccio integrato che valuti l’essere umano nella sua completezza, elaborando una rete di lavoro che coinvolga anche le associazioni dei genitori, i volontari, le istituzioni e l’intera società, per il raggiungimento dell’obiettivo comune: offrire una buona qualità di vita sia al paziente che al suo nucleo familiare.

L’impatto della malattia oncologica sul bambino, i genitori e i fratelli

I genitori, soprattutto nelle fasi iniziali di malattia, proveranno disagio nel vedere il figlio allettato, calvo e pallido, per cui devono essere supportati dal personale sanitario fin quando l’abitudine permetterà loro di provvedere autonomamente alle necessità del bambino (Zilli, 1987); già dalla pre-adolescenza, si sviluppa un forte senso di privacy che conduce il giovane a provare imbarazzo e vergogna a mostrare il proprio corpo e le proprie debolezze ai genitori, per cui diventa fondamentale istruire i pazienti al riconoscimento di sintomi che potrebbero suggerire l’eventuale presenza di patologie anche gravi (es. ingrossamento delle ghiandole di gola, inguine e ascelle) (Grootenhuis, 2003). I genitori, dunque, devono essere in grado di offrire la loro vicinanza intesa come capacità di prendersi cura anche di se stessi e dei propri interessi, dimostrando ai figli che non bisogna farsi annullare dalla malattia. Il bisogno maggiormente espresso dai ragazzi oncologici, infatti, è proprio quello di ottenere una “normalità di vita”: per questo motivo, nella maggior parte degli ospedali pediatrici è presente una sezione dedicata all’istruzione dei piccoli pazienti. La scuola in ospedale impegna il paziente per circa un’ora al giorno e si avvale di un approccio diverso rispetto a quello tradizionale poiché la malattia comporta una maggiore stanchezza per cui si sostituiscono i classici compiti scolastici con schede da compilare e con la visione di video registrazioni che motivino maggiormente l’attenzione del bambino (Hodges, 2010). Altro aspetto fondamentale è cercare di mantenere continuità con gli insegnamenti della scuola d’appartenenza di modo da favorire il successivo rientro scolastico del paziente, cercando di eliminare eventuali atteggiamenti di pietismo e favorendo atteggiamenti inclusivi finalizzati a supportare il compagno al fine di ottenere nuovamente una normalità di vita (Alderfer, 2010).

Il tumore pediatrico viene riconosciuto come una malattia familiare per cui diviene fondamentale guidare la famiglia allo sviluppo della resilienza, ponendo particolare attenzione alle reazioni dei fratelli più piccoli che potrebbero sviluppare una sorta di autosufficienza unita ad emozioni negative (es. gelosia, rabbia e rifiuto verso genitori troppo impegnati nella cura del figlio malato) che, nel corso dell’adolescenza, si trasformano in cattivo adattamento a causa dello sviluppo di senso di colpa, paura della morte e angoscia. I fratelli più piccoli, inoltre, avvertono l’abbandono e l’inganno dei genitori, arrivando a perdere la fiducia nei loro confronti e allo sviluppo di numerose problematiche relazionali che, in adolescenza, lasciano spazio a disturbi internalizzanti (evidenti soprattutto nelle sorelle) e ad un atteggiamento protettivo verso i fratelli malati (Long, 2010).

I bambini ricoverati, invece, sembrano crescere più velocemente: riconoscono la paura dei genitori, spesso si sentono in colpa nei loro confronti e provano a dimostrare la loro riconoscenza, cercando di mostrarsi più forti per non farli preoccupare (Jankovic, 2020).

Diventa fondamentale una buona comunicazione della diagnosi che, soprattutto in età infantile, deve seguire delle caratteristiche precise: deve essere chiara e non traumatica per il bambino e spesso si avvale di strumenti quali diapositive esplicative (es. metafora di un giardino fiorito minacciato da erbacce) (Scaccabarozzi, 2017). La comunicazione avviene in assenza dei genitori ma in presenza dei fratelli per riuscire a far emergere le preoccupazioni principali, affrontarle e superarle, fornire informazioni adeguate su eventuali interventi e si preferisce non parlare degli effetti collaterali delle malattie, se non esplicitamente richiesti dai bambini.

Talvolta succede che i genitori, sopraffatti dalle loro ansie, diventano inefficaci nel loro ruolo di fruitori di cura, conducendo a conseguenze negative non solo per il bambino malato ma anche per gli altri figli ‘sani’, i quali potrebbero assumere le vesti di ‘giovani caregivers’, termine che indica ragazzi di età inferiore ai 18 anni che decidono di assumersi delle responsabilità di cura normalmente associate agli adulti, sviluppando una serie di problematiche in adolescenza (es. atteggiamenti adultomorfi) che conducono anche alla social closure con problemi nella gestione di emozioni disturbanti e lo sviluppo di un disequilibrio tra cura, amicizia e tempo libero, che incidono anche nell’ambientazione scolastica, conducendo spesso questi ragazzi al drop-out. A queste problematiche si potrebbero associare anche eventuali malattie cardiovascolari (es. ipertensione da stress) (Zavagli, 2012). Stando ai risultati di una ricerca del Censis, infatti, sembra che i giovani caregivers lamentino un senso di svuotamento (38,9%); problemi familiari (41%); uso di ansiolitici e antidepressivi (56%); vissuto di rinuncia (58%); forte impatto nella vita sociale e privata (60%). Il caregiving, infatti, è un compito molto impegnativo che occupa il soggetto per circa 18 ore al giorno, conducendolo ad avere a disposizione soltanto 4 ore da dedicare al tempo libero nelle fasi più avanzate, senza dimenticare nemmeno che il prendersi cura di un familiare si presenti come uno dei principali motivi di disoccupazione dei giovani italiani tra i 15 e i 30 anni (Italia Lavoro, 2014). Di contro, però, bisogna riconoscere che il caregiving conduce anche a conseguenze positive poiché permette a questi giovani di sperimentare maggiormente il loro senso di responsabilità, di diventare più maturi e di aumentare la propria autostima, per cui la presenza di un fratello con malattia non conduce necessariamente a problemi di adattamento dei giovani caregivers: il tutto dipende dal funzionamento familiare e dalla sua capacità di far fronte ai problemi. La situazione migliore sembra presentarsi in famiglie numerose (in cui è possibile dividere adeguatamente i compiti di cura), con uno status socioeconomico elevato (che permetta ai genitori di far fronte alle esigenze di tutto il nucleo familiare) e con prevalenza di figli maschi (meno inclini allo sviluppo di disturbi internalizzanti), senza dimenticare l’importanza della resilienza che aumenta nei nuclei familiari che godono di un buon supporto sociale.

Altro aspetto da non trascurare è il dolore oncologico che, se non adeguatamente trattato, conduce a conseguenze estremamente negative per la qualità di vita dei pazienti, per cui oggi si ricorre spesso alle cure palliative pediatriche, riconosciute come trattamenti terapeutici atti alla soppressione dei sintomi, e nello specifico del dolore, che non vanno a intaccare quantitativamente la durata della vita del paziente, ma hanno l’obiettivo di migliorarla qualitativamente; il ricovero rappresenta un altro aspetto critico che conduce a sensazioni negative (stress, paura e minaccia) e costringe ad un cambiamento delle abitudini quotidiane con conseguenze che sembrano peggiorare nel percorso di crescita del paziente: nella prima infanzia si assiste spesso a problematiche nel legame di attaccamento per cui si opta per l’ospedalizzazione congiunta madre-bambino (Moroni, 2007); nella seconda infanzia, invece, i ragazzi ricoverati iniziano a sentirsi a disagio, sviluppando un comportamento aggressivo; in adolescenza, infine, la mancanza del gruppo dei pari e la perdita delle autonomie precedentemente ottenute, conduce i ragazzi a fenomeni di chiusura e isolamento (Benini, 2007). Il luogo di cura elettivo nelle cure Palliative pediatriche, dunque, è il contesto domestico, per permettere al paziente di rimanere inserito all’interno del proprio contesto di vita, facilitando inoltre anche il ruolo di cura dei genitori che, però, devono essere affiancati da un’équipe multidisciplinare composta da pediatra, servizi territoriali, ospedale e palliativisti. Nonostante ciò è importante sottolineare l’utilità dei trattamenti complementari, ossia un insieme di tecniche volte a promuovere il benessere psicofisico del malato per rendere la malattia più accettabile: queste strategie (tecniche basate sul rilassamento e sui massaggi, clown terapia, pet therapy, musicoterapia, gioco libero) permettono di diminuire i livelli di cortisolo (ormone dello stress) con rilascio di beta endorfine che agiscono sul dolore. Le malattie oncologiche spesso conducono a condizioni di osteonecrosi (distruzione del tessuto osseo a causa delle elevate quantità di cortisone previste dalla terapia), per cui si sottolinea l’importanza della sport-therapy nelle malattie oncologiche: considerando che il movimento accelera la vascolarizzazione, la sport therapy può riuscire a ridurre gli effetti tossici, spesso provocati dalle cure oncologiche (Jankovic, 2020). L’importanza dei trattamenti complementari viene sancita nel 2007 con l’inaugurazione del “Dynamo Camp” (primo Camp di Terapia Ricreativa in Italia) per offrire un periodo di svago e divertimento a soggetti di età compresa tra i 7 e i 17 anni, affetti da patologie gravi e croniche (oncologiche, ematologiche, neurologiche), ma anche ai loro fratelli sani, basandosi sulla consapevolezza che la malattia non interessi solo il singolo, ma coinvolga l’intero nucleo familiare. Una delle particolarità del Camp è quella di farsi carico del bambino in assenza dei genitori poiché essi spesso per paura che il bambino possa star male decidono di privargli lo svolgimento di alcune attività (es. andare a cavallo) che potrebbero regalargli attimi di svago e di serenità. Altro motivo per cui si decide di escludere i genitori dalla permanenza al Camp è quello di permettere loro di avere un “momento di pausa” dal ruolo di caregivers e nel contempo di accrescere la loro speranza nel vedere che per il figlio sia ancora possibile ottenere una normalità di vita che gli permetta di divertirsi in un contesto sicuro e protetto: il Dynamo Camp, dunque, può essere riconosciuto anche come una possibile soluzione per limitare il Caregiver burden (Scaccabarozzi, 2017). Nelle situazioni più gravi, in cui si giunge alla morte del piccolo paziente, il clinico non deve interrompere bruscamente la relazione con i familiari (che probabilmente saranno maggiormente inclini allo sviluppo di disturbi importanti come la depressione maggiore o il PTSD), ma dovrebbe riuscire a colmare il loro bisogno di vicinanza affettiva, supportandoli nell’elaborazione e accettazione del lutto, invitandoli a partecipare a programmi di death education, volti ad aumentare consapevolezza e competenza nella gestione della propria o altrui morte, trasformando la paura in un sentimento positivo di accoglienza, riconoscendo la morte come parte finale del ciclo vitale (Bobbo, 2004).

La perdita di un figlio per malattia oncologica

Il dolore per la perdita di un figlio è talmente forte da spingere i genitori a rimanere legati al centro di cura attraverso l’organizzazione di raccolte fondi e associazioni che vogliono finanziare l’ambiente sanitario allo scopo di far progredire la ricerca e aiutare altri bambini a vincere la loro battaglia (Oberti, 2015). A tal proposito ricordiamo da un lato i B Live, associazione composta da ragazzi che hanno combattuto o stanno combattendo contro una patologia tumorale e decidono di raccontare le proprie esperienze nel “Bullone” (giornale a cui essi hanno dato vita) di modo da offrire forza, coraggio e disponibilità ad altri ragazzi che ancora lottano con la malattia (Scaccabarozzi, 2017); dall’altro il Centro Maria Letizia Verga, quarto centro al mondo che si propone di unire la ricerca e la cura in un’unica struttura; è stato elaborato da Giovanni Verga (in seguito alla perdita della figlia leucemica Maria Letizia Verga) con lo scopo di migliorare l’assistenza clinica e psicosociale da offrire a bambini con leucemia, massimizzando le loro possibilità di guarigione: si tratta di un insieme di misure volte ad umanizzare l’ospedale, rendendolo un ambiente più adatto ai bambini, infatti le 25 camere ospedaliere presentano pareti colorate che seguono una logica specifica: il blu viene utilizzato negli spazi di accoglienza, l’arancione delinea gli spazi di svago e gioco, il giallo gli spazi per la scuola, il rosso contraddistingue gli ambulatori degli assistenti sociali (Scaccabarozzi, 2017).

 

Attacchi e Disturbo di Panico (2019) di Ezio e Francesco Sanavio – Recensione

Il testo Attacchi e Disturbo di Panico appartiene ad una collana diretta da Daniele Berto ed intitolata 100 domande, nella quale attraverso l’uso di 100 domande, vengono approfondite caratteristiche, diagnosi e trattamento di alcuni disturbi.

 

Precisamente, il manuale qui considerato approfondisce il tema degli attacchi di panico e del disturbo di panico in tre parti separate: caratteristiche e definizioni, diagnosi e trattamento.

Più volte gli autori sottolineano quanto sia importante separare gli attacchi di panico dal disturbo di panico. Infatti, i primi possono essere considerati come momenti (massimo 20-30 minuti) di paura incontrollata, in cui fanno comparsa una pluralità di sintomi. A scopo diagnostico devono comparire almeno quattro tra: palpitazioni, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, dispnea o sensazioni di soffocamento, sensazioni di asfissia, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, vertigine, brividi o vampate di calore, parestesie, derealizzazione o depersonalizzazione, paura di perdere il controllo, paura di morire. Nel caso in cui i sintomi siano meno di quattro possiamo parlare di attacchi paucisintomatici. Ora, gli attacchi di panico non sono sempre inaspettati, ma possono esservene anche di attesi o situazionali (ossia attacchi previsti perché si verificano in situazioni simili). Solitamente i primi attacchi sono casuali, ma poi il paziente inizia a creare collegamenti tra i luoghi/situazioni e gli attacchi non esistenti. Si tratta comunque di un’esperienza molto diffusa: 28,3% della popolazione riporta attacchi di panico isolati. È importante sottolineare comunque che sperimentare un attacco di panico non è indice di un disturbo mentale: secondo alcuni studi il 10% della popolazione normale presenta un attacco all’anno senza per questo riportare particolari conseguenze. L’elevata diffusione degli attacchi di panico non corrisponde ad un’alta prevalenza del disturbo di panico (0.9% nei maschi e 2.2% nelle femmine).

Il disturbo di panico è una condizione per cui:

  • sono presenti attacchi di panico ricorrenti e inaspettati
  • almeno uno degli attacchi è stato seguito per almeno un mese dall’una o dall’altra o da entrambe queste manifestazioni: 1. persistente ansia anticipatoria; 2. evitamenti e significative alterazioni della propria routine.
  • gli attacchi non sono attribuibili ad una droga, farmaco o malattia fisica
  • gli attacchi non sono meglio spiegabili con un altro disturbo.

Gli attacchi di panico sono quindi tipici del disturbo di panico, ma non per questo non possono essere riscontrati in altri disturbi, come fobie, disturbo d’ansia sociale, disturbo d’ansia generalizzata, disturbi da stress post-traumatico, depressione, disturbo bipolare, disturbi di personalità e da dipendenza da sostanze. L’età media dell’esordio si aggira attorno ai 24 anni, tuttavia possiamo identificare una distribuzione bimodale con picchi tra 15-24 anni e tra 45-54 anni.

Tipicamente possono essere identificate tre fasi nello svilupparsi del disturbo di panico:

  • attacchi inaspettati vissuti con crescente paura
  • ansia anticipatoria
  • sviluppo di evitamenti che limitano l’autonomia e la qualità della vita.

Sebbene il DSM non consideri la frequenza degli attacchi nella diagnosi del disturbo di panico, l’ICD-10 considera il disturbo moderato quando si verificano almeno 4 attacchi in un mese e grave con almeno quattro alla settimana.

Alcuni studi hanno esaminato la possibile familiarità del disturbo di panico che sembrerebbe essere elevata, tanto per cui figli di individui con disturbo di panico hanno una probabilità 5-8 volte superiore di sviluppare anche loro il disturbo di panico. L’alta familiarità può essere spiegata sia in termini di trasmissione genetica che di ambiente familiare. Tuttavia, studi identificanti geni responsabili della vulnerabilità al disturbo di panico non sono molti e la maggior parte identifica geni corrispondenti alla predisposizione di altri disturbi come d’ansia e dell’umore. Sicuramente rilevante è comunque la componente ambientale, a causa dell’uso di modelli per lo stile educativo e gli eventi di vita non esattamente sani.

Per effettuare una valutazione psicodiagnostica degli attacchi di panico e di un possibile disturbo di panico possono essere usati diversi metodi, come:

  • osservazione diretta, durante le prove d’induzione e test di evitamento. Tra le prove d’induzione vanno citate la prova d’iperventilazione o qualsiasi altra prova tra le nove prove di Andrews. In caso di esito negativo, si potrebbe passare alla somministrazione di prove di evitamento.
  • diari e schede di automonitoraggio: la scheda di automonitoraggio andrebbe compilata immediatamente dopo l’attacco inserendo data e durata, luogo e situazione, prevedibilità, eventi antecedenti, eventuale associazione agli eventi precedenti, persone presenti, sensazioni fisiche avvertite, pensieri che sono passati per la testa, intensità, livello massimo di paura esperito. Tuttavia, non sempre i pazienti possono essere disposti a compilare accuratamente la scheda di automonitoraggio magari perchè timorosi che il pensare al precedente attacco possa provocarne un altro (comportamento di evitamento). Tuttavia, anche in caso di mancata compilazione la scheda può risultare di estrema rilevanza rivelando insight relativi allo stile e atteggiamento del soggetto in modo da poter intervenire.

Inoltre, è bene somministrare il Beck Anxiety inventory (BAI) ogni 7-15 giorni in modo da poter monitorare l’andamento dell’ansia.

Per quanto riguarda il trattamento del disturbo di panico esistono alcune linee guida. Ad esempio, secondo il NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) gli interventi che hanno dato buona prova su lunghe distanze sono:

  • terapia psicologica: più precisamente a) preferibile CBT; b) per via di professionisti; c) durata ottimale di 7-14 ore; d) sedute settimanali di 1-2 ore e dovrebbe completarsi entro un massimo di quattro mesi. I protocolli sono principalmente appartenenti a due filoni: inglese – muove dalla constatazione che un terzo dei pazienti ha immagini intrusive catastrofiche, motivo per cui vengono usate tecniche della terapia cognitiva classica, in modo flessibile; americano – basato sull’esposizione enterocettiva, ristrutturazione cognitiva, breathing training, esposizione situazionale (per 15 sedute)
  • terapia farmacologica: i farmaci in prima linea sono gli SSRI, quindi gli antidepressivi e non gli ansiolitici. Tuttavia, ancora oggi molti individui fanno uso di benzodiazepine per il panico. Trattamenti combinati psicologici-farmacologici non sembrano aumentare la velocità del trattamento, anzi in caso di mancata coordinazione tra specialisti potrebbero anche ostacolare la remissione.
  • auto-aiuto attraverso l’uso di manuali suggeriti dal clinico (è consigliato comunque un contatto personale col clinico almeno ogni 4-8 settimane).

Le ultime domande sono invece dedicate a comportamenti da adottare nel momento in cui si incorre in qualcuno con un attacco di panico, tra questi la tecnica della respirazione diaframmatica è consigliata. Essa consiste nel porsi davanti al soggetto e mettere la sua mano all’altezza del proprio diaframma per poi inspirare ed espirare lentamente, invitandolo a fare lo stesso. Per facilitare il rallentamento della respirazione è utile contare ad alta voce “uno…due…tre” durante l’inspirazione e “quattro… cinque… sei” durante l’espirazione. Oltre ad aiutare la respirazione lenta, altri comportamenti utili sono comprimere il torace, spostare l’attenzione su qualcosa, allontanare le persone in ansia e mantenere la calma.

All’interno del testo sono presenti anche delle chiarificazioni relative al rapporto tra iperventilazione e attacchi di panico, agorafobia, ansia da malattia (precedentemente chiamata ipocondria) e i comportamenti di sicurezza.

Nel complesso il manuale risulta essere di estrema chiarezza grazie alla sua struttura che permette di trovare subito le risposte alle domande che man mano emergono dalla lettura. Proprio per questo potrebbe essere molto utile per poter diffondere conoscenze relative ad esperienze comuni, quali sono gli attacchi di panico, in modo che più persone possibili possano essere pronte a reagire nel modo più adeguato nel momento del bisogno.

 

Uno, nessuno, centomila: i molteplici volti delle emozioni umane nelle differenti culture

L’attenzione di ciascun popolo a un particolare aspetto delle emozioni è specchio del suo passato e della sua collocazione geografica, degli eventi storici ed economici e dei processi culturali che lo hanno caratterizzato.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Le emozioni sono fenomeni complessi e affascinanti, frutto di un processo multifattoriale, innescato da una molteplicità di eventi, correlato ai più svariati pensieri e credenze, associato a sensazioni e sintomi fisici e scatenante innumerevoli reazioni e comportamenti. Nonostante da decenni siano oggetto di attenzione e di studi volti a chiarirne le caratteristiche e categorizzarle, spesso continuano a sorprenderci per la varietà delle loro apparentemente indefinibili sfumature. Nel corso delle epoche storiche, tutti i popoli hanno cercato di avvicinarsi ad esse e dare loro un nome, talora cogliendone particolari per noi tanto illuminanti quanto inaspettati.

Nell’Atlante delle Emozioni Umane, viene effettuato un curioso excursus sui termini più particolari attribuiti a specifiche sensazioni e pensieri correlati alle emozioni nelle diverse tradizioni del mondo. L’attenzione di ciascun popolo a un particolare aspetto delle emozioni è specchio del suo passato e della sua collocazione geografica, degli eventi storici ed economici e dei processi culturali che lo hanno caratterizzato. Mappando le differenze affettive tra i popoli, questa singolare panoramica ci porta inevitabilmente a comprendere come il caleidoscopio lessicale paradossalmente rispecchi l’universalità di ciò che tutti gli esseri umani sono in grado di provare. Scoprendo vocaboli che ci appariranno strani o impronunciabili, ci scopriremo incredibilmente vicini a coloro che li hanno coniati per la prima volta, seppur a secoli o a migliaia di chilometri di distanza da noi.

Abhiman

Il termine Abhiman viene citato per la prima volta nei Veda ed è noto ancora oggi in tutto il subcontinente indiano. Composti in sanscrito intorno al XVI secolo a.C., i Veda sono tra i più antichi testi sacri e costituiscono la base spirituale dell’Induismo. Il significato letterale di abhiman è “orgoglio di sé”, “dignità”. Ma un indizio sul suo significato più profondo sta in un’altra parola del sanscrito, di cui abhiman conserva qualche eco: balam (forza). L’abhiman, intraducibile con un unico sinonimo, evoca il dolore e la rabbia causati dal torto subito da parte di una persona che amiamo, o da cui ci aspettiamo di venire trattati con gentilezza. Alla sua origine c’è la tristezza, che presto si trasforma in un impeto di orgoglio, di offesa e talora di moto vendicativo. Spesso viene tradotta con “dignità ferita” e in India rappresenta una reazione accettabile, persino attesa, e ostinata. A livello sociale, la consapevolezza dell’abhiman come reazione inevitabile implica che la rottura dei taciti patti di amore e rispetto tra le famiglie e gli alleati rappresenti un tradimento della massima serietà.

Amae

Negli anni settanta, gli antropologi occidentali si dedicarono con grande entusiasmo a studiare l’amae, termine coniato in Giappone: per loro era la prova che anche le nostre emozioni più intime sono influenzate dalle strutture politiche ed economiche delle società in cui viviamo.

In Giappone, l’amae indica una resa temporanea in totale sicurezza, come l’impulso ad abbracciare una persona cara per essere coccolati e rassicurati o come l’affidarsi a qualcuno che ci possa aiutare incondizionatamente. L’amae è generalmente riconosciuta come parte di ogni relazione umana. La si prova non soltanto tra membri della stessa famiglia, ma anche tra amici e colleghi di lavoro, e rappresenta un ritorno ai piaceri e all’accudimento incondizionato dell’infanzia. È il collante che permette alle relazioni stabili di prosperare, il simbolo della fiducia più profonda.

Gli antropologi sostengono che l’amae si sia sviluppata nella cultura tradizionalmente collettivista del Giappone e sia sintomatica della maniera in cui la società giapponese continua a celebrare la dipendenza da un gruppo rispetto all’individualismo.

Compersione

La comune Kerista, fondata nell’Haight-Ashbury di San Francisco nel 1971, si proponeva di ribaltare molti dei capisaldi della tradizione americana circa la famiglia, la proprietà e la monogamia. Quest’ultimo fu l’aspetto che le diede maggiore fama, poiché i membri della comune Kerista praticavano il poliamore e venivano incoraggiati ad avere più di un partner sessuale alla volta. Alcune di queste relazioni avevano vita breve, altre più lunga, ma nessuna prevedeva l’esclusività. Per spiegare come la gelosia per loro non fosse un problema, i keristani coniarono il termine “compersione”. Variante di “compassione”, la compersione indicava l’eccitazione indiretta provata nello scoprire che una persona amata era attratta da qualcun altro.

Il termine “compersione”, che fa da antagonista a gelosia, viene ancora utilizzato sia negli Stati Uniti che in Europa e non ha sinonimi, ad eccezione che in Inghilterra, dove, per indicare la stessa sensazione, si usa il termine “The Frubbl”.

Gezelligheid

Non a sorpresa, molte delle lingue nordeuropee hanno coniato una parola specifica per esprimere la sensazione dell’appagamento legato alla comodità e all’accoglienza. L’inglese “cozy” (accogliente) viene dal gaelico “còsag”, letteralmente un piccolo buco in cui ci si può rifugiare. E tutti, quando inizia l’inverno e fuori piove o nevica, ci troviamo a desiderare quello che i danesi chiamano “gezelligheid”. Gezelligheid denota sia una situazione fisica – come lo starsene al caldo in un posto confortevole, circondati da buoni amici (non si può provare gezelligheid da soli) – sia lo stato emotivo del sentirsi “abbracciati” e confortati da qualcuno. Sulla stessa linea ci sono il danese “hygge” (vicinanza), il tedesco “gemütlichkeit”, che indica una sensazione legata alla cordialità e alla compagnia, e il finlandese “kodikas” (accogliente). Al contrario, nelle lingue del caldo Mediterraneo, sarà molto difficile trovare vocaboli caratterizzati da una simile combinazione di vicinanza fisica, calore e conforto.

Fago

Negli anni ‘80, vivendo a contatto con la popolazione di Ifaluk, un atollo corallino delle Isole Caroline del Pacifico, l’antropologa Catherine Lutz rimase colpita dalla definizione di una sensazione che lei per istinto riconosceva ma per cui non esisteva un termine equivalente in inglese, né in altre lingue.Il fago è un singolare termine emozionale che unisce la compassione, la tristezza e l’amore. È la pietà provata per le persone in difficoltà, che ci spinge a occuparci di loro, ma che è anche pervasa dalla forte sensazione di precarietà, fragilità, correlata alla consapevolezza che un giorno potremmo perderle. Il fago spesso è una sensazione improvvisa, intensa, che sfocia nella commozione. Secondo Lutz, era significativo come tale termine fosse stato coniato proprio da una popolazione famosa per la propria non belligeranza. «La parola fago», scriveva Lutz, «viene pronunciata quando si prende atto che il dolore è ovunque e, con uno spirito vigorosamente ottimista, si crede che lo sforzo umano, specie quando si tratta di occuparsi degli altri, possa limitare i danni di quel dolore emotivo”.

Glee

Quando i vichinghi arrivarono in Inghilterra portando con sé il loro linguaggio, “glý”, o “glíw”, o “glew” significavano sia “passatempo” che “presa in giro”. Glew era anche il testo di una canzone cantata a squarciagola da ubriachi, e chamber-glew era il modo più breve per indicare un comportamento osceno. L’essere guidati da golde e glie era frequente fonte di disprezzo, poiché significava vivere in cerca di denaro e piaceri dissoluti. Nel corso del Seicento, glee perse buona parte della sua connotazione negativa quando il termine venne utilizzato dai maestri di coro per descrivere un tipo di canto polifonico non accompagnato da strumenti, una versione più austera di quello poi adottato dai glee clubs dei licei americani. Ad oggi, la parola conserva sfumature poco raccomandabili: indica, infatti, la sensazione di gioia e piacere nel festeggiare la propria fortuna a scapito di qualcun altro. Non a caso, dopo il “datagate” del 2013, il capo dei servizi segreti inglesi aveva immaginato i terroristi di Al-Qaida intenti a «rubbing their hands with glee»-“sfregarsi le mani per la felicità”.

Going postal

Gli Stati Uniti degli anni ’80 videro susseguirsi numerose sparatorie di massa, i cui autori erano impiegati postali scontenti del proprio lavoro. Da qui, l’espressione “going postal” cominciò a essere utilizzata per indicare un attacco di rabbia e violenza avvenuto sul posto di lavoro, e poi, più in generale, come sinonimo di “andare su tutte le furie”.

Hiraeth

La parola gallese “hiraeth” rivela un profondo legame con il proprio paese natale, esprimendo la tristezza nostalgica, venata di apprensione, di chi vorrebbe rimanere nella propria terra ma sa di doverla lasciare. Probabilmente la lunga occupazione da parte degli inglesi può spiegare perché gli abitanti del Galles abbiano tanta familiarità con la combinazione tra l’amore per la patria e la percezione della sua vulnerabilità – un’emozione che gioca un ruolo chiave nella retorica della “gallesità”. Oggi il termine hiraeth è associato soprattutto alla sensazione di precarietà provata dagli emigrati, così come da coloro che temporaneamente ritornano a casa, sapendo che presto arriverà il momento di ripartire.

Hwyl

In inglese, Hwyl è il termine con cui si indica la vela di una barca. È una parola gallese, onomatopeica,  che evoca uno stato di esuberanza o eccitazione, come se si venisse spinti da una folata di vento. La si usa per descrivere un lampo di ispirazione, un impeto di entusiasmo o di buonumore. Ma, paradossalmente, Hwylè anche la parola dell’addio:  “Hwyl fawr”–“Vai con il vento in poppa”.

Matutolypea

Il solenne vocabolo Matutolypea (si pronuncia matutolipia) deriva da una combinazione tra “Mater Matuta”, la dea dell’alba per gli antichi romani, e “lype”, il termine greco per “avvilimento”. Indica, infatti, la sensazione provata al suonare della sveglia quando, prendendo consapevolezza del nuovo giorno che sta per iniziare, ci si sente sopraffatti da tristezza, ansia, malumore. Si potrebbe tradurre, con una certa solennità, in “tristezza mattutina”.

Mudita

Per Siddhārtha Gautama, meglio noto come il Buddha, vissuto tra il V e il IV secolo a.C., la gioia non era una risorsa limitata su cui litigare o a cui avevano diritto soltanto pochi fortunati, ma era infinita, illimitata. Per Siddhārtha, la parola “mudita” esprimeva la piena esperienza di felicità, priva di invidia o risentimento, provata dinanzi alla gioia o alle fortune altrui. Secondo lui, il puro fatto di poter provare mudita era la prova che la felicità degli altri non diminuisce la propria, ma la aumenta.

Nakhes

L’eccesso di orgoglio genitoriale è un tipico luogo comune dell’umorismo ebraico. E in yiddish esiste una parola speciale per l’emozione di felicità e soddisfazione dei genitori di fronte ai piccoli traguardi dei loro figli: nakhes (si pronuncia nà-khez, con il kh aspirato).

Nginyiwarrarringu

Quando un’emozione diventa predominante ed essenziale per la sopravvivenza di un popolo o la sua conoscenza del mondo, è possibile che di essa vengano coniati numerosi termini volti a coglierne le più fini peculiarità. Per i pintupi, abitanti dei deserti dell’Australia occidentale, esistono quindici diversi tipi di paura. “Ngulu” è il timore di essere oggetto di una vendetta; “kamarrarringu” è la tensione provata nell’accorgersi che qualcuno si sta lentamente avvicinando alle nostre spalle; “kanarunvtju” è il terrore del possibile arrivo di spiriti maligni nella notte, tanto potente da provocare insonnia; “nginyiwarrarringu” è l’improvvisa e potente sensazione di allarme che ci fa balzare in piedi e guardarci attorno, cercando di capire cosa l’ha provocato.

 

Il paradosso dell’obesità: cosa ci dicono i topi più obesi al mondo

Nonostante l’incessante incremento del tasso di obesità, nel 2018 pari al 42% della popolazione statunitense adulta (Hales et al., 2020), negli ultimi tempi medici e ricercatori stanno promuovendo un approccio volto a non demonizzare il grasso, quanto a favorirne una comprensione più profonda.

 

Essere obesi, difatti, non sembrerebbe sempre sinonimo di malattia, ragion per cui risulta doveroso valutare singolarmente caso per caso, persona per persona, approcciandovisi spogli da pregiudizi.

Partiamo da un interrogativo, motore che ha determinato il diffondersi di numerosi studi nell’ambito di obesità, metabolismo e salute: “Si può essere considerati sani pur pesando 270 chilogrammi?”.

Secondo il ricercatore americano Philip Scherer, del Southwestern Medical Center, ed i suoi topi, i più grassi del mondo, sì (Lee et al., 2014). La loro caratteristica principale era quella di essere nati da genitori ingegnerizzati. Ad alcuni di questi è stato soppresso l’ormone leptina, fondamentale per regolare il senso di sazietà, mentre altri sono stati indotti a sovra produrre adiponectina, responsabile di un buono stato di salute metabolica. Dal loro incrocio, i topi di Scherer mangiavano e ingrassavano senza sviluppare patologie metaboliche, risultando quindi estremamente sovrappeso ma incredibilmente sani. I roditori infatti, a differenza dei loro simili carenti di leptina, presentavano livelli di colesterolo e glicemia nella norma. Tuttavia, a dispetto del buono stato metabolico, a causa della mole eccessiva, i topi erano spesso impossibilitati nel muoversi e finivano per capovolgersi, morendo disidratati (Asterholm et al., 2007).

Seppur quella dei roditori del laboratorio texano sia una storia senza lieto fine, porta con sé un messaggio importante: peso e salute metabolica possono non necessariamente procedere sullo stesso binario, considerabili talvolta come due concetti disgiunti. Sulla stessa lunghezza d’onda di Scherer si colloca anche la genetista Ruth Loos, dell’Università di Copenaghen. La ricerca dell’équipe danese è iniziata quando una striscia di DNA li ha condotti su di una strada inaspettata.

Hanno difatti scoperto che nelle persone più predisposte all’incremento ponderale erano identificabili distinti tratti di DNA, uno in particolare responsabile dell’accumulo di grasso localizzato su fianchi e cosce. Questo filamento appariva però puntualmente accanto ad un gene chiamato IRS1, noto per ridurre il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete (Kilpeläinen et al., 2011).

Sulla base di questa scoperta Loos e Scherer hanno esaminato, attraverso modelli animali ed umani, come determinati fattori quali la distribuzione del grasso corporeo o la natura del grasso stesso, potessero aggravarne o attenuarne gli effetti sulla salute.

I primi ad offrire un indizio su tali differenze sono stati proprio i topi di Scherer: il loro adipe era prevalentemente immagazzinato a livello sottocutaneo e non viscerale, quest’ultimo più dannoso in quanto tendenzialmente associato all’infiammazione di organi e muscoli, quali pancreas e fegato.

Il modello animale in esame calza perfettamente con quanto riscontrato nell’essere umano: ampi studi hanno accertato che le persone con una percentuale più alta di grasso viscerale sono maggiormente soggette a problemi di salute, rispetto a quanto non accada in quelle con accumuli adiposi sottocutanei (Paiman et al., 2020). Il ruolo giocato dal grasso viscerale è stato approfondito anche da Zinman, endocrinologo dell’Università di Toronto (Kramer et al., 2013). Attraverso i suoi studi, ha dimostrato che è proprio l’adipe viscerale a generare le molecole infiammatorie responsabili di molte patologie metaboliche, particelle che agiscono prevalentemente a livello pancreatico. Di contro, quello sottocutaneo può renderci più sani, fungendo sia da riserva energetica che da cuscinetto a protezione di muscoli ed ossa. In aggiunta, quadri clinici connotati da insufficienza cardiaca ed alcune tipologie di cancro, fra cui quello mammario, traggono beneficio dall’accumulo di grasso sottocutaneo (Bradshaw et al., 2019).

Sulla base di quanto suggerisce la scienza non è errato affermare che un leggero sovrappeso, rispetto ad una corporatura più esile, può avere in alcuni casi una certa utilità. È sempre il ricercatore di Toronto ad affermare che in assenza di una zona in cui accumulare i depositi di grasso in eccesso, quest’ultimo si dirigerebbe pericolosamente nella regione viscerale. Le persone affette da sindromi da lipodistrofia ne sarebbero l’esempio vivente: la loro impossibilità di accumulare grasso sottocutaneo le fa apparire estremamente magre, a dispetto di elevatissimi livelli di grasso collocati però attorno agli organi, che li predispongono allo sviluppo di malattie gravi, fra cui anche il diabete di tipo 2 (Nagayama et al., 2021).

Ad appannaggio di queste ricerche anche gli effetti di alcuni farmaci per il diabete introdotti alla fine degli anni ’90: i tiazolidinedioni.

La loro azione di riduzione dei livelli di glucosio nel sangue ha curiosamente portato i pazienti ad accumulare peso. Diversi studi hanno dimostrato che questi farmaci aiutano a convertire le cellule precursori del grasso in cellule adipose sottocutanee mature. I pazienti che hanno ottenuto questo effetto collaterale, sviluppavano in media meno infiammazioni, rivelandosi meno insulinoresistenti (Natali & Ferrannini, 2006).

Obesità metabolicamente sana

Dal proliferare di studi in tale ambito, si evince chiaramente l’affermarsi di un nuovo campo di ricerca scientifica, impegnata nell’indagare una condizione tutt’oggi poco definita, ma parecchio frequente fra gli esseri umani: l’MHO, ossia la metabolically healthy obesity (obesità metabolicamente sana) (Gómez-Zorita et al., 2021). Imprescindibile in questo settore, affermano gli esperti, è stabilirne i confini ed esaminare quanto possa essere comune o per quanto tempo possa persistere la MHO prima che degeneri in patologica. Difatti, è buona prassi ricordare che sussiste una chiara correlazione tra incremento ponderale e diabete di tipo 2, seppur tale patologia non si manifesti immediatamente. Inoltre, l’obesità si associa a numerosi altri problemi di salute inclusi artrosi da usura, sovraccarico delle articolazioni e vari tipi di cancro (Abdelaal et al., 2017).

Se tuttavia tramite queste indagini, da un lato, si procede contro la demonizzazione del grasso, dall’altro la nostra società corre nella direzione opposta. Così le persone obese, nella maggior parte dei casi discriminate, possono ritrovarsi bersaglio degli stessi medici, che frequentemente finiscono per ridurre un qualsivoglia indizio di malattia ad un problema di peso, senza procedere con altri approfondimenti (Puhl & Brownell, 2001). Il numero sulla bilancia e la circonferenza vita costituiscono, oggigiorno, un vero e proprio stigma sociale, che induce ad approcci superficiali e stereotipati.

Obesità e stigma

A sensibilizzare la popolazione scientifica e non relativamente a questa tematica è il fisiologo Lindo Bacon, Università della California, nonché fermo sostenitore della Body Positivity. Egli afferma che tartassare le persone con consigli volti al dimagrimento si rivela spesso un grosso errore, talvolta addirittura controproducente (Bacon, L. 2010). Appellandosi alle teorie sopracitate, definisce oggettivo il fatto che esistano molte persone appartenenti alla categoria degli obesi che in realtà conducono vite lunghe e sane, senza alcun segno di malattie metaboliche.

Seppur concorde con il pensiero comune che associa l’obesità ad uno status di cattiva salute, Bacon insiste sul fatto che il grasso, in sé, non è il vero colpevole di determinate patologie. I reali colpevoli andrebbero cercati anche tra povertà, discriminazione e disomogenee opportunità di accesso ai cibi sani. Infatti, come dimostrato, le persone obese che non presentano disfunzioni metaboliche, sono spesso benestanti e più istruite rispetto a quelle nelle quali si presentano le patologie.

Oltre alla povertà, altra imputata è l’etnia: da uno studio del 2020, condotto nel Regno Unito su quasi 3 milioni di adulti monitorati per 11 anni, l’Obesity Science and Pratice ha evinto che le persone con BMI compreso tra 30 e 35 correvano il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 con una probabilità ben cinque volte superiore rispetto a coloro con un indice di massa corporea nella norma. I soggetti con un BMI tra 40 e 45 il rischio era 12 volte più elevato (Tillin et al., 2015).

Lo studio ha evidenziato in aggiunta che il campione composto da soggetti con obesità era anche più propenso a soffrire di malattie cardiache, apnea notturna, ictus, osteoartrite e cancro.

Nonostante questi dati piuttosto allarmanti, Antonio Vidal-Puig, esperto in malattie metaboliche, riconosce la presenza di molte persone che, nonostante il peso in eccesso, mantengono livelli di colesterolo e glicemia perfettamente in norma, contrariamente ad altri pazienti normopeso.

Tale tendenza sembrerebbe proprio ascrivibile all’etnia. Ad esempio, secondo altri studi, le persone di origine sud asiatica sarebbero più predisposte a sviluppare patologie metaboliche anche se non obese (Stanford et al., 2019).

Questa variabile, insieme alla localizzazione del grasso corporeo e alla sua natura, amplierebbe ulteriormente il numero di fattori da tenere in considerazione in caso di insorgenza di tali patologie.

Obesità e fibrosi

È proprio dalla collaborazione fra Vidal-Puig e la genetista Loos, entrambi operativi presso l’Università di Cambridge, che nascono nuovi interrogativi volti a comprendere meglio un altro aspetto molto interessante in merito alla relazione che intercorre tra infiammazioni e malattie metaboliche: la fibrosi. Definibile come l’inspessimento o cicatrizzazione del tessuto connettivo, essa promuove quella serie di infiammazioni dannose responsabili della scarsa salute di alcuni organi, fra cui il fegato. Queste fibrosi, molto frequenti nell’adipe di pazienti obesi, portano gli autori a ribadire la loro reticenza nel considerare l’obesità non pericolosa per la salute (Loos & Kilpeläinen, 2018). Come confermano i topi oversize di Scherer, le fibrosi riducevano nei roditori la produzione endogena di adiponectina, ormone che sembrerebbe fungere da protettore per malattie metaboliche. Uno degli studi più esaurienti relativo all’effetto delle cicatrizzazioni sull’uomo è quello condotto da Samuel Klein, direttore del Nutrition Obesity Research Center presso la Washington University di St. Luis. Dal 2016 lui e i suoi colleghi hanno eseguito una serie di test su tre gruppi, così composti: 45 persone obese metabolicamente sane, 45 persone obese metabolicamente malate e 25 persone normopeso, magre (Cifarelli et al., 2020). I partecipanti sono stati sottoposti a diverse diete, randomizzate, tra le quali una mediterranea ed una a base vegetale. Periodicamente, i ricercatori hanno somministrato ai soggetti iniezioni di insulina, effettuando successivamente delle biopsie sia su massa grassa che muscolare. Inoltre, un prelievo di sangue permetteva loro di comprendere come l’ormone iniettato regolasse il metabolismo del glucosio nei diversi tessuti e nel flusso ematico.

L’obiettivo principe di Klein era proprio quello di comprendere il motivo per cui alcune persone con obesità appaiono “resistenti” ai suoi aspetti negativi, nonché valutare se sussistono differenze tra il grasso sottocutaneo delle persone obese sane rispetto a quello dei soggetti con patologie. Ha recentemente riscontrato che la grande differenza tra questi due gruppi è da attribuirsi alla maggiore produzione di tessuto fibroso e di conseguenti infiammazioni nella controparte “malata”. Questo studio, prosegue l’equipe di ricerca, apre la strada ad una quantità infinita di domande che trovano risposta, molto probabilmente, nel codice genetico delle persone prese a campione.

Tuttavia, i dati ottenuti rafforzano il punto di vista di studiosi come Loos: ossia che esistano persone geneticamente predisposte all’obesità seppur con basso rischio di sviluppo di malattie cardiovascolari o metaboliche, quindi annoverabili nella sopracitata definizione di obesità metabolicamente sana.

Conclusioni

Per appartenere a questa categoria, dice la scienza, è necessario avere al massimo due tra i molti fattori di rischio che caratterizzano la sindrome metabolica; fra questi: girovita ampio, ipertensione, colesterolo HDL basso, trigliceridi e glicemia elevati (Donataccio et al., 2021). Inoltre, le donne, i giovani e le persone con BMI inferiore a 35 avrebbero maggiori probabilità di soddisfare i criteri di una MHO.

Nonostante questi risultati, l’epidemiologo direttore del programma di prevenzione dell’obesità presso l’Harvard T.H. Chan School of Public Health, Frank Hu, è perentorio nell’affermare che le persone obese metabolicamente sane ad un certo punto cominciano comunque a sviluppare delle patologie (Eckel et al., 2018). Basandosi su esami eseguiti su oltre 90.000 donne selezionate dal Nurse Health Study, i ricercatori hanno avviato un progetto decennale nato per raccogliere dati riguardanti lo status di salute e lo stile di vita. È stato così scoperto che l’84% delle donne obese considerate metabolicamente sane finivano prima o poi per manifestare sintomi di patologie cardiovascolari o metaboliche, portando Hu ad affermare la transitorietà della MHO.

Giunti fin qui, risulterà chiaro che i risvolti degli studi citati sono molteplici e notevolmente complessi. Nonostante ciò, non si può certo ignorare il messaggio implicito sotteso a tutte le indagini: quando si affrontano pazienti sovrappeso, è quanto mai necessario spostare il focus dal semplice calcolo del BMI a fattori più complessi e articolati. Per Bilik e Vidal-Puig focus dell’attenzione medica dovrebbero essere i marcatori cardiaci e metabolici, come pressione e trigliceridi. Ancora, Bozello e Vanzo (2020) sottolineano l’importanza del rapporto vita/fianchi, facilmente misurabile da chiunque (Bosello & Vanzo, 2021).

Fil rouge di queste evidenze è l’importanza attribuita all’esercizio fisico, principale responsabile di una migliore risposta all’insulina e a capo della riduzione dei livelli di grasso viscerale. “Non si tratta di grasso, si tratta di essere in forma!”, questo il mantra che Vidal-Puig fa imparare a memoria ai suoi pazienti. Pertanto, il trattamento dell’obesità non dovrebbe mirare esclusivamente alla perdita di peso, quanto più a favorire anche il miglioramento metabolico del paziente.

Secondo Bacon la domanda che dovrebbe porsi ogni medico di fronte ad un paziente sovrappeso è: “Che tipo di consigli darei ad una persona più magra?” ed aggiunge: “Per allontanarsi dal pregiudizio sul peso, una delle prima cose che i medici possono fare, è eliminarlo dal quadro clinico…prima di prenderlo in considerazione”.

 


 

Oltre il contesto educativo: motivazione intrinseca e abitudini di lettura durante la pandemia da COVID19

Un’indagine spagnola ha esplorato la relazione tra motivazione intrinseca alla lettura e frequenza di lettura prima della pandemia, durante le prime settimane di lockdown e dopo qualche settimana di lockdown (De Sixte et al., 2021).

 

La diffusione del virus SARS-CoV-2, a causa della sua contagiosità, ha costretto le persone a confinarsi entro le loro abitazioni. Tutte o buona parte delle attività lavorative e del tempo libero sono state spostate all’interno delle case: ciò ha modificato il modo di vivere la quotidianità. Diverse ricerche confermano i cambiamenti delle dinamiche routinarie in questo periodo di pandemia, dallo stile alimentare (Pérez-Rodrigo et al., 2020), al consumo di TV e al tempo dedicato ai videogiochi e all’esercizio fisico (Balluerka et al., 2021). La lettura è una delle attività che più ha risentito di questo momento storico (Salmerón et al., 2020), ma da cosa dipendono veramente questi cambiamenti?

Le abitudini di lettura e la quantità di tempo dedicato ai diversi tipi di lettura (lettura per svago, per lavoro/studio, per l’aggiornamento sugli eventi, ecc…) sono influenzati da fattori individuali (Scales & Rhee, 2001; Schutte & Malouff, 2007; Garces-Bacsal & Yeo, 2017). La motivazione intrinseca è un fattore che gioca un ruolo fondamentale nella quantità di tempo trascorso a leggere. Ad esempio, lo studio di Schiefele (2012) riporta una relazione positiva tra motivazione intrinseca e tempo trascorso alla lettura, una relazione che si mostra più forte nel tipo di lettura per svago (Schiefele et al., 2012). Il ruolo di tale motivazione è stato indagato anche in relazione alle differenze di genere: le femmine hanno più alti livelli di motivazione intrinseca alla lettura (Wigfield e Guthrie, 1997; Swalander e Taube, 2007; Vansteenkiste et al., 2009) e, pertanto, investono più tempo in questa attività rispetto ai maschi (Scales e Rhee, 2001). Un altro importante fattore individuale che determina le nostre abitudini di lettura, soprattutto alla luce dei forti cambiamenti dell’attuale periodo, è il distress. La pandemia da COVID19 ha generato un forte disagio psicologico con conseguenze sui nostri comportamenti (Ingram et al., 2020; Stanton et al., 2020). Lo studio di Guo (2021) dimostra infatti che il distress sperimentato in questo periodo in Cina è associato, soprattutto nelle donne, ad un aumento del tempo dedicato alla lettura di informazioni relative al COVID (Guo et al., 2021).

Dunque, diversi fattori possono spiegare il cambiamento nelle abitudini di lettura ma l’interazione a tre vie tra abitudini di lettura, motivazione alla lettura e distress risulta ancora inesplorata. Alla luce dell’eccezionale situazione che stiamo vivendo, ci si potrebbe chiedere quindi se le motivazioni che sostengono l’attività di lettura si siano modificate in questa condizione di isolamento che le persone sono state costrette a vivere.

La risposta arriva finalmente da uno studio spagnolo che esamina l’interazione di tali fattori nel contesto dell’attuale pandemia da COVID-19 in un campione di 3.849 adulti tra i 18 e i 65 anni, prevalentemente femminile, giovane e mediamente istruito (De Sixte et al., 2021). In questa ricerca, gli autori si sono focalizzati sulla motivazione alla lettura abituale che “… denota la disponibilità relativamente stabile di una persona a iniziare particolari attività di lettura” (Schiefele et al., 2012, p. 429). Prima di esaminare in dettaglio i risultati dello studio, verranno discussi di seguito i principali studi nel campo della motivazione. È importante sottolineare che la maggior parte di questi studi fa riferimento al contesto educativo. Le letteratura di seguito esposta dovrebbe pertanto farci riflettere sull’importanza e la necessità di andare oltre al contesto educativo per indagare le motivazioni e le abitudini degli adulti in situazioni diverse da quelle generalmente esaminate.

Studi precedenti sulla motivazione alla lettura

Secondo Schiefele et al. (2012), la più importante distinzione nel costrutto della motivazione alla lettura è quella che si osserva tra la motivazione intrinseca ed estrinseca: la prima è definita come la volontà di leggere poiché si ritiene l’attività di lettura soddisfacente per sé; la seconda si riferisce alle situazioni in cui la lettura è motivata dalle conseguenze attese, come ad esempio ottenere risultati positivi o evitare quelli negativi (Wigfield & Guthrie, 1997; Becker et al., 2010; de Naeghel et al., 2012, 2014; Schiefele et al., 2012, 2016). Una delle teorie più accreditate sulla motivazione, la SDT (Self Determination Theory), postula che i due tipi di motivazione alla lettura possono essere ordinati su un continuum dell’autodeterminazione (Howard et al., 2017; Ryan e Deci, 2020) che varia da un’assenza di autodeterminazione a comportamenti parzialmente autodeterminati, fino a giungere ai comportamenti più autodeterminati. In tal senso, le motivazioni intrinseche sono sempre autodeterminate, mentre le motivazioni estrinseche possono essere categorizzate, lungo il continuum, come più o meno autodeterminate: si definisce così la regolazione esterna, introiettata, identificata e integrata (Ryan e Deci, 2019, 2020; Howard et al., 2021). La regolazione esterna si riferisce ai comportamenti guidati da ricompense e punizioni imposte dall’esterno (ad esempio, leggere per evitare una punizione); la regolazione introiettata si manifesta quando l’obiettivo è quello di ottenere l’approvazione di sé o degli altri, mentre la regolazione identificata e quella integrata sono le più autodeterminate tra le motivazioni estrinseche: gli individui sono guidati da una regolazione identificata quando i loro comportamenti sono coerenti con i loro valori e significati personali, a prescindere dal godimento che può derivare dall’attuazione del comportamento stesso; nella regolazione integrata, gli individui assimilano quel comportamento nel loro senso di sé in modo che quello stesso comportamento diventi parte pienamente congruente con la loro identità.

Tenendo conto di questo continuum, lo studio spagnolo si concentra sul tipo più autodeterminato di motivazione, ossia la motivazione intrinseca alla lettura, definita come il desiderio psicologico di eseguire dei comportamenti (leggere, in questo caso) al solo scopo di ottenere soddisfazione, piacere o eccitazione che derivano dall’attuazione del comportamento stesso (Ryan e Deci, 2019). In altre parole, la lettura è attività intrinsecamente motivante nella misura in cui soddisfa i bisogni psicologici di competenza e autonomia (Ryan e Deci, 2009).

Diversi studi hanno ormai confermato la relazione tra motivazione intrinseca alla lettura e il comportamento di lettura (Wang e Guthrie, 2004; Unrau e Schlackman, 2006; Law, 2008, 2009; Becker et al., 2010; Retelsdorf et al., 2011). Tale relazione indica che le persone che leggono per il piacere di leggere dedicano più tempo a questa attività, rispetto a persone estrinsecamente motivate. Altri studi hanno trovato che il genere gioca un ruolo importante nella relazione tra motivazione alla lettura e la frequenza e/o il tipo di lettura: le ragazze sono più intrinsecamente motivate a leggere, ciò è associato ad una maggior frequenza di lettura (de Naeghel et al., 2012). Inoltre, una maggiore motivazione intrinseca delle ragazze verso compiti accademici è positivamente correlata ai loro risultati e all’apprendimento (Ratelle et al., 2007; Vansteenkiste et al., 2009).

I risultati elencati sulla motivazione alla lettura e gli effetti del genere sembrano abbastanza convalidati. Tuttavia, in una situazione eccezionale come quella che stiamo sperimentando, potrebbero emergere altri fattori che influenzano la relazione tra motivazione, genere e abitudini di lettura. Alzueta e colleghi (2021), ad esempio, hanno analizzato l’impatto psicologico della pandemia in 59 paesi del mondo: una proporzione significativa di intervistati ha riportato sintomi di depressione e ansia, soprattutto tra donne e giovani adulti, probabilmente perché più vulnerabili agli effetti psicologici della pandemia come conseguenza di una maggiore esposizione ai media. Ancora, Guo e colleghi (2021) hanno evidenziato che la quantità di tempo che le persone trascorrevano sui social media a leggere informazioni riguardanti il COVID-19 rappresenta un predittore dello stress psicologico.

Gli effetti della pandemia sulla lettura

Alla luce degli studi menzionati e dell’importanza del distress in situazioni emotivamente salienti, la sfida di questa indagine spagnola consiste nell’esplorare la relazione tra motivazione intrinseca alla lettura e frequenza di lettura in tre momenti diversi: prima della pandemia, durante le prime settimane di lockdown e dopo qualche settimana di lockdown (De Sixte et al., 2021).

Nello specifico, gli autori ipotizzano una relazione positiva tra motivazione intrinseca alla lettura (IRM, Intrinsic Reading Motivation) e frequenza di lettura (RF, Reading Frequency) ossia che le persone con IRM più alta mostreranno maggiore RF rispetto a quelle che riferiscono una bassa IRM (Schiefele et al., 2012). Gli autori ipotizzano inoltre che la relazione tra IRM e RF sia più forte nella lettura per studio/lavoro e per svago, rispetto alla lettura di social e di news in quanto questi due tipi di lettura, considerate le ricerche precedenti, non sembrano essere i mezzi principali per soddisfare il piacere associato alla lettura stessa. Gli autori si pongono altresì l’obiettivo di indagare le differenze di genere: ipotizzano una IRM più alta nelle femmine rispetto ai maschi e pertanto si aspettano che le femmine trascorrano più tempo a leggere. Questo è uno studio condotto durante il periodo pandemico perciò si tiene conto della situazione di isolamento e del distress che gli individui hanno vissuto in questo momento. Gli autori si aspettano quindi che i fattori di distress condizionino in misura minore la RF nelle persone con maggiore IRM, soprattutto per la lettura per svago.

Per indagare la motivazione intrinseca alla lettura, gli autori hanno utilizzato una versione adattata del questionario SRQ -Reading Motivation (de Naeghel et al., 2012). La RF è stata indagata chiedendo ai partecipanti di ricordare quanto tempo ogni giorno dedicavano ai diversi tipi di lettura: lettura per svago, lettura per lavoro/studio, lettura di news e lettura dei social (Scales e Rhee, 2001; Torppa et al., 2020). I partecipanti hanno completato la scala precedente (frequenza di lettura per ogni tipo di lettura) tre volte: all’inizio, ricordando l’ultima volta (prima del lockdown) che avevano trascorso alcuni giorni a casa, ad esempio in vacanza o durante un fine settimana, successivamente hanno completato la scala ricordando le prime 2 settimane di lockdown ed infine hanno riflettuto sul periodo attuale, dopo che alcune settimane di lockdown erano passate.

Per indagare il distress è stata utilizzata la subscala del personal distress (PD) dell’Interpersonal Reactivity Index (IRI) (Davis, 1980) adattata e convalidata in spagnolo (Escrivá et al., 2004).

Per quanto riguarda le prime ipotesi, in linea con le aspettative teoriche e gli studi citati, i dati dimostrano che i partecipanti con maggiore IRM investono più tempo nella lettura rispetto ai partecipanti con IRM inferiore (Schiefele et al., 2012). Questa relazione si è mantenuta in tutti i momenti: prima, all’inizio e dopo qualche settimana di lockdown. Per quanto concerne il tipo di lettura, le relazioni più forti tra IRM e RF si osservano nella lettura per svago e per lavoro/studio. Questo può significare che questi tipi di lettura riescono meglio a soddisfare i bisogni di competenza e di autonomia (de Naeghel et al., 2012). Al contrario, questo effetto si mostra più debole per quanto concerne la lettura di notizie, almeno nella situazione di confinamento analizzata. Il fatto che la lettura di notizie non è stata influenzata così tanto dall’IRM potrebbe indicare che la lettura di notizie può soddisfare la persona solo per la sensazione di essere informata, non per la lettura in sé. Parallelamente, la relazione tra la lettura dei social e l’IRM era negativa. È possibile che la lettura dei social faciliti un senso di appartenenza in alcune situazioni (Pintrich e Schunk, 2006), ma potrebbe non rappresentare il metodo più appropriato per soddisfare tale bisogno. Infatti, tutti i partecipanti hanno ridotto il loro tempo dedicato alla lettura dei social dopo qualche settimana di lockdown. Per gli individui che amano la lettura in sé, sembra logico dedicare il loro tempo libero alla lettura (che è quella con più forte relazione positiva con l’IRM in questo studio), poiché tale attività potrebbe essere il tipo di lettura più appropriato per soddisfare la motivazione di leggere e basta, senza altri scopi, quale l’essere informati o connettersi con altre persone.

Anche la seconda ipotesi risulta confermata: le femmine erano più intrinsecamente motivate a leggere rispetto agli uomini, come dimostrato anche da altri studi (Ratelle et al., 2007; Vansteenkiste et al., 2009). A questo proposito, precedenti ricerche hanno suggerito la possibilità che le donne con maggiore motivazione autonoma potrebbero essere più efficienti nell’investire il loro tempo per concentrarsi sui loro studi (per esempio, Vallerand et al., 1997). Questo può spiegare perché le donne di questo studio hanno mostrato una RF più alta per studio/lavoro rispetto agli uomini, prima del lockdown. I maschi invece hanno mostrato un RF più alta per il lavoro/studio rispetto alle femmine nelle prime settimane di lockdown, a condizione che presentassero un’alta IRM. Questo dato è molto interessante, poiché suggerisce che le differenze di genere nella RF possono essere influenzate dal contesto, in questo caso di lockdown.

Infine, in riferimento alla terza ed ultima ipotesi, la motivazione intrinseca alla lettura sembra giocare un ruolo diverso nel comportamento di lettura quando si considera il distress e il tipo di lettura. Nel caso specifico della lettura per studio/lavoro, il distress sembra ridurre la RF anche se gli individui hanno un’alta IRM: è possibile pensare che l’interazione tra il distress e il contenuto di queste letture in qualche modo prevalga sul peso della motivazione intrinseca. Per quanto concerne la lettura di social e di news, le persone con alta IRM leggono di più quando entra in gioco il distress. Per il tipo di lettura dei social, tale interazione può essere spiegata dalla potenziale dipendenza che i social media possono creare in situazioni di stress come la pandemia da COVID-19 (Zhao e Zhou, 2021). Per quanto riguarda la lettura di notizie invece, allo stesso livello di motivazione e stress, il tempo dedicatovi sembra avere un impatto sul comportamento di lettura. È possibile che, all’inizio del lockdown, le persone fossero più motivate a leggere le notizie per il bisogno di percepire un certo controllo o autonomia in un contesto in cui iniziavano a non averne. Questo effetto cessa man mano che il confinamento progredisce. Dai risultati descritti, sembra quindi che il distress abbia un impatto diverso a seconda del tipo di lettura che si considera: quando l’attività non rappresenta una richiesta o un’esigenza (per esempio, lettura dei social o per studio/lavoro) o non è legata a stimoli stressanti (per esempio, la lettura di news), la motivazione intrinseca alla lettura rappresenta una protezione contro il distress. Tuttavia, quando il tipo di lettura è più impegnativo, il distress ha un impatto negativo e possono verificarsi eventi paradossali, come i risultati di questo studio che mostrano come i partecipanti con IRM più alta per la lettura di studio/lavoro dedicano meno tempo a quel tipo di lettura se presenti elevati livelli di distress.

Conclusioni

Concludendo, i risultati indicano che i comportamenti di motivazione intrinseca e, come tali, autodeterminati, hanno un impatto positivo durante i periodi di chiusura obbligatoria. In tal senso, le persone con una più alta IRM sono riuscite a proteggere le loro abitudini di lettura indipendentemente dal contesto stressante che l’attuale pandemia ha rappresentato. Tuttavia, non tutti i tipi di lettura riescono a soddisfare le esigenze di base associate all’IRM. Come dimostra questo studio, in alcuni casi, un’alta IRM è collegata ad una più alta RF ma anche ad un più alto livello di distress. Quando la lettura comporta richieste o esigenze da parte del lettore e viene eseguita in un ambiente stressante come l’isolamento, la relazione tra IRM e RF può non essere necessariamente positiva, poiché un aumento di RF può essere associato ad un maggiore distress e, quindi, ad un minore benessere.

Questi risultati suggeriscono la necessità di indagare queste variabili al di là di un contesto educativo. La motivazione alla lettura è un tema molto affrontato nel contesto della ricerca educativa, ma sarebbe interessante rivolgere l’attenzione a popolazioni adulte e ad altri contesti. I risultati di questo studio sottolineano l’importanza dello sviluppo di una motivazione intrinseca alla lettura fin dalla più tenera età: essa ha impatti positivi sull’apprendimento e sul rendimento, e nei contesti che vanno al di là del contesto educativo, ossia in tutte quelle situazioni legate alla salute, al benessere degli individui e alla capacità di gestire situazioni stressanti o difficili.

 

ACT: Acceptance and Commitment Therapy (2020) di Paolo Moderato, Giovambattista Presti, Francesco Dell’Orco – Recensione

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), come in molti ben sanno, è un intervento psicoterapico di ultima generazione.

 

Alcuni anni fa, durante una lezione all’istituto di psicoterapia con il Prof. Miselli, citato nel libro, ho avuto la possibilità di affacciarmi all’ACT. Sono subito rimasta affascinata da tale approccio che definirei, in poche parole, profondo e autentico.

Ritengo che questo testo sia uno dei vari manuali indispensabili per svolgere un lavoro così complesso e delicato come quello dello psicoterapeuta.

ACT significa “Acceptance and Commitment Therapy”, ossia “terapia dell’accettazione e dell’impegno”. Ovviamente, come dico spesso ai pazienti che seguo, il termine “accettare” ha una connotazione piuttosto negativa in italiano rispetto all’inglese, tanto che il libro offre un sinonimo più adatto: lasciare spazio. Anche se smettere di cercare di allontanare ciò che non piace, piuttosto che lasciargli spazio, solitamente non è un processo automatico, aiuta a crescere. È così che questo tipo di intervento psicoterapico insegna alle persone a smettere di combattere contro se stesse, ossia contro i propri stati d’animo, le parti di sé che non accettano, le emozioni che non tollerano, ecc., per evolvere.

Il termine “impegno” si riferisce invece a delle vere e proprie azioni finalizzate ad andare incontro a ciò che conta davvero nella propria vita. Qui ci colleghiamo ai valori, quindi a ciò che dà importanza alla nostra esistenza. Si tratta pertanto di allinearsi con se stessi, cosa tutt’altro che scontata in un mondo così caotico e capace di mettere a dura prova la nostra attenzione. Ogni persona infatti, chi più e chi meno, rema contro se stessa mettendo in atto i cosiddetti “evitamenti”. Si tratta di strategie disfunzionali che in alcuni casi precludono addirittura la possibilità di vivere una vita soddisfacente, mentre in altri casi sono soltanto limitanti. Se bastasse sapere che affrontando si smette di evitare, ci riuscirebbero facilmente tutti, ma non è così automatico e nemmeno semplice. Ciascuno di noi nella quotidianità mette in atto evitamenti che, con un po’ di pratica, può imparare a riconoscere e superare. Ad esempio io evitavo di preparare tale recensione con l’idea che potrebbe non essere abbastanza esaustiva, ma poi, come vedete, l’ho fatta!

Il manuale inizialmente spiega in modo molto esaustivo che cosa è l’ACT per poi approfondire i concetti chiave, concetti che richiedono pratica in quanto è come imparare un nuovo sport. Non è infatti sufficiente spiegare verbalmente a un paziente che cosa deve fare affinché possa apprendere delle nuove abilità, esattamente come non è sufficiente spiegare solamente la teoria a una persona che intende imparare a sciare.

Tramite l’ACT il paziente ha infatti modo di fare pratica perché viene istruito e modellato dal terapeuta, nonché rinforzato automaticamente quando comprende le conseguenze benefiche derivate dalle sue azioni. Diventare persone più flessibili, capaci di vivere in linea con i propri valori e di osservare i pensieri prodotti automaticamente dal cervello senza diventarne parte, sono alcuni dei principali vantaggi che si possono acquisire tramite l’utilizzo dell’approccio ACT.

Una delle parti del testo che ritengo fondamentali riguarda il clima relazionale; viene messa in luce la possibile difficoltà del terapeuta del restare nel presente, in contatto aperto e compassionevole col paziente, come sarebbe invece opportuno. Ci sono numerosi spunti di riflessione utili a migliorare il proprio operato. Per concludere trovo che questo manuale sull’ACT, terapia con efficacia scientifica, sia un fondamento importante per i terapeuti che tendono a utilizzare un approccio integrato.

Anziani e adulti in età lavorativa a confronto: chi risponde meglio al trattamento psicologico?

La letteratura sostiene una simile efficacia tra gli anziani e gli adulti in età lavorativa degli interventi psicologici per la depressione, sebbene gli anziani potrebbero beneficiare meno di un trattamento specifico per i disturbi d’ansia.

 

Un quarto degli anziani sopra i 65 anni, soffre di un disturbo mentale depressivo o ansioso (Evans & Mottram, 2000; Gowling et al., 2016) particolarmente associato a questa età ad esiti negativi, come deterioramento cognitivo, demenza (Byers & Yaffe, 2011; Kazmi et al., 2021) e mortalità precoce (Saz & Dewey, 2001).

Sebbene la terapia cognitivo comportamentale (CBT) si sia dimostrata efficace (NICE, 2011), comportando meno effetti collaterali negativi dell’impiego di psicofarmaci (Carvalho et al., 2016), in molte parti del mondo, gli antidepressivi vengono impiegati più delle terapie psicologiche per il trattamento di ansia e depressione (Maust et al., 2017; Tamblyn et al., 2019), soprattutto tra gli anziani (Sanglier et al., 2011).

Probabilmente, alla base vi è la convinzione tra i medici che gli interventi psicologici in questo gruppo di pazienti siano meno efficaci (Mental Health Taskforce, 2016), mentre dall’altra parte sono gli stessi anziani che non credono di poter beneficiare della psicoterapia (Laidlaw et al., 2008).

Un confronto tra anziani e adulti in età lavorativa

La letteratura sostiene una simile efficacia tra gli anziani e gli adulti in età lavorativa degli interventi psicologici per la depressione (Cuijpers et al., 2018), sebbene gli anziani potrebbero beneficiare meno di un trattamento specifico per i disturbi d’ansia (Gould et al., 2012). Ulteriori indagini non sono state in grado di valutare l’impatto dell’età sull’esito della psicoterapia (Cuijpers et al., 2018) a causa del ridotto campione di studio e l’impossibilità di generalizzare i risultati perché studiati in contesti differenti. In generale, le prove sull’efficacia dei trattamenti psicologici di routine per gli anziani è limitata.

Eventuali differenze negli esiti delle terapie psicologiche tra anziani e adulti in età lavorativa, possono essere ricondotte alle condizioni di salute a lungo termine tra gli anziani, come l’artrite, il diabete, l’ipertensione, i problemi cardiaci e le malattie polmonari, tutte associate a menomazioni funzionali e impattanti sulla terapia (Callahan, 2001; Laidlaw et al., 2008). Queste problematiche vengono spesso diagnosticate in comorbilità ai disturbi mentali depressivo e ansiosi (Djernes, 2006), che possono insorgere dopo o essere già presenti, aumentando il rischio di prognosi infausta (Callahan, 2001).

Una ragione per cui gli anziani che afferiscono ai servizi di salute mentale abbandonano la terapia potrebbe rimandare alla presenza di tali condizioni fisiche comuni nella tarda età, che spiegano i peggiori esiti di trattamento rispetto alla popolazione di adulti in età lavorativa.

Valutazioni recenti effettuate nei servizi di trattamento psicologico in Inghilterra, dimostrano come gli over 65 abbiano tassi di recupero significativamente più alti (64,4%) dopo la terapia psicologica rispetto agli adulti in età lavorativa (50,2%) (Callahan, 2001).

A fronte di una previsione dell’aumento di circa il 60% degli over 65 entro il 2030 (He et al., 2016), è necessario comprendere l’efficacia della psicoterapia routinaria per gli anziani affetti da depressione ed ansia.

Anziani e psicoterapia: esiti post trattamento

Saunders et al. (2021) hanno valutato le differenze negli esiti post trattamento tra i pazienti più anziani (over 65 anni) e gli adulti in età lavorativa affetti da ansia e depressione, entrambi trattati con terapie psicologiche evidence based (come auto-aiuto guidato, terapia cognitivo-comportamentale o consulenza; Clark, 2018). Inoltre, è stato valutato l’impatto della comorbilità con una condizione fisica a lungo termine sull’esito della terapia.

Rispetto al campione totale (N= 100 179), le persone anziane che sono afferite tra il 2008 e il 2019 ai servizi di salute mentale in Inghilterra, erano solo il 3,8% e piuttosto sottorappresentate (Office of National Statistics, 2021). Complessivamente, le condizioni di disagio mentale riportate dagli over 65, erano meno gravi rispetto a quelle emerse negli adulti in età lavorativa. Inoltre, rispetto agli adulti più giovani, avevano una probabilità di 1,33 volte superiore di ottenere un recupero affidabile post trattamento, mentre il rischio di peggioramento era alquanto basso.

Sebbene la ricerca suggerisca che la presenza negli anziani di una condizione problematica di salute insorta in età tardiva in concomitanza ad una psicopatologia ansiosa o depressiva influisca negativamente a livello psicologico (Callahan, 2001), sorprendentemente, questa indagine ha riscontrato differenze minime negli esiti post trattamento tra gli over 65 con e senza una patologia fisica. Inoltre, l’impatto psicologico era maggiore tra gli individui in età lavorativa, che avevano ottenuto un recupero funzionale minore rispetto agli anziani. Il miglioramento era maggiore tra gli anziani con problematiche fisiche in comorbilità con un disturbo d’ansia per il quale richiedevano il trattamento.

Ne consegue che una patologia fisica concomitante non dovrebbe essere considerata un ostacolo all’ingresso di anziani in trattamento e nel raggiungimento di esiti psicologici favorevoli. Viceversa si tratta di una condizione più delicata per gli adulti in età lavorativa. Probabilmente, gli anziani sono in grado di adattarsi meglio alle condizioni fisiche avverse insorte in tarda età rispetto agli adulti più giovani, nei quali l’insorgenza di tali problematiche è certamente più inaspettata.

È emerso che il campione di anziani aveva una probabilità maggiore di ricevere interventi ad alta intensità ed una valutazione più dettagliata in fase preliminare che, rispetto agli adulti in età lavorativa, garantiva loro un intervento maggiormente su misura. Nonostante abbiano ricevuto meno sessioni, gli esiti positivi ottenuti dagli anziani enfatizza il valore di un trattamento che sia al contempo informato.

Sebbene da un lato alcuni medici ritengano che la psicoterapia per l’ansia e la depressione siano meno efficaci negli anziani (Mental Health Taskforce, 2016), e dall’altro gli anziani stessi credano di non beneficiarne (Laidlaw et al., 2008), i risultati dell’attuale studio sono preziosi nel contribuire a disconfermare la credenza che gli anziani siano intrinsecamente inflessibili e incapaci di cambiare.

Riuscire ad esplorare ed abbattere i potenziali ostacoli nei medici e negli stessi anziani per l’accesso ai servizi di cura, offrendo al contempo un supporto adatto alla persona, aumenterebbe l’accesso alla terapia psicologica per questa fascia delicata della popolazione.

Sarebbe interessante che la futura ricerca indaghi quali interventi si adattano al meglio alle condizioni fisiche insorte nella tarda età, per ridurre il rischio di ricaduta post trattamento e favorire una prognosi più favorevole.

Sticazzi, la suprema via della leggerezza – Recensione del libro

In un testo sincero ed aperto, l’autore ci espone la sua personale filosofia di vita. Non delle più bon ton, il mantra dello “sticazzi” diventa un refrain liberatorio ed emancipante.

 

Sono molte le barriere che una società, specialmente una da sempre avversa al rischio come quella italiana, impone ai suoi figli. Ogni tanto c’è bisogno di prendere le distanze rispetto alle aspettative, alle paure, separare quello che veramente conta per noi e cosa invece si può lasciare correre.

Il metodo “sticazzi” può essere usato, un po’ come il parmigiano, per spolverare le situazioni più varie della quotidianità e della vita, ma attenzione: non per ribellarsi mandando tutti a quel paese, ma per comprendere, liberare se stessi e rendere un piatto più buono, saporito, nutriente.

Mi perdonerà l’autore, chiaramente romano, per aver citato il parmigiano e non il pecorino. Il che ci rimanda direttamente al capitolo 4, nel quale l’autore ci racconta, purtroppo senza dovizia di particolari, come applicando il metodo “sticazzi”, cito testualmente: “ho avuto moltissimi rapporti occasionali”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Sticazzi 2021 di Andrea Pietrangeli Recensione del libro Fig 1

 

In questo periodo molti hanno avuto modo, o sono stati costretti, a fermarsi e riconsiderare se la propria vita quotidiana corrisponda a quello che davvero vogliono. Il libro di Pietrangeli può essere un simpatico test, per vedere quanto siamo in fase con noi stessi e i nostri valori e anche una guida, leggera, per vivere più serenamente.

Personalmente in certe parti l’ho trovato un po’ diretto, nel senso che l’autore dice “é cosi, te lo garantisco” (non testuale). Ma la filosofia “Sticazzi” consiste proprio nel farsi scivolare addosso questo genere di dichiarazioni prescrittive; è ok prenderne atto, ma anche giusto e lecito metterci la dovuta distanza per osservarle da fuori. È in effetti uno strumento molto potente.

 

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