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L’amo o non l’amo. Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner (2021) di Marta Venturini Drabik e Gabriele Melli – Recensione

L’amo o non l’amo è un libro di auto-aiuto edito Erickson e scritto da Marta Venturini Drabik e Gabriele Melli sulle Ossessioni che riguardano le relazioni sentimentali e il partner.

 

Finalmente. Un libro che mancava decisamente all’appello.

Per i terapeuti, per poter finalmente indirizzare i propri pazienti verso contenuti psicoeducativi esaustivi e in lingua italiana essenziali per una terapia con queste persone, e per coloro che sono direttamente coinvolti e ai quali il libro si rivolge esplicitamente.

Si tratta infatti di un libro di auto-aiuto sapientemente costruito; un libro che parla ai pazienti e racconta di pazienti con i quali (se si soffre di questa forma di ossessioni pure) sarà facile immedesimarsi, riconoscersi e di conseguenza cominciare dal primo step del processo di guarigione.

È noto infatti quanto sia importante in tutti i disturbi, ma nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC da ora in poi) in particolare, imparare a riconoscerlo, a vederne e comprenderne i meccanismi per cominciare il processo di distanziamento, anticamera necessaria della possibilità di portare i sintomi in remissione. La psicoeducazione in questi casi è già una forma di intervento terapeutico.

Il libro, prima di affrontare il cuore della tematica proposta, riserva qualche pagina per spiegare cosa sia il DOC, come funzioni, quali siano i sottotipi di ossessioni e compulsioni, spiegazione introduttiva semplice ma necessaria per addentrarsi poi nella spiegazione lineare e chiara di cosa sia il Doc da relazione.

La premessa fondamentale riguarda le origini di questa forma specifica forma di DOC con ossessioni pure. I dubbi, in questo caso, si posano sulla “giustezza” della relazione sentimentale, o delle caratteristiche del proprio partner (pp15).

I padri di questa forma di DOC sono due psicologi israeliani che per primi si sono occupati di studiare questo quadro sintomatologico, Dr Guy Doron e Dr Danny Derby (è consultabile il sito in inglese www.rocd.net).

Come spesso accade, la ricerca prende spunto dalla clinica, e i due cominciarono a interessarsi di questa tematica proprio verificando come i loro pazienti e moltissime altre persone, in blog e siti appositi, si arrovellassero “ossessivamente” alla ricerca della certezza che il partner fosse quello “giusto” per loro.

Questo solitamente porta a mettere in atto comportamenti compulsivo-rassicuratori che portano a loro volta un aumento della sofferenza per l’impossibilità di trovare risposte e conferme.

Tutto ciò tende a formare un circolo vizioso che incrementa la quantità di dubbi, l’allontanamento dalla propria sfera emotivo-affettiva per cui è sempre meno facile capire i propri sentimenti, in un processo ricorsivo di mantenimento.

Chi soffre di questo disturbo infatti è pervaso dal dubbio che la persona che è al suo fianco possa non essere quella giusta, che i sentimenti che prova possano non essere sufficienti o abbastanza intensi, che non provi l’attrazione “che si dovrebbe provare” o che il proprio compagno/a non sia abbastanza bello, intelligente, spigliato/a (ecc…) e che quindi non vada bene.

Lo scheletro del libro è semplice e chiaro: una prima parte volta a comprendere cosa sia il DOC da relazione, come si strutturi e cosa lo mantenga e quali possano essere i fattori predisponenti.

La seconda parte è invece un ottimo strumento per autovalutare la propria situazione con test e domande per capire se e quanto questo problema coinvolge la persona (vengono infatti proposti i questionari ROCI Relationship Obsessive Compulsive Inventory, il PROCSI Partner-Related Obsessive Compulsive Inventory e il DOCS Dimensional Obsessive Compulsive Scale); la terza invece si occupa della fase più “terapeutica” e di cambiamento, fermo restando la missione di voler essere un libro self-help senza la pretesa di volersi sostituire ad un percorso psicoterapeutico spesso fortemente necessario per venire fuori da questo problema.

È importante infatti comprendere la differenza tra chi soffre di questo disturbo e chi sperimenta un momento relazionale difficile, in cui i propri sentimenti possono essere messi in discussione.

Nel primo caso infatti vi è l’intolleranza a momenti di difficoltà, di normalità, o definibili come “bassi” nella relazione. Nonché la conseguente sensazione che sperimentare uno di questi possa essere vissuto come una “minaccia” o come “sbagliato”.

Si distinguono due categorie di ossessioni, quelle che riguardano la relazione e quelle che riguardano il partner. Tra le prime le sottocategorie riguardano ossessioni circa l’amore che si prova nei confronti del partner “lo amo abbastanza?”, l’amore che il partner prova nei nostri confronti “mi ama abbastanza?”, o l’adeguatezza della relazione “è la relazione giusta per me?”

Tra le ossessioni sulle caratteristiche del partner, invece, possiamo distinguere quelle che si focalizzano su caratteristiche fisiche “è abbastanza bello/a?” quelle sulle caratteristiche morali “ è abbastanza per bene?”, quelle sulle caratteristiche sociali “è abbastanza simpatico/a?”, sulla competenza “è abbastanza di successo?”, quelle sulla stabilità emotiva “è abbastanza stabile emotivamente?”.

Solitamente le situazioni in cui si manifestano sono momenti in cui la relazione si trova di fronte importanti decisioni (matrimonio, figli, convivenza..), oppure quando si percepiscono naturali oscillazioni, o ancora in situazioni di confronto con le altre persone o le altre coppie che tendono ad apparire, per una serie di bias, sempre migliori.

Questi dubbi portano alla messa in atto di strategie, come accennato sopra, che hanno lo scopo di rassicurarsi e annientare l’incertezza. Con l’evidente epilogo di aumentare l’ansia, quindi i dubbi, quindi la sofferenza, proprio per l’impossibilità di trovare una risposta con quel grado irreale di certezza ricercato.

Evitamento, controllo dei pensieri, richiesta di rassicurazioni o tentativi di autorassicurarsi, sono alcuni dei comportamenti messi in atto che mantengono il problema.

Alla base di tutto vi è la tendenza a ricercare la relazione e/o il partner spinti da una serie di regole (rigide) su come “dovrebbe essere” o su come “dovrebbero funzionare le cose”, regole che appaiono rigide, perfezionistiche, estreme, catastrofiche e sprovviste di alcuna sfumatura.

Per quanto riguarda la parte finale del libro, quella relativa al cambiamento, i casi clinici riportati fungono da supporto esplicativo per provare a mettere in pratica alcune strategie per iniziare ad agire differentemente all’interno del circolo vizioso ossessivo.

Il primo step è l’auto-osservazione mediante diario (vengono riportati alcuni esempi di schede compilate dai pazienti del libro) secondo il modello cognitivo ABC (che viene debitamente fatto conoscere sin dall’inizio del manuale) alla ricerca, e presumibile scoperta, di credenze sottostanti il DOC e di relativi comportamenti di mantenimento.

Si passa poi alla fase di scoperta di tutte le valutazioni secondarie prima, e di credenze disfunzionali poi, sottostanti la problematica durante la quale vengono proposti esercizi da poter provare a svolgere individualmente. Il tutto costantemente sostenuto anche da supporti grafici in cui vengono descritti figurativamente i fattori di mantenimento e i circoli viziosi.

La fase finale, come in tutte le terapie cognitivo comportamentali per il DOC, prevede l’esposizione con prevenzione della risposta (ERP) (vi sono riportati esempi di gerarchia e di modalità con le quali vengono stilate) e la prevenzione delle ricadute.

In questo tipo di problematiche l’autodiagnosi è spesso difficile, sebbene capiti spesso che il paziente si avvicini al problema con “il dubbio che si possa trattare di doc”, ma il giudizio del clinico diventa particolarmente rilevante proprio per la natura stessa del problema e l’incessante ricerca di rassicurazione. Pertanto sebbene nasca come un libro self help, il suo perfetto posto può essere all’interno di un percorso di terapia. Proprio perché, all’avviso di chi scrive, è sinceramente qualcosa che mancava e di enorme utilità, per il paziente in primis, ma anche per il terapeuta, per poter fornire materiale sapientemente e facilmente scritto che possa essere utilizzato.

Completa il libro l’appendice con “indicazioni per il partner” di estrema importanza poiché questo problema, sebbene riguardi la persona singola, difficilmente non coinvolge anche il partner.

Anzi è fondamentale che anche quest’ultimo sia a conoscenza delle dinamiche di funzionamento (in quanto è egli stesso ad essere oggetto delle ossessioni) al fine che possa comprendere che non è un problema che riguarda lui o la relazione dapprima, e per imparare, in seguito, modalità più efficaci di gestione del disturbo, come il parlarne apertamente e l’evitare rassicurazioni o comportamenti che rafforzino la spirale negativa.

Decisamente un libro che non c’era, ma che serviva!

Dal “Festival delle Emozioni” impariamo a controllare le emozioni con l’aiuto della musica

Ad inizio ottobre si è tenuta a Terracina la settima edizione del “Festival delle Emozioni”, tra i temi affrontati in questa edizione grande spazio è stato dedicato al rapporto tra emozioni e musica.

 

Come la musica riesce a far nascere in noi delle emozioni e come ci può aiutare ad esercitare un controllo sui nostri stati emotivi. A questo argomento sono stati dedicati diversi incontri, riportiamo in sintesi quanto emerso dal doppio appuntamento sul tema “La musica come fonte di emozioni” e “Regolare le emozioni attraverso la musica“.

Obiettivi del Festival

Il Festival nasce come approfondimento culturale di tipo cognitivo con lo scopo di favorire una crescita complessiva della persona attraverso la conoscenza, l’analisi e l’elaborazione delle emozioni. Ad esse viene attribuito un ruolo rilevante per la vita personale e sociale di ciascuno di noi. Formano la nostra identità, influenzano il nostro modo di pensare, le nostre abitudini, il rapporto con noi stessi e con gli altri.

A questo scopo il Festival si fa promotore di una serie di seminari, workshop, attività ludiche e laboratori con studiosi, scrittori, politici, educatori, psicologi, criminologi ecc. nella convinzione che educare alle emozioni, a riconoscerle e regolarle, sia di grande aiuto per migliorare la propria vita e accrescere le proprie potenzialità.

Emozioni e musica

La musica è forse la forma di arte che più di ogni altra, e in modo più immediato, riesce a trasmetterci emozioni. È anche la forma di arte che incontriamo più frequentemente e in modo più casuale. Spesso ascoltiamo musica senza volerlo, riceviamo stimoli musicali dall’ambiente che ci circonda senza aver scelto volontariamente di farlo. Ciò nonostante, quando le note arrivano al nostro cervello producono degli effetti, suscitano reazioni emotive e fisiologiche che prendono il nome di emozioni.

L’insorgere di emozioni dipende da diversi fattori, alcuni insiti nelle caratteristiche stesse della melodia che stiamo ascoltando, pensiamo al ritmo, altri esterni ad essa ma conseguenti, a tratti ascrivibili alla personalità di chi ascolta.

Nell’ascolto, infatti, ciascuno di noi proietta un bagaglio di esperienze personali che lo condizionano. Vissuti, ricordi, sensazioni, che riaffiorano nel momento in cui degli stimoli esterni (in questo caso musicali) raggiungono la nostra mente e che influenzano la nostra valutazione di quegli stessi stimoli. A queste esperienze più direttamente attribuibili alla nostra sfera personale, si vanno ad aggiungere condizionamenti di tipo sociale, culturale ed ambientale. Il contesto in cui viviamo è in grado di esercitare un’influenza sul nostro modo di valutare gli stimoli e di rispondere ad essi attraverso il giudizio sociale e le opinioni che ci aspettiamo di ricevere in risposta alle nostre reazioni e alle nostre scelte.

L’importanza dell’empatia

L’intensità delle emozioni che ci derivano dall’ascolto di una melodia è fortemente condizionata dalla nostra disponibilità a stabilire una sintonia con quello che ascoltiamo.

Vi siete mai chiesti perché la musica dal vivo riesce ad emozionarci molto più di quella che possiamo ascoltare da una radio o dalle cuffiette del nostro smartphone? Una delle risposte è proprio nella nostra disponibilità all’ascolto. Se decidiamo di uscire di casa per andare ad un concerto, questo implica una scelta e una volontà precisa, di conseguenza uno stato d’animo più aperto ad entrare in sintonia con quello che ascolteremo. Al contrario, durante l’ascolto di musica registrata siamo spesso impegnati contemporaneamente in altre attività che ci distraggono fungendo da elementi di disturbo, con il risultato di inibire la nostra capacità di immedesimarci in quello che ascoltiamo.

Determinante, nel nostro modo stabilire un contatto con un’esperienza di tipo musicale, è infatti la nostra capacità di empatizzare, cioè di mettere in atto quell’atteggiamento di apertura e comprensione verso l’altro (in questo caso il musicista) che ci porta a condividere i suoi i processi psichici consentendoci di metterci nei suoi panni, assumendo la sua prospettiva nella valutazione della situazione specifica.

Regolare le emozioni attraverso la musica

Quando ascoltiamo musica, normalmente lo facciamo con l’intento di rilassarci oppure decidiamo di utilizzarla con uno scopo, che può essere quello di cambiare, mantenere o rinforzare emozioni e stati d’animo che stiamo sperimentando in quel momento. L’ascolto di una musica o di una canzone ha una funzione auto-regolativa che consiste in queste fasi:

  • ripercorrere l’esperienza emotiva che stiamo vivendo (per rimanerne in contatto e intensificare i nostri stati emotivi);
  • rievocare i ricordi passati (spesso associati al brano che ascoltiamo);
  • ricercare la vicinanza di un amico simbolico (attraverso l’empatia di cui abbiamo parlato);
  • distrarci (per concentrarci su un altro stato d’animo che non sia quello attuale).

Entrare in una nuova prospettiva ci consente di esaminare una situazione da una differente angolazione, consentendoci di prendere le distanze da noi stessi e sperimentare un altro punto di vista.

Prendiamo ad esempio l’ascolto di una canzone triste in un momento in cui il nostro umore è orientato alla malinconia. Ascoltare musica triste intensifica certamente i sentimenti dolorosi che già proviamo, ma ci fa sentire in contatto con le nostre emozioni. Assolve quindi ad una funzione “catartica” che porta a una contemplazione comprensiva e supportatrice, come se si volesse vivere la tristezza in maniera ancora più profonda per poi sentirsi sollevati e poter riemergere dal proprio stato d’animo negativo.

Un esempio pratico

La trattazione teorica del rapporto tra emozioni e musica si è conclusa con un laboratorio-esperimento basato sull’ascolto di musica dal vivo. Al pubblico presente sono stati fatti ascoltare diversi ritmi e accordi così da dare una dimostrazione pratica di come questi possano influire sulla nostra respirazione.

Successivamente, con la partecipazione di volontari a cui sono stati forniti degli strumenti a percussione, si sono create in modo estemporaneo delle musiche che rispondessero all’idea che ciascuno dei partecipanti, singolarmente, aveva delle emozioni base: paura, rabbia, tristezza, gioia, arrivando a dimostrare che il codice usato dalla musica per trasmettere emozioni è comunemente condiviso.

 

I principali problemi che affliggono i giovani adulti

Attualmente, in letteratura, esistono poche ricerche che si sono occupate di indagare quali siano i fattori di stress che colpiscono maggiormente i giovani adulti.

 

La maggior parte degli studi si è concentrata su particolari tipi di stressor, come l’esser stati vittime di traumi (Romana Alparone, Pagliaro, & Rizzo, 2015) o sui problemi legati specificamente all’arrivo all’università (Pennebaker, Colder, & Sharp, 1990). Nel complesso, l’utilizzo di categorie ristrette nelle ricerche precedenti ha ostacolato la comprensione di ciò che i giovani adulti considerano come i maggiori problemi della loro vita.

Inoltre, nessuna ricerca ha valutato il disagio emotivo associato ai diversi tipi di stressor e si possiedono informazioni esigue anche sulle differenze di genere rispetto ai principali problemi della vita. I dati esistenti indicano che gli uomini esperiscono più problemi legati al lavoro rispetto alle donne (Matud, 2004), mentre quest’ultime riportano più fattori di stress relativi alla famiglia e ad altre relazioni sociali ed esperiscono un maggior disagio emotivo rispetto agli uomini (Brougham et al., 2009).

Uno studio sui fattori di stress tra i giovani adulti

Attingendo agli scritti di 315 partecipanti universitari, ai quali è stato chiesto di scrivere per quattro giorni consecutivi, 20 minuti al giorno, sul più grande problema della loro vita, uno studio preso in esame si è proposto di superare i limiti delle ricerche precedenti, esaminando i più grandi problemi di vita dei giovani adulti. In particolare, gli autori hanno analizzato gli elaborati al fine di comprendere quali fossero i maggiori problemi nella vita dei partecipanti; se vi fossero differenze di genere rispetto alla tipologia di problemi riportati da uomini e donne; quale fosse il livello di stress emotivo tra i soggetti con diversi tipi di problemi e se ci fossero differenze di genere nel livello di disagio emotivo associato al problema più grande nella vita degli individui. Le analisi condotte hanno permesso di individuare sei macro-categorie di problematiche, tra cui: l’ambito accademico, le relazioni sentimentali, la famiglia e, più nello specifico, la paura di deludere i genitori, la paura del futuro e del fallimento e l’immagine corporea.

I risultati hanno offerto una valutazione dettagliata dei principali problemi nella vita dei giovani adulti e contribuiscono, più in generale, ad affrontare domande di ricerca fino ad ora trascurate e a sfidare alcune ipotesi di vecchia data sulle differenze di genere.

Nello specifico, i risultati indicano che, in linea con le ricerche precedenti, i principali problemi di vita tra i laureandi includono gli studi, le relazioni e l’incertezza sul futuro. I principali problemi relativi all’ambito accademico riguardavano per lo più i voti e la gestione del tempo, mentre, per ciò che concerne l’ambito relazionale, le preoccupazioni concernevano le rotture e gli amori non corrisposti. Inoltre, le analisi hanno rivelato la presenza di due nuove categorie di problemi, che non erano state citate nelle ricerche precedenti: salute e benessere e paura del fallimento. È bene specificare che le preoccupazioni inerenti alla salute e al benessere riguardavano per lo più la salute mentale.

Diversamente dalla ricerca precedente, i presenti risultati hanno indicato che uomini e donne avevano la stessa probabilità di identificare come maggiori problemi aspetti inerenti agli studi e alle relazioni romantiche. Questi risultati sfidano le ipotesi convenzionali secondo cui gli uomini sono più orientati al raggiungimento di risultati rispetto alle donne e che le donne sono più propense a sperimentare difficoltà relative alle relazioni sentimentali rispetto agli uomini.

I risultati hanno rivelato che le persone il cui principale problema di vita era caratterizzato da abusi o traumi passati, o dalla salute e dal benessere altrui, hanno sperimentato i più alti livelli di disagio emotivo.

Questi risultati aumentano la comprensione di quali siano i fattori di stress che probabilmente ostacolano o affaticano i giovani a livello psicologico, rendendoli più a rischio di contrarre gravi problemi di salute mentale e fisica (Foster et al., 2008).

Giovani adulti e salute mentale

Dunque, i giovani adulti vivono determinati aspetti della loro vita in modo particolarmente angosciante e, quanto appena detto, sfida il pensiero comune di molti adulti, che ritengono che i giovani d’oggi vivano con estrema superficialità le proprie vite, concentrandosi su aspetti futili, quando, in realtà, non è così. Si tratta di una generazione caratterizzata dalla paura di fallire e da un estremo sentimento di inadeguatezza, generato dall’idea che non bisogna perder tempo e che ogni giorno sarà necessario svegliarsi e correre più in fretta degli altri per essere migliori.

Pertanto, tenendo conto che l’insorgenza di molti disturbi mentali, come la depressione maggiore, il disturbo bipolare e l’abuso/dipendenza da sostanze avviene tra i 18 e i 24 anni (Kessler et al., 2012), esaminare la prevalenza e l’impatto emotivo dello stress potrebbe migliorare le politiche di prevenzione delle malattie e della promozione della salute (Foster, Hagan, & Brooks-Gunn, 2008) tra i soggetti in questa fascia d’età, consentendo ulteriormente di migliorare la qualità delle loro vite.

 

Aaron T. Beck: Il rasoio di Occam e la forza della semplificazione

Il modo migliore per ricordare Aaron T. Beck, scomparso oggi primo novembre del 2021, è riflettere ancora una volta sul suo contributo allo sviluppo della psicoterapia cognitivo comportamentale (cognitive behavioural therapy o CBT).

Nacque a Providence, Rhode Island, negli Stati Uniti, da genitori immigrati ebrei ucraini. Frequentò la Brown University, laureandosi nel 1942. Dopo aver completato i suoi internati e specializzazioni nel 1950, Beck divenne psichiatra presso l’Austen Riggs Center, un ospedale psichiatrico privato nelle montagne di Stockbridge. Inizialmente psicoanalista e allievo di David Rapaport, a partire dagli anni ’60 iniziò a sviluppare il suo modello di CBT.

Come si sa, nel modello CBT di Beck i disturbi emotivi sono considerati in relazione -a volte diretta- con errori di valutazione cognitiva della realtà da parte della mente e la terapia CBT di Beck consiste nella correzione di questi errori. Il contributo di Beck è stato quello storico di positiva economizzazione efficiente delle procedure cliniche, all’epoca perse in modelli psicodinamici dotati di intuizioni brillanti ma che a tutto obbedivano eccetto che al principio di semplificazione del rasoio di Occam. La deriva della psicoanalisi verso una complessità crescente ma disordinata dei principi teorici e verso una pratica clinica sempre meno accessibile (trattamenti di insostenibile lunghezza e intensità: anni di analisi con più sedute a settimana) portò a una difficoltà a valutare la reale efficacia dell’analisi e a una sfiducia nell’utilità clinica della psicoterapia, culminata con uno scoraggiante articolo di Eysenck (1952).

La CBT di Beck permise trattamenti di durata e intensità ragionevole la cui efficacia poteva essere valutata (Rush et al., 1977). L’economicità della CBT di Beck fu la sua forza, perché pur essendo affetta da alcuni limiti, essa agiva come il rasoio di Occam generando quel modello scientifico e clinico di psicoterapia ragionevolmente verificabile e affidabile che fino a quel momento era mancato. La CBT non produceva solo teorie e tecniche, ma forniva razionali -comprensibili al buon senso e al tempo stesso rigorosi- dell’intervento sulla sofferenza emotiva. Essa faceva dipendere la psicopatologia emotiva da modelli del disfunzionamento mentale costruiti senza inferenze troppo audaci e difficilmente verificabili ma ragionevolmente accessibili sia alla coscienza del paziente e osservabili sia durante il colloquio dallo psicoterapeuta che nella raccolta dati della ricerca empirica. Insomma, tutte le ipotesi erano controllabili a tutti i livelli:

  1. popolare (il paziente);
  2. clinico (il terapista);
  3. scientifico (la ricerca).

 

In breve, la CBT di Beck era un modello a bassa inferenza. Un modello che proponeva che la sofferenza emotiva e i comportamenti disfunzionali, quelle emozioni che tanto ci fanno soffrire e quelle azioni che ancora di più ci danneggiano, non sono frutto d’impulsi misteriosi e inaccessibili –insomma inconsci- ma dei nostri pensieri consci di tipo negativo e disfunzionale. Pensieri di relativo facile accesso alla coscienza del paziente e all’accertamento sia clinico in seduta mediante semplici domande (ad es., “cosa le è passato per la testa in quel momento in cui aveva l’ansia?”, con risposte del tipo: “non mi sentivo adeguato sul lavoro”, “che con gli amici non so mai cosa dire”, “sono completamente incapace di trovare un partner”) che in studi empirici, condotti con i questionari e le scale di valutazione. Ecco quella concisione e controllabilità di cui abbiamo parlato: siamo in ansia e passiamo la vita a nasconderci perché pensiamo di essere in pericolo; siamo depressi e non ci impegniamo in nulla perché nulla ci sembra sensato, divertente e valevole del nostro impegno; siamo arrabbiati e ce la prendiamo con gli altri perché pensiamo che qualcuno o qualcosa ingiustamente ci ostacoli.

Dunque, nulla d’incomprensibile ma tutto a portata di mano. Nel modello CBT di Beck la sofferenza emotiva dipende quindi da ragioni mentali prossimali, vicinissime al problema emotivo: quello che hai pensato un attimo prima di star male, errori di pensiero somiglianti ai pensieri giusti (chiamiamoli così) ma che trasformano la realtà in un incubo: sconfitte parziali trasformate in fallimenti globali della propria vita, esami universitari scambiati per prove terrificanti, e così via.

E altrettanto a portata di mano era il cambiamento emotivo e clinico, ottenibile semplicemente mettendo in discussione questo modo di pensare accessibile alla coscienza. Questo significa che nella CBT non solo la teoria della sofferenza ma anche la teoria della terapia e del cambiamento clinico è a bassa inferenza: ovvero, è possibile modificare i propri stati mentali ragionando sull’utilità pragmatica e sull’adesione logica alla realtà dei propri pensieri espliciti. Questo ha consentito alla CBT di essere il primo modello di psicoterapia che forniva dei metodi osservativi affidabili per accertare la psicopatologia, per valutare la correlazione tra psicopatologia e sintomi e per misurare la correlazione tra modificazione di variabili psicopatologiche che spiegassero la sofferenza emotiva e il miglioramento clinico.

Quindi, sebbene i processi mentali alla base della sofferenza emotiva siano più complessi e implicano non sola la corretta lettura della realtà ma anche la gestione (dis)funzionale dei propri stati emotivi (“se provo ansia, non lo sopporterò” oppure “se provo ansia, allora sono un incapace”), La felix culpa di Beck fu che intuì che le distorsioni di processo possono presentarsi alla coscienza come contenuti semplificati sul pericolo esterno o sulla incapacità personale e soprattutto che esse siano trattabili in termini di semplici contenuti valutabili criticamente mediante un esame di realtà, il classico questioning di Beck:

  • che probabilità c’è di essere bocciati all’esame?
  • che prove ci sono del fatto che sono / non sono capace?
  • che prove ci sono che posso / non posso tollerarlo?

 

Un altro aspetto qualificante fu che la CBT operazionalizzò, ovvero definì in maniera praticabile e controllabile la componente operativa dell’intervento (la cosiddetta “tecnica”), rendendo possibile la replicabilità dell’esecuzione dei trattamenti a ogni terapeuta adeguatamente formato in maniera corretta. Questa definizione della tecnica consentì alla CBT di essere tra le prime psicoterapie manualizzate e soprattutto la prima psicoterapia di cui si poteva verificare l’efficacia come si faceva per un farmaco: per la prima volta furono messi a punto degli interventi di psicoterapia chiari e operativi e la cui efficacia era dimostrabile (Beck, 1976).

Un altro punto di forza della CBT fu la specificità diagnostica e medica delle sue variabili, per cui fu in grado di medicalizzare -nel senso migliore del termine- la psicoterapia, ovvero di produrre modelli specifici per singoli disturbi psichiatrici. Ad esempio, il depresso (il modello di Beck fu pensato inizialmente per la depressione) ha pensieri di completa perdita di fiducia in sé stesso, nel mondo che lo circonda e nelle proprie prospettive di vita. Non è la tristezza generata dall’impossibilità di ottenere qualcosa a cui si tiene, ma una completa perdita di senso. Stesso discorso per l’ansia patologica: essa va al di là di un’accettabile preoccupazione perché l’individuo ansioso ritiene che una certa situazione, ad esempio un esame, non sia semplicemente difficile, ma estremamente impegnativa, forse addirittura pericolosa, e di non essere all’altezza della prova.

Insomma, l’applicabilità psichiatrica della CBT fu il fattore che permise quella medicalizzazione che talvolta oggi è vista come una colpa della CBT e che invece all’epoca rese un favore a tutte le psicoterapie, che smisero di essere considerate un possibile bluff, qualcosa che forse non funzionava come aveva suggerito Eysenck (1952). Permise quella valutazione di efficiacia che fino a quel momento era riservata solo ai farmaci riuscendo nell’impresa di dimostrarne l’effetto positivo sulla depressione (Rush, Beck, Kovacs, & Hollon, 1977).

La forza della CBT

  1. Operazionalizzazione della sofferenza emotiva: Definizione osservabile e operativa della psicopatologia come disfunzionalità mentale accessibile alla coscienza;
  2. Osservabilità del processo psicopatologico: Modello ragionevole e osservabile, ovvero a bassa inferenza del rapporto tra psicopatologia e sintomatologia;
  3. Operazionalizzazione del processo terapeutico: Definizione osservabile e operativa dell’intervento (questioning, ristrutturazione, esposizione) come modificazione della disfunzionalità mentale;

Amnesia di origine psicogena: tipologie ed esiti

L’amnesia psicogena consiste nella perdita di memoria a causa fattori psicologici.

 

L’amnesia psicogena può essere globale, ossia coinvolgere tutti i ricordi autobiografici di un individuo, oppure specifica alla situazione (Kopelman, 1987). Quest’ultima si riferisce ad una lacuna nella memoria per un incidente traumatico e può insorgere in una varietà di circostanze: come disturbo da stress post-traumatico (Brewin et al., 2011) o l’essere vittima di un reato (Andrews et al., 2000; Mechanic et al., 1998).

Sono stati identificati tre fattori predisponenti per l’amnesia psicogena globale (Kopelman, 1987): un grave stress precipitante come una crisi coniugale o emotiva come un lutto, una crisi finanziaria o una guerra (Kanzer, 1939); una storia di umore depresso e ideazione suicidaria (Berringron et al., 1956); e una precedente amnesia neurologica transitoria (Berringron et al., 1956).

Nonostante siano state identificate storie di traumi infantili, abusi sessuali e problemi di abuso di alcol e sostanze (Coons & Milstein, 1992), la scarsa ricerca a riguardo rende difficile generalizzare i fattori predisponenti.

Le difficoltà neuropsicologiche nei casi di amnesia psicogena globale sono piuttosto variabili; mentre la memoria autobiografica retrograda è compromessa, la memoria anterograda può essere intatta, lievemente o gravemente compromessa (Barba et al., 1997). Per quanto concerne le possibilità di recupero, la prognosi è generalmente buona (Parfitt & Gall, 1944) e condizionata da fattori ambientali (Schacter et al., 1982), sebbene in molti casi l’amnesia persista nel tempo (Kapur, 2000; Serra et al., 2007).

Negli studi di neuroimmagine funzionale volti a studiare l’amnesia psicogena, sono state riportate alterazioni nell’attivazione e inibizione prefrontale (Glisky et al., 2004; Markowitsch et al., 1997), alterazioni del lobo temporale (Yasuno et al., 2000), alterazioni corticali posteriori (Botzung et al., 2007), o una combinazione di tutti questi aspetti (Magnin et al., 2014). Questa variabilità può riflettere le differenze nelle sindromi descritte.

Data la carenza di studi su questa tipologia di amnesia e dei suoi sottotipi, l’indagine di Harrison et al., (2017), ha esaminato 53 casi di amnesia psicogena al fine di descrivere ed esplorare le differenti manifestazioni, confrontandole con un gruppo di pazienti neurologici.

I pazienti studiati riportavano quattro diverse sindromi cliniche di amnesia psicogena: 1) con fuga psicogena (perdita del senso dell’identità personale con un periodo di vagabondaggio di pochi giorni fino a un mese; Schacter et al., 1982); 2) con fuga psicogena ed amnesia focale retrograda (con perdita di memoria più persistente) (Kapur, 1993); 3) amnesia retrograda focale psicogena, a seguito di un episodio neurologico minore e 4) lacune di memoria per cause psicologiche. Sono emerse importanti differenze cliniche e psicometriche tra questi gruppi con significativo valore prognostico.

Nell’amnesia psicogena, i gruppi con la componente di fuga psicogena sperimentavano più di frequente la perdita dell’identità personale, mentre il mancato riconoscimento dei familiari era più comune nel gruppo con amnesia retrograda focale.

Tutti i gruppi con amnesia psicogena riportavano la presenza comune di una storia di disturbi neurologici, una diagnosi di depressione, problemi familiari/relazionali o finanziari/lavorativi. Tra le problematiche estremamente comuni vi era l’aver vissuto un infanzia problematica, l’abuso di alcol o di sostanze, mentre il disturbo di somatizzazione e il disturbo da stress post-traumatico erano meno frequenti di quanto era stato previsto.

L’amnesia psicogena si differenziava da quella causata da fattori neurologici, per la presenza della perdita dell’identità personale, mentre i sintomi neurologici erano sempre presenti nel gruppo con episodio neurologico. Inoltre, la depressione, l’incapacità di riconoscere i membri della famiglia, problemi familiari o relazionali, problemi finanziari o occupazionali e una storia di disturbo da stress post traumatico, erano presenti maggiormente tra coloro con amnesia psicogena. I pazienti di genere femminile, riportavano di frequente uno stress emotivo o un evento significativo antecedente l’amnesia di origini neurologiche (Quinette et al., 2006).

Infine, i ricordi autobiografici venivano recuperati similmente nell’amnesia con fuga psicogena e in quella per cause neurologiche. In generale, i gruppi con amnesia psicogena riportavano al follow up un miglioramento sostanziale nella memoria, evidenziando una prognosi migliore rispetto a quanto ha suggerito la letteratura precedente.

Globalmente, i soggetti con amnesia psicogena sono stati trattati per la loro depressione con farmaci antidepressivi, identificando e affrontando le preoccupazioni psicosociali sottostanti (crisi relazionali, problemi finanziari, lutti) e, in caso di persistente deficit, mediante un’intervista orientata al rievocare i ricordi  (McKay & Kopelman, 2009). Alcuni autori hanno proposto una forma di intervista sotto sedazione (Ruedrich et al., 1985) o ipnosi (Garver et al., 1981), ma i trattamenti attuali più efficaci incorporano tecniche della terapia cognitivo comportamentale e della terapia di accettazione/impegno (Cassel & Humphreys, 2016).

Nel tentativo di comprendere l’amnesia psicogena sono stati proposti due diversi modelli. La teoria di Markowitsch (2002) e Staniloiu & Markowitsch ( 2014) considerava il rilascio di ormoni legati allo stress (a seguito di disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene), come fattore chiave che avrebbe comportato una “sindrome da blocco amnesico”. Il modello di Kopelman (2000) invece, enfatizzava il ruolo di una grave crisi precipitante, umore depresso ed esperienza passata di amnesia neurologica transitoria, come fattori in grado di innescare una perdita della memoria autobiografica.

 

Formulazione del caso LIBET e modello cognitivo comportamentale: la conferma empirica

Con soddisfazione e orgoglio segnaliamo la pubblicazione della prima conferma empirica della procedura di formulazione del caso LIBET (Life Themes and Semi-Adaptive Plans—Implications of Biased Beliefs, Elicitation and Treatment) elaborato dal nostro gruppo di ricerca.

 

È un lavoro open access, gratuitamente accessibile a tutti e lo trovate cliccando qui oppure qui in formato PDF

La validazione empirica della formulazione del caso LIBET è la prima conferma concreta dell’affidabilità di una procedura di formulazione del caso che non intende essere l’ennesimo nuovo modello di psicoterapia tra i tanti che si stanno moltiplicando (e molti con la loro conferma empirica) ma, al contrario, si propone come una procedura di formulazione e impostazione di una terapia già affermata, la psicoterapia cognitivo comportamentale, che integra alcune tradizioni ma tutte interne all’ambito di questa psicoterapia, dall’attenzione alle distorsioni comportamentali e cognitive di stampo funzionalista all’interesse per la storia di vita e gli scopi personali di ispirazione evolutiva. Inoltre la LIBET si propone come conferma empirica non solo di se stessa come procedura ma anche della validità della formulazione diatesi – stress, formulazione che è alla base dell’intero modello cognitivo-comportamentale. Infine la LIBET, nei prossimi sviluppi, aspira a fornire euristiche e quando possibile anche indicatori per le scelte terapeutiche e per i loro razionali, scelte ancora una volta tendenzialmente interne al campo clinico cognitivo-comportamentale ma, dove possibile, anche esterne purché dotate di un razionale compatibile con le euristiche cognitivo comportamentali di scelta clinica strategica della LIBET. Insomma, se questa impresa riuscirà, si tratta di elaborare un modello coerente e testabile di integrazione clinica scientificamente fondata che vada oltre il pur legittimo eclettismo fondato sul buon senso clinico.

In questo primo articolo si descrivono e si validano i primi due assi organizzativi delle variabili LIBET, i “temi di vita” e i “piani semi adattivi”, termini che non si limitano a ribattezzare gli assi classici del modello cognitivo standard di Beck, le credenze centrali e le strategie di fronteggiamento, ma li rielaborano tenendo conto dell’aspetto evolutivo ed esistenziale del significato personale sia delle credenze centrali (che per questo diventano temi di vita) che delle strategie di fronteggiamento (che per questo piani semi adattivi). Si tratta insomma di riassorbire quella evoluzione -che qualcuno chiama costruttivista- delle variabili razionali di Beck, operata però in termini di integrazione del modello di Beck e non di sua confutazione.

Naturalmente la validazione della procedura LIBET non finisce qui ma proseguirà con la validazione dell’asse dei processi, ulteriore integrazione proposta dalla LIBET che aspira quindi ad assimilare anche la terza onda processualista in questo suo sforzo di riassorbimento delle correnti disperse del modello cognitivo comportamentale: comportamentismo, razionalismo, evolutivismo (preferiamo questo termine a quello di costruttivismo) e processualismo.

 

10×10? Un risultato oltre ogni aspettativa! – In occasione del decimo anniversario di SoM

Il 25 Ottobre 2021 State of Mind ha compiuto 10 anni! In tutti questi anni non abbiamo mai perso di vista il nostro obiettivo: promuovere e diffondere conoscenza nel campo delle Scienze Psicologiche e non solo. 

 

Conoscenza accessibile tanto ai professionisti, quanto ai meno esperti. Perché crediamo che una solida cultura psicologica sia il primo passo per sensibilizzare e promuovere benessere.

In occasione di questo importante giorno abbiamo pubblicato le parole di Sandra Sassaroli che meglio narrano la storia di State of Mind, dagli inizi ad oggi, di cui vi consigliamo la lettura: State of Mind compie 10 anni! – Editoriale di Sandra Sassaroli

10 anni, 10 punti di forza

Per questo 10° anniversario, vorremmo anche condividere quelli che sono stati e ancora sono i 10 punti di forza che hanno fatto di State of Mind il giornale di Psicologia numero 1 in Italia.

  • 1 – I NOSTRI AUTORI, LE VOSTRE IDEE

Più di 10.000 articoli, frutto della passione e dell’entusiasmo dei nostri numerosissimi collaboratori. Diamo voce alle idee e ai contributi di chi scrive, il cui lavoro ha reso, nel corso degli anni, State of Mind la rivista per eccellenza in campo psicologico.

  • 2 – INFORMAZIONE VERIFICATA E ATTENDIBILE

Forniamo un’informazione sì comprensibile a tutti ma seria, basata non su opinioni del tutto personali ma su riferimenti bibliografici attendibili e consultabili.

  • 3 – UNO SGUARDO CONTINUO ALLE NOVITÀ

State of Mind è un webjournal che cerca di stare al passo con la continua evoluzione della Psicologia, della Psichiatria e delle Neuroscienze. Ogni giorno informiamo i nostri lettori sulle novità dal campo della ricerca grazie alla nostra sezione Flash News

  • 4 – IMPORTANTI APPROFONDIMENTI

SoM è diventato il primo webjournal di Psicologia in Italia grazie agli oltre 600 argomenti trattati dai nostri autori e alle più interessanti rubriche pensate per i lettori che intendono approfondire i temi più curiosi, più importanti o più attuali delle Scienze Psicologiche. Tra le rubriche più seguite: La LIBET nelle narrazioni, FluIDsex, Psicologia Digitale, Monogamia & Tradimenti.

  • 5 – CI AGGIORNIAMO E AGGIORNIAMO

Da 10 anni cerchiamo di aggiornarci e aggiornare i nostri lettori tramite le collaborazioni con i convegni organizzati da Università e Scuole di Specializzazione e tramite una sezione dedicata agli studi, ai poster e alle slides di ricerca. Discutiamo inoltre, ogni giorno, delle novità dal mondo accademico – professionale, grazie ai reportage dai congressi e alle recensioni di saggi e manuali.

  • 6 – EXPLORING THE MIND WITH GREATEST MINDS

Su State of Mind le interviste ai più noti esperti di fama internazionale, per esplorare la mente e i meccanismi che la governano, per comprendere la terapia e le sue dinamiche, ma soprattutto per conoscere più da vicino le persone dietro le più grandi teorie e le più celebri scoperte.

  • 7 – GRANDI CLINICI ITALIANI

Come diffondere al meglio conoscenza se non attraverso le parole di chi crea conoscenza? Nel corso degli anni abbiamo intervistato i clinici e gli studiosi più illustri del panorama italiano. E abbiamo pubblicato articoli firmati dai più importanti esperti in materia, tra cui: Giovanni Maria Ruggiero, Sandra Sassaroli, Roberto Lorenzini, Giancarlo Dimaggio, Paolo Moderato, Francesco Mancini, Riccardo Dalle Grave, Antonio Scarinci e Gabriele Caselli

  • 8 – DIBATTITI E CONFRONTI

State of Mind è un punto di riferimento per gli esperti, che sulle nostre pagine spesso si confrontano, facendo così nascere importanti dibattiti che risuonano in tutto il panorama clinico e scientifico. Tra questi ricordiamo il dibattito su Trauma e psicoterapia e sulla centralità della relazione terapeutica nel trattamento psicoterapico.

  • 9 – LA PSICOLOGIA PER TUTTI

Rendiamo accessibile la Psicologia a tutti e nelle più diverse forme, non solo attraverso gli articoli più divulgativi, ma anche attraverso i video e i podcast rivolti al grande pubblico

  • 10 – NON SOLO PSICOLOGIA

Non solo Psicologia, descriviamo e riflettiamo su ciò che succede intorno a noi, dedicando ampio spazio all’attualità, all’arte, al cinema, alla letteratura e alla cultura.

Qualche curiosità su SoM

Qual è stata la giornata con più view? E il mese con più view? Chi è l’autore più letto? E gli articoli più letti? In occasione dei dieci anni di SoM abbiamo pubblicato un interessante articolo con le risposte a queste e ad altre domande: Diamo i numeri!! 10 anni di State of Mind

Ringraziamenti e progetti futuri

Nonostante i tanti traguardi raggiunti in questi primi 10 anni, non smettiamo di guardare avanti. Altri progetti ci aspettano, tra cui un nuovo sito, una più ampia sezione dedicata ai temi divulgativi e una maggiore condivisione sui canali social pensata per tutti. I contributi di chi vorrà unirsi a noi in questo percorso saranno sempre benvenuti.

Quale occasione migliore dunque per ringraziare i nostri lettori e tutti i nostri autori? È grazie alla vostra curiosità, al vostro interesse e alla vostra passione che State of Mind è diventato tutto questo.

 

Il militare e la sua famiglia: due facce della stessa medaglia

Madri, padri, mogli, mariti, figli più o meno grandi, fratelli…tutti i familiari, l’altra faccia della medaglia, vivono da casa la missione dei militari.

Mariasilvia Rossetti e Serena Pierantoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

“Mamma, papà, da grande voglio fare il militare!”, più o meno è un mestiere che inizia così. A volte, perché in famiglia vi è già qualcuno che ha percorso questa strada e, allora, quel bambino ha il desiderio di seguire le orme del proprio genitore o parente, altre perché è una passione che si sviluppa crescendo.

Questa scelta, però, coinvolge un po’ tutte le persone che ruotano intorno a chi sceglie di fare il militare, soprattutto quando arriva la notizia che non vorresti mai arrivasse: “Devo partire per andare in missione”.

Non puoi dire di no? Per quanto? Dove? È pericoloso? Quando torni? Sono solo alcune domande che, chi resta a casa, si pone ogni giorno, emotivamente impreparato a gestire tale situazione.

Madri, padri, mogli, mariti, figli più o meno grandi, fratelli…tutti i familiari, l’altra faccia della medaglia, vivono da casa la missione.

Cosa succede quando chi parte lascia a casa un bambino piccolo o che ancora deve nascere? Come impatta questo lavoro sulle dinamiche familiari? Quali sono i risvolti? Quali problematiche scaturiscono?

Lo stress inizia prima ancora della partenza per la missione e colpisce entrambi i membri della famiglia, nonché i figli: chi parte si prepara psicologicamente e fisicamente per quello che dovrà affrontare; chi resta deve prepararsi a gestire la famiglia da solo e vive con la preoccupazione circa la sicurezza del coniuge in missione (Lieberman & Van Horn, 2013).

Le famiglie di militari vivono in un clima di stress persistente, rispetto alle famiglie civili, in quanto sperimentano spesso la separazione a causa di posti di lavoro lontani da casa, addestramenti, esercitazioni e missioni, per periodi più o meno lunghi, vivono con la consapevolezza del rischio associato al servizio militare, sia esso danno fisico, psicologico o, nei casi più gravi, la morte. Questi fattori stressogeni associati alla vita militare portano ad un continuo sconvolgimento nelle dinamiche relazionali e familiari (Daigle, 2013). Pertanto, queste famiglie potrebbero costituire una popolazione altamente vulnerabile, rispetto alla popolazione generale, qualora i fattori stressogeni vengano gestiti in modo non funzionale, con ripercussioni sia a livello fisico, psicosociale che psicologico.

Tra i sintomi a livello fisico si riscontrano disturbi del sonno, affaticamento, stanchezza o poca energia, mal di testa, tachicardia, variazioni nell’appetito e cambiamenti di peso, i quali aumentano all’aumentare del livello di stress percepito (Padden& Posey, 2013; Burton, Farley & Rhea, 2009). Ovviamente, i sintomi e le problematiche, dipendono dalla lunghezza, dalla durata e dalla frequenza con cui un militare parte per la missione.

Gli effetti di una missione sulla famiglia dei militari

Una revisione sistematica condotta nel 2014 (Creech, Hardley& Borsari) ha analizzato circa 40 studi svolti per indagare gli effetti che una missione ha sui genitori, i bambini e gli adolescenti, mostrandone il suo impatto pervasivo e negativo. In particolare, hanno rilevato che i bambini che crescono in “famiglie militari” hanno significativamente più problemi di salute mentale, tra cui ansia, depressione, problemi comportamentali esternalizzanti, fino all’uso di sostanze e all’ideazione suicidaria, rispetto ai figli di “famiglie civili”. Pressley et al. (2012) hanno rilevato come i bambini più grandi, figli di famiglie militari, avevano maggiore probabilità di ricevere una diagnosi da parte del dipartimento di salute mentale e di essere ricoverati in ospedale per tentativi di suicidio.

Una ricerca volta a determinare gli effetti causati da un parente militare che parte per una missione sul numero di visite mediche ambulatoriali che coinvolgono i figli, di età compresa tra i 3 e gli 8 anni, ha rilevato che aumentano dell’11% il numero di visite volte a valutare la salute mentale e le problematiche comportamentali; aumentano del 19% i disturbi del comportamento e del 18% i disturbi legati allo stress (Gorman, Eide& Hisle-Gorman, 2010). Tale ricerca ha, inoltre, evidenziato l’interazione tra la missione e il genere del genitore militare: quando è l’uomo ad essere militare i tassi di visite ambulatoriali aumentano, rispetto a quando ad essere militare è la donna. Questi risultati suggeriscono che nel primo caso vi sono un maggiore riconoscimento dei problemi del bambino da parte dell’adulto e della capacità di portare questi problemi all’attenzione di un professionista. Le visite ambulatoriali aumentano anche nella condizione in cui i figli sono più grandi e i genitori coniugati.

Il senso di sicurezza e di protezione che un bambino piccolo sviluppa, soprattutto nei primi anni di vita, dipende totalmente dalla disponibilità fisica ed emotiva che viene mostrata dai suoi genitori. È facile, quindi, comprendere quanto possa essere difficile per un bambino piccolo la lunga assenza di un suo genitore. Nel caso in cui il genitore parta per una missione quando il piccolo è ancora in grembo o nei suoi primi mesi di vita, mesi in cui si creano, si formano le basi e stabiliscono le relazioni di attaccamento, al ritorno potrebbe riunirsi con un bambino che, non solo è molto diverso e cresciuto rispetto a quello che hanno lasciato, ma che non ha alcun ricordo del genitore, sia esso il padre o la madre; inoltre, non ha nessuna relazione consolidata dalla quale attingere (Mutter, 2004).

Infatti, mentre i bambini più piccoli potrebbero non comprendere appieno il motivo per cui un genitore deve andarsene e potrebbero reagire con rabbia, i bambini più grandi e gli adolescenti devono affrontare la lontananza del genitore durante una fase critica e rapida dello sviluppo sociale ed emotivo, che è già impegnativo di suo, in quanto caratterizzato da scelte scolastiche da effettuare, modificazioni corporee, nonché la costruzione dell’identità.

A partire dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 a New York, sono aumentati i periodi di permanenza in missione e questo ha comportato un aumento dei disturbi di salute mentale, incluso il disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Le ricerche, inoltre, mostrano che più è lunga la durata della missione, maggiori sono le difficoltà a cui la famiglia e i figli vanno incontro. Oltre al già citato PTSD, aumentano i rischi per la depressione, i disturbi del sonno, lo stress coniugale e i divorzi (Negrusa, Negrusa & Hosek, 2014; Tanielian, Tanielian& Jycox, 2008). Le reazioni dei coniugi alla partenza per una missione riguardano irritazione, tensione, incredulità, aumento della distanza emotiva, sintomi somatici, shock, sentimenti di rabbia verso chi parte.

Ciò che influenza queste problematiche non è la missione militare in sé, ma lo stress che questo evento provoca e l’eventuale presenza di problematiche psicopatologiche nel genitore che resta a casa. I fattori di rischio e i fattori di resilienza interagiscono tra loro e vanno ad influenzare le relazioni psicosociali tra il genitore che resta a casa e il bambino, le quali, a loro volta, producono conseguenze dirette sul bambino (Palmer, 2008). L’aumento dello stress nel genitore che resta a casa e l’assenza del genitore militare, impattano negativamente sulla qualità delle interazioni genitore-figli: probabilmente i bambini ricevono meno contatti fisici ed emotivi, rispondono allo stress dei genitori e apprendono la loro stessa modalità di rispondere allo stress. I bambini, siano essi neonati o in età prescolare, sono abili nel leggere le espressioni facciali, nell’interpretare il tono della voce del genitore, percepiscono che qualcosa è cambiato. Sentono lo stress provato dal genitore e potrebbero rispondere con maggiore irritabilità che, a sua volta, fa scaturire reazioni di rabbia e impazienza nell’adulto, che poi si sente in colpa per non essere emotivamente, né fisicamente, disponibile per il bambino (Lieberman & Van Horn, 2013).

Gli effetti del pendolarismo dei militari sulla famiglia

Oltre alla missione, che prevede la permanenza all’estero di vari mesi, un altro fenomeno importante, che impatta sul contesto familiare, è quello del pendolarismo (Ferri, 2021). Sembra una soluzione che garantisce l’unità della famiglia, ma solo a prima vista, in quanto oltre a sopportare le ore del viaggio, il militare pendolare trascorre dentro la propria casa un numero ristretto di ore. Questo comporta una limitazione nel dialogo e nell’interazione con i propri cari che potrebbe portare a stanchezza, irritabilità e difficoltà di comunicazione, che, se gestite in modo non funzionale e scorretto, potrebbero condurre a problematiche correlate allo stress, quali depressione, traumi e disturbi di vario genere.

Tuttavia però, non sempre è così. Nel caso di un adolescente, l’assenza di un genitore potrebbe anche avere risvolti non negativi e portare ad uno sviluppo maggiore dell’autonomia e del senso di responsabilità, che andrebbero a costituire un terreno molto fertile per la resilienza, cioè la capacità di affrontare un evento stressante o traumatico e di saper riorganizzare positivamente la propria vita di fronte alle difficoltà. Inoltre, i bambini i cui genitori sono in grado di rispondere in modo più sensibile ai loro bisogni emotivi e hanno una relazione forte come coppia probabilmente avranno capacità più sane per la regolazione delle emozioni e per lo sviluppo psicosociale generale (Paris, DeVoe, Ross, & Acker, 2010).

Il ricongiungimento tra militari e famiglia

Missione, trasferimento e il ricongiungimento, tanto atteso, sono tre fenomeni che causano stress sulla famiglia militare (Drummet, Coleman & Cable, 2003).

Anche il momento del ricongiungimento tra il militare che rientra dalla missione e la sua famiglia è caratterizzato da un alto livello di stress, seppur un momento tanto atteso, in quanto include la paura del rifiuto, sentimenti di esclusione, fino alla depressione. Dopo il ricongiungimento potrebbero aumentare i conflitti e le difficoltà coniugali, nonché i tassi di divorzio, in quanto la comunicazione tra adulti risulta essere alterata, l’intimità è diminuita a causa del periodo passato distanti e, spesso, si trovano in disaccordo sulla disciplina e l’educazione dei figli o su scelte che sono state prese durante il periodo trascorso separati. La famiglia deve di nuovo riorganizzarsi.

La salute mentale dei bambini figli di militari

Vi sono poi altri fattori che influenzano la salute mentale dei bambini che crescono in famiglie militari.

Come già accennato, uno dei più importanti è la salute mentale dei genitori, sia di quello militare che di quello che resta a casa e si occupa della prole. Questo aspetto non si discosta molto dalle dinamiche che si creerebbero anche in una famiglia civile, dove uno dei due genitori ha problematiche psicopatologiche, ma se si vanno ad aggiungere ai fattori stressogeni dovuti alla missione, espongono la famiglia ad un maggior rischio di vulnerabilità. Se, ad esempio, la madre mette in atto una risposta di tipo depressivo, anche i figli potrebbero rispondere rispecchiando tali sintomi. Altro fattore che potrebbe pesare sulla salute mentale del bambino è la differenza individuale tra ogni bambino, nonché lo stile di personalità (Cramm et al., 2019).

Le ricerche mostrano che a fare la differenza è anche il ramo dell’esercito in cui il genitore presta servizio e il grado che occupa, in quanto, questo ultimo aspetto è indicatore sia della responsabilità, che dello stato socio economico della famiglia. Altro aspetto a volte sottovalutato, riguarda le notizie mediatiche che, spesso, risultano essere distorte o incomplete e, pertanto, vanno ad incrementare il livello di stress di chi resta a casa.
Una revisione sistematica della letteratura ha evidenziato come le strategie di coping di un bambino dipendono dalla sua età e dallo sviluppo raggiunto, dalla salute mentale e la capacità di coping del genitore che resta a casa, dalla salute mentale di entrambi i genitori, dalle vulnerabilità preesistenti, dalla capacità di resilienza e dalle risorse presenti (Bello‐Utu & DeSocio, 2015). Un altro studio del 2016 (Lester et al.,), condotto per esaminare l’associazione tra esposizione al combattimento, l’adattamento piscologico dei genitori, la genitorialità, il funzionamento familiare e l’eventuale instabilità, ha messo in relazione salute-comportamento dei genitori, stile della genitorialità e adattamento sociale ed emotivo del bambino (di età compresa tra 0 e 10 anni) durante il periodo in cui un genitore era schierato. I risultati mostrano che all’aumentare del periodo di esposizione alla missione, aumentano le difficoltà di comunicazione che diventa meno sana, si riduce il coinvolgimento affettivo e la modalità di risoluzione dei problemi risulta essere meno efficace. Questi processi familiari, a loro volta, aumentano lo stress percepito, influenzano negativamente la capacità di resilienza familiare e il benessere del bambino. In conclusione, la maggiore sensibilità dei genitori e un buono stile comunicativo sono associate a un migliore adattamento del bambino.

Alla luce di quanto detto, è necessario che entrambe facce della stessa medaglia, vengano supportate psicologicamente, sia a livello di prevenzione, che durante i periodi di maggiore stress, attraverso la psicoeducazione, gruppi di sostegno per militari e civili e, se necessari, percorsi di psicoterapia.

 

Disturbo dissociativo dell’identità

Il disturbo dissociativo dell’identità è costituito dall’esistenza di personalità (alterazioni dell’identità) differenti e disgiunte nella stessa singola persona.

 

La Dissociazione è un meccanismo di difesa che compromette la coscienza vigile attraverso la mancanza di alcuni elementi come la coscienza di sé, del tempo e del contesto. Secondo il DSM-5, essa viene definita come “Separazione di gruppi di contenuti mentali dalla consapevolezza. Spesso conseguenza di un trauma psichico, essa consente all’individuo di mantenere l’adesione a due verità contraddittorie rimanendo inconsapevole della contraddizione”. È importante sottolineare come la dissociazione risulta essere il distacco di un concetto dal suo significato emotivo e dall’affetto connesso (Martinotti et al., 2015).

Secondo i criteri del DSM 5, il disturbo dissociativo dell’identità è quindi costituito da:

A. Disgregazione dell’identità caratterizzata da due o più stati di personalità (descritta talvolta come possessione) che comprende marcata discontinuità del senso di sé e della consapevolezza delle proprie azioni accompagnata da correlate alterazioni di: affettività, comportamento, memoria, coscienza, percezione, cognitività, funzionamento senso-motorio. Questi segni e sintomi possono essere osservati da altri e segnalati dall’individuo.

B. Ricorrenti amnesie nella rievocazione di eventi quotidiani, importanti informazioni personali e/o eventi traumatici non riconducibili a ordinaria dimenticanza.

C. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.

D. Il disturbo non è parte tipica di una pratica culturale e religiosa largamente accettata.

E. I sintomi non sono attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o di un’altra condizione medica (APA, 2013).

Il Disturbo (denominato in precedenza disturbo della personalità multipla) è costituito dall’esistenza di personalità (alterazioni dell’identità) differenti e disgiunte nella stessa singola persona. Numerosi studi evidenziano che, come detto anche precedentemente, trauma e dissociazione sono collegati tra loro. Janet (1889) parlò per primo, infatti, di “désagrégation” come l’indebolimento dell’abilità di sintetizzare delle diverse funzioni mentali (sensazioni, ricordi, cognizioni e affetto) con il subentro del trauma. Ciò vuol dire che sensazioni e ricordi venivano eliminati dalla coscienza. Freud, invece, volle parlare di “scissione” negli studi sull’isteria (1898) evidenziando come la scissione fosse nient’altro che repressione attiva (rimozione) alla generazione del sintomo. La ragione potrebbe essere, in questo caso, l’incongruenza dell’idea da eliminare con l’aggregato delle rappresentazioni dominanti dell’Io (differentemente da Janet che evidenziava il deficit dell’Io). Questo processo causa così una patogenesi (Martinotti et al. 2015; Siracusano et al., 2014).

Importante è sottolineare che, da un punto di vista psicoanalitico, la dissociazione è quindi un meccanismo di difesa con cui la persona conduce i conflitti emozionali mediante il mutamento delle funzioni della coscienza. Nella prospettiva cognitivo-evoluzionistica, invece, la dissociazione è la mancanza di collegamento tra i diversi ambiti della coscienza di sé-con l’altro. Ciò favorirà l’assenza di una regolazione fisiologica delle emozioni.

Per quanto riguarda la sintomatologia del disturbo, essa può manifestarsi all’improvviso, con l’evidenza che non vi siano collegamenti tra le differenti personalità. Quando avviene l’episodio dissociativo si hanno delle sensazioni corporee estranee, accompagnate da un eccessivo stato d’ansia e da sensazioni di deformazione corporea. Si provano anche vertigini, preoccupazioni somatiche, alterata percezione del tempo, paura di impazzire e continue rimuginazioni sul proprio status. Si aggiungono anche depressione, ansia e pensieri suicidari, incapacità di affrontare situazioni di stress, sia emozionale che lavorativo, stress e problemi relazionali, identità confusa, percezione distorta di ciò che ci circonda, senso di separazione da sé stessi o dalle proprie emozioni e perdita di memoria selettiva (Martinotti et al. 2015; Siracusano et al., 2014).

Le diverse forme del disturbo dissociativo dell’identità

Vi sono inoltre due tipi di dissociazione con differenti sintomatologie: forma di possessione e forma di non possessione. La forma di possessione si distingue poiché le personalità multiple sono evidenti ai familiari e alle altre persone; le personalità sono infatti completamente differenti tra di loro. Nella forma di non possessione, invece, le molteplici personalità non sono evidenti, anzi il soggetto prova sensazioni di irrealtà e di distacco del proprio sé. Sente di perdere il controllo del proprio agire e di essere soltanto osservatore della sua vita.

L’epidemiologia indica che il 5% dei pazienti psichiatrici viene colpita e che tale disturbo è più diffuso nel genere femminile.

Le possibili cause del disturbo dissociativo dell’identità

Possibile causa potrebbe essere l’influenza di più fattori come i molteplici episodi di stress elevato, la fissazione difensiva alle normali tappe evolutive e i traumi psichici ripetuti. Altri fattori potrebbero essere quelli genetici poiché uno studio su coppie di gemelli monozigoti e dizigoti ha sottolineato che la causa di tale disturbo sia la predisposizione genetica, indipendentemente dal contesto. Inoltre possono aggiungersi anche fattori biologici poiché il processo di neurosviluppo può essere compromesso davanti ad un fenomeno traumatico a causa del rilascio di fattori neurochimici. In ultimo si parla di fattori ambientali come la causa di un disturbo dissociativo poiché, come hanno affermato varie teorie psicologiche, la dissociazione è una difesa della mente di fronte ad eventi traumatici. Il 50% dei pazienti psichiatrici è stato vittima di maltrattamenti ed episodi di abusi fisici e sessuali in età infantile (Martinotti et al. 2015; Siracusano et al., 2014).

Quando il disturbo non viene trattato in modo giusto, l’evoluzione della dissociazione diventa cronica e spesso con mancanza di remissione spontanea.

Comorbilità e disagnosi differenziale per il disturbo dissociativo dell’identità

La Comorbilità: solitamente nel campione clinico di pazienti con disturbo dissociativo si rileva anche la presenza di disturbi dell’umore, disturbo di somatizzazione, disturbo ossessivo-compulsivo, schizofrenia e disturbo da stress post-traumatico.

Diagnosi differenziale: il disturbo spesso potrebbe essere confuso con un disturbo psicotico poiché le voci interne vengono scambiate per pseudoallucinazioni; la perdita di controllo, invece, è scambiata per segni del disturbo formale del pensiero. Altra diagnosi differenziale può essere fatta con il disturbo post traumatico, poiché spesso persone con disturbo post traumatico hanno anche un disturbo dissociativo, ma è indispensabile cercare quei sintomi che non ci sono in un paziente con post-trauma come ad esempio intrusioni disgregative a causa della dissociazione degli stati del sé, cambiamenti a causa delle varie personalità, amnesie per vari giorni. Anche i disturbi convulsivi possono essere confusi poiché i soggetti con disturbo dissociativo hanno spesso sintomi simil-convulsivi e crisi parziali complesse. Inoltre si aggiungono i disturbi di conversione, amnesia dissociativa e disturbo di derealizzazione e depersonalizzazione (momenti di irrealtà e di estraniamento dall’ambiente e momenti in cui si assume il ruolo di osservatore esterno ai propri pensieri e sensazioni) (Martinotti et al., 2015; Siracusano et al., 2014).

Trattamento per il disturbo dissociativo dell’identità

In conclusione bisogna capire come trattare tale disturbo. È indicato un trattamento farmacologico (inibitori selettivi della ricaptazione di serotonina- SSRI e betabloccanti), ma soprattutto di tipo psicoterapico, ovvero mediante l’approccio psicodinamico che permette la possibilità di unire le parti scisse garantendo una sola personalità e un miglior funzionamento integrato. L’obiettivo è far conoscere le varie identità tra loro, l’una con l’altra, accettandosi come parti legittime del sé e negoziando per risolvere i loro conflitti (Siracusano et al., 2014, Martinotti et al., 2015).

Oltre alla psicoterapia individuale, i pazienti possono scegliere la terapia dialettico-comportamentale DBT (Linehan, 1993a, 1993b), la desensibilizzazione e rielaborazione mediante i movimenti oculari (EMDR; Shapiro, 2001), la psicoterapia sensomotoria (Ogden et al., 2006), le terapie di gruppo.

 

“Cartoline in tempo surreale”. La fantasiosa realtà di un progetto – Recensione

Il progetto che ha portato alla pubblicazione del libro Cartoline in tempo surreale. Messaggi dallo spazio allontanato nel pieno corso della pandemia ha mirato a creare un’alternativa al silenzio siderante cui la malattia ha costretto e continua a costringere.

 

Se c’è una cosa che la pandemia non è riuscita a toglierci è la capacità di reinventarci. La pressione con cui siamo stati spinti a modificare tutte le nostre abitudini, e a crearci nuovi stili di vita, ha trovato un fido alleato in quella flessibilità di pensiero che spinge all’adattività, e crea vie d’uscite anche dove sembra difficilissimo trovarne. La fantasia, relegata con eccessiva fretta come un fattore ludico ad esclusivo appannaggio dei bambini, ci ha aiutato a portare a termine imprese all’apparenza insostenibili, facendo nascere un flusso di idee a loro volta produttive e generative di opportunità.

Al contempo, l’impossibilità di uscire ci ha spinto verso l’indagine del nostro universo interiore. Così come il divieto di andare avanti ha disegnato la traiettoria di un viaggio a ritroso, alla riscoperta di gesti ed abitudini che ci sono parsi all’improvviso un’utile alternativa all’immobilità assoluta.

Alla luce di ciò, possiamo chiederci legittimamente se si sia trattato davvero di una regressione. O se magari, questo scartabellare tra le dimensioni più intime del Sé, si sia rivelato il segnale di una crescita interiore, il passo avanti verso la conquista di nuovi significati di vita. Forse era necessario fermarsi un po’. Al di là della pandemia. E fare luce laddove per troppo tempo ci siamo illusi di poter vedere anche al buio.

Da cartoline a libro: la “magia” di un processo trasformativo

Sembra questo l’intento del progetto attuato da Lavinia Fagiuoli e Maddalena Giusto, nel pieno corso della pandemia: creare un’alternativa al silenzio siderante cui la malattia ha costretto e continua a costringere, lasciando al contempo tracce vive e suggestive di tutte quelle emozioni che, vittime di un isolamento forzato, non hanno potuto essere comunicate, condivise, simbolizzate.

Ogni elemento di questo progetto appare insolito, curioso, quasi incredibile: a partire dal titolo, che catapulta da subito in una dimensione in cui il contatto con la realtà non è così prioritario.

Cartoline da un tempo potenziale – messaggi da uno spazio allontanato: una presa di coscienza, o forse di posizione, da parte delle autrici, che, in una sorta di avvertimento comunicano al lettore ciò a cui si stanno approcciando, spingendolo a non aspettarsi nulla di canonico e ordinario, in una situazione in cui il concetto stesso di normalità si è notevolmente relativizzato.

Il risultato è uno scenario frammentato, delimitato da contorni spazio-temporali fortemente diluiti; un luogo arcaico e indefinito in cui i legami sociali si sono dispersi, e l’unico modo per raggiungersi reciprocamente è stabilire un contatto a distanza.

Per riuscire ad iconizzare questo paesaggio interiore, a sua volta riflesso di una realtà esterna disintegrata, le ideatrici del progetto hanno scelto di realizzare una vera e propria cartolina, con tanto di messaggio e rappresentazione grafica di un luogo ipotetico da cui si vuol mandare un saluto, o forse una semplice traccia di Sé, a destinatari altrettanto generici.

L’esperimento, nato come uno dei tanti mezzi creativi con cui infrangere la solitudine imposta dall’esilio pandemico, si è infine sistematizzato, assumendo i contorni di un autentico piano di lavoro: è così che le cartoline sono state prodotte ad intervalli regolari, e il gioco in cui le autrici si sono improvvisate postine di una realtà parallela, ha trovato accoglienza all’interno di un libro che ne raccoglie i frammenti in una funzione “contenitiva”. 26 cartoline in tutto, con un’ultima aggiunta, ad uso e consumo del lettore: la presenza di due cartoline vuote – da riempire ed inviare liberamente al destinatario di preferenza. Ulteriore contributo che va a consolidare l’intento comunicativo – relazionale alla base del progetto.

Dal particolare al collettivo: il senso corale al di là del sé

Le cartoline raffigurate nel libro si presentano come schegge di una realtà sincretica, anomala, in cui nulla è consueto: a partire dal contenuto verbale, che non è certo il classico saluto che ci aspettiamo di trovare sul retro di un souvenir di viaggio. Si tratta piuttosto di messaggi estemporanei, disgiunti l’uno dall’altro; voci stridenti, brevi, salienti, e per questo ancor più suggestive. Sono scorci di emozioni, affetti condensati che cercano disperatamente di uscire da se stessi per raggiungere la dimensione dell’alterità: a volte lo fanno per trasmettere speranza, altre volte sono tinti di tristezza ed impotenza, in altre occasioni hanno il sapore di una provocazione, strali sarcastici che raggiungono il lettore colpendolo al cuore, con la loro punta affilata. Alcuni risuonano come espressioni di saggezza dal valore metaforico, pronunciate per dare coraggio, letteralmente, a quanti credono di non farcela. Altri emergono da un silenzio arcaico come inviti alla riflessione, altri testimoniano la voglia di ricominciare.

In alcuni possiamo percepire l’amarezza di un rimpianto, la nostalgia di un ricordo, il rammarico di un congedo o il dolore per uno sbaglio a cui non si può rimediare, e al quale, in fondo, avremmo dovuto pensare prima. Sono domande, valutazioni, consigli, talvolta persino sfrontati, tanto appaiono diretti e lapidari; si presentano definiti ma mai completamente saturi: chiunque avrebbe potuto scriverli, chiunque può riconoscersi in essi e dar luogo a quella risonanza emotiva che spinge a condividere il dolore per renderlo meno inaccettabile. Meno distruttivo. È un affascinante collage di emozioni. Un insieme di verità individuali che assumono un respiro inevitabilmente collettivo, in cui la dimensione puramente privata viene travalicata da un intento corale, quasi archetipico, che traspare nell’intera opera.

È grazie a questo aspetto universalizzante se al termine della lettura si percepisce un’impressione globale di simmetria, quasi di ordine logico-sequenziale. Come se questo esperimento grafico narrativo – nato all’ombra di un colorato guazzabuglio di intenti e contenuti- riuscisse a mettere in ordine dimensioni caotiche, selvagge, pericolosamente alimentate da una contingenza traumatica.

La pandemia ha avuto l’effetto paradossale di metterci a nudo, pur costringendoci a mascherarci. E in questa sottrazione di identità ci ha spinto a ritrovare noi stessi, in un fantasioso quanto necessario viaggio condotto nelle profondità endopsichiche. Dove queste frasi giacevano, probabilmente da tempo immemore, e che la solitudine pandemica ha solo aiutato ad emergere. Parole letteralmente gridate, dal profondo di quello spazio allontanato preannunciato nel titolo, che a ben pensarci risuona come lo spazio potenziale di cui parlava Winnicott (1960) in cui è il gesto spontaneo, la verità del Sé più autentico ad avere la meglio sulle falsità dell’apparenza.

In questo scenario improbabile, eppure così drammaticamente realistico, anche il confine dicotomico tra realtà e fantasia diventa incerto, dando vita ad uno spazio di confine, una terra di mezzo in cui è possibile trovare rifugio ed evacuare angosce disintegranti. Una sorta di ventre psichico, di holding materno, dall’innegabile valore salvifico.

Il provocatorio surrealismo della grafica

L’omaggio alla nudità emozionale da cui l’opera trae ispirazione si riflette anche nel suo aspetto grafico, simile al riflesso di un contesto “disintegrato” in cui la realtà ha perduto ogni potere, perché sconfitta da una fantasia impetuosa che consente di simbolizzare flussi emotivi altrettanto irruenti. Un po’ come avviene nei disegni dei bambini, ove l’elemento realistico risulta sopraffatto da un intento sensoriale, un senso di onnipotenza narcisistica che aiuta a controllare le angosce di un mondo sconosciuto e minaccioso.

Le immagini, icastiche sebbene non collegate al contenuto specifico dei messaggi, trasportano in un altrove immaginario che consente di rimanere aggrappati ad una parvenza di realtà e di fendere un silenzio schizoide; al contempo, l’energia pulsionale trova la propria gestalt in un disegno consapevolmente “provocatorio”, in cui le componenti razionali vengono totalmente ignorate: compaiono donne che cavalcano pistole o si arrampicano su bicchieri da cocktail, uomini che nascondono la testa sotto il pavimento, figure indefinite in sella ad un tappeto volante, conigli che escono dal cilindro.

Il realismo visivo viene superato dalla forza di una pulsione emotiva pressante, per certi aspetti aggressiva, di cui si riconoscono i tratti nelle linee spezzate, negli angoli duri e gutturali, nelle simmetrie totalmente scomposte, nelle dimensioni non rispettate, nelle proiezioni ignorate. Gli stessi colori non sembrano voler dar conto di una realtà attendibile, ma di un paesaggio interiore in cui l’elemento cromatico è soltanto l’espressione di uno stato d’animo. Un’emozione che nell’elemento grafico trova canale espressivo immediato, e che col suo variegarsi multiforme riesce a fendere il grigiore indifferenziante imposto dalla pandemia. Per ricordare che al di là di un vuoto apparente esistiamo ancora, e siamo uno diverso dall’altro.

Il disegno si rivela nuovamente un mezzo utile ad “addomesticare” emozioni disregolate ed esteriorizzare paure amorfe che rischierebbero di annichilire. Ma è soprattutto un mezzo per fondersi e confondersi con l’altro, nella consapevolezza che la comunicazione del proprio vissuto interiore è lo specchio di un afflato relazionale necessario alla sopravvivenza.

Il senso del progetto

Per quanto la pandemia abbia costretto all’isolamento, dunque, non è possibile rassegnarsi. Il bisogno di raggiungere l’altro non cessa di mostrarsi prioritario, insostituibile. Le ideatrici del progetto lo hanno sapientemente ribadito, quasi gridato, oltretutto avvalendosi di un mezzo di comunicazione in disuso come la cartolina, ormai rimpiazzata dalla ben più “scattante” messaggistica virtuale e telefonica.

Ma non c’è da stupirsene. Anche questo ritorno al passato è l’effetto di una regressione progressiva che ci ha spinto nelle soffitte delle nostre abitazioni, così come nei meandri più oscuri dell’inconscio, alla ricerca di vecchi oggetti dimenticati, e di pulsioni rimosse. Memorie arcaiche che da tempo anelavano di emergere dall’oblio.

Ovvio come alla fine sembri riduttivo chiamarle soltanto cartoline. Le pagine che compongono questo libro sono in realtà esperienze di vita grondanti di emozioni. Sono resilienze d’emergenza in cui chiunque può rispecchiarsi; sono le ricchezze inattese e più autentiche del Sé, in grado di infrangere un silenzio psicotico che rende tutto pericolosamente uguale. Sono souvenirs di un viaggio interiore che la pandemia ha incidentalmente provocato, ma che sarebbe interessante continuare anche nel periodo post Covid, per dar voce alle nostre dimensioni più intime, troppo spesso inascoltate.

Stabilire un flusso relazionale continuo con il Sé e con l’altro è ciò di cui abbiamo bisogno. Nella speranza che non ci voglia un’altra pandemia per capirlo; questo progetto si premura di ricordarlo e lo fa con onestà di intenti, regalando un prezioso senso di equilibrio in un mondo provvisoriamente senza gravità. Potremmo chiamarlo un esperimento di fantasia incredibilmente realistico. Cartoline di cui tutti ci troviamo “lusingati” destinatari.

 

Il decorso del disturbo di panico nel periodo peripartum/post-partum

Il disturbo di panico (DP) è uno dei disturbi psichiatrici più diffusi e invalidanti, le cui stime di prevalenza sono doppiamente superiori nel genere femminile, rispetto a quello maschile (Jacobi et al., 2015).

 

L’età d’insorgenza del disturbo di panico si colloca mediamente prima o durante gli anni riproduttivi (età media: 30,3 anni; nel range 26,1-34,6). Pertanto, l’indagine del decorso del disturbo di panico durante il periodo peripartum e il relativo impatto sullo sviluppo del figlio costituisce un obiettivo di ricerca di primaria importanza (Martini et al., 2020). Precedenti studi hanno mostrato che il decorso del disturbo di panico peripartum è variabile: alcuni hanno riscontrato una diminuzione dei sintomi o tassi piuttosto bassi (Bandelow et al., 2006; Hertzberg e Wahlbeck, 1999; Klein et al., 1994; Northcott e Stein, 1994), mentre altri hanno riportato peggioramenti o alterazioni del disturbo (Cohen et al., 1994; Griez et al., 1995; Wisner et al., 1996). Ulteriori dati suggeriscono esiti eterogenei anche durante il periodo post-partum: riduzione della sintomatologia, andamento stazionario o esacerbazione del disturbo (Cohen et al., 1996).

Gli attacchi di panico possono implicare l’esposizione del feto agli ormoni dello stress: i figli di genitori con disturbo di panico, infatti, presentano un maggior rischio di sviluppare un disturbo d’ansia (Yonkers et al., 2017). È emerso, inoltre, che i figli di madri con disturbi d’ansia tendono a manifestare livelli più elevati di attaccamento insicuro (Kraft et al., 2017). Comportamenti genitoriali specifici (ad es. manifestazioni di ipercontrollo/rabbia, ipo-iper vicinanza emotiva) sono stati collegati a livelli più elevati di ansia nel bambino (Drake e Ginsburg, 2012;), ma solo pochi studi hanno indagato il comportamento genitoriale nelle madri con disturbo di panico prima che i bambini sviluppassero una psicopatologia manifesta (Warren et al., 2003).

Nel complesso, dalla letteratura precedente sul tema, non è possibile trarre conclusioni valide sul decorso del disturbo di panico nel periodo peripartum, motivo per cui il seguente estratto si focalizza su uno studio prospettico longitudinale che confronta specificatamente gli esiti di donne con disturbo di panico peripartum con quelli di altre senza sintomatologia ansiosa e/o depressiva (Martini et al., 2020). Dallo studio sono emerse differenze riguardanti: gli esiti gestazionali, la durata dell’allattamento al seno, lo stile genitoriale e i disturbi regolatori nei neonati. In linea con altri studi che hanno riportato uno sviluppo variabile del disturbo di panico, durante il periodo peripartum (Northcott & Stein, 1994), anche in questo studio sono stati osservati decorsi eterogenei. La maggior parte dei casi di disturbo di panico è stata identificata durante le prime fasi della gravidanza e un numero relativamente basso di donne ha riferito sintomi da disturbo di panico dopo il parto.

Una caratteristica peculiare dello studio in questione è stata il reclutamento di partecipanti già durante il primo trimestre di gravidanza: periodo spesso mancante in studi precedenti (Martini et al., 2020). Si può presumere che i cambiamenti fisici legati alla gravidanza, l’adattamento del sistema cardiovascolare e le sensazioni corporee associate possano assumere la valenza di stimoli interocettivi che provocano attacchi di panico durante questo periodo (Winkel et al., 2015). A tal proposito, il disturbo di panico durante la gravidanza risulta essere piuttosto transitorio nella maggior parte dei casi, al contrario molteplici donne con disturbo di panico peri-partum hanno presentato un decorso persistente con attacchi di panico frequenti dopo il parto. In merito al rapporto diadico madre-bambino, in linea con studi precedenti, è emerso che le mamme con disturbo di panico post-partum hanno più frequentemente riportato un legame caratterizzato da attivazioni rabbiose e da un’educazione più rigida e strutturata, rispetto ad altre donne senza sintomatologia ansiosa (Asselmann et al., 2018). Questi fattori implicano spesso maggiori livelli di ansia infantile e possono essere cruciali per la trasmissione familiare dei disturbi d’ansia (Drake e Ginsburg, 2012). Infine, le donne con disturbo di panico post-partum hanno riportato una durata minore della fase di allattamento al seno, rispetto alla tempistica raccomandata di 6 mesi (WHO, 2018). Pertanto, in questi casi, sarebbe necessaria un’assistenza specifica per poter mantenere l’allattamento al seno (Martini et al., 2020).

Nel complesso, i risultati di questo studio sono in linea con i risultati di Warren e colleghi, secondo cui le madri con disturbo di panico mostrano comportamenti genitoriali (es. manifestazioni di attivazioni rabbiose/ansiose) che potrebbero essere associati ad avversità precoci nei figli. Infatti, i bambini di madri con disturbo di panico hanno maggiormente mostrato problemi regolatori (Warren et al., 2003), i quali possono essere percepiti come fattori di rischio per una successiva psicopatologia (Hemmi et al., 2011). Tali comportamenti genitoriali disfunzionali possono risultare particolarmente problematici in combinazione a vulnerabilità avverse dello sviluppo neurologico (prematurità, basso peso alla nascita ecc.), quando si identificano bambini con alto rischio di esordio psicopatologico (Bilgin e Wolke, 2017). In conclusione di tale estratto, è possibile evidenziare il ruolo cruciale di un’adeguata diagnostica, psicoterapia e psicofarmacoterapia durante il periodo peripartum e post-partum (Martini et al., 2020). Gli specialisti dovrebbero valutare approfonditamente la storia psichiatrica delle pazienti, per poter adeguatamente rilevare un eventuale disturbo di panico durante il periodo peripartum o post-partum. A tal proposito, risulta, però, doveroso ribadire che una corretta diagnosi di disturbo di panico peripartum viene spesso complicata dalla sovrapposizione clinica tra i sintomi del panico e quelli fisiologici della gravidanza (es: mancanza di respiro, sensazione di svenimento, nausea ecc.). Una recente revisione di Marchesi et al., ha riportato che la terapia cognitivo-comportamentale, congiunta al trattamento farmacologico a base di inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), costituisce il trattamento di prima linea per ottenere miglioramenti significativi del disturbo di panico in gravidanza e nel periodo post-partum (Marchesi et al., 2016).

 

Un concetto base della psicologia sociale: l’anticipazione degli eventi – II Parte

Studiando come gli individui costruiscono le proprie previsioni degli eventi, la psicologia ci permette di identificare e tentare di compensare molti di quegli errori che facciamo quando facciamo previsioni.

Ndr – Il presente articolo è il secondo di una serie di due articoli sul tema dell’anticipazione degli eventi. Il primo contributo è stato pubblicato il 26 Ottobre 2021 su State of Mind

 

Tentare di prevedere un evento futuro, il proprio comportamento o altrui è una costante del nostro quotidiano. Molte professioni fanno della previsione di scenari futuri la propria attività fondamentale oppure si basano su di essa come punto di riferimento per prendere decisioni da implementare nel presente(ad esempio l’economia, la meteorologia, la psicologia forense, la clinica medica). Questo tipo di attività, di fatto, è presente a molti livelli della condotta umana.

Studiando il modo in cui gli individui costruiscono le proprie previsioni degli eventi, la psicologia ci permette di identificare e tentare di compensare molti di quegli errori che facciamo quando tentiamo di visualizzarci scenari futuri.

Nell’articolo precedente abbiamo visto che il processo di previsione può essere descritto nei termini della costruzione di simulazioni mentali di scenari futuri, basate sull’informazione che l’individuo possiede e/o estrapola dall’ambiente (Dunning, 2007). Abbiamo anche visto che tali simulazioni sono soggette ad alcuni errori di base. Dal punto di vista dei risultati le nostre previsioni tendono ad essere troppo ottimistiche oppure tendiamo a farvi eccessivo affidamento. Dal punto di vista del processo mentale con cui le costruiamo, poi, abbiamo visto come: tendiamo a fare previsioni troppo astratte anziché basate su aspetti concreti (‘l’esame andrà bene’ vs ‘all’esame prenderò tra il 25 e il 27’); tendiamo a trascurare i risultati principali delle nostre previsioni trascurando le alternative (‘cosa farò quando sarò promosso?’ vs ‘cosa farei se invece venissi bocciato?’); tendiamo a focalizzarci su aspetti ottimistici trascurando quelli pessimistici (‘l’esame andrà bene e risponderò in modo completo a tutte le domande’ vs ‘forse potrei non essere preparato su alcune domande’); tendiamo, confrontando due o più eventi possibili, a focalizzarci sugli aspetti che hanno in comune piuttosto che sulle differenze; tendiamo, infine, a focalizzarci sull’evidenza a favore delle nostre previsioni trascurandone l’affidabilità (‘ho visto dei puntini nel cielo: sicuramente sono UFO’).

I limiti nelle previsioni

A questi limiti già visti se ne aggiungono altri. Gli scenari che ci costruiamo, infatti, possiedono un limite intrinseco: non ci è possibile ottenere tutte le informazioni che ci servono per valutare a pieno una situazione, come anche non siamo in grado di prevedere ogni singola eventualità possibile. Le situazioni possono evolversi in modi potenzialmente infiniti, e non potremmo avere mai il tempo né i mezzi per ottenere tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno per creare una perfetta previsione del futuro, come anche prevedere ogni singolo scenario possibile. Gli esseri umani però, si sa, sono contraddittori, e quindi crediamo che le previsioni che facciamo siano perlopiù complete e valide (Griffin & Ross, 1991) anche se, in effetti, il futuro potrebbe presentarsi in modi molto diversi da quelli che ci immaginiamo, come forse abbiamo già sperimentato personalmente in alcune occasioni.

In questo articolo verrà mostrato brevemente un altro limite particolarmente interessante e che ci riguarda da vicino, forse più di tutto il resto, poiché ha a che fare con le nostre emozioni; verranno, infine, mostrati alcuni metodi che possiamo utilizzare per rendere le nostre previsioni sul futuro un po’ più accurate e affidabili (anche se non serve essere scienziati per sapere che il futuro non lo conosce nessuno).

Chi è particolarmente ansioso sa bene quanto l’anticipazione delle emozioni che potrebbero essere sperimentate nelle situazioni future possa essere una fonte di disagio, fino anche all’incapacità di funzionare anche nelle circostanze più banali. In parte questi effetti sono legati alla nostra difficoltà di prevedere con accuratezza gli stati emotivi che sperimenteremo nel futuro. Tendiamo, infatti, a sovrastimare l’impatto emotivo che un evento avrà su di noi (ad esempio pensando a come ci sentiremo bene dopo aver preso un voto alto, Buehler & McFarland, 2001), la durata del nostro stato emotivo in relazione ad un evento (ad esempio quanto tempo durerà la mia gioia se la mia squadra del cuore dovesse vincere; Wilson, Wheatley,Meyers,Gilbert & Axsom, 2000), come anche, infine, l’impatto delle emozioni che viviamo sulle nostre azioni successive e sulle nostre preferenze (Van Boven & Loewenstein, 2003).

Non siamo in grado di prevedere in maniera accurata neppure in che modo la soddisfazione di aver mangiato uno snack influisce sui nostri processi decisionali (Read & van Leeuwen, 1998). Pensare, quindi, di essere in grado di prevedere come uno stato emotivo intenso possa influenzare i nostri pensieri, comportamenti e decisioni successive sembra perciò un’impresa poco realistica, più difficile di quanto non ci sembri ad un primo sguardo dato che, spesso, diamo per scontata la conoscenza completa del nostro proprio mondo interiore.

Come rendere le previsioni più accurate

La domanda che sorge spontanea a questo punto è: ‘Considerati tutti questi limiti alla nostra capacità di leggere nel futuro, come possiamo, se non rimediarvi completamente, almeno rendere le nostre previsioni un po’ più realistiche e più accurate?’.

Dunning (2007) ci fornisce alcuni consigli:

  • Anziché focalizzarci solo sulle circostanze che ci porterebbero ai risultati che desideriamo, prestare attenzione e tempo alla presenza di circostanze che invece potrebbero impedircelo;
  • Oltre a considerare solo le circostanze che hanno un impatto diretto sui risultati che desideriamo, consideriamo anche in che modo le situazioni quotidiane potrebbero facilitare o impedirci la realizzazione di essi;
  • Adottiamo una visione ‘da fuori’ (Kahneman & Lovallo, 1993), considerando la situazione oggetto della nostra analisi come una delle tante situazioni con caratteristiche simili, e consideriamo le possibili conseguenze delle nostre scelte a partire da tutte le diverse situazioni, simili per certi versi e diverse per altri, che riusciamo a considerare;
  • Possiamo ‘riparare cognitivamente’ le nostre previsioni (ad esempio Epley & Dunning, 2006), considerando scenari futuri in chiave maggiormente pessimistica, oppure chiederci quanto, in effetti, le nostre previsioni siano affidabili. Ciò dovrebbe renderle maggiormente realistiche (Heath, Larrick & Klayman, 1998);
  • Se ci è possibile, infine, potremmo rilevare le previsioni di più persone, aggregarle e farne, anche intuitivamente, una ‘media’, che dovrebbe così eliminare l’errore sistematico insito nelle previsioni dei singoli individui (ad esempio Einhorn, Hogarth & Klempner, 1977).

Vorremmo che le nostre decisioni fossero sempre corrette. Vorremmo avere sempre ragione. Vorremmo essere infallibili e prevedere con esattezza cosa ci accadrà nel futuro, cosa faranno gli altri, cosa potrebbe succedere. Lo facciamo tutti e lo facciamo tutti i giorni. La psicologia non può correggere la fallibilità della nostra natura umana (e quindi delle nostre previsioni), ma può fornirci gli strumenti per comprendere meglio dove sbagliamo e dove possiamo, se non correggerci, almeno migliorare, e rendere attuale il nostro potenziale per fare scelte migliori e, si spera, vivere anche una vita più soddisfacente.

 


UN CONCETTO BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ANTICIPAZIONE DEGLI EVENTI – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

La morte in terapia

Il timore della morte è un pensiero ricorrente che tende a ossessionare ognuno di noi per tutto il corso della vita, riversandosi sulle nostre fantasie e i nostri incubi.

 

Come uomini erigiamo difese, basate sulla negazione, al fine di affrontare la dura consapevolezza che la fine è ineluttabile.

Ne Il dono della terapia (2014), lo psicoterapeuta Irvin Yalom evidenzia come la morte sia presente in ogni percorso di terapia, sebbene molti terapeuti evitino intenzionalmente la discussione diretta della morte, trasmettendo implicitamente il messaggio che sia troppo terribile per parlarne o sia un tema inutile in terapia. In realtà, la prima buona ragione per cui dovremmo affrontare questa delicata tematica risiede nell’essenza stessa della terapia, quale esplorazione profonda ed esaustiva del corso e del significato dell’esistenza umana, all’interno della quale la morte ricopre un ruolo centrale.

“Sebbene la morte fisica ci distrugga, l’idea della morte può salvarci”: è questo il messaggio, semplice quanto profondo, da veicolare, secondo Irvin Yalom.

Molte grandi opere letterarie contengono un significato simile. Yalom riporta come, alla maggior parte degli operatori di salute mentale che si occupano di pazienti vicini alla morte, sia stato consigliato, durante la loro formazione, di leggere il racconto di Tolstoj «La morte di Ivan Il’ič»:

Ivan Il’ič, un meschino burocrate ormai agonizzante, si imbatte in un’intuizione sorprendente proprio alla fine della vita: si rende conto che muore male perché ha vissuto altrettanto male. La sua intuizione produce un grande cambiamento personale, e negli ultimi giorni la vita di Ivan Il’ič si riempie di una pace e di un significato mai raggiunti prima (p.102).

Esempi simili sono rintracciabili in Guerra e pace, dove Pierre, il protagonista, vive un cambiamento profondo dopo che la sua fucilazione viene sospesa all’ultimo secondo; nel Canto di Natale di Dickens, nel quale la trasformazione del vecchio protagonista Scrooge avviene quando lo spirito del futuro gli concede di essere testimone della propria morte e di vedere degli estranei azzuffarsi per accaparrarsi i suoi beni.

Galimberti rimarca come la morte non abbia una propria voce ma si esprima a partire da mediazioni culturali perché è sempre la cultura a interpretarne il senso. Egli descrive come il concetto di essere mortale sia radicato nella cultura greca, in base alla quale l’essere umano definisce sé stesso a partire dalla morte, intesa come la fine di tutto. A tal proposito, Galimberti evidenzia come l’essere umano sia qualificato dai greci “brotos” ossia mortale, e infatti Omero non utilizza mai il termine anthropos (uomo) nelle sue opere, ma narra le imprese dei “mortali”.

La morte nella cultura greca

È interessante osservare come, per i Greci, “la gioia della vita è resa possibile dalla crudeltà della morte, per cui il dolore e la morte non sono qualcosa che è capitato alla vita in seguito a una caduta o a una colpa, come nella tradizione giudaico-cristiana, ma sono intrinseci alla vita stessa come condizioni del suo accadere” (Galimberti, 2012).

In altre parole, i Greci hanno colto la circolarità della vita con la morte, la felicità e la gioia della vita inseparabile dal dolore e dalla morte, come termine ultimo e ineludibile.

Consapevoli del ciclo naturale dell’esistenza, i Greci riescono a elaborare risposte attive all’inevitabilità della fine; infatti, Galimberti sottolinea come, per i Greci, dal dolore per l’ineluttabilità della legge di natura nascano due importanti forme di resistenza, che sono il sapere, che consente di evitare il male evitabile, e, soprattutto, la virtù cioè la forza e il coraggio di vivere pienamente, al di là delle avversità (Galimberti, 2005). Dalla consapevolezza della morte, quindi, deriva la volontà di accrescere e potenziare la vita: è questa l’essenza della tragicità greca, un lascito prezioso da cogliere e far proprio.

La morte come parte dell’esistenza umana

Dal punto di vista filosofico, Yalom (2014) riporta il pensiero del tedesco Heidegger, il quale nella sua celebre opera Essere e tempo analizza le due modalità principali dell’esistenza: l’esistenza inautentica e l’esistenza autentica. La prima è l’esistenza quotidiana, monotona, nella quale l’uomo si lascia catturare e distrarre dal mondo, cadendo nel conformismo, in quanto incapace di essere propriamente sé stesso. L’esistenza autentica, invece, costituisce l’esperienza umana della libertà, nella quale l’uomo non fugge da sé stesso, non si conforma acriticamente agli schemi impersonali della società, ma si rivela per quello che propriamente è.

Quando viviamo la nostra vita in modo autentico, al di là delle preoccupazioni e chiacchiere di ogni giorno, liberi di esprimerci per ciò che propriamente siamo, entriamo in uno stato di particolare ricettività per un cambiamento personale. Solitamente, il passaggio dal modo di vivere quotidiano al modo autentico di vivere avviene attraverso le cosiddette «esperienze di confine», cioè episodi urgenti che ci scuotono via dalla bieca «quotidianità» e inchiodano la nostra attenzione sull’«essere» in sé. È bene sottolineare che il confronto con la propria finitudine – e quindi con la propria morte – costituisce l’esperienza di confine più potente, che apre alla possibilità di un cambiamento personale nel corso della terapia.

La morte e l’esperienza del lutto

Generalmente, ogni percorso terapeutico è costellato di esperienze che possono rimandare alla tematica della morte e della perdita, come il lutto di una persona cara.

Secondo Yalom (2014), la morte dell’altro è un’esperienza di confine la cui potenzialità è sfruttata troppo raramente nel processo terapeutico, in quanto si tende a concentrarsi in modo esteso ed esclusivo sulla perdita, sulle questioni rimaste in sospeso nel rapporto, sul difficile distacco dal defunto per poi rientrare di nuovo nella corrente della vita; tutte questioni sicuramente importanti, ma che non dovrebbero distogliere l’attenzione dal fatto che la morte dell’altro possa servire come monito e occasione di confronto, netto e pregnante, con la nostra stessa morte.

Yalom sottolinea come sorgano molte opportunità per discorsi correlati alla morte nel corso di una terapia; infatti, la mortalità forma l’orizzonte di tutte le discussioni sull’invecchiamento, sulle fasi della vita e i relativi cambiamenti corporei, oltre che di molti momenti significativi della vita, come compleanni e anniversari, la partenza dei figli per l’università e il conseguente fenomeno del nido vuoto, il pensionamento, la nascita dei nipoti.

Conclusioni

In conclusione, il discorso – difficile, faticoso e scomodo – sulla morte consente di parlare del significato della vita, la cui ricerca continua ci fa spesso precipitare in profonde crisi di significato. Non a caso, Jung riferì che un terzo dei suoi pazienti lo consultava proprio per questo motivo.

Un esempio calzante è riportato da Yalom ne Il dono della terapia e riguarda uno dei più comuni accorgimenti utilizzati nel corso dei laboratori sperimentali volti a incoraggiare il discorso sul significato della vita: chiedere ai partecipanti che cosa sceglierebbero come epitaffio per la loro tomba.

 

Mens sana in corpore sano: l’effetto benefico dell’irisina muscolare nella malattia di Alzheimer

Una ricerca condotta dal team del Massachusetts General Hospital ha studiato come l’irisina, un ormone scoperto recentemente che viene prodotto dall’organismo durante l’esercizio fisico, abbia effetti benefici nel morbo di Alzheimer.

 

Fin dall’antichità, come testimonia il motto “mens sana in corpore sano”, è nota la relazione esistente tra esercizio fisico e salute mentale. Gli studi scientifici hanno dimostrato come l’attività fisica sia un fattore protettivo rispetto allo sviluppo delle demenze. (Kivipelto M., Mangialasche F., Ngandu T. 2018).

In modelli animali si è evidenziato che l’esercizio fisico stimola la sintesi di nuovi neuroni ippocampali e l’ippocampo è proprio una delle prime regioni celebrali colpite in caso di demenza (Smit JC., Nielson AN, Woodard JL. et al. 2014).

Una ricerca condotta dal team del Massachusetts General Hospital ha esaminato l’effetto a livello cerebrale  dell’irisina, un ormone, scoperto recentemente, prodotto dall’organismo durante l’attività muscolare. I ricercatori sono giunti alla conclusione che quest’ormone ha effetti protettivi nel morbo di Alzheimer (Islam MR., Valaris S., Young MF. et al. 2021).

L’irisina è una miochina, identificata nel 2012 dai ricercatori della Harvard Medical School, prodotta dal tessuto muscolare scheletrico in seguito alla sua attività, ha un’azione anabolica sul tessuto osseo aumentandone così massa e resistenza e rendendo l’osso più difficilmente soggetto a fratture.

Questa molecola ha inoltre effetti positivi sul metabolismo generale dell’organismo ed è in grado di convertire, grazie al meccanismo molecolare di browing, la cellula adiposa bianca in grigia favorendo il controllo dell’obesità (María L., Trujillo G.,  García D. et al. 2016).

Lo studio, pubblicato su Nature Metabolism dai ricercatori del Massachusetts General Hospital, parte dalla considerazione che l’irisina è presente anche a livello dell’ippocampo e nel liquido cerebrospinale (Islam MR., Valaris S., Young MF.  et al. 2021).

Gli autori hanno evidenziato, utilizzando un modello sperimentale animale, come una riduzione dell’irisina e del suo precursore a livello cerebrale, ottenuta con la delezione genetica dell’irisina, compromette nei topi il potenziamento della memoria a lungo termine e la memoria necessaria per il riconoscimento degli oggetti.  Aumentando, negli animali, i livelli di irisina ematica, i ricercatori hanno ottenuto un miglioramento delle funzioni cognitive ed una riduzione dei fenomeni di neuroinfiammazione.

La neuroinfiammazione gioca un ruolo importante nell’eziopatogenesi della malattia di Alzheimer. Il sistema immunitario riconosce le placche e gli ammassi neurofibrillari che si formano a livello cerebrale nell’Alzheimer, come delle alterazioni da combattere ed avvia contro di esse una reazione neuroinfiammatoria nel tentativo di neutralizzarle. Questa reazione ha inizialmente un ruolo protettivo ma il suo perdurare favorisce la progressione del morbo (Parbo P., Ismail R., Hassen VH. Et al.2011).

La diminuzione, generata dall’irisina, dei fenomeni neuroinfiammatori porta ad ipotizzare che quest’ormone possa avere effetti benefici, non solo nella malattia di Alzheimer, ma anche in altre malattie neurodegenerative e possa, in futuro, essere utilizzata come presidio farmacologico.

 

Le metafore di Moro – Recensione di “Le lingue impossibili” (2017) di Andrea Moro

Le lingue impossibili un testo breve ma denso, ricco di spunti, talvolta complesso dal punto di vista concettuale.

 

Andrea Moro, considerato il maggiore erede di Noam Chomsky, coniuga le competenze del linguista con quelle del neuroscienziato. Infatti, è professore di Linguistica generale presso la Scuola Universitaria Superiore di Pavia, dove ha fondato il centro di ricerca in Neuroscienze, epistemologia e sintassi teorica. È stato ordinario per circa 10 anni presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Tra le sue precedenti pubblicazioni, Breve storia del verbo essere (Adelphi 2010) e Parlo dunque sono (Adelphi 2012). L’ultima sua opera, Il segreto di Pietramala (La nave di Teseo, 2018), è un romanzo giallo in cui descrive le peripezie di un linguista francese che gira il mondo alla ricerca di lingue esotiche e che deve scoprire i misteri che si nascondono in un borgo isolato della Corsica, abbandonato da secoli. La forte cultura umanistica che possiede traspare anche dall’abbondante uso di metafore presenti nell’opera Le lingue impossibili pubblicata nel 2017 in Italia e successivamente tradotta all’estero. Si tratta di un testo breve (circa 120 pagine, se si escludono bibliografie e indice analitico) ma denso, ricco di spunti, talvolta complesso dal punto di vista concettuale.

In questo libro, viene esplorata l’esistenza delle lingue impossibili, alla ricerca dell’“impronta digitale” del linguaggio umano. La linguistica generale si è posta storicamente la questione di individuare le caratteristiche di una ipotetica grammatica universale, rintracciabile in tutte le lingue, che costituisca una sorta di lingua primordiale. Una grammatica generativa, per usare l’espressione di Chomsky. Ma perché si sono sviluppate tante lingue e non parliamo tutti la stessa lingua primordiale? Studiare quante sono, in linea teorica, le lingue possibili porta a chiedersi anche se possono esistere lingue impossibili, in quanto contrarie o non assimilabili  a tali principi generali. Esistono infatti una moltitudine di lingue, più o meno diverse, che condividono alcune regole strutturali essenziali tali da essere decodificate dal nostro cervello secondo dei codici preesistenti, ma non possono esistere un numero infinito di lingue, questa l’opinione di Moro, nel solco del paradigma chomskiano. Ciò pare dipendere da una necessità di economizzare che guida il nostro cervello e la nostra struttura biologica selezionando solo alcune delle informazioni possibili. Una lingua, studiata in una prospettiva esclusivamente fisica e non come codice, vive in due ambienti diversi: fuori del cervello, sottoforma di onde meccaniche d’aria rarefatta, ossia suono, e dentro il cervello, sotto forma di onde elettriche, ovvero il codice che i neuroni utilizzano per scambiarsi informazioni. Pertanto, chiedersi se può esistere una lingua impossibile è in realtà una domanda duplice: una domanda formale, che concerne le regole, e una domanda fisica, che riguarda la materia. Il libro prova a rispondere ad entrambe le questioni.

Di fatto, la questione si può riformulare in tal modo: le lingue devono essere considerate come una costruzione culturale, e quindi in un certo senso arbitraria, o sono una funzione delle proprietà del cervello, dotata di una base biologica? Moro propende per la seconda ipotesi. Ed in questo senso dobbiamo postulare le lingue impossibili, inconcepibili secondo il funzionamento della nostra mente, ovvero che non hanno la possibilità di essere riconosciute dalle nostre reti neuronali. Egli paragona la sintassi al rovescio di un arazzo, che rivela la struttura nascosta e una serie di intrecci non visibili a chi osserva solo la parte nota dell’arazzo, descrive il cervello come un setaccio ma ascolta anche il suono del pensiero attraverso la registrazione dell’attività elettrica encefalica.

Per spiegarci come possiamo comprendere e studiare il linguaggio Moro utilizza nella parte conclusiva del volume una sorprendente metafora con un quadro: l’autoritratto del pittore austriaco di età barocca Gumpp. Nell’opera, riprodotta nel libro, è raffigurato di spalle il pittore mentre dipinge con la mano destra su una tela il proprio ritratto, utilizzando uno specchio che tiene nella mano sinistra. Il quadro così mostra due volte il viso del pittore, che appare identico nello specchio e sul cavalletto, riproduzione dell’attore principale, che è di spalle e il cui viso possiamo solo immaginare. Per Moro, i due volti simboleggiano i due domini che possiamo osservare: le onde sonore e le onde elettriche, per comprendere ciò che ci sfugge: il linguaggio e soprattutto l’uso creativo che ne facciamo. Per quello che riguarda le onde elettriche, la ricerca di Moro utilizza anche le tecniche di neuroimaging, non a disposizione delle precedenti generazioni di linguisti. Tali ricerche mostrano che ci sono aree del cervello dedicate alla sintassi, che si attivano in risposta a un enunciato sintatticamente plausibile, ma privo di significato. Così come, quando si prova ad insegnare una lingua sintatticamente impossibile, si attivano altre aree cerebrali non collegate al linguaggio. Le radici del logos si confermano affondate nella sintassi e in alcune sue proprietà universali, che ricerche come quelle di Moro promettono di ancorare, in un futuro non troppo lontano, alla struttura neurofisiologica del cervello.

Concludo, riportando un’altra metafora accattivante di Moro: le lingue sono come fiocchi di neve, tutti diversi, ma con qualcosa in comune e non infinitamente diversi. E la natura ci ha dotati di una sorta di “setaccio irragionevole” (l’espressione, ancora una volta metaforica, è sempre di Moro) che seleziona ciò che è possibile da ciò che è impossibile, anche se non sappiamo ancora perché certe lingue sono concepibili ed altre no (ad esempio, perché non possa esistere la regola che una certa parola compaia sempre come quarta in ogni frase: regole simili non esistono in nessuna lingua reale).

 

Disturbo da uso di sostanze nella disabilità intellettiva e nel funzionamento intellettivo borderline

Il disturbo da uso di sostanze nella disabilità intellettiva lieve e nel funzionamento intellettivo borderline costituisce una condizione complessa e talvolta cronica.

 

Gli individui con disabilità intellettiva lieve (Mild Intellectual Disability, MID; quoziente intellettivo nel range 50-70) o con funzionamento intellettivo borderline (Borderline Intellectual Functioning, BIF; quoziente intellettivo nel range 70-85) sono riconosciuti, su scala mondiale, come una categoria a rischio per problematiche connesse al consumo di sostanze stupefacenti o addirittura per l’esordio di un disturbo da uso di sostanze conclamato (Lakhan et al., 2019). Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) definisce il disturbo da uso di sostanze come una condizione invalidante, caratterizzata da pattern pervasivi e ricorrenti, che può implicare significative menomazioni nel funzionamento quotidiano, incluso il mancato rispetto delle responsabilità in ambito professionale e relazionale (APA, 2013).

L’uso problematico di sostanze e il disturbo da uso di sostanze conclamato possono essere associati a deficit di natura neuropsicologica (es. controllo esecutivo), emotiva-comportamentale (es. disregolazione nella gestione degli impulsi e delle attivazioni emotive) o socio-economica (es. status socio-economico precario); tale associazione è stata riscontrata sia nei casi di disabilità intellettiva lieve, sia in quelli di funzionamento intellettivo borderline (Didden et al., 2020). L’eziologia del disturbo da uso di sostanze è complessa e multifattoriale, molteplici variabili possono spiegare l’aumento del rischio d’esordio, tra cui: deficit nelle abilità di coping e sociali, inibizione compromessa, suscettibilità alla pressione sociale e difficoltà nel comprendere le conseguenze negative dell’abuso di sostanze (van Duijvenbode & VanDerNagel, 2019).

I modelli per spiegare il disturbo da uso di sostanze

Diversi modelli teorici per il disturbo da uso di sostanze sono stati esplorati in individui con disabilità intellettiva lieve e funzionamento intellettivo borderline: uno particolarmente influente è il ‘modello a doppio processo’, secondo cui il disturbo è mantenuto da automatici processi impliciti (es. bias di attenzione e selezione) ed espliciti controllati (es. motivazione, inibizione), oltre ad essere associato alla compromissione dei processi di controllo inibitorio, motivazionale e di ricompensa, con conseguenti carenze nell’elaborazione delle informazioni (Didden et al., 2020).

Il ‘modello motivazionale del consumo di alcol’ è stato recentemente studiato in giovani adulti con disabilità intellettiva lieve e funzionamento intellettivo borderline in contesti residenziali (Schijven et al., 2019). Secondo questo modello, gli individui sono motivati ​​a bere alcolici a causa del rinforzo interno (es. alleviare l’ansia) o del rinforzo esterno (es. l’approvazione dei pari). I motivi alla base del consumo di alcol sono stati misurati da un questionario specifico, il Drinking Motives Questionnaire Revised Short Form (DMQ-R SF; Kuntsche & Kuntsche, 2009), che valuta le seguenti quattro tipologie di motivazione: sociale (confermare le relazioni sociali), conformità (prevenire il rifiuto da parte del gruppo), coping (regolare le emozioni negative) e ‘miglioramento’ (aumento del tono timico). Dai risultati è emerso che tutte le quattro variabili esplorate dal questionario sono connesse al consumo di alcol e droghe (Didden et al., 2020).

Uso di sostanze e dimensioni personologiche

Quattro dimensioni personologiche sono state associate ad un aumento del rischio d’esordio del disturbo da uso di sostanze: (i) attitudine ansiosa, (ii) pensiero negativo, (iii) impulsività e (iiii) ricerca di sensazioni. Il ruolo delle dimensioni della personalità, nel consumo di sostanze stupefacenti, è stato esplorato in giovani adulti con disabilità intellettiva lieve e funzionamento intellettivo borderline in contesti di cura residenziali: è emerso che gli individui con bassi livelli di attitudine ansiosa e alti livelli di pensiero negativo, impulsività e ricerca di sensazioni hanno mostrato un consumo maggiore di alcol. Alti livelli di pensiero negativo e ricerca di sensazioni erano correlati a un uso maggiore di droghe (Didden et al., 2020).

La presa in carico

Il disturbo da uso di sostanze, nella disabilità intellettiva lieve e nel funzionamento intellettivo borderline, costituisce una condizione molto complessa e talvolta cronica, che necessita una presa in carico di natura multidisciplinare (Juberg, Røstad & Søndenaa, 2017). A tal proposito, purtroppo, le strutture specifiche per il trattamento della disabilità intellettiva spesso non possiedono le competenze e gli strumenti adeguati per poter affrontare un eventuale disturbo da uso di sostanze nella popolazione clinica in cura. Allo stesso tempo, i centri specifici per le dipendenze, invece, non sono spesso adatti per soddisfare le esigenze specifiche dei pazienti con disabilità intellettiva lieve e funzionamento intellettivo borderline implicando frequenti drop-out e scarse risposte al trattamento (VanDerNagel et al., 2018). In conclusione di tale estratto è possibile affermare, dunque, che risulta necessaria una maggiore sinergia tra il trattamento delle dipendenze e della disabilità intellettiva, al fine di fornire servizi integrati e specifici per le esigenze del singolo caso; sia in un’ottica preventiva, che riabilitativa (Didden et al., 2020).

Amore e cervello: dall’attrazione al sentimento

Nella fase di innamoramento la persona che suscita attrazione costituisce un segnale potente che fa attivare tutto l’organismo e produce un’eccitazione mediata da alcuni neurotrasmettitori.

Ambra Lupetti ed Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

La monogamia

Come ci spieghiamo la monogamia? Dal punto di vista biologico, adottando una prospettiva darwiniana possiamo ricondurre ad una serie di cambiamenti, avvenuti nell’evoluzione della nostra specie, l’emergere della tendenza a formare un legame esclusivo con un partner basato su monogamia e fedeltà, una tendenza che si è poi radicata nella nostra biologia in quanto molto vantaggiosa ai fini del successo riproduttivo. I meccanismi evolutivi hanno fatto in modo che l’essere umano producesse una progenie fortemente immatura il cui sviluppo avvenisse solo in parte all’interno dell’utero nei nove mesi della gestazione, e continuasse al di fuori del corpo della madre, durante un periodo molto lungo. Una progenie così vulnerabile non poteva, tuttavia, essere allevata solo dalla madre, viste le fragilità delle donne in seguito alla gravidanza, al parto e all’allattamento e alla difficoltà di conciliare la vicinanza al figlio con la necessità di procurare il necessario per il sostentamento. Affinché i piccoli sopravvivessero e divenissero a loro volta adulti era necessario l’aiuto di un’altra persona. Questa persona non poteva che essere il padre, il cui successo riproduttivo era ugualmente assicurato dal portare quei bambini a un’età tale da potersi riprodurre a loro volta (Carter, 2004).

Sono queste le motivazioni biologiche che fanno da sfondo alla monogamia, che generalmente caratterizza i rapporti affettivi della nostra specie. Questa spinta ad instaurare un legame di coppia stabile e duraturo è talmente forte che si mantiene ben oltre il mero rapporto sessuale.

Ma quali sono le varie fasi che conducono ad un rapporto stabile monogamico? E cosa succede nel cervello di uomini e donne?

L’attrazione verso il partner

Secondo alcune teorie (Botwinet al., 1997, Buss, 1990) uomini e donne si sentono attratti e scelgono come potenziali partner di una relazione d’amore coloro che meglio possono adempiere a questo scopo evoluzionistico riproduttivo.

Gli uomini generalmente sono colpiti dalla bellezza e dalla giovane età nelle potenziali partner. I ricercatori hanno messo in luce come ovunque nel mondo gli uomini preferiscano mogli fisicamente attraenti, fra i 20 e i 40 anni, in media di 2 anni e mezzo più giovani e che abbiano pelle luminosa, occhi brillanti, labbra piene, capelli lucenti e figura sinuosa (Botwinet al., 1997). Tutti questi tratti infatti sono forti ed evidenti indizi di fertilità. Potendo contare su decine di milioni di spermatozoi, gli uomini sono in grado di generare un numero quasi illimitato di discendenti, purché riescano a trovare abbastanza femmine fertili con cui accoppiarsi; nel corso di milioni di anni, quindi, i circuiti neuronali maschili si sono evoluti allo scopo di individuare nelle donne immediati segnali visibili della loro fertilità. Oltre all’età è importante anche la salute i cui indicatori visibili sono la vitalità, il portamento spigliato, tratti somatici simmetrici, pelle liscia, capelli lucenti e labbra turgide. Anche la forma del corpo è un ottimo indicatore di fertilità. Dopo la pubertà le femmine sane sviluppano forme più morbide, con il giro vita di circa un terzo più stretto del giro-fianchi. Le donne con queste caratteristiche fisiche producono più estrogeni e restano incinte con maggiore facilità e ad un’età inferiore rispetto a quelle con caratteristiche più androgine. Anche la reputazione sociale è spesso un altro fattore che entra in gioco nella valutazione maschile, perché i maschi di maggiore successo dal punto di vista riproduttivo hanno bisogno di scegliere donne che si accoppieranno solo con loro: vogliono esser certi della paternità ma anche di contare sulle doti materne di una donna per garantirsi che i propri discendenti crescano sani e robusti.

Per quanto riguarda le donne, per più di 5 anni il ricercatore David Buss (1990) ha studiato le preferenze di oltre 10mila individui appartenenti a 37 culture diverse e ha visto come in ogni cultura le donne si preoccupano poco delle attrattive fisiche di un potenziale marito, mentre sono più interessate alle sue risorse materiali e alla sua posizione sociale, fattori questi che manifestano e garantiscono la volontà e la possibilità di portare avanti una relazione duratura. Anche secondo lo psicologo evoluzionista Robert Trivers (1972) scegliere un compagno in base a queste caratteristiche è un’attenta strategia di investimento. Le femmine umane infatti dispongono di un numero limitato di uova, e, rispetto ai maschi, investono molte più energie nel mettere al mondo ed allevare i figli. Essere estremamente caute è quindi un atteggiamento vincente. Mentre un maschio può fecondare una donna tramite un unico rapporto sessuale e poi andarsene, una donna deve affrontare nove mesi di gravidanza, i rischi del parto, l’allattamento e il compito oneroso di cercare di assicurare la sopravvivenza del bambino.

L’attrazione verso una particolare persona risente di criteri di scelta biologicamente determinati ma non bisogna omettere allo stesso tempo che questi criteri sono determinati anche dalla storia personale e dalle caratteristiche individuali.

Durante la fase del corteggiamento uomini e donne generalmente cercano di fornire all’altro l’immagine migliore di se stessi. Con il progredire della relazione, tuttavia, sono inclini a cercare inconsapevolmente degli indicatori di sensibilità e di responsività emotiva come la capacità di rispondere ai momenti di sconforto dell’altro o fornire aiuto, indici della possibilità che il partner possa diventare una buona figura di attaccamento per sé e per i propri figli.

L’infatuazione

L’amore appassionato o anche la semplice infatuazione è uno stato cerebrale ben documentato: fa capo agli stessi circuiti cerebrali che governano ossessioni, manie, ebbrezza, sete e fame (Aron & Fisher, 2005). L’attrazione iniziale è da ricondurre all’attivazione del sistema sessuale. Il desiderio sessuale è innescato principalmente dagli androgeni (tra cui il testosterone) e dagli estrogeni; entrambi presenti sia nelle donne che negli uomini anche se in quantità diverse. Nelle donne il testosterone è fondamentale; il suo picco, a metà del ciclo mestruale, è responsabile dell’innalzamento del desiderio sessuale, proprio nel momento di maggiore fertilità. Con il progredire della relazione, nel passaggio dall’attrazione all’innamoramento, il livello di testosterone diminuisce nei maschi, così che i comportamenti aggressivi sono sostituiti, in chi è innamorato, da comportamenti maggiormente basati sulla tenerezza.

L’innamoramento

In questa fase iniziale la persona che suscita attrazione costituisce un segnale potente che fa attivare tutto l’organismo e produce un’eccitazione che è mediata da alcuni neurotrasmettitori. La feniletilamina ad esempio è una sostanza affine all’adrenalina. Viene sintetizzata e rilasciata nel sistema nervoso centrale quando si sperimentano situazioni piacevoli e raggiunge livelli altissimi durante l’attrazione e l’innamoramento. Ad esempio la cioccolata è un alimento ricco di feniletilamina, ed è per questo che amplifica quel senso di gratificazione e di piacere assicurato dalle zone del cervello che ha il potere di attivare. La feniletilamina è inoltre particolarmente importante in quanto stimola anche il rilascio di dopamina, la quale ha un peso determinante nelle prime fasi della relazione di coppia. È quel neurotrasmettitore che regola i sistemi della gratificazione e che può essere considerato responsabile della sensazione di energia e di euforia che si prova di fronte a stimoli eccitanti, come ad esempio la sola vista della persona desiderata, che innesca benessere in tutto il corpo e anche uno stato di grande eccitazione.

La passione

La dopamina viene di solito prodotta dall’organismo in maniera spontanea e, quando presente in quantità sufficiente, genera un senso di appagamento. Quando ci si ritrova di fronte a qualcuno di cui ci si sente molto attratti il suo livello aumenta e produce effetti euforizzanti così forti da spingere in maniera incontrollabile a fare in modo che quell’evento si ripeta con meccanismi e reazioni simili a quelli sperimentati da chi dipende da cocaina (Insel, 2003). La cocaina aumenta la disponibilità di dopamina nel cervello producendo un senso immediato di benessere e una grande fiducia in se stessi; la fame e il sonno spariscono. Esauritosi però l’effetto euforizzante, nei giorni a seguire, si sperimenta spossatezza e depressione che spingono l’individuo a voler usare di nuovo quella sostanza. Allo stesso modo, l’assenza della persona amata o una sua mancanza di disponibilità, può suscitare ansia e calo dell’umore simili a quelli provocati da deficit di sostanze. Quando l’amore è in una fase iniziale tuttavia, se da un lato aumentano nel cervello quei neurotrasmettitori che producono eccitazione ed euforia, dall’altro ne diminuiscono altri, la cui carenza è in grado di indurre uno stato di forte ansia. Da una serie di studi (Cahill, 2003) emerge infatti che, se una relazione non si è ancora consolidata si abbassa la produzione di serotonina, un neurotrasmettitore che quando è in equilibrio, produce sensazioni di buon umore e regola le emozioni.

L’amore completo

Progressivamente, dalla passione si passa a una nuova fase del rapporto, la quale vede nell’intimità e nell’impegno le sue componenti principali. In accordo con il modello triangolare, proposto dallo psicologo Sternberg (1986), possiamo identificare tre componenti distinte alla base dell’amore: la passione, l’intimità e l’impegno (Fig. 1).

In accordo con questo modello, l’amore completo, quello che lui definisce “vissuto”, si compone di tutte e tre le dimensioni precedentemente elencate.

La passione è quella che caratterizza l’attrazione fisica, il desiderio. L’intimità implica l’affinità e la confidenza, mentre l’impegno concerne la volontà di mantenere una relazione stabile.

Amore e cervello dall attrazione alla formazione di una relazione stabile Fig 1
 Fig. 1: Il modello triangolare

La passione, intesa come eccitazione incontrollabile, prevale nella fase iniziale. Nei legami di coppia che funzionano non termina mai del tutto, ma con lo scorrere del tempo prevalgono le altre due componenti quali intimità e impegno. Infatti lo stato cerebrale che fa da sfondo alla passione amorosa dura sei/otto mesi, fino a un massimo di tre anni. Secondo alcuni studiosi (Esch & Stefano, 2005) il dato che la fase dell’innamoramento duri al massimo tre anni può essere considerato il risultato di pressioni evoluzionistiche, le quali garantirebbero un coinvolgimento elevato per il tempo necessario alla gravidanza e alla protezione del padre almeno per il primo periodo di vita del bambino. In seguito, la dopamina esaurisce la sua funzione euforizzante e nell’organismo si instaura una condizione di assuefazione nella quale il cervello si abitua alle elevate concentrazioni di questo neurotrasmettitore. Tuttavia, laddove emergano altri fattori, quali la fiducia, una forte intimità emotiva oltre che fisica, e il senso di una profonda interdipendenza, la relazione continua ma assume un aspetto diverso. In qualche maniera, se l’attrazione e le emozioni che si provano nelle prime fasi dell’innamoramento sono quasi involontarie e legate principalmente al sistema limbico, nelle fasi successive entra in gioco maggiormente la neocorteccia, così che si mettono in atto strategie per mantenere la relazione (Young & Alexander, 2014).

Sternberg individua tuttavia anche tipologie di amori “non completi”: i rapporti definiti “amore amicizia” sono quelli caratterizzati dalla presenza di intimità e di impegno, ma nei quali manca la passione. La presenza del solo impegno fa definire un rapporto come “amore vuoto”, ed è quello che si riscontra quando due persone continuano a stare insieme ad esempio solo per non sciogliere l’impegno preso. L’amore romantico è quello caratterizzato invece da forte intensità, in un misto di intimità e passione, ma destinato a terminare a causa della mancanza di impegno. L’ “amore fatuo” è definito dalla presenza di impegno e passione, ma è privo delle componenti di intimità e di reciproca conoscenza in grado di rendere più profondo il rapporto.

Ma quando l’amore finisce …

La rottura di un legame affettivo importante, e quindi di attaccamento, è un’esperienza dolorosissima che passa attraverso alcune fasi (Bowlby, 2000):

  • L’obnubilamento e la protesta. Subito dopo la rottura del legame vi è una prima fase di obnubilamento, ovvero di intontimento. Successivamente si iniziano a provare invece emozioni intense ma estremamente contraddittorie: rabbia, grande agitazione, estrema tristezza o sentimenti di colpa. Queste reazioni fanno parte della fase di protesta: tutto l’organismo reagisce e si attiva seguendo l’ipotesi che attraverso queste reazioni intense si riuscirà a ricongiungersi con il proprio partner.
  • La disperazione. Quando diventa più evidente che la separazione è definitiva, cominciano ad emergere una sorta di rassegnazione e una forte sofferenza. Si sta attraversando la fase della disperazione in cui ci si può sentire privi di forze e inattivi, depressi con un ridottissimo coinvolgimento con il mondo esterno. Tali reazioni hanno un senso da un punto di vista biologico poiché è come se l’organismo si mettesse “in condizione di riposo”, così da evitare di incorrere in pericoli esterni dato che la figura di protezione non c’è più. In questa fase nel cervello si attiva l’amigdala, in grado di produrre uno stato di allerta e di paura.
  • Il distacco. Quando si perde completamente la speranza si entra nella fase definita da Bowlby del distacco e si attivano gli stessi circuiti cerebrali che si accendono quando si prova un dolore fisico. Il dolore per la perdita dura al massimo un anno, un anno e mezzo, con un’ampia variabilità individuale a seconda delle caratteristiche di personalità. Alla fine di questo processo l’individuo si riorganizza a livello pratico ed emotivo e, data l’importanza di avere accanto una figura di attaccamento in grado di proteggere e, se si è in età riproduttiva, la necessità di aver un compagno/a con cui avere progenie, si inizia ad avvertire il bisogno di dopamina e di serotonina che solo un nuovo innamoramento può dare.

In conclusione appare evidente che la biologia influenza moltissimo la vita degli individui, tuttavia non la determina in assoluto. Infatti il cervello è plastico, perciò è rintracciabile una grande variabilità da individuo a individuo nel modo in cui il cervello reagisce agli stimoli che provengono da un partner nelle varie fasi attraverso cui si snoda un rapporto sentimentale. Ognuno ama come ama a seguito dell’intreccio di moltissime variabili che possono essere ecologiche, relazionali, genetiche (Attili, 2017).

 

Inward e outward nelle organizzazioni di significato personale

Nella visione post razionalista di Vittorio Guidano, vengono individuati due diversi poli emotivi; essi sono l’inwardness e l’outwardness.

 

Queste due dimensioni si rifanno a due differenti modalità di sentire le emozioni e di organizzare la propria esperienza di vita. Nella inwardness il corpo diventa il nucleo centrale, invece nella outwardness l’esterno diventa la parte essenziale a cui si rifà l’individuo. L’inward implica la disposizione a trasformare l’ambiente esterno al fine di farlo divenire più adatto alle attivazioni interne; la persona ha la tendenza a rivolgere il divenire della propria identità sulla interiorità e sulla tutela del senso di sé.

Nell’outward, il soggetto è centrato sulla discrepanza e sulla mutevolezza del contesto di relazione di cui fa parte. Ciò comporta la tendenza a modificare il proprio mondo interno al fine di renderlo somigliante con il mondo esterno.

Il soggetto inward possiede come emozioni prevalenti la felicità, la paura, la collera e la costernazione. Egli legge attentamente i propri stati interni facendo riferimento alla componente fisica, visto che ha fiducia esclusivamente nelle proprie sensazioni; inoltre focalizza la propria esperienza a partire dall’interno definendo il proprio sentire in maniera trasparente. La persona con dimensione outward, invece, si baserà sugli elementi esterni per dare un senso a ciò che avviene. Ciò lo porta a una variazione dei propri vissuti sulla base di veri e propri codici esterni. Egli non si fonda sulle sue emozioni per focalizzarsi su di sé, ma si rifà a modelli esterni e ad emozioni varie come la fierezza, la colpa, l’imbarazzo e il disgusto. Un soggetto outward avrà maggiore difficoltà a demarcare i propri stati interni, che appaiono vaghi o deboli, ma al contrario si uniformerà a quelli esterni per sentirsi apprezzato e considerato.

A livello di organizzazioni di significato personale (OSP) che possiamo annoverare troviamo:

  • Fobica (FOB)
  • Dappica (DAP)
  • Depressiva (DEP)
  • Ossessiva (OSS)

Mentre le FOB e DEP sono inward, le DAP e OSS al contrario sono outward.

L’organizzazione fobica è di tipo controllante. I soggetti ricercano protezione nei legami interpersonali e sono fortemente centrati sui messaggi che gli invia il proprio corpo. Questo tipo di organizzazione si ha in soggetti che hanno sperimentato un attaccamento insicuro evitante o coercitivo ed in cui c’è difficolta nella separazione con l’altro. Le madri dei soggetti FOB fanno percepire il mondo circostante come pieno di insidie, pericoloso e minaccioso, non agevolando il distacco da sé.

I DAP hanno un Sé indefinito, cercano di conformarsi agli altri per ottenere consenso ed approvazione. La figura genitoriale materna è predominante, basata sull’esteriorità e su modelli di perfezionismo. A livello familiare la comunicazione è priva di scontri (come se andasse sempre tutto bene) e critiche.

L’organizzazione DEP invece è caratterizzata dal tema della perdita. I soggetti DEP hanno una forte sensazione di non amabilità. Essi vivono la vita con sfiducia e cinismo e la sensazione di dovercela e potercela fare totalmente in autonomia è preponderante.

Infine gli OSS costruiscono un senso di Sé basato sulle regole; tengono a tenere sotto controllo ogni stato emotivo senza lasciarsi mai andare; tutto ciò nasce dal fatto che il soggetto OSS vuole controllare le oscillazioni emotive che lo pervadono.

 

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