expand_lessAPRI WIDGET

Come il modello SCERTS offre nuovi orizzonti sull’autismo – Il Modello SCERTS: un approccio multicomprensivo per bambini con disturbo dell’autismo – Recensione

Il libro Il Modello SCERTS: un approccio multicomprensivo per bambini con disturbo dell’autismo è il primo di due volumi e si incentra sulla valutazione del bambino con sindrome dello spettro autistico.

 

 Modello SCERTS è approccio globale e multidisciplinare realizzato da Barry M. Prizant, Amy M. Wetherby, Emily B. Rubin, Amy C. Laurent e Patrick Rydell e adattato al contesto italiano da Anne-Marie Hufty, Davide Protasi, Maria Pia Scipioni collaboratori del centro “Sinapsy” di Roma.

Alle spalle della realizzazione di questo modello, lo SCERTS si sviluppa sulla base di alcune necessità che altri modelli valutativi e terapeutici/riabilitativi non soddisfano: la funzionalità del bambino nei suoi diversi contesti insieme a tutte le variabili insite nell’ambiente.

Proprio sulla base di queste lacune, i ricercatori hanno inquadrato all’interno del modello tre dimensioni evolutive primarie che riguardano lo sviluppo del bambino, ovvero la comunicazione sociale (SC), la regolazione emotiva (ER) e il supporto transazionale (TS). Da queste tre aree trae origine anche l’acronimo SCERTS.

Solitamente, negli altri approcci educativi e terapeutici, le abilità sociali vengono insegnate in format educativi altamente strutturati, ripetitivi come in un addestramento, soprattutto durante le prime fasi di “abilitazione-riabilitazione”. All’interno del modello SCERTS viene data la priorità alla comunicazione sociale, alla regolazione emotiva e al supporto transazionale dove vengono coinvolti educatori, genitori e clinici così da avere un impatto positivo sullo sviluppo del bambino e sulla sua qualità di vita. In altre parole, questo modello mira alla presa in carico del bambino nella sua globalità e in tutti i suoi contesti di vita (casa, scuola, centri ricreativi, terapia e comunità sociale).

Il libro è sviluppato in modo che il lettore o il professionista si costruisca l’immagine del modello SCERTS man mano che procede con la lettura dei capitoli. Il testo è molto chiaro e specifico nei concetti così da rendersi digeribile anche per chi volesse conoscerne gli aspetti del modello senza però essere un professionista in ambito di valutazione psicologica. La parte del libro dedicata alla definizione di valutazione e assessment potrebbe risultare un po’ dispersivo per chi già possiede diverse conoscenze ma, nonostante il dilungarsi su aspetti noti per alcuni, gli autori mettono in risalto alcune indicazioni e suggerimenti operativi che possono emergere nella pratica dell’assessment.

L’aspetto più innovativo è che questo modello si pone di fornire a tutti i caregiver degli strumenti e delle strategie adattabili ad ogni contesto, quindi svincolati da setting o specifiche situazioni e ambienti, infatti, come si sottolinea nel libro, questo modello è flessibile, non programmatico e non esclusivo.

La flessibilità è data dal creare le condizioni che permettono al bambino con autismo di avere delle relazioni sociali soddisfacenti e raggiungere il migliore successo possibile sulla base delle sue possibilità non vincolato a una sequenza rigida di obiettivi da raggiungere.

La caratteristica di non essere un modello programmatico e non esclusivo si riferisce all’assenza di un programma specifico di apprendimento e all’opportunità, dove necessario, di inglobare in sé tutte le possibili strategie e metodologie usate nel campo dell’autismo.

L’unico modo in cui questo modello potrebbe essere definito strutturato è sulle indicazioni che possiamo ritrovare nel terzo capitolo del libro dove si dà spazio a vere e proprie linee guida per eseguire l’assessment. Proprio in questo capitolo viene sottolineato questo aspetto “Per ogni area gli obiettivi sono organizzati in base a tre stadi comunicativi – stadio di partner sociale, linguistico e conversazionale – a loro volta suddivisi in sotto-obiettivi ognuno con criteri specifici. Questo capitolo descrive nel dettaglio le schede di osservazione (SAP-O) e i loro criteri di utilizzo. Le schede sono riportate nell’appendice A di questo volume, e suggeriamo di averle sottomano durante la lettura di questo capitolo”

Il modello di valutazione SCERTS utilizza un approccio più qualitativo anziché quantitativo e standardizzato. Questo modo di proporsi, quindi, sembrerebbe essere utile in una fase secondaria durante il percorso di valutazione, cioè quando sulla base di una diagnosi già effettuata è importante stabilire il funzionamento dell’individuo per individuarne punti di forza e debolezza che possano servire da base per l’avvio della presa in carico da parte di tutte quelle figure che si occupano di riabilitazione.

L’utilizzo di questo modello permette di approcciarsi a un percorso di presa in carico in maniera diversa e senza particolari restrizioni o percorsi prestabiliti. Inoltre, permette di sperimentare e individuare nuovi modi di aiutare un bambino con autismo a migliorare i suoi punti di debolezza e raggiungere il massimo delle sue potenzialità, obiettivo che a volte si perde nella strutturazione rigida di un percorso di sostegno e abilitazione verso un’aspettativa di autonomia molto spesso particolarmente desiderata dai caregiver.

Questo libro, nello specifico questo modello, potrebbe essere un sostegno utile a tutti quei professionisti che possiedono un bagaglio di conoscenze sui diversi modelli di valutazione e sostegno nell’ambito dell’autismo solitamente applicati ma che vorrebbero innovare il modo di utilizzare tutte queste nozioni per sentirsi meno vincolati a rigidi protocolli.

 

Che cosa porta le donne a fingere l’orgasmo? I predittori della finzione di un orgasmo

Uno studio di Harris e colleghi del 2019 aveva come obiettivo quello di studiare la probabilità e la frequenza di finzione dell’orgasmo tra le donne.

 

La funzione orgasmica femminile è stata studiata principalmente in relazione al disturbo orgasmico, definito come un ritardo o l’assenza nel raggiungimento dell’orgasmo, in una fase di eccitazione sessuale (APA, 2013), focalizzandosi in maniera molto ridotta sull’orgasmo non disfunzionale. Secondo Levin (2014), la risposta orgasmica può essere prodotta da diversi stimoli, classificati in due categorie: la prima è una varietà di stimoli fisici in diverse parti del corpo come l’area genitale o il seno; la seconda è l’immaginazione mentale e la fantasia. La risposta orgasmica può essere descritta attraverso indicatori fisiologici oggettivi e risposte psicologiche. Gli indicatori fisiologici includono le contrazioni vaginali, dello sfintere anale e dell’utero e il rilascio di prolattina. Meston e colleghi (2004) hanno descritto la risposta orgasmica mentale come una “sensazione di picco variabile e transitoria di piacere intenso, che crea uno stato alterato di coscienza, inducendo benessere fisico e mentale e appagamento”.

L’orgasmo porta quindi alla sazietà sessuale e a un meccanismo di feedback che regola l’eccitazione sessuale e il comportamento (Passie et al., 2005).

Essere “sessualmente normale” implica per molte donne dover raggiungere l’orgasmo quasi ogni volta che hanno un’interazione sessuale con un’altra persona e la ricerca ha dimostrato che le donne spesso fingono l’orgasmo per adattare il comportamento sessuale a un “codice di normalità”.

Fingere l’orgasmo implica un’esagerazione del piacere sessuale al punto che il partner crede che la donna abbia provato un orgasmo senza che ciò sia realmente accaduto; questo può comportare gemiti e vocalizzazioni esagerate, e/o contrazioni muscolari (Harris, Hornsey, Larsen e Barlow, 2019).

Cosa spinge le donne alla finzione dell’orgasmo

Diversi studi in letteratura si sono occupati di studiare le ragioni per le quali una donna è portata a fingere un orgasmo, focalizzandosi sui fattori associati alla probabilità che questo accada. Uno studio del 2013 di Ellsworth & Bailey, ha individuato nella facilità con la quale si raggiunge, un primo fattore che determina il numero di occasioni in cui una donna potrebbe considerare di fingere: solo il 33% delle donne eterosessuali riferisce di provare un orgasmo “sempre”, rispetto al 75 % degli uomini. Un’altra ragione spesso identificata dalle donne è il desiderio che il rapporto sessuale termini; le ragioni possono essere stanchezza, noia o non essere dell’umore giusto (Goodman et al., 2017). Infine alcuni risultati della letteratura suggeriscono che le donne, sapendo che l’orgasmo è apprezzato dal partner, sono propense a fingere di provarlo per evitare che l’uomo le tradisca: gli uomini che riferiscono che la loro partner ha orgasmi raramente sono più propensi a tradirla (Ellsworth & Bailey, 2013).

Altri studi si sono invece occupati di individuare il ruolo delle ideologie e delle visioni del mondo nella simulazione dell’orgasmo; sembra infatti che le donne che sono religiose e politicamente conservatrici siano propense a fingere l’orgasmo per conformarsi ad un copione sessuale atteso e rispettare le norme sociali (Muehlenhard & Shippee, 2010). Inoltre è possibile che un codice morale rigido sull’onestà predica una minore finzione da parte di alcune donne (Graham et al., 2009). Altri aspetti che influenzano come le donne pensano e agiscono durante il sesso, sono la visione di genere e il sessismo: le donne che hanno una visione di genere tradizionale considerano il loro piacere secondario a quello maschile, evitando quindi di richiedere al partner piacere sessuale (Harris et al., 2016). Le donne che invece approvano atteggiamenti più femministi, valorizzano il piacere sessuale reciproco, evitando di fingere i loro orgasmi (Lafrance et al., 2017).

Probabilità e frequenza della finzione dell’orgasmo tra le donne

Uno studio di Harris e colleghi del 2019 aveva come obiettivo quello di studiare la probabilità e la frequenza delle donne di fingere un orgasmo; nello specifico si sono occupati di verificare i predittori della finzione dell’orgasmo tra i quali alcuni fisici: il numero di partner sessuali e la capacità di raggiungere l’orgasmo; alcune preoccupazioni di infedeltà: l’infedeltà del partner e la competitività intrasessuale; infine alcuni predittori ideologici come la religiosità, l’ideologia politica, il sessismo e le credenze di genere sul sesso. 462 donne di età compresa tra 19 e 73 anni hanno preso parte allo studio. I risultati, come previsto, mostrano che il 67% delle donne ha finto un orgasmo con il partner attuale e il 77% ne ha finto uno nel corso della vita; tra queste l’orgasmo è stato simulato rispettivamente il 25% delle volte con il partner e il 32% delle volte totali che hanno avuto un rapporto sessuale. Inoltre, come mostrato da ricerche precedenti, le donne erano più propense a fingere un orgasmo se sospettavano che il partner le tradisse, se la facilità di raggiungimento dell’orgasmo era ridotta e se avevano un numero maggiore di partner sessuali. Fattori ideologici e convinzioni su genere, orgasmo e sesso non hanno invece predetto significativamente la finzione di un orgasmo, ad eccezione della credenza che gli uomini abbiano bisogno che la donna raggiunga l’orgasmo per raggiungere il proprio piacere sessuale. Le donne politicamente conservatrici e religiose, legate alla tradizione e alle norme sociali, non sembrano essere più propense a fingere i loro orgasmi per conformarsi a copioni sociali tradizionali. L’ideologia politica e la religiosità, sebbene possano essere indirettamente collegate alla sessualità, non risultano correlate con la disponibilità a fingere l’orgasmo; probabilmente il loro contenuto è troppo eterogeneo e le credenze e gli atteggiamenti di coloro che si definiscono religiose o politicamente conservatrici, sono molto differenti gli uni dagli altri (Harris et al., 2019). Sembra infatti che questi fattori siano rilevanti per altri comportamenti sessuali tra i quali l’infedeltà e la masturbazione, senza influire sulla finzione di un orgasmo (Ahrold et al., 2011).

 

Giornata Internazionale della Gentilezza: gli effetti positivi dell’essere gentili verso gli altri e noi stessi

Il 13 Novembre si celebra la Giornata Internazionale della Gentilezza – Scopriamo cos’è la gentilezza, perché è importante parlarne, quali sono i benefici che porta nelle nostre vite e come allenarla

 

La gentilezza nelle parole crea fiducia. La gentilezza nel pensare crea profondità. La gentilezza nel dare crea amore
 (Lao-Tzu)

 

La gentilezza è considerata una virtù e parte integrante dell’etica. In filosofia, la gentilezza è definita come una preoccupazione genuina e profonda per gli altri (Schopenhauer, 1840/2006). La gentilezza riflette dunque una particolare sensibilità per gli altri, oltre che per se stessi. In altre parole, essa è un atteggiamento premuroso nei confronti della vita, che crea significato e scopi. Implica anche una comprensione genuina della preziosità di ogni vita nella sua unicità. Essere gentili richiede consapevolezza delle emozioni e degli stati d’animo propri, degli altri e della relazione tra questi (Malti, 2020).

Gentilezza e benessere

Perché celebrare la Giornata Internazionale della Gentilezza? Perché è importante parlarne?

Innanzitutto, la gentilezza richiama l’altruismo e l’altruismo richiama la cooperazione. Sappiamo benissimo quanto la cooperazione tra i membri di una specie sia fondamentale per garantirne la sopravvivenza. Inoltre connetterci con gli altri attraverso atti gentili ci consente di soddisfare i nostri bisogni psicologici di base di relazione e appartenenza. La gentilezza ha dunque effetti positivi a livello sociale di cui siamo pienamente a conoscenza. E a livello individuale cosa accade?

Ricordiamoci l’ultima volta in cui abbiamo compiuto un atto gentile, probabilmente ci sentiremo subito bene, sentiremo un senso di soddisfazione, un “bagliore caldo” che accende i nostri sistemi di ricompensa del cervello. La gentilezza non solo fa bene, ma ci fa anche bene. Compiere atti di gentilezza può aumentare la soddisfazione per la vita, l’umore positivo e l’accettazione da parte dei pari. Può stimolare il rilascio di serotonina e ossitocina, riducendo così paura e ansia. Per gli adolescenti, essere gentili può aumentare l’autostima. La gentilezza ci rende felici.

Oltre ai vantaggi psicologici, la ricerca lega anche il comportamento di aiuto a una migliore salute fisica. In uno studio sono stati monitorati più di 7.000 adulti statunitensi, scoprendo che coloro che fanno volontariato sono più attenti alla prevenzione medica rispetto a chi non fa volontariato (Kim & Konrath, 2016). In un altro studio, gli anziani che hanno speso soldi per gli altri avevano una pressione sanguigna più bassa rispetto a quelli che hanno speso soldi per se stessi (Whillans, A. V., et al., 2016).

Lyubomirsky e i suoi colleghi hanno persino scoperto che le persone che hanno compiuto atti di gentilezza, ovvero qualsiasi azione che implichi aiutare, condividere o prendersi cura degli altri, hanno mostrato miglioramenti nell’espressione genica associati a un profilo immunitario più sano (Nelson Coffey et al.. 2017).

Consigli per allenare la gentilezza

In occasione della Giornata Internazionale della Gentilezza, riportiamo alcuni consigli per allenarsi ad essere gentili. Per la psicoterapeuta e autrice di The Kindness Cure, la dottoressa Tara Cousineau, la gentilezza è un momento di connessione umana. Poiché ogni interazione porta con sé una potenziale minaccia e una potenziale ricompensa, ci vuole coraggio nel connettersi all’altro. Ma come allenarci a diventare più gentili?

Ecco i tre consigli della Dott.ssa Cousineau (2018):

  • Inizia da te stesso


Le persone possono essere straordinariamente scortesi con se stesse quando parlano della loro vita, senza riuscire neanche a rendersene conto. Come dice la Dott.ssa Cousineau: “Se ascoltiamo con attenzione il nostro dialogo interno, molto probabilmente non diremmo le stesse parole a qualcuno che amiamo: ‘non sono abbastanza bravo, non sono abbastanza intelligente, non sono abbastanza’. Siamo impantanati nei rimpianti o nelle preoccupazioni“. La chiave per imparare a essere più gentili con noi stessi risiede nell’autocompassione che si basa su tre pilastri: auto-gentilezza (trattare te stesso con la gentilezza e la comprensione che mostreresti a qualcuno che ami), comune umanità (riconoscere che non sei solo nel tuo dolore e che la sofferenza è un’esperienza umana condivisa), e consapevolezza (mantenere le proprie esperienze negative così come sono, senza sopprimerle o identificarsi eccessivamente con esse).

  • Coltiva il tuo istinto di gentilezza


Alcune persone tendono ad essere più empatiche di altre. In generale, tuttavia, tutti nasciamo con un istinto di gentilezza (compassione). Il nostro sistema nervoso si è evoluto per avere una sensibilità molto sintonizzata nel prendersi cura degli altri. Darwin considerava l'”istinto di simpatia” come uno dei più forti istinti umani che ha aiutato la nostra specie a sopravvivere e prosperare (Pogosyan, 2019). È questo istinto che dobbiamo coltivare, secondo Cousineau, rafforzando il nostro muscolo della compassione. Un modo per coltivare la compassione e la gentilezza è attraverso la meditazione. Un esercizio consigliato dalla Dott.ssa Cousineau, ripreso dalla Dott.ssa Barbara Fredrickson, consiste nel chiudere gli occhi, pensare a qualcuno della nostra vita che amiamo e mandare a questa persona degli auspici di benessere, amore e sicurezza ripetendo in silenzio: “Possa tu sentirti al sicuro, possa tu sentirti felice, possa tu sentirti sano, possa tu vivere con facilità“. Dopo aver espresso questi sentimenti affettuosi, ripetiamo in silenzio le quattro frasi pensando questa volta di indirizzarle a qualcun altro. Non dobbiamo poi dimenticare di inserire anche noi stessi nel nostro circolo meditativo di compassione (“Possa io sentirmi al sicuro, possa io sentirmi felice…”). L’esercizio di meditazione può essere svolto più volte, espandendo gradualmente la cerchia di persone. Praticare questa meditazione regolarmente può aumentare l’auto-compassione e diminuire l’autocritica.

  • Trova il modo di essere gentile

Per coltivare la gentilezza come pratica, la Dott.ssa Cousineau ci invita a riflettere su una domanda chiave: come posso trovare il modo di portare gentilezza nella mia giornata, sia per me che per un’altra persona? Potremmo cercare qualcosa di generoso da dire sulle persone con cui stiamo interagendo. Potremmo trovare modi per essere utili agli altri. Potremmo ricaricare le nostre giornate con momenti di gratitudine e apprezzamento, cura e curiosità. Potremmo rivolgerci a noi stessi con la gentilezza che desideriamo ricevere dagli altri attraverso l’auto-compassione e la cura di sé. Ciò include diventare consapevoli quando ci sentiamo sopraffatti, sofferenti e quando i nostri sistemi di minaccia vengono innescati. Dopotutto, come osserva Tara Cousineau, lo stress è spesso ciò che ostacola la gentilezza. Alla fine della giornata, sarebbe utile concentrarsi sulle cose che sono andate bene e notare cosa succede. Forse sentiremo un sentimento positivo pervadere il nostro corpo e la nostra mente, concediamoci il piacere di lasciarci inebriare da tale sensazione.

 

Intelligenza emotiva

Goleman, nella sua opera Intelligenza emotiva mette in evidenza come il concetto classico di intelligenza legato alla mera didattica non è sufficiente per determinare il successo in campo affettivo, lavorativo e sociale del soggetto.

 

L’intelligenza emotiva (EQ) è la capacità di un individuo di dare un nome alle proprie e altrui emozioni al fine di raggiungere un determinato obiettivo personale; è la capacità di dare ascolto alle proprie sensazioni, selezionando quelle che rappresentano una miccia per dare il massimo e scartando quelle che ci fanno stare solo male, rallentando in maniera schiacciante il percorso verso il nostro obiettivo di vita.

Lo psicologo statunitense Goleman ha ritenuto che questa capacità possa essere incrementata dallo sviluppo di 5 importanti componenti che vediamo qui di seguito:

  • consapevolezza di sé: è importante avere una costante e continua attenzione riflessiva verso la propria esperienza emotiva, così da liberarsi quanto più facilmente delle emozioni negative che interferiscono con il raggiungimento dei nostri obiettivi, ostacolando il nostro percorso di vita.
  • gestione del sé, ovvero la gestione delle proprie emozioni in maniera adeguata, è la capacità di non farsi sopraffare dalle emozioni negative, al fine di essere in una vita fatta di equilibri e non di equilibrismi. La capacità di non eccedere e di mantenere il self-control è fondamentale ovunque, perché qualsiasi contesto è fatto di continui cambiamenti, persistenti difficoltà da affrontare, pertanto, avere una mentalità flessibile e propensa al cambiamento è una qualità imprescindibile dell’individuo.
  • empatia: consiste nella capacità di mettersi nei panni degli altri, così che sia possibile comprendere lo stato emotivo altrui e adattare il proprio, ciò permette di lavorare in gruppo in maniera serena e produttiva:
  • motivazione: rappresenta lo stimolo a fare sempre di più, questa può essere differente da soggetto a soggetto, per alcuni può essere intrinseca, per altri estrinseca, ovvero qualcuno lo fa per appagare un bisogno personale di autorealizzazione, qualcun altro per assecondare il desiderio di una persona cara (un genitore o un partner), qualcun altro ancora può avere una motivazione concreta data ad esempio dallo stipendio, quindi economica:
  • abilità sociali: parliamo delle life skills ovverosia la capacità di destreggiarsi nella confusione della società in cui viviamo, un esempio rilevante è dato dalla resilienza ovvero la capacità di resistere agli urti, di farli rimbalzare all’esterno come un boomerang, perciò, di non farsi scalfire dalle difficoltà che naturalmente si presentano nel nostro percorso di vita.

Goleman, nel 1996, nella sua opera Intelligenza emotiva (Goleman, 1996) mette, inoltre, in evidenza come il concetto classico di intelligenza legato alla mera didattica (saper leggere, scrivere e far di conto) non è sufficiente per determinare il successo in campo affettivo, lavorativo e sociale del soggetto. L’autore riprende il concetto d’intelligenza emotiva già descritta precedentemente da Gardner nelle due forme intrapersonale e interpersonale e distinguendo abilità personali, ovvero capacità di riconoscere le emozioni, e sociali, ovvero il modo in cui ci si interfaccia col mondo esterno.

Goleman, ha individuato tre macro-categorie di funzionamento meta-emotivo del soggetto che si contraddistinguono sulla base di come ognuno gestisce le proprie emozioni:

  • l’autoconsapevole: colui che è a piena conoscenza di sé e dei propri limiti, ciò gli permette di non farsi sopraffare da stati emotivi negativi e di vivere una vita piena;
  • il sopraffatto, viceversa viene schiacciato dalle proprie emozioni negative;
  • il rassegnato, conosce a pieno i propri sentimenti, ma li accetta passivamente, senza far nulla per far cambiare rotta, vive in uno stato di perenne impotenza e stallo in una condizione che non gli piace.

Banalmente potremmo dire che l’intelligenza non è fatta solo di cervello e quindi della componente razionale, ma anche di cuore, della componente emotiva. Pensiamoci, come sarebbe triste una vita senza sentimenti e fatta solo di cose prestabilite che vanno esattamente nel verso che vorremmo?

L’intelligenza emotiva è stimolata dalla creatività che De Bono definirebbe olistica (De Bono, 2011), ci permette di accrescere la nostra creatività, di dare spazio al nuovo, di non rimanere chiusi in quella bolla di sapone di cose che conosciamo già a menadito. Ci permette di accogliere il diverso, ciò che è diverso da noi. L’empatia ci permette di avvicinarci allo stato emotivo di chi ha una cultura diversa dalla nostra o un modo di pensare differente. La resilienza ci permette di non farci sopraffare dalle inevitabili problematicità che la vita ci pone, ma ci offre l’occasione di trarre insegnamenti dagli ostacoli che ci si presentano. Superare un momento di difficoltà rappresenta un momento di crescita personale, così che quando in futuro ci ritroveremo di fronte alla stessa situazione, non ci faremo più prendere dal panico, ma, memori di quanto accaduto in precedenza, sapremo cosa fare e cosa non fare. Manterremo la calma, la competenza della gestione del sé di cui parla Goleman, ovvero l’autocontrollo. Tecniche di rilassamento come la meditazione, lo yoga, o la pratica di consapevolezza della Mindfulness, possono aiutarci a migliorare la gestione delle nostre emozioni. La Mindfulness ci fornisce, ad esempio, l’occasione di prendere consapevolezza del nostro corpo, di essere presenti alla nostra vita momento per momento, concentrandoci su quello che ci sta accadendo.

 

L’impatto dell’epidemia di Covid-19 sull’immagine corporea e l’attività fisica

L’epidemia di Covid-19 ha generato cambiamenti significativi nella routine quotidiana e negli stili di vita delle persone, nell’accesso alle risorse, creando un notevole livello di stress e disagio.

Matteo Mercadante – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

I comportamenti e le risposte psicologiche delle persone sono fondamentali per salvaguardare la loro salute emotiva e fisica durante questo periodo senza precedenti. Esse possono rispondere a tale stress impiegando una serie di strategie disadattive, come comportamenti volti ad incrementare le preoccupazioni in merito all’immagine corporea (ad esempio ruminazioni e controllo del corpo).

Rimanere a casa durante i lockdown, sebbene sia stata una misura sicura, ha generato anche delle conseguenze negative indesiderate: la permanenza prolungata a casa ha portato ad un incremento dei comportamenti sedentari, come trascorrere una quantità eccessiva di tempo stando seduti, sdraiati per attività quali ad esempio guardare la tv, giocare, utilizzare dispositivi mobili; riduzione dell’attività fisica regolare (quindi minor dispendio energetico); o impegnarsi in attività di evitamento che, di conseguenza, portano ad un aumento del rischio e al potenziale peggioramento delle condizioni di salute.

Covid-19 e immagine corporea

Inoltre, i periodi di lockdown e le relative restrizioni hanno contribuito a modificare la percezione del proprio corpo. L’immagine corporea è un costrutto multidimensionale che descrive il modo in cui una persona percepisce e valuta il proprio aspetto fisico. Secondo Slade (1994), l’immagine corporea è “l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e alle singole parti del nostro corpo.”

Slade aggiunge che l’immagine corporea ha una componente percettiva (ad esempio, come la persona visualizza la taglia e la forma del proprio corpo), una attitudinale (cosa pensa la persona del proprio corpo), una affettiva (sentimenti verso il proprio corpo) ed, infine, una comportamentale (alimentazione, attività fisica, ecc). Tali componenti sono utili per comprendere l’immagine che ognuno ha del proprio corpo. La prospettiva cognitivo-comportamentale fa una distinzione tra “body image evaluation” e “body image investiment”: la prima comprende la soddisfazione o insoddisfazione per il proprio aspetto, derivante da una congruenza o discrepanza tra percezione del proprio fisico e ideali estetici interiorizzati; per quanto riguarda l’investimento, si riferisce all’importanza psicologica (cognitiva e comportamentale) che gli individui danno al proprio aspetto fisico.

In uno studio di Bernat e co (2021) emerge che la pandemia ha contribuito al peggioramento della salute mentale nelle popolazioni di tutto il mondo, compreso lo sviluppo di un’immagine corporea negativa e all’emergere o all’aumento dei sintomi tipici dei disturbi alimentari. L’incremento dello stress e dell’ansia legati al Covid-19, che porta a un peggioramento dell’immagine corporea, può avere numerose cause, tra cui le seguenti:

  • modifiche alla routine quotidiana, compreso l’accesso limitato alle strutture ricreative e alle palestre, che possono aumentare le preoccupazioni per il proprio corpo;
  • aumento della copertura mediatica del cibo, del suo acquisto e delle potenziali carenze, che possono aumentare le elucubrazioni sul mangiare o promuovere l’accumulo e l’abbuffata;
  • cambiamenti nello svolgimento delle mansioni professionali, come lo smart working e contattare i colleghi attraverso videoconferenze, incrementando l’esposizione e la necessità di guardarsi e vedere il proprio aspetto e di apprendere nuove abilità legate all’autopresentazione;
  • aumento della sensazione di perdere il controllo sulla situazione attuale, che può innescare comportamenti volti a “riprendere il controllo attraverso il controllo del corpo”;
  • aumento del tempo trascorso sui social media, che può esacerbare le preoccupazioni per l’aspetto e il proprio corpo, incrementando condotte compensatorie come, ad esempio, dieta restrittiva e vomito;
  • contatto limitato con altre persone, che può essere associato alla legittimazione di alcuni sintomi del disturbo alimentare (ad esempio, evitamento del social eating e dell’esposizione corporea);
  • possibilità limitate di contatto diretto con la famiglia, gli amici e altre persone, che sono importanti fonti di supporto quotidiano e aiutano a regolare le emozioni attraverso meccanismi adattivi.

Covid-19 e attività fisica

L’attività fisica può essere definita come qualsiasi movimento corporeo prodotto dal muscolo scheletrico che si traduce in un dispendio energetico, e può includere l’esercizio, la camminata, il giardinaggio e le faccende domestiche. La ricerca mostra che l’attività fisica è positivamente associata a diversi risultati desiderabili, tra cui contentezza sociale, salute fisica e mentale. Inoltre è stata riportata una diminuzione della pratica di attività fisica durante il lockdown e un aumento di comportamenti sedentari (Stockwell e co, 2021).

Negli adulti e nei bambini in salute si può riscontrare una ridotta attività fisica durante il lockdown, nonostante varie organizzazioni governative e linee guida dei professionisti abbiano fornito indicazioni su come rimanere attivi durante la pandemia. Alcuni studi hanno dimostrato che le persone più attive nel pre-lockdown erano più propense a diminuire l’attività fisica durante la quarantena.

Un altro studio condotto su bambini in sovrappeso (Badesha e co, 2021) sottolinea le pochissime opportunità di impegnarsi in attività fisiche durante il lockdown e l’aggravarsi della situazione con la chiusura delle scuole: è stato rilevato un aumento del peso, dovuto alla perdita dell’influenza positiva che le scuole tendono ad avere sui principali fattori di rischio, come orari dei pasti definiti, attività fisica e orari del sonno. L’eccesso di peso acquisito dai bambini durante la pandemia potrebbe essere difficile da invertire, contribuendo al sovrappeso e all’obesità in età adulta.

Essendo stato dimostrato che la diminuita pratica di attività fisica produce effetti negativi come aumento dell’ansia e diminuzione dei livelli di energia, risulta necessario ricorrere alla promozione della stessa non solo per le persone che tendono a condurre una vita più sedentaria, ma anche per quelle con alti livelli di pratica al di fuori del lockdown.

Nel caso di lockdown futuri, è opportuno comprendere e monitorare tali cambiamenti emersi sia per salvaguardare la salute, sia per favorire lo sviluppo di interventi di sanità pubblica fino al ritorno a una “vita normale”.

 

Il panico quotidiano (2013) di Christian Frascella – Recensione

Il panico quotidiano è un romanzo ambientato a Torino che racconta di un uomo il cui equilibrio si incrina ed un disturbo da attacchi di panico travolge un’esistenza apparentemente tranquilla. 

 

In alcuni momenti ho dovuto smettere di leggere, fare una pausa, prendere fiato, spalancare la finestra e sentire l’aria fresca sulla faccia. A tratti la lucida e impietosa descrizione delle crisi mi ha trascinato con sé in un vortice angoscioso di malessere che diventava quasi qualcosa di concreto, qualcosa che si poteva toccare o sentire addosso… Questo è un romanzo, è narrativa, non è un libro scientifico o un saggio… Ma è un libro di cui è interessante parlare in questa sede perché completa con grande forza e impatto ciò che di teoria e di scienza viene detto altrove. Mi ha dato l’impressione di colorare un’illustrazione, di dare corpo e voce a sofferenze che forse a volte è difficile comprendere fino in fondo e che non tutti coloro che le provano sanno esprimere con tanta efficacia.

È un romanzo, si diceva, ed è gradevole la lettura, scorrevole, avvincente. Ma l’organizzazione del sistema psichiatrico di assistenza è riportato abbastanza fedelmente e, per chi conosce i luoghi dove è ambientato il romanzo, posso dire che rispecchia in gran parte la realtà. Ho trovato grottescamente esilarante la descrizione del Servizio per le dipendenze, la coda di utenti, la reciproca curiosità, gli sguardi bellicosi tra protagonisti di diverse avventure. Una volta (e non è il libro, è la realtà), in procinto di ricevere la visita di un dirigente, in ambulatorio ci siamo accorti che stavamo usando come portapenne un contenitore per materiale a rischio biologico!

Il protagonista non è un uomo perfetto, ma dopo aver fatto la sua conoscenza ho avuto la sensazione di tenere a lui e ho sperato per tutto il tempo che trovasse in qualche modo una soluzione per i suoi problemi.

Ho anche intensamente sperato che gli psichiatri del racconto ad un certo punto potessero trovare la frase perfetta, l’intuizione geniale, la chiave di volta, e con grande maestria operare il miracolo e sollevare il protagonista dal suo dolore tra gli applausi della folla.

Il Dr Pratesi (spoiler!!!) alla fine non ne esce tanto male! Riesce a conquistare, malgrado tutto, il rispetto del suo recalcitrante paziente e insieme costruiscono un sistema che è allo stesso tempo attribuzione di senso e tenace accettazione.

Quando è arrivata la fine del libro mi sono anche detta che vi era una lezione di realismo e umiltà: non c’è un paziente perfetto, e non c’è nemmeno un medico perfetto. Ognuno mette se stesso in gioco, fa del suo meglio e si arrovella con quello che ha. Detto questo, trovo particolarmente interessante la conclusione, dove mi è capitato di pensare che la soluzione non è risolvere un problema, ma in qualche modo accettarne la presenza, cogliere il significato dei segnali che i sintomi rappresentano, decodificarne il messaggio, per poter prender meglio la mira e scoprire dove indirizzare gli sforzi per una gloriosa modesta serenità (quotidiana!).

 

Catcalling: dinamiche di potere e scopi comunicativi

Lo studio di Del Greco (2020), ha indagato le motivazioni degli uomini, il livello di tolleranza e il ruolo del potere nel fenomeno del catcalling.

 

Il fenomeno del catcalling

La crescente consapevolezza riguardo le molestie di strada le ha rese oggetto di plurimi dibattiti pubblici e culturali. Le molestie di strada sono generalmente definite come il subire attenzioni sessuali indesiderate da parte di estranei in contesti pubblici. Il catcalling, in particolare, coinvolge gli uomini che usano comportamenti verbali e non verbali per commentare l’aspetto fisico di una donna in modo da oggettivizzarla. Tali comportamenti possono includere l’utilizzo di un linguaggio volgare, fischi, sguardi, gesti e avances sessuali (Farmer, Smock Jordan, 2017). Il catcalling genera significativi effetti negativi sulla vita delle vittime, tra i quali reazioni fisiche, emotive e sintomi psicologici. I sintomi fisici generalmente riportati includono tensione muscolare, problemi di respirazione, vertigini e nausea (Tran, 2015). Inoltre, le donne affermano di avere una rilevante paura legata a un possibile danno fisico come la violenza sessuale (MacMillan et al., 2000). L’interiorizzazione dei sentimenti di invasione, di umiliazione e la paura associata alle esperienze di molestie sono precursori di rabbia repressa, depressione e ansia (Chhun, 2011). L’insieme di questi esiti induce le donne a valutare i loro dintorni, cambiare i modelli di socializzazione, limitare le scelte di abbigliamento e persino evitare certi quartieri o percorsi (Kearl, 2009). Così, gli effetti delle molestie di strada si ripercuotono in ambito fisico e psicologico, portando con sé conseguenti cambiamenti comportamentali. Tali cambiamenti suggeriscono che alla base delle molestie di strada possono esserci questioni di potere. È importante indagare tuttavia l’intento comunicativo alla base del catcalling per comprendere appieno la gamma di ragioni per cui alcuni uomini possono partecipare a tale fenomeno. Per esempio, è possibile che alcuni uomini non agiscano guidati dalla detenzione di potere ma, piuttosto, siano annoiati o credano di esprimere un complimento nei confronti della vittima. L’attitudine degli uomini ad impegnarsi nelle molestie di strada può variare in accordo con i loro sentimenti verso le molestie sessuali.

Uno studio sulle motivazioni sottanti il catcalling

Lo studio di Del Greco (2020), ha indagato le motivazioni degli uomini, il livello di tolleranza e il ruolo del potere nel fenomeno del catcalling.

Il campione dello studio era composto da 348 studenti americani, di cui 143 uomini e 205 donne mediamente ventenni di diverse etnie. Sono state utilizzate due diverse raccolte di questionari, una esclusivamente per gli uomini e un’altra per le donne, ciascuna con item personalizzati per analizzare il fenomeno da due prospettive differenti. I partecipanti hanno compilato una sezione sui comportamenti di molestie di strada, una sui tentativi di controllo e presa di controllo, una riguardo al potere di genere ed una sezione per indagare i motivi comunicativi. La frequenza e desiderabilità delle molestie di strada è stata misurata utilizzando una lista composta da 28 possibili comportamenti di molestie di strada creata da Sullivan (2011). Per quanto riguarda la seconda variabile presa in considerazione, ovvero i tentativi di controllo e presa di controllo, è stata utilizzata una lista di 18 possibili risposte alle molestie di strada (ad esempio “sorridere”, “iniziare a parlare” “fare brutti gesti”). Agli uomini è stato chiesto di indicare quali comportamenti desiderassero come risposta al catcalling, alle donne è stato chiesto di pensare al ricordo più recente legato al catcalling ed indicare quali comportamenti pensavano che il loro molestatore volesse ottenere e quali abbiano effettivamente messo in atto. Per quanto riguarda le credenze sul potere è stato utilizzato un solo item derivato da una scala creata da Dunbar ed Abra (2010), ovvero la domanda “chi ritieni abbia più potere in una relazione?”. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare quale genere avesse più potere secondo loro, in una scala in cui 1 equivaleva “al genere opposto”, 2 equivaleva ad “uguale potere” e 3 indicava “il mio genere”. Per analizzare gli scopi di comunicazione è stata utilizzata la “Interpersonal communication motives scale” (Rubin et al.,1988). Questa scala valuta gli scopi comunicativi ed include 28 item suddivisi in sei categorie: piacere, affettività, inclusione, svago, relax e manipolazione. La tolleranza alle molestie sessuali è stata indagata utilizzando la “Mazer and Percival’s scale” (1989), composta da 19 affermazioni a cui ad ogni soggetto del campione maschile era chiesto di attribuire il suo grado di accordo da 1 (completamente in disaccordo) a 7 (completamente d’accordo). Infine, è stata misurata la desiderabilità sociale utilizzando una versione a 10 item della “Marlowe-Crowne Social Desirability Scale” (Crowne & Marlowe, 1960; Strahan & Gerbasi, 1972) per capire quanto potesse influire sulle risposte date dai partecipanti.

Dallo studio condotto da Del Greco (2020), è emerso che il 78% degli uomini intervistati ha avuto atteggiamenti molesti in strada e di questi l’87% lo ha fatto con l’intento di modificare in qualche modo il comportamento della vittima. In generale, la maggior parte degli uomini vorrebbe che le donne rispondessero alle molestie di strada in modo più positivo, ad esempio sorridendo o iniziando una conversazione. Sembrerebbe dunque che le molestie di strada siano spesso utilizzate dagli uomini come tentativo di controllo. In questo caso, se la donna ha la percezione di avere uguale potere, è più frequente che la stessa metta in atto un tentativo di contro controllo, mentre la frequenza diminuisce se la donna crede di avere un potere inferiore rispetto all’uomo. La ricerca suggerisce che gli uomini hanno più probabilità di avere una maggiore tolleranza alle molestie sessuali quando hanno forti convinzioni sui ruoli di genere tradizionali, hanno un alto grado di dominanza sociale, hanno un alto grado di mascolinità e atteggiamenti ostili verso le donne o di stampo sessista (Glick & Fiske, 1997). Anche il contesto sembra influenzare il fenomeno: è molto probabile che chi molesta in strada non attuerebbe lo stesso comportamento in un ambiente domestico o lavorativo per via delle dinamiche relazionali in corso (Dunbar, 2004). Per quanto riguarda gli scopi legati a questo fenomeno, la motivazione più frequente risulta essere il desiderio di affettività, seguita da piacere, inclusione, svago, relax e manipolazione. Inoltre chi compie catcalling non lo percepisce come esperienza negativa e non si aspetta reazioni negative. Dal punto di vista delle donne è emerso che le motivazioni che potrebbero trovarsi alla base delle molestie sono: piacere, controllo, svago, inclusione, relax e desiderio di affettività.

I dati raccolti dimostrano che le donne sono colpite gravemente dalle conseguenze di questi comportamenti (Fairchild & Rudman, 2008). Pertanto, una maggiore educazione in merito ai sentimenti e alle esperienze delle donne potrebbe ridurre significativamente la comunicazione disfunzionale, la confusione, la paura e la violenza.

 

ABC UPGRADE: il metodo base della terapia cognitiva, e cosa ci permette di scoprire la “tendenza di comportamento”

La tecnica dell’ABC è una delle più conosciute in psicoterapia cognitiva (Ellis 1957, Beck 1975, Fiore 2011).

 

È un esercizio, all’apparenza banale, ma con tantissime potenzialità. Ci consente infatti di “fare ordine” nei nostri pensieri, soprattutto quando il livello emotivo aumenta rendendo tutto più confuso.

In preda ad una crisi d’ansia, capita di essere letteralmente trascinati dalla propria mente e sballottati fra mille pensieri angoscianti: ci si rende conto di star fuggendo a gambe levate, solo dopo aver corso a perdifiato per chilometri.

L’effetto più importante che gli stati emotivi allarmanti hanno su di noi è quello di farci perdere il controllo, apparentemente, sulle nostre azioni.

Ci ritroviamo risucchiati in un vortice, nel quale non percepiamo di avere alcuna scelta consapevole: pensiero e azione sono completamente fusi (Harris 2012).

Mettere ordine nella nostra esperienza attraverso l’ABC

Ma è davvero così?

In realtà è possibile creare un ordine tra ciò che accade, come valutiamo ciò che viviamo, cosa sentiamo e come ci comportiamo: incredibile pensare di avere così tanta scelta!

La psicoterapia cognitiva, parte da un assunto che può sembrare la scoperta dell’acqua calda, ma che in realtà fa molta differenza nella nostra esperienza della sofferenza.

Ci dice che non è tanto ciò che ci accade, ad essere importante nel farci soffrire, ma come lo interpretiamo, come ce lo raccontiamo.

Può sembrare l’uovo di Colombo, e invece no: è comune pensare che siano gli eventi gli unici responsabili del nostro malessere o benessere. In questi termini è una questione di fortuna o sfortuna, siamo in balìa degli eventi della vita. Ma un aspetto di questa spiegazione non torna: come mai di fronte ad uno stesso evento, magari anche traumatico, osserviamo reazioni diverse in persone diverse?

Quante volte ci capita di osservare ammirati persone che sono state vittime di ogni angheria, reagire con forza e risolutezza (e viceversa)?

Non è tanto ciò che accade quindi, ma il modo in cui ce lo raccontiamo sul momento, e come lo includiamo nella nostra storia personale.

Tramite l’ABC abbiamo la possibilità di fare ordine tra eventi, pensieri, emozioni e comportamenti, secondo questo schema (schema 1):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 1

Schema 1

Nella A descriviamo cosa ci ha colpiti, cosa è successo che, secondo noi, ci ha attivati, di qualsiasi cosa si tratti: un evento esterno, in cui sono comprese altre persone; un evento interno, come un pensiero, un ricordo o una sensazione. Qualsiasi cosa, insomma, che attrae la nostra attenzione e che provoca, in noi, una reazione.

Nella B annotiamo ciò che ci passa per la mente, in seguito all’evento che abbiamo descritto nella A. Descriviamo il nostro pensiero “a caldo”, rispetto ciò che è accaduto, come se potessimo osservarlo sullo schermo di un cinema. È importante che il pensiero sia immediato, temporalmente, e descritto in modo più pratico possibile, persino utilizzando il dialetto o le parolacce: meno è filtrato e meglio è.

Nella C, infine, vanno le emozioni provate come rabbia, tristezza, senso di colpa, paura, ansia, angoscia; ed il comportamento che ne è seguito.

Questo tipo di processo, la nostra mente lo fa continuamente, anche se non ce ne rendiamo conto: valutiamo ogni cosa che attira la nostra attenzione, anche se non tutti questi pensieri sono degni di nota. Un pensiero acquista un valore, o una “pesantezza”, in base all’emozione che suscita.

Prendiamo di nuovo lo schema precedente (Schema 2):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 2

Schema 2

Ogni emozione, come una ricetta culinaria, ha una sua composizione, una sua lista di ingredienti: ad esempio se mi rendo conto di aver subito un torto (A), che giudico ingiusto (B), provo rabbia (C-emozione), e avrò voglia di vendicarmi (C-comportamento).

Al contrario, se mi rendo conto di aver commesso un’azione verso qualcuno (A), che giudico ingiusta (B), proverò senso di colpa (C-emozione) e vorrò riparare (C-comportamento).

In questo modo, le emozioni scaturiscono dalle nostre valutazioni, dai nostri racconti degli eventi che viviamo.

Ma non solo, grande importanza ha anche come le inseriamo nella nostra immensa biblioteca cognitiva, dove negli anni abbiamo accatastato tomi su tomi, man mano che facevamo esperienze, davamo giudizi e provavamo emozioni.

Collocare nella storia di vita il vissuto rilevato con gli ABC

La nostra storia di vita, a sua volta, influenzerà il modo in cui, di volta in volta, valuteremo ciò che ci accade e proveremo determinate emozioni; ciò ci indurrà, poi, a certi giudizi (che possono diventare pre-giudizi), piuttosto che altri.

Esisterà, quindi, un modo di raccontarci e raccontare il mondo attorno a noi, che conosciamo e che come un filtro, utilizzeremo più spesso.

Il problema maggiore di tale filtro, è che tende ad essere rigido, a non modificarsi nel tempo o in base alle esperienze: soprattutto se l’evento che l’ha creato ha scatenato una reazione emotiva forte.

Se nella mia vita ho fatto esperienze di fallimento, e per questo mi sono raccontata come incapace, magari sostenuta da critiche di chi mi stava intorno, il filtro che si creerà mi suggerirà che sono un’incapace, che non vale la pena di provare esperienze nuove perché tanto fallirò e per me sarà gravissimo, perché non ho conosciuto nient’altro.

Provando a costruire uno schema (Schema 3):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 3

Schema 3

La storia di vita costituirà, quindi, una sorta di ago della bilancia verso i giudizi che daremo, rispetto agli eventi che ci accadranno.

Concentriamoci ora, per un attimo, sulla C.

Abbiamo detto che nella C, c’è una duplice informazione: le emozioni risultanti dal processo di valutazione tra pensiero ed evento, e il comportamento conseguente.

In realtà esiste un’altra informazione, importante da considerare: potremo chiamarla la “tendenza di comportamento”.

Rispetto al comportamento messo in atto, la tendenza di comportamento ci racconta una storia diversa, importante da considerare soprattutto quando siamo abituati, magari proprio a causa della storia di vita, ad esempio a trattenerci automaticamente dall’esprimere ciò che proviamo.

Abbiamo detto che ogni emozione ha degli ingredienti cognitivi, tuttavia la normale catena di eventi prevista per alcune emozioni, potrebbe essere “dirottata” dalle esperienze di vita che ci inducono verso comportamenti più “accettabili”, piuttosto che altri.

Se ci pensiamo bene, questo accade molto spesso ed ha un senso sociale: ognuno di noi ha sperimentato, ad esempio, una grande rabbia verso il proprio datore di lavoro per la quale avrebbe reagito in malo modo.

La valutazione della scarsa convenienza per il mantenimento del posto di lavoro, ad esempio, potrà frenarci dal mettere in atto un comportamento di rivalsa plateale (Schema 4).

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 4

Schema 4

Saremo tutti d’accordo, sul buon senso di tale “dirottamento”.

Ma cosa accadrebbe se invece di una valutazione attiva, improntata al buon senso, attivassimo una vera censura sistematica?

Guardiamo cosa potrebbe accadere, nello schema seguente:

La tendenza di comportamento diventa importante da valutare quando ci sono delle contraddizioni tra ciò che penso, ciò che percepisco e il mio comportamento. Da queste contraddizioni possono scaturire grandi forme di sofferenza: pensiamo alla censura sistematica della rabbia in una persona poco assertiva. La rabbia è un’emozione primaria molto potente che tende a reagire male all’accumulo sistematico: trova sempre una sua forma di espressione, magari sfruttando da una parte l’esperienza di vita, e dall’altra una comune reazione fisiologica come con l’ansia.

Spesso si osservano C di ansia, insieme a crisi di panico, in persone che hanno un ABC simile allo schema sopra descritto: l’ansia tende ad essere più socialmente accettata della rabbia, e nella storia familiare potrebbero esserci dei vissuti congruenti che avrebbero contribuito negli anni a raccontarsi come “soggetto ansioso”, sdoganando il vissuto ansioso rispetto a quello rabbioso.

Riprendiamo lo schema (Schema 5):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 5

Schema 5

La tendenza di comportamento ci dà la possibilità di riflettere sui giudizi censurati, e sulle motivazioni della censura. Abbiamo una finestra sulla “scatola nera” della nostra mente, e la possibilità di risolvere le contraddizioni che ci portano a soffrire.

Prendendo la persona dell’esempio, potremmo immaginare che sia abituata a raccontarsi come ansiosa, e che abbia una grossa ansia da prestazione conseguente. Questa persona potrebbe avere più dimestichezza con l’ansia che con la rabbia, dirottando le attivazioni fisiologiche più intense verso l’ansia e continuando così a perpetrare l’immagine di se stessa come soggetto ansioso, magari in accordo ad una storia familiare di ansia condivisa.

In questo caso, sdoganando e normalizzando gli effetti comportamentali della rabbia si ha la possibilità di arricchire la propria immagine di sé e delle proprie emozioni guadagnandosi il diritto nel provarle. Arricchire il bagaglio delle emozioni provate, consente anche di guadagnare flessibilità nel comportamento: ad esempio riconoscendo le mie reazioni come rabbiose e validando l’ingiustizia sottostante posso decidere di adottare un comportamento “di mezzo” tra la reazione violenta e la sottomissione plateale.

 

Nutrizionista e dietista – Come e quando fare l’invio ad uno psicoterapeuta

Ad oggi, le cause dei disturbi alimentari non sono ancora del tutto note. Ciò che la ricerca ha finora dimostrato è che tali problematiche derivano dalla combinazione tra predisposizione genetica e fattori di rischio ambientali.

 

Tuttavia, nei disturbi alimentari, i fattori di rischio sono unicamente di tipo “potenziale” mentre non sono ancora stati ritrovati quelli “causali”. La differenza tra le due tipologie è che i primi (quelli “potenziali”) incrementano unicamente il rischio di sviluppare il disturbo. L’assenza dei secondi (“causali”) è invece un fattore protettivo in grado di diminuire il rischio di sviluppo di una determinata patologia o di un disturbo.

Tra i fattori potenziali di rischio dei disturbi alimentari ritroviamo, tra i tanti, le diete, specie negli adolescenti normopeso. Studi dimostrano infatti che le adolescenti donne di 15 anni che seguono diete corrono un rischio di 8 volte superiore rispetto ai controlli di manifestare un disturbo dell’alimentazione nell’anno seguente. Altri studi evidenziano come gli adolescenti a dieta rischiano 18 volte in più rispetto ai coetanei non a dieta, anche se si tratta di regimi dietetici solo lievemente ipocalorici.

In aggiunta, sempre secondo gli studi, le diete sono correlate all’aumento di alimentazione incontrollata. Tale relazione è ancora più valida per quei regimi dietetici basati sul digiuno intermittente. Le 6 o le 14 ore successive ad un periodo di digiuno sono infatti maggiormente a rischio di alimentazione incontrollata. Ciò deriva dal fatto che le diete (ed il digiuno) determinano una riduzione del triptofano, precursore della serotonina che altera i segnali di fame e di sazietà.

È dunque importante che i dietologi, i dietisti e i nutrizionisti conoscano i disturbi alimentari e siano sensibili e attenti a tali problematiche. È inoltre essenziale che le figure professionali che si occupano di alimentazione sappiano riconoscere gli eventuali campanelli di allarme affinché evidenzino i pazienti con difficoltà alimentari per inviarli (per i motivi discussi in precedenza) ad uno psicoterapeuta o ad una figura formata nella cura dei disturbi alimentari.

Ecco dunque di seguito alcune informazioni che ogni esperto di nutrizione dovrebbe raccogliere durante il primo incontro anamnestico per valutare un eventuale “passaggio di consegne”.

Informazioni per valutare la possibile presenza di disturbi alimentari

1. Sesso: particolare attenzione va posta alle donne. Sono infatti i soggetti di sesso femminile ad essere più frequentemente colpiti dai disturbi dell’alimentazione. La motivazione potrebbe risiedere nel fatto che le donne sono più socialmente spinte (rispetto agli uomini) alla magrezza e basano maggiormente il proprio valore sull’aspetto fisico, sono pertanto più portate ad intraprendere percorsi nutrizionali.

2. Età: studi dimostrano che il doppio picco di insorgenza dell’anoressia nervosa è di 14-15 e 18 anni; 17-18 è invece quello della bulimia nervosa. Le età più delicate sono dunque quelle dell’adolescenza e della prima età adulta. Età in cui frequentemente vengono iniziate diete (spesso “da autodidatta”) con lo scopo di perdere peso in seguito, tra le varie cause, ai cambiamenti corporei legati alla pubertà, alla tendenza a giudicarsi in base al proprio peso e alla volontà di avere controllo in almeno un ambito della propria vita.

3. Precedenti percorsi nutrizionali o diete “fai da te”: per tutti i motivi discussi in precedenza è bene indagare la presenza di precedenti percorsi (anche “autosomministrati”) volti a modificare il proprio peso corporeo. Inoltre, dati da non trascurare sono il peso ed il BMI “pre-dieta”. Così facendo si valuta se dietro alla necessità di perdita di peso risiedessero anche motivazioni legate ad esigenze mediche (es. BMI elevato) oppure vi fosse unicamente una spinta verso l’ideale di magrezza.

4. Recenti cambiamenti di peso: tra i vari aspetti è utile indagare la storia poderale e, in caso di soggetti di sesso femminile, il peso al menarca. Particolare attenzione va posta ai cambiamenti recenti di peso. È bene dunque chiedere se nell’ultimo periodo si sono verificate perdite di peso più o meno importanti (anche involontarie) e, in caso di risposta affermativa, il peso di partenza facendo attenzione se il soggetto si trovava all’esordio in una condizione di normopeso (BMI≥18.5). Infine, se allo stato attuale il soggetto è sottopeso è importante monitorare la presenza di eventuali sintomi da malnutrizione (Minnesota Study). La loro individuazione permette infatti di valutare la necessità di coinvolgere anche il medico di base con le competenze necessarie per il monitoraggio di tali aspetti.

Campanelli di allarme per disturbi alimentari nello stile alimentare

Dopo aver indagato tali aspetti, è necessario approfondire lo stile alimentare del paziente affrontando gli aspetti elencati di seguito.

5. Presenza di una dieta rigida: chi ha problematiche con l’alimentazione tende a seguire diete rigide ed estreme con l’obiettivo di controllare il proprio peso e le proprie forme corporee. Lo scopo è infatti quello di perdere peso o di evitare un suo aumento. La modalità è però la messa in atto di comportamenti disfunzionali quali la restrizione quali-quantitativa e l’alimentazione ritardata ovvero saltare i pasti riducendoli in frequenza (es. consumare un solo pasto al giorno).

6. Presenza di alimenti evitati: fin dall’esordio i soggetti che soffrono di un disturbo alimentare tendono a modificare la propria alimentazione. Ciò comporta che gli alimenti che un tempo piacevano e che venivano consumati senza preoccupazione vengono rifiutati. Tali cibi sono, di norma, quelli contenenti carboidrati, i dolci e gli alimenti trasformati e non composti da un unico ingrediente. La scelta ricade dunque su altri cibi che sono tendenzialmente quelli additati come “salutari”. Ciò che è utile cercare di indagare è la motivazione per la quale vengono esclusi, per gusto o per il sottostante timore che tali alimenti possano incidere sul peso o possano condurre ad un episodio di perdita di controllo?

7. Presenza di regole dietetiche: è buona norma cercare inoltre di individuare la presenza (o meno) di regole dietetiche che generalmente riguardano come, cosa, quando e quanto mangiare. Tra queste, possiamo ritrovare: spezzettare il cibo in piccoli bocconi, mangiare solo alimenti che contengono meno di un certo numero di calorie, non mangiare dopo un determinato orario e mangiare meno degli altri.

8. Presenza di perdite di controllo/alimentazione sregolata: ovvero l’assunzione di una quantità di cibo (più o meno abbondante) associata alla sensazione di perdita di controllo. Può essere inoltre presente un’alimentazione eccessiva, in particolare in momenti “extra-pasto”, ovvero il consumo di una grande quantità di cibo senza però la sensazione di perdita di controllo. È utile indagare tali comportamenti perché possono essere il “sintomo” di una restrizione precedente.

9. Esercizio fisico intenso: una grande parte di persone con disturbi dell’alimentazione pratica un esercizio fisico eccessivo che, per durata, frequenza ed intensità, è superiore rispetto alle raccomandazioni delle Linee Guida (150-300 minuti settimanali di attività fisica di moderata intensità). Tale esercizio viene spesso vissuto come essenziale ed obbligatorio, anche in condizioni “avverse” (es. pioggia, slogature…) e pertanto viene definito anche compulsivo. Durante il primo colloquio è utile indagare anche questo aspetto poiché può essere un indizio di un rapporto poco sereno con il cibo e il proprio corpo.

10. Motivo della visita: forse di primaria importanza è bene sempre chiedere il motivo della visita e gli obiettivi che si vogliono ottenere cercando di captare anche il “non-detto”. Al di là della richiesta, del BMI del soggetto, della sua età, del sesso e dalla necessità medica (reale o meno) di lavorare sul peso corporeo è bene indagare se sono presenti forti preoccupazioni legate al proprio peso e alle forme corporee. Tendenzialmente, chi soffre di disturbo dell’alimentazione ha un forte timore di aumentare di peso mentre ha una persistente tendenza alla magrezza e al voler raggiungere un peso (sempre più) basso.

Come procedere in caso di sospetto disturbo alimentare

Cosa dovrebbe dunque fare un esperto di nutrizione dopo aver indagato tutti questi aspetti? Dovrebbe valutare se può prendere in carico autonomamente il paziente o se è al contrario necessario chiedere il supporto di uno psicoterapeuta. Se infatti alcuni (e non necessariamente tutti) di questi punti dovessero essere presenti si ritiene necessario il supporto di una figura in grado di lavorare sugli aspetti emotivi e cognitivi.

Per farlo è buona norma coinvolgere il paziente nella decisione, spiegando le proprie motivazioni e aiutandolo a comprenderne il razionale. Se il paziente dovesse mostrarsi d’accordo, gli si forniscono i contatti dei colleghi in modo tale che sia lui stesso a chiamare lo psicoterapeuta prescelto. È inoltre molto importante che, sempre in accordo con il paziente, le due figure (dietista e psicoterapeuta) facciano un “passaggio di consegne” e si tengano in contatto per tutta la durata della terapia.

Qualora il paziente dovesse mostrarsi titubante o addirittura oppositivo rispetto all’invio ad uno psicoterapeuta, il dietista può valutare ugualmente la presa in carico con però la consapevolezza di dover porre estrema attenzione. Potrà successivamente provare a riproporre al proprio paziente il percorso psicoterapico quando i tempi saranno “maturi”.

Infatti, per una completa presa in carico e per una remissione completa del disturbo, gli studi dimostrano la forza dell’équipe multidisciplinare formata, nel caso di problematiche alimentari da dietista, psicoterapeuta e psichiatra. Si tratta di professionisti differenti che (co)operano per il benessere del paziente fornendo il proprio contributo in base alle proprie competenze. In questo modo è possibile trattare la psicopatologia a 360° lavorando sui fattori di mantenimento, sulla normalizzazione eventuale del peso, sulle abitudini alimentari (alimenti evitati e regole dietetiche) fornendo le strategie non unicamente per il breve termine ma anche per la prevenzione di eventuali ricadute. In questo modo il paziente è infatti posto al centro del trattamento e si lavora con e per lui come una grande squadra.

 


 

Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione (2021) – Recesione

Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione costituisce una disamina completa del costrutto di ansia, proponendone una definizione generale e un inquadramento diagnostico accurato, per poi delineare i principali trattamenti psicofarmacologici.

 

Nella premessa, viene introdotta l’essenziale distinzione tra ansia normale o funzionale e ansia patologica o disfunzionale, in base a vari parametri quali la situazione, l’intensità e la durata: uno stato d’ansia normale è uno stato affettivo-emozionale fisiologico di fronte ad un pericolo o ad un agente stressogeno, necessario all’organismo per sviluppare l’energia essenziale a fronteggiare la situazione; l’ansia patologica, invece, è una risposta caratterizzata da un’eccessiva intensità, una lunga durata, e dalla sua comparsa in corrispondenza di eventi ritenuti normalmente non pericolosi, che interferisce negativamente con la prestazione richiesta al soggetto in quella situazione specifica.

Dal latino “angere” (stringere), il termine ansia veicola con chiarezza la sensazione di oppressione e la percezione di tensione vissuta da chi soffre di disturbi legati al suo spettro (Castrucci, 2021).

Castrucci delinea le basi neurobiologiche dello stato ansioso, sottolineando come le diverse manifestazioni psicosomatiche dell’ansia si realizzino attraverso diversi circuiti neuronali. Le principali zone cerebrali coinvolte sono state identificate in alcune strutture sottocorticali, quali il talamo e l’amigdala.  L’amigdala è una struttura centrale per la modulazione degli stati ansiosi, in quanto possiede numerose connessioni con strutture corticali e limbiche coinvolte nella risposta neuroendrocrina allo stress (Castrucci, 2021).

Successivamente, un capitolo viene dedicato all’indagine dell’ansia in ambito medico, chirurgico ed odontoiatrico, soffermandosi sull’ipotesi, supportata da vari studi, che l’ansia possa intensificare la percezione del dolore. Risulta essenziale una gestione ottimale dell’ansia in ambito medico-chirurgico, in quanto i soggetti che sperimentano elevati livelli di ansia preoperatoria vivono un’esperienza di forte dolore nella fase post-operatoria tale da richiedere alte dosi di farmaci analgesici (Castrucci, 2021). Inoltre, l’ansia, come reazione di stress, induce un aumento dei livelli di cortisolo e adrenalina che comporta un’immunodepressione nel post-operatorio, aumentando il rischio di infezioni. A tal proposito, vengono proposte alcune tecniche di immaginazione guidata che favoriscono la diminuzione dell’ansia preoperatoria e conseguentemente il dolore post-operatorio. Castrucci (2021) evidenzia come l’ansia sia una problematica significativa anche negli ambulatori dentistici, in quanto colpisce il 10-20% degli adulti e fino al 43% di bambini e adolescenti (Gordon et al., 2013; Shim et al., 2015).

Segue una disamina dell’eziopatogenesi dei disturbi d’ansia, prendendo in esame la teoria genetica, la teoria psicobiologica e le principali teorie psicologiche che si rifanno al modello cognitivo (cognitivo- comportamentale, cognitivo-evoluzionista, cognitivo-costruttivista) e al modello psicodinamico.

A seguito, viene proposto un puntuale inquadramento diagnostico dei disturbi d’ansia, secondo il DSM-5, il manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali, e in base all’ICD, la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati.

Castrucci (2021) sottolinea come circa un terzo della popolazione, (cioè il 27 % degli abitanti di età compresa tra i 18 ed i 65 anni), ha sofferto almeno una volta nella vita di un disturbo d’ansia, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Numerosi i fattori di rischio: questi disturbi colpiscono in maggior misura il sesso femminile, di giovane età, con una condizione socio-economica difficile e un livello istruttivo basso, single o divorziati. Si segnala come gli eventi con un carico stressogeno forte insieme ai maltrattamenti subiti in giovane età costituiscono a loro volta importanti fattori di rischio.

Il capitolo dedicato ai disturbi d’ansia nel DSM-5 è strutturato evolutivamente, con i disturbi in sequenza secondo l’età d’esordio (Black, D. W., & Grant, J. E., 2014).

Troviamo inizialmente il disturbo d’ansia di separazione, che segnala una reazione d’ansia eccessiva alla separazione dalla figura genitoriale di riferimento, e il mutismo selettivo, che indica una continua incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche, sebbene risulti possibile farlo in altre circostanze.

Segue la fobia specifica, che indica una reazione d’ansia marcata e un’istintiva reazione di fuga, di fronte a un oggetto o una situazione specifica (es. la paura del buio, nei bambini; la paura di volare, negli adulti), e la fobia sociale, anche definita disturbo d’ansia sociale, in quanto contraddistinta da una reazione ansiosa molto intensa che riguarda una singola o diverse circostanze sociali ben definite dove si può essere osservati dagli altri (es. parlare in pubblico). Interessante la distinzione proposta dal DSM 5, che definisce due tipologie di ansia sociale: se i sintomi si presentano solo quando un soggetto deve effettuare una performance pubblica, allora si parla di “disturbo d’ansia sociale correlato alle performance” (es. per musicisti, ballerini, atleti); nei casi in cui il disturbo si manifesti in modo indiscriminato anche in altre situazioni sociali, allora si impiega la denominazione di “disturbo d’ansia sociale”.

L’agorafobia (dal greco “agorà”, ossia “piazza”, e “phóbos”, cioè “paura”) segnala un forte timore di situazioni prive di una via di fuga, ovvero senza possibilità di uscita rapida e rifugio sicuro (es. viaggiare sui trasporti pubblici, stare in spazi aperti e/o chiusi, in mezzo alla folla).

Se il DSM-IV-R collegava la diagnosi di agorafobia al disturbo di panico, il DSM 5 propone di distinguere i due disturbi, per cui presenta il disturbo di panico e l’agorafobia.

Il disturbo di panico si riferisce alla presenza di ricorrenti attacchi di panico inaspettati, dove per attacco di panico intendiamo la comparsa improvvisa di una forte sensazione di paura e un disagio intenso, accompagnati da alcuni sintomi quali le palpitazioni, una forte sudorazione, tremori, senso di soffocamento e asfissia, paura di morire.

È bene precisare che gli attacchi di panico possono verificarsi nel contesto di qualsiasi disturbo d’ansia così come all’interno di altri disturbi mentali (es. depressivi); quando viene individuata la loro presenza, tale condizione dovrebbe essere rilevata come uno specificatore, per es. disturbo da stress post-traumatico con attacchi di panico (Black, D. W., & Grant, J. E., 2014).

Segue poi il disturbo d’ansia generalizzata, che segnala una condizione di preoccupazione persistente nei confronti di eventi e attività diverse, eccessiva nell’intensità, durata o frequenza rispetto alle reali probabilità o all’impatto dell’evento temuto.

Infine, sono presenti quattro categorie diagnostiche di disturbo d’ansia, quali il disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci, il disturbo d’ansia dovuto a un’altra condizione medica, e la categoria disturbo d’ansia con altra specificazione e disturbo d’ansia senza specificazione.

Ampio spazio è dedicato al trattamento dei disturbi d’ansia, attualmente fondato sulla farmacoterapia, sulla psicoterapia e sull’approccio combinato. Inoltre, vengono indicate una serie di strategie di prevenzione all’insorgere dell’ansia e dello stress: tecniche di rilassamento, come il training autogeno (TA) messo a punto, agli inizi del ‘900, dallo psichiatra tedesco Schultz, che consiste in una serie di esercizi di concentrazione che si focalizzano su diverse zone corporee, allo scopo di ottenere un generale stato di rilassamento sia a livello fisico che psichico; tecniche di riabilitazione respiratoria, come il metodo Buteyko volto a normalizzare la respirazione e mantenere un corretto quantitativo di CO2 polmonare (Castrucci, 2021).

Interessante l’algoritmo proposto da Murray BS. e Jitender S., algoritmo per il trattamento e la gestione dei disturbi d’ansia:

Gli aspetti multidisciplinari dell ansia patologica 2021 Recensione del libro Fig 1

Un’ansia di stato di lieve e moderata entità può essere, inoltre, trattata con la medicina complementare alternativa (CAM), che include alcune strategie non comunemente usate dalla medicina occidentale. L’agopuntura, l’omeopatia e la fitoterapia sono ritenuti i più efficaci, oltre che maggiormente usati, tipi di CAM.

 

The Mind Dispatch: il canale Telegram di State of Mind

State of Mind lancia un canale Telegram: “The Mind Dispatch” per ricevere aggiornamenti in tempo reale dalla nostra redazione.

 

È nato The Mind Dispatch, ovvero il nuovo canale Telegram di State of Mind. Un esperimento della redazione di State of Mind per portare l’immediatezza e la facilità d’uso delle notifiche da app ai nostri lettori. Gli iscritti riceveranno gli aggiornamenti su tutti gli articoli pubblicati nella giornata in modo selettivo e veloce: una notifica avviserà quando un nuovo articolo viene pubblicato e a portata di un solo clic si potrà accedere direttamente al contenuto.

Su The Mind Dispatch saranno inoltre diffuse notizie e comunicazioni importanti rivolte in primis ai clinici e/o agli studenti ma anche, a seconda della natura della comunicazione, a tutti gli appassionati di Scienze Psicologiche.

 

Cosa aspetti? Iscriviti subito al canale >> CLICCA QUI

 

 

Quando l’empatia porta all’insight

In psicologia, l’insight è la capacità di riconoscere (insight psichico) e di accettare la propria malattia mentale (insight emotivo) (Thirioux et al., 2020).

 

La mancanza di insight, cioè l’essere inconsapevoli della propria condizione psicologica, si riscontra in modo frequente in condizioni psichiatriche (Thirioux et al., 2020) come schizofrenia (Medalia e Thysen, 2008), disturbi da uso di sostanze o comportamenti dipendenti (Goldstein et al., 2009; Moeller & Goldstein, 2014) e disturbo ossessivo-compulsivo (Foa et al., 1995). Tale inconsapevolezza si osserva anche in disturbi neurologici come trauma cranico (Prigatano et al., 2005), ictus (Jehkonen et al., 2006; Orfei et al., 2007) e morbo di Alzheimer (Antoine et al., 2004). I pazienti non sono in grado di etichettare i propri eventi mentali come anormali e non identificano le conseguenze della malattia, tantomeno acconsentono alle cure o ai trattamenti (David, 1990; Markova & Berrios, 1995; Amador et al., 1991; Bedford et al., 2012). L’insight può essere sviluppato grazie all’adozione di una prospettiva obiettiva sulle proprie esperienze soggettive (Thirioux et al., 2020; Lewis, 1934; David, 1990; Langdon & Ward, 2009), facendo affidamento su una combinazione tra l’autoriflessione intatta e la capacità cognitiva di cambiare prospettiva. Nello specifico, l’insight richiede l’empatia, definita come “la capacità cognitiva di adottare la prospettiva dell’altro che, se intatta, contribuisce alla capacità metacognitiva di riflettere sulla propria salute mentale dal punto di vista dell’altro” (Langdon & Ward, 2009).

Thirioux e colleghi (2020) hanno proposto un modello utile a spiegare questi meccanismi disfunzionali. Hanno postulato che l’associazione tra autoriflessione compromessa e capacità empatica ha un impatto negativo sull’insight. Hanno definito il processo dell’oggettivazione, derivante da processi eterocentrici empatici e cognitivi, come un punto di vista oggettivo su se stessi che permette di riconoscere il proprio disturbo, influendo così sull’insight psichico (Thirioux et al., 2020). Il processo della soggettivazione deriva, invece, da processi affettivi empatici, poiché sperimentare affettivamente il pensiero di un’altra persona su se stessi rafforza l’adesione del sistema emotivo, utile a valutare e a riconoscere il proprio disturbo (Thirioux et al., 2020).

Insight e teoria della mente

La teoria della mente (ToM) è la capacità di riconoscere il pensiero o le emozioni altrui al fine di prevedere un comportamento (Chakrabart & Baron-Cohen, 2013). Gli autori hanno applicato tale modello a diverse condizioni psichiatriche, tenendo in considerazione il limite della ToM in alcuni disturbi come la schizofrenia (Langdon & Ward, 2009). Per l’appunto, durante episodi acuti, i risultati ottenuti mostrano come ci sia un crollo totale delle capacità empatiche in pazienti affetti da schizofrenia, con un conseguente effetto deleterio sull’insight (Thirioux et al., 2020). I pazienti schizofrenici con sintomi negativi non sono in grado di empatizzare spontaneamente con altre persone in quanto ipofunzionanti, cioè deficitari nell’assunzione di prospettive visuo-spaziali eterocentriche, mentre i soggetti schizofrenici con sintomi positivi mostrano un processo di oggettivazione alterato, con un conseguente impatto negativo sull’insight (Thirioux et al., 2020). Per quanto riguarda il disturbo bipolare, i risultati mostrano come i pazienti in fase maniacale hanno un’empatia affettiva maggiore rispetto ai pazienti in fase depressiva (Shamay-Tsoory et al., 2009; Cusi et al., 2010; Bodnar & Rybakowski, 2017). È stato ipotizzato come questo effetto possa dipendere dalle eccessive reazioni affettive empatiche dovute ai disturbi legati all’inibizione delle emozioni e alla persistenza di emozioni positive (Gruber, 2011, Thirioux et al., 2020). Infine, i risultati mostrano come i soggetti con un disturbo ossessivo compulsivo (OCD) con basso insight abbiano un processo di oggettivazione intatto e un processo empatico affettivo alterato, mentre i soggetti OCD senza insight hanno grandi difficoltà a disimpegnarsi da se stessi a causa dell’ipofunzionalità, cioè dall’utilizzo di una prospettiva visuo-spaziale eterocentrica (Thirioux et al., 2020).

Insight ed empatia

Per Thirioux e colleghi (2020), l’empatia comporta processi affettivi incarnati mentre la ToM si basa su caratteristiche simulative. Di conseguenza, l’empatia non è solo una simulazione cognitiva dello stato mentale di un’altra persona (Thirioux et al., 2020). Secondo i teorici della simulazione quando un individuo simula un’altra persona usa e proietta mentalmente i propri schemi percettivi, emotivi e cognitivi su qualcun altro (Goldman, 1992; Gordon, 1996; Harris, 1995). Tale proiezione può portare a errori dovuti da parte di pregiudizi egocentrici (Hoffman et al., 2016), mentre quando si empatizza viene inibita la tendenza a proiettare i propri schemi su terze persone (Thirioux et al., 2020). Con l’applicazione del modello su diversi disturbi psicologici, gli autori ipotizzarono che l’effetto negativo tra compromissione della propria autoriflessione e capacità empatiche sull’insight sia uno stato transnosografico, cioè la sintomatologia è insufficiente a individuare una specifica patologia (Thirioux et al., 2020). Hanno previsto anche un limite legato alla modulazione di tale effetto negativo da parte delle differenze endofenotipiche dei soggetti in questione. La raffinazione di tale modello potrebbe portare allo sviluppo di nuove terapie cognitivo comportamentali adatte ad ogni malattia psichiatrica in ciascuna fase clinica, cioè prima insorgenza, episodio acuto, stabilizzazione e remissione, per migliorare la qualità delle cure (Thirioux et al., 2020).

 

Binge eating e addiction: similitudini, differenze e implicazioni di trattamento

Il seguente articolo espone alcune teorie a favore del ritenere il binge eating una dipendenza, e teorie secondo le quali i due fenomeni sono da considerarsi separati e distinti, seppur con caratteristiche che li accomunano, per poi porre a confronto i trattamenti.

 

Una domanda sulla quale da molti anni gli studiosi si stanno interrogando è se il binge eating possa considerarsi una forma di dipendenza, allo stesso modo della dipendenza da alcol e da sostanze. Sono, infatti, sempre più diffuse terminologie come “dipendenza da cibo” e “mangiare in modo compulsivo”, e queste definizioni hanno portato allo sviluppo di molti programmi di trattamento basati su tali presupposti. È opportuno però chiedersi se effettivamente questa connessione possa considerarsi realistica, al fine di proporre e implementare trattamenti adeguati e efficaci.

Con il seguente articolo vorrei, dopo aver descritto i termini “binge eating” e “dipendenze”, esporre in primo luogo alcune teorie e opinioni a favore del ritenere il binge eating una dipendenza, per descrivere in seguito teorie secondo le quali i due fenomeni sono da considerarsi separati e distinti, seppur con caratteristiche che li accomunano. Vorrei poi porre a confronto un trattamento che fa riferimento alle prime teorie (“Modello dei 12 Passi”) con un percorso cognitivo comportamentale che parte da presupposti molto diversi (CBT-E).

Binge eating

Il termine binge era utilizzato in passato dalla maggior parte delle persone con un solo significato: bere in eccesso. Oggi, invece, il termine è utilizzato per indicare il mangiare in eccesso. Secondo gli studiosi, le abbuffate hanno due elementi in comune: la quantità di cibo assunta è percepita come eccessiva e in quel momento la persona ha la percezione di perdere il controllo. Per molte persone un’abbuffata è qualcosa di assolutamente innocuo, un cedimento o un eccesso alimentare, che avviene una volta ogni tanto e che non presenta conseguenze e ripercussioni a livello psicologico e fisico. Per altre, tuttavia, essa rappresenta una parziale o totale perdita di controllo sul cibo e può portare a gravi danni fisici e psicologici. Oltre alle caratteristiche descritte sopra, possiamo descriverne altre (Fairburn, 2013):

  • Sensazioni: il gusto e la consistenza del cibo possono risultare, inizialmente, piacevoli, ma si trasformano poi in sensazioni di disgusto verso se stessi per quanto si sta mangiando.
  • Velocità dell’assunzione di cibo: durante l’abbuffata le persone mangiano spesso molto in fretta e in modo meccanico, masticando a malapena.
  • Agitazione: le persone sono spinte ad abbuffare da un desiderio persistente e irresistibile (craving), al quale difficilmente riescono ad opporsi.
  • Sensazione di alterazione della coscienza: spesso le persone descrivono di essere come in trance durante un’abbuffata, di non pensare a nulla in quel momento, se non al cibo.
  • Segretezza: le abbuffate avvengono tendenzialmente in segreto, dal momento che le persone si vergognano molto di questo comportamento e tendono a nasconderlo, anche per anni.
  • Perdita di controllo: l’esperienza di non avere il controllo sul comportamento è uno degli elementi che caratterizza il disturbo e che lo differenzia da una normale alimentazione in eccesso.

Dipendenze

La presenza di un disturbo correlato a sostanze si caratterizza per un uso continuativo nonostante l’insorgenza di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici che generano un elevato grado di difficoltà e una compromissione a livello psicosociale (Calamai, 2018). Un’altra importante caratteristica risiede nell’alterazione che il consumo provoca a livello neuronale e che si esprime nelle numerose ricadute e nell’intenso desiderio di assumere la sostanza.

A prescindere dal tipo di sostanza, le dipendenze patologiche presentano un insieme di comportamenti caratteristici elencati nei seguenti criteri (Marazziti et al., 2015):

  • Tolleranza: fenomeno per il quale è necessario incrementare l’uso della sostanza al fine di ottenere i medesimi effetti sull’organismo.
  • Astinenza: presenza di sintomi fisici o emotivi nel momento in cui il soggetto interrompe l’assunzione della sostanza.
  • Compromissione delle attività sociali, lavorative o ricreative: questo aspetto incide negativamente sul funzionamento e sull’umore della persona.
  • Ridotte capacità di controllo sull’uso della sostanza: la persona ne fa un uso eccessivo o la assume per periodi di tempo più lunghi del previsto (carattere compulsivo del comportamento); è inoltre presente il desiderio di smettere o ridurne l’uso, associato a tentativi che non riscuotono successo.
  • Craving: un intenso desiderio della sostanza che può manifestarsi in qualunque momento, ma è più probabile avvenga in presenza di stimoli associati alla stessa.
  • Utilizzo rischioso della sostanza: la persona ne fa uso in situazioni fisicamente rischiose (ad esempio: alla guida); il consumo non viene interrotto nonostante provochi ricorrenti problemi fisici o psicologici.

Binge eating come dipendenza: “food addiction”

My drug of choice is food. I use food for the same reasons an addict uses drugs: to comfort, to soothe, to ease stress – Oprah Winfrey

Secondo la teoria che vede il binge eating come una forma di dipendenza, esso è il risultato di un processo fisiologico sottostante analogo a quello responsabile dell’alcolismo (Dalle Grave, 2019). Secondo tale teoria, le persone che si abbuffano sono biologicamente vulnerabili e sensibili di fronte a certe tipologie di alimenti e, di conseguenza, ne diventano “dipendenti”. (Gearhardt, Davis, Kuschner & Brownell, 2011). Inoltre, l’osservazione delle immagini di risonanza magnetica delle persone con Binge Eating Disorder ha mostrato un’alterazione nel sistema della dopamina, simile a quanto si osserva nelle risonanze magnetiche delle persone con una dipendenza da sostanze (Hadad & Knackstedt, 2014).

I risultati neurobiologici hanno portato a proporre che nelle persone sane il sistema di ricompensa è autoregolato in modo tale da consentire un adeguato controllo inibitorio nei confronti del consumo di sostanze o del cibo in eccesso. Al contrario, nelle persone in cui questo sistema è disregolato, ci sarebbe la tendenza ad avere meno controllo sull’assunzione di sostanze o cibo per un deficit nel sistema della ricompensa (Dalle Grave, 2021). Da questi studi emerge dunque che le persone che presentano episodi di abbuffata non sono in grado di controllare l’assunzione del cibo (come le persone che abusano non sono in grado di controllare l’assunzione della sostanza) e da ciò ne consegue che il loro consumo aumenta progressivamente.

Possiamo dunque sicuramente trovare delle analogie tra il binge eating e le dipendenze classiche, come l’abuso di alcol e di sostanze, e molte persone si concentrano su queste somiglianze per sostenere la teoria del food addiction. I punti evidenziati da questa corrente di pensiero sono i seguenti:

  • Sensazione di perdere il controllo su tale comportamento
  • Pensieri e preoccupazioni fissi sull’alimentazione
  • Negare la problematicità del comportamento
  • Percepire la voglia irrefrenabile (craving) e il bisogno di mettere in atto il comportamento
  • Tentativi ripetuti di interrompere il comportamento, senza risultati
  • Utilizzare il comportamento per alleviare emozioni negative
  • Il soggetto persiste nel comportamento disfunzionale, nonostante le conseguenze negative.

Binge eating e addiction: le differenze

Le somiglianze che sono state esposte sopra sono, tuttavia, parziali, e il concentrarsi solo sulle somiglianze non consente di soffermarsi su alcune differenze, altrettanto importanti (Fairburn, 2013; Belloli, 2021):

Il binge eating non implica il consumo di una particolare tipologia di alimenti (Wilson, 2010). Qualora il binge fosse una dipendenza, i pazienti tenderebbero a scegliere alimenti specifici che, appunto, danno dipendenza (ad esempio, i dolci). L’elemento che caratterizza le abbuffate è, invece, la quantità di cibo, piuttosto che la qualità.

Le persone che si abbuffano cercano di evitare tale comportamento. Una delle caratteristiche principali di chi abbuffa (a accezione di chi soffre di Binge Eating Disorder) è il costante tentativo di ridurre la quantità di cibo ingerito, attraverso diete ferree, digiuno, metodi di compenso, onde evitare l’aumento ponderale (tentativi che in realtà mantengono la problematica alimentare). L’abbuffata è vissuta con sentimenti di sconforto, colpa e rabbia perché è il risultato del fallimento di questi tentativi estremi e rigidi di controllo sull’alimentazione. Nelle persone che abusano di sostanze accade l’opposto: non vi è alcuna motivazione intrinseca a evitare o interrompere l’utilizzo della sostanza. Uno degli obiettivi principali dei programmi di cura è dunque proprio quello di problematizzare il comportamento e di far giungere la persona alla consapevolezza di aver bisogno di aiuto.

Le persone che abbuffano presentano una psicopatologia specifica, data dall’Eccessiva Valutazione del peso e della forma del corpo e da tutti gli elementi che la formano e la mantengono (check del corpo, evitamenti, sensazione di essere grassi). Questa psicopatologia svolge un ruolo di primaria importanza nel mantenere il disturbo alimentare e gli episodi di abbuffata. Differentemente, chi utilizza sostanze non presenta una psicopatologia specifica comune.

La relazione tra abbuffate e abuso di sostanze non è specifica. Alcuni studiosi riportano che i tassi di abuso di alcol e sostanze sono sproporzionatamente alti tra i soggetti che abbuffano; in realtà, i risultati scientifici affermano che i tassi non sono più elevati di quelli riscontrati nei soggetti affetti da altri disturbi psichiatrici.

Alcuni studiosi, con l’obiettivo di chiarire il legame tra assunzione di cibo in eccesso e uso di sostanze, hanno condotto studi neurobiologici di confronto tra soggetti con obesità e soggetti normopeso, ma i risultati non appaiono significativi; infatti, non ci sono studi che ad oggi hanno dimostrato che esista una sensibilizzazione neurale al cibo.

Nel 2001 uno studio con la tomografia a emissione di positroni (PET), in un gruppo di soggetti con obesità, ha dimostrato la presenza di una riduzione dei recettori striatali D2R della dopamina, negativamente correlato con l’Indice di Massa Corporea (Wang et al., 2001): questo dato potrebbe indicare uno stato di deficit di ricompensa, la quale porterebbe a una maggiore assunzione di cibo in soggetti che presentano una condizione di obesità, per ottenere lo stesso livello di ricompensa percepito dai soggetti che sono normopeso. I dati dello studio non rilevano però se i cambiamenti nei ricettori possano essere una causa o una conseguenza dell’obesità e anche studi successivi hanno prodotto risultati non significativi (Ziaudden, Farooqi & Fletcher 2012).

Due modelli a confronto: il “Modello dei 12 Passi” e la CBT-E

Il trattamento che deriva dal modello teorico della dipendenza, basato sulla metodologia di intervento degli “Alcolisti Anonimi”, viene chiamato anche “Overeaters Anonymous” o “Modello dei 12 Passi” ed è un programma diviso in dodici fasi rivolto a tutte le persone che presentano comportamenti compulsivi verso il cibo (Elisabeth, 2010).

I principi sottostanti a tale trattamento sono in totale disaccordo con l’approccio terapeutico che invece si è dimostrato essere il più efficace nel trattare questa tipologia di disturbi, ovvero la Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E). Possiamo così riassumere le principali differenze tra i due percorsi di cura:

  • Secondo l’Approccio degli “Overeaters Anonymous” non esiste una cura, essendo l’abbuffata vista come una malattia cronica e quindi destinata a peggiorare nel corso del tempo. Al contrario, il trattamento cognitivo comportamentale porta evidenze scientifiche secondo le quali la remissione completa del sintomo è possibile. Infatti, l’efficacia della CBT è stata supportata da revisioni sistematiche e meta-analisi (Hilbert et al., 2019), le quali hanno confermato che il trattamento determina la remissione degli episodi di abbuffata in circa il 50-55% dei pazienti e il miglioramento della psicopatologia del disturbo anche a lungo termine (Dalle Grave, Calugi & Sartirana, 2020).
  • Il modello basato sulla teoria della dipendenza assume che l’astinenza immediata è fondamentale. I partecipanti al gruppo vengono invitati fin da subito a non assumere più cibi che possono portare a comportamenti compulsivi e ci sono regole molto rigide a riguardo (spesso le persone che non riescono in questo intento vengono invitate ad abbandonare il gruppo). L’approccio CBT-E si basa su presupposti completamente diversi; il percorso che porta a interrompere gli episodi di alimentazione incontrollata può richiedere diverso tempo, in base anche alle difficoltà soggettive. Si arriva a interrompere le abbuffate lavorando sui meccanismi di mantenimento del problema e quindi sulle regole dietetiche, sulla dieta ferrea, su eventi ed emozioni legate all’alimentazione. È un lavoro che viene portato avanti in modo collaborativo con il paziente, non si tratta dunque di un approccio coercitivo e direttivo (Dalle Grave, Calugi & Sartirana, 2018).
  • Il “Modello dei 12 Passi” utilizza come strategia principale per il raggiungimento dell’astensione l’evitamento totale dei cibi che scatenano l’abbuffata. La CBT- E sostiene esattamente il contrario, ovvero che non esistono cibi vietati o tossici, e che sarà importante portare avanti un lavoro in direzione di una graduale reintroduzione di questi alimenti. Secondo le evidenze scientifiche, infatti, il tentativo estremo di privarsi e allontanarsi da un cibo porta a conseguenze opposte ed è uno dei fattori che possono portare all’abbuffata.
  • Infine, l’approccio che prende spunto dalle teorie che vedono il cibo come una dipendenza si basa sul pensiero dicotomico “tutto o nulla”, sostenendo che la persona o mantiene il controllo o lo perde totalmente e che i cibi o sono “sani” o sono “tossici”. La CBT-E, invece, si pone l’obiettivo fin da subito di discutere e mettere in discussione questo bias cognitivo, dal momento che risulta essere uno dei fattori che porta al perpetuarsi delle abbuffate. Se la persona impara a riconoscere un episodio di abbuffata come uno scivolone e non come un fallimento vero e proprio, riuscirà più facilmente ad affrontarlo, imparando da esso e non lasciandosi prendere dallo sconforto.

Conclusioni

Nonostante siano presenti delle somiglianze tra episodi di abbuffata e disturbo da uso di sostanze, ci sono differenze fondamentali tra le due condizioni che riguardano la psicopatologia, l’epidemiologia e i fattori di rischio (Dalle Grave, 2021). Ritengo, dunque, che intervenire sugli episodi di alimentazione incontrollata utilizzando un trattamento riconosciuto a livello di efficacia possa portare a una maggiore remissione del disturbo, soprattutto nel lungo termine, andando a lavorare anche sulla prevenzione delle ricadute e aiutando i pazienti a gestire in autonomia l’impulso ad abbuffare, fornendo loro una serie di strategie e procedure da portare avanti anche a trattamento concluso.

Penso che la maggior efficacia della CBT-E risieda anche nel fatto che va a lavorare su più fronti, affrontando da una parte le abitudini alimentari disregolate (reintroducendo l’alimentazione regolare), dall’altra lavorando sugli aspetti cognitivi che sono alla base del disturbo e che lo portano ad autoperpetuarsi (l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo e tutti gli elementi che la costituiscono).

Il trattamento presso le Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIP-Milano Navigli)

Come già anticipato precedentemente la CBT-E, sviluppata dal Centre for Research on Eating Disorders at Oxford (CREDO) (Fairburn, 2008; Fairburn, Cooper & Shafran, 2003), è ritenuto ad oggi il trattamento per pazienti adolescenti e adulti con disturbi alimentari con più evidenze di efficacia ed è dunque raccomandato dalle linee guida NICE (2017). Originariamente il trattamento era stato progettato per i pazienti affetti da bulimia nervosa, ma successivamente è stato modificato per renderlo adatto a qualsiasi tipo di disturbo alimentare caratterizzato da abbuffate. In generale, il trattamento comprende tre fasi distinte (Fairburn, 2003):

  • Fase 1: Creare una formulazione personalizzata della problematica alimentare, per favorire lo sviluppo di una maggiore consapevolezza da parte della persona e aiutarla a distanziarsi dal suo problema; iniziare il lavoro di automonitoraggio quotidiano su pensieri, emozioni e comportamenti disfunzionali legati al cibo; introdurre l’alimentazione regolare, andando a diminuire gli episodi di abbuffata; educare la persona sul disturbo alimentare.
  • Fase 2: Affrontare le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo e per il controllo dell’alimentazione; introdurre i cibi vietati nel regime alimentare regolare e, gradualmente, eliminare le forme di dieta; sviluppare le competenze per far fronte ad eventi ed emozioni che influiscono sull’alimentazione.
  • Fase 3: Acquisire strumenti e sviluppare risorse per ridurre al minimo il rischio di ricadute.

Il trattamento sopra descritto viene implementato presso le Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIP) a Milano. Di seguito troverete i contatti del Centro:

 

CONTATTI CIPda MILANO

  • Indirizzo: Ripa di Porta Ticinese 79, Milano
    Come raggiungere il CIPda: La sede è a pochi passi dalla fermata di Porta Genova, sulla linea verde della metropolitana, ed è facilmente raggiungibile con le linee tram 2 e 10.
  • Telefono: 02 36725912
  • E-mail: [email protected]
  • Orari della segreteria: lunedì-venerdì, 10-19

 

 

Sessualità e relazioni. Seconda edizione del Festival della Sessuologia – Parte I – FluIDsex

Sabato 9 e domenica 10 ottobre 2021 si è svolta la seconda edizione del Festival della Sessuologia organizzato da Giunti Psychometrics, dal centro integrato di sessuologia “Il Ponte” e dal profilo Instagram “Sessuologia”.

La seconda parte del report dal Festival della Sessuologia sarà stata pubblicata nei giorni scorsi su State of Mind

 

Questa seconda edizione, svoltasi interamente online con oltre diecimila partecipanti, si è concentrata sui temi della sessualità e delle relazioni. I partecipanti potevano seguire la sessione plenaria, che vedeva coinvolte varie personalità di rilievo nel campo della sessuologia che si confrontavano in tavole rotonde, e vari laboratori che permettevano di affrontare in modo pratico le tematiche proposte (es. “giochi kinky”, “educazione sessuale per genitori”, “conoscere il pavimento pelvico”).

L’impatto del COVID-19 e del lockdown sulla salute sessuale

La prima tavola rotonda, moderata da Michela Vancheri (psicologa, psicoterapeuta, e sessuologa), “Sesso e relazioni dopo il COVID-19”, vedeva la partecipazione della dottoressa Cristina Critelli (ginecologa, psicoterapeuta e sessuologa), il dottor Nicola Macchione (urologo e andrologo) e la dottoressa Francesca Rizzello (ginecologa). Non sorprendentemente, tutti i relatori concordavano circa il grande impatto che la pandemia, e in modo particolare, le misure restrittive del lockdown, hanno avuto sulla salute mentale e sulla salute sessuale delle persone. Ad esempio, la dottoressa Critelli sosteneva come il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione in questo periodo sia peggiorato drasticamente nelle pazienti in cura e come vi siano sempre più richieste per questo tipo di disturbo. Questo disturbo, e in modo particolare la vulvodinia, trova negli aspetti psicosociali e relazionali dei fattori di rischio e di mantenimento del disturbo stesso. Di conseguenza, l’aggravamento della sintomatologia è stato una prevedibile evoluzione dell’emergenza sanitaria e del lockdown. Si pensi allo stress che la pandemia ha generato, ai vissuti di ansia e depressione, alla paura della morte e del contagio, alla paura che il partner potesse contagiare. Come argomentava la dottoressa, la conseguenza di tutto ciò è la riattivazione di uno schema di funzionamento difensivo che sfocia nella contrazione muscolare andando a peggiorare la sintomatologia del disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione.

L’intervento successivo ha visto la partecipazione del dottor Macchione che ha illustrato una panoramica generale dell’impatto del COVID-19 sulla salute sessuale presentando vari articoli scientifici sul tema. In modo particolare, ha rassicurato i partecipanti circa l’incapacità del vaccino contro il COVID-19 di creare eventuali disfunzioni. Al contrario, ha argomentato circa i possibili effetti a lungo termine di un’infezione da COVID-19 sull’apparato genitale maschile in quanto un’infezione di questo virus causa vasculopatia che, a sua volta, può causare importanti disfunzioni.

Successivamente sono stati illustrati i vari cambiamenti che sono avvenuti durante la pandemia e il lockdown: dal cambiamento radicale delle abitudini sessuali e alla diminuzione del desiderio sessuale (tendenzialmente si intrattenevano meno rapporti sessuali) all’implementazione dell’autoerotismo e l’uso di pornografia, nuove tecnologie e sex toys. Come sosteneva il dott. Macchione, proprio questi ultimi hanno giocato un ruolo fondamentale: l’uso di pornografia è aumentato vertiginosamente e sempre più persone hanno iniziato a sperimentare con sex toys.

Concludendo l’intervento e stimolando una riflessione, il dott. Macchione si è chiesto: che ruolo hanno la pornografia e i sex toys sulla nostra esperienza sessuale? L’importante, come suggeriva la moderatrice dott.ssa Vancheri, è che non vi sia una scissione tra pornografia/sextoys e relazioni.

L’ultimo intervento, della dottoressa Francesca Rizzello, ha posto l’attenzione del pubblico verso l’impatto che il lockdown ha avuto sulla procreazione medicalmente assistita (PMA). In modo particolare, durante il lockdown è stato richiesto ai centri di procreazione assistita di erogare solamente le prestazioni più urgenti andando a limitare gran parte delle attività. Come sosteneva la dottoressa Rizzello, vi è sempre più una maggiore richiesta di PMA da parte di donne con un’età maggiore di 35 anni. Di conseguenza, le limitazioni imposte ai centri di PMA hanno ritardato le procedure a quelle donne che le necessitavano il prima possibile proprio a causa dell’età.

Tuttavia, ci si aspettava che durante il lockdown vi fosse un aumento delle gravidanze grazie al maggior tempo trascorso in coppia. Purtroppo, come sostiene la dottoressa Rizzello, le coppie hanno dovuto affrontare varie sfide come una minore privacy data da eventuali figli o il timore che il COVID-19 potesse avere un effetto negativo sulla gravidanza. Inoltre, tramite la presentazione dell’articolo di Cirillo e colleghi (2021), la dottoressa ha mostrato i vari cambiamenti avvenuti durante il lockdown che hanno impattato sulle gravidanze: vi è stato un maggior consumo di sigarette, incremento di peso, diminuzione di attività fisica, cambio delle abitudini alimentari e disturbi del sonno. Inoltre, un altro dato importante è che il 37% del campione ha interrotto la ricerca della gravidanza a causa di paure legate alla genitorialità come la minore possibilità di sostenere i costi di un figlio.

Concludendo, è stata fatta chiarezza circa i rischi della vaccinazione e del contagio sulla gravidanza. Se si prende in considerazione la scelta di cercare una gravidanza è opportuno vaccinarsi in quanto l’infezione da COVID-19 causa in donne incinte sintomi più severi, un rischio di 6 volte maggiore di gravidanza pretermine rispetto alle donne non infette e un rischio di 16 volte maggiore nelle donne in gravidanza con diabete e/o obesità (Allotey, 2020).

I problemi dell’educazione sessuale

Una problematica importante segnalata da Daniel Giunti, ideatore del festival, riguarda il fatto che l’educazione sessuale, o comunque la divulgazione di temi inerenti alla sessualità, viene costantemente bannata dai social e, in modo più allarmante, dalle istituzioni scolastiche e dai genitori.

In modo particolare, durante lo spazio “Sesso e relazioni tra adolescenti” con la dottoressa Camilla Tonioni e il dottor Emanuele Palagi, si è parlato dell’importanza di una corretta educazione sessuale e di come l’istituzione scolastica dovrebbe fornire maggiori e migliori informazioni in tal senso. Come sosteneva la dottoressa Tonioni, molti professori e presidi hanno reticenza nei confronti dell’educazione sessuale a scuola, soprattutto per la paura di andare contro al volere di qualche genitore o incorrere in problematiche. Per far comprendere maggiormente la problematica, la dottoressa Tonioni ha illustrato due esempi: il primo è quello di un preside che ha chiesto di non utilizzare termini come “masturbazione” ed “orgasmo”, il secondo è quello di una scuola che ha chiesto agli educatori sessuali di firmare una dichiarazione in cui attestavano di non avere interessi pedofilici. Fortunatamente, vi sono state anche richieste da parte di altri presidi di spiegare esplicitamente agli alunni varie tematiche contemporanee come l’uso della pornografia, l’utilizzo di piattaforme come OnlyFans e il sexwork.

Si trova, quindi, un panorama frastagliato che non fornisce ai giovani adolescenti le informazioni di cui hanno necessità. Come sosteneva la dottoressa Tonioni, il centro integrato di sessuologia clinica “Il Ponte” riceve frequentemente, da parte di giovani adolescenti, richieste di chiarimento su tematiche come il consenso, la contraccezione, domande sui propri genitali e, soprattutto, domande sulla normalità della propria esperienza. Questo perché i giovani adolescenti hanno bisogno di conferme, di capire se la loro esperienza sessuale sia normale o meno e, come suggerisce il dottor Emanuele Palagi, c’è bisogno di ascoltare gli adolescenti e insegnare loro ad ascoltare se stessi, portandoli allo sviluppo dell’assertività.

Bisogna abbandonare la logica dello spavento e della “bulimia informativa”, come definita dal dott. Palagi, e passare ad una logica basata sull’ascolto e sullo sviluppo delle competenze emotive e sociali.

Quello che viene attualmente fatto nelle scuole è sovraccaricare i giovani adolescenti di informazioni che dicono “fare sesso è rischioso. Se non usi il preservativo puoi contrarre un’infezione sessualmente trasmessa”. C’è poi un’altra fonte di disagio e problematiche per gli adolescenti: la pornografia. Secondo il dott. Palagi, quello che la pornografia stimola ai ragazzi è la percezione di essere degli esperti e che bisogna essere prestanti.

Concludendo, servono interventi da parte di professionisti competenti che possano rispondere in modo adeguato alle nuove esigenze dei giovani adolescenti, sia a livello informativo che emotivo.

Sintetizzando, la nostra salute sessuale ha subito drastici cambiamenti con il COVID-19: da una parte la paura di rapportarci con l’altro, dall’altra un uso maggiore di pornografia e di sex-toys. Come si è potuto intuire, un’attenzione maggiore andrebbe posta ai giovani adolescenti e alla loro richiesta di essere educati correttamente. Per fare ciò è necessario l’intervento di professionisti competenti che educhino e, soprattutto, ascoltino le richieste e le paure.

 

La violenza in un clic. Itinerari di prevenzione del cyberbullismo fra adolescenti – Roberto Sgalla e Anna Maria Giannini (a cura di) – Recensione

La violenza in un clic sottolinea l’incapacità da parte dell’adolescente, ma anche, a volte, del genitore stesso, di comprendere la gravità di quel semplice clic che espone un altro soggetto, la vittima, a forme denigratorie e di disprezzo capaci di distruggerlo.

 

Nella nostra società moderna protagonista sembra essere una lotta contro il tempo, in cui i ritmi si mostrano sempre più serrati, travolgenti, quasi incapaci di concedere quella pausa così salutare per corpo e mente.

In questo turbine di eventi vivono i nostri figli, travolti completamente da un’era che li rende protagonisti ed esperti di una tecnologia che, se da un lato concede loro una serie di benefici, un tempo impensabili, dall’altro li può rendere schiavi di se stessa, dominati da un virus virtuale contro il quale non sempre si ha la capacità di produrre anticorpi, forse proprio per quella mancanza di consapevolezza e di informazione che potrebbero nascere in quelle pause ormai inesistenti.

I digital native popolano le pagine dei social, alla ricerca di una notorietà, vista da loro come metro di misura della propria identità: più like si ricevono più ci si sente affermati, in una dimensione del Sé affamata di apparenza e non di sostanza, alimentata da quell’aleatorio che solleva i piedi da terra, fomentando una nuova forma di narcisismo cosiddetto digitale che, in realtà, di solidità ha ben poco.

D’altro canto, invece, ci sono i cosiddetti digital immigrant, ovvero tutte quelle persone già adulte, che all’arrivo delle nuove tecnologie, hanno risposto in maniera più lenta e con più difficoltà e che, proprio per questo, spesso non hanno compreso e non comprendono veramente la pericolosità del viaggiare via web.

In effetti Internet, se pur strumento con infinite potenzialità, è colmo di buchi neri, in cui spesso i giovani adolescenti si ritrovano a condividere messaggi tutt’altro che positivi, intrisi di violenza e di aggressività.

Il fenomeno del Cyberbullismo è una delle forme più gravi nate da quel virus digitale inarrestabile, capace di diffondere in pochissimi secondi qualsiasi messaggio, immagine, video, anche a contenuto sessuale, con l’aggravante di rendere colui che dà inizio alle danze, completamente o in gran parte ignaro delle conseguenze di un simile gesto.

Nel volume viene sottolineata l’incapacità da parte dell’adolescente, ma anche, a volte, del genitore stesso, di comprendere la gravità di quel semplice clic che espone un altro soggetto, la vittima, a forme denigratorie e di disprezzo capaci di distruggerlo. Tra i meccanismi ricorre, senza dubbio, il disimpegno morale nel momento in cui etica e azione commessa sono discordanti: si innesca una sorta di spegnimento selettivo dei veti interni in grado di produrre comportamenti e valutazioni in completa contraddizione con la propria etica e le proprie regole, nonostante queste continuino a rimanere valide. Una sorta di black out momentaneo che giustifica azioni assolutamente contrarie alla nostra abitudine.

Ecco perché ben si evidenzia la necessità di una maggiore consapevolezza, nata dalla conoscenza e dall’informazione riguardo a fenomeni così virali come cyberbullismo e sexting, conoscenza ed informazione che hanno sicuramente raggiunto un traguardo importante con la legge n.71 del 29 maggio 2017, legge sulla prevenzione e contrasto al cyberbullismo, riconoscendo la presenza di un pericoloso fenomeno da combattere.

Nel testo si sottolinea la necessità di un lavoro interdisciplinare, oggetto di ricerca scientifica, da parte delle scuole e delle Università in collaborazione con la Polizia Postale e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità: le istituzioni in stretta unione tra loro per combattere un fenomeno così preponderante, attraverso la partecipazione attiva degli studenti, coinvolti in ricerche e chiamati a rispondere a specifici quesiti in riferimento alla comunicazione attraverso la rete, alle emozioni che scaturiscono e soprattutto alle convinzioni presenti, quando si mettono in evidenza comportamenti illeciti all’interno di uno spazio digitale.

Nel primo capitolo viene affrontata la tematica della violenza e più nello specifico della violenza in rete, sottolineandone i meccanismi psicologici che la caratterizzano. L’aggressività in rete risulta difficile da delineare e limitare proprio per la mancanza di confini dello spazio stesso in cui è protagonista, capace anche di uscire dal digitale e proseguire all’esterno, verso contatti diretti o viceversa, coinvolgendo dunque più dimensioni. Ne vengono sottolineati i meccanismi di disimpegno morale e di abbassamento della temperatura empatica, a causa della presenza dello schermo che nasconde tutto quel linguaggio non verbale di cui ben si conosce la forza comunicativa. Inoltre, pervade anche un’illusione di onnipotenza che fa sentire il soggetto capace di raggiungere chiunque e qualunque cosa, alimentando quel desiderio di rimanere connesso che lo porta a perdere il controllo perfino su sé stesso.

Nel secondo e terzo capitolo si sottolineano gli importanti aspetti giuridici e la rilevanza del cyberbullismo, riconosciuto come fenomeno da fronteggiare e da contrastare. A partire dalla legge 71/2017 viene ben documentata l’applicazione della misura dell’ammonimento da parte del Questore, art.7, “in caso di condotte di ingiuria, diffamazione, minaccia e trattamento illecito dei dati personali, commessi mediante Internet da minori ultraquattordicenni nei confronti di altro minorenne e fino a quando non sia formalizzata querela o presentata denuncia”, che testimonia la constatazione dell’efficacia che trova strada nella sua forza dissuasiva e non punitiva. Si sottolineano l’importanza del gruppo dei pari in un periodo così complesso come quello dell’adolescenza, gruppo che esprime in toto la percezione dell’incerto e dell’incognita prodotta dalle trasformazioni fisiche e psicologiche. Purtroppo la rete estranea queste percezioni di corporeità e di soggettività che mettono in evidenza anche le proprie fragilità, ricamando dei profili costruiti ad hoc in grado di presentarsi nella loro illusorietà, senza sbavature e senza difetti. Si limita “la vertigine dell’incertezza”, ostacolando la costruzione della propria vera identità, fatta anche di aspetti meno graditi e più vulnerabili, rendendo il soggetto sempre più permaloso e incapace di tollerare frustrazioni.

Nel quarto capitolo viene esplicitato il grande impegno da parte del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità per un’azione di prevenzione e di intervento nei confronti di minorenni e giovani adulti che hanno commesso un reato online. Si cerca di delineare una risposta il più possibile individualizzata, in modo tale da non trascurare il difficile e turbolento passaggio adolescenziale, e soprattutto cercando di non trascurare il suo ambiente, costituito da famiglia, scuola e gruppo di pari.

Nel quinto capitolo si cerca di delineare il profilo di coloro che commettono reati in rete, con la consapevolezza che non sia affatto impresa facile e tenendo conto della mancata consapevolezza da parte del reo delle conseguenze della sua azione, spesso anche piuttosto gravi. Vengono presentate tre storie e tre profili di minori italiani, raccogliendo materiale fornito dagli operatori della Giustizia attraverso lo stesso Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, per far partire un’indagine dei casi entrati nel sistema penale che possa aiutare a comprendere le dinamiche che sottendono il fenomeno, puntando sull’istituto della messa alla prova con la convinzione che il reato si possa ricondurre il più delle volte ad un “temporaneo disagio non legato ad una scelta deviante e sia risolvibile proprio attraverso l’aderenza al nuovo progetto di vita”.

Nel sesto capitolo si attua una ricostruzione di alcuni studi del caso da parte del Centro Nazionale per il Contrasto alla Pedopornografia Online (CNCPO) della Polizia di Stato per trascrivere le maggiori fenomenologie di reati sul web commesse da minori. Tra le caratteristiche maggiormente in rilievo si trova il disimpegno morale (Bandura, Barbaranelli, Caprara e Pastorelli, 1996a) che rende plausibili comportamenti invece così riprovevoli, scagionandoli dal pesante senso di vergogna e di colpa che potrebbero minare l’autostima del giovane che commette reato. Vengono delineate le gravi conseguenze che una simile azione può innescare nella vittima, ossia l’abbandono scolastico, fobie sociali, problematiche relazionali fino al suicidio, mettendo in evidenza la necessità di formalizzare al più presto una denuncia per reati di cyberbullismo di rilievo e la tempestività delle segnalazioni anche da chi è osservatore passivo.

Nel settimo capitolo viene esposta una delle ricerche effettuate per comprendere la percezione che ha il minore dei reati informatici, ricerca che ha preso il nome di “E tu quanto #CONDIVIDI?” e che ha coinvolto un ampio numero di studenti tra gli 11 e i 18 anni, nata dall’interazione e la collaborazione tra la facoltà di Medicina e Psicologia di Sapienza Università di Roma e L’Unità CNCPO. Si analizza a fondo il modo di rappresentare e percepire il cyberbullismo da parte dei giovani.

Nell’ottavo capitolo si esplicano i percorsi socioeducativi e di mediazione penale che possono essere intrapresi nei confronti dei minori autori di reato online. Si sottolinea la necessità di far acquisire maggiore consapevolezza del danno provocato e della necessità di mettere in atto percorsi di informazione e di educazione che promuovano progetti che aiutino i giovani a sperimentare un diverso modo di gestire il proprio tempo e a stimolare l’acquisizione di competenze e il riconoscimento di quelle che sono le potenzialità e attitudini di ognuno.

Nell’ultimo capitolo si espone l’azione di contrasto messa in atto dalle autorità competenti verso l’uso distorto delle nuove tecnologie, puntando molto sulla prevenzione attraverso una maggiore sensibilizzazione e soprattutto puntando molto sulla presenza di un team di psicologi dell’Unità di Analisi Dei Crimini Informatici per osservare e comprendere le maggiori e specifiche fragilità dei cyberbulli e delle cybervittime.

A completamento di questa analisi così approfondita del fenomeno in questione vengono inserite in appendice le linee guida Safe Web della Polizia di Stato per la protezione degli strumenti in rete, oltre che le iniziative della Polizia Postale e delle Comunicazioni in materia di sensibilizzazione ai rischi di Internet.

Un testo senza dubbio esaustivo che permette al lettore di visionare un fenomeno così attuale nella sua totalità e di comprenderne la pericolosità e la necessità di interventi sempre più mirati in collaborazione tra le istituzioni, una sinergia necessaria per poter raggiungere importanti traguardi a scapito dell’utilizzo distorto ed esasperato degli strumenti informatici.

 

Caregiver Skills Training (CST): un nuovo modello per i caregiver di bambini autistici, messo a punto dall’OMS – Comunicato Stampa

Uno studio dell’Università di Milano-Bicocca ha esaminato l’efficacia clinica di un nuovo modello di intervento open-access per caregiver di bambini con disturbo del neurosviluppo, incluso l’autismo: il Caregiver Skills Training (CST).

Comunicato Stampa

 

Sono stati pubblicati sulle riviste Journal of Autism and Developmental Disorders e su Autism i risultati di uno studio dell’Università di Milano-Bicocca che ha esaminato l’efficacia clinica di un nuovo modello di intervento open-access per caregiver di bambini con disturbo del neurosviluppo, incluso l’autismo, il Caregiver Skills Training (CST).

Il CST è stato sviluppato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per rispondere al bisogno delle famiglie di accedere a un intervento gratuito e informato da modelli evidence-based (Salomone et al., 2019). Infatti spesso gli interventi precoci sono scarsamente accessibili alle famiglie, non solo nei Paesi a basso-medio reddito (Reichow et al., 2013), ma anche nei Paesi ad alto reddito, incluso negli Stati Uniti (Smith et al., 2020) ed in Europa (Salomone et al., 2016), Italia compresa.

Un gruppo di ricerca condotto dalla dr.ssa Erica Salomone del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con l’OMS, la Georgia State University e Newcastle University ha testato l’implementazione del CST in servizi di Neuropsichiatria Infantile del Servizio Sanitario Nazionale con uno studio randomizzato controllato, il primo di questo genere realizzato in un contesto di comunità in Italia. Lo studio ha mostrato alti livelli di fattibilità di erogazione da parte di professionisti sanitari nel contesto pubblico, eccellente accettabilità per i caregiver ed effetti favorevoli, a 3 mesi dalla conclusione dell’intervento, sulla qualità dell’interazione genitore-bambino, sulla comunicazione non verbale del bambino, sulle competenze genitoriali a supporto dell’interazione, nonché sull’autoefficacia e lo stress genitoriali (Salomone, Ferrante, et al., 2021; Salomone, Settanni, et al., 2021).

 

Per saperne di più >> Leggi il Comunicato Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

 

“Volersi bene e volersi male”: la sessualità secondo la psicopatia e il BDP

Khan e colleghi (2017) hanno svolto il primo studio per considerare gli effetti indipendenti dei tratti psicopatici rispetto ai tratti del disturbo borderline di personalità sulla sessualità.

 

Nel campo della sessualità, numerosi studi dimostrano come uomini e donne possano attuare comportamenti coercitivi, come approfittarsi del proprio partner con pressioni verbali e forza fisica (Koss e Oros, 1982), e strategie di adescamento o di seduzione attraverso comportamenti utili ad attrarre una persona che già vive una relazione affettiva, a breve o a lungo termine (Schmitt e Buss, 2001).

Psicopatia e sessualità

La psicopatia è definita da comportamenti egocentrici, impulsivi ed egoistici a causa della mancanza o della scarsa empatia provata dal soggetto in questione (Hare, 1996). Secondo la Hare Psychopathy Checklist Revised (PCL-R; Hare, 2003), due fattori in particolare contraddistinguono la psicopatia: il primo si focalizza sugli aspetti affettivi e interpersonali dei soggetti psicopatici, spesso correlati a condotte immorali, manipolative o ingannevoli (Khan et al., 2017). Il secondo si focalizza sulla devianza sociale ed evidenzia come i soggetti psicopatici siano maggiormente impulsivi e tendano alla ricerca di sensazioni nuove (Khan et al., 2017). La psicopatia primaria e secondaria (Karpman, 1941) sono misurate attraverso indicatori che riflettono le differenti traiettorie di sviluppo degli individui psicopatici (Khan, 2017). Fulton, Marcus e Payne (2010) sottolineano come i comportamenti associati a tali fattori vengono definiti tratti impulsivi-antisociali. La psicopatia è associata a molestie sessuali (Zeigler-Hill et al., 2016), aggressioni sessuali (Kosson, Kelly e White, 1997), coercizione sessuale (Harris et al., 2007) e atteggiamenti tendenti alla funzione di un comportamento sessualmente predatorio (O’Connell & Marcus, 2016).

Disturbo borderline di personalità e sessualità

I comportamenti sessuali atipici sono stati correlati a disturbi che vengono spesso diagnosticati più frequentemente nelle donne, come il disturbo borderline di personalità (BPD; Lieb et al., 2004). Il BPD è associato a maggiori livelli di assertività, stima e preoccupazione nella sfera sessuale (Hurlbert, Apt e White, 1992), con tratti tendenti alla preferenza di intraprendere nuove relazioni piuttosto che protrarre nel tempo quelle familiari (Cheavens, Lazarus e Herr, 2014). A causa della paura dell’abbandono, i soggetti con BDP tendono ad alternare tra l’idealizzazione e la svalutazione del partner, comportamento che porta alla coercizione per ridurre il disagio e il senso di minaccia che questa paura genera (Khan et al., 2017). Per contrastare il loro stile interpersonale, i comportamenti sessuali adottati da soggetti con tale disturbo possono essere motivati da impulsi sessuali e/o dalla necessità di raggiungere una sicurezza emotiva (Agrawal et al., 2004).

Psicopatia, disturbo borderline di personalità e sessualità

La psicopatia e il BDP sono associati alla promiscuità sessuale (Kastner & Sellbom, 2012). Dato che l’impulsività e l’evitamento del rifiuto sono correlati rispettivamente alla psicopatia secondaria e al disturbo borderline di personalità, Khan e colleghi (2017) hanno svolto il primo studio per considerare gli effetti indipendenti dei tratti psicopatici rispetto ai tratti del disturbo borderline di personalità sui comportamenti sessuali. Lo studio è stato svolto su un campione non clinico, composto da studenti universitari di sesso misto (N =187). Nonostante ciò, data la presenza di una differenziazione sessuale tra psicopatia e BPD, i ricercatori hanno ipotizzato che tutti i comportamenti sessuali esaminati mostrano una moderazione sulla sessualità in termini di tratti relativi a ciascuna di queste condizioni (Khan et al., 2016).

Sono stati utilizzati differenti strumenti per misurare i livelli di psicopatia (LSRP; Levenson et al., 1995; PCL-R; Hare, 2003), i tratti borderline (PDQ-4; Hyler, 1994), la coercizione sessuale (PSP scale; Struckman-Johnson et al., 2003), l’adescamento (ARAS, Schmitt & Buss, 2001), l’esclusività relazionale (SSDSQ; Schmitt & Buss, 2000) e la coercizione sessuale.

I risultati ottenuti mostrano tratti della psicopatia primaria correlati alla coercizione sessuale, all’adescamento, alla mancanza di esclusività relazionale e riflettono l’uso strumentale degli altri per soddisfare desideri personali (Khan, 2017). Questi comportamenti sessuali possono essere spiegati dalla ricerca di brivido sessuale e dall’impulsività, nonché dalla lotta per l’intimità della relazione a causa della paura dell’abbandono nel caso del disturbo borderline di personalità (Khan, 2017). Per quanto concerne il genere femminile, le relazioni esclusive sono identificate tra tratti di psicopatia primaria e uso di tattiche coercitive sessuali non violente, sono presenti termini di esclusività relazionale ridotti e maggiore probabilità di adescamento del compagno. Nel genere maschile invece, è stato osservato come i tratti del disturbo borderline di personalità hanno mostrato una relazione indipendente con una maggiore probabilità di coercizione sessuale e con la perdita di almeno un partner a causa dell’adescamento.

 

I disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva: le evidenze sul loro significato e sul trattamento

Sta attualmente aumentando l’attenzione rivolta al manifestarsi di disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva.

 

Essi sono spesso causa di istituzionalizzazione, accrescono il deficit cognitivo ed abbassano la qualità di vita dei pazienti e dei caregivers.

In letteratura sono prevalenti gli studi che indagano i disturbi comportamentali nella demenza (BPSD). Sono però vari i quadri clinici, dell’età evolutiva e dell’età adulta, caratterizzati dall’esistenza di deficit cognitivo, in cui si presentano anche disturbi del comportamento (Croce L. 2019).

La disabilità intellettiva presenta, dal punto di vista  sintomatologico, la compromissione di alcune funzioni cerebrali superiori quali l’attenzione, la memoria, l’apprendimento, le funzioni visuo-spaziali e prassiche ed il linguaggio (Greenspan S. 1999).

Il comportamento è il modo in cui un individuo agisce e reagisce quando si trova in relazione con gli altri e con l’ambiente ed è una manifestazione di uno stato psicologico. I disturbi del comportamento sono delle disfunzioni e sono caratterizzati dalla difficoltà di gestire le emozioni, dalla comparsa di rabbia, aggressività e oppositività, dalla trasgressione delle regole sociali e morali e dalla necessità impellente di soddisfare i propri bisogni (Finkel SI, Burns A. 2000; Fujii M., BluterJP., Sakasi H 2014).

Le origini dei disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva

La patogenesi di questi disturbi è complessa e, secondo la teoria biopsicosociale  (Engel G., 1977), la loro origine è da ricercare nell’interconnessione di vari fattori: biologici, ambientali e psicosociali. Tra i fattori biologici hanno rilevanza le anomalie della corteccia prefrontale, l’alterazione dell’equilibrio dei neurotrasmettitori, la bassa concentrazione del cortisolo e l’elevata concentrazione del testosterone (Blundo, C. 2016). Si annoverano tra i fattori ambientali i trasferimenti e le istituzionalizzazioni. Infine hanno rilevanza, dal punto di vista psicosociale, la personalità premorbosa del soggetto e lo stress sia del paziente che del caregiver. ( Engel, G. L. 1980)

Si sta affermando sempre di più la convinzione che la presenza di disturbi del comportamento, in soggetti con deficit cognitivo, sia da interpretare come una modalità che i pazienti, con difficoltà intellettive e sensoriali, hanno per manifestare uno stato di disagio. Esistono evidenze che imputano la comparsa di problematiche comportamentali a situazioni in cui il paziente prova dolore fisico oppure disagio emotivo e sociale o prova noia per mancanza di un’adeguata attività (Bianchetti A. 2010). I comportamenti problematici nel deficit cognitivo possono essere considerati come una difformità tra i bisogni del paziente e la competenza dell’ambiente nel soddisfarli (Vitali S., Guaita A. 2000).

Secondo la teoria dell’impotenza appresa, la comparsa ed il perdurare di tali disturbi è da ricondurre al vissuto d’incapacità che il malato ha rispetto al saper affrontare determinate situazioni problematiche o di disagio. Non sentendosi capace, l’unica cosa che riesce a fare è continuare a mettere in atto un comportamento disfunzionale (Seligman ME. 2005).

Gli interventi per i disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva

La maggior parte delle linee guida sugli interventi in caso di disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva, indicano l’approccio non farmacologico come quello da prediligere (Savaskan E., Bopp -Kistler I., Buerge M. 2014). In caso di necessità di trattamento farmacologico questo deve essere abbinato alle strategie non farmacologiche. Queste indicazioni sono supportate, oltre che dalle evidenze, dall’esperienza clinica (Alteya 2021).

Attraverso gli interventi le cui tecniche sono, nella maggioranza dei casi, mutuate dalla psicologia cognitivo comportamentista, si ha come obiettivo quello di una riduzione della comparsa dei comportamenti disfunzionali. Quest’obiettivo può essere raggiunto attraverso la valorizzazione dei punti di forza del paziente ed il potenziamento delle capacità di adattamento sociale (Veltro F.,Chiarullo R., Leanza V. et AL. 2013).

Queste tecniche, in base a quanto emerge dalla letteratura, sono da preferire alle sanzioni punitive che hanno l’intento di reprimere il comportamento problematico. Queste ultime insegnano modelli di comportamento aggressivo, deteriorano la relazione d’aiuto e provocano disagio e disturbi emotivi ( Kirk DS., Wakefield S. 2018).

Secondo Skinner “la punizione non elimina la risposta, ne abbassa la frequenza di emissione per un periodo di tempo circoscritto. Successivamente la risposta viene emessa con frequenza equivalente a quella che caratterizza la risposta non punita

 

cancel