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É possibile temere di ricevere un complimento? La paura della valutazione positiva nel disturbo borderline di personalità

Il disturbo borderline di personalità (DBP) colpisce circa l’1,6% della popolazione generale; diagnosticamente, è definito come un pattern pervasivo di instabilità, in molteplici aspetti della vita dell’individuo, tra cui l’immagine di sé, delle relazioni interpersonali e dell’umore.

 

Inoltre, gli individui con disturbo borderline di personalità mostrano un’impulsività marcata, che si manifesta in comportamenti ad alto rischio, comportamenti autolesivi e suicidi, esperienze di rabbia intensa e/o difficoltà nel controllarla. Questo quadro sintomatico si sviluppa entro la prima età adulta ed è presente in vari contesti ed ambiti (American Psychiatric Association, 2013).

Come espresso nel primo criterio per la diagnosi di disturbo borderline di personalità del DSM-5, i pazienti con questo disturbo compiono sforzi disperati per evitare un reale o immaginario abbandono. La percezione della separazione o del rifiuto imminenti, possono portare ad alterazioni profonde dell’immagine di sé, dell’umore, della cognitività e del comportamento. (APA, 2013).

La cognizione sociale nel disturbo borderline di personalità

La letteratura dimostra che spesso gli individui con disturbo borderline di personalità sono caratterizzati da bias nel percepire ed elaborare adeguatamente i segnali sociali emessi durante un incontro, che comprendono non soltanto il linguaggio, ma anche l’espressione facciale e i gesti corporei (Roepke, Vater, Preißler, Heekeren, & Dziobek, 2012). Tali bias sono una caratteristica distintiva anche e soprattutto dei soggetti con disturbo di ansia sociale (DAS), i quali temono di essere giudicati negativamente (Wells, Clark, Salkovskis, Ludgate, Hackmann, & Gelder, 1995). Recentemente la ricerca ha evidenziato che le difficoltà sperimentate nella cognizione sociale, non riguardano soltanto le informazioni negative, ma anche quelle positive; alcuni dati dimostrano infatti che diversi soggetti sperimentano una vera e propria paura della valutazione positiva (Fear of Positive Evaluation- FPE) altrui (Rodman, 2008). Quest’ultima si verifica come effetto di un’anticipazione o di un’effettiva ricezione di lodi o feedback favorevoli durante situazioni sociali. È noto infatti che spesso i soggetti con disturbo borderline sono caratterizzati da compromissioni nella positività; queste ultime includono alterazioni sia nello sperimentare affetti positivi, sia nell’interpretare informazioni positive rimandate dagli altri (Fredrick & Luebbe, 2020).

La paura della valutazione positiva è stata studiata raramente in altri disturbi mentali diversi dal disturbo da ansia sociale, sebbene esistano alcuni risultati preliminari di un’associazione tra la paura della valutazione positiva e i sintomi del disturbo borderline di personalità. Secondo alcuni autori come Linehan (1993) la paura e il disagio potrebbero verificarsi come conseguenza del timore dell’abbandono dei pazienti borderline: se sembra che stiano migliorando nel trattamento o nella vita quotidiana, i terapeuti o le persone significative potrebbero pensare che non abbiano più bisogno di cure o di trattamento, interrompendo così la terapia o la relazione. Questa ipotesi può spiegare le tendenze autodistruttive spesso osservate negli individui con disturbo borderline di personalità e la loro propensione a minare se stessi proprio prima di raggiungere un obiettivo: essere considerati abbastanza autosufficienti da essere abbandonati. Così, gli obiettivi sono spesso sabotati per evitare un abbandono o un rifiuto. Weinbrecht, Roepke, e Renneberg, nel 2020, hanno confrontato la paura della valutazione positiva in un campione di 100 soggetti, che comprendevano individui con disturbo borderline di personalità, con disturbo d’ansia sociale e un un gruppo di controllo, esaminando le associazioni tra la paura della valutazione positiva, l’ansia sociale e la sensibilità al rifiuto. In particolare gli autori, somministrando differenti test tra i quali il Social Phobia Inventory (SPIN; Connor, Davidson, Churchill, Sherwood, Foa, Weisler, 2020) par valutare l’ansia sociale, il Rejection Sensitivity Questionnaire (RSQ; Feldman, Downey, 1994) per valutare la sensibilità al rifiuto e il Fear of Positive Evaluation Scale (FPES; Weeks, Heimberg, Rodebaugh, 2008) per valutare la paura della valutazione positiva, prevedevano che anche il disturbo borderline fosse caratterizzato da un’elevata paura della valutazione positiva, e ipotizzavano che il campione clinico (DAS e DBP) avrebbe ottenuto dei livelli più elevati di paura di valutazioni positive rispetto al gruppo di controllo. Inoltre si aspettavano che l’ansia sociale, caratteristica distintiva di entrambi i disturbi, potesse spiegare l’aumento di paura di valutazioni positive e che negli individui con disturbo borderline di personalità quest’ultima fosse associata alla sensibilità al rifiuto.

La valutazione positiva nel disturbo borderline e nell’ansia sociale

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati mostrano che la paura della valutazione positiva aumenta nei pazienti con disturbo d’ansia sociale e disturbo borderline di personalità rispetto al gruppo di controllo, sebbene non ci siano differenze significative tra i due gruppi; risultati simili sono stati ottenuti anche per la sensibilità al rifiuto. Inoltre, come previsto, la paura della valutazione positiva risulta correlare significativamente con l’ansia sociale in tutti i gruppi di soggetti: la maggior parte della varianza nella paura di essere valutati positivamente è spiegata infatti dall’ansia sociale. La sensibilità al rifiuto risulta invece correlare con la paura della valutazione positiva solo nei soggetti borderline.

Lo studio di Weinbrecht e colleghi fornisce quindi supporto all’ipotesi che non soltanto i soggetti con ansia sociale ma anche i soggetti con disturbo borderline di personalità valutano le informazioni sociali positive in maniera più ansiosa rispetto ad un campione sano; sembrano infatti caratterizzati da problemi nell’integrazione di informazioni positive autoreferenziali (Korn, La Rose, Heekeren, Roepke & 2016). Inoltre gli individui borderline riferiscono di essere particolarmente a disagio nel ricevere complimenti, probabilmente perché possono provare emozioni negative come rabbia e vergogna, a causa di un’incongruenza tra la ricezione di un feedback positivo da parte di qualcuno e l’idea negativa di sé (Winter, Bohus & Lis, 2017). Un’elevata paura della valutazione positiva può quindi comportare problemi sociali, con una conseguente minore qualità della vita (Reichenberger & & Blechert, 2018), un funzionamento psicosociale compromesso (Alvarez-Toma et al., 2017) e una riduzione dell’affetto positivo. Infine, nella pratica clinica, lo studio fornisce alcune indicazioni per i terapeuti, i quali devono essere consapevoli che per un paziente borderline ricevere un complimento o un feedback positivo potrebbe risultare difficile da accettare (Weinbrecht, Roepke, & Renneberg, 2020).

 

Cosa ci piace così tanto dei social network – Psicologia Digitale

Il rapporto tra noi ed i social network non è a senso unico: non solo le nostre caratteristiche ma anche le loro specificità ci influenzano.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 24) Cosa ci piace così tanto dei social network

 

Perché le persone utilizzano i social network

 Per avere una stima di quanto siano diffusi i social network basta un numero: ad oggi gli utenti attivi sulle piattaforme social superano i 4 miliardi (report We are social, 2021).

Da quando Myspace, Facebook e poi via via tutti gli altri sono approdati sui nostri computer prima e sui nostri smartphone dopo, sono passati più di 10 anni. Nel tempo i social network sono cambiati per aspetto, opzioni, funzionalità, e con tutto questo è mutato anche come li usiamo e perché.

Inizialmente si riteneva che le persone li usassero per rientrare in contatto con vecchi amici, parenti, conoscenti e per trovare possibili partner (per esempio: Gülnar et al., 2010; Nadkarni & Hofmann, 2012); adesso fa sorridere pensarla così, ma se torniamo indietro nel tempo (per chi c’era e può ricordarlo!) possiamo ritrovarci in questa visione.

Mantenere i contatti con amici e familiari però non è bastato. Si è fatta largo la voglia di esprimere opinioni e socializzare con persone nuove con i nostri stessi interessi: dalle ricette alla politica, dalla musica allo sport, condividere punti di vista su specifici argomenti è diventata una funzione importante dei social network.

Bisogni e motivazioni dei social network

Perché li usiamo, quali sono le motivazioni e i bisogni cui i social network assolvono e in definitiva perché i social network ci piacciono così tanto?

In linea generale l’uso dei social network è modulato da differenze individuali e da uno spettro di motivazioni.

Le prime ricerche a riguardo (per esempio: Gülnar et al., 2010; Nadkarni & Hofmann, 2012) suggerivano che l’uso (in particolare di Facebook) è motivato da alcuni bisogni primari: bisogno di appartenenza, di espressione di sé, desiderio di essere parte di una comunità e necessità di estendere la rete delle amicizie. Questi bisogni sono influenzati da fattori demografici e culturali oltre che personali, come timidezza e autostima.

Più recentemente, applicando il modello dei Big Five, è stato indagato come specifici tratti di personalità siano correlati all’uso dei social network (Kircaburun et al., 2020). Come intuibile, persone con tratti di estroversione usano i social media per lo più per mantenere le loro relazioni; chi ha mostrato bassi livelli di coscenziosità tende a volersi esprimere e presentarsi in un certo modo per ottenere più popolarità. Alti tratti di nevroticismo invece sono legati alla visione dei social network come passatempo ed infine alti livelli di apertura all’esperienza sono predittivi di chi li vede come strumento per mantenere relazioni, informarsi e imparare cose nuove.

Alcuni contributi arrivano anche dalle neuroscienze. Diversi autori si sono interessati alla comprensione di quali strutture e processi neurali sono implicati nell’elaborazione degli stimoli presenti nei social network.

Per esempio, il “like”, funzione presente in tutti i social media con piccole variazioni, sarebbe associato al circuito neurale delle ricompense: le specifiche aree cerebrali che rispondono a ricompense primarie e secondarie sarebbero coinvolte anche nell’elaborazione di questi stimoli/feedback che modellano l’apprendimento per rinforzo (Sherman et al., 2018).

Ci sono anche delle differenze tra i diversi social: Instagram e YouTube sono più legati a tempo libero, intrattenimento, una rappresentazione di sé più popolare, Facebook e Twitter al tenersi aggiornati e mostrarsi informati, mentre Whatsapp al mantenimento dei rapporti con le persone che conosciamo (Kircaburun et al., 2020).

Che sia per esprimere le proprie opinioni, tenersi aggiornati o per mantenere i rapporti con i nostri amici, bisogni e motivazioni influenzano la scelta su come e quali social utilizziamo.

Ma il rapporto tra noi ed i social network non è a senso unico: non solo le nostre caratteristiche ma anche le loro specificità ci influenzano. Infatti, il nostro comportamento, i bisogni e le motivazioni sono condizionati dalle digital affordance.

Il modello NAF e le affordance digitali

Le digital affordance possono essere definite come “possibilità di azione offerte dalla tecnologia agli utenti, o le affordance sono ciò che un utente può potenzialmente fare attraverso l’uso della tecnologia” (Karahanna et al., 2018). Analogamente a quelle teorizzate da Gibson nel 1977, anche nel mondo virtuale sono presenti delle affordance, cioè delle proprietà, qualità o funzioni che ci suggeriscono delle azioni: cliccare su “condividi” o su “mi piace” sono delle affordance perché indicano all’utente cosa può fare. Per esempio, le paralinguistic digital affordances (PDA), le affordances digitali paralinguistiche, sono tutti quei simboli e segnali che permettono agli utenti di interagire ed esprimersi in maniera non verbale, come i “like” su Facebook (Hayes et al., 2016). Altre digital affordance sono “iscrivi”, “commenta”, “cerca”, un bottone, un link, insomma qualsiasi elemento che guidi ad una azione; alcune sono comuni a quasi tutti i social (come il “commenta”), altre sono più specifiche (come il pin su Pinterest).

Secondo il modello NAF (need-affordance-features) di Karahanna e colleghi (2018) il motivo fondamentale per cui ci piacciono così tanto i social network è che sono pieni di affordance che soddisfano uno o più bisogni. I bisogni considerati particolarmente rilevanti quando si tratta di social network sono: autonomia, far qualcosa perché si sceglie liberamente di farlo e non per obblighi (sociali, normativi); competenza, sentirsi competenti ed efficaci; il bisogno di ‘avere un posto’, cioè il desiderio di avere un ambiente personale che viene sentito come “proprio”; relazione, il bisogno di sviluppare relazioni interpersonali; il senso di identità che si riferisce all’avere un chiaro e definito senso di sé ed, infine, il bisogno di continuità dell’identità, cioè di avere un senso di sé stabile nel tempo.

Per tradurre tutto questo in un esempio pratico, pubblichiamo quello che ci va quando ci va (autonomia), perché sappiamo usare il mezzo (competenza), sul nostro profilo che possiamo personalizzare come vogliamo (avere un posto), abbiamo un network di contatti (relazione), esprimiamo noi stessi (identità) attraverso contenuti che rimangono nel tempo sul nostro profilo (continuità).

Quindi siamo motivati ad utilizzare le opzioni e le funzioni che ci forniscono affordance che soddisfano questi bisogni.

Non tutti i bisogni sono sempre soddisfatti e non tutte le affordance li soddisfano tutti. Per esempio, si può pubblicare ciò che si vuole nei limiti di ciò che è consentito all’interno del sito; pubblicare contenuti può rispondere al bisogno di esprimere la propria identità ma non a quello di relazione.

In generale, inquadrare meccanismi, bisogni e motivazioni che influenzano gli utenti sui social network è utile per comprendere quali sono le leve che spingono le persone a comportarsi online in un certo modo. Ricordandoci, però, che i social, come qualsiasi strumento, non sono in sé buoni o cattivi: come per tutti i mezzi, dipende dall’uso che se ne fa.

 

Adolescenza adottiva e devianza

Diversi studi hanno indagato la relazione tra problemi comportamentali e ragazzi adolescenti adottati.

Antonio Albanesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

L’adolescenza è identificata come forse il più critico dei periodi del ciclo di vita: questo perché rappresenta un fondamentale momento di transizione, che porta con sé enormi cambiamenti fisici, psicologici e sociali, spesso estremamente difficili da accettare o da comprendere per i ragazzi che li affrontano. Da un lato, infatti, l’adolescente percepisce di non essere più un bambino: il ragazzo si trova ad affrontare nuovi doveri e responsabilità, le persone cambiano nei suoi confronti e le aspettative riposte in lui si trasformano. A questo si aggiunge il fatto che le relazioni che hanno caratterizzato il suo mondo affettivo per tutta la vita si modificano radicalmente. Dall’altro, risulta per loro molto difficile sentirsi “completamente” adulti: in parte perché non possiedono ancora i mezzi e le competenze sufficienti, ma soprattutto perché non sanno come muoversi in un mondo nuovo, in cui nessuno risparmia critiche e giudizi. Inoltre, il loro corpo muta rapidamente e spesso i ragazzi fanno molta fatica ad accettare le loro nuove forme. Questo certo non contribuisce a farli sentire a loro agio nella loro “nuova veste di adulto”. Se aggiungiamo il fatto che la società si sta evolvendo sempre più in fretta e che anche gli adulti, talvolta, si trovano senza i mezzi per accompagnare i loro figli (o allievi) in questa transizione, possiamo mettere la ciliegina sulla torta (Pianfetti, G. 2017)

Il ruolo dell’aggressività negli adolescenti adottati e non adottati

Alcune revisioni meta-analitiche e sistematiche hanno concluso che gli adolescenti adottati mostrano una vasta gamma di difficoltà nei domini cognitivi, comportamentali, emotivi e interpersonali (Van den Dries e colleghi, 2009; Van Ijzendorn e colleghi, 2005). Sembra che questi tipi di problemi li mettano ad alto rischio di sviluppare problemi di salute mentale, in particolare problemi comportamentali esternalizzanti, rispetto ai loro coetanei non adottati (Askeland e colleghi, 2017; Barroso e colleghi, 2017). Tuttavia, anche se le esperienze avverse prima dell’adozione possono aumentare la probabilità che gli adolescenti adottati sviluppino problemi di aggressività, solo alcuni studi si sono concentrati specificamente sul dominio dell’aggressività negli adolescenti adottati (Torres-Gomez e colleghi, 2018). Uno studio recente ha esaminato gli effetti delle norme genitoriali e dell’attaccamento sicuro sull’aggressività, valutando il contributo distinto di madri e padri in un campione di adolescenti adottati e non adottati (Juffer, van Ijzendorn e Palacios, 2011). I risultati qui hanno supportato il suggerimento di un effetto diretto dei comportamenti coercitivi paterni sull’aggressività degli adolescenti, mentre l’effetto della coercizione materna era mediato dall’attaccamento sicuro. Questo modello è valido sia per le ragazze che per i ragazzi adottati e non. Estendendo i risultati precedenti circa la mediazione di attaccamento alla genitorialità e all’aggressività, i risultati mostrano l’importanza di valutare separatamente le fasi della prima e tarda adolescenza per una migliore rappresentazione delle differenti dinamiche evolutive durante l’adolescenza. Inoltre, lo studio conferma le relazioni predette tra accettazione/coinvolgimento e rigore/imposizione, come osservato in studi in Spagna con altri indicatori, estendendo quindi l’esistenza di un’aggressività multidimensionale (Gallarin e Alonso-Arbiol, 2012).

I risultati supportano un modello di mediazione parziale in cui l’accettazione/coinvolgimento di entrambi i genitori prevedeva l’attaccamento sicuro nei loro confronti e dove la coercizione/imposizione del padre e l’attaccamento sicuro materno predicevano l’aggressività dell’adolescente. Questi risultati sono un po’ diversi da quelli trovati da Gallarin e Alonso-Arbiol (2012) per la tarda adolescenza, dove l’attaccamento sicuro mediava pienamente la relazione tra genitorialità e aggressività. Caratteristiche idiosincratiche delle fasi adolescenziali possono spiegare questa differenza. Nella tarda adolescenza, le ragazze e i ragazzi possiedono sufficienti capacità cognitive ed emotive per integrare sia le norme disciplinari che affettive nella rappresentazione dell’attaccamento sicuro. Quindi, l’attaccamento farebbe da intermediario tra la norma genitoriale della coercizione/imposizione e quella dell’accettazione/implicazione. A differenza della tarda adolescenza, la prima adolescenza non ha tali capacità cognitive e la maturità emotiva per poter integrare le diverse sfaccettature delle regole genitoriali nella loro rappresentazione dell’attaccamento sicuro. Questi adolescenti più giovani sarebbero in grado di distinguere le interazioni affettive e coercitive con i genitori, come esempio di pensiero concreto o ragionamento “bianco e nero”. Questa idea si riflette nell’approccio della struttura di mentalizzazione, il cui sviluppo è sostenuto da modelli interni funzionanti alla base dell’attaccamento. La mentalizzazione è intesa come un tipo di abilità immaginativa per percepire e interpretare il proprio comportamento e quello degli altri in termini di stati mentali intenzionali (cioè desideri, sentimenti, bisogni, e obiettivi). Come tale, i cambiamenti sono identificati nella fase evolutiva dell’adolescenza. La ricerca ha dimostrato che le capacità di mentalizzazione migliorano con l’età, essendo migliori nella tarda rispetto che nella prima adolescenza (Gallarin, Torres-Gomez e Alonso-Arbiol, 2021). Pertanto, è sensato pensare che le capacità di mentalizzazione basate sull’attaccamento degli adolescenti più grandi, consentono loro una posizione più riflessiva per comprendere e integrare le due dimensioni delle norme di educazione genitoriale che sono alla base degli stati mentali dei genitori. Da ciò si può dedurre che l’attaccamento sicuro non medi tra le variabili coercizione/imposizione e aggressività in questa fase adolescenziale. Tuttavia, la ricerca futura dovrebbe testare questo tentativo di spiegazione in un campione congiunto di adolescenti precoci e tardivi.

La previsione di un’associazione più diretta di norme paterne (vs. materne) nell’aggressività, è stata parzialmente corroborata dall’effetto diretto della variabile coercizione/imposizione relative ai padri. Tuttavia, i risultati mostrano anche un’interessante mediazione non prevista di attaccamento materno nel rapporto tra la variabile accettazione/coinvolgimento e la variabile aggressività che non è stata osservata nel modello di Gallarin e Alonso-Arbiol (2012) sulla tarda adolescenza. Questi risultati sono congruenti con la precedente divisione dei ruoli di genere trovata nella genitorialità e nell’attaccamento. Come hanno osservato alcuni autori (Koehn e Kerns, 2018) nella loro meta-analisi, esiste un’associazione più forte tra l’attaccamento sicuro degli adolescenti e la genitorialità reattiva nelle madri, mentre i padri sembrano svolgere un ruolo di autorità. Di conseguenza, nello studio condotto in Spagna, l’affettività delle madri è stata più rilevante nel predire l’aggressività durante la prima adolescenza, mentre l’effetto del padre è stato direttamente associato a comportamenti coercitivi. Pertanto, i risultati sembrano essere in linea con un modello di genere tradizionale sulla distribuzione delle funzioni genitoriali, vale a dire, madre legata all’affettività e il padre associato all’autorità; la minore capacità dei ragazzi più giovani di integrare entrambi gli elementi, rafforza la percezione di questa divisione dei ruoli. Al contrario, i tardi adolescenti sono più capaci di integrare la genitorialità legata all’affetto e alle regole coercitive, così come riescono ad integrare diversi aspetti delle esperienze di attaccamento in un’unica organizzazione complessiva dell’attaccamento dovuta al consolidamento della fase di pensiero operativo formale e alle capacità di mentalizzazione aumentate. Inoltre, negli adolescenti più grandi, le risorse riguardanti l’affetto variano sia in funzione dell’importanza che assume il gruppo dei pari sia all’aumento delle figure di attaccamento.

I comportamenti devianti negli adolescenti adottati

La letteratura ha individuato diversi studi che hanno indagato la relazione tra problemi comportamentali e ragazzi adolescenti adottati. Ad esempio, Miller e colleghi (2000) suggeriscono che i genitori adottivi possono essere più sensibili alle disfunzioni psicologiche e avere maggiori probabilità di ottenere servizi clinici per i loro figli adottivi. I genitori adottivi possono anche essere più consapevoli dei servizi clinici in quanto risultato del processo di adozione e di eventuali consulenze ricevute. In particolare, esiste un corpo di ricerca significativo in letteratura che suggerisce che gli individui adottati sono ad alto rischio di sviluppare una psicopatologia, in particolare, problemi di condotta. Una meta-analisi condotta da Wierzbicki (1993) ha esaminato 66 studi pubblicati che confrontavano i partecipanti adottati con i loro coetanei non adottati su sette domini di funzionamento. Sebbene non furono riscontrate differenze significative sui livelli dei disturbi internalizzanti (attribuibili a cause interne), delle anomalie neurologiche o delle caratteristiche psicotiche, i partecipanti adottati mostrarono rappresentazioni significativamente maggiori nei campioni clinici, livelli significativamente più alti nei disturbi esternalizzanti (attribuibili a cause esterne) e nei problemi scolastici, nonché una gravità generale significativamente maggiore rispetto ai partecipanti non adottati. Altri ricercatori suggeriscono invece che gli studi riferenti alti livelli di problemi comportamentali tra gli individui adottati, sono stati spesso condotti utilizzando un campione clinico di individui adottati, e che i risultati non sono generalizzabili all’intera popolazione adottata (Smith, 2001). Molti altri studi che suggeriscono che gli individui adottati possano avere un rischio maggiore di sviluppare problemi comportamentali, basano i loro risultati sull’elevata rappresentanza degli individui adottati nei contesti clinici (Kotsopoulos e colleghi, 1988). Mentre gli individui adottati costituiscono circa l’1% – 2% della popolazione adolescente degli Stati Uniti, rappresentano l’8,7% – 21,2% degli adolescenti in trattamento con ricovero e l’1,1% – 7,5% dei pazienti ambulatoriali (Haugaard, 1998). Anche se i ricercatori hanno concluso che gli adolescenti adottati sono generalmente sovrarappresentati tra coloro che ricevono un trattamento psicologico, non sono d’accordo riguardo le influenze che determinano la maggiore prevalenza. C’è un corpo di ricerca in crescita che suggerisce esista una maggiore prevalenza per il semplice fatto che potrebbe essere in parte dovuta alla maggiore disposizione a cercare assistenza psicologica tra genitori adottivi (Miller e colleghi, 2000). Ad esempio, Stams e colleghi (2000) hanno esaminato le differenze relative ai problemi comportamentali nei partecipanti adottati e non adottati attraverso le valutazioni delle madri e degli insegnanti. In quel caso non furono trovate differenze statisticamente significative tra i due gruppi su nessuno dei domini misurato attraverso le valutazioni degli insegnanti. Al contrario, le madri delle ragazze adottate riportarono in modo significativo un comportamento più aggressivo e problemi comportamentali esternalizzanti rispetto alle madri delle ragazze non adottate; ancora, le madri dei ragazzi adottati riportarono invece problemi significativamente maggiori in ogni ambito misurato tranne problemi di pensiero, rispetto alle madri dei ragazzi non adottati. Questi risultati sostengono l’ipotesi che le persone che scelgono di adottare bambini possano essere più sensibili a cambiamenti comportamentali rispetto ai genitori biologici.

Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l’alto rischio di sviluppare una psicopatologia degli individui adottati sia relativo a problemi di abbandono irrisolti, confusione di identità e pensieri sulla nascita dei genitori (Hollingsworth, 1998; Feigelman, 1997; Smith, 2001). Nel momento in cui gli individui adottati raggiungono la fase adolescenziale, iniziano a diventare più consapevoli delle differenze fisiche tra loro e i loro genitori adottivi, innescando ulteriori fantasie sui genitori naturali (Silin, 1996).

“Se un tale problema è fondamentale per la crescita dell’adottato, allora tale ricerca dell’identità e il turbamento si manifesterebbero attraverso una condotta più disfunzionale rispetto al non adottato, in quanto l’adottato passa direttamente dall’infanzia all’età adulta” (Feigelman, 1997).

La soddisfazione per l’adozione, o la soddisfazione della famiglia, è un possibile fattore protettivo che ha ricevuto poca attenzione in letteratura. Grotevant e colleghi (2001) hanno esaminato la compatibilità tra i partecipanti adottati e i genitori adottivi per un periodo di otto anni come segnalato dai genitori adottivi. Dopo aver classificato le famiglie in cinque gruppi che vanno da coerentemente compatibile a coerentemente incompatibile, i ricercatori hanno osservato che i punteggi dei problemi comportamentali aumentavano al diminuire della compatibilità.

Influenze genetiche e ambientali sul comportamento antisociale

Una considerevole ricerca si è concentrata sull’obiettivo di spiegare l’eziologia del comportamento antisociale. In particolare, è stato studiato in maniera estesa il ruolo delle influenze familiari. Le influenze familiari disfunzionali come la psicopatologia nei genitori (Robins, 1966), gli stili genitoriali coercitivi (Patterson, Reid e Dishion, 1992), gli abusi fisici (Dodge, Bates e Pettit, 1990) e i conflitti familiari (Norland, Shover e colleghi, 1979) sono stati dimostrati essere significativamente correlati con il comportamento antisociale. Spesso, queste variabili sono state considerate facenti parte delle influenze ambientali e la possibilità che esse possano riflettere anche influenze genetiche, non è stata molto considerata. In particolare, in uno studio condotto da Rhee e Waldman nel 2002, gli autori hanno effettuato una meta analisi su 51 studi riguardanti i gemelli e l’adozione al fine di stimare la rilevanza delle influenze genetiche e ambientali sul comportamento antisociale. Ebbene, i risultati furono che la grandezza delle influenze familiari era più bassa negli studi sull’adozione genitore-figlio rispetto sia agli studi sui gemelli che alle adozioni di fratelli. L’operatività, il metodo di valutazione, il metodo di determinazione della zigosità (la zigosità è il grado in cui entrambe le copie di un cromosoma o di un gene hanno la stessa sequenza genetica; in altre parole, è il grado di somiglianza degli alleli in un organismo) e l’età, funsero da moderatori significativi sull’importanza delle influenze genetiche e ambientali nel comportamento antisociale, ma non si evidenziarono differenze significative sulla rilevanza delle influenze genetiche e ambientali per maschi e femmine.

In un altro studio condotto da King e colleghi nel 2009, gli autori hanno esaminato le influenze genetiche e ambientali dell’alcolismo dei genitori sul comportamento disinibito della progenie, confrontando un campione di adolescenti adottati e non adottati cresciuti in famiglie in cui, almeno un genitore, aveva una storia di dipendenza da alcol rispetto a quelli cresciuti in famiglie senza storia di alcolismo. I risultati emersi furono diversi. Innanzitutto, gli effetti della storia di dipendenza da alcol dei genitori erano condizionati dallo stato di adozione, in modo tale che una storia di dipendenza da alcol dei genitori fosse associata a livelli più elevati di disinibizione solo quando gli adolescenti erano biologicamente legati ai genitori accuditori. Questa scoperta suggerisce che l’associazione tra una storia di dipendenza da alcol dei genitori e la disinibizione comportamentale della prole è in gran parte attribuibile alla trasmissione genetica piuttosto che ambientale. Inoltre, è stato scoperto che la dipendenza da alcol dei genitori era associata a livelli elevati nella prole biologica di una varietà di indicatori di disinibizione comportamentale, e non solo all’uso di alcol o altre sostanze. Questi risultati implicano che ciò che viene trasmesso geneticamente è una tendenza generale verso il comportamento di disinibizione, che si estende attraverso l’uso di sostanze, i tratti della personalità, gli atteggiamenti e i comportamenti. Questi risultati rafforzano le ricerche precedenti, che hanno stabilito un fattore esternalizzante altamente ereditabile che collega i disturbi mentali che hanno in comune tratti comportamentali disinibiti. Gli autori sostengono anche la tesi secondo cui il comportamento disinibito, antisociale e l’uso di sostanze siano espressioni variabili di una vulnerabilità comune e generale. Inoltre, gli studiosi hanno ottenuto alcune prove sull’abuso di alcol da parte dei genitori come fattore di rischio ambientale condiviso. Un nuovo contributo della presente indagine è stata la capacità degli autori di vivisezionare le influenze ambientali e familiari dagli effetti genetici. Le loro analisi sull’esposizione all’abuso di alcol da parte dei genitori tra gli adottati ha fornito un test diretto dell’effetto ambientale di esporre un bambino a un genitore accuditore con problemi di alcol, mostrando come l’esposizione all’abuso di alcol da parte dei genitori fosse associato a una probabilità sostanzialmente maggiore di avere consumato alcol negli adolescenti adottati. Le probabilità di aver usato alcol erano circa quattro volte maggiori tra gli adottati esposti all’abuso di alcol da parte dei genitori rispetto ad adottati che non erano similmente esposti. In sintesi, l’esposizione all’abuso di alcol da parte dei genitori durante la propria vita ha rappresentato un fattore di rischio ambientale per il consumo di alcol negli adolescenti adottati. Tuttavia, nessuno degli altri effetti dell’esposizione dei genitori sulla disinibizione della prole fu significativo. Ciò è in contrasto con una storia di dipendenza da alcol in un genitore imparentato biologicamente, che ha conferito una vulnerabilità generalizzata, in gran parte genetica, al comportamento disinibito nella prole adolescenziale, che era indipendente dall’esposizione diretta ai genitori con problemi di alcol.

 

La formazione sull’umanizzazione della cura in ambito sociosanitario. L’esperienza pluriennale di corsi in Residenza sanitaria assistenziale per anziani (RSA): una riflessione qualitativa

La nostra definizione di umanizzazione della cura è quella di processo che consiste nel ricondurre al centro dell’intervento la persona, con la propria esperienza di malattia e i propri vissuti.

 

Il contesto normativo e teorico

Ricevuto la prima volta l’incarico di un intervento informativo e formativo sull’umanizzazione delle cure, ci è sembrato subito un terreno scivoloso. Nel 2014 in Regione Lombardia è stato approvato un decreto regionale attinente l’accreditamento delle strutture sociosanitarie del territorio, con nuovi vincoli e responsabilità. All’interno di tale documento si obbligano le realtà interessate a svolgere formazione a tutto il personale di contatto sul tema dell’umanizzazione della cura. Una decisione maturata sia dopo recenti denunce di episodi di maltrattamenti verso gli utenti, sia perché finalmente è diventata legge l’idea che la qualità di un sistema sanitario si misuri anche con la capacità di accogliere i pazienti nella loro interezza, con tutte le loro esigenze psicologiche e sociali e non solo con l’efficienza economica, l’efficacia degli esiti, la disponibilità di innovazioni assistenziali, tecnologiche e terapeutiche. (DGR 2569/2014). Ma che cosa vuol dire umanizzazione della cura? E come poterne parlare al personale che, almeno sulla carta, è già specializzato e con esperienza? Ed anche quando avremo trovato materiale formidabile da fornire, come evitare la sensazione nei corsisti di sentire giudicato il proprio lavoro, oppure di sentire una sfilza di banalità su ciò che è alla base del loro operato quotidiano?

Allora abbiamo rinunciato a questa strada invertendo la rotta di 180 gradi: abbiamo pensato che la cornice vincente fosse quella di non considerare la cura umanizzata o disumanizzata “in sé”, ma che qualsiasi cura può essere umana o meno. Ovviamente un trattamento disumano “in sé” (maltrattante, per esempio) sarebbe già perseguibile a norma di legge e lontano dal tema del corso.

Noi ci stiamo muovendo invece in un’area grigia, più complicata, mutevole e incostante.

Come si fa a misurare se un tocco è fatto in modo umano? E com’è l’igiene quotidiana umanizzata? Si può misurare quanto sono umanizzate le cure? Anche qui avremmo potuto parlare di empatia e magari cercare qualche strumento per aumentarne i livelli. Ancora una volta però la sensazione è stata di non sapere “dove” questi strumenti sarebbero arrivati negli operatori, né se e quanto l’umanizzazione sarebbe stata presente nel personale che avremmo visto in aula.

Che cosa intendiamo con umanizzazione

Abbiamo allora proceduto per gradi.

Per la definizione di “umano” ci siamo chiesti cosa distinguesse una persona da un oggetto: pensieri, emozioni, sentimenti, sensazioni corporee (proprie ed esterne).

Non esaustivo ovviamente, però non è poco ed è sufficiente, secondo noi.

Porre questa domanda in aula ha infatti aiutato molto i partecipanti. Qualsiasi fosse la loro mansione si sono sentiti interrogati come esseri umani e non come funzione, cosa che purtroppo sempre più accade nei contesti lavorativi che frequentano.

Le lavagne mobili si sono rapidamente riempite di molte parole e riflessioni, tutte ascrivibili ad una delle 4 categorie elencate più sopra.

Questa è stata la base per proporre la nostra definizione di “umanizzazione”, che descriviamo come il processo che consiste nel ricondurre al centro dell’intervento la persona, con la propria esperienza di malattia e i propri vissuti.

Questa definizione poggia su tre pilastri teorici: è processuale, impermanente e relazionale.

Processuale nel senso etimologico di “muoversi in avanti” (pro-cedere). Indichiamo così il senso dell’insieme di azioni da intraprendere per raggiungere l’obiettivo e mantenerlo nel tempo. Abbandoniamo l’idea che ci sia qualcosa di preciso e definito da fare una volta per tutti per essere operatori umanizzati.

Impermanente perché uno stato mentale è transitorio. Questo costrutto permette all’operatore di riferirsi ad un tratto più “maneggiabile”. La persona prova ad auto-osservarsi e modificare il proprio stato, notando come sia fisiologicamente mutevole, sgravandosi così da un senso di giudizio più o meno esplicito. Si tratta infatti di “ri-condurre al centro dell’intervento” perché assumiamo come dato di fatto (gli attacamentologi e i clinici lo hanno ampiamente dimostrato e spiegato) che non è possibile, e probabilmente nemmeno auspicabile, rimanere sintonizzati con l’altro per tutto il tempo della relazione, nemmeno nella relazione madre-bambino più sicura, figuriamoci fra anziano, operatore e minutaggio. In Regione Lombardia per ogni anziano inserito in una residenza sanitaria assistenziale (RSA), da normativa regionale, vengono prescritti mediamente 901 minuti di assistenza settimanali comprensivi di personale assistenziale, medico, infermieristico, animativo e fisioterapico. In questi anni i nuovi ingressi stanno evidenziando un carico sanitario sempre più grande facendo aumentare le ore di intervento di personale medico e infermieristico con una netta riduzione del personale assistenziale che si ritrova a svolgere le stesse mansioni (igiene quotidiana, assistenza all’alimentazione, idratazione…) con meno tempo a disposizione. 901 minuti in definitiva sono 15 ore. 15 ore di assistenza su un complessivo di 168 ore settimanali disponibili…meno del 9% di attenzione settimanale!

Relazionale perché considerare l’Altro come umano significa considerarne sensazioni, emozioni, pensieri in relazione e provare a sintonizzarsi con essi; altrimenti è solo una speculazione metacognitiva, magari corretta, ma non relazionale.

Questi tre pilastri dunque sorreggono la cornice entro cui muoversi, fatta di un continuo riassestarsi fra sintonizzazione emotiva, auto-osservazione e pratica.

Per questo pensiamo non esista consiglio valido per tutti gli operatori.

Anzi, pensiamo che questa modalità abbia insito il pericolo di scivolare verso la disumanizzazione del nostro intervento formativo, portandoci a non considerare le specificità della persona che ci ascolta, considerandolo un operatore e non una persona con il proprio vissuto lavorativo e personale.

Che cosa intendiamo con disumanizzazione

Anche questa definizione ha le stesse difficoltà della precedente, dunque c’è sembrata una buona idea partire dalla definizione di umanizzazione mettendo un segno meno davanti.

Quali sono quindi i segnali che indicano che l’assetto umanizzato ed umanizzante si è perso o si è indebolito? Anche qui abbiamo pensato con semplicità. Succede quando smettiamo di considerare una persona come portatrice di specifici stati mentali preferendo considerarla un oggetto che, come abbiamo provato a definire, non ne ha.

Quando l’operatore tende a riferirsi ad una persona come per esempio “un posto letto”, “un Alzheimer” o “un aggressivo”. Quando cioè la complessità che è stata descritta riccamente nella lavagna mobile si contrae in un unico termine: giudicante o affettuoso che sia, il problema è la contrazione di un’intera persona in una sola parola.

Talvolta può portare a trascuratezza, altre volte a cicli interpersonali disfunzionali, altre volte può essere innocuo. Ma è sempre una riduzione, questo è il problema.

Un ospite “da sistemare” o “tranquillo” mentre due operatori chiacchierano fra loro, è un esempio di cure magari tecnicamente impeccabili ma scivolate nella disumanizzazione: perché in quell’istante l’esperienza dell’anziano curato non è al centro dell’intervento degli operatori né viene considerato l’effetto del proprio agito.

In altri casi la rappresentazione mentale dell’Altro come “oggetto” è tacita e innesca cicli interpersonali problematici. Lo stato di timore e scoraggiamento implicito ma condiviso fra due operatori che entrano nella stanza di un ospite “violento” o “testardo” può costituire esso stesso il trigger per i comportamenti problematici dell’anziano verso gli operatori.

Cosa vuol dire “curare”?

Se è ora chiaro cosa intendiamo per “umanizzazione” e “disumanizzazione”, è altrettanto chiaro cosa si intende per “cura” e “curare”? Sono dieci anni che lavoriamo nelle strutture per anziani ma già notiamo che la popolazione geriatrica sta cambiando. Le famiglie, probabilmente per motivi legati al momento di crisi non del tutto risolto, all’elevato costo delle strutture e alla difficoltà di delegare a terzi le cure, mantengono a casa sempre di più i propri cari, accedendo alle RSA solo quando le persone sono molto anziane o molto compromesse.

In un periodo pandemico come quello che stiamo attraversando, lo stigma sociale verso forme di istituzionalizzazione vissute come “delega alla cura”, spesso con senso di colpa da parte del caregiver, viene amplificato ritenendo i luoghi comunitari di assistenza come ospedali o case di cura, meno sicuri e più a rischio contagio. Questa convinzione è errata e i dati dell’Istituto Superiore di Sanità sul monitoraggio del contagio dimostrano come le misure ad oggi adottate nei luoghi di cura siano efficaci nel contenere la diffusione della malattia.

Quadri complessi di patologie, disturbi comportamentali su base neurologica o persone con disturbi psichiatrici residuali: davanti a quadri di pazienti ad alta intensità assistenziale e disturbi per lo più cronici o degenerativi, cosa vuol dire “curare”? Eliminare la patologia che li affligge? Allietarli per rendere meno pesante questo ultimo tratto di vita?

Chi cura non evita la morte e spesso non può nemmeno prevenirla. Aiuta la persona a vivere la più alta qualità di vita accettabile e, quando non è più possibile, la più alta qualità di morte. Perché nella cronicità, l’appropriatezza della cura sta nel migliorare le condizioni di vita, non semplicemente la salute. Questo si ottiene unicamente migliorando le relazioni che intercorrono tra operatore e paziente. Così nasce la distinzione tra “cura” e “prendersi cura”: quest’ultimo assume la consapevolezza dell’impossibilità di guarire, così da riuscire ad attendere, ad assistere senza intervenire, misurando l’intervento secondo il desiderio e non esclusivamente secondo il bisogno, spesso oggi interpretato più dal familiare che non dall’anziano stesso. Prendersi cura è quindi, nella nostra idea, accompagnare e condividere. Atteggiamenti che anche nell’esperienza portata dagli operatori, rendono il lavoro più facile, meno stressante e meno rischioso.

Come un operatore smette di essere umano?

Avevamo ora bisogno di una spiegazione che aiutasse gli operatori a farsi un’idea di come un operatore smetta di essere umano.

Come descritto sopra, il focus dell’intervento è passato dall’essere sulle caratteristiche della cura che l’operatore pratica, alle caratteristiche delle rappresentazioni mentali che l’operatore ha del paziente residente. Come auspicabile e prevedibile è stato frequente trovare una buona accoglienza su questo approccio e spesso abbiamo trovato personale molto centrato sui bisogni degli ospiti.

Utilizzando la teoria dei sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, 1994) abbiamo ipotizzato che il sistema di accudimento attivato da quello dell’attaccamento nell’anziano aiuti questo processo. Tipicamente però la sollecita attenzione e disponibilità alla sintonizzazione dell’accudimento scompare quando la relazione diventa agonista, lasciando il posto a rapide (e più adattive in senso di lotta per le risorse o la sopravvivenza) letture metacognitive ostili dell’altro: è violento, è testardo… I pazienti considerati difficili sono quelli descritti solo come arrabbiati o aggressivi, che trovano operatori che entrano nella loro stanza con questa rappresentazione mentale di sé-con-l’altro.

L’operatore ha una rappresentazione di sé-con-l’altro basata sulla propria impotenza o aggressività, reagendo al proprio stato interno ancor prima dell’effettiva azione dell’ospite e così talvolta causandola, come una profezia che si auto-avvera. In questo caso quindi al centro dell’intervento dell’operatore sarà la rappresentazione dell’altro come pericoloso e non la sua peculiare esperienza di malattia e sofferenza. Malattia, dolore, morte sono fenomeni ai quali non ci si abitua e che da esseri umani motivati alla sopravvivenza, manteniamo a distanza. Costituiscono però il milieu entro il quale un professionista sanitario opera e che può condurre al burnout, se non supervisionato, abbattendo i livelli di empatia e metacognizione verso l’ospite. Pensiamo però non sia questa la sede per occuparsi di una situazione patologica, preferiamo invece concentrarci sull’andamento che abbiamo notato negli operatori in salute.

L’altro ambito denso di agonismo sono le relazioni fra operatori e parenti dell’anziano. Nei parenti è frequente il senso di colpa, e l’impotenza genera spesso aggressività verso i professionisti che, sentendosi attaccati, generano cicli interpersonali agonisti. In entrambe le parti possono nascere credenze patogene sull’incompetenza ed inadeguatezza dell’altro: l’operatore pensa che il familiare non capisca nulla di anziani e il parente che l’operatore non sappia nulla del proprio familiare.

Affrontando questa comune situazione abbiamo trovato utile porre chiaramente agli operatori questa domanda: “secondo voi, come sta il familiare?”.

Le risposte solitamente hanno permesso di far recuperare ai partecipanti le riflessioni iniziali sulle caratteristiche tipiche dell’operatore umanizzato dotato di pensieri, emozioni e sensazioni e di riprendere la consapevolezza di come lo siano anche i parenti. Recuperare l’assetto empatico ha permesso agli operatori di accedere nuovamente alla propria esperienza di essere familiari di qualcuno che ha avuto bisogno di cure. È stato interessante notare che l’atto di pensare ai familiari come “persone” abbia istantaneamente abbassato il clima di aggressività e impotenza in aula, permettendo una diversa visione del problema, (ri)costruendo una rappresentazione del familiare come persona in difficoltà e non come minaccia.

L’esito è stato di restituire all’operatore sia potere di gestione sia permettergli di rassicurarsi, per tornare libero  di  sintonizzarsi con l’esperienza del parente.

Pensiamo inoltre che sia stato utile spiegare ai corsisti come questo accada per un fisiologico meccanismo di adattamento ad un ambiente percepito come pericoloso o troppo difficile per essere affrontato (distress), da entrambe le parti.

A questo punto invitiamo a una riflessione individuale sulle peculiarità dello stress lavoro correlato nel sociosanitario e considerarlo una probabile (la nostra esperienza ce ne dà certezza, in realtà) fonte di disumanizzazione delle cure.

Aversi in mente

Infine, la domanda che ci siamo posti è stata: che cosa vogliamo che l’operatore si porti a casa da questo percorso? Quali strumenti pratici vogliamo implementi nel corso del tempo?

Per come abbiamo affrontato il problema è evidente che qualsiasi informazione hard sarebbe potuta bastare allo scopo, senza una dimensione pratica.

Il processo di umanizzazione e disumanizzazione è basato su un funzionamento cognitivo influenzato da attivazioni emotive. È su queste che l’operatore deve poter avere un controllo, dunque abbiamo pensato che fosse la pratica esperienziale a poter fornire l’esempio su cui modellare gli strumenti per la pratica quotidiana dell’operatore.

Aversi in mente significa percepire sé e gli altri, utenti e colleghi, come attori di un insieme relazionale e non solo come portatori di caratteristiche fisse ed immutabili alla quali reagire nell’unico modo che si conosce, sia esso positivo o negativo.

Siamo convinti che la capacità osservativa e di curiosità verso i fenomeni relazionali e psicologici in cui si è immersi sia una caratteristica di tutti gli esseri umani (Fisher, 2017). La tecnica è quella di provare a sospendere il giudizio, e osservarsi, anche nell’atto di giudicare.

In questo senso gli esercizi di mindfulness si sono dimostrati particolarmente utili. Partendo da piccole osservazioni sul corpo, osservando il proprio respiro o la sensazione dei propri piedi a contatto con il pavimento si è arrivati alla possibilità di osservare anche i propri pensieri. Ad esempio è stato più volte apprezzato l’esercizio di guardarsi fissi negli occhi a coppie ed al contempo osservarsi imbarazzati, ridere, annoiati o infastiditi.

Abbiamo anche notato come mediamente le persone ritenevano impossibile passare 5 minuti di orologio osservando il proprio respiro. Senza che se ne accorgessero lo hanno fatto per 10 o 12 minuti senza problemi, con un senso di contentezza e incredulità una volta scoperto.

Questo tipo di esercizi mindfulness-based hanno fornito la pratica esperienziale per aversi in mente: non essere in balia di pensieri, emozioni proprie ed altrui o di utenti più o meno simpatici o aggressivi.

Come sto ora? Con chi sono i miei pensieri e le mie emozioni in questo istante? Sono le domande che speriamo abbiano acquisito senso e funzione di strumento per gli operatori, aiutandoli nel faticoso, continuo e soddisfacente recupero dell’assetto di cooperazione e cura necessario per fornire cure umanizzate.

I limiti e il non cambiamento

Le difficoltà che abbiamo incontrato in questo percorso formativo sono state principalmente relazionali con gli operatori sanitari che non condividevano il nostro modello.

La contrapposizione è stata con la valutazione dell’appropriatezza tecnica come unica chiave di valutazione della professionalità, mettendo in discussione la possibilità di un modello basato sulla relazione verso l’altro.

La nostra fatica è stata sospendere il nostro giudizio (automaticamente ci sembra impossibile che un operatore non consideri il fattore umano, proprio mentre lavora rivolto a questo obiettivo).

E’ possibile che un operatore non abbia mai avuto nella propria formazione l’occasione di riflettere ed esplorare la dimensione relazionale del proprio lavoro. La sensazione è che non ci siano momenti di formazione specifica nei corsi ASA ed OSS, né che nel corso di Laurea di Scienze Infermieristiche vi siano esami di Psicologia, se non Clinica orientata alla nosografia. Probabilmente vi è più attenzione nei corsi di Laurea di Medicina e Chirurgia, ma non con un ruolo centrale nella formazione della prassi medica.

Al nostro fastidio abbiamo dovuto ricostruire l’oppositività in termini di essere una difficoltà emotiva, notando il ciclo interpersonale che talvolta può sfociare in palese aggressività, come testimoniano i recenti fatti di cronaca in tema di aggressioni in ambito sanitario. L’atteggiamento oppositivo, o più semplicemente di impermeabilità a un nuovo modello interpretativo, nell’operatore compare nelle descrizioni delle situazioni “impossibili”: noi formatori ci sentivamo nel ciclo interpersonale disfunzionale che veniva messo in atto col paziente e con i familiari: rabbia, frustrazione, chiusura.

La sfida per noi ė stata continuare ad incarnare il modello che proponevamo, cercando di diventare a nostra volta “formatori umanizzati”, trasformando prima nella nostra mente l’operatore chiuso/oppositivo in una persona che non vuole mollare ciò che gli ha permesso fino a lì di lavorare in un ambiente emotivamente duro, per provare a portarlo verso l’idea che il lavoro cooperativo è il miglior assetto per garantirsi la sopravvivenza in un ambiente dove è frequente sentirla minacciata.

 

Ridurre il rumore e aumentare l’igiene decisionale: la nuova missione di Daniel Kahneman – Recensione del libro “Rumore”

Dove c’è giudizio c’è anche rumore, ovvero una variabilità sistematica di cui spesso non si tiene conto nelle proprie valutazioni e azioni.

 

In circostanze complesse e di fronte a domande difficili, prendere una decisione non è una scelta facile. Quando questo capita, l’essere umano per praticità e utilità non segue sempre criteri oggettivi o precise regole di ragionamento ma talvolta ricorre a delle scorciatoie di giudizio per semplificare la scelta. Tuttavia, nella maggior parte dei casi queste scorciatoie conducono ad errori di giudizio sistematici e ce ne accorgiamo quando per esempio assistiamo a due medici che danno due diverse diagnosi allo stesso paziente sulla base degli stessi esami, o quando ci viene chiesto di stimare o prevedere la durata temporale per il completamento di un progetto e diamo per esso una stima molto più bassa rispetto il tempo realmente necessario.

Ne consegue che, ovunque si eserciti il giudizio umano, che sia uno studio medico, un’aula di tribunale o all’interno di una compagnia assicurativa o azienda, non c’è immunità dall’errore di giudizio e questo per colpa del rumore.

Non ci troviamo impreparati di fronte al concetto di bias psicologico o euristica nei processi decisionali ma il nuovo libro del premio Nobel Daniel Kahneman va ancora più a fondo in un fenomeno onnipresente, finora largamente ignorato, che influenza le decisioni, le previsioni e le valutazioni umane: il rumore.

Nel libro Rumore, edito da UTET, Daniel Kahneman assieme a Olivier Sibony, and Cass R. Sunstein sostiene che dove c’è giudizio c’è anche rumore, ovvero una variabilità sistematica – talvolta prevedibile – nei giudizi che dovrebbero portare alla stessa conclusione e che, nonostante il rumore possa essere identificato in tutti i contesti decisionali, sia le persone che le organizzazioni spesso ne ignorano la presenza e la portata nelle loro valutazioni e azioni.

In medicina, nelle previsioni economiche, nelle scienze forensi, nelle valutazioni delle prestazioni, nella selezione del personale e nella salute pubblica, spesso ci si trova davanti a giudizi complessi in cui ci si aspettano risposte e conclusioni accurate e affidabili ma è proprio in questi giudizi che il rumore e i bias psicologici hanno matematicamente un ruolo e un’influenza equivalente.

Il libro riporta diverse rassegne e resoconti dell’evidente presenza e portata del rumore in questi contesti, in cui ci sono criteri vaghi e complessi o maggiormente legati alla variabilità delle decisioni sia tra diversi professionisti ed operatori che all’interno dello stesso decisore.

In merito a questo, basti pensare che è molto più probabile che i medici prescrivano al paziente uno screening per la prevenzione del cancro al mattino presto anziché nel tardo pomeriggio.

Una possibile spiegazione di questo fenomeno risiede nel fatto che inevitabilmente i medici accumulano stanchezza psicofisica e ritardo nelle visite giornaliere ambulatoriali e di conseguenza questo “rumore occasionale” nella decisione medica diagnostica fa sì che i medici saltino il colloquio sulle misure di screening e prevenzione per le ultime visite, sebbene previsti da linee guida ben definite.

Quando si parla di decisioni, l’avere una diversità di punti di vista e giudizi all’interno di un gruppo è solitamente un ottimo fattore per trovare la soluzione migliore e più utile rispetto ad un gruppo dove al contrario tutte le opinioni dei membri sono omogenee tra loro; tuttavia è necessario bilanciare questa necessità di mantenere una diversità nel gruppo con quella di raggiungere una decisione finale che sia poco “rumorosa”, i cui effetti negativi siano ridotti e meno impattanti su terzi.

La soluzione per gli autori esiste ed è perseguibile attraverso l’“igiene decisionale”, ovvero tramite una serie di procedure e strategie che mirano ad eliminare i bias psicologici e prevenire il rumore prima che questi possano verificarsi migliorando così la qualità dei giudizi.

Le linee guida sono molto utili nella riduzione del rumore sia interpersonale che occasionale in quanto scompongono una decisione complessa in un certo numero di sottogiudizi in merito a dimensioni predefinite, così come la presenza di osservatori all’interno delle aule dove i gruppi di decisori si riuniscono; questi infatti sono in grado di individuare in tempo reale e contestualmente i segnali indicanti la presenza di uno o più bias che stanno incidendo sulle decisioni o sulle indicazioni dei membro del gruppo.

Nel libro l’analisi del rumore si sviluppa in tre macroaree. La prima è più concentrata sulla definizione di “rumore” a partire dalle sue differenze con i bias psicologici e sulla sua presenza all’interno dei contesti pubblici e privati. La seconda tratta la misurazione dell’accuratezza decisionale e dei vari tipi di errori – interpersonali ed occasionali – che possono verificarsi all’interno dei vari contesti decisionali. L’ultima parte invece affronta l’igiene decisionale, ovvero la descrizione delle possibili strategie e protocolli volti a migliorare i giudizi, ridurre il rumore ed evitare di incappare in quegli errori che renderebbero il giudizio meno affidabile.

Ma non sveliamo di più.

Rumore cambierà il vostro modo di pensare e riflettere sull’affidabilità delle decisioni che si prendono e prendiamo tutti i giorni.

Il fenomeno degli “sugar daddies”

Con il termine “sugar daddies” ci si riferisce agli uomini che scambiano denaro o regali in cambio di favori sessuali con ragazze significativamente più giovani di loro. Tale scambio può avvenire all’interno di una relazione stabile o in rapporti più occasionali. 

 

Il fenomeno degli sugar daddies: come è percepito il ruolo della donna

All’interno della letteratura si rinvengono due percezioni contrastanti delle giovani donne che iniziano a frequentare uomini più grandi in cambio di denaro o regali (Zwane, 2016): il minimo comune denominatore di entrambe le percezioni, però, riguarda lo squilibrio di status che caratterizza tali interazioni (Stoebenau et al., 2016). In media, gli uomini che scambiano denaro in cambio di favori sessuali, sono in una posizione economica privilegiata rispetto alle ragazze con cui intrattengono tale relazione (Bandali, 2011). Una percezione vede le ragazze come vittime all’interno dell’interazione con uomini più grandi (Shefer & Strebel, 2012). Di contro, la percezione alternativa vede le donne come parti attive, che influenzano consapevolmente questi rapporti e negoziano i termini e le condizioni a loro vantaggio (Luke & Kurz, 2002).

Studi precedenti suggeriscono che la posizione delle giovani donne sia in realtà una combinazione di queste due posizioni contrastanti (Luke & Kurz, 2002). La decisione di iniziare una relazione del genere può essere dovuta a varie ragioni, che differiscono a seconda del contesto. Il denaro è considerato la motivazione principale, tuttavia, può assumere significati diversi a seconda della natura specifica del bisogno di ottenere denaro o di ottenere altri benefici (Kaufman & Stavrou, 2004). Alcune giovani ragazze possono essere spinte dalla necessità di soddisfare i loro bisogni personali o di sostenere le loro famiglie (Smith, 2002). Altre donne possono richiedere denaro per oggetti che non sono essenziali, ma che permettono loro di vivere secondo lo stile di vita desiderato (Hunter, 2002).

A lato di queste considerazioni, le ragazze potrebbero preferire le relazioni con uomini più grandi, per via della loro esperienza o per mera curiosità (Luke & Kurz, 2002). Difatti, uscire con un uomo più grande è considerato, da alcune adolescenti, un passo importante all’interno del processo di crescita (Kaufman & Stavrou, 2004).

Le norme sociali e i limiti degli interventi

In questo fenomeno, le norme sociali giocano un ruolo importante: la società tende a lodare gli uomini che possiedono più partner sessuali (Shefer & Strebel, 2012) o, ancora, è più diffusa e accettata l’idea che l’uomo debba provvedere a una donna. Ciò porterebbe molte ragazze ad aspettarsi un sostegno finanziario dagli uomini che frequentano, i quali, a loro volta, accettano di adempiere a questo ruolo.

I diversi interventi che mirano a ridurre la frequenza dei rapporti intergenerazionali, però, fomentano proprio tali valori patriarcali, in quanto mirano a modificare il comportamento delle ragazze, portandole ad astenersi dalle relazioni con uomini più grandi (Harling et al., 2014). L’obiettivo di fondo è dunque quello di creare un tabù che mostri alle ragazze come il loro comportamento non sia socialmente accettabile (Harling et al., 2014). Ciò che manca, nella maggior parte degli interventi, è la messa in discussione dei valori di fondo che portano entrambi i partner a cercare una relazione di questo tipo (Shefer & Strebel, 2012) e l’analisi delle motivazioni che spingono ciascuno dei due partner ad avere tale relazione.

Una prospettiva più ampia: il fenomeno degli sugar daddies visto dalle ragazze

Lo scopo di un recente studio è stato quello di gettare nuova luce sul fenomeno degli Sugar Daddies e per questo promuovere una prospettiva più complessa del problema sociale. Sono state intervistate 32 ragazze frequentanti due scuole superiori in Sudafrica, luogo dove recentemente vi è stata una crescente preoccupazione pubblica rispetto al fenomeno degli “sugar daddies”.

Sono stati così raccolti sia dati qualitativi, attraverso le interviste, che dati di natura pù quantitativa, attraverso strumenti psicometrici indaganti la salute mentale delle ragazze. Attraverso le interviste è stata analizzata la percezione delle ragazze sul fenomeno degli sugar daddies, attraverso racconti personali o racconti di esperienze occorse ad altre ragazze, e le ragioni che potrebbero spingere le più giovani a iniziare la relazione con un uomo più grande.

Le analisi quantitative avevano invece lo scopo di misurare le difficoltà delle ragazze che hanno un impatto sulla loro salute mentale. Questo ha permesso di comprendere meglio il contesto di violenza strutturale in cui queste ragazze vivono. L’analisi dei dati quantitativi ha evidenziato come più della metà delle partecipanti intervistate spesso sperimentano sintomi depressivi, di differente intensità. Inoltre, una partecipante su cinque ha soddisfatto i criteri per il Disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Le difficoltà emerse includono l’alto tasso di gravidanza adolescenziale, la paura di gravidanze indesiderate, le difficoltà accademiche e le esperienze di violenza multipla. Le partecipanti infatti riferiscono di aver vissuto esperienze di violenza emotiva, come bullismo; violenza fisica a scuola e a casa; molestie sessuali, soprattutto dai ragazzi più grandi, e abusi sessuali a scuola e a casa. Questi elementi forniscono un quadro più ampio del contesto nel quale il fenomeno degli Sugar Daddies si palesa.

Cosa ci dicono i dati: il ruolo del contesto sociale

Dall’analisi delle interviste emerge come, secondo le più giovani, in linea con quanto rinvenuto in letteratura (Zwane, 2016), il ruolo delle ragazze nelle relazioni con gli uomini più anziani non può essere ridotto né a quello di una vittima completamente vulnerabile, né a quello di donna che ha il pieno controllo sulla relazione. In generale infatti, secondo una delle idee più diffuse, la decisione di iniziare una relazione con uomini più anziani fa parte di un processo di sviluppo sessuale delle ragazze, in cui le relazioni con gli uomini più anziani sono il passo successivo all’aver frequentato i ragazzi. Di contro, è diffusa anche l’idea che il comportamento e le aspettative dei coetanei, così come la paura del giudizio sociale, sono vissuti dalle ragazze come i principali fattori che le spingono a intrattenere relazioni con uomini più anziani. Raggiungere uno status sociale più elevato le farebbe sentire speciali, dunque non più bisognose dell’approvazione dei pari.

Le ragazze intervistate tuttavia riconoscono l’eterogeneità delle interazioni, sostenendo che il fenomeno degli sugar daddies potrebbe non essere spiegato da un’unica semplice narrazione. Ciò che dovrebbe essere importante considerare è la vulnerabilità delle ragazze all’interno di uno specifico contesto che modella la loro vita quotidiana e la loro posizione sociale. La situazione delle ragazze in comunità svantaggiate, quale quella sudafricana, porta a sperimentare disuguaglianza, povertà, disoccupazione e alti livelli di disparità di genere.

Anche l’assenza di una precisa idea da parte delle ragazze sul ruolo della donna nel fenomeno, le loro diverse opinioni e i comportamenti in relazione allo stesso, riflettono il modo in cui le giovani donne si muovono incerte nel trovare la loro posizione all’interno di strutture sociali spesso caratterizzate da ineguaglianze e gap di genere.

Il fenomeno degli sugar daddies fa parte delle esperienze quotidiane di violenza strutturale vissute dalle ragazze (Galtung, 1969) e della disuguaglianza di genere, e può essere considerato come il sintomo di una più ampia struttura sociale e delle norme che la caratterizzano. I partecipanti a questo studio infatti vivono in una comunità sistematicamente svantaggiata e credono che i rapporti sessuali con uomini più anziani possano essere una via d’uscita dai fattori di stress socio-economici che sperimentano (Luke & Kurz, 2002; Shefer & Strebel, 2012).

Concludendo, i risultati preliminari ottenuti in questo studio aprono la strada ad ulteriori approfondimenti, affinché si possa mettere un punto a tale fenomeno e possano essere strutturati interventi che, prendendo in esame aspetti psicologici, sociali e culturali, mirino a migliorare la salute mentale, nonché la qualità di vita delle giovani donne.

 

Superschiappe o supereroi? – L’illusione dietro l’attacco di panico

Superschiappe o supereroi? L’illusione dietro l’attacco di panico, e il suo grande potere nel trarci in inganno e farci sentire in pericolo, mentre in realtà siamo molto forti.

 

Gli attacchi di panico (AP) sono tra gli eventi più spaventanti e comuni che possono accadere nella vita dell’uomo. La maggior parte della popolazione mondiale ha sperimentato almeno un attacco di panico, e molti anche più di uno. È un evento esplosivo che ci catapulta al di là del controllo normale del nostro corpo e ci getta nella paura più totale. Ognuno di noi può sperimentare sintomi diversi: chi avverte tachicardia, sudorazione, tremore; chi pressione sul petto, senso di leggerezza alla testa, come non si fosse più nel proprio corpo, mal di pancia o di stomaco, paura di morire o di impazzire. In tutti i casi si avvertono dei sintomi nuovi, mai sperimentati, prima fastidiosi e poi che ci terrorizzano poiché non abbiamo idea di cosa ci stia succedendo.

Chiunque, sottoposto ad una serie di sintomi simili spuntati fuori dal nulla, ne sarebbe terrorizzato e soprattutto farebbe di tutto per evitare di provarli in seguito.

A poco servono le rassicurazioni del medico del pronto soccorso, al quale magari ci siamo rivolti in seguito ad una violenta tachicardia: il fatto che non ci sia spiegazione medica dietro ciò che ci ha terrorizzato, aumenta la nostra paura, non la diminuisce. Ci sentiamo soli e avvolti dal dubbio.

“È una cosa di testa, devi stare più tranquillo, sei troppo stressato”, queste in genere le parole che accompagnano la nostra dimissione e che ci confondono ancora di più.

Ognuno di noi si sente intimamente e inspiegabilmente rassicurato nel momento in cui un medico scopre l’origine di un sintomo: mentre quando quell’origine resta misteriosa siamo avvolti dalla confusione.

L’attivazione fisiologica che accompagna gli attacchi di panico

Per spiegare cosa succede durante un attacco di panico, è necessario fare un piccolo passo indietro e spiegare come la nostra mente è solita dare un’interpretazione a tutto ciò che vediamo. Senza neanche accorgercene, e moltissime volte nell’arco della stessa giornata, effettuiamo delle valutazioni, spesso di pochissimo conto, sulla realtà che ci circonda. Un po’ come se appiccicassimo delle etichette a tutto ciò che osserviamo, e che per noi ha un qualche significato.

Il significato che noi attribuiamo a ciò che accade, determina il modo in cui reagiamo: come ci sentiamo e come ci comportiamo di conseguenza. Ad esempio se incontriamo un cane mentre camminiamo per strada, e siamo dei grandi amanti dei cani saremo propensi a provare un’emozione positiva e magari anche fermarci per accarezzarlo. Al contrario, se abbiamo storicamente paura dei cani, magari in seguito ad un incidente quando eravamo piccoli, saremo portati ad etichettare l’evento come pauroso e ad allontanarci velocemente.

Senza accorgercene, compiamo decine di valutazioni simili nella nostra vita quotidiana.

Un’etichetta di “pericolo” attiverà un allarme, un po’ come se venisse suonata una sirena dei pompieri nella nostra mente, che mette in atto tutta una serie di reazioni.

Quando ci troviamo di fronte ad un evento che valutiamo come minaccioso, dentro di noi si attivano degli allarmi molto molto antichi, che l’evoluzione ha favorito nei millenni allo scopo di proteggerci. Fin dall’uomo preistorico sono due i comportamenti che gli esseri umani mettono in atto, di fronte ad una minaccia: la fuga o l’attacco. La scelta fra l’una o l’altro dipende da cosa c’è in ballo. Ad esempio se la minaccia è palesemente troppo pericolosa da affrontare, se siamo soli di fronte ad essa, oppure se abbiamo dei piccoli da difendere o una nostra proprietà a noi molto cara.

Sono meccanismi ormai automatici, che attivano nella nostra mente, e nel nostro corpo di conseguenza tutta una catena di eventi che li rendono possibili.

Per far sì che possiamo attaccare o fuggire, il nostro corpo deve essere potenziato al massimo in pochissimo tempo: immaginiamo di dover iniziare una corsa velocissima per la sopravvivenza o di dover attaccare violentemente una minaccia.

Quando questo allarme vecchio di milioni di anni scatta, nel nostro cervello accadono una serie di cose predefinite e difficilmente modificabili: essendo molto antico ed avendo resistito per tanto tempo, questo meccanismo è ancora molto valido per consentirci questi due comportamenti.

È necessario avere a disposizione molto sangue in più, che porterà con sé molto più ossigeno prodotto da un’attività maggiore dei polmoni; è necessario che il sangue raggiunga le estremità velocemente per scattare, che l’ossigeno e il glucosio vengano dirottati verso il cervello che potrà così coordinare il corpo al massimo dell’efficienza; è necessario che vengano interrotte le attività corporee che consumano molta energia come quelle del sistema gastrointestinale, e che l’allerta sia massima. Questo è solo un esempio di tutta la catena di eventi che si rendono necessari per far sì che si attacchi un nemico o si fugga da esso.

Ma oggi non siamo più nella preistoria, per nostra fortuna.

D’altra parte a questo meccanismo di allerta, estremamente efficiente, dobbiamo la vita da milioni di anni, e nell’ottica evolutiva è molto difficile che scompaia nel nulla solo perché oggi giorno non abbiamo più davanti mostri spaventosi che ci inseguono.

Il meccanismo di allerta è sempre molto efficiente, e pronto a scattare nel momento in cui valutiamo una situazione come pericolosa per noi: una minaccia percepita.

All’inizio abbiamo detto che decine di volte al giorno, inconsapevolmente appiccichiamo delle etichette a ciò che ci succede e che questo determina le emozioni che proviamo ed il nostro comportamento. La nostra mente è perfettamente in grado di generare situazioni di allarme e mettercele di fronte agli occhi: sappiamo bene quanto sia facile entrare in ansia immaginando delle conseguenze catastrofiche per una situazione che temiamo. Una volta che parte l’allarme, si generano gli eventi che abbiamo descritto sopra. Questi eventi che avvengono nel nostro corpo, saranno però nuovamente oggetto di valutazione, da parte della nostra mente che è già in preda all’ansia per l’immagine catastrofica che ha di fronte.

Ed ecco che percepiremo tachicardia, senso di pesantezza al petto, difficoltà a respirare, “testa leggera”, formicolio alle estremità, mal di stomaco e pancia con episodi di vomito e/o diarrea, senso di svenimento e soffocamento. Che altro potremo pensare se non di stare per morire?

Ma questa è solo un’interpretazione erronea. Tutti i sintomi che stiamo avvertendo sono perfettamente spiegati dall’enorme dispiegamento di forze che il nostro fisico mette in atto per affrontare quella che interpreta come minaccia.

Il cuore batte molto più velocemente per permettere un maggiore afflusso di sangue sotto forma di tachicardia, i polmoni si dilatano di più e più spesso all’interno della gabbia toracica per produrre più ossigeno dandoci l’impressione di costrizione al petto, il sangue affluirà in massa alle estremità facendoci percepire un marcato formicolio (avete presente quando ci si addormenta un piede e poi si risveglia?), una grande quantità di ossigeno affluirà al cervello dandoci l’impressione di respirare in alta montagna, le attività di stomaco e intestino verranno bloccate per risparmiare energia preziosa provocandoci crampi e rigetto, la nostra pelle avrà bisogno di carpire dall’aria tutta l’umidità possibile per idratare al massimo il corpo, provocando il sollevamento dei peli e la cosiddetta “pelle d’oca”.

Ciò che la nostra mente interpreta come pericoloso di morte immediato, in realtà è la trasformazione del nostro fisico, per un tempo limitato, da uomo a superuomo con delle capacità potenziate disponibili per breve tempo, che ci faciliteranno proprio quelle reazioni di attacco e fuga di cui parlavamo.

Quando sperimentiamo per la prima volta le attivazioni suddette, senza essere a conoscenza di questa capacità millenaria del nostro corpo, diamo di esse un’interpretazione catastrofica: il pericolo di morte immediato, quando in realtà stiamo sperimentando una sorta di superpotere momentaneo.

Perché gli attacchi di panico ci spaventano?

Che cosa succede se la minaccia non si palesa? Il nostro fisico non è in grado di sostenere un livello di attivazione così potente, quindi avviene una sorta di “crollo” ad opera del sistema nervoso autonomo, che bilancia il sistema di allarme. È come se ci rilassassimo di botto, un po’ come accade in seguito ad un orgasmo. Ovviamente chi ha sperimentato un attacco di panico, difficilmente utilizzerà termini così piacevoli.

Ma quindi, se è tutto un fraintendimento, se durante un attacco di panico da uomini ci trasformiamo in superuomini, perchè ci terrorizza così tanto e soprattutto perché dopo il primo in molti casi dedichiamo ogni nostra energia a far sì che non si ripeta mai più, modificando la nostra vita e quella di chi ci sta attorno e privandoci di un numero di esperienze sempre maggiore?

Una soluzione efficace e vecchia di millenni diventa essa stessa il problema. Ma perché?

Innanzitutto perché non lo sappiamo: pochissimi sanno cosa accade al nostro cervello e al nostro corpo durante una crisi d’ansia, e siamo abituati a considerare l’ansia come una malattia, come qualcosa di cattivo e limitante, da eliminare. La società ci dà una grande mano in questo.

Ma l’ansia è un’emozione fondamentale per la sopravvivenza: senza di essa non saremo in grado di valutare i pericoli ed agire di conseguenza.

Allora qual è il problema?

Il problema è cosa inizialmente fa scattare l’allarme: quella minaccia percepita di cui abbiamo parlato inizialmente. Ognuno di noi ha un proprio sistema di valori, di credenze, di cose importanti che vale solo per noi stessi e che spesso è molto diverso da quello degli altri. Questo fa sì che ognuno di noi ha degli scopi, delle cose importantissime per le quali vale la pena lottare ad ogni costo; ma anche degli antiscopi, l’esatto opposto, cose dalle quali fuggire a gambe levate. Scopi e antiscopi si esplicitano nella vita quotidiana nelle situazioni più varie, il più delle volte senza che ce ne rendiamo conto. Quella minaccia originale che ha dato il via alla cascata di eventi dell’AP, sarà quindi il frutto di una valutazione di pericolo per noi, che lo sia o meno.

È proprio sulla minaccia percepita che abbiamo “appiccicato” inconsapevolmente a ciò che è successo in un dato momento, che dovremo concentrarci, e non sull’attacco di panico, la cui unica colpa è quella di averci trasformato in supereroi momentanei.

 

The Boston Process Approach: una tecnica di osservazione qualitativa

Il Boston Process Approach è descrivibile come “flessibile” perché si tratta di una tecnica che si può applicare ad uno svariato numero di test, mirando a non comprometterne la validità e specificità.

 

Il Boston Process Approach mira a valutare qualitativamente il comportamento del paziente all’interno della valutazione neuropsicologica, basandosi sul paradigma concettuale della neuropsicologia sperimentale e delle neuroscienze cognitive. Il suo sviluppo ha permesso di conciliare la parte descrittiva con quella quantitativa, migliorando la validità clinica di molti strumenti testistici di nuova generazione. Il concetto fondamentale dell’approccio consiste proprio in questo: andare oltre il semplice punteggio al test e considerare invece il “processo” che ha portato il paziente ad ottenerlo (Milberg et al., 2009).

Breve storia descrittiva del Boston Process Approach

L’approccio è stato sviluppato dalla Dott.ssa Kaplan nel 1983 tramite i primi studi su pazienti con aprassia, in seguito alla constatazione che la qualità delle loro risposte differiva significativamente in base alla localizzazione della lesione cerebrale presente. Una strategia di osservazione simile è successivamente stata applicata alle scale Wechsler, soprattutto per quanto riguarda la WAIS-R NI e la WMS nelle quali, sebbene non vengano più utilizzate, è visibile per la prima volta l’influenza di questo approccio.

L’approccio segue due principi fondamentali (Russell, 1981):

  • La differenza tra le funzioni cognitive fluide, ovvero l’abilità intellettiva; cristallizzate, ovvero le conoscenze apprese; e complesse, nel momento in cui vengono messe in atto entrambe per svolgere un compito (Horn e Cattell, 1967).
  • La natura multi-componenziale delle funzioni cognitive (Neisser, 2014), il cui utilizzo può variare da individuo a individuo in base a quali processi dei vari componenti vengono messi in atto, suddividendosi per stile (Hunt, 1983), livello generale di intelletto (Hunt, 1983, Sternberg, 1980) e livello di abilità (Neisser et al., 2014).

Il gruppo di Boston ha dunque combinato una serie di test quantitativi con osservazioni sistematiche delle strategie di problem-solving dei pazienti, ed il risultante metodo permette sia un assessment quantitativo della performance che una valutazione qualitativa dello stile di processamento di informazioni (Milberg et al., 2009).

Boston Process Approach: Tecniche flessibili

L’approccio è meglio descrivibile come “flessibile” perché si tratta di una tecnica che si può applicare ad uno svariato numero di test, mirando a non comprometterne la validità e specificità. Per questo, ciò che viene cambiato non è la procedura stessa del test quanto le tecniche di raccolta dati e analisi dei punteggi.

Una prima tecnica, utilizzata originariamente da Kaplan ed il suo gruppo, consiste nel “spingere ai limiti” i pazienti, ovvero:

  • Continuare con il test anche in seguito a fallimento (es. anche se commette molti errori, non interrompere il test ma lasciarlo continuare);
  • Cercare di ottenere una risposta anche nel caso il paziente dica “non lo so” o risponda a monosillabi, utilizzando anche domande a scelta multipla che aumentano la possibilità che il paziente risponda (questo fu applicato ai subtest Informazioni e Comprensione della WAIS-R NI);
  • Ripetere spesso le domande del test ed incoraggiarlo a provarci nuovamente in caso di fallimento.

Questo metodo è utile in caso di pazienti la cui lesione o disturbo provocano fluttuazione nella performance o inibizione nelle risposte. Nel primo caso, il paziente potrebbe rispondere bene alle domande più difficili e fallire in quelle facili per via di fluttuazione attentiva oppure di utilizzo di strategie non più efficaci (Milberg e Blumstein, 1981). Nel secondo caso, il paziente potrebbe essere in grado di eseguire il compito, sebbene l’inibizione lo blocchi (Milberg et al., 2009).

Una seconda tecnica consiste nel modificare i limiti di tempo in test cronometrati per pazienti particolarmente rallentati. Per non inficiare la validità statistica, occorre considerare sia il punteggio ottenuto entro il limite di tempo, sia il punteggio ottenuto senza limite di tempo (Milberg et al., 2009). Un esempio di questa tecnica si può ritrovare nello strumento Matrici Attentive (Della Sala et al., 1992) che permette di valutare la prestazione speed-form, con un limite di tempo di 45 secondi, e la prestazione power-form, senza limite di tempo. La power-form non influisce sul punteggio quantitativo ma fornisce indicazioni qualitative importanti.

Una terza tecnica consiste nel presentare item verbali sotto forma di stimoli visivi, in modo che siano maggiormente comprensibili per pazienti con span ridotti. Ciò permette di differenziare coloro che falliscono nel compito a causa di deficit collegati ad esso da coloro che falliscono per via di problemi di memoria a breve termine. Questo fu applicato al subtest Aritmetica della WAIS-R NI, nel quale in caso di punteggio deficitario si presentavano visivamente i problemi aritmetici e si permetteva al paziente di rappresentarli su un foglio con la matita (Milberg et al., 2009).

Queste non sono le uniche tecniche presenti, ve ne sono altre che sono state applicate a numerosi strumenti. Tutte, comunque, consistono in facilitazioni che si danno al paziente (es. item extra, risposte a scelte multiple, ripetizione di consegna, etc.) che permettono di annotare le strategie cognitive messe in atto al di là del punteggio deficitario ottenuto.

Boston Process Approach: Influenza nei test di nuova generazione

Successivamente all’introduzione dell’approccio all’interno delle scale Wechsler (WAIS-R NI e WMS) e in alcuni test di screening (GEMS, Boston/Rochester, MicroCog) vi sono state alcune critiche riguardo all’uso indiscriminato di queste modifiche. In particolare, le critiche erano dirette all’approccio qualitativo utilizzato per generare predizioni cliniche in cui non sussisteva una base statistica vera e propria. Per questo motivo, i test di nuova generazione sono stati creati con l’idea di combinare qualitativo-quantitativo per accrescere la validità e generalizzabilità statistica.

Esempi di test:

  • CVLT (California Verbal Learning Test): consiste nel presentare 16 parole al paziente per cinque volte consecutive. Dopo ognuna di esse, il paziente è invitato a ripeterne il maggior numero possibile. In seguito viene presentata una seconda lista, e viene poi richiesto di ricordare la prima per valutare se vi è un apprendimento a lungo termine. Se il paziente presenta difficoltà, si può effettuare un test di riconoscimento. L’influenza dell’approccio di Boston risiede nella suddivisione degli item della lista in 4 categorie semantiche (fornendo dunque una possibile strategia che il paziente può usare) e nel test di riconoscimento finale.
  • Test dell’Orologio: già a partire dalle sue versioni iniziali, questo test ha sempre permesso di evidenziare molti aspetti qualitativi della performance del paziente nei domini esecutivi, visuo-spaziali, prassici e mnemonici. La dott.ssa Kaplan ha introdotto il Boston Parietal Lobe Battery in cui si richiede di posizionare le lancette alle 11 e 10 per determinare se vi è ancoraggio allo stimolo.
  • DKEFS (Delis-Kaplan Executive Function System): consiste di 9 subtest che valutano una varietà di funzioni esecutive, con modifiche atte a inferire quali delle funzioni sono maggiormente compromesse o conservate.
  • Quantified Process Approach: una batteria testistica sviluppata da Poreh nel 2000 con l’intento di standardizzare le procedure di analisi qualitativa e osservazionale.

Utilità clinica del Boston Process Approach: osservare il comportamento qualitativo per localizzare lesioni e descrivere funzioni cognitive

All’interno dell’articolo di Milberg e collaboratori (2009) vengono presentate due tipologie di strategie messe in atto dai pazienti all’interno di compiti visuo-spaziali, utili nella localizzazione delle lesioni, nella descrizione delle funzioni cognitive e di conseguenza nello sviluppo di programmi riabilitativi:

Dettagli o globalità?

Quando si osserva una figura, un film, una scena, si possono mettere in atto due strategie per imprimerla nella memoria: concentrarsi sui dettagli oppure sul contesto globale. La strategia migliore, messa in atto da soggetti sani, è utilizzare entrambi gli approcci. Al contrario, pazienti che hanno subito lesioni o che presentano disturbi neuropsicologici solitamente danno priorità ad una delle due strategie, con una perdita di informazioni dovuta alla mancata elaborazione totale.

Questo si può osservare in vari test (come la Figura di Rey) nei quali coloro che danno priorità al contesto possono riuscire a riprodurre gli elementi principali della figura omettendo dettagli interni. Coloro che si concentrano sui dettagli solitamente riproducono la figura come se la stessero “scannerizzando”, parte per parte, con una rievocazione differita scarna poiché assente di una visione di insieme. Per poter considerare questi aspetti, Stern e colleghi (1994) hanno sviluppato uno scoring qualitativo per la Figura di Rey nel quale si considera non solo la accuratezza della copia ma anche la frammentazione, la rotazione, la perseverazione, la precisione e così via. Anche Shorr e colleghi (1992) hanno sviluppato una taratura simile per analizzare il perceptual clustering ovvero il raggruppamento di dettagli. L’osservazione di queste strategie può rendere prevedibile il comportamento futuro del paziente, il quale potrà avere difficoltà a prendere decisioni a lungo termine (strategia basata sui dettagli) o potrà avere difficoltà ad essere efficiente e preciso (strategia globale).

Priorità emispaziale

Un’altra strategia importante riguarda il processo cognitivo utilizzato per analizzare lo spazio. Possono, infatti, sussistere disturbi sub-clinici di neglect e deficit attentivi che non emergono dai dati quantitativi ma che possono influire sulla prestazione del paziente. Solitamente un soggetto sano destrimane analizzerà una figura partendo da sinistra verso destra, cambiando direzione se necessario. Al contrario, pazienti con lesioni all’emisfero destro tendono ad analizzarlo inflessibilmente da destra a sinistra (viceversa per pazienti con lesioni all’emisfero sinistro). Inoltre, pazienti con lesioni sinistre tendono a commettere errori o omettere dettagli nella parte controlaterale della lesione. Osservare che tipo di strategia mettono in atto fornisce informazioni preziose per presupporre la localizzazione della lesione cerebrale.

Quali sono i vantaggi del Boston Process Approach?

Come esposto precedentemente, si tratta di un approccio valido per la detezione e localizzazione delle lesioni cerebrali da utilizzare congiuntamente all’evidenza radiologica. A livello clinico può aggiungere informazioni precise che i dati quantitativi, considerati da soli, non riescono a fornire: è il caso di pazienti che, sebbene nel Mini Mental State Examination superino il cut-off previsto per il test, a livello qualitativo presentano difficoltà di gran lunga superiori alla loro probabile performance premorbosa. Il vantaggio principale si può riscontrare quindi a livello clinico nella pianificazione del trattamento dei pazienti e nella delineazione delle funzioni compromesse e conservate. È ciò che accadde nella riabilitazione di pazienti affetti da prosopagnosia nello studio di Degutis e collaboratori (2007): osservando le strategie di processamento configurale, misero in atto un training cognitivo per portare allo sviluppo di nuove strategie che permettessero un miglior riconoscimento visivo. Inoltre, si è rivelato resistente all’effetto della pratica (Glosser et al., 1982), dell’età (esclusi i pazienti con disturbo neurocognitivo lieve) e dell’educazione. Permette, infine, di differenziare tra pazienti con patologie psichiatriche severe, come la schizofrenia, e pazienti con deficit neuropsicologici (Milberg et al., 2009).

Riassunto conclusivo

In conclusione, l’approccio di Boston non è da considerarsi come una metodologia a sé, quanto più come una serie di tecniche che possono essere applicate ai test standardizzati permettendo una integrazione tra livello qualitativo e quantitativo e portando ad informazioni cliniche estremamente utili per programmare la riabilitazione o localizzare la lesione del paziente. Applicando queste tecniche, si procede ad osservare le strategie di problem-solving che il paziente mette in atto e che rivelano la patologia sottostante. In conclusione, consente una valutazione combinata della relazione cervello-comportamento.

Integrare le psicoterapie efficaci nel trattamento dei disturbi di personalità

Dagli studi di esito e dalle linee guida internazionali diversi trattamenti sono risultati efficaci per il trattamento dei disturbi di personalità, può essere funzionale una loro integrazione?

 

Nella pratica clinica siamo a contatto con il trattamento di casi complessi di pazienti con le più svariate storie di vita. Soprattutto per quanto riguarda la cura dei disturbi di personalità, il terapeuta si trova a dover essere molto creativo nel percorso trattamentale, in quanto il mantenere fede solamente ad un orientamento teorico per il piano di cura si rivela poco efficace, o meglio, non esaustivo nella ristrutturazione completa o quasi della personalità.

Questa non esaustività dei diversi trattamenti specializzati è data dal fatto che gli stessi hanno storicamente posto l’accento su un aspetto piuttosto che un altro della patologia di personalità (per esempio nella DBT la disregolazione emotiva, nella Schema Therapy gli schemi e i bisogni, nella TFT la diffusione dell’identità, ecc.), per cui il trattamento che viene somministrato ottiene sì una efficacia in senso diagnostico (cioè il paziente non è più borderline, paranoide o narcisista), ma non vengono trattate tutte le aree problematiche.

Questa breve introduzione è in linea con quanto affermato da Livesley et al. (2016), i quali con la pubblicazione del libro Il trattamento integrato dei disturbi di personalità, già recensito su questo portale da Sofia (2017), hanno già sollevato queste obiezioni.

Tale articolo ha l’obiettivo di stimolare i colleghi a trovare dei punti di incontro delle psicoterapie efficaci e nello stesso tempo identificare possibili limiti di questa integrazione.

Quali sono i trattamenti efficaci per i disturbi di personalità e cosa trattano

Dagli studi di esito e dalle linee guida internazionali (vedi APA div12; NIMH; NICE) i trattamenti maggiormente efficaci per il trattamento dei disturbi di personalità sono essenzialmente questi sotto elencati:

  • Terapia Cognitivo Comportamentale e Terapia Basata sulla Mindfulness (Beck, 1976; Ellis, 1988; Segal et al., 2013)
  • Schema Therapy (Young et al., 2003)
  • Psicoterapia Interpersonale (Klerman et al., 1984; Benjamin, 2019)
  • DBT, RO DBT, ACT (Linehan, 1993; Lynch 2018; Hayes et al., 1999)
  • Colloquio Motivazionale e Psicoterapia Centrata sul Cliente (Miller, Rollnick, 1991; Rogers, 1951)
  • Terapia Focalizzata sul Transfert (Kernberg, 1987; Clarkin, 2011; Yeomans et al., 2017)
  • Terapia Basata sulla Mentalizzazione (Bateman, Fonagy, 2005; 2010; 2019).

Ci permettiamo di aggiungere una postilla sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale già citata dalla letteratura internazionale e che è di per sé una psicoterapia integrata, e che utilizza strategie e tecniche contenute nella lista di psicoterapie qui riportata.

Problemi e limiti dell’integrazione

  • Come e da cosa è composta una struttura di personalità. La personalità è un set organizzato in modo non rigido di sottosistemi che include i sistemi del sé e interpersonale, un sistema di processi regolatori e modulatori, e i tratti. Si ritiene che la personalità si sviluppi attorno a predisposizioni ereditarie che fanno emergere i tratti di personalità. Da sempre la letteratura come DSM (APA, 2013) e altri autori (Widiger, Simonsen, 2005), hanno cercato di raggruppare le tipologie di personalità in cluster. C’è un accordo unanime nel ritenere che la personalità abbia una struttura cognitivo-emotiva e che l’obiettivo delle psicoterapie sia quello di cercare di ristrutturare le sottostrutture più disfunzionali. A nostro avviso, dovrebbe essere studiata maggiormente la struttura sana di personalità che permetterebbe al clinico di verificare anche le aree non problematiche di cui il paziente dispone e che rappresentano il suo punto di forza.
  • Epistemologia delle psicoterapie specializzate esistenti. Integrare non significa fare un mix di strategie e tecniche al bisogno, ma seguire una coerenza prima di tutto concettuale tra le varie teorie su cui si basano strategie e tecniche specifiche. In questo senso, un grosso ostacolo a una integrazione dei trattamenti è dato dall’epistemologia talvolta molto differente sulla quale poggiano le diverse scuole di pensiero. Un atteggiamento vantaggioso potrebbe essere quello di accettare i punti di contatto e di non contatto tra le varie teorie (tra cognitivo comportamentali e psicoanalitiche e psicodinamiche) senza polarizzarsi per principio per difendere il proprio territorio. Va anche detto che è opportuno probabilmente operare nella pratica attraverso dei moduli di intervento (preposti in fasi) piuttosto che asserire una epistemologia di base sulla struttura totale del trattamento. Su questo tema vedi Morgese (2018), che fa un ottima analisi sull’integrazione assimilativa (Messer) e la differenzia dall’integrazione teorica Lamproupolos (2001), dall’eclettismo tecnico Paul (1967) e dall’approccio basato sui fattori comuni (Grencavage, Norcross, 1990). Già Ruggiero (2015) su questo portale denunciava il fatto che l’integrazione in psicoterapia dovesse essere qualcosa di più del mero eclettismo tecnico.
  • Quali sono le aree deficitarie nei disturbi di personalità. Su questo punto troviamo ampia letteratura, dal DSM-5 sistema dimensionale (APA, 2013), a molti autori come Lenzeweger, Clarkin, 2005 e Livesley et al., 2016. Pare ci sia accordo nel ritenere che le aree deficitarie su cui dovrebbe basarsi un trattamento integrato efficace siano: l’area dei sintomi, l’area della regolazione e modulazione; l’area interpersonale; l’area del sé
  • La questione della gravità. Con l’avvento dei sistemi dimensionali c’è stata una forte sensibilizzazione dei clinici alla questione relativa alla gravità dei disturbi e in particolare ai disturbi di personalità, perché in passato nelle linee guida si era parlato sostanzialmente della presenza/assenza o della numerosità di item diagnosticabili, ma non della portata del disturbo nella sua globalità, a parte il lavoro di Kernberg (1984) ormai famoso sui “Disturbi Gravi della Personalità”. La letteratura contemporeanea è in fermento su questo tema (Bornstein, 1998; Parker, Barrett, 2000; Widiger et al., 2002; Hopwood et al., 2011; Riccardi et al., 2016; Livesley, Clarkin, 2016), e si spera tale fermento possa riflettersi nell’aggiornamento dei sistemi diagnostici, anche se attualmente non esiste una indicazione ufficiale.

Come integrare? Una proposta di trattamento

Livesley et al. (2016) propongono una terapia modulare. Sulla scorta dei limiti concettuali e pratici dell’integrazione di psicoterapie diverse, gli autori hanno identificato le aree problematiche dei disturbi di personalità: sicurezza, contenimento, regolazione e modulazione, esplorazione e cambiamento, integrazione e sintesi. Riportiamo qui le fasi che, secondo gli autori, (Clarkin, Livesley, 2016) devono essere affrontate:

  • Sintomi (Farmaci; struttura e supporto; interventi di contenimento; interventi comportamentali specifici).
  • Regolazione e modulazione (Farmaci; interventi cognitivo comportamentali specifici; ristrutturazione cognitiva; interventi metacognitivi).
  • Interpersonale (Interventi focalizzati sugli schemi; interventi psicodinamici; interventi interpersonali; interventi metacognitivi).
  • Sé/identità (Moduli di cambiamento generale; Interventi metacognitivi; Interventi cognitivi; Interventi psicodinamici; Terapia cognitivo-analitica; Metodi narrativi; Ingegneria sociale).

Questa linea guida è utilissima per chi si occupa di trattamento di disturbi di personalità perché coglie in maniera coerente gli aspetti da trattare presenti in qualsiasi disturbo della personalità e con qualsiasi psicoterapia. Tale proposta ricalca, inoltre, la linea della psicoterapia sensomotoria (Ogden, Fisher, 2016; Ogden et al., 2012; Van der Hart et al., 2010; Van der Kolk, 2015; Fisher, 2017; Steel et al., 2017) e altre centrate sul trauma che asseriscono il passaggio del trattamento su tre fasi: fase di stabilizzazione emozionale, fase di elaborazione del trauma, fase di integrazione.

E nello specifico? Linee guida per le diverse fasi

Fase di Pre-Trattamento

Tutti gli autori sostengono che prima della somministrazione del trattamento vero e proprio deve essere impartito un pre-trattamento di 3-4 sedute nel quale il terapeuta deve lavorare sulla valutazione della patologia del paziente, sull’apprendimento della sua anamnesi e sulla costruzione della relazione terapeutica. Dopo il colloquio di conoscenza può essere necessario somministrare test e questionari di personalità come la SCID-5PD (First et al., 2016), il MMPI-2 (Butcher et al., 1996), il MCMI-IV (Millon et al., 2015), o altri; batterie di questionari per valutare la presenza di ansia, depressione, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi somatici, disturbi alimentari, dipendenze, psicosi o altro; ed inoltre, una prima valutazione della presenza di schemi disfunzionali attraverso lo YSQ (Young et al., 2003).

Linee guida per il mantenimento di una buona relazione terapeutica e successivamente di una buona alleanza di lavoro (Bordin, 1979) includono le tecniche provenienti dal Colloquio Motivazionale e dalla psicoterapia rogersiana centrata sulla persona (Miller, Rollnick, 1991), dalla psicoterapia relazionale di Safran e Muran (2000) per il riconoscimento e la risoluzione di cicli interpersonali disfunzionali molto presenti nelle terapie con i disturbi di personalità, e più in generale dall’empirismo collaborativo tipico della psicoterapia cognitivo comportamentale, tenendo in considerazione l’attivazione dei sistemi motivazionali nel dialogo clinico (Liotti, Monticelli, 2008, 2014).

Al paziente viene insegnato fin dall’inizio del trattamento ad avere un atteggiamento metacognitivo (Carcione, Semerari, 2016), così come viene mantenuto dal terapeuta, e a mentalizzare l’apprendimento, rafforzando fin da subito la funzione metacognitiva di monitoraggio.

Una volta concluso il pre-trattamento si restituisce la diagnosi al paziente e si condivide un contratto terapeutico che comprende gli obiettivi che dovranno essere raggiunti. Alcuni terapeuti utilizzano un vero e proprio contratto scritto, ma è sufficiente una condivisione ampiamente discussa.

Sintomi

Se è presente una minaccia alla sicurezza del paziente (suicidio o simili) deve essere affrontato per primo questo argomento, fino a che la persona non è in grado di continuare la sua vita senza farsi del male; ed in questo caso ci viene incontro la DBT (Linehan, 1993), che è stata prima di tutto concettualizzata per le pazienti borderline suicidarie.

Se sono presenti sintomi come ansia, depressione, fobie, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi alimentari, dipendenze, psicosi, ecc. si preferisce la risoluzione di essi attraverso l’utilizzo della psicoterapia cognitivo comportamentale e della psicoterapia interpersonale (depressione) come riportato dalle linee guida internazionali. Una nota per il trattamento delle dipendenze comprende l’utilizzo del Colloquio Motivazionale, e l’appoggio a gruppi di auto-aiuto.

All’inizio di questa fase può essere consigliato un lavoro d’équipe con uno psichiatra, poiché la scelta migliore per l’eliminazione della sintomatologia risulta essere l’associazione di somministrazione di psicofarmaci (anche se di breve durata) e la psicoterapia. Nei casi di disturbi gravi di personalità, è buona prassi creare ad hoc una equipe multidisciplinare che si occupi del paziente, in quanto, di solito, si ha a che fare con prese in carico di tipo sociale.

Sempre in questa fase è opportuno fare una buona psicoeducazione della situazione clinica del paziente (sia sul disturbo sintomatologico che sul disturbo di personalità).

Regolazione e Modulazione

In questa fase si cerca di stabilizzare il paziente dal punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale. Sono ancora presenti comportamenti di coping, esplosioni emotive o ritiri e distorsioni cognitive esposte ancora in maniera eccessiva che rendono persistentemente il paziente disturbato. La psicoterapia cognitivo comportamentale e la DBT sono le tecniche elettive ed è anche consigliata la frequenza, oltre alla terapia individuale, di gruppi di skills training come quelli proposti sia dalla DBT (Lineahn, 1993) che dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale di Gruppo (Colle, Fiore 2016). La regolazione e modulazione prevede la riduzione di comportamenti che possono interferire con la terapia e/o con la qualità di vita della persona. In questa fase sono molto utili le tecniche basate sulla mindfulness (Segal et al., 2013), la programmazione delle attività settimanali (Beck, 1979) e l’analisi funzionale (Ellis, 1988) che rendono il paziente sempre più consapevole dei propri meccanismi interni.

Interpersonale, Sé/Identità

Una volta che il paziente è stabilizzato dal punto di vista emotivo ed è consapevole della ripetitività dei propri processi mentali e dei comportamenti di coping, è possibile lavorare in maniera più focalizzata sugli schemi disfunzionali che mantengono la patologia di personalità, e nello specifico la disfunzionalità nell’area delle relazioni interpersonali e del Sé.

In questa fase è possibile utilizzare strategie e tecniche provenienti dalla Schema Therapy, dall’Emotional Focused Therapy (Lehay), dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013), per identificare e cercare di disattivare i meccanismi disfunzionali abituali che il paziente mette in atto da molto tempo e che risultano fattori di mantenimento dei suoi problemi emotivi e sociali, e non gli permettono di mantenere relazioni soddisfacenti (Psicoterapia interpersonale) e di esperire emozioni congruenti ai fatti.

Quando il paziente riconosce in maniera automatica il suo schema è capace di differenziare, e questo rappresenta un ottimo miglioramento nel suo percorso terapeutico.

Lavorare sul cambiamento degli schemi significa lavorare anche sulle memorie autobiografiche altamente traumatiche come quelle presentate dalla maggior parte dei nostri pazienti con disturbi di personalità. L’elaborazione delle esperienze traumatiche può essere fatta attraverso tecniche esperienziali, corporee, cognitive e comportamentali provenienti da tutte le scuole di psicoterapia efficace come la Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, la Schema Therapy (Young, 2003), la psicoterapia Sensomotoria (Ogden, Fisher, 2016; Ogden et al., 2012; Van der Hart et al., 2010; Van der Kolk, 2015; Fisher, 2017; Steel et al., 2017), la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013), l’EMDR (Shapiro, 1998). Si ricorda inoltre, l’importanza dei contributi dell’ACT (Hayes et al., 1999) e della CFT (2010) nel trattamento di vissuti dolorosi.

Per quanto riguarda il lavoro sull’identità e il senso di vuoto attingiamo alle strategie psicodinamiche proposte dalla Terapia Focalizzata sul Transfert di Kernberg, (Kernberg, 1987; Clarkin, 2011; Yeomans et al., 2017) e altri autori fondamentali come Gunderson et al., 2018 sul senso di vuoto, una delle caratteristiche centrali nei disturbi di personalità.

Integrazione e Prevenzione delle Ricadute

Successivamente alla fase di elaborazione delle memorie traumatiche il paziente si trova a guidare un nuovo Sé nell’esperienza del mondo. La ristrutturazione della personalità è un processo lento, molto complesso e comprende molti passi falsi o ricadute del paziente in vecchi meccanismi, i quali sono altamente consolidati seppur disfunzionali. Occorre lavorare con il paziente alla stabilizzazione delle parti ristrutturate del Sé in modo tale che le percepisca come identitarie (integrazione). Il paziente deve riuscire a dare un senso e una spiegazione dei suoi processi interni, della sua esperienza e del suo cambiamento e percepirsi come coerente (senso di identità coerente). Questo processo di integrazione in realtà viene effettuato durante tutto il trattamento, perché si cerca di dare coerenza ai frequenti cambi di stati dell’io che il paziente manifesta. Avere un forte senso di integrazione significa sapere come si è “switchati” da uno stato all’altro e cosa ha “triggerato” lo switch. Queste informazioni di cui il paziente finalmente dispone permettono di dare senso alla sua esperienza e di migliorare il proprio meccanismo previsionale dei fatti, di vedersi nel futuro e nel passato in maniera coerente. Le tecniche di integrazione vengono dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013), dalla Terapia Focalizzata sul Transfert (Kernberg, 1987; Clarkin, 2011; Yeomans et al., 2017) e dalla Psicoterapia Basata sulla Mentalizzazione (Bateman, Fonagy, 2005; 2010; 2019).

 

Le avventure della SMAgliante Ada – Recensione del fumetto

Le storie fantastiche vissute dalla SMAgliante Ada raccontano come ognuno di noi sia unico e diverso dagli altri.

 

Le avventure della SMAgliante Ada è un fumetto prodotto nell’ambito di un progetto realizzato dall’Associazione Famiglie SMA in collaborazione con Roche Italia ed i Centri Clinici NeMO. Il primo volume è stato presentato nel settembre 2020 ed attualmente è disponibile anche il secondo volume. Il fumetto è reperibile online sul sito www.lasmaglianteada.it

Il progetto ha l’obiettivo di promuovere una cultura dell’inclusione sociale partendo dalla convinzione che la disabilità, legata all’atrofia muscolare spinale (SMA), possa essere affrontata ponendo attenzione, non ai deficit che la malattia genera, ma alle risorse che possiede chi ne è affetto. Inoltre il messaggio che la SMAgliante Ada vuole trasmettere è quello che è possibile trovare nella malattia una dimensione di leggerezza.

Le avventure della SMAgliante Ada 2020 2021 Recensione del fumetto Fig 1

 

L’atrofia muscolare spinale è una malattia neuromuscolare causata dalla mutazione di un gene che codifica per la proteina SMN necessaria per la vita cellulare dei motoneuroni e per il loro corretto funzionamento. È importante, per i bambini in genere e per i piccoli affetti da SMA, conoscere da tutti i punti di vista, anche quello scientifico, questa patologia genetica e progressiva così che sarà più semplice raggiungere l’inclusione che migliora la vita dei bimbi malati e di quelli sani.

Protagonista di entrambi i fumetti, realizzati da un team multidisciplinare di educatori, psicologi, medici, disegnatori, sceneggiatori e consulenti dell’associazione famiglie SMA, è Ada una cagnolina nata con l’atrofia muscolare spinale, che si muove sulla sua carrozzina elettrica di color rosso intenso. Nel fumetto vi sono delle tavole didattiche semplici che riguardano gli aspetti scientifici della malattia e vengono spiegate da Ada ai bambini.

La SMAgliante Ada vive tante avventure, ciascuna di queste è pensata e realizzata con un intento didattico. Le peripezie della cagnolina riguardano fatti delle quotidianità e mostrano come vivere le emozioni e gestire le relazioni. Le storie fantastiche vissute dalla SMAgliante Ada e dai suoi compagni raccontano come ognuno di noi sia unico e diverso dagli altri e come questa diversità sia preziosa perché ciascuno possa realizzarsi al meglio.

Questo fumetto che può essere definito ‘’letteratura disegnata’’ è uno strumento di comunicazione a tutto tondo, che tratta in un modo nuovo il tema dell’inclusione sociale dei bambini con disabilità. Il gruppo di lavoro, che ha permesso la realizzazione di questo progetto, ha dimostrato un’eccezionale capacità e professionalità.

 

E se una sostanza allucinogena fosse essa stessa un rimedio per il disturbo da uso di sostanze?

Il disturbo da uso di sostanze (ing. Substance Use Disorder, SUD) è una condizione per la quale l’utilizzo di uno o più psicoattivi porta a una compromissione clinicamente significativa o a disagio (American Psychiatric Association, 2013).

 

Il disturbo da uso di sostanze si riferisce quindi all’uso eccessivo di una droga che porta a effetti dannosi per la salute fisica e mentale di un individuo, o per il benessere di altri individui. Questo disturbo è caratterizzato da un modello di uso continuato patologico di una sostanza, che si traduce in conseguenze sociali avverse, come il mancato rispetto degli obblighi di lavoro, di famiglia o di formazione, ma anche in conflitti interpersonali e problemi legali (Mosby’s Medical, Nursing & Allied Health, 1998).

Secondo lo studio sul carico globale delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità, circa 11,8 milioni di persone in tutto il mondo soffrono di tossicodipendenza (Degenhardt et al., 2010). Diversi fattori contribuiscono al rischio di sviluppare il disturbo da uso di sostanze, inclusi fattori socioeconomici, come stile ed eventi di vita, episodi avversi (sia durante l’infanzia, sia in corso), disponibilità di farmaci o accettazione culturale dell’uso di droghe, e disturbi psichiatrici, come depressione, disturbo bipolare, disturbi d’ansia, e schizofrenia (Weiss et al., 1992).

Il trattamento del disturbo da uso di sostanze

Il trattamento del disturbo da uso di sostanze spesso comporta interventi sia farmacologici, sia psicologici, come la terapia cognitivo comportamentale, il colloquio motivazionale, la terapia familiare. Nonostante la crescente efficacia del trattamento di questo disturbo, ancora il 50-60% dei pazienti con disturbi da uso di droghe e alcol presenta delle recidive entro 6-12 mesi dopo il trattamento (Cornelius et al., 2003). Sono quindi urgentemente necessari nuovi trattamenti che si concentrino preferibilmente sulla riduzione del craving e del successivo uso massiccio di sostanze.

Sebbene possa risultare paradossale, alcuni studi hanno dimostrato come alcune sostanze allucinogene abbiano effetti significativi sulla riduzione della sintomatologia correlata al disturbo da uso di sostanze.

Come risultato della sua popolarità ricreativa degli anni ’60, il potenziale di abuso di LSD è stato vietato nel 1967, e ciò ha ridotto notevolmente la ricerca scientifica in questo campo. Recentemente, un altro allucinogeno, la psilocibina, ha guadagnato popolarità nella ricerca neuropsicologica. È stato dimostrato che la sostanza allucinogena contenuta in particolari specie di funghi, possa aumentare la flessibilità cognitiva e comportamentale (Gallimore, 2015) e le valutazioni di atteggiamento positivo, umore, effetti sociali e comportamento a due mesi di follow-up (Griffiths et al., 2008). Uno studio ha anche riportato cambiamenti positivi nell’atteggiamento e nel comportamento dopo una singola dose di psilocibina, cambiamenti persistenti per 25 anni (Doblin, 1991). È stato anche dimostrato che la psilocibina riduce i sintomi depressivi nei malati terminali di cancro (Grob et al., 2011). Questi risultati suggeriscono che la psilocibina potrebbe essere un composto prezioso per il trattamento delle condizioni psicologiche e psichiatriche.

L’uso della psilocibina nel trattamento del disturbo da uso di sostanze

Nella review del 2017 di de Veen e colleghi, gli autori evidenziano come la struttura chimica della psilocibina sia simile a quella della serotonina. Le disregolazioni del sistema serotoninergico sono associate ad alterazioni degli ormoni dello stress, come il cortisolo, e a variazioni dell’umore. Dopo la somministrazione di psilocibina, i livelli di cortisolo tendono ad aumentare, attivando la rete di controllo esecutivo, con conseguente aumento del controllo sui processi emotivi, nonché sollievo dal pensiero negativo e dalle emozioni negative persistenti. È importante sottolineare che la psilocibina ha un basso rischio di tossicità e di induzione di dipendenza e può essere utilizzata in sicurezza in condizioni cliniche controllate (de Veen et al., 2017).

Con la quantità limitata di effetti collaterali segnalati e i potenziali effetti benefici della psilocibina nel disturbo da uso di sostanze, de Veen e collaboratori credono fermamente che ci siano valide ragioni per indagare ulteriormente sull’efficacia terapeutica e sulla sicurezza della psilocibina come potenziale trattamento del disturbo da uso di sostanze (de Veen et al., 2017). Gli autori ipotizzano in particolare due meccanismi d’azione della psilocibina che potrebbero mediare le sue proprietà anti-assuefazione. Da un lato, la sostanza può esercitare le sue proprietà anti-assuefazione con effetti benefici su stati emotivi negativi e stress. D’altra parte, la psilocibina può migliorare la rigidità cognitiva e la compulsività. Data la sua implicazione nella modifica dei processi emotivi e comportamentali, il team di de Veen ipotizza che essa possa migliorare il funzionamento cognitivo e alleviare i sintomi legati all’ansia e alla depressione associati al disturbo da uso di sostanze (de Veen et al., 2017).

La ricerca sull’efficacia della psilocibina sul disturbo da uso di sostanze è ancora limitata; di conseguenza, molti importanti quesiti relativi all’uso dell’allucinogeno come complemento all’attuale trattamento del disturbo da uso di sostanze e ai suoi meccanismi di funzionamento rimangono senza risposta. Prima che la psilocibina possa essere implementata come opzione di trattamento per il disturbo da uso di sostanze, è bene sottolineare l’indispensabilità di studi sperimentali più approfonditi.

 

Niente più Esame di Stato per psicologi e non solo – Approvata in Senato l’abilitazione alla professione tramite titoli universitari

Niente più Esame di Stato per psicologi e non solo. Il titolo di studio magistrale sarà abilitante alla professione, ciò consentirà ai giovani laureati di entrare nel mondo della formazione specialistica e/o del lavoro in modo più veloce e diretto. 

 

Abolizione dell’Esame di Stato: approvato in Senato il Ddl 2305

Nella giornata di giovedì 28 Ottobre 2021, durante la 372ª Seduta pubblica, il Senato ha approvato definitivamente, con 184 voti favorevoli, il ddl 2305, collegato alla manovra di bilancio, recante disposizioni in materia di titoli universitari abilitanti. Il provvedimento prevede, all’articolo 1, che l’esame di laurea magistrale abiliti all’esercizio delle professioni di odontoiatra, farmacista, medico veterinario e psicologo (Senato della Repubblica, 2021).

Già approvato alla Camera dei Deputati lo scorso giugno, il provvedimento dà attuazione a uno degli interventi di riforma indicati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che l’Italia ha inviato alla Commissione europea, pensato per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro a giovani professionisti.

Cosa cambia?

Niente più Esame di Stato dunque, ma l’esame conclusivo del corso di studi universitario sarà coincidente con l’Esame di Stato, sì da ridurre i tempi di inserimento nel mercato del lavoro e nel mondo delle specializzazioni post-lauream.

Il primo corso di laurea per cui era stata eliminata l’abilitazione professionale è stata quello di Medicina, a seguito del decreto Cura Italia, scelta motivata dal forte bisogno di operatori sanitari durante la prima fase dell’emergenza Covid-19 (Redazione SkyTG24, 2021). Ora tale decisione si estende, tra le altre, alle lauree in odontoiatria e protesi dentaria (classe LM-46), in farmacia e farmacia industriale (classe LM-13), in medicina veterinaria (classe LM-42), nonché alla laurea magistrale in psicologia (classe LM-51).

L’abolizione dell’Esame di Stato e l’abilitazione diretta tramite conseguimento di titoli universitari saranno rese possibili da una modificazione dei percorsi di studio, in cui sarà garantita una più alta preparazione tecnico-pratico e la verifica della stessa. Questo aspetto consentirà all’Italia di allinearsi al resto d’Europa, imponendo agli atenei di ripensare l’offerta formativa in una direzione meno teorica e più pratica, per l’appunto, e maggiormente orientata alla professione grazie all’integrazione nel percorso di studi di stage e tirocini formativi.

Nell’ambito delle attività formative professionalizzanti previste per le classi di laurea magistrale, infatti, almeno 30 crediti formativi universitari saranno acquisiti con lo svolgimento di un tirocinio pratico-valutativo interno ai corsi di studio. Le specifiche modalità di svolgimento, valutazione e certificazione del tirocinio, saranno stabilite dalle singole classi citate e dai regolamenti didattici di ateneo dei relativi corsi di studio.

L’abilitazione tramite conseguimento di titoli universitari avrà decorrenza dall’anno accademico successivo a quello in corso alla data di adozione dei decreti rettorali cui è demandato l’adeguamento dei regolamenti didattici di ateneo ai sensi del disegno di legge in esame.

E per chi consegue la laurea prima dell’entrata in vigore del ddl?

Ci saranno modalità semplificate di espletamento dell’Esame di Stato per coloro che hanno conseguito o che conseguono i titoli di laurea previsti “dalla presente legge” in base ai previgenti ordinamenti didattici (privi del carattere abilitante). A tal fine, le università sono tenute a riconoscere le attività formative professionalizzanti svolte durante il corso di studio o successivamente al medesimo. Per gli studenti che hanno conseguito o conseguono la laurea magistrale in psicologia in base ai previgenti ordinamenti didattici non abilitanti, si stabilisce che questi ultimi acquisiscono l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo previo superamento di un tirocinio pratico-valutativo e di una prova pratica valutativa. Ai fini della valutazione del citato tirocinio, le università riconoscono le attività formative professionalizzanti svolte successivamente al corso di studi.

Coloro che invece hanno concluso il tirocinio professionale (ai sensi della normativa vigente, ex articolo 52, comma 2, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 giugno 2001, n. 328) acquisiscono l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo previo superamento di una prova orale su questioni teorico-pratiche relative all’attività svolta durante il medesimo tirocinio professionale, nonché su aspetti di legislazione e deontologia professionale (Quotidiano Sanità, 2021).

Titoli abilitanti e mondo del lavoro

Il ministro dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, ha così commentato (Il Sole 24ore, 2021):

L’approvazione all’unanimità al Senato della legge sui titoli universitari abilitanti è il segno che l’attenzione verso i giovani sta davvero tornando protagonista nel Paese. Con questa norma permettiamo alle nostre studentesse e ai nostri studenti di accedere al mondo del lavoro subito, senza aspettare anni di tirocinio e l’esame di stato per potere iniziare, li mettiamo in collegamento con i professionisti già durante il corso di laurea e diamo ancora più valore al loro tempo e ai loro studi

 

L’analfabetismo funzionale: la delimitazione concettuale e sociale sempre più preoccupante in Italia

In Italia il fenomeno dell’analfabetismo funzionale non è affatto sconosciuto, al contrario raggiunge percentuali preoccupanti.

 

Un tempo si parlava di analfabetismo e di assenza di scolarizzazione, oggi si parla ancora di analfabetismo ma quasi mai lo si fa per riferirsi al puro termine isolato.

Si parla spessissimo, invece, di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) specialmente in ambito scolastico. Poca attenzione però viene rivolta ad un altro disturbo tanto importante quanto diffuso: l’analfabetismo funzionale.

Si sente parlare pochissimo di questo fenomeno sebbene i dati e le statistiche siano allarmanti. Ma che cos’è? È una via di mezzo tra l’analfabetismo e i DSA? Nient’affatto, come invece si potrebbe pensare.

Spiegarlo non è così semplice ma per comprendere meglio di cosa si tratta è bene offrire prima una definizione di analfabetismo funzionale: si tratta di una condizione nella quale il soggetto, pur avendo ricevuto una corretta istruzione e scolarizzazione, non è pienamente capace di comprendere un testo che gli permetta poi di inserirsi in maniera adeguata e congrua all’interno di una discussione tra gli altri soggetti.

È subito chiara la differenza rispetto al “semplice” analfabetismo, in quanto in quest’ultimo caso spesso non si ha a che fare con la presenza di scolarizzazione (quindi la capacità di saper leggere in maniera fluida, scrivere in modo chiaro e fare operazioni di calcolo). Il classico leggere, scrivere e fare di conto.

Nel caso dell’analfabetismo funzionale il soggetto è incapace, in parole povere, di mettere in atto e utilizzare in modo corretto e adeguato queste sue abilità. L’analfabetismo funzionale, oltre al normale analfabetismo non va nemmeno equiparato ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento perché questi riguardano deficit neurologici e capacità elaborative che interessano linguaggio scritto, scrittura, lettura, disgrafia e calcolo. Non a caso il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) li inserisce all’interno dei Disturbi del Neurosviluppo.

Sia nei casi di DSA che nell’analfabetismo funzionale vi è però la presenza capacità cognitive nella norma; nel primo caso però ci sono delle mancate connessioni neuronali tra zone del cervello specifiche (DSA), mentre nell’analfabetismo funzionale vi è un importante declino delle abilità.

Impatto dell’analfabetismo funzionale nella società

In Italia questo fenomeno non è affatto sconosciuto, al contrario conosce percentuali preoccupanti. Lo confermano dati recentissimi, quelli raccolti e analizzati dall’indagine OCSE-PIAAC del 2019. In Italia quasi il 30% della popolazione compresa tra i 16 e i 65 anni è di fatto analfabeta funzionale ed è uno dei Paesi peggiori d’Europa.

In tutto il mondo, invece, sono circa 773 milioni i giovani e gli adulti che non possono vantare un’alfabetizzazione di base.

Si ipotizza che con la pandemia dovuta al Covid-19, i numeri, quando verranno rilevati nuovamente a distanza di qualche anno, saranno aggravati non soltanto in Italia ma anche nel resto del mondo, a causa del fatto che moltissimi giovani sono rimasti a casa da scuola in didattica a distanza. Perché l’analfabetismo funzionale è più una forma di illetteratismo, i giovani non solo sono incapaci di comprendere un testo che leggono ma persino di capirne il significato intrinseco.

Per non parlare delle ricadute a livello socioeconomico. È risultato che gli analfabeti funzionali sono più facilmente soggetti a intimidazione sociale, a rischi per la salute, a varie forme di stress e a bassi guadagni.

La correlazione tra criminalità e analfabetismo funzionale è ben nota a criminologi e sociologi: solo nei primi anni 2000 è stato stimato che il 60% degli adulti nelle carceri degli Stati Uniti fosse funzionalmente o completamente analfabeta, e che l’85% dei delinquenti minorenni avesse problemi riguardanti la lettura, la scrittura e la matematica elementare.

Ma tornando all’attuale situazione pandemica l’analfabetismo funzionale svolge un ruolo importantissimo nella comprensione e nell’elaborazione delle fake news. Gli analfabeti funzionali sembrano essere poco dotati nella capacità di riconoscere le informazioni fondate e quelle false o distorte. Gli analfabeti funzionali tendono a credere a notizie false e aiutare la loro diffusione, non ci stupirà più di tanto constatare allora che, nell’epoca rosa di Internet e dei social network, dove chiunque può pubblicare facilmente informazioni che possono raggiungere milioni di persone in un click, il problema sta assumendo dimensioni importanti. Pensiamo ora alla disinformazione legata ai temi medico sanitari e alle conseguenze che stiamo vivendo.

Gli interventi per l’analfabetismo funzionale

E allora quali possono essere le strategie di intervento per l’analfabetismo funzionale? Istruzione e formazione alla base di tutto.

La qualità dell’istruzione è l’unico modo per prevenire l’analfabetismo funzionale perché lettura ed elaborazione personale dei testi possono davvero aiutare a migliorare la comprensione e la capacità di scrittura. Anche l’E-learning ha ricevuto importanti evidenze scientifiche come intervento a favore dell’analfabetismo funzionale poiché stimola l’utilizzo di metodi diversi e originali per coinvolgere in maniera interattiva e flessibile il soggetto.

L’E-learning permette l’apprendimento tramite vere e proprie “simulations”, aiutando persone con difficoltà di lettura e scrittura a comprendere situazioni reali oltre che nel processo di decision making; dona poi l’opportunità di servirsi dello stesso contenuto digitale in diversi modi: formato testo, formato video oppure formato audio.

L’impegno cognitivo, che di norma viene minacciato dalle incapacità del soggetto e blocca l’apprendimento, tramite l’E-learning può essere riequilibrato perché permette di suddividere gli argomenti da studiare in micro-contenuti.

Ma la scuola da sola non basta a combattere questo fenomeno se queste abilità personali non vengono anche e soprattutto continuamente stimolate nella vita di tutti i giorni, attraverso libri e scritture. Siamo sempre qui, è tutta una questione di allenamento e di pratica. Allora ci vorrebbe un ruolo della scuola più marcato, così come il ruolo della famiglia e la passione per la lettura.

Per esempio, la lettura individuale, anche ad alta voce, aiuta la mente ad essere attiva ed aperta e stimola il pensiero individuale. Mantenere attive queste capacità basilari per la vita dell’uomo, non solo in quanto Homo Sapiens ma in quanto smanioso di relazioni sociali, mantiene la nostra mente attiva, allenata e giovane.

Comprendere il contenuto verbale di testi e dialoghi, saper valutare i dati e le statistiche con le quali ci tartassano ogni ora del giorno e saper usare in maniera corretta la tecnologia e Internet per non farci instupidire da tutto quello che ci dicono dovrebbe essere una priorità.

 

L’applicazione dell’ACT con i genitori durante la pandemia di Covid-19

L’ACT pone attenzione a tre aspetti fondamentali: mindfulness e accettazione, azioni impegnate e in linea con i nostri valori e self-compassion.

Marta Chemello – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

La pandemia di Covid-19 ha messo a dura prova le famiglie, alcuni genitori hanno continuato il loro impiego, aumentando il rischio di possibili contagi all’interno della propria famiglia, altri ancora sono stati alle prese con le richieste scolastiche poste ai loro figli.

A loro volta alcuni genitori avevano la propria famiglia di origine di cui prendersi cura. A ciò si aggiungono ulteriori difficoltà dovute alle caratteristiche dei propri figli, che possono manifestare fragilità dal punto di vista emotivo oppure difficoltà a livello comportamentale. Di conseguenza molti genitori si sono trovati a rivestire ruoli tra loro eterogenei che, in alcune circostanze, hanno aumentato i livelli di stress percepiti.

Cos’è l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) si può proporre come modello per l’intervento con genitori che manifestano difficoltà nella gestione dei propri figli sia in periodo di incertezza, come il presente, sia in momenti di ordinaria quotidianità. Tale modalità d’intervento è stata infatti utilizzata con successo in genitori di bambini con autismo (Da Paz &Wallander, 2017), con malattie croniche (Irwin, Jesmont&Basu, 2019) o in situazioni di stress genitoriale (Gouveia, Carona, Canavarro&Moreira, 2016). Lisa Coyne e collaboratori (2020) hanno proposto una modalità d’intervento indirizzata a promuovere nei genitori una maggior flessibilità psicologica e una più intensa attenzione verso la cura di sé. La flessibilità psicologica viene descritta come la capacità di comprendere la situazione attuale, rimanendo consapevoli di ciò che sta succedendo nel presente al fine di adattare il nostro comportamento alle specifiche richieste della situazione (Hayes, Strosahal & Wilson, 2012; Kashdan & Rottenberg, 2010). La cura di sé implica invece la capacità di occuparsi della propria salute fisica e mentale. Poiché questi elementi appaiono fondamentali nella regolazione emotiva durante i periodi di maggiore difficoltà, l’ACT pone attenzione a tre aspetti fondamentali che ben promuovono le competenze sopra citate: mindfulness e accettazione, azioni impegnate e in linea con i nostri valori e self-compassion.

Le indicazioni fornite sono pertanto le seguenti:

  • ricordare a noi stessi che anche i piccoli obiettivi che ci poniamo sono importanti e possono dare avvio a cambiamenti di maggiore entità;
  • non pensare sia necessario intervenire su molti aspetti contemporaneamente, poiché le differenti aree della nostra vita sono tra loro correlate; dunque cambiamenti in una di esse possono portare a delle modificazioni anche in altri ambiti;
  • guidare i genitori ad identificare le loro modalità di interazione con i propri figli piuttosto che sostenere la loro ricerca dell’essere dei genitori perfetti;
  • dare importanza anche ai più piccoli gesti e ai brevi momenti di condivisione;
    incoraggiare i genitori a cercare aiuto, mantenendo i legami con amici e parenti che li possono sostenere nei momenti di difficoltà;
  • promuovere nei genitori la capacità di osservarsi dall’esterno, magari attraverso lo sguardo di una persona a loro cara.

Come applicare l’ACT nella vita quotidiana

Come fare quindi per seguire i consigli fin qui forniti?

Seguendo la proposta di Coyne diventa fondamentale essere presenti a ciò che ci accade nel qui ed ora, ricordando a noi stessi che anche i piccoli gesti ed attenzioni sono importanti. Inoltre è fondamentale accettare ciò che ci accade, non in maniera passiva, ma mantenendosi aperti anche alle inevitabili emozioni spiacevoli che sperimentiamo nella nostra quotidianità; ciò permette ai genitori di riconoscere che anche a loro sono concessi dei momenti di vulnerabilità.

Altro elemento saliente è l’abilità di defusione, che consiste nell’adattarci con maggior facilità a ciò che ci accade, iniziando magari prendendo semplicemente consapevolezza di quello che ci sta succedendo e ricordando che i nostri pensieri sono semplicemente pensieri. Un’ulteriore indicazione che viene fornita consiste nel promuovere nei genitori la capacità di osservare se stessi dall’esterno con l’obiettivo di notare i loro comportamenti, sia quelli efficaci che non.

In secondo luogo promuovere nei genitori il riconoscimento dei loro valori li porta ad una maggior consapevolezza di ciò che davvero conta per loro; una volta fatto ciò sarà per loro possibile scegliere quali comportamenti attuare.

Infine incoraggiare i genitori a fermarsi e fare qualcosa per se stessi, in questo modo si ridurranno i sentimenti di autocritica e si accetteranno le proprie imperfezioni. Se ciò risultasse per loro difficile, i caregiver potrebbero dedicare a se stessi ciò che consiglierebbero ad un caro amico che ha trascorso una giornata difficile. Fortunatamente la pandemia ha una caratteristica di universalità che ci permette facilmente di condividere il nostro attuale stato d’animo con gli altri, mantenendo attiva la condivisione di emozioni e sentimenti a volte spiacevoli.

Le indicazioni fornite in questo articolo potrebbero essere utili da condividere con i genitori che arrivano a noi in questi mesi, preoccupati da un anno scolastico fatto di possibili nuove interruzioni dovute alla pandemia; fornire loro delle nuove abilità o suggerire loro semplici indicazioni potrebbe contribuire al miglioramento della salute mentale e favorire lo sviluppo di una più serena relazione con i loro figli.

 

La storia di Sandor Ferenczi e i suoi contributi nel contesto psicoanalitico

L’approccio con la psicoanalisi, per Ferenczi, avviene ben prima di fare la conoscenza degli scritti freudiani, quando ancora adolescente si interessa di ipnosi

 

Sándor Ferenczi è da molti considerato uno degli psicoanalisti più importanti della sua generazione, sicuramente tra i più innovativi, in grado, grazie alle sue sperimentazioni, di spostare l’attenzione al di fuori della dottrina psicoanalitica, buttandosi trasversalmente sullo studio della psiche umana attraverso approcci differenti e spesso poco ortodossi. La storia del medico ungherese è anche la storia della psicoanalisi, la storia di Freud, la storia di un momento preciso in cui l’Europa passa dal progresso scientifico alla devastazione del primo conflitto mondiale, il primo vero conflitto moderno. I destini di Ferenczi e del padre della psicoanalisi sono legati non solo dalla pratica medica e psicoanalitica, ma anche da una comunanza religiosa (seppur secolarizzata) che li espone agli stessi pericoli e agli stessi pregiudizi. Si tratta di una relazione complessa, carica di proiezioni e aspettative, e caratterizzata anche da incomprensioni spesso alimentate dagli stessi colleghi della neonata comunità psicoanalitica.

Il rapporto tra Ferenczi e Freud

Il rapporto tra i due medici fu comunque un rapporto anche di fiducia e collaborazione in cui il sentimento di amicizia non è mai venuto meno, nemmeno negli ultimi anni di vita di Ferenczi quando, contrariato dalla pubblicazione di Confusione delle lingue, Freud ne concesse comunque la presentazione al congresso di Wiesbaden, il 4 settembre 1932, dove fu accolto con critica e disappunto. Ne permise la lettura nonostante la resistenza di molti e infine, complici anche le presunte voci sulla sua malattia mentale, se ne impedì la pubblicazione postuma sull’International Journal of Psycho-Analysis.

Sándor Ferenczi nasce a Miskolc, in Ungheria il 7 luglio 1873. Ottavo dei dodici fratelli di Baruch Frankel un piccolo editore della Galizia. Ferenczi perde il padre prematuramente lasciando alla madre, una donna dal carattere poco sentimentale e piuttosto pratico, la gestione dell’attività di famiglia. L’approccio con la psicoanalisi, per Ferenczi, avviene ben prima di fare la conoscenza degli scritti freudiani, quando ancora adolescente si interessa di ipnosi e sperimenta (con scarso successo) la pratica sulle sorelle e sugli impiegati dell’azienda di famiglia. Da giovane medico assistente sopporterà con fatica l’incarico all’ospedale Ròkus di Budapest, nel reparto dedicato alle prostitute. Il 1907 è l’anno che sancisce il suo ingresso nell’area psicoanalitica, nonostante il primo incontro con Freud avverrà solo l’anno successivo.

Nel 1908, infatti, finalmente incontra Freud e ha inizio la sua carriera psicoanalitica con la pubblicazione dei suoi primi scritti sull’argomento: Il significato dell’eiaculazione precoce, Le nevrosi alla luce dell’insegnamento freudiano e la psicoanalisi, Interpretazione analitica e trattamento dell’impotenza psicosessuale, Psicoanalisi e pedagogia. È da collocarsi presumibilmente sempre nel 1908 il primo trattamento psicoanalitico condotto da Ferenczi.

Sarà di particolare importanza per la crescita dello psicoanalista ungherese anche il rapporto con Gizella (che diverrà sua moglie) ed Elma, la figlia di Gizella che egli, in una sorta di relazione familiare, condividerà con Freud. Gizella, infatti, riceverà diverse lettere dal padre della psicoanalisi ed egli stesso spingerà, con l’autorità del padre, Ferenczi verso il matrimonio promuovendone la causa amorosa. Nel frattempo, Ferenczi, su richiesta della madre, inizierà un’analisi con Elma, che provocherà un leggero dissidio con Freud in termini di ortodossia psicoanalitica. Freud, infatti, ammette in una lettera destinata al collega “Le auguro un grande successo pratico nella Sua nuova impresa con la sig.na Elma, ma temo, devo ammetterlo, che la cosa funzionerà bene solo fino ad un certo punto”.

Freud nel suo Introduzione alla psicoanalisi aveva già esposto alcuni dubbi riguardanti l’analisi di congiunti o persone con cui si condivide relazioni significative, poiché ciò, secondo Freud, provocherebbe inevitabilmente una intrusione intima e influenzerebbe negativamente il percorso psicoanalitico con il paziente. Regola che però non avrà problema ad infrangere quando si tratterà più tardi di prendere in analisi Anna Freud, la sua stessa figlia. Egli non sarà l’unico a contravvenire alla regola esposta nel trattato, tra i tanti psicoanalisti figurano Abraham, Jung e la futura allieva di Ferenczi, Melanie Klein; senza considerare poi l’analisi didattica che i membri della Società Psicoanalitica di Vienna porteranno avanti tra di loro in una promiscuità psicoanalitica, molto spesso dettata dalla mancanza di pazienti fidati su cui agire da sperimentatori.

In ogni caso, durante tutta la fase di collaborazione e di amicizia con Freud, Ferenczi ha sempre mantenuto il ruolo del figlio. Un ruolo che Freud, vittima della sua tendenza a divenire un padre per i suoi discepoli, ha sempre alimentato. Caratteristica questa, che spingerà lo psicoanalista ungherese a non sentirsi mai realmente “cresciuto”; egli, infatti, si sentirà come un ragazzino impossibilitato a raggiungere la maggiore età, fino a quando il silenzio rispettoso del figlio varcherà le soglie dell’età adulta trasformandosi in un j’accuse all’ortodossia freudiana nel suo Diario clinico (Ferenczi, 1932). Per alcuni, la rottura definitiva con Freud avviene nel 1931, secondo altre fonti invece si passa al 1932 con la redazione del suo Confusione delle lingue tra adulti e bambini. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione che verrà pubblicato postumo nel 1933.

La rottura tra Ferenczi e Freud

Egli viene visto come un eretico della dottrina da alcuni membri delle società psicoanalitiche anche se la diffamazione raggiunge livelli inverosimili quando viene accusato di attuare approcci che prevedono baci e carezze che trasformano la terapia in una relazione amorosa. Il collega Jones, successivamente, nel suo Vita e opere di Sigmund Freud (Jones, 1953), rincarerà la dose di calunnie dipingendo un Ferenczi alla ricerca di una compensazione sensuale nei confronti dei pazienti e afflitto da malattia mentale, lasciando intendere che la morte sarà in parte causa anche di questo suo malessere psichico. Ci vorranno sessant’anni perché lo stigma dovuto a queste illazioni venga dissolto, riscoprendo nei suoi scritti non solo una deviazione di fondamentale importanza dall’ortodossia psicoanalitica freudiana ma soprattutto perché venga compreso dalla comunità psicoanalitica il lascito scientifico e letterario di un gigante della psicoanalisi che aveva da sempre considerato il paziente come individuo e non come sintomo. Ferenczi si ammalò di anemia perniciosa con gravi conseguenze neurologiche e morì qualche anno dopo, il 22 maggio del 1933 in seguito a complicanze derivanti da tale patologia.

Il lascito di Ferenczi

Egli non si considerò mai come un eretico e il suo scopo non fu mai quello di discostarsi da Freud per creare una propria dottrina psicoanalitica, come fecero altri colleghi. Il suo lascito psicoanalitico non si compone di scuole di pensiero o di dottrine racchiuse in rigidi manuali ma bensì di sperimentazioni e princìpi. Sándor Ferenczi, sia quando stravolse il complesso di Edipo con la sua teoria sul trauma, sia quando enunciò le sue teorizzazioni sul processo transferale come relazione simmetrica, si affidò sempre a princìpi piuttosto che a regole o dottrine. Egli modificò la tecnica sulla base del singolo paziente e fece di tutto per entrare nel setting terapeutico, non come osservatore imparziale, ma come parte integrante di una costruzione relazionale. L’insegnamento più grande che può ancora impartire a chiunque si occupi di psicologia e psicoterapia in generale forse rimane quello di non legarsi troppo alle teorizzazioni ed ai manuali, ma di agire tentando di scoprire ogni volta la persona che si ha davanti come se si volgesse lo sguardo verso un universo nuovo, di cui non si conosce nulla e dal quale si ha tutto ancora da imparare.

 

Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione (2021) a cura di Lucilla Castrucci – Recensione

Nel testo Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione l’autrice approfondisce la tematica dell’ansia, operando anzitutto un distinguo tra ansia normale e ansia patologica.

 

Da un punto di vista etimologico la parola ansia deriva dal latino “angere”, che significa “stringere”, fornendo chiaramente l’idea di costrizione, minaccia, tensione esperita dai soggetti che ne soffrono.

Variabili utili alla discriminazione tra ansia funzionale e ansia disfunzionale, dunque patogena, sono l’intensità, la durata e la modalità di comparsa: un’attivazione psico-fisiologica intensa, durevole e ingiustificata comportano disagio nel soggetto. Tuttavia, il marcatore di cut-off è determinato dalla funzione adattativa che lo stato affettivo-emotivo deve avere per l’individuo che, di fronte ad una minaccia o ad uno stress, lo induce a reagire.

Il discrimine non è tuttavia semplice, dal momento in cui la percezione del pericolo che ciascun soggetto possiede è frutto di apprendimenti ed educazione ricevuta.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riporta come, in Europa, circa un terzo della popolazione, abbia sofferto almeno una volta nella vita di un disturbo d’ansia.

Tenendo in considerazione i principali manuali diagnostici, DSM 5 e ICD-10, nel testo si elencano i criteri necessari alla diagnosi dei diversi quadri ansiosi: ansia generalizzata, fobia specifica, mutismo selettivo, ansia da separazione, fobia sociale, agorafobia, disturbo di panico.

In riferimento alle manifestazioni cliniche, l’ansia si associa sia a sintomi somatici, come aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, piloerezione, dilatazione pupillare, alterazioni gastrointestinali ed urinarie, determinati da un’iperattività del sistema nervoso autonomo, sia a sintomi psichici, quali difficoltà di concentrazione, irritabilità, apprensione, autosvalutazione, catastrofismo, vergogna.

Altro distinguo centrale è tra ansia di stato e ansia di tratto, laddove con ansia di stato si intende un arresto momentaneo del normale assetto emozionale, mentre nel secondo caso essa si configura come un tratto piuttosto stabile della personalità, predisponendo il soggetto allo sviluppo di un disturbo ansioso.

Esempi relativi all’ansia di stato sono forniti in merito ad interventi medici invasivi, comportando un peggioramento delle condizioni generali e una maggiore percezione del dolore, andando ad interferire negativamente con le cure.

La percezione del dolore, oltre che essere direttamente collegabile al danno fisico, è riconducibile all’interpretazione personale della gravità del quadro: si comprende come tale percezione non sia uguale per tutti i soggetti, ma, al contrario, la medesima esperienza algica, può, in individui diversi, dar vita a differenti interpretazioni. Le credenze e, di conseguenza, le aspettative del soggetto circa il dolore e la possibilità di provarlo influenzano l’effettiva percezione del dolore fisico.

Le informazioni relative all’ansia e alla paura giungono dapprima nella corteccia sensoriale, per essere elaborate e trasferite alle strutture sottocorticali, talamo e amigdala, responsabili delle risposte affettive, comportamentali e somatiche.

Non è semplice distinguere tra ansia e paura, tuttavia, lo stimolo alla base dello stato affettivo della paura è generalmente un pericolo oggettivo e di natura non conflittuale, di contro l’ansia è collegata a conflitti intrapsichici o stimoli vaghi. Inoltre, mentre la paura sembrerebbe inibire il dolore, attivando risposte di fuga o attacco, l’ansia intensificherebbe la percezione di dolore provato, portando ad un incremento della ricettività sensoriale ed a focalizzare maggiormente gli stimoli sensoriali, tramite un meccanismo di attenzione selettiva.

In ambito medico si fa ricorso ad esercizi di immaginazione guidata che, tramite la visualizzazione di immagini mentali, aiutano i pazienti a gestire in maniera adeguata gli stati ansiosi.

L’autrice approfondisce gli aspetti eziologici dei disturbi ansiosi, prettamente multifattoriali, e le diverse teorie atte a spiegare il modello dell’ansia.

Secondo l’approccio cognitivo comportamentale le reazioni ansiose derivano da apprendimenti di risposte di attacco o fuga a stimoli inizialmente neutri, che, fissate in memoria, si riattivano riproponendo all’individuo un vissuto di imminente pericolo.

L’orientamento psicodinamico collega l’origine degli stati affettivi ansiosi a conflitti interni all’individuo.

Da un punto di vista terapeutico i disturbi d’ansia sono trattabili con farmaci, antidepressivi e benzodiazepine, da associare ad un percorso psicoterapeutico.

L’approccio con maggiore evidenza scientifica è sicuramente la terapia cognitivo comportamentale, che richiede un ruolo attivo del paziente e l’accettazione di obiettivi condivisi. Dopo aver ricostruito lo schema di funzionamento del disturbo e la sua storia, terapeuta e paziente lavorano per individuare i pensieri disfunzionali, al fine di procedere alla ristrutturazione cognitiva. Dal momento in cui il paziente ansioso mette in atto comportamenti di evitamento che rinforzano le sue credenze, autoalimentando l’ansia in un circolo vizioso, la terapia utilizzerà l’esposizione graduale, al fine di scalfire le paure e dar vita a nuovi apprendimenti. L’ultimo step della terapia riguarda la prevenzione delle ricadute, dove si rende il paziente consapevole del fatto che i sintomi potrebbero ripresentarsi: in tal caso sarà chiamato ad utilizzare gli strumenti appresi in terapia.

Disturbi in comorbidità appesantiscono il quadro clinico.

Rimedi per manifestazioni lievi o moderate sono dati dalla medicina complementare alternativa; risolutivi sono gli esercizi sulla respirazione e l’utilizzo del training autogeno.

 

Intelligenza emotiva e disturbi alimentari: una revisione sistematica

Individui con alti livelli di intelligenza emotiva sembrano riportare minori preoccupazioni verso l’alimentazione e la forma fisica.

 

L’impatto delle emozioni negative sulle condotte alimentari è una tematica che negli ultimi decenni ha catturato l’attenzione di molteplici ricercatori (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020). A partire dai primi studi sul tema, è emerso che deficit nell’elaborazione emotiva assumono un ruolo cruciale nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi alimentari (DA) (Polivy & Herman, 1993), causando, specialmente, un aumento dei comportamenti di abbuffata (Tarrier et al., 2000).

La teoria e la ricerca empirica negli ultimi due decenni suggeriscono che l’intelligenza emotiva (IE), ovvero la capacità di elaborare e regolare le emozioni in maniera adattiva (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020), può essere un fattore protettivo cruciale nei disturbi alimentari, ma nessuna revisione sistematica ha esaminato l’associazione specifica tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari. Comprendere la relazione tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari risulta fondamentale, al fine di guidare i programmi di prevenzione e gli approcci terapeutici per gli individui con disturbo alimentare già diagnosticato o per i soggetti a rischio, motivo per cui il seguente estratto si focalizza proprio sul presentare i risultati emersi da una revisione sistematica della letteratura sul tema in popolazioni sia generali, che cliniche (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020).

La sintomatologia del disturbo alimentare è risultata essere frequentemente associata a problematiche interpersonali (Fox & Power, 2009), bassi livelli di assertività (Goldner et al., 1999) e maggiori difficoltà nel riconoscere l’espressione facciale (Stice, 2002). Inoltre, rispetto ai controlli, i pazienti con disturbi alimentari manifestano livelli di impulsività significativamente più alti (Ross & Wade, 2004).

In merito alla traiettoria evolutiva della relazione tra intelligenza emotiva e condotte alimentari, risulta fondamentale considerare le differenze sostanziali tra popolazione evolutiva e adulta, sia di natura fisiologica, che socio-emotiva. La letteratura sul tema, nella psicologia dello sviluppo, rivela che ogni transizione evolutiva può essere associata a cambiamenti significativi delle abilità di gestione emotiva e delle relative condotte alimentari in quel periodo specifico. Un recente studio, condotto su 30.000 individui con disturbi alimentari, in diversi stadi di sviluppo (prima adolescenza, tarda adolescenza, giovane età adulta ed età adulta medio-tardiva), ha rivelato che, al di là della sintomatologia nucleare condivisa, la problematica alimentare varia significativamente dall’adolescenza all’età adulta (Christian et al., 2020).

Il risultato trasversale, emerso dagli svariati studi analizzati, è un rapporto inversamente proporzionale tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari: gli individui con alti livelli di intelligenza emotiva hanno riportato minori preoccupazioni verso l’alimentazione e la forma fisica, contrariamente ai soggetti con bassa intelligenza emotiva, che hanno manifestato condotte alimentari più o meno disfunzionali. Gli studi recensiti indicano una correlazione negativa tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari nei diversi stadi di sviluppo (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020). La revisione sistematica presa in esame suggerisce risultati promettenti, ma pur sempre preliminari in merito alla relazione tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari nelle diverse fasi di sviluppo.

Risulta, dunque, doveroso presentare anche i limiti emersi nella revisione: in primis l’eterogeneità degli strumenti utilizzati per valutare l’intelligenza emotiva, la frequente assenza di strumenti diagnostici specifici per la valutazione della sintomatologia alimentare, disomogeneità campionaria, mancanza di ricerche prospettiche (tutti gli studi hanno utilizzato un disegno trasversale) ed infine non è stato tenuto conto delle modifiche incluse nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013). A causa di tali limiti, non è stato possibile condurre uno studio di meta-analisi (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020). Future indagini di coorte longitudinali potrebbero essere utili al fine di comprendere le implicazioni teoriche e cliniche dell’associazione tra intelligenza emotiva e alimentazione. L’obiettivo primario consiste nell’implementare programmi di prevenzione per i soggetti a rischio di disturbo alimentare, alla luce della letteratura emergente sulla relazione tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari. Rivedere e aggiornare il corpus di conoscenze attuali sul tema consentirebbe di delineare lo stato dell’arte attuale in maniera puntuale, al fine di proporre future linee di ricerca, per trascendere i limiti attuali e per cimentarsi in ulteriori frontiere cliniche (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020).

Mukbang Watching – Il nuovo fenomeno spopolato sul web

Il Mukbang Watching, dal coreano mokta (mangiare) e bangsong (trasmettere) è una trasmissione audiovisiva, prevalentemente trasmessa online, in cui una persona mangia cibo mentre interagisce con il proprio pubblico.

 

È possibile guardare tali trasmissioni su piattaforme di streaming come Afreeca, Youtube e Twitch.

Internet è un vero e proprio strumento di mediazione per consentire agli individui di impegnarsi in comportamenti specifici online (Griffiths, 1999). È ormai noto che la tecnologia ha facilitato l’uso di un’ampia varietà di attività (gioco d’azzardo, sesso online, shopping, social network) e tra queste rientra anche il Mukbang Watching.

Attualmente non si sa molto di questa pratica, che consiste in veri e propri spettacoli alimentari dove un mukbanger o un broadcat jokey (individuo nella trasmissione) mangia enormi quantità di cibo mentre interagisce con gli spettatori.

Il Mukbang è diventato popolare in Corea del Sud circa 10 anni fa (nel 2010) ed ha raggiunto una crescente popolarità in numerosi altri Paesi, dove tantissime persone accedono ad Internet ogni giorno per guardare i video dei Mukbanger (Hawthorne, 2019).

Questo fenomeno si è diffuso nei Paesi occidentali nel 2015, dopo che una popolare emittente americana ha caricato un video in cui commentava i video di Mukbang Sud-Coreani.

Mangiare “in compagnia” della propria comunità virtuale si può tradurre in una compensazione di esigenze individuali uniche (Balakrishnan e Griffiths, 2017), portando dunque a diverse forme di gratificazione derivanti da tale attività (Montag et al., 2015).

Il CIUM (Modello Compensativo dell’Utilizzo di Internet, Kardefelt-Winther, 2014) ha tentato di spiegare la psicologia che si nasconde dietro le attività online, concludendo che gli individui le praticano per compensare bisogni non raggiunti quali il bisogno di appartenenza, le gratificazioni sociali, l’informazione.

Cercare di soddisfare le proprie esigenze in attività online, però, può portare a conseguenze negative (Kardefelt-Winther 2014) e a disturbi psicologici come depressione maggiore, ansia elevata, umore negativo, minore autostima, problemi del sonno, idee suicidarie, aumento dell’abuso di alcol e sostanze, minore integrazione sociale e problemi di condotta (Sherlock e Wagstaff, 2019).

Ma perché il Mukbang Watching è così popolare?

Cosa spinge le persone a guardarlo e a praticarlo? In base a varie ricerche si è concluso che gli spettatori lo guardano per motivi sociali, sessuali, di intrattenimento, alimentari e/o come strategia compensatoria di fuga.

Uso sociale – Nella società umana il comportamento alimentare va oltre la semplice sopravvivenza ed è strettamente legato alla vita e alla cultura. Ci sono diversi studi che hanno analizzato l’aspetto sociale legato a tale attività online. Schwegler Castañer (2018) ha descritto i casi di 3 donne mukbanger (una singaporiana, una sudcoreana e una americana). Lo scopo dei loro video era quello di contrastare la solitudine e l’isolamento sociale, condividendo un interesse simile con una comunità virtuale.

Spence et al. (2019) hanno condotto uno studio sulla commensalità digitale, ovvero la pratica del mangiare insieme sentendosi meno soli, concludendo che il Mukbang Watching potrebbe favorire sentimenti di connessione affettiva con altri individui.

Hakimey e Yazdanifard (2015) hanno esaminato l’interazione tra la cultura sudcoreana e il fenomeno del Mukbang, sostenendo che i sudcoreani di tutte le fasce d’età soffrivano sempre più nel vivere da soli e che tale isolamento sociale li ha portati a guardare i video dei mukbanger come mezzo per sentirsi emotivamente connessi con altre persone. Un altro aspetto importante è l’empatia provata dagli spettatori nei confronti della persona che tiene la trasmissione.

Un mukbanger famoso, per aumentare la connessione emotiva con il suo pubblico maschile, ha mangiato cibo in diretta in abiti da addestramento dell’esercito in una stanza decorata con diversi accessori dell’esercito (fucili giocattolo, figure di battaglia); questo ha riportato alla mente degli spettatori, che avevano prestato servizio come soldati, ricordi nostalgici.

Anche Choe (2019), analizzando i video di un mukbanger sudcoreano, ha concluso che gli spettatori si sentivano “come se stessero cenando con qualcuno” e che mangiare assieme è considerato un aspetto cruciale della cultura sudcoreana.

Il Mukbang forniva quindi un senso di unità sociale a coloro che mangiavano fisicamente da soli e il mukbanger in questione era in grado di fornire un senso di “mangiare collaborativo” coinvolgendo gli spettatori in diverse azioni alimentari. Attraverso il cibo era possibile superare la distanza fisica.

Anche altri autori (es. Kircaburun, K et al., 2020) hanno sostenuto che il Mukbang Watching fosse un mezzo per alleviare la solitudine e che il mukbanger fosse considerato un vero e proprio compagno di pasto dagli spettatori, i quali si collegavano alle piattaforme online intorno all’ora dei pasti o all’ora dello spuntino a tarda notte. Il Mukbang soddisfa la fame fisica e sentimentale delle famiglie di una sola persona fornendo semplici ricette o consigli per mangiare da soli, creando un legame sociale e di appartenenza con i mukbanger e gli spettatori.

Essi, inoltre, affermano che gli spettatori, nel momento in cui creano connessioni con i mukbanger, simulano l’atto di mangiare con amici e famiglia.

Gillespie (2019) ha invece analizzato il fenomeno dal punto di vista della cultura della magrezza guardando i video di 9 donne mukbanger provenienti dagli Stati Uniti, Canada e Corea del Sud. Egli ha affermato che agli spettatori (sopratutto ai maschi) piaceva vedere donne mangiare troppo e in modo disordinato, essere rumorose, anche se tali comportamenti erano considerati come atti aggressivi; le spettatrici, invece, si sentivano legate emotivamente ad altre donne che mangiavano enormi quantità di cibo malsano in modo disordinato e davanti ad un pubblico.

Bruno e Chung (2017) hanno affermato che i principali beneficiari dei piaceri per procura forniti dal mukbanger erano gli individui che mangiano da soli ma che desiderano una presenza sociale, percependo il Mukbang come uno spazio libero in cui condividere un piacere vicario.

Bruno e Chang (2019) hanno sostenuto che anche se tutti gli spettatori non si conoscevano, potevano sentire la presenza di altri spettatori attraverso la chat, i commenti e i “mi piace”. Per alcuni di essi la chat dal vivo dopo aver mangiato potrebbe essere più importante del mangiare stesso; infatti la loro analisi ha rivelato che circa il 10% degli spettatori rimaneva connesso dopo aver mangiato per chattare su diversi argomenti che riguardavano la propria vita quotidiana e che si sentivano attratti dai mukbanger perché mostravano il loro lato personale reagendo ai commenti degli spettatori, interrompendo il pasto e ringraziando gli spettatori per i regali ricevuti (gli spettatori a volte pagano per far sì che il mukbanger faccia determinate azioni che loro richiedono).

Song (2018), analizzando le chat, ha sostenuto che gli spettatori si sono affezionati ai mukbanger grazie all’interazione.

A volte, però, l’interazione tra gli spettatori può diventare incontrollata (Bruno e Chung, 2017): alcuni spettatori, ad esempio, hanno insultato i mukbanger per il loro aspetto e la quantità di cibo che consumavano oppure hanno cominciato a diffondere voci sugli emittenti per danneggiare la loro reputazione e la relazione con gli altri. Questo aspetto era importante perché era in grado di influenzare le reazioni di altri spettatori nei confronti di ciò che stavano guardando.

Uso sessuale – Secondo Schwegler Castañer (2018), il Mukbang potrebbe essere inteso come feticismo delle donne che mangiano enormi quantità di cibo dannoso mostrando un vergognoso appetito. Altri aspetti che ha sottolineato sono la potenziale oggettivazione sessuale del corpo femminile e il rafforzamento dei valori normativi riguardanti magrezza e consumismo.

Donnar (2017) ha sostenuto che la maggior parte degli spettatori di donne mukbanger magre e attraenti erano maschi e in sovrappeso. Essi erano attratti dal fatto che qualcuno di affascinante si trovasse in uno stato privato e vulnerabile (cioè mangiare); le sensazioni sessuali e alimentari provate erano le più varie: piacere, desiderio, brama, invidia, disgusto e vergogna.

Pereira et al. (2019) hanno notato che c’erano noti mukbanger che, oltre ad essere belli fisicamente, erano estremamente socievoli e simpatici, e questo attraeva un gran numero di spettatori.

Uso di intrattenimento – Choe (2019) sostiene che gli spettatori provano gratificazione guardando i Mukbang soprattutto per i “suoni” del cibo prodotti dal mukbanger ad esempio bevendo, masticando, preparando i cibi oppure per i rumori derivanti dall’apertura delle confezioni di cibo.

Woo (2018) sostiene che gli spettatori ottenessero piacere nell’ascoltare tali suoni perché fornivano un’esperienza di Risposta Meridiana Sensoriale Autonoma (ASMR) con sensazioni di formicolio lungo tutto il corpo e un senso di felicità e sollievo. Inoltre, questi suoni aumentavano la sensazione di telepresenza degli spettatori. Schwegler sostiene che il Mukbang potrebbe diventare un’esperienza di ASMR in cui gli spettatori sono più interessati ai suoni prodotti dall’atto di mangiare che al consumo stesso. Ha anche notato il divertimento di coloro che guardano i video semplicemente condividendo le esperienze alimentari degli altri.

Uso alimentare – Kim Hae-jin, dottoranda presso l’Università di Chosun, ha sostenuto che si può soddisfare il desiderio di cibo per procura osservando. D’altronde i mukbanger affermano di essere gli “avatar” del pubblico e che seguiranno esattamente ciò che la gente chiede loro di fare.

A cosa ci si riferisce con l’espressione “mangiare per procura”? Qualcuno mangia al posto nostro dando la soddisfazione di aver mangiato realmente. Hakimey e Yazdanifard (2015) hanno sottolineato che alcuni spettatori, essendo a dieta, avevano bisogno di guardare i Mukbang per avere l’esperienza di mangiare per procura.

Choe (2019), invece, ha sostenuto che alcuni spettatori provavano eccitazione nel vedere il mukbanger mangiare determinati cibi che loro dovevano evitare essendo a dieta. In questo modo chi teneva la trasmissione era in grado di soddisfare le voglie di cibo degli spettatori, dando loro un piacere vicario di mangiare tramite stimoli visivi e audio.

Donnar (2017) ha sostenuto che il Mukbang fosse simile al “food porn” piuttosto che alle immagini di cibo o ai programmi televisivi legati al cibo. Alcuni spettatori a dieta guardavano il Mukbang per soddisfare i loro desideri feticistici tramite il consumo vicario (mukbanger si sostituisce agli altri) poiché dovevano evitare di mangiare. Bruno (2016) ha sostenuto che gli spettatori si sentivano come se stessero mangiando, come se potessero “quasi assaporare il cibo e la conseguente sensazione di sazietà”.

Gallespie (2019) ha sostenuto che la fantasia alimentare (idea di mangiare quanto si desidera senza subirne le conseguenze) è stata una delle motivazioni più importanti che hanno spinto le persone a guardare Mukbang. Gli spettatori sono soddisfatti attraverso la sensazione di abbuffarsi.

Bruno e Chung (2017) sostengono un altro aspetto importante: alcuni spettatori vedevano i mukbangers come delle prostitute che mangiano e consumano qualsiasi cosa gli si chieda in cambio di denaro. Hanno anche affermato che parte del piacere vicario degli spettatori proveniva dalla performance alimentare del mukbanger: era importante che questi mangiasse il cibo che avevano selezionato e desiderato.

In che modo si può soddisfare il piacere vicario di alcuni spettatori (soprattutto quelli a dieta)?

Innanzitutto, il mukbanger deve ingurgitare enormi quantità di cibo malsano, fare suoni forti mentre mangia e mostrare il cibo alla telecamera in modo che risulti il più appetitoso possibile: questo attrae gli spettatori. Inoltre, deve mangiarlo con un godimento abbondante in modo che gli spettatori possano soddisfare se stessi.

Tu e Fishbach (2017) hanno esaminato il fenomeno della sazietà vicaria concludendo che guardare gli altri consumare cibi specifici influenza i desideri degli spettatori verso quei cibi particolari. Hanno condotto 3 esperimenti:

  • il primo esperimento ha indicato che gli spettatori che hanno visto qualcun altro mangiare una pizza desideravano meno pizza rispetto a prima di guardare il video;
  • il secondo esperimento ha dimostrato che gli spettatori che hanno visto qualcun altro mangiare M&M’s hanno posticipato il consumo di tali caramelle e hanno scelto di mangiare un altro prodotto dopo aver visto il video;
  • il terzo esperimento ha mostrato che alcuni spettatori provavano un’attenuazione del desiderio di mangiare un determinato cibo solo se chi mangiava condivideva la loro visione politica.

Dunque è possibile sperimentare una sazietà vicaria quando gli spettatori osservano il consumo degli altri come proprio.

Uso di fuga – (strategia compensatoria di fuga) – Alcuni spettatori guardano i Mukbang come fuga dalla realtà.

Hakimey e Yazdanifard (2015) hanno affermato che alcuni spettatori volevano osservare qualcuno mangiare cibi a cui non potevano accedere essendo, ad esempio, pazienti ospedalieri. Per altri (soprattutto i sudcoreani), guardare qualcuno mangiare era un modo per allievare lo stress causato dallo stile di vita frenetico. Bruno e Chung (2017) sostengono invece che alcuni hanno cercato di sfuggire al senso di colpa e allo stress di essere grassi. Inoltre, gli adolescenti che erano annoiati oppure affamati la sera tardi e che non potevano ordinare da mangiare perché i genitori erano a casa si sono goduti gli spettacoli alimentari di Mukbang come fuga dalla spiacevole realtà.

Quali sono le conseguenze del Mukbang Watching?

Il Mukbang Watching può avere sia conseguenze benefiche (diminuire la solitudine e l’isolamento sociale attraverso la costruzione di una comunità virtuale) sia conseguenze non benefiche (alterazione delle preferenze e delle abitudini alimentari, alterazione delle buone maniere a tavola, promozione di un’alimentazione disordinata basata sull’eccesso e può creare dipendenza).

Spence et al. (2019) sostengono che uno degli aspetti più dannosi del Mukbang è il fatto che il consumo di cibo degli individui potrebbe essere facilmente influenzato dal consumo di altri e questo porterebbe a consumare più cibo del normale. Vedere un altro individuo consumare un pasto abbondante ad alto contenuto calorico può influenzare lo spettatore che sarà poi motivato a causa del confronto sociale o del mimetismo (emulazione).

Secondo Donnar (2017), il Mukbang potrebbe promuovere la diffusione di disturbi alimentari oltre che favorire l’isolamento sociale nella vita reale. Egli ha affermato che, attraverso tale pratica, il rapporto dei sudcoreani con il cibo si è danneggiato anche perché è stato normalizzato il consumo di cibi diversi che non erano storicamente accettati in Corea del Sud (es. fast food occidentale).

Hong e Park (2018) hanno affermato che i mukbanger hanno influenzato la percezione degli spettatori verso il cibo spazzatura, sollecitandoli a godersi pasti che consistevano in cibi surgelati e poco nutrienti (piccanti oppure oleosi e con alto contenuto calorico). Inoltre, il Mukbang Watching ha influenzato negativamente le buone maniere a tavola degli spettatori perché di solito chi tiene la trasmissione strappa il cibo mangiandolo con noncuranza, emette suoni sgradevoli e allo stesso tempo conversa con gli spettatori nonostante la bocca piena.

Un altro aspetto importante analizzato da Hong e Park (2018) è il fatto che il Mukbang potrebbe dare una percezione distorta della magrezza in quanto alcuni mukbanger che erano molto magri consumavano enormi quantità di cibo senza ingrassare. Questo può manipolare la psicologia degli spettatori mettendo in discussione i loro sforzi per rimanere in forma.

Controversie sul Mukbang Watching

In Corea la cultura alimentare si basa principalmente su discussioni legate alla salute e all’etichetta rigorosa: il Mukbang è una pratica che si discosta dall’identità tradizionale. Allora nel luglio 2018 il governo sudcoreano ha annunciato che avrebbe regolato le linee guida Mukbang lanciando le “Misure globali di gestione dell’obesità” perché questa pratica poteva indurre ad abbuffate e danneggiare la salute pubblica. Park (2018) ha riferito che il tasso di obesità in Corea del Sud era passato dal 31,7% nel 2007 al 34,8% nel 2016, dunque il governo avvertiva l’esigenza di monitorare questi spettacoli. I mukbangers, però, si sono opposti sostenendo che “non vi è alcuna correlazione tra mukbang e abbuffate alimentari” e che “il governo sta violando la libertà individuale”. Alcuni genitori, dopo aver visto i propri figli sfidarsi a mangiare tanto quanto il mukbanger, hanno difeso il piano del governo perché sostenevano che il Mukbang potesse influenzare negativamente soprattutto i più giovani attraverso la modellazione di comportamenti scorretti percepiti come socialmente accettabili.

La preoccupazione più grande di due esperti di salute, Uxshely Chotai (fondatore della Food Psychology Clinic, Regno Unito) e il Dr. Naveed Sattar (professore di medicina metabolica all’Università di Glasgow, Regno Unito), è che il Mukbang promuove l’idea che abbuffarsi di cibo sia qualcosa di cui essere orgogliosi.

Shipman (2019), ad esempio, ha menzionato un mukbanger britannico che in un video ha mangiato più di 10.000 calorie di prodotti Lidl in una sola seduta. Vedere qualcuno che si abbuffa di questi cibi malsani potrebbe far sì che gli spettatori percepiscano l’abbuffata come un comportamento normale.

Malm (2014) ha affermato che il Mukbang Watching potrebbe persino trasformarsi in un comportamento di dipendenza per individui soli perché tramite il Mukbang possono comunicare con migliaia di persone.

Conclusioni

Uno degli aspetti più importanti del Mukbang Watching è sicuramente la compensazione dei bisogni sociali non raggiunti nella vita reale. Gli spettatori ottengono gratificazioni sociali guardando questi video e si tratta principalmente di individui soli che, interagendo con una comunità virtuale che condivide gli stessi interessi, tentano di alleviare il loro isolamento sociale. Questo suggerisce che gli individui si impegnano in attività online che facilitano l’interazione sociale (Stafford et al., 2004).

Tramite le piattaforme online è possibile creare forti amicizie e relazioni emotive perché le persone si sentono in grado di esprimersi in modi che non li fanno sentire a proprio agio nella vita reale (Cole e Griffiths, 2007).

Inoltre, si crea una vera e propria connessione emotiva tra l’emittente e gli spettatori e questo rende i video online delle vere e proprie forme elettroniche di intimità (Liu et al., 2013; Rosen, 2012).

Un altro aspetto è l’uso sessuale del Mukbang. Questa pratica sessualizza i corpi delle donne in un modo che alcuni spettatori sono più concentrati sul mukbanger che sul cibo che viene mangiato (Donnar, 2017; Schwegler Castañer, 2018). Il Mukbang ha il potenziale per essere un’attività sessuale vera e propria perché l’eccitazione sessuale è correlata con l’attrattiva fisica della persona osservata (Sigre-Leirós et al. 2016).

Anche i mukbanger uomini possono essere osservati per la gratificazione sessuale.

Joyal et al. (2015) sostengono che alcuni individui possono combinare gratificazioni sessuali e alimentari e formare un unico tipo di fantasia (feederismo).

Il Mukbang viene utilizzato anche a scopo di intrattenimento e questo concorda con gli studi che confermano l’utilizzo dei social come intrattenimento (Horzum, 2016). Alcuni mukbanger, per intrattenere i loro spettatori, si propongono sfide alimentari come ad esempio terminare una determinata quantità di cibo in un periodo di tempo molto breve; altri, invece, hanno comportamenti bizzarri e imprevedibili accompagnati da stili alimentari estremi (Hong e Park, 2018).

Tramite la pratica del “mangiare per procura”, le persone a dieta possono soddisfare il loro desiderio di cibo, provare la sensazione di abbuffarsi e avere una sazietà vicaria tramite la stimolazione audiovisiva (Choe, 2019). Questo serve come compensazione di atti che un individuo non compirebbe mai nella vita reale e/o come realizzazione di esperienze note riguardanti l’atto osservato tramite l’attivazione di un ricordo (Brennan, 2017).

L’uso del Mukbang come fuga dalla realtà è praticato principalmente da: 1) pazienti ospedalieri; 2) coloro che hanno stili di vita frenetici; 3) coloro che hanno un senso di colpa e stress sull’essere grassi; 4) coloro che sono annoiati. Dunque la fuga dalla realtà serve per affrontare situazioni spiacevoli ma a volte può allontanare così tanto che non ci si rende più conto dei reali problemi che si devono affrontare (Hong e Park, 2018).

Nel presente articolo sono state illustrate le conseguenze sia positive che negative di questo fenomeno. C’è un’ultima conseguenza negativa, ovvero quella che il Mukbang potrebbe creare dipendenza e c’è un solo articolo di giornale che sostiene questo aspetto. Compensare bisogni sociali non raggiunti utilizzando un’attività online potrebbe promuovere un uso dipendente di tale attività (Kardefelt-Winther 2014) e renderla davvero problematica. Ad esempio, gli individui che percepiscono il Mukbang come fantasia sessuale potrebbero diventare spettatori problematici e sviluppare una dipendenza riguardo le attività sessuali online (Wéry e Billieux 2016) oppure coloro che sono a dieta e hanno diversi disturbi alimentari possono anche diventare osservatori eccessivi di Mukbang che, guardando gli altri abbuffarsi, soddisfano il loro piacere vicario di mangiare. In generale, coloro che riescono a sfuggire alla loro spiacevole realtà guardando i Mukbang potrebbero diventare spettatori problematici di Mukbang.

Sebbene questo fenomeno sia diffuso da più di un decennio, si conosce molto poco su di esso. Siamo a conoscenza di alcuni usi, di alcune conseguenze (sia positive che negative), ma conoscere a fondo il Mukbang potrebbe essere importante per limitarne le conseguenze disastrose che può avere, come comportamenti sessuali problematici, dipendenza da Internet e disturbi alimentari.

Ci sono alcune strategie terapeutiche di successo che possono essere utilizzate per ridurre questi problemi. Ad esempio, forme specifiche di terapia cognitivo-comportamentale sono risultate efficaci per trattare disturbi alimentari sia a breve che a lungo termine (Brownley et al., 2016) oppure, allo stesso modo, la terapia cognitivo-comportamentale di gruppo è stata utilizzata con successo per ridurre i comportamenti sessuali compulsivi (Sadiza et al., 2011). Tutte queste strategie potrebbero essere utilizzate anche per i problemi legati al Mukbang Watching. Articolo tratto dagli scritti di Kagan Kircaburun et al. (2021).

 

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