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Quant’è bello lu primm’ammore… “Primi Amori. Uno, nessuno e centomila” (2021) di Umberta Telfener – Recensione

Primi Amori è un libro molto godibile e di facile lettura; prosegue l’indagine sulla fenomenologia delle relazioni affettive a cui l’autrice ha dedicato altri scritti rivolti ad un pubblico ampio.

 

Avviso ai lettori. Conosco personalmente da diversi anni l’autrice di questo volume. Non posso definirmi proprio un suo amico, ma, essendo entrambi didatti di scuole di formazione ad orientamento sistemico-relazionale, ho avuto modo di ascoltarla in tanti convegni e di incontrarla in occasioni informali. Ne apprezzo la competenza clinica ma anche la facilità al racconto, la disponibilità generosa verso colleghi e allievi, la carica vitale. Ho letto con grande interesse, su suo suggerimento, gli articoli in cui descrive le sue esperienze con sciamani, stregoni e altri guaritori avvenute negli anni in diversi continenti.

Quindi, posso risultare di parte e non sono neutrale. D’altro canto, l’obiettività assoluta è ormai da molti riconosciuta come un miraggio e, quale che sia il rapporto con l’autore, una recensione è sempre espressione di una soggettività.

Il libro è molto godibile e di facile lettura. Prosegue l’indagine sulla fenomenologia delle relazioni affettive a cui l’autrice ha dedicato altri scritti rivolti ad un pubblico ampio (Tra gli ultimi: “Gli amori briciola” e “Letti sfatti”). Non è scritto in “psicologhese” e le tante descrizioni delle esperienze personali, raccolte direttamente dalla Telfener o reperite in rete, costituiscono il punto di partenza da cui si dipana il ragionamento dell’autrice. Nato durante i mesi di isolamento che hanno accompagnato il primo anno di pandemia, occuparsi di amore è stato per la scrittrice un bel modo di allargare i propri confini. Il libro è strutturato in tre parti: la prima concerne le idee e i modelli, veicolati dalla letteratura e dai mezzi di comunicazione di massa, che ci organizzano attorno al tema del primo amore; la seconda contiene le tante testimonianze, tutte italiane, di persone che raccontano le proprie esperienze affettive e sessuali; la terza è dedicata allo svelamento della trama psicologica propria dell’esperienza dell’innamoramento.

I primi amori si declinano in tante modalità, non sono affatto un’esclusiva degli adolescenti. Anzi, come racconta una donna intervistata, esistono tanti primi amori per quante relazioni importanti si sono avute nella vita.

Particolarmente interessanti i capitoli dedicati all’innamoramento e su ciò che ci attrae dell’altro, le pagine dedicate alle differenze attuali tra donne e uomini, al ruolo della famiglia d’origine e delle idealizzazioni. Ogni volta che ci si innamora è sempre una “prima volta”.

Dopo la lettura del libro viene da chiedersi se il primo amore contiene un imprinting relazionale, ovvero un modello di rapporto che continueremo a impiegare tutta la vita. Oppure si cresce e si cambia? È possibile imparare dai propri errori in campo sentimentale? Certo che sì. Mi pare sia questa la risposta di Umberta, che comunque ci tiene a ricordarci come nei confronti dell’innamoramento siamo tutti dei dilettanti, quale che sia la nostra età, la nostra cultura, le nostre esperienze pregresse.

In ogni caso, quello che è certo è che per lei amore non ha nulla a che vedere con possesso. Anzi, questo costituisce uno dei nemici principali dell’amore. Leggendola, a tal proposito, mi è venuto in mente un aneddoto che raccontava Paolo Menghi. Presente in una chiesa durante la cerimonia della prima comunione di un gruppo di bambini, egli affermava che era facile indovinare chi fossero i parenti di ciascun bambino. Il sacerdote li aveva preparati molto bene e a turno salivano sull’altare per declamare un proprio pensiero o una personale preghiera. Ogni volta che un bambino parlava, c’era un gruppetto di persone che si commuoveva e poi si rimetteva a posto, magari nascondendo le lacrime con un fazzoletto, quando il bambino terminava. A quel punto, ascoltandone un altro, in un’altra navata iniziava lo stesso movimento tra un altro gruppo di persone. Menghi notava come in genere tutti si commuovessero ascoltando il proprio congiunto mentre tendevano a distrarsi ascoltando gli altri. Ma in realtà tutti i bambini erano splendidi, nel loro uguale impegno. Eppure nessuno riusciva a godere della grazia di tutti ma solo del proprio figlio o nipote. Maledetto possesso, quanta bellezza sprecata…

Imparare ad amare ciò che ci circonda, fino all’Universo intero, è dunque anche il messaggio con cui si chiude il libro. Ma serve disciplina e perseveranza per poter vivere un perenne primo amore, fatto di curiosità, apertura e fiducia.

Esiste una relazione fra teorie del complotto e tratti disfunzionali di personalità? Uno studio su giovani inglesi

Le teorie del complotto sono definite come narrazioni essenzialmente false in cui si ritiene che più agenti stiano lavorando insieme verso fini malevoli.

 

Douglas et al. (2019) notano che si tratta di tentativi di spiegare le cause ultime di eventi sociali e politici significativi mediante affermazioni di complotti segreti riguardanti due o più agenti potenti. Il numero copioso di persone che dà credibilità alle teorie del complotto ha attirato una grande quantità di ricerche.

Da uno studio recente è emerso che credere alle teorie del complotto è associato a una serie di caratteristiche dei disturbi di personalità e sintomi psicopatologici (Bowes et al., 2021).

Teorie del complotto, sospettosità e pensieri insoliti

È stato riportato che le teorie del complotto aiutano a dare un senso agli eventi che vengono considerati confusi, difficili da comprendere o mal spiegati dalle fonti di informazione tradizionali. Possono esistere, inoltre, tratti cognitivo-percettivi disadattivi che contribuiscono alla formazione o al mantenimento delle teorie del complotto (Van Elk, 2015).

Alcuni studi hanno esplorato il legame tra credenze alle teorie del complotto e tratti come la paranoia, l’ideazione magica e la credenza al paranormale, trovando associazioni positive tra la credenza alle teorie del complotto e la schizotipia (Darwin et al., 2011; Swami et al., 2016). In particolare, hanno suggerito che i tratti di sospettosità visti negli individui ad alto contenuto schizotipico possono portare a non credere alle fonti di informazione ufficiali o mainstream. Goreis e Voracek (2019) hanno notato che le teorie del complotto fanno appello a coloro che si sentono disconnessi dalla società, infelici della loro vita e che hanno una visione del mondo che include convinzioni, esperienze e pensieri insoliti.

Teorie del complotto e tratti di personalità

Lo studio di Furnham e Grover (2021) ha esplorato la relazione tra la credenza alle teorie del complotto e i disturbi di personalità. Allo studio hanno partecipato 450 individui britannici mediamente ventinovenni, di cui 240 uomini. Il grado di educazione riscontrato fra i partecipanti era: 31% diploma di scuola superiore, 36% diploma di laurea e 19% diploma post laurea. Inoltre il 73% dei partecipanti si è dichiarato per niente religioso ed il 4% molto religioso. I soggetti dello studio sono stati reclutati online, utilizzando la piattaforma “Prolific” e garantendo l’anonimato dei dati. La ricompensa stabilita per la partecipazione era di £1.50. Per verificare le ipotesi di partenza sono stati utilizzati quattro questionari self-report. Le informazioni riguardo alla personalità sono state raccolte utilizzando il “Coolidge Axis-II Inventory – Short Form” (SCATI) (Coolidge, 2001) ed il “Structured Assessment of Personality Abbreviated Scale” (SAPAS) (Moran et al., 2003). Il primo fa riferimento ad un approccio categoriale, ovvero legato ai criteri diagnostici proposti nel DSM, il secondo ha una natura dimensionale e meno strutturata. Per misurare le credenze legate alle teorie del complotto è stata usata la scala a 15 item “Belief in Conspiracy Theories” (BCTI) (Swami et al., 2010, 2011). In questa fase i partecipanti hanno valutato la validità delle cospirazioni in una scala a 9 punti in cui 1 equivaleva a “completamente falso” e 9 “completamente vero”. Il quarto test proposto è “Intelligence” (Grover, 2018), un questionario a 10 item per valutare il quoziente di intelligenza, basato anche sulle conoscenze culturali dei soggetti (es. “Qual è l’unità di misura dell’intensità del suono?”). Infine, per valutare il livello di autostima, è stato chiesto ai partecipanti di attribuire un punteggio da 0 a 100 in cui 0 indicava “Molto bassa” e 100 “Molto alta” (Furnham & Horne, 2021).

Le correlazioni positive emerse dallo studio di Furnham & Grover (2021) dimostrano che le teorie del complotto possono essere associate ad una vasta gamma di disturbi. Risultano di particolare rilevanza le relazioni fra tratti sadici e teorie del complotto e tratti autolesionisti e teorie del complotto. La prima può essere spiegata dal desiderio di spaventare e intimidire gli altri mentre la correlazione tra tratti autolesionisti e teorie del complotto potrebbe essere motivato dall’insieme di negatività, tristezza e preferenza per le persone che portano alla delusione, al fallimento o al maltrattamento associabili a questo tipo di tratti. I risultati hanno dimostrato che i cluster di ordine superiore sono i predittori più chiari delle teorie del complotto, soprattutto il cluster A il quale comprende il disturbo paranoide, schizoide e schizotipico di personalità. Le caratteristiche comuni di questi disturbi sono l’inibizione sociale, il ritiro sociale, la predominanza del pensiero distorto ed una mancata sincronia con il mondo circostante (Esterberg et al.,2010). Altre due variabili correlate alle teorie del complotto sono: il grado di istruzione e l’intelligenza (QI). Nello specifico sembrerebbe che le persone più istruite siano più scettiche, meno religiose e pertanto meno attratte dalle teorie del complotto (Goreis & Voracek, 2019). Pertanto, si pensa che l’istruzione e la formazione siano tra gli strumenti migliori per contrastare la diffusione delle credenze nelle teorie del complotto. La scala SAPAS (Moran et al., 2003) non ha fornito dati significativamente utili per la ricerca. Ciò suggerisce che brevi misure di screening dei disturbi di personalità non sono sufficientemente utili per esplorare la relazione tra disturbi di personalità o tratti patologici e teorie del complotto. Il presente studio presenta potenzialmente dei limiti quali la trasversalità, l’autosomministrazione dei test, l’impossibilità di dedurre il rapporto di causalità fra le variabili e sovrastime legate alle statistiche. Gli autori suggeriscono per le ricerche future sulle teorie del complotto di esplorare ulteriori variabili di personalità non precedentemente implicate nella ricerca (Furnham & Grover, 2021).

 

Bias Vs campagna di vaccinazione. Il ruolo del ragionamento: indecisi e determinati.

L’emergenza da Covid-19 e la conseguente campagna vaccinale ha fatto emergere diversi giudizi e valutazioni circa l’utilità del vaccino. In questo articolo si descrivono alcuni processi cognitivi sottesi alle diverse reazioni.

 

Il 27 dicembre 2020, abbiamo assistito al “Vaccine day”, giornata che ha sancito ufficialmente l’inizio della campagna vaccinale per contrastare la pandemia da Covid-19.

Per più di un anno la campagna vaccinale ci è stata presentata come l’unica risoluzione al panico generatosi in seguito alla diffusione del virus. Diverse sono state le reazioni psicologiche della popolazione, non obbligata dal Decreto del 12 marzo 2021 a vaccinarsi, e le valutazioni personali sono state connotate – a nostro avviso – da una allarmante miopia cognitiva.

Di conseguenza, alcuni cittadini si sono adoperati alla ricerca di un antidoto, altri si sono nascosti o sottratti, negandone l’efficacia o dissertandone sulla rete. Altri ancora ne hanno sostenuto l’efficacia, e si sono sentiti privilegiati di essere reclutati tra coloro che potevano o avrebbero dovuto sottoporvisi; altri, invece, hanno temuto di andare incontro a potenziali danni per la propria salute.

Queste reazioni, a nostro avviso, potrebbero essere connesse alla campagna europea di vaccinazione, contraddittoria e spesso enfatica, nonostante la sua finalità rassicurante.

Ci riferiamo ad esempio agli allarmismi e alle fake news circolate anche nella rete. Abbiamo visto sottoporsi a vaccinazione prima i vulnerabili e le fasce protette, e poi file di pensionati vaccinati e gli insegnanti in lista di attesa, quotidianamente esposti al rischio: un “pandem-onio”! Non ultimi i lotti fallati e le alterne valutazioni su alcune tipologie di vaccino. Si disegna dunque una psicologia emotiva contraddittoria che si muove da un lato tra paura, ansia, rabbia e dall’altro, ottimismo, entusiasmo, speranza.

Di fronte al vaccino diverse sono state le credenze attivatesi: ci riferiamo a delle modalità di ragionamento riguardanti la salute, il benessere personale e comune, e più in generale l’approccio alla vita, alla malattia e all’emergenza.

I bias relativi alla campagna vaccinale

Tversky & Kahneman (1974) hanno teorizzato l’esistenza di una serie di bias cognitivi che possono indurre in errori di ragionamento, ovvero distorsioni nelle valutazioni o nel processo decisionale. Si tratta di distorsioni cognitive inconsapevoli che a volte ci inducono a prendere decisioni irrazionali anche quando siamo convinti di aver valutato accuratamente una questione. Un bias è definito nello specifico come un errore di valutazione o mancanza di oggettività di giudizio di fronte ad una scelta, una situazione o una questione che prende origine da informazioni che si hanno in possesso e da cui si inferiscono giudizi, pregiudizi e ideologie.

Tuttavia, non è possibile rimuovere i bias dal funzionamento della nostra mente; è possibile analizzarli a posteriori in modo tale da verificare le diverse valutazioni sulla realtà e prevenire eventuali effetti distorsivi.

Per quasi tutto il Novecento, mentre si diffondevano gravi malattie infettive anche nei paesi industrializzati, le campagne di vaccinazione erano considerate una soluzione miracolosa. Oggi, in relazione all’opportunità offertaci dal piano di vaccinazione nazionale, osserviamo una diffusione di bias cognitivi che sembrano frenare la propensione alla vaccinazione.

Nel secolo scorso, grazie all’interazione tra il bias della disponibilità (Tversky & Kahneman, 1973), ovvero la tendenza che porta a formulare giudizi sulla base degli esempi e/o delle informazioni più disponibili che più facilmente e vividamente vengono alla mente, e il bias della riprova sociale (Cialdini  1984), tendenza a ritenere maggiormente validi i comportamenti o e le scelte che vengono effettuati da un elevato numero di persone), quasi nessuno sviluppava un atteggiamento critico nei confronti della vaccinazione su larga scala.

Dando uno sguardo al passato, come possiamo spiegarci che i vaccini – forse i rimedi più efficaci e sicuri che la scienza abbia mai scoperto e garantito – siano diventati così allarmanti al punto da indurre milioni di genitori nel mondo a non proteggere i propri figli da malattie molto gravi?

Analizzando il fenomeno, possiamo osservare come sia già accaduto che si diffidasse del vaccino; ad esempio nel febbraio del 1998 il medico inglese Andrew Wakefield avanzò l’ipotesi che la vaccinazione trivalente potesse causare l’insorgenza di autismo. L’annuncio ebbe una significativa risonanza mediatica e milioni di genitori entrarono in allarme. Sulla scia del bias della disponibilità, l’allarme divenne forte alimentando il dilemma: vaccinare o non vaccinare i propri figli? Spinti dal bias di omissione, molti genitori scelsero di non farlo, seguendo una linea di ragionamento omissiva: in caso di incertezza o di dubbio, meglio non agire piuttosto che ad agire.

Un altro bias senz’altro contribuì ad alimentare l’allarme. Spesso l’insorgenza dell’autismo corrispondeva temporalmente alla somministrazione della vaccinazione. Ciò portò molti genitori ad inferire un nesso di causalità fra vaccino e autismo: “se l’autismo si manifesta poco dopo la vaccinazione, allora il vaccino deve esserne stato la causa”.

Tuttavia, ad oggi sappiamo, che si tratta di due eventi separati ed indipendenti, ma l’illusione di causalità fece sembrare questo legame molto plausibile e probabile. In moltissimi genitori la paura si consolidò in una convinzione sempre più radicata, alimentando uno dei bias più potenti di cui spesso siamo vittime: il bias di conferma (Wason 1960). Si tratta della tendenza a cercare, a credere e a ricordare informazioni che confermano una nostra convinzione, e a rifiutare, non credere o dimenticare quelle che la possono smentire (Nickerson, 1998; Oswald, & Grosjean 2004) e dunque confermare una ipotesi tramite prove a favore invece che prendere in considerazione evidenze contrarie. A sommarsi intervenne l’effetto Dunning-Kruger, un bias cognitivo che porta a sovrastimare le proprie competenze in uno specifico ambito, anche se pur debolmente in nostro possesso.

Attualmente la società è spaccata tra indecisi e determinati. Per questo motivo può essere utile confrontarsi con diversi bias che possono condurre a valutazioni erronee circa l’efficacia della vaccinazione e dunque far luce sui bias degli “indecisi”.

Mai come in questo momento storico, la disponibilità di un vaccino efficace rappresenta un rimedio indispensabile: ecco il bias della disponibilità di nuovo in azione!

Tra gli errori di ragionamento, possiamo annoverare il bias di conferma. Ciascuno di noi è portato ad attribuire maggiore credibilità alle informazioni che confermano le proprie convinzioni e ad evitare informazioni che le contraddicano. Si tratta di una modalità di ragionamento che porta a far riferimento alle sole informazioni che alimentano i propri punti di vista preesistenti (“negazionisti – complottisti”). La conseguenza di questo errore comporta una conferma delle nostre decisioni o convinzioni, piuttosto che la loro messa in discussione: “Se hanno iniziato a dire che AstraZeneca ha esiti avversi è proprio vero quanto pensavo…”. Questa affermazione non è supportata da un punto di vista scientifico, piuttosto è una rappresentazione della realtà che conduce ad ignorare o sottostimare gli eventi che confuterebbero la propria posizione preesistete. Inoltre, questo errore, può essere alimentato anche dal “bias del pavone”, inteso come la tendenza a mostrare maggiormente i successi rispetto ai fallimenti o, d’altra parte, a ignorare questi ultimi.

Alla luce di quanto indicato precedentemente, appare interessante riflettere anche sul bias di omissione, errore che porta a fare scelte che comportano l’omissione anziché l’azione, anche quando vi è un’esposizione a rischi oggettivamente elevati per la salute, in questo caso il contagio. La paura o il timore di commettere una scelta potenzialmente errata o dannosa porterebbero, infatti, ad assumere una posizione passiva, tale da sperimentare un rimpianto minore qualora l’esito fosse la morte o il rischio per la propria salute. Di fronte al dubbio che la vaccinazione possa causare esiti avversi, si decide quindi di non vaccinarsi, sottoponendosi a rischi di gran lunga maggiori in termini di probabilità. In situazioni di una scelta valutata come “rischiosa”, chi deve decidere se vaccinarsi o meno si confronta con l’alternativa tra azione concreta e omissione, tendendo a scegliere l’omissione in assenza di informazioni per sé valutate come rassicuranti: “Non ho informazioni rassicuranti… se dovessi vaccinarmi non mi perdonerei o accetterei mai un’eventuale reazione avversa”. Tuttavia anche il non vaccinarsi è in realtà una scelta assai più rischiosa: corrisponde, infatti, alla scelta di non proteggersi dall’epidemia.

Si aggiungono il bias di ancoraggio o la trappola della relatività, ossia la tendenza a creare una propria realtà soggettiva, non corrispondente alle evidenze, sulla base di interpretazioni in possesso che portano ad un errore di valutazione o ad una non oggettività di giudizio. L’errore, pertanto, comporta un ancorarsi ad un valore che viene poi utilizzato arbitrariamente come termine di paragone per le valutazioni in atto, invece che basarsi sul valore assoluto (“Dopo la vaccinazione, pochi sono deceduti, ed altri hanno rischiato la trombosi”). Pertanto, non vengono valutati gli esiti positivi. Ciò si ricollega alle correlazioni illusorie (Hamilton e Guifford, 1976), ovvero all’attribuzione di relazioni tra variabili seppur non esistenti: “dopo il vaccino ho iniziato a sentirmi più stanco, più debole, più vulnerabile”. Anche queste affermazioni non si basano su statistiche dei dati, ma su una valutazione erronea che, se due eventi sono legati a livello temporale, allora possono essere connessi da un rapporto di causa-effetto. Tale modalità definita “Correlation is not causation” pone enfasi su come due eventi correlati temporalmente non sono necessariamente uno causa dell’altro e, dunque, che la correlazione non implica causalità. Il nostro cervello è sempre alla ricerca di spiegazioni per comprendere la realtà, pertanto, in una situazione avversa come la pandemia, sarebbe opportuno non effettuare una valutazione partendo da un caso singolo, ma affidarsi a ciò che la scienza ritiene attendibile.

Infine, si è avuto modo di riscontrare la presenza dell’euristica della disponibilità. Le persone tendono a sovrastimare le informazioni che sono loro maggiormente disponibili o che appartengono ad una cerchia di persone “vicine”.

In questo caso quindi, oltre all’impossibilità di verificare la veridicità delle informazioni, si tende a considerarle superiori a tutte quelle che possono mitigarne l’effetto. Il risultato è quello di estremizzare il dato, nonché di considerare il vaccino pericoloso e, quindi, di evitarlo. È sicuramente inevitabile non lasciarsi coinvolgere dalle persone vicine: il problema è lasciare all’emotività il controllo su decisioni importanti che possono decretare un rischio la propria salute.

In questi mesi, a seguito dell’attenzione da parte dei media di poche gravi reazioni avverse, abbiamo osservato come intere fasce di popolazione si siano rifiutate di sottoporsi alla vaccinazione con AstraZeneca, attivando anche un bias di informazione selettiva, sulla base del quale ogni elemento statisticamente irrilevante assume invece una notevole importanza a favore delle proprie credenze di diffidenza e paura circa gli effetti collaterali del vaccino.

Campagna vaccinale e decision making

Queste considerazioni conducono certamente alla maggiore comprensione di taluni fenomeni, ed evidenziano come i processi di valutazione e la presa di decisione siano influenzati da ingredienti emotivi.

È noto, infatti, come l’emozione guidi e influenzi i processi cognitivi, e dunque i giudizi, quando sono vissuti come fonte di informazioni rilevanti per il giudizio (Clore, 1992; Schwarz & Clore, 1988, 1996). Alcuni processi come l’Emotional Reasoning (Arntz et al, 1995; Mancini  e Gangemi, 2004) e l’Affect-as-Information, sono due  termini per descrivere un medesimo meccanismo psicologico in grado di mantenere nel tempo valutazioni e comportamenti disfunzionali, che espongono ad inferire una condizione di pericolo/timore a partire dal proprio stato emotivo negativo, validando erroneamente pensieri e credenze relativi alla presenza di pericoli o impedimenti, che a loro volta vanno ad amplificare l’emozione di partenza. Si tratta di processi attraverso i quali gli esseri umani tendono ad utilizzare il proprio stato affettivo, più che delle evidenze oggettive, come informazione saliente per esprimere valutazioni sul mondo, meccanismo che non è soltanto tipico di processi psicopatologici, ma che tutti viviamo nella quotidianità. Un esempio pertinente per questo articolo può essere: “Se mi sento preoccupato e in ansia, allora vuol dire che il vaccino ha qualcosa di pericoloso”.

Appare interessante riflettere sul ruolo del ragionamento emozionale come fenomeno che guida coloro che, nonostante le numerose evidenze empiriche riguardo i vantaggi della vaccinazione (alcuni studi escludono fenomeni avversi anche a lungo termine), continuano a non vaccinarsi sulla base di un vissuto emotivo di paura, che guida la loro valutazione e il conseguente comportamento, sino a generare credenze arbitrarie relative al vaccino, talvolta persino di tipo complottistico.

La paura, il ragionamento emozionale e l’affect-as-information sottolineano quanto sia diffusa la resistenza al cambiamento a causa del ruolo cruciale svolto da alcune credenze nella genesi e nel mantenimento della sofferenza psicologica.

Certamente, a mantenere questo tipo di funzionamento, intervengono fattori ambientali di ambivalenza e scarsa chiarezza da parte della campagna vaccinale.

Ma è importante tener presente che i bias rispetto al vaccino possono essere certamente influenzati dalla tendenza ad affidarsi a processi di ragionamento influenzati dalle emozioni, alle euristiche, ad orientarsi verso una teoria complottista/negazionista o della cospirazione, che inficia una narrazione corretta sulla vaccinazione.

Appare interessante riflettere anche sul confine fra la psicologia dei no-vax e i quadri di fobia in cui osserviamo il ragionamento emozionale e/o simil ossessivo e l’evitamento esperienziale, messi in atto allo scopo di azzerare qualsiasi tipo di rischio, accettando un rischio di malattia maggiore.

Infine, anche l’obiezione relativa alla costrizione e alla democrazia di poter scegliere di non farlo, reclamano sia un senso di non accettazione, che riscontriamo nei profili ansiosi, sia credenze di specialità e diritti straordinari, che contraddistinguono quadri di narcisismo covert.

Riteniamo che una comunicazione corretta sull’utilizzo dei vaccini possa avvalersi delle competenze dello psicologo, al fine di garantire una comunicazione scevra da allarmismi, che neutralizzi le credenze negative rispetto ad esiti indesiderati.

 

Victim blaming: l’oscuro fenomeno degli abusi sugli uomini

La colpevolizzazione della vittima, fenomeno noto come victim blaming, può essere immaginato come un’esperienza estremamente negativa, caratterizzata dalla tendenza a biasimare chi ha subito reati o ingiustizie, ritenendolo parzialmente o totalmente responsabile di quanto patito.

 

Tale fenomeno trova spesso terreno fertile quando si tratta di violenze sessuali: il timore di essere sopraffatti dai giudizi negativi altrui può impedire alle vittime di denunciare e cercare aiuto formale o informale (Meyer, 2016); alcune narrative rivelano il timore delle vittime di essere colpite rispetto alla propria reputazione, ad esempio credendo di essere state responsabili della violenza subita o di essere giudicate in un’ottica moralista (Pagliaro et al., 2021).

Assieme al fenomeno del victim blaming, un’altra tendenza negativa nei confronti delle vittime è quella dei miti sullo stupro, ovvero atteggiamenti e credenze che, nonostante siano false, vengono mantenute solidamente a livello sociale, e che hanno la funzione di negare e giustificare le aggressioni sessuali (Lonsway & Fitzgerald, 1994, p.134). Le conseguenze del tramandarsi di questi miti includono l’accettazione e normalizzazione dello stupro, la possibilità da parte dell’abusante impunito di perpetrarlo nuovamente e, soprattutto, un ridotto supporto alle vittime con rischi di vittimizzazione secondaria da parte della legge (Bohner et al., 2006). La vittimizzazione secondaria si origina proprio quando le istituzioni danno vita a incomprensioni, pregiudizi, stereotipi nei confronti della vittima, costringendola a rivivere in parte la sofferenza già provata al momento dell’abuso.

Abusi sessuali con vittime maschili

Se questi fenomeni sembrano essere fortemente presenti in tema di abusi sessuali sulle donne, sembrerebbero ancora più pregnanti nei confronti delle vittime maschili di stupro (Turchik & Edwards, 2012): il numero oscuro delle statistiche aumenta vertiginosamente, oltre ad una quasi assenza di dati sui diversi motori di ricerca.

All’interno di una cultura occidentale che identifica fortemente il genere maschile con l’idea di virilità, contemplare la possibilità che anche gli uomini possano essere stuprati diviene di difficile accettazione da parte dell’intera società. La letteratura scientifica presenta diversi studi sui rape myths rispetto agli abusi sulle donne (Payne et al., 1999; Burt, 1980), ma ve ne sono altrettanti nella sfera maschile, come ad esempio la falsa credenza che gli uomini non possano essere violentati, che debbano essere biasimati o che non riportino traumi a lungo termine (Struckman-Johnson & Struckman-Johnson, 1992), i quali affondano le proprie radici proprio nel tipo di cultura appena esposta. Anche in questo caso, la stigmatizzazione che viene associata alle vittime maschili di abusi sessuali non viene perpetrata solamente dalla cultura e dalla società, ma anche da parte della giustizia, spesso condizionata da preconcetti (Javaid, 2017).

Questo sostrato socio-culturale alimenta la scarsa apertura delle vittime maschili nella ricerca di supporto psicologico; scarse sono anche le denunce e dunque l’opportunità di accesso ad aiuti per il timore di non essere creduti o di essere incolpati o stigmatizzati (Hancock et al., 2021; Masho & Alvanzo, 2010).

Conseguenze del victim blaming nei casi di vittime maschili

La mancanza di accesso ad agenzie di supporto specificamente dedicate alle vittime di abuso determina un tentativo da parte delle stesse di ritrovare rimedi autonomi, con conseguenze spesso disastrose, come ad esempio l’abuso di alcol come tentativo di autocura per abbassare i livelli di ansia e sopportare la sofferenza (Rehan et al., 2017). La letteratura scientifica mostra inoltre che, se l’abuso sessuale avviene in età infantile, esso è associato ad una maggiore insorgenza di disturbi dell’umore, ansia, disturbo da stress post-traumatico, uso di sostanze, disturbi di personalità e disturbi alimentari (Afifi et al., 2017).

Diversi studi hanno sottolineato che anche la sintomatologia sarebbe influenzata da una sorta di adesione ad aspettative di ruolo e di genere: nel 1996 Rutz ha teorizzato l’esistenza di una “modalità maschile di essere depressi”, connotata appunto da un abuso smodato di alcol e tentativi di suicidio; altri studi hanno integrato tale modalità con un pattern comportamentale particolarmente improntato al rischio, alla rabbia ed all’aggressività, identificando una sorta di fenotipo maschile depressivo (Rice et al., 2021).

Alla luce di quanto emerso, e soprattutto di quanto ancora oggi resta oscuro alle statistiche, alla letteratura e all’intera collettività rispetto al tema dell’abuso sessuale sugli uomini, appare fondamentale convogliare tutti gli sforzi per aumentare la consapevolezza rispetto all’esistenza di tale realtà, assieme all’abbattimento degli stigmi di genere. L’identificazione di tali crimini, e soprattutto di chi li ha subiti, può aiutare nell’elaborazione, nel superamento e nel miglioramento della qualità della vita, data la sofferenza che tale problematica comporta in chi ne è vittima.

 

La seconda giovinezza della terapia di esposizione. Modello concettuale e modalità operative – Recensione

La seconda giovinezza della terapia di esposizione, oltre a fornire una descrizione dettagliata dei meccanismi neurali sottostanti l’estinzione, descrive la reinterpretazione cognitiva del processo di estinzione e le sue influenze sulla terapia. 

 

Uno dei grandi meriti di questo volume, come indicato dal professore Giampaolo Robert Perna nella prefazione, è la definizione chiara e operativa del meccanismo dell’apprendimento inibitorio e la spiegazione dei vari strumenti operativi da utilizzare nella pratica clinica.

Il volume La seconda giovinezza della terapia di esposizione prende in considerazione i cambiamenti nella concettualizzazione e nella consegna della terapia di esposizione che si sono registrati negli ultimi anni. Parte dalle origini e finisce con il descrivere il nuovo modello di funzionamento dell’esposizione, secondo il quale la terapia agirebbe mediante la creazione di nuove memorie inibitorie rispetto a quelle eccitatorie di paura.

Per il nuovo modello definito di “apprendimento inibitorio”: l’esposizione non comporterebbe una vera e propria cancellazione della memoria originaria di paura, come si riteneva in passato, ma determinerebbe, invece, la formazione di una nuova memoria che interferirebbe con quella eccitatoria e con la sua espressione, una “memoria antagonista e inibitoria”.

Il volume, oltre a fornire una descrizione dettagliata dei meccanismi neurali sottostanti l’estinzione, descrive questa reinterpretazione cognitiva del processo di estinzione e le sue influenze sullo sviluppo e potenziamento della terapia.

Le principali tecniche proposte sono così divise:

  • strategie per massimizzare la “formazione” dell’apprendimento inibitorio (etichettamento delle emozioni e violazione delle aspettative);
  • strategie per massimizzare il “consolidamento” dell’apprendimento inibitorio (distribuzione del carico espositivo, riposo e sonno);
  • strategie per massimizzare il “recupero” dell’apprendimento inibitorio (contesti multipli, spunti di recupero e umore positivo).

In sostanza, l’esposizione condotta con un approccio inibitorio è finalizzata prevalentemente a creare errori di predizione violando al massimo l’aspettativa del paziente.

Il testo prende in considerazione aspetti specifici che riguardano gli adolescenti, i bambini e la fase di assessment.

Sono riportati, inoltre, casi clinici con numerosi esempi di applicazione per una serie di disturbi.

Una sezione importante del libro è dedicata agli studi e alle ricerche sul tema.

Fino a qualche decennio fa, l’idea sulla memoria era focalizzata sui concetti di consolidamento e indelebilità dei ricordi emotivi; in altre parole la memoria, una volta formata e consolidata, veniva considerata indelebile nel cervello. Oggi, però, sappiamo che il recupero di un ricordo induce un processo di riconsolidamento, in quanto il ricordo recuperato viene reso nuovamente labile e sottoposto a un nuovo consolidamento. Proprio questa finestra di riconsolidamento offre l’opportunità di riorganizzare la memoria esistente in funzione di nuove informazioni, un aggiornamento dovuto a una mancata corrispondenza di aspettative e previsioni rispetto al ricordo originario.

Alcune strategie farmacologiche si stanno dimostrando utili nel potenziare l’apprendimento inibitorio (D-cicloserina cortisolo, la L-dopa, l’ossitocina, l’orexina, il blu di metilene, la yohimbina e la scopolamina) e, inoltre, il testo descrive anche specifiche procedure di stimolazione cerebrale applicata mediante dispositivi, recentemente sperimentate in combinazione alla terapia di esposizione: la stimolazione elettrica transcranica, la stimolazione magnetica transcranica, la stimolazione cerebrale profonda, la stimolazione del nervo vago.

Queste nuove strategie non si contrappongono a quelle classiche di abituazione, bensì possono rappresentare insieme ad esse modalità integrate per produrre l’estinzione di comportamenti disfunzionali.

La seconda giovinezza della terapia di esposizione è una lettura molto interessante per il clinico, offre spunti preziosi sulle diverse strategie e tecniche da applicare nei casi più difficili e resistenti al trattamento.

 

Immaginare gli effetti delle droghe per migliorare le proprie capacità di coping: mantenimento dell’abuso o possibile terapia per le dipendenze?

Un recente studio ha cercato di dimostrare l’applicazione sperimentale della Self Regulation Therapy per migliorare le capacità di coping.

 

Esiste un ampio consenso internazionale riguardo alla nocività e alla pericolosità delle droghe sugli effetti della salute pubblica (Bahorik et al., 2017; NIDA, 2020; Amigó, 2021). Cannabis, ecstasy e cocaina sono considerate sostanze suscettibili di abuso che creano dipendenza (Amigó, 2021). Allo stesso tempo, diversi autori analizzano i motivi che portano le persone ad utilizzare queste sostanze. Nello specifico, Boys e colleghi (2001) osservarono le varie funzioni dell’utilizzo delle droghe, tra cui effetti rilassanti (96,7%), restare svegli di notte per socializzare (95,9%), alleviare stati d’animo depressi (86,8%) e migliorare un’attività (88,5%).

La suggestione è definita come un “processo psichico che conduce l’individuo ad agire secondo suggerimenti esterni, provenienti da personalità più forti della sua o da situazioni ambientali particolarmente cariche di tensione emotiva, senza aver subito alcuna costrizione manifesta” (Hoepli, 2018).

La Self Regulation Therapy

La Self Regulation Therapy (SRT; Amigó, 1992) è la prima procedura psicologica che si basa sulla riproduzione degli effetti delle droghe attraverso la suggestione: sono stati riprodotti gli effetti di droghe diverse per ogni sessione (Amigó, 2021) e sostanze come cannabis, ecstasy, metilfenidato, anfetamine e cocaina sono state testate (Amigó, 2014; 2015; 2018). Nonostante tale terapia sia scarsamente dimostrata, a causa dei pochi studi pubblicati sulla riproduzione degli effetti delle droghe mediante suggestione, due studi (Amigó, 1994; 1997) indicano come la SRT possa essere utilizzata per incrementare gli stati d’animo positivi e ridurre quelli negativi. Tale terapia è stata utilizzata con successo per il trattamento di pazienti con stress, ansia e depressione (Amigó, 2021). Con l’SRT vengono applicati differenti esercizi di richiamo sensoriale con lo scopo di insegnare ai soggetti come produrre varie sensazioni fisiche, inizialmente provocate da stimoli reali, in modo volontario attraverso l’immaginazione (Amigó, 1992; 2021).

Uno studio sperimentale sulla Self Regulation Therapy

Amigó (2021) ha cercato di dimostrare l’applicazione sperimentale della SRT per migliorare le capacità di coping. Basandosi sull’utilità di tale intervento per sostenere la psicoterapia convenzionale, l’autore ha svolto l’esperimento su un campione composto da 15 partecipanti volontari (8 maschi e 7 femmine), con un’età compresa tra i 20 e i 34 anni. In questo studio sono state incluse persone che fanno un uso occasionale di droghe illegali e persone che hanno risposto sufficientemente alla suggestione generale e ai vari effetti (Amigó, 2021). Tra i vari strumenti utilizzati, la Substance Use Scale (EMCDDA; 2003) è una questionario di autovalutazione, utile a misurare la frequenza del consumo di sostanze come tabacco, alcol, cannabis, MDMA, sedativi, allucinogeni, anfetamine e cocaina, che segue l’Osservatorio Europeo per criteri relativi alle Droghe e alle Tossicodipendenze (OEDT). La Barber Suggestibility Scale (BSS; Barber e Carverley, 1963; Gonzàlez) è stata utilizzata per valutare il livello di suggestionabilità dei partecipanti: può essere somministrata individualmente, con o senza induzione ipnotica, e può essere valutata oggettivamente (OS) o soggettivamente (SS; Amigó, 2021). Il Coping Orientation to Problems Experienced (COPE; Carver, 1989; Crespo e Cruzado, 1997) è un inventario multidimensionale tipo Likert composto da 60 domande, utile a valutare i metodi di coping, in tempi distinti, attraverso 15 scale e con dei punteggi che variano da 1 (nessun effetto) a 4 (massimo effetto). Per questo studio, sono state incluse le sottoscale “pianificazione e fronteggiare attivamente” (6 domande), “reinterpretazione positiva” (3 domande), “crescita personale” (2 domande) e “disimpegno comportamentale” (3 domande). La Positive and Negative Affect Schedule (PANAS) è una scala composta da parole descriventi diverse emozioni e sentimenti e da due scale, ognuna composta da 10 domande, per indagare gli affetti positivi e negativi (Amigó, 2021). Le droghe maggiormente utilizzate dai partecipanti nell’ultimo anno erano l’alcol e la cannabis (da parte di tutti i soggetti), il tabacco (12 soggetti) e tranquillizzanti (11 soggetti), nell’ultimo mese invece le sostanze più utilizzate erano cannabis (n = 14), alcol (n = 14) e tabacco (n = 10). Utilizzando l’SRT, 14 soggetti hanno scelto di riprodurre gli effetti della cannabis attraverso la suggestione, due partecipanti hanno scelto di riprodurre gli effetti della cocaina e altri due gli effetti dell’ecstasy (Amigó, 2021).

I risultati suggeriscono come la SRT abbia un effetto significativo per le quattro strategie di coping analizzate e, nel tempo, per la pianificazione, il fronteggiare attivamente i problemi e la crescita personale dei soggetti. La SRT sembra aver migliorato anche le capacità emotive, incrementando le emozioni positive e diminuendo quelle negative. Considerando il possibile limite legato al fatto che la SRT potrebbe spingere i soggetti ad utilizzare le sostanze in modo controllato, si suggeriscono ulteriori studi per osservare se questa terapia può essere efficace per trattare le tossicodipendenze, portando così i soggetti a provare degli effetti “mentali” delle droghe senza craving e senza doversi procurare la sostanza (Amigó, 2021).

 

Scene da un matrimonio (2021) tra amore, odio e rimpianti – Recensione della serie TV

Il 20 settembre è uscita la rivisitazione del film di Ingmar Bergman Scene da un matrimonio, con gli attori Oscar Isaac e Jessica Chastain per la regia Hagai Levi.

 

La trama di base osserva, come per il film originale, il rapporto di coppia. Amore, odio, rimpianti e crisi di mezz’età sono tutti elementi comuni sia per Mira e Jonathan che per i protagonisti della serie originale Marienne e Joahn.

L’essenza è il non riuscire a spiegare come mai certe coppie non si lasciano stare, ma la versione di Levi ci porta una novità importante. I ruoli dei personaggi sono invertiti.

Nella versione HBO di Scene da un Matrimonio, Mira, è una donna in carriera e guadagna più del marito, Jonathan, professore. È lui ad occuparsi prevalentemente della famiglia. In questa versione è Mira a decidere di divorziare, dopo aver confessato una relazione extraconiugale a Jonathan.

Nella serie originale, tale ruolo spetta al marito Johan, ed è la moglie Marianne a insistere affinché lui non la lasci, piuttosto che andarsene con la studentessa di cui si è invaghito (nella serie HBO, Mira ha invece una storia con un collega più giovane).

In effetti, il tradimento di Mira è una valvola di sfogo che arriva solo dopo il reale motivo di rottura. A scaraventare la coppia in crisi è l’interruzione volontaria della seconda gravidanza di Mira. La protagonista infatti rimane incinta, ma non vuole un secondo figlio. La difficoltà nel sacrificare la maternità con le proprie ambizioni professionali. Questo senso di colpa che permane nella donna e che è tutto radicato nella società contemporanea. Avviene quindi una rottura con il passato ma che non cambia molto nella situazione di coppia, ed è questo il punto di svolta. A parer mio, che sia lui o lei ad avere una relazione, una sofferenza, un’insoddisfazione, non cambia il risultato. La società evolve, i ruoli si scambiano, si mescolano, si aprono, ma il risultato non cambia.

Sapete perché? Perché una coppia è coppia ed oggi dovremmo osservarla eliminando gli stereotipi oramai divenuti obsoleti di uomo, donna. Una famiglia è una famiglia. L’amore tra due persone è amore tra due persone.

Scene da un matrimonio osserva quindi l’incastro tra due persone, e forse per questo è stato inserito il cambio di ruoli per parlare di questo, la loro intimità, la difficoltà a separarsi da qualcosa che è così famigliare, qualcosa che ormai fa parte di noi anche se ci è divenuto insopportabile e questo prescinde dai ruoli, ma è ancorato alla crescita dell’individuo, a quello che cambia, alle aspirazioni, alla coerenza, a il represso che abbiamo ignorato e che alla fine esce fuori e che non ha sesso né razza.

Ho pianto vedendo questa mini serie, perché quello che ti fa vedere è una verità molto semplice, che non ha troppe necessità di colorare nessuna situazione e che viviamo o abbiamo vissuto in molti.

Quando si inizia un percorso di vita insieme è bene tenere a mente queste 9 verità:

  • Imparare ad ascoltarsi
  • Non scordare il NOI
  • Non dare per scontato l’altro
  • Riconoscere che ci sono sempre due verità
  • Non dover per forza avere sempre ragione
  • Essere onesti con se stessi e con l’altro
  • Non pretendere di essere uguali
  • Non scordarsi l’intimità

Nel film originale Marianne dice:

Non ho mai pensato “cosa voglio”, ma solo cos’è che vuole lui che io voglia. Ma quello non era essere altruisti come io credevo prima, era soltanto vigliaccheria. E quello che è peggio, un’assoluta ignoranza di me stessa.

La nona verità è questa:

  • conosci te stesso

perché, solo quando sai perfettamente chi sei e cosa vuoi, puoi iniziare a camminare davvero con qualcun altro.

 

Sessualità e relazioni – Seconda edizione del Festival della Sessuologia – Parte II – FluIDsex

In che modo internet ha cambiato le nostre relazioni? Quali possono essere i rischi di internet sulle nostre relazioni? Queste alcune delle domande relative a sessualità e relazioni affrontate nella seconda edizione del Festival della Sessuologia.

La prima parte del report dal Festival della Sessuologia è stata pubblicata nei giorni scorsi su State of Mind

 

Sesso e relazioni online

Con l’intervento “Sesso e relazioni online”, moderato dal dott. Andrea Olmi (sessuologo) e che vedeva la partecipazione di Marvi Santamaria (social media strategist, fondatrice della community Match and the city) e il dott. Michele Spaccarotella (sessuologo, autore de Il piacere digitale), si sono volute affrontare alcune caratteristiche contemporanee del sesso e delle relazioni. Per esempio, come sostiene Santamaria, quando si chatta con una persona che si sta conoscendo si tende a idealizzare sia la persona sia la relazione.

Ma perché si preferisce approcciarsi online? Come ha mostrato il dott. Spaccarotella, il 64% dei single italiani ha problemi nell’approcciarsi ad una persona dal vivo. Di conseguenza, le dating app rappresentano un ottimo strumento per mostrare chi si è con maggiore disinvoltura, per avere un senso di protezione, poco investimento emotivo o per semplice comodità. Inoltre, secondo quanto riportato da Santamaria, vi sono delle problematiche legate alla situazione pandemica. Si parla di nuovi vissuti emotivi, come la FODA (Fear of Dating Again, la paura di tornare a fare incontri), e di nuove tipologie di dating, come il vacci-dating per assicurarsi partner vaccinati.

Ad ogni modo, che la relazione venga instaurata online o che trovi spazio anche nel mondo fisico, è probabile che almeno una volta si incorra in fenomeni come il ghosting (quando la persona sparisce), lo zombieing (es. il ritorno di un ex partner), il benching (il “tenere in panchina” con vari tipi di manipolazione per evitare che la persona perda l’interesse) o l’orbiting (un’evoluzione del ghosting: la persona non risponde ma interagisce con like sui social).

Truffe romantiche

In che modo internet ha cambiato le nostre relazioni? Quali possono essere i rischi di internet sulle nostre relazioni? Con l’intervento “Truffe romantiche: le nuove frontiere della manipolazione online”, la dottoressa Roberta Bruzzone ha cercato di rispondere a queste domande.

Come sostiene, con l’avvento del web 2.0 vi sono state varie rivoluzioni, tra cui la rapida evoluzione dei social media che hanno radicalmente modificato le nostre vite. La principale caratteristica evidenziata è che i social media lavorano sui sistemi della ricompensa: i social permettono di avere piccole quantità di dopamina tramite i “mi piace” e i commenti, portando le persone ad avere una vera e propria dipendenza da social network. Inoltre, la tecnologia è diventata molto velocemente un amplificatore emotivo e internet un fattore di disinibizione, in quanto si riesce ad esplorare nuove forme di affettività e sessualità, e mostrare agli altri una versione migliore di sé. Come ricorda la dottoressa, si è passati all’uso intensivo di piattaforme di digital dating, le quali permettono di connettersi con più persone, ma anche ad essere esposti a fenomeni come il cat-fish, il gender-swapping o gender-switching (ovvero cambiamento di genere) e le romantic scam (truffe romantiche).

Come spiega Bruzzone, il fenomeno del cat-fish vede coinvolta una vittima che interagisce con una persona che finge di essere un’altra. Quando viene instaurata una relazione online tra la vittima e il perpetratore, i due vivono una vita di coppia del tutto simile a quella che condurrebbero di persona. Il problema, come sottolinea Bruzzone, è che i due non si incontreranno mai e, una volta smascherata l’identità del perpetratore, la vittima avrà forti danni emotivi ed economici. È bene, quindi, diffidare da persone che vogliono instaurare una relazione online senza mai volersi incontrare di persona.

Sessualità e disabilità

Concludendo, questo festival ha dato la possibilità agli addetti ai lavori, e non, di approfondire vari aspetti della sessualità. Seppur sia stato scelto di affrontare queste tematiche lungo due articoli, al festival della sessuologia vi erano anche altre tavole rotonde e laboratori. Per esempio, nel laboratorio “Disabilità e sessualità”, gestito dalla dottoressa Anna Castagna, si poteva apprendere l’impatto dei vari stereotipi che colpiscono la vita sessuale delle persone con disabilità. Per esempio, si tende a concepire la persona con disabilità come una persona che non ha una sessualità, non ne ha bisogno. Tuttavia, come afferma la dottoressa Castagna, bisognerebbe promuove un clima dove si aiuta la persona con disabilità a capire e ad esplorare la propria sessualità. Purtroppo, però, molto spesso si trovano resistenze familiari (es. famiglie che non vogliono l’aiuto di professionisti), limiti fisici (es. una persona vorrebbe masturbarsi, ma la fisicità lo impedisce), mancanza di privacy (es. a causa di una limitata autonomia) e, soprattutto, una mancanza di assistenza. Una soluzione, come suggerisce la dottoressa Castagna, è di avvalersi dell’aiuto di un operatore all’emotività, all’affettività e alla sessualità (per maggiori informazioni si veda l’associazione “Lovegiver”) che, tuttavia, non è ancora riconosciuta come professione nel nostro Paese.

Conclusioni

In estrema sintesi, servono maggiori sforzi da parte delle istituzioni per assicurare una sana salute e educazione sessuale, serve maggiore comprensione da parte di tutti delle varie sfumature della sessualità, e serve maggiore consapevolezza circa l’impatto che la tecnologia e le nostre scelte hanno sulla salute sessuale e psicofisica.

 

Giornata mondiale della salute mentale: commercializzazione o sensibilizzazione?

Ogni anno in tutto il mondo, il 10 Ottobre, dal 1992, si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza di cittadini e governi sui problemi di salute mentale.

 

Le giornate internazionali sono una recente istituzione occidentale, costituiscono insieme uno degli esiti e degli strumenti di un processo di globalizzazione della cultura dei diritti umani nel tentativo di definire le sfide più rilevanti per la comunità globale sensibilizzando l’opinione pubblica rispetto ai temi più disparati. In questo sforzo, i risultati sono paradossali: le giornate si sono moltiplicate così come le soggettività che rivendicano un’attenzione particolare, talvolta senza alcuna connessione o interesse ai problemi reali delle società.

Non è un segreto che queste ricorrenze costituiscano un’occasione importantissima all’interno delle strategie di marketing per molti grandi attori privati, oltre che per affrontare temi talvolta negletti nel dibattito pubblico, come è stato, per lungo tempo, quello della salute mentale.

Così, ogni anno in tutto il mondo, il 10 Ottobre, dal 1992, si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza di cittadini e governi sui problemi di salute mentale e mobilitare gli sforzi a sostegno della salute mentale dei cittadini, promuovere azioni di advocacy e lotta allo stigma. La giornata, sostenuta sempre più attivamente dall’OMS, è nata su iniziativa della World Federation for Mental Health, ONG composta da operatori, volontari e utenti e, a partire dal 1994, le migliaia di iniziative si concentrano sul tema che, di anno in anno, ne costituisce il fils-rouge.

Ad ogni modo, il tema scelto per l’edizione del 2021 della Giornata Mondiale della Salute Mentale è stato “la salute mentale in un mondo diseguale” e la giornata è stata accompagnata dal lancio della campagna “Insieme per la salute mentale”, con la partecipazione di molte società scientifiche, associazioni di utenti, onlus e testimonials, numerose iniziative in molti territori e grandissima risonanza mediatica. Si è trattato di un’occasione importante per portare un tema tanto delicato e urgente all’opinione pubblica, in un momento storico particolare in cui la salute mentale della popolazione è fortemente logorata dalla pandemia e dalle misure necessarie al suo contenimento, che esacerbano le preesistenti disuguaglianze sociali e sanitarie e logorano lo stato di salute dei servizi pubblici, già pesantemente definanziati da anni di tagli.

La salute mentale però costituisce un ambito complesso. I cosiddetti disturbi mentali non costituiscono entità reali, oggettivamente presenti in natura, ma rappresentano l’esito finale di un processo, storicamente situato all’interno di un contenitore sociale dotato di forze culturali, economiche, politiche, attraverso cui gruppi di ricercatori arrivano ad un accordo rispetto alla definizione dei criteri necessari per poter far rientrare un insieme di manifestazioni osservabili entro specifici quadri diagnostici, le cosiddette “malattie”. Per altro le fonti e i dati utilizzati in questo processo non sono neutre ma costituiscono anch’essi il prodotto della ricerca e dell’influenza su questa esercitata da varie pressioni, anche economiche, che ne indirizzano contenuti, qualità, validità e spesso trasparenza.

In natura non esistono i disturbi mentali, che costituiscono, a tutti gli effetti, una convenzione arbitraria, storicamente determinata, un prodotto sociale.

L’etichetta oggi utilizzata per descrivere un certo tipo di sofferenza potrebbe scomparire tra qualche decina di anni e, viceversa, più probabilmente, forme della sofferenza che non soddisfacevano tutti criteri per essere definiti come disturbi potranno soddisfarli in futuro, oppure nuove categorie diagnostiche possono sorgere in base ai bisogni sociali e alle nuove forme di sofferenze prevalenti, oppure ancora una sofferenza oggi definita come particolare disturbo, rispondente a determinati criteri, potrebbe in futuro essere esclusa da quella definizione e inclusa in altre.

Salute mentale e sistemi diagnostici

La storia dei sistemi diagnostici è piena zeppa di tali meravigliose bizzarrie che parlano in maniera equivocabile del rapporto tra l’ordine sociale, il mondo reale e i sistemi di diagnosi e cura e loro funzioni: la scomparsa della diagnosi di isteria, o di omosessualità, la nascita della diagnosi di PTSD (è molto interessante ricostruire la genesi storica delle teorie sui traumi che sottolineano l’importanza dei meccanisimi assicurativi americani nella produzione e nell’affermarsi della diagnosi di PTSD per i reduci della guerra del Vietnam), l’affermarsi e il proliferare della diagnosi di ADHD, con differenze di prevalenza e incidenza enormi tra paesi differenti, non ascrivibili a differenze così ampie nel disagio nei diversi stati.

Non solo cambiano le forme della sofferenza reale come conseguenza del cambiamento degli stimoli ambientali (ad esempio la sofferenza connessa ai nuovi stimoli digitali), ma si trasformano anche le modalità che abbiamo per nominarle, identificarle e gli strumenti di cura e di diagnosi, insieme all’atteggiamento verso la sofferenza e determinate sue forme.

ICD e DSM costituiscono i principali classificatori che sanciscono l’esistenza di particolari quadri diagnostici e “malattie“. Entrambe nati dopo la Seconda Guerra Mondiale per usi statistici e risentono inevitabilmente degli schemi e delle funzioni amministrative del contenitore in cui sono stati concepiti e sviluppati (l’OMS da una parte e l’American Psychiatric Association dall’altra). Pur essendo il primo utilizzato a livello globale per funzioni di monitoraggio delle condizioni di salute dei differenti paesi e di programmazione degli interventi socio-sanitari, il secondo si è gradualmente affermato come sistema diagnostico di riferimento, con il maggior potere simbolico e pratico, nell’indirizzare lo sviluppo delle discipline nell’ambito della salute mentale e della ricerca, oltre che il linguaggio comune e le concezioni dominanti di salute e malattia. Ma non è l’unico.

La semplificazione e i rischi insiti nella diffusione del DSM hanno fatto sorgere nel tempo sistemi diagnostici “alternativi”. Tra i più celebri sicuramente troviamo il PDM, creato dall’enclave psicanalitica come affermazione della propria lontananza e indipendenza dal modello riduzionista promosso dal DSM. Meno noto invece è il PTM- Framework, il POWER THREAT MEANING FRAMEWORK, creato dalla BPS, la British Psychological Society, in risposta alla pubblicazione del DSM 5. Il punto di partenza di questo lavoro è una lunga critica epistemologica e pratica del concetto di diagnosi medica, in particolare quella psichiatrica, mostrandone la debolezza empirica e teoretica da un lato, ma anche evidenziando come essa persista nei servizi e nei sistemi di cura per ragioni culturali, sociali, economiche e professionali e proponendone un superamento pratico. Il Power Threat Meaning Framework si sofferma sulla necessità di sviluppare, insieme ai cosiddetti esperti per esperienza, un approccio multifattoriale al disagio, che contempli i determinanti sociali e psicologici e le variabili biologiche con il significato personale. Il gruppo di lavoro promotore aggregato intorno a questo obiettivo ha prodotto nel 2018 una pubblicazione di oltre 400 pagine, fruibile gratuitamente da chiunque scaricando il testo dal sito della BPS e attualmente in traduzione in Italia a cura di alcuni attivisti.

Storicamente, da quando la salute mentale si è costituita come ambito e corpo scientifico, si osserva un continuo aumento di diagnosi disponibili (definito da Allen Frances (2013), capo della Task Force per la stesura del DSM- IV-tr, inflazione diagnostica) che, se da una parte consente una maggior precisione nell’identificazione sempre più sottile delle forme di disagio, migliorando l’accuratezza dell’atto diagnostico, dall’altra rischia di creare una frammentazione e un’iperspecializzazione sterili e vacue, allargando a dismisura i confini del diagnosticabile. Nella realtà storica, ciò che spinge il numero di diagnosi a crescere rendendo possibile un trattamento di precisione, è in parte riconducibile ad un processo relativamente recente, ben noto e studiato, il disease mongering (Moynihan, 2002): forme dell’esperienza, prima ritenute nella “norma medica”, quindi non oggetto di trattamento specialistico, vengono gradualmente patologizzate e medicalizzate, spesso sotto l’influenza di grandi produttori di farmaci con un grande potere nell’influenzare la ricerca e grandi interessi nell’ampliamento del bacino di consumatori. Nuove malattie vengono create e definite come tali anche perché nuovi farmaci devono essere venduti. Basti pensare alla medicalizzazione e patologizzazione di flatulenza, calvizie, impotenza: occorre, innanzitutto, la costruzione e la vendita di una particolare “condizione patologica”, ovvero “la commercializzazione della salute e della malattia”. Il fenomeno, affrontato e contrastato in molti ambiti della medicina e dell’attivisimo per la salute, interseca e influenza da vicinissimo il campo della psicologia, delle sue teorie, del mercato della formazione, e delle sue pratiche e le concezioni sociali che questa veicola.

Ma Vygotskij, il Buddha e Lacan, ci insegnano che le parole creano la mente. Ed è anche attraverso la condivisione di sistemi simbolici e di appartenenze che si creano le comunità. Così, dopo aver definito la sofferenza delle persone attraverso un disturbo in uno specifico quadro nosografico, convenzionale, artefatto e arbitrario, le persone tendono ad identificarsi con l’etichetta utilizzata dagli operatori di un determinato sistema di cure, ancor più se questa identificazione è conforme al quadro culturale dominante e l’insicurezza che accompagna il disagio è vissuta come eccessiva. Questa identificazione ha ripercussioni significative, non sempre positive, sul decorso clinico, prendendo a prestito un termine in voga dalla letteratura psichiatrica, “recovery”. Svolge alcune funzioni importanti per l’individuo, quali ad esempio quella di poter dare un nome, un senso alla propria sofferenza, e quindi immaginare la possibilità di una cura, contenere l’incertezza che deriverebbe da un’impostazione radicale di fronte ad una sofferenza per cui non esiste un nome. Inoltre, rassicura, fornendo un sollievo alla solitudine, potendo condividere le sorti della propria vita, salute e malattia, con l’insieme di persone le cui manifestazioni della sofferenza sono state fatte rientrare all’interno della medesima categoria diagnostica.

Le implicazioni della diagnosi

Le diagnosi e i disturbi che queste indicano, si trasformano così in uno strumento di soggettivazione, individuale e insieme politico. Identificazione individuale, nel momento in cui le persone, dopo l’atto diagnostico, identificano sé stesse, il proprio sentire, agire, patire, pensare, esperire; gli danno un senso attraverso l’etichetta utilizzata e ogni parte di sé diventa funzione di quella diagnosi a cui viene ridotto e ricondotto. Questo livello di identificazione agisce inoltre permettendo di trovare una causa al proprio patire nel disturbo indicato dall’etichetta. Avendo dato un nome e una spiegazione al proprio sentire, l’etichetta diagnostica utilizzata, smette di essere un prodotto storico e viene percepita essere la causa reale del proprio sentire, in una profezia che si autoavvera.

La diagnosi attiva inoltre un processo di identificazione collettiva, rendendo saliente un’appartenenza comune attraverso cui far valere la propria voce, in cui i vissuti di profonda solitudine e incomunicabilità si dissipano nella vicinanza con tutte le altre identità individuali con cui potersi riconoscere e supportare all’interno di una comunità di uguali, definita e delimitata dai confini diagnostici, che può lottare nella rivendicazione dei propri diritti di malato. È quello a cui Rose (2008) si riferisce parlando di “biosocialità”, ovvero la creazione di spazi di socialità e cittadinanza a partire da una particolare diagnosi, spesso ricondotta a disturbi concepiti come biologicamente determinati (nell’ambito della salute mentale, è stato il DSM III ad accelerare il processo di assimilazione delle entità nosografiche a sottostanti “squilibri chimici”, scotomizzando i cosiddetti determinanti sociali della salute mentale). Ecco così fiorire le associazioni di pari e di pazienti, in salute mentale, frammentate e disunite, spesso ricalcando i criteri diagnostici che li hanno battezzati, talvolta in un’estrema unzione, come tali. Le azioni di tali soggettività diagnostiche espandono e riproducono una concezione della salute mentale che naturalizza costrutti sociali in entità reali che costituiscono la base dei processi di partecipazione e identitaria, riproducendo le concezioni di salute e malattia più diffuse e gli interessi economici ad essi sottostanti.

È a questa natura sociale, costruita, storica, a cui ci si riferisce quando si parla di quella “invenzione delle malattie” che una certa antipsichiatria, nell’opera di legittima contestazione della nocività di alcune pratiche di cura, rischia di trasformare in negazione del bisogno e della realtà di una sofferenza e dell’utilità di ogni intervento tecnico.

Salute mentale e società

Rispetto al calcolo del peso dei disturbi mentali sulle società invece, l’epidemiologia è utilissima consentendo confronti tra paesi o tra condizioni di salute mentale nello stesso paese in tempi diversi, oppure tra diverse fasce di popolazione. Ad esempio, è certo che i paesi più diseguali, divisi e divisivi, siano paesi in cui la salute mentale è peggiore rispetto a paesi più equi. Oppure che nei periodi di recessione economica la salute mentale peggiori. O ancora, che con la pandemia, la salute mentale dei giovani stia peggiorando più di quella di altre fasce della popolazione. Tuttavia gli indici utilizzati sono poco attendibili: misurano solo parzialmente ciò che vorrebbero e godono di un consenso relativo. Per fotografare le condizioni di salute mentale vengono utilizzati dati relativi ai servizi, come il numero di ricoveri. O relativi ai trattamenti erogati, come il consumo di farmaci. O il numero dei suicidi, oppure i trend di ricerca su internet di una data parola. Ma è palese che il numero dei ricoveri o i dati sui consumi dicano di più sulla salute dei sistemi di cura che sulle condizioni reali di salute dei cittadini. In sintesi, nessuno di questi indici riesce a fotografare la realtà della salute mentale della popolazione. Benedetto Saraceno, ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’OMS, parla chiaramente del rischio di “un’epidemiologia allarmista” (2017). ovvero di dati che sovrastimano il problema, ad esempio includendo problemi di carattere neurovegetativo all’interno del numero di casi conteggiati.

Parlare di salute mentale

Ciononostante, le condizioni reali di salute mentale della popolazione sono un tema fondamentale oggi. È un bene che se ne parli, anche se il modo in cui questo avviene è spesso importante almeno quanto il parlarne. La difficoltà a parlare in maniera seria è accresciuta da un uso scorretto del linguaggio, che riflette l’impostazione biomedica di una certa psichiatria, che tende a naturalizzare e reificare i disturbi come entità realmente presenti in natura, ma che è anche fortemente influenzata dagli interessi economici di chi vende specifici prodotti medicali per specifici disturbi.

I disturbi e le malattie, tutti, costituiscono anche un miniera d’oro per chi vende prodotti per curarli e l’attuale periodo di disagio postpandemico rappresenta un’occasione imperdibile, e l’indefinitezza che caratterizza l’ambito della salute mentale è un vantaggio enorme per le aziende produttrici. Ma il conteggio delle gambe rotte o di forme particolari di tumori è cosa ben differente dal conteggio, ad esempio, di casi di diagnosi di disturbo bipolare.

E qui torniamo al punto di partenza.

La giornata mondiale della salute mentale

La campagna di sensibilizzazione “Insieme per la salute mentale” in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale è stata organizzata da una multinazionale danese, di recente definitivamente multata dalla Corte di Giustizia Europea con 93 milioni di euro, che aveva violato nel Regno Unito le norme per i contenuti pubblicitari, a cui è stato rimosso un brevetto per mancanza di requisito di novità e rispetto, su cui autorevoli osservatori fanno sorgere dubbi, più che fondati, sulla contraffazione di dati relativi all’efficacia di alcune sue molecole e sul rischio suicidario in bambini che assumevano alcuni suoi farmaci.

Il mercato degli psicofarmaci ha salutato con grande entusiasmo l’arrivo della pandemia, che ne ha fatto impennare le previsioni di crescita di molti punti percentuali per quasi tutte le classi. Solamente l’anno scorso, i guadagni relativi ad un farmaco antidepressivo di recente immissione della multinazionale danese, sono aumentati del 15%. I dati inoltre indicano un generico aumento delle prescrizioni in tutto l’occidente da alcuni anni a questa parte, amplificato dall’impatto della pandemia e in Italia, ad esempio, il trend di consumo degli antidepressivi, sostiene l’AIFA, è cresciuto del 10% negli ultimi 7 anni.

In Italia non è possibile fare pubblicità diretta verso i consumatori per le aziende produttrici e le “giornate di sensibilizzazione e consapevolezza” (negli USA cresciute da 44 a 401 dal 1997 al 2016, con un aumento di spesa da 177 a 430 milioni di dollari per le multinazionali) rappresentano da sempre uno strumento privilegiato per l’ampliamento del bacino di consumatori a fronte di investimenti enormi, spesso maggiori nel marketing che nella ricerca (ad esempio, Johnson e Johnson nel 2014 spese 6,2 miliardi di dollari in ricerca e 21,9 miliardi per marketing).

Dal punto di vista psicologico, le campagne di sensibilizzazione e consapevolezza offuscando l’arbitrarietà e la fluidità dei costrutti diagnostici e il processo storico che determina la creazione di nuove condizioni patologiche, presentano i disturbi mentali come realtà oggettivamente esistenti, misconoscendo le implicazioni e gli interessi economici che contribuiscono alla diffusione di particolari diagnosi e di una visione di una società malata, massicciamente medicalizzata. L’obiettivo delle campagne è promuovere l’identificazione delle persone in condizioni di sofferenza nella condizione di malato. Il superamento dello stigma e del pregiudizio evocato, ad esempio nella campagna “insieme per la salute mentale”, si muove nella stessa direzione, in modo funzionale all’abbassamento delle difese e delle resistenze che le persone possono frapporre tra sé e il riconoscimento e l’identificazione della condizione di malato, e quindi la richiesta di un trattamento. Per altro, un’impostazione fortemente biologicista alla sofferenza e al disagio, come quella promossa in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, che assimila “salute fisica” e “salute mentale” e che identifica nel cervello le cause del disagio, tanto facilita la riduzione dello stigma (se il problema è nel cervello, come un diabetico non sono biasimabile) quanto promuove un uso dei trattamenti che agiscono esclusivamente a questo livello.

Schwartz e Woloshin (2019) sottolineano che tutte le attività di marketing cerchino di plasmare le convinzioni di pubblico e operatori sanitari rispetto sia ai benefici e ai danni dei farmaci da prescrizione, sia alle definizioni delle condizioni che possono essere etichettate come malattia. Gli autori affermano che le campagne di sensibilizzazione delle aziende farmaceutiche possano aumentare la consapevolezza dei cittadini e, insieme, essere controproducenti causando danni, portando a sovradiagnosi e sovratrattamento (con conseguente spreco di risorse) o medicalizzando l’esperienza ordinaria. Le campagne contribuiscono ad ampliare le definizioni di malattia senza che questo porti a benefici reali per la popolazione, e influenzando l’atteggiamento dei cittadini verso il proprio disagio, attraverso l’incoraggiamento a “chiedere al medico”, che costituisce uno degli ingredienti fondamentali di tali campagne

Altri, come Kravitz (2005) si spingono oltre e illustrano come le campagne di sensibilizzazione possano avere effetti diretti, seppur non stimabili, sull’andamento delle prescrizioni dei medici, mediati dalle richieste dei cittadini, che rischiano di alimentare un sovrautilizzo inappropriato dei farmaci.

Sulla stessa linea, Aikin (2016) e Sullivan (2016), mettono in guardia sulla possibilità che tali campagne di sensibilizzazione inducano le persone a confondere erroneamente le informazioni relative alle malattie con i benefici dei farmaci, alimentando il rischio di sovradiagnosi e sovratrattamento, con benefici evidenti per i produttori di farmaci medicinali, proprio mentre l’obiettivo dichiarato è contrastare sottodiagnosi e sottotrattamento.

Viste le restrizioni imposte dalle misure di contenimento dell’epidemia, le aziende farmaceutiche, hanno dovuto adattare le proprie strategie promozionali. Facebook, che mette a disposizione analisi sui comportamenti degli utenti, con elevato valore predittivo sulle loro condizioni di salute, costituisce il canale privilegiato.

Secondo un articolo del 2020 de “Il Washington Post” inoltre, su Facebook, negli Stati Uniti, dove è possibile fare pubblicità diretta di farmaci alla popolazione, stanno spuntando annunci che promuovono farmaci da prescrizione per la depressione. Pathmatics, afferma che la spesa solo per gli annunci su Facebook da parte di marchi farmaceutici, targettizzata verso campioni selezionati di popolazione, abbia raggiunto quasi un miliardo di dollari nel 2019, quasi triplicando in due anni. Non è un caso che la campagna “Insieme per la salute mentale”, promossa in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale sia stata diffusa largamente su questo social dove, in occasione della pandemia, a qualche mese di distanza, sono state create alcune pagine di sensibilizzazione, gestite da multinazionali produttrici.

Come già ampiamente accaduto in molte altre situazioni simili, molte delle associazioni, sia professionali, che di pazienti, che hanno partecipato all’iniziativa, diffondendola e amplificandola, hanno intrattenuto rapporti più o meno trasparenti e diretti con la multinazionale che ha loro versato, come documenta il sito dell’azienda, notevoli quantità di denaro. Come sottolineò Mosher, già presidente dell’APA dimissionario, in relazione al decadimento denunciato della psichiatria americana, legato al consolidarsi del rapporto con le industrie farmaceutiche, i rapporti tra queste e le associazioni di utenti e familiari costituiscono un tassello chiave nel comprendere le spinte rivendicative e i bisogni di alcune forze della società civile, e il loro effetto sulle pratiche di cura.

Il fenomeno non si limita alla salute mentale; secondo uno studio di McCoy (2017), nel 2017, l’83% delle 104 maggiori organizzazioni in difesa e per i diritti dei pazienti degli Stati Uniti ha ricevuto finanziamenti da aziende farmaceutiche e 14 aziende farmaceutiche hanno donato almeno 116 milioni di euro a 594 gruppi di pazienti nel 2015.

Questo significa che la multinazionale, durante la Giornata Mondiale della Salute Mentale, ha utilizzato le associazioni di pazienti, identificati con il proprio disturbo, come strumento per la diffusione di una campagna, formalmente di sensibilizzazione, ma che risponde sostanzialmente a obiettivi e logiche commerciali attraverso note strategie di marketing amplificando un messaggio distorto e informazioni incomplete, tendenziose e pretestuose. Questo, in Italia, accade mentre i servizi di salute mentale promuovono una cultura e un uso degli psicofarmaci che rischiano di produrre più sofferenza e cronicità di quanto non aiutino ad alleviare e che, come rilevato dalla Conferenza per la Salute Mentale, dovrebbero essere reindirizzati nella direzione di una maggiore appropriatezza prescrittiva.

I messaggi promossi dalla campagna, naturalmente, non possono tenere conto della complessità del tema ma contribuiscono ad una visione semplicistica dei disturbi mentali e della salute mentale. I disturbi sono presentati come entità reali, oggettive, localizzate esclusivamente a livello cerebrale, di cui rappresenterebbero un malfunzionamento. Tale messaggio è funzionale più al profitto dell’azienda che alla promozione di un dibattito pubblico informato o agli interessi di salute pubblica.

Evidentemente e legittimamente, all’interno di un mercato competitivo come quello farmaceutico, una grande azienda con precisi obiettivi commerciali diffonde un’idea di malattia e salute che poco ha a che vedere con la realtà dei fatti. I proclami sul diffondersi dei disturbi mentali sono utilissimi nell’accendere i riflettori su una realtà grave e urgente, quella del diffondersi del disagio, ma ne semplificano la concezione escludendo aspetti determinanti, quali quelli economici e materiali, che stanno alla base di ogni discorso e pratica.

Durante la Giornata Mondiale della Salute Mentale, da tredici anni a questa parte, si celebra la Giornata Nazionale della Psicologia con il rischio di creare un disallineamento, pratico e semantico, tra il mondo della salute mentale, sempre più ritenuto di esclusiva pertinenza delle pratiche e dei saperi psichiatrici, e la psicologia, relegata ad un ambito tanto prezioso quanto limitato e limitante, quello del benessere psicologico. Evidentemente tale giornata ha un’utilità reale nell’affermazione e nell’emancipazione della disciplina psicologica, che a mio parere sarebbe auspicabile potesse avvenire all’interno del medesimo contenitore di cui si è appropriato, colonizzandolo, chi subordina alla salute mentale, o psicologica, delle persone, alle logiche di profitto.

L’effetto delle restrizioni del Covid sui pazienti con malattia infiammatoria intestinale cronica (IBD)

Uno studio ha voluto esplorare le reazioni psicologiche degli italiani con diagnosi di malattia infiammatoria intestinale cronica (IBD) alla pandemia e le loro preoccupazioni sull’emergenza sanitaria. 

 

La malattia infiammatoria intestinale (IBD) è una malattia infiammatoria cronica del tratto gastrointestinale; solitamente comprende la malattia di Crohn, un’infiammazione cronica dell’intestino, che può colpire tutto il tratto gastrointestinale, dalla bocca all’ano; la colite ulcerosa che colpisce l’intestino crasso, interessando dapprima il retto, per poi eventualmente estendersi a tutto il colon e, talvolta, altre condizioni (Ricci et al., 2008).

Malattia infiammatoria intestinale: di cosa si tratta

L’infiammazione dell’intestino caratteristica delle IBD provoca dolore addominale, diarrea, sangue nelle feci e perdita di peso (Barello et al., 2014). Le IBD sono una malattia che dura tutta la vita e l’incidenza è aumentata notevolmente nei paesi industrializzati: è considerata una delle malattie gastrointestinali più prevalenti (Shah et al., 2015). Gli italiani con diagnosi di malattia infiammatoria intestinale sono circa 250.000 (AMICI Onlus, 2020) e, poiché non esiste una cura definitiva, i trattamenti includono farmaci con possibili effetti collaterali, interventi chirurgici invasivi e una costante attenzione allo stile di vita e alla dieta (Kaplan, 2015).

Spesso, la malattia infiammatoria intestinale richiede l’integrazione delle competenze di vari fornitori di assistenza sanitaria per soddisfare adeguatamente le esigenze dei pazienti. Le opzioni di trattamento medico e chirurgico sono complicate e sono frequentemente fonte di angoscia sia per il paziente che per l’operatore. Tuttavia, alcuni risultati dell’ultimo decennio sottolineano l’importanza del coinvolgimento dei pazienti nel trattamento, i quali diventano gestori attivi ed efficaci delle loro cure. La disponibilità dei pazienti a partecipare attivamente alla gestione della loro salute e alla prevenzione dei rischi è definita in letteratura come Patient Engagement (Greene, 2012). Le prove a sostegno del ruolo della compliance e del coinvolgimento del paziente rivelano infatti migliori risultati di salute, esperienze migliori per il paziente e costi complessivi più bassi.

Possibili effetti del Covid-19 su persone con malattia infiammatoria intestinale

La malattia da coronavirus 2019 (Covid-19) presenta, tra i fattori di rischio, l’età avanzata, le malattie cardiovascolari, l’ipertensione, il diabete, le malattie respiratorie croniche e il cancro (Liu et al., 2020). Il tasso di mortalità del Covid-19, secondo le statistiche, è del 4,3% e raggiunge il 13% in Italia settentrionale (Haybar et al., 2020).

Il governo italiano, in seguito alla rapida trasmissione del Covid-19, ha attuato misure preventive per limitare la diffusione della malattia, bloccando l’intera popolazione a casa tramite un decreto ministeriale. Tali limitazioni hanno avuto conseguenze emotive e psicologiche sulle persone, costrette a modificare il loro stile di vita e le loro abitudini quotidiane. Inoltre, l’incertezza dell’emergenza sanitaria e le misure restrittive hanno messo a dura prova le persone con una malattia cronica e la loro capacità di affrontare situazioni stressanti (Savarese et al., 2021).

Alcuni risultati della letteratura mostrano che le persone affette da IBD sperimentano un livello di peso psicologico e di stress che influenza negativamente la gravità della malattia e la qualità della vita poiché l’asse cervello-intestino (Bernstein, 2017), un collegamento tra il sistema nervoso centrale e il sistema enterico, viene spesso alterato da eventi stressanti ad alto impatto tra i quali il Covid-19 (Sood, 2020). In aggiunta, i soggetti affetti da malattie intestinali croniche, durante la situazione di emergenza e le restrizioni, hanno dovuto cambiare drasticamente la loro quotidianità e la loro gestione della malattia. (Scaldaferri et al., 2020).

Malattia infiammatoria intestinale e Covid-19: uno studio

In uno studio del 2021, Savarese e colleghi hanno esplorato le reazioni psicologiche degli italiani con diagnosi di IBD e le loro preoccupazioni sull’emergenza. In particolare, si sono focalizzati sui possibili effetti negativi sul patient engagement e sulla gestione della malattia.

Tramite un questionario online si sono occupati di valutare preoccupazioni generali, gestione della malattia e reazioni psicologiche, selezionando un campione non probabilistico composto da pazienti con IBD appartenenti all’Associazione Italiana pazienti con IBD (AMICI Onlus) che hanno completato il questionario nell’Aprile del 2020.

I risultati mostrano che i pazienti italiani con IBD sono apparsi molto preoccupati per l’emergenza Covid-19 (60,7%) e per i rischi di infezione (59%). La metà degli intervistati ha riferito uno stress percepito medio-alto e il 74% aveva livelli medio-bassi di autoefficacia nel coping. Inoltre, un terzo era in uno stato di eccitazione psicologica e il 29% dei pazienti aveva cancellato gli appuntamenti in ospedale per paura di contrarre il virus.

I risultati, come ipotizzato, hanno mostrato che i pazienti hanno vissuto le restrizioni con un livello medio di stress e con un’inadeguata capacità di coping per la gestione della malattia. Il Covid-19 risulta quindi percepito come un fattore altamente stressante a causa del quale i pazienti con IBD possono sentirsi disorientati e abbandonati: questi sentimenti possono peggiorare la percezione dell’effetto del Covid-19 sulla malattia e sulla qualità di vita.

Relativamente alla Patient Engagement, alcuni pazienti avevano una buona elaborazione psicologica dell’emergenza, accompagnata da un alto livello di aderenza ai farmaci e continuità delle visite, altri, invece, sperimentavano fasi di blackout e arousal, con il rischio di perdere l’orientamento e cadere in uno stato di scoraggiamento. Sarebbe importante quindi prestare maggiore attenzione al coinvolgimento del paziente per poter migliorare la cura delle IBD durante situazioni altamente stressanti come il Covid-19 per facilitare l’adesione alle prescrizioni mediche. In conclusione i risultati emersi dallo studio suggeriscono che è importante considerare e monitorare lo stato psicologico dei pazienti con IBD durante la pandemia per prevenire un peggioramento degli outcome psicologici che possono, a loro volta, avere implicazioni negative su quelli clinici (Savarese et al., 2021).

 

WaW – Women at Work: il progetto internazionale che promuove l’inclusione nel mondo del lavoro di donne fragili

WaW – Women at Work” è un progetto internazionale sostenuto dal programma Interreg Italia-Svizzera V-A che promuove l’inclusione nel mondo del lavoro di donne fragili

 

WaW – Women at Work” è un progetto internazionale sostenuto dal programma Interreg Italia-Svizzera V-A che promuove l’inclusione nel mondo del lavoro di donne fragili, come ad esempio madri vittime di violenza, ex ragazze con disturbo borderline di personalità, donne in situazione di disagio… Opera attraverso l’attività congiunta di 8 partner (6 italiani, 2 svizzeri), che collaborano al progetto partito nel novembre 2020 della durata di 24 mesi, con l’obiettivo di intercettare almeno 300 giovani donne per permettere ad un centinaio di loro di sviluppare percorsi di inclusione lavorativa.

WaW – Women at Work” non vuole essere un progetto di orientamento né di inserimento professionale, ma anzitutto intende promuovere una sfida più profonda che coinvolga la donna e il lavoro: valorizzare il bene nella parte di società disagiata, in quanto le risorse stanno nello stesso tessuto di legami ed esperienze in cui nascono i problemi. Ogni problema sociale si palesa realmente solo quando da esso si genera un tentativo di soluzione, che possa emergere in un’ottica sussidiaria.

Il logo di “WaW – Women at Work” richiama i celebri fiori di cactus di Henri Matisse: un fiore che cresce anche nel deserto, contesto arido e ostile, simbolo di imprevisto e novità apparentemente impossibile per una vita degna. È, quindi, l’emblema del percorso che il progetto vuole offrire ad ogni donna che incontra. Il payoff – “e quindi uscimmo a riveder le stelle” – è invece tratto dal notissimo ultimo verso dell’Inferno di Dante Alighieri, a indicare la prospettiva di bellezza per una rinascita.

WaW – Women at Work” vuole intendere anche la parola “lavoro” in un’accezione più profonda di mera occupazione: la donna fragile, anche con figli, spesso non è attiva e non responsabile per affrontare la vita adulta. Nelle community care della rete di progetto si elabora quindi un percorso personale imperniato attorno a laboratori (cucina, informatica, make up, pediatria, family manager…) e attività singole e di gruppo. Una proposta che da subito possa far reagire l’ospite verso una responsabilità adulta. Imparare a cucinare per 2 o per 10 persone, curare un bambino, gestire il budget familiare con oculatezza, lavorare all’esterno in una occupazione quotidiana, gestire il tempo libero e le vacanze costituiscono (al di là e in più rispetto alla validazione di un tribunale) un grande goal, ma sulla propria vita.

Il progetto si avvale del supporto scientifico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, coinvolta nella realizzazione di una ricerca sul Metodo Relazionale nelle pratiche di aiuto sociale elaborata dal prof. Fabio Folgheraiter. Una seconda mappatura è curata dall’Irs – Istituto per la Ricerca Sociale, su servizi e interventi per l’inclusione di donne in condizione di vulnerabilità nei territori di confine tra Italia e Svizzera. Tra i partner, anche la Clinica Santa Croce di Orselina (Canton Ticino), che cura la realizzazione di un’app di richiesta di primo aiuto per donne in situazione di disagio psichico.

 

Le sentenze sommarie del tribunale de Le Iene e l’equivoco dei ricordi traumatici in psicoterapia

Durante la puntata del 9 novembre 2021 la popolare trasmissione TV “Le Iene” ha messo in onda un servizio su una ragazza in passato affetta da disturbi alimentari che ha raccontato come, tramite una particolare tecnica terapeutica denominata EMDR, avrebbe ricordato abusi sessuali subiti in infanzia dallo zio.

Non basta. Durante il servizio la ragazza, accompagnata da alcuni operatori, è andata a trovare lo zio per rinfacciargli tutto (L’episodio di cui parliamo è visionabile a questo link: https://www.iene.mediaset.it/video/vivere-senza-ricordare-abusi-subiti-bambina-zio_1099826.shtml – NdR).

Da un punto di vista psicologico, un servizio di questo tipo genera una grande quantità di perplessità e domande. La prima è lo statuto scientifico dell’analisi terapeutica dei ricordi infantili. È una polemica nata con la psicoterapia stessa e intorno alla quale si continua a litigare da ormai più di un secolo, oscillando tra due posizioni estreme: si va dalla concezione dei ricordi come mero strumento terapeutico che serve ad aiutare il paziente a superare le proprie vulnerabilità emotive, che non ha alcuna verità fattuale ed è valido solo in seduta, all’estremo opposto nel quale i ricordi sono dati affidabili e riflettono traumi reali. In mezzo a queste due posizioni ne possiamo trovare molte altre, tra le quali una delle più rappresentative è quella sui ricordi abbastanza affidabili di relazioni trascuranti (il cosiddetto neglect) ma non traumatiche, eppure inevitabilmente raccontate in termini così dolorosi da poter essere definite anch’esse traumatiche. Anche Freud oscillò tra i due poli: ebbe una fase iniziale in cui credette al trauma reale e poi passò alla concezione opposta nella quale ritenne che si trattava di fantasie inconsce. I suoi successori per lo più si assestarono nel mezzo, con una certa propensione per il trauma relazionale o dell’attaccamento, doloroso ma non aggressivo. E così ancora oggi.

EMDR sta per Eye Movement Desensitization Reprocessing ed è una procedura di elaborazione del trauma utilizzabile in psicoterapia durante la quale, mediante un’induzione di movimenti oculari oscillatori gestita dal terapeuta, si aiuta il paziente a lavorare sui ricordi traumatici. Come tecnica ha la sua efficacia scientificamente confermata, specie sugli adolescenti e per traumi “specifici”, ovvero situazioni di violenza aggressiva senza possibilità di fuga che mettono a rischio l’incolumità della persona, come un terremoto o un grave incidente improvviso o quando si assiste a simili situazloni. Ricordiamo inoltre che i dati di efficacia a favore dell’EMDR, pur presenti, non la qualificano come terapia superiore a tutte le altre ma solo come di eguale efficacia alla terapia cognitivo comportamentale e, ribadiamolo, specifica per il disturbo da stress post traumatico e non per i problemi cumulativi di trascuratezza relazionale (Cusack e coll., 2016). È importante ricordare questo perché terapie e tecniche efficaci su determinati disturbi o problemi non vanno allargate a disturbi diversi o a problemi di tipo diverso. Ad esempio l’EMDR, utile soprattutto per i disturbi da stress post traumatico, non ha alcuna prova di efficacia sui disturbi dell’alimentazione o sui disturbi ossessivi. Questo dato sembra ovvio ma spesso chi si appassiona a determinate tecniche se non è scrupoloso rischia di allargarne l’uso in modo improprio e poco rispettoso dei dati dell’evidenza scientifica.

Materia dell’elaborazione nell’EMDR sono ricordi che però, va detto, sono elaborazione di materiale clinico e non riproduzioni esatte di eventi: la persona lavora sulle sue memorie dolorose e arriva a gestirle meglio ma non si può dire che essa ricordi affidabilmente avvenimenti reali “rimossi” e che queste riemersioni costituiscano accurate prove di fatto di avvenimenti dettagliatamente ricostruiti. In una trasmissione TV però non c’è molto spazio per queste sottigliezze cliniche e la concezione che rischia di passare allo spettatore è quella del trauma reale “rimosso” e poi ricordato per filo e per segno. E “rimosso” è proprio il termine che la ragazza utilizza al minuto 8:45 del servizio delle Iene: lei parla allo zio della violenza subita, del suo ricordo “rimosso” e ricordato -secondo la ragazza- con la tecnica EMDR che quindi diventa, nella trasmissione, una prova della realtà del fatto dell’evento. Inutile sottilizzare sull’uso tecnico in psicoterapia del termine “rimosso”, inutile ricordare che per Freud il paziente rimuove fantasie inconsce e non traumi reali. E così via, andando per i mille significati di questi termini nelle centinaia di psicoterapie nate dai tempi di Freud a oggi. Lo spettatore del servizio comprende che la ragazza ha ricordato in maniera affidabile un ricordo “rimosso” di un trauma certamente avvenuto.

Come reagiamo noi psicoterapeuti? Nel servizio della trasmissione TV al minuto 5:30 è chiesto il parere di una operatrice EMDR, la dottoressa Isabel Fernandez, presidente dell’associazione EMDR-Italia. La dottoressa naturalmente non parla di eventi rimossi e rievocati fedelmente ma del fatto che, durante eventi traumatici, la mente ha la possibilità di “chiudere” (minuto 5:52) su eventi così gravi e insopportabili e poi, durante l’applicazione dell’EMDR, è possibile una “elaborazione” (minuto 5:52) del trauma. Attenzione: elaborazione del trauma, non rievocazione fedele di ricordi. Tutto bene quindi, la Dottoressa Fernandez non si è prestata a strumentalizzazioni, non è cascata nel tranello.

Peccato che poi frasi sapientemente inserite dall’intervistatrice si aggancino alle affermazioni della dottoressa Fernandez come una conclusione, finendo per suggerire esplicitamente che i movimenti oculari dell’EMDR “possono far emergere ricordi” (minuto 6:31). Infine, dal minuto 7:30 in poi parte la ripresa dell’incontro tra la ragazza e suo zio.

A questo punto l’elaborazione mentale -fenomeno psicologico tutto interno, sottolineiamolo- si tramuta quindi in un ricordo affidabile di una violenza reale -comportamento esterno- che viene rinfacciata di persona allo zio perché -dice la ragazza- non solo è necessario “chiudere proprio il cerchio” (7:08) ma anche perché altrimenti “lui è libero, tranquillo” (minuto 7:19). Qui già vediamo come il “chiudere proprio il cerchio” attraverso un confronto -una forma molto naif ed estremamente discutibile di elaborazione psicologica, siamo nel mito popolare dell’esperienza purificatrice, ma pur sempre ancora nei termini della psicologia- già minacci di diventare una rivalsa, l’unica possibile perché “lui è libero, tranquillo” in un confronto che di psicoterapeutico non ha più nulla ma è semmai un evento tragico. Una rivalsa simile però finisce per essere troppo rozza e necessita di vestirsi dei panni della giustizia perché “non va bene così, non è giusto” (minuto 7:20) che lui sia libero e tranquillo.

E giustizia sia fatta allora, ma non quella custodita dalle leggi dello Stato di Diritto; semmai quella della condanna pubblica nella gogna di una trasmissione TV, perché, come subito dopo dice la voce dell’intervistatrice “questa per lei è l’unica giustizia possibile perché dopo tutti questi anni, qualsiasi reato abbia commesso lo zio in passato, per legge è ormai prescritto” (7:21). Insomma, dato che il reato non è più perseguibile diventa giusta allora la gogna, ovvero un linciaggio sia pure solo verbale. Linciaggio giustificato da quale prova? Dal ricordo rievocato dall’EMDR, che così diventa una tecnica di esplorazione scientifica della memoria utilizzabile a fini giuridici, una macchina della verità i cui risultati si possono usare in un processo o anche, se il reato è prescritto, in un linciaggio.

È vero che le affermazioni della dottoressa Fernandez -che si è limitata a parlare di una mente che può “chiudere” durante un trauma e di un EMDR che è una possibilità di “elaborazione”- sono state strumentalizzate nella trasmissione. E tuttavia è grave che l’associazione EMDR Italia non abbia sentito il bisogno di dissociarsi dall’uso strumentale fatto in trasmissione delle affermazioni di Fernandez. Non basta. Pochi giorni dopo, nella pagina Facebook ufficiale dell’associazione EMDR Italia, un post del 13 novembre alle ore 6:58 commenta l’intervista e riporta esplicitamente l’affermazione che “non solo l’EMDR, ma in generale la psicoterapia stessa porta i pazienti a ricordare, a collegare, a recuperare ricordi, purtroppo spesso di abusi.”

Assolutamente no. La psicoterapia non fa ricordare nulla in termini fattuali e se lo fa, lo fa nei termini della psicoterapia e non della ricostruzione fattuale di eventi. Questo punto è da tenere fermo. Come già è accaduto altre volte nella storia della psicoterapia fin dai tempi di Freud, si fa confusione tra l’esplorazione della memoria come strumento terapeutico valido in seduta per elaborare gli stati dolorosi e la rievocazione dei ricordi come prova affidabile di episodi reali e spendibile anche fuori dalla seduta, ad esempio in tribunale. Di qui al suo uso per giustificare gogne mediatiche e linciaggi di vario tipo il passo è breve. Questo passo non è corretto. Come ha segnalato il collega Giancarlo Dimaggio, psicoterapeuta e uno dei maggiori esperti internazionali di stati problematici, alcuni studiosi come Henry Otgar e i suoi collaboratori hanno dimostrato che l’uso dell’EMDR e in generale di tecniche psicologiche in procedure giuridiche è un’opzione rischiosa perché la logica del tribunale è quella della certezza della colpevolezza e non dell’elaborazione di un dolore (Otgar et al., 2021). E questo rischio è ulteriormente incrementato dal fatto che l’EMDR, lungi dallo scoprire ricordi reali, in realtà può indurre falsi ricordi, come confermano altri studi (Kenchel et al., 2020; Houben et al., 2018).

Tutto questo porta in primo piano la responsabilità di noi clinici che periodicamente da un secolo a questa parte caschiamo in questo equivoco, confondendo elaborazione psicologica del dolore e riemersione del ricordo rimosso come prova di fatto di eventi reali, stimolando così piccole o grandi caccie alle streghe, ed esempi ce ne sono tanti. È vero che la psicoterapia ha testimoniato anche periodi in cui si esagerava sul versante opposto, tempi in cui i ricordi dei pazienti traumatizzati erano ritenuti del tutto immaginari e inaffidabili e quindi completamente non valorizzati dagli psicoterapeuti in seduta. Sappiamo bene che la consapevolezza dell’importanza del trauma proviene dagli studi sugli effetti psicologici della guerra e delle grandi sciagure: c’è stato un tempo in cui la psicologia non riconosceva nemmeno l’impatto traumatico dell’esperienza in guerra dei soldati.

E tuttavia non dimentichiamo che anche nei momenti in cui la psicologia riscopre la verità del trauma questa rimane una verità clinica che ha una sua validità soprattutto in seduta come strumento di cura e non come mezzo di raccolta prove e di condanna e ancor meno di punizione surrogata mediante confronti drammatici o addirittura gogne e linciaggi per i supposti colpevoli. Gli abusi possono sicuramente essere reali e come tali possono essere trattati ed elaborati in seduta accanto alle sofferenze che non dipendono da traumi reali, e tutto questo senza chiedere ulteriori prove di fatto durante la seduta proprio perché una psicoterapia non è un processo in tribunale che per portare a una condanna ha bisogno di testimonianze certe ma una cura che si può accontentare di indizi da elaborare psicologicamente con il paziente senza mandare nessuno in galera. Sicuramente colleghi esperti che lavorano come periti in tribunale danno, se richiesti, il loro parere tecnico che contribuisce alla formulazione del verdetto, ma il tempo delle macchine della verità è, per fortuna, passato e questo è ormai un dato accettato dalla cultura comune, come troviamo scritto qui. Insomma, la psicologia e la psicoterapia devono fermarsi sulla soglia del tribunale ed entrare solo se chiamate per esprimere un parere tecnico e non emettere una sentenza.

Relazione tra situazioni di emergenza, stili di coping e religione/spiritualità

L’obiettivo dello studio è stato quello di verificare se durante l’emergenza Covid-19 la religione e la spiritualità potessero incidere in modo significativo sull’efficacia delle strategie di coping impiegate.

 

Introduzione

Lo studio dei rituali e delle pratiche religiose è stato argomento di interesse della psicologia sin dai suoi albori. Tuttavia, la religione viene spesso sottovalutata all’interno del dominio clinico. I dati empirici indicano, infatti, che aspetti specifici della religiosità sono correlati allo stato di salute mentale (James & Wells, 2003). William James, nel libro The Varieties of Religious Experience (1902), definì la religione e la fede come degli strumenti ottimali per migliorare e prevenire alcune forme di malattie (James, 1961). Una malattia, causando un disturbo nella dimensione bio-psico-sociale, influenza le altre dimensioni ed è per questo che una cura efficace deve considerare tutte le dimensioni e la relazione tra loro. Il modello biopsicosociale-spirituale considera, infatti, l’intera esistenza di una persona e invita gli operatori sanitari a tenere conto dell’intera persona (Besharat, Ramesh & Moghimi, 2018). Anche l’OMS (Organizzazione mondiale della salute) sottolinea l’importanza degli effetti della dimensione spirituale sulla salute generale e sulla felicità delle persone (Besharat, Ramesh & Moghimi, 2018).

Religione e spiritualità

Il termine religione fa riferimento a tutti gli aspetti delle relazioni umane con il divino o il trascendente (James, 2009). L’adesione a una religione implica un’esperienza condivisa di spiritualità che si esprime con l’appartenenza a una comunità, mediante l’utilizzo di un insieme di ritualismi e pratiche formalizzate. La religiosità è, di fatto, un costrutto multidimensionale e, per questo, diversi aspetti possono essere esaminati in relazione alla salute (Lewis, Lanigan, & Stephen de Fockert, 1997; Dreger, 1952; Hackney & Sanders, 2003).

Oltre che sul termine “religiosità”, è bene soffermarsi sul concetto di spiritualità, spesso erroneamente considerato sinonimo. La spiritualità è un concetto al di là della religione e dell’adesione religiosa (Besharat, Ramesh & Moghimi, 2018). Nel linguaggio comune esso è considerato come ricerca del trascendente. Il termine spiritualità fa riferimento all’esistenza di un livello per l’appunto spirituale, che può includere la fede in poteri soprannaturali (come la religione), ma sempre tenendo in considerazione il valore personale e fenomenologico dell’esperienza (Rizzuto, 2005). L’esistenza di una spiritualità soggettiva non implica necessariamente la presenza di una dimensione religiosa: di fatto, la spiritualità può esistere anche in assenza di ritualismi specifici. La spiritualità può essere vista come un “modo d’essere” che denota un’attenzione per un piano dell’esistenza non esclusivamente materiale.

In letteratura si è osservata una correlazione moderata tra religione e spiritualità nel miglioramento dello status di salute psicofisico (Rizzuto, 2005).

Risulta, quindi, necessaria una struttura di ricerca che si mantenga ben definita nel tempo, per delineare le specifiche variabili che in una persona religiosa possono essere correlate alla salute.

La religione può promuovere l’autocontrollo e la capacità di autoregolazione, influenzare il modo in cui gli obiettivi vengono selezionati, perseguiti e organizzati (McCullough & Willoughby, 2009).  La letteratura suggerisce una correlazione tra longevità, salute e adesione a una comunità religiosa (Hummer, Rogers, Nam & Ellison, 1999). Si è osservato inoltre che, in studenti universitari con impegni religiosi, i livelli di benessere psicologico fossero significativamente maggiori rispetto ai colleghi non religiosi. (Bonderud, & Fleisher, 2004) (12). Ancora, la religione sembra promuovere un minor consumo di alcool e tabacco (Turner-Musa & Lipscomb, 2007) e favorire una miglior gestione di diagnosi ospedaliera (National Cancer Institute, 2007), migliorando dunque la capacità di affrontare una malattia e l’eventuale recupero (Besharat, Ramesh & Moghimi, 2018).

Kendler, Gardner e Prescott (1997) evidenziarono come la religiosità sia correlata a livelli minori di ansia e di paura della morte, soprattutto nei soggetti di sesso femminile che partecipano attivamente alle funzioni religiose. Altri studi hanno, inoltre, dimostrano come le persone religiose possano superare più agevolmente un’esperienza traumatica, rispetto a soggetti non religiosi (Strawbridge, Cohen, Shema & Kaplan, 1997).

In contrapposizione al concetto di religiosità, è bene definire i concetti di Ateismo e di Agnosticismo. L’enciclopedia Garzanti di filosofia (Garzanti, 1981) definisce l’ateismo come “la posizione di chi non afferma l’esistenza di Dio”, opposta al teismo in generale. Si definisce ateo chi non crede in alcuna divinità negandone la pretesa specifica di esistenza come realtà trascendente l’uomo (Cliteur, 2009). Il termine Agnostico è, invece, definibile come un atteggiamento di sospensione del giudizio rispetto a un problema (in questo caso, l’esistenza o meno di una dimensione divina) per mancanza di sufficiente conoscenza.

Coping Religioso

A seguito di un evento stressante, i soggetti con religiosità elevata ricorrono ad uno stile di coping più funzionale per affrontare le difficoltà, trovando supporto nelle loro comunità religiose di appartenenza (Greenberg & Witzum, 2001; Koenig, McCullough & Larson, D.,2001; Salsman, Brown, Rechting, & Carlson, 2005) o mediante comportamenti, come preghiere o gestualità con significati intrinsechi, atti a ridurre lo stress. La religione, dunque, può essere un fattore protettivo anche in situazioni drammatiche o stressanti, incidendo positivamente sulla salute psicologica e fisica dei soggetti e divenendo, all’occorrenza, un vero e proprio stile di coping.

Il termine coping (traducibile dall’inglese come “strategia di adattamento”) viene definito da Lazarus (1984) come l’insieme di meccanismi cognitivi e comportamentali messi in atto dagli individui per fronteggiare lo stress o situazioni particolarmente difficili (Lazarus & Folkman, 1984). Questi meccanismi intrapsichici non si limitano solo alla capacità dell’individuo di risolvere una determinata situazione problematica, ma anche e soprattutto alla capacità di gestione delle emozioni scaturite dalla situazione (Taylor & Stanton, 2007). Infatti, lo scopo delle strategie di coping è di ridurre o tollerare lo stress ed il conflitto (Lazarus & Folkman, 1984), con un conseguente impatto significativo sulla salute mentale e fisica.

Pargament definì il costrutto multidimensionale di coping religioso riferendosi a tre particolari strategie che possono essere utilizzate (Hathaway & Pargament, 1990). Queste possono essere connesse e focalizzate sulla risoluzione del problema, sulle emozioni e sui fattori e dimensioni collegati. In linea generica, possiamo ricondurre il modo di usare il coping religioso a tre comportamenti prototipici. Il primo riguarda le strategie utilizzate dall’individuo che coinvolge altri membri di una determinata istituzione religiosa e tutte le pratiche ad essa connesse (ad esempio volontariato ed assistenza nella chiesa che si frequenta). Il secondo tipo si riferisce o all’uso della preghiera o lettura e studio delle sacre scritture; infine, l’ultima tipologia di coping riguarda la meditazione o contemplazione (Davis, Nolen-Hoeksema & Larson, 1998; Spilka & Schmidt, 1983; Gall, 2003). La religione potrebbe dunque, prevenire la depressione, la frustrazione, l’autolesionismo e le tendenze suicide, facilitare la gestione delle emozioni negative e aiutare la persona nei periodi di difficoltà (Besharat, Ramesh & Moghimi, 2018).

Situazione di Emergenza-Covid-19

L’11 marzo 2020, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato lo stato di emergenza a causa della pandemia per il COVID-19. Il nuovo virus, i cui sintomi includono febbre, stanchezza, tosse secca, mialgia e dispnea (Wang, Hu, Hu, Zhu, Liu et al., 2020), ha colpito l’essere umano in 135 paesi dal 14 marzo 2020 (World Health Organization, 2020). Vista la natura di trasmissione del nuovo virus tramite droplets durante uno stretto contatto non protetto con soggetti infetti (Nussbaumer-Streit, Mayr, Dobrescu, Chapman, Persad, Klerings, Wagner, Siebert, Christof, Zachariah & Gartlehner, 2020), per contrastarne la diffusione si è resa necessaria la sospensione di numerose attività commerciali, educative e non di prima necessità, come anche i luoghi di culto, per diversi paesi, fra cui l’Italia. Infatti, la popolazione italiana è stata invitata e forzata in uno stato di isolamento e di distanziamento sociale e, ove possibile, è stato chiesto di svolgere le proprie attività lavorative in una modalità differente (es. smartworking).

Studi svolti su precedenti epidemie e pandemie hanno evidenziato come alcuni aspetti psicologici dell’individuo si trovino spesso in comorbilità con la paura, come ansia, depressione, qualità del sonno peggiorata e fobie che possono influenzare negativamente la qualità della vita delle persone (Ford, Yolken, Dickerson, Teague, Irwin, Paulus & Savitz, 2018).

Le caratteristiche della malattia (e.g: la velocità e le modalità di trasmissione, la sua morbilità e mortalità, l’incertezza sugli esiti), il lockdown imposto dai governi per proteggere la salute della popolazione e i danni economici lavorativi conseguenti al lockdown stesso, possono portare ad una percezione di paura (Guan, Ni, Hu, Liang & Zhong, 2020), un aumento di sentimenti di stress e ansia (Akhigbe, 2020). A tal proposito, è stata rilevata una significativa correlazione tra livelli d’ansia e pandemia, sia nei pazienti sintomatici che asintomatici. Ciò potrebbe, inoltre, influire negativamente sulla salute mentale dei pazienti affetti da Covid-19 (Akhigbe, 2020). Una recente review ha evidenziato, infatti, che la quarantena può avere effetti psicologici negativi come sintomi di stress post-traumatico, confusione e rabbia, che possono portare conseguenze psicologiche a lungo termine (Brooks, 2020). Si è osservato, inoltre, un generale decremento della qualità del sonno.

Alla luce di queste considerazioni, l’obiettivo del presente studio è di indagare la possibile relazione che intercorre tra le strategie di coping e la gestione della situazione di stress causata dalla pandemia COVID-19, la quale ha costretto la popolazione italiana ad una situazione di distanziamento sociale e di isolamento. Nello specifico, è stata valutata l’efficacia di uno stile di coping religioso nella situazione di emergenza dovuta alla pandemia.

Sono stati misurati gli stili di coping mediante i cinque fattori del test COPE-NVI 25 (Caricati, Foà, Fruggeri &Tonarelli 2015): Orientamento Trascendente, Evitamento, Orientamento al Problema, Ricerca supporto sociale, Attitudine Positiva e la situazione di difficoltà dovuta alla pandemia da COVID-19.

Strumenti Utilizzati

Domande socio-demografiche: il questionario comprendeva domande relative agli aspetti sociodemografici dei partecipanti (ad es. sesso, età e livello di istruzione). Inoltre, è stato chiesto ai soggetti di valutare la qualità del sonno durante questo periodo di quarantena con la seguente domanda: “Come valuti la tua qualità del sonno? (Considerando gli ultimi 15 giorni?)”, valutata su una scala di tipo likert da 0 a 3 punti, dove 0 è molto scarsa e 3 è molto buona. Abbiamo inserito questa domanda, in quanto la qualità del sonno (e della vita in generale) sono state messe in relazione in precedenti ricerche descritte nell’introduzione.

Domande specifiche su Religione e Preoccupazione per il Covid-19. Sono state poste due domande specifiche, ideate ad-hoc per questo studio per indagare il tipo di religione (Ateo, Credente, Agnostico) e la preoccupazione percepita riguardo il Covid-19 (Poco preoccupato, Moderatamente preoccupato, Molto preoccupato). Le domande poste sono le seguenti: “Rispetto alla situazione che stiamo vivendo oggi (quarantena e Covid-19) ti senti: Poco preoccupato, Moderatamente preoccupato, Molto preoccupato” e “Il tuo orientamento Religioso/Spirituale? Ateo, Credente/Spirituale, Agnostico”. Vista la natura esplorativa del presente studio, gli autori hanno preferito non diversificare per tipo di religione (come ad esempio cattolica) o credenza spirituale ma creare solamente le tre macro-categorie evidenziate.

COPE-NVI 25: Il test COPE-NVI (Carver, Scheier & Weintraub,1989) è uno strumento largamente utilizzato in ambito italiano per la misurazione degli stili di coping (versione italiana a cura di Caricati, Foà, Fruggeri, Tonarelli, 2015). Esso è composto da 25 Item e valuta 5 dimensioni (Strategie di evitamento, Orientamento trascendente, Attitudine positiva, Sostegno sociale, Orientamento al problema). Un punteggio più elevato in un fattore indica lo stile di coping utilizzato dal soggetto. Ogni item sulla misura è valutato su una scala a 5 punti (0 = Mai; 1 = Occasionalmente; 2 = Qualche volta; 3 = La maggior parte del tempo e 4 = Sempre). Esempi di item sono “Cerco qualcosa di positivo in ciò che è accaduto”; “Ripongo la mia speranza in Dio”. Nel nostro studio la coerenza interna, misurata con l’alfa di Cronbach era di 0.86. La scelta di questo strumento è dovuta alla capacità dello stesso di misurare gli stili di coping in funzione degli obiettivi dello studio (nello specifico la capacità di misurare lo stile di coping trascendente).

Fear of COVID-19 Scale (FCV-19S): Il test FCV-19S (Ahorsu, Lin, Imani, Saffari, Griffiths & Pakpour 2020) è costituito da una scala di sette item che valuta la Fear of COVID-19 (versione italiana analizzata da Sorac., Ferrari, Abbiati, Del Fante, Pace, Urso & Griffiths, 2020). I sette item (ad esempio, “Ho molta paura del Covid-19”) sono segnati tra 1 (fortemente in disaccordo) e 5 (fortemente d’accordo) con punteggi che vanno da 7 a 35. Più alto è il punteggio, maggiore è la paura di Covid-19. Nel nostro studio la coerenza interna, misurata con l’alfa di Cronbach era di 0.84. Questo strumento è stato scelto in quanto riesce a dare un risultato quantitativo sulla paura specifica da Covid-19.

La misura di gravità per fobia specifica — Adulto (GFS-A Craske, Wittchen, Bogels, Stein, Andrews & Lebeu 2013) è una misura in 10 item che valuta la gravità della fobia specifica in soggetti di età pari o superiore a 18 anni (versione italiana: Fossati, Borroni e Del Corno, 2015). Ogni item chiede all’individuo di valutare la gravità della sua fobia specifica negli ultimi 7 giorni. Ogni item sulla misura è valutato su una scala a 5 punti (0 = Mai; 1 = Occasionalmente; 2 = Qualche volta; 3 = La maggior parte del tempo e 4 = Sempre). Il punteggio totale può variare da 0 a 40 con punteggi più alti che indicano una maggiore gravità della fobia specifica. Esempi di item sono “… ho avuto momenti di improvviso terrore, paura o angoscia in queste situazioni” e “… ho avuto bisogno di aiuto per far fronte a queste situazioni (per es., con alcol o farmaci, oggetti portafortuna o altre persone).”. L’alfa di Cronbach nel presente studio era 0.81 Questo strumento è stato scelto in quanto la Fobia è una particolare tipologia di Paura ed è quindi stata utilizzata per avere uno strumento di convergenza nelle analisi statistiche.

Adult PROMIS Emotional Distress / Anxiety-Short Form (APEDA-SF): L’APEDA-SF in sette item (Pilkonis, Choi, Reise et al., 2011; versione italiana: Fossati, Borroni e Del Corno, 2015) valuta l’ansia tra soggetti di età pari o superiore a 18 anni. I sette item (ad es. “Mi sento ansioso”) sono valutati su una scala da 1 (mai) a 5 (molto frequentemente) con punteggi che vanno da 7 a 35, con un punteggio più alto che indica un livello più alto di ansia. Nel nostro studio la coerenza interna, misurata con l’alfa di Cronbach era di 0.91. Questo strumento è stato scelto in quanto l’Ansia è stata, nelle precedenti ricerche, una variabile presente nelle situazioni di Paura e di situazioni particolarmente stressanti, come quella della pandemia da Covid-19.

 

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Discussione

L’obiettivo di questo studio di ricerca era di verificare se durante l’emergenza Covid-19 l’appartenenza a un credo religioso o meno potesse incidere in modo significativo sull’efficacia delle strategie di coping impiegate, sull’ansia/paura Covid-19 e sulla fobia specifica. Nello specifico, sono stati valutati i punteggi nei test riguardanti l’ansia generalizzata, la fobia specifica, la paura per il Covid-19 e il tipo di coping (riferito al test COPE-NVE-25). I risultati dimostrano che nella maggior parte dei test, l’essere Credente/Spirituale, Agnostico o Ateo non porta ad una differenza significativa tra le medie. Contrariamente all’ipotesi iniziale, nei test APEDA-SF e GFS-A riguardanti l’ansia e la fobia specifica non si è osservata una differenza significativa tra le medie, in nessuno dei tre gruppi di soggetti. Solo nel test della paura per COVID-19 (FCV-19S) si è osservata una differenza significativa tra Agnostici e Credenti (con i Credenti con una media più elevata) ma non tra Atei e Credenti/Spirituali o Atei e Agnostici. Per quanto concerne il Coping, in quattro dei cinque fattori del test COPE-NVE 25 (Strategie di evitamento, Attitudine positiva, Sostegno sociale, Orientamento al problema) non sono state osservate differenze statisticamente significative tra i diversi gruppi (Ateo/Agnostico/Credente). Questi risultati potrebbero essere spiegati dall’unicità della condizione in cui si è svolto lo studio: l’inaccessibilità ai luoghi di culto per via dell’epidemia di Covid- 19 ha reso impossibile l’aggregazione comunitaria tipica di molte religioni teiste, la quale potrebbe rappresentare uno dei “punti forti” nel rafforzamento delle strategie di coping individuali. Di fatto, l’emergenza Covid-19 anche in Italia ha causato l’interruzione delle pratiche religiose in tutti i luoghi di culto (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Decreto 8 marzo 2020).

L’unica differenza significativa è stata trovata in uno dei cinque fattori (Orientamento Trascendente) tra il gruppo dei Credenti/Spirituali e i gruppi Atei/Agnostici. Tale risultato è in linea con le nostre ipotesi di partenza, e suggerisce che i Credenti potrebbero trarre beneficio dall’affidamento alle credenze relative all’esistenza di una divinità nelle situazioni di emergenza. Infatti, in diversi studi qualitativi dei bisogni durante l’emergenza Covid-19 (Maslow, 1943; Poston, 2009; Frankl, 1996; Wesley, Wildman, Bulbulia, Sosis, & Schjoedt, 2020), si evince che il bisogno maggiormente espresso risulta essere quello di sicurezza, e nel caso dei Credenti/Spirtiuali verso un’entità superiore. Per sopperire a questa mancanza (accessibilità nei luoghi di culto) sono stati attivati dei servizi on line delle pratiche religiose comunitarie e questo ha permesso di mantenere il contatto con la propria sfera religiosa/spirituale e quindi utilizzare maggiormente lo stile di coping trascendente, rispetto agli altri (Wesley, Wildman, Bulbulia, Sosis, & Schjoedt, 2020)

Per quanto riguarda la qualità del sonno, essa non sembra essere influenzata dal tipo di orientamento religioso, ed in generale tutti e tre i gruppi hanno avuto una media bassa nella qualità del sonno percepito. Nello specifico, essa è correlata negativamente e in modo significativo sia al test dell’Ansia, sia al test della Fobia specifica ed è correlata negativamente ma non in modo significativo alla paura del Covid-19. Infatti, in una situazione di particolare ansia la qualità della vita in generale diminuisce (Terri. Barrera & Norton, 2009).

Il presente studio non è esente da limiti. Innanzitutto, non è stato possibile delineare una differenza netta tra “spiritualità” e “religiosità” all’interno del questionario. Di fatto, benché siano termini facilmente confondibili, l’esistenza di una spiritualità non presuppone necessariamente l’appartenenza a comunità religiosa, ma si rifà più che altro al concetto di “trascendenza” e di estensione verso l’immaterialità. Inoltre, la categoria “credenti” non include necessariamente l’appartenenza a una comunità religiosa (es. cattolici non praticanti) e quindi non coinvolge in maniera univoca tutti quei ritualismi tipici che potrebbero fornire un coping religioso più efficace.

Ricerche future potrebbero per l’appunto fornire una descrizione più accurata delle differenze che esistono tra soggetti Religiosi/Credenti e soggetti “Spirituali” non Religiosi, così come per distinguere tra soggetti “Praticanti” e “non Praticanti” per aiutare i soggetti sperimentali a inserirsi più agilmente in una delle categorie proposte. A tal proposito, suggeriamo la possibilità di integrare un questionario iniziale che indaghi per l’appunto l’orientamento religioso/spirituale e inserisca ogni soggetto sperimentale all’interno di una delle categorie proposte. Inoltre, studi futuri potrebbero includere un campione più vario di religioni presenti sul territorio nazionale (e.g: Cristiani Ortodossi, Induisti, ecc..). Infine, i prossimi studi potrebbero tentare di identificare le differenze qualitative negli stili di coping per le religioni più diffuse. Inoltre, sarebbe utile tentare di estrapolare alcune caratteristiche pregnanti tra le religioni stesse (e.g: aggregazione, ritualismi, meditazione,) per poter capire quali di questi stili di coping religioso possono essere più o meno efficaci.

 

Come il COVID ha influito sulla salute mentale delle partorienti: i risultati dello studio italiano SEG-COVID19

I ricercatori si sono chiesti: “Cosa implica, in termini psicologici, affrontare una gravidanza durante l’emergenza sanitaria da Covid-19”?

 

1179 donne di tutta Italia, partorienti durante il periodo corrispondente al primo lockdown nazionale, sono state coinvolte nell’importante studio italiano SEG-COVID19, volto ad indagare l’impatto dell’emergenza sanitaria sulla salute mentale delle gestanti.

Razionale ed obiettivi dello studio

La gravidanza, delicato e complesso periodo di grandi cambiamenti fisici ed emotivi, richiede per sua natura una serie di adattamenti e di mutamenti volti anche ad accompagnare il crearsi della relazione emotiva dei genitori verso il nascituro. La teoria dell’attaccamento prenatale definisce questa relazione unica tra genitori e feto “attaccamento prenatale” (Atashi et al., 2018; Brandon et al., 2009). Similmente, alcuni ricercatori hanno usato il termine “attaccamento materno-fetale” (MFA) per riferirsi all’attaccamento emotivo tra madre e feto, ritenuto un indicatore della loro salute e dell’efficienza della madre nel periodo postnatale (Alhusen, 2008). La forza del rapporto madre-feto ha infatti importanti implicazioni nel periodo postnatale, influenzando anche la qualità delle cure (Howland et al., 2020; McNamara et al., 2019). Risulta pertanto importante individuare quei fattori che possono influenzare o interrompere il naturale processo di attaccamento prenatale nella madre.

La compresenza di un agente altamente stressante, quale l’emergenza sanitaria generata dal coronavirus, ha di fatto indotto le donne in gravidanza a fronteggiare condizioni stressanti nuove e incisive, quali l’isolamento e la riduzione dei contatti fisici. Considerando che un numero sempre crescente di studi dimostra che lo sviluppo fisico e mentale, durante tutto il corso della vita, è strettamente correlato al contatto, i ricercatori si sono chiesti quale impatto questa condizione deprivante avrebbe avuto sulle gestanti, partendo dalla domanda: “Cosa implica, in termini psicologici, affrontare una gravidanza durante l’emergenza sanitaria da Covid-19”?

Del resto, la tematica relativa all’impatto della pandemia sulla salute mentale delle gestanti ha visto crescere intorno a sé molto interesse. Le ricerche realizzate hanno rilevato che i fattori maggiormente connessi all’aumento del disagio perinatale sono i seguenti: unicità della malattia, impatto globale inatteso, incertezze circa le ripercussioni fisiche (per le madri e per i nascituri), rischi di trasmissione, restrizione dei contatti sociali.

Nessuno studio è stato invece rivolto alla valutazione dell’eventuale influenza esercitata dall’esposizione allo stress da Covid-19 sull’attaccamento prenatale delle madri.

Lo studio SEG-COVID19 ha cercato di rispondere a questa esigenza.

La ricerca, avviata dall’AdV “Mammachemamme”, attiva in Calabria dal 2012, è stata realizzata in collaborazione con l’U.O. di Ostetricia e Ginecologia S. Cuore iGreco Ospedali Riuniti e con il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Journal of AffectiveDisorders” (2021).

Metodologia

Nella realizzazione dello studio sono state coinvolte 1179 partorienti, chiamate a completare due strumenti: un sondaggio anonimo online e un questionario di autovalutazione. Le misurazioni riguardavano alcune caratteristiche di tipo sociodemografico e ostetrico, il grado di distress psicologico (livelli di ansia e depressione presenti nelle partorienti), la qualità dell’attaccamento prenatale e la percezione di rischio connesso alla diffusione del virus.

Le partecipanti hanno ricevuto il link attraverso mail, social media e pubblicità presenti in diverse cliniche prenatali e neonatali del Nord, Centro e Sud Italia.

I criteri di inclusione erano: lo stato di gravidanza durante il primo lockdown italiano (avviato il 9 Marzo 2020), la maggiore età, capacità di lettura e di comprensione della lingua al fine della compilazione del questionario di autovalutazione. Tutte le partecipanti hanno ricevuto puntuali informazioni in merito allo scopo dello studio, prestando il proprio consenso alla partecipazione.

La raccolta dei dati ha avuto luogo da Marzo ad Aprile 2020, durante il lockdown.

Risultati, commentati dagli autori

La salute mentale delle partorienti è una delle attività centrali del nostro lavoro presso l’U.O. Ostetricia e Ginecologia Sacro Cuore – racconta Cecilia Gioia, Psicologa Perinatale e Psicoterapeuta presso iGreco Ospedali Riuniti, che è inoltre presidente di Mammachemamme, nonché ideatrice e coordinatrice dello studio. Insieme all’associazione di volontariato Mammachemamme e al Movimento Italiano Psicologia Perinatale (MIPPE), ci occupiamo di promuovere il benessere psicofisico della donna, svolgendo attività di prevenzione, sostegno e cura, che si attivano dal pre-concepimento sino al post-partum. L’idea di valutare le condizioni psicologiche delle gestanti del periodo pandemico è nata e si contestualizza appunto in questo scenario.

I risultati della nostra ricerca hanno evidenziato che l’ansia di stato correlata alla pandemia, nelle donne in gravidanza, può avere effetti negativi sul processo di attaccamento prenatale delle gestanti. Tuttavia, una percezione adeguata e funzionale del COVID-19 potrebbe migliorare l’attaccamento prenatale. Questi risultati sottolineano dunque l’importanza di monitorare il processo di attaccamento prenatale e la salute mentale della madre durante le pandemie, per salvaguardare salute mentale materna e infantile.

Francesco Craig, ricercatore di Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria, sottolinea come i risultati della ricerca riescano ad ampliare la conoscenza degli effetti del distress sperimentato in gravidanza: in base ai dati emersi, infatti, l’ansia percepita dalle donne in stato di gravidanza durante la pandemia da COVID-19 è risultata capace di influenzare in modo negativo l’attaccamento prenatale delle future mamme.

Diviene quindi molto importante valutare quei fattori di disagio psicologico che possono influenzare il naturale processo di attaccamento – precisa Angela Costabile (Ordinario di Psicologia dello Sviluppo presso il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria). Le gestanti identificabili come a rischio necessiterebbero pertanto di essere seguite durante tutta la fase gestazionale e nel postpartum, attraverso un supporto appropriato, finalizzato a promuovere l’instaurarsi di un attaccamento prenatale positivo e ad ottenere una riduzione degli stati ansiosi.

In conclusione – afferma Gioia – possiamo asserire che i risultati ottenuti mettono in evidenza la sostanziale importanza di implementare programmi e attività volti alla prevenzione e al monitoraggio del distress psicologico, dato che quest’ultimo può influenzare la qualità dell’attaccamento prenatale delle donne, operando in modo da migliorare tanto l’assistenza clinica quanto le azioni di sensibilizzazione ed educazione sanitaria durante le prossime fasi di pandemia.

 

L’incertezza è zen
 (2021) di Carlo Tetsugen Serra – Recensione

Il testo L’incertezza è zen descrive l’impermanenza delle situazioni che si presentano nella quotidianità e può aiutare a comprendere l’incertezza che caratterizza l’esistenza.

 

Ai giorni nostri infatti l’incertezza permea l’esistenza con continui, repentini e imprevedibili cambiamenti. È un’epoca che richiede una grande “agilità”, la nostra: la capacità di adattarsi ai cambiamenti o, mal che vada, di rialzarsi subito per prepararsi a quelli successivi.

Tollerare l’incertezza è però tutt’altro che scontato nonostante si viva in un’epoca complessa e imprevedibile. Molto spesso così la mente cerca in automatico di creare scenari come se potesse predire il futuro: cerca certezze quando non possono esserci. Si illude in qualche modo di poter essere razionale, ma questo diviene controproducente oltre che inutile.

Sembra un paradosso il fatto che in un mondo tanto incerto sia così difficile, in generale, tollerare l’incertezza. Accettare il cambiamento, l’imprevedibilità e tutto ciò che non è sotto il nostro controllo sono i punti su cui si focalizza questo testo. Nel libro viene infatti spesso motivata l’importanza di imparare a tollerare l’incertezza, anche quando è più complesso, anche in una relazione affettiva.

Secondo l’autore la capacità di affinare la consapevolezza coincide con vivere il presente, ossia ogni momento, accogliendo ciò che questo tempo offre. Per fare questo è quindi indispensabile staccarsi dai pensieri sul futuro, che è inconoscibile, o dal passato, che ormai non esiste più. È infatti quando si vive pienamente il presente che ci si svincola dalla ricerca di controllo su ciò che potrebbe accadere e si accetta la realtà così com’è. Gli attimi vissuti sono infatti transitori e, come ogni cosa, governati dall’incertezza.

Secondo l’autore la meditazione diventa un aspetto importante per riuscire a immergersi nel presente, aumentando la propria consapevolezza. Porre l’attenzione su ciò che accade fa infatti distogliere automaticamente la mente da ciò che potrebbe o non potrebbe essere, ossia dall’incertezza. Il tempo in cui viviamo è limitato, non sappiamo quando terminerà, è così che il suggerimento è quello di prendere meno in considerazione ciò che non si può conoscere e considerare invece maggiormente ciò che si sta realmente vivendo: il qui e ora. Accettare l’incertezza significherebbe quindi essere più resilienti, ossia avere la capacità di affrontare le sfide senza patirle, bensì diventando più forti di prima.

 

Sindrome dell’ovaio policistico (PCOS): il disagio psicologico nelle donne che ne soffrono

Al mondo circa il 10-20% delle donne in età fertile riceve una diagnosi di sindrome dell’ovaio policistico (Polycystic Ovary Syndrome – PCOS) (Asgharnia et al., 2011).

 

 Ma cosa comporta questa diagnosi?

La sindrome dell’ovaio policistico è il disturbo endocrino più comune nelle donne in età riproduttiva ed è associato a disturbi riproduttivi, endocrini, metabolici, cardiovascolari e psicologici (Yildiz et al., 2012; Orio et al., 2016).

Diagnosi e manifestazioni della sindrome dell’ovaio policistico

Per ottenere una diagnosi sono necessari almeno due dei seguenti criteri: (1) oligo- e/o anovulazione, ovvero un ciclo mestruale irregolare o assente (amenorrea); (2) segni di iperandrogenismo, ovvero maggiore produzione di ormoni maschili; (3) ovaie policistiche (The Rotterdam, 2004).

Tuttavia, la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è un disturbo complesso ed eterogeneo che presenta diversi fenotipi, per cui, le manifestazioni cliniche possono essere varie: l’irregolarità del ciclo mestruale, come precedentemente menzionato, l’infertilità, l’irsutismo (peluria in zone tipicamente maschili), l’obesità, la perdita di capelli, l’acne, l’insulino-resistenza. Proprio a causa dell’insulino-resistenza, la sindrome dell’ovaio policistico può inoltre favorire l’insorgenza di altre patologie come disturbi cardiovascolari, l’arteriosclerosi e il diabete mellito. Ad oggi non esistono cure per la PCOS e i trattamenti utilizzati mirano più alla gestione dei sintomi riducendo il rischio di complicanze; per esempio l’iperandrogenismo viene trattato con i contraccettivi orali, la resistenza all’insulina e l’infertilità vengono trattate con la metformina (Yin et al., 2021).

Essendo la sindrome dell’ovaio policistico una malattia cronica che comporta cambiamenti sia fisici che metabolici, questa apporta una vulnerabilità in termini di problemi di salute mentale.

Sindrome dell’ovaio policistico e salute mentale

Nello specifico, la sindrome dell’ovaio policistico è associata a problemi quali ansia, depressione, sintomi somatici, insoddisfazione del corpo, disturbi alimentari e ridotta soddisfazione sessuale (Yin et al., 2021).

Potremmo quindi, tirando le somme, affermare che una diagnosi di sindrome dell’ovaio policistico influenza notevolmente il benessere psico-fisico delle donne che ne soffrono, apportando una diminuzione della qualità della vita, un’alterazione dell’identità femminile e disfunzioni sia nell’ambiente familiare che lavorativo (Battaglia et al. 2008).

Uno studio di Yin e colleghi (2021) ha riassunto tutti i dati ottenuti dalle ricerche passate sulla salute mentale delle donne con sindrome dell’ovaio policistico, mostrando punteggi per i disturbi mentali significativamente più gravi nelle donne con PCOS rispetto alle donne sane. I punteggi dei sintomi depressivi, ansiosi, di disagio emotivo, di disturbi alimentari e di somatizzazione si sono dimostrati significativamente più alti nelle donne con diagnosi di PCOS rispetto ai soggetti appartenenti al gruppo di controllo (nessuna diagnosi di PCOS), così come i punteggi per qualità di vita sono risultati significativamente più bassi e quelli per le disfunzioni sessuali significativamente più gravi.

Questi dati risultano essere in linea con altri studi che suggeriscono che le donne con sindrome dell’ovaio policistico mostrano un rischio fino a quattro volte maggiore di manifestare sintomi depressivi e un rischio fino a sei volte maggiore di sintomi ansiosi, rispetto alle donne senza PCOS (Berni, Morgan, Berni & Rees, 2018; Brutocao et al., 2018).

Dato il gran numero di donne che soffrono di questa patologia, saranno necessari ulteriori studi per indagare più approfonditamente i meccanismi che sottostanno all’associazione tra sindrome dell’ovaio policistico e salute mentale compromessa. Sulla base dei dati ottenuti, alcuni autori hanno avanzato alcune ipotesi per spiegare questo collegamento. Barry (2011) ha ipotizzato che il cambiamento biologico potrebbe essere la causa dei problemi di umore esperiti dalle donne con sindrome dell’ovaio policistico; il cambiamento che la PCOS apporta a livello estetico, come l’irsutismo, l’acne e la perdita di capelli, potrebbe intaccare fortemente l’autostima e la soddisfazione del corpo di una donna, portandola a sentirsi poco bella e/o sensuale, creando una sensazione di profonda tristezza e depressione (Scaruffi et al., 2019; Tzalazidis & Oinonen, 2020), generando di conseguenza un significativo calo della soddisfazione sessuale o della qualità di vita in generale (Wang & Ruan, 2007).

Non casualmente, infatti, l’eccessiva peluria corporea, la perdita dei capelli e l’infertilità nelle persone affette da sindrome dell’ovaio policistico sono predittori dell’ansia e correlano con il livello di depressione esperita (Chaudhari et al., 2018). Ad aumentare l’insoddisfazione corporea inoltre è l’obesità; il 70-74% dei pazienti con PCOS è risultato obeso negli ambulatori (Yildiz et al., 2007); è stato dimostrato che l’obesità fisica è correlata positivamente con i sintomi depressivi nei pazienti con PCOS (Hollinrake et al., 2007).

Inoltre, l’irregolarità mestruale e la preoccupazione per l’infertilità che una donna può sperimentare a seguito della diagnosi, può accrescere la pressione psicologica percepita, provocando un sentimento di incompletezza, perdita di femminilità e di senso di maternità che può sfociare in ansia e depressione a lungo termine (Yao et al., 2017).

Conclusioni

I dati riportati dagli studi condotti sull’argomento ci mostrano quanto preoccupante sia la questione della sindrome dell’ovaio policistico in relazione ai problemi di salute mentale. Questo ci spinge a riflettere su quanto sia necessario ai nostri giorni sviluppare interventi di assistenza psicologica per donne affette da questa sindrome.

Sebbene alcuni interventi come lo yoga, la terapia cognitivo-comportamentale o la somministrazione di metformina per ansia e depressione abbiano mostrato un’influenza positiva sulla qualità della vita nelle donne affette da sindrome dell’ovaio policistico, gli interventi rilevanti sono ancora limitati (Yin et al., 2021).

Considerando che questa sindrome non è ancora ben compresa, non solo dalle persone che non ne soffrono, ma anche da chi ne è affetto e dagli operatori sanitari stessi (Yin et al., 2021), sarebbe opportuno svolgere dei programmi di psicoeducazione sulla PCOS da parte dei medici o altri professionisti della salute.

 

Effetto Squid Game: fenomeno globale (e/o commerciale), rischio di emulazione e abituazione alla violenza in epoca pandemica

Squid Game non è solo una serie tv. È un fenomeno globale, rapidissimo, sorprendente, inquietante.

 

Si diffonde, ovunque, sfuggendo al parental control: gli spezzoni su YouTube non si contano più, le challenge sui social network più amati dai giovani sono virali e già iniziano episodi di emulazione anche nel nostro Paese. Naturalmente, non sono mancati la proposta commerciale di tute da travestimento per Halloween, l’aumento di vendite di Vans bianche, i primi Real Games (sembra ci sia l’assalto agli Emirati Arabi) e si trovano online anche le ricette dei dolcetti coreani utilizzati in uno dei giochi mortali proposti nella serie.

Chi aveva detto che “un, due, tre stella” fosse un gioco destinato a morire? O che si potesse morirne…

Forse non è un caso che questa serie Tv possa avere tanto successo in un’epoca in cui abbiamo sofferto di distanziamento sociale, eccesso tecnologico, timore di morte e attualmente di scontro sociale, condito da una vaga sensazione di controllo e complotto, ben lontani da solidarietà ed empatia che ci avevano accompagnati nei primi mesi del 2020, quando cantavamo e applaudivamo dai balconi.

Impauriti, stressati, deprivati per molto tempo dal calore umano che genera naturalmente ossitocina (l’ormone della calma e dell’amore), dopati di adrenalina e cortisolo (gli ormoni dello stress), non riusciamo facilmente a entrare nella dimensione mentale di profonda e saggia comprensione umana, di gentilezza reciproca, che ci farebbe tanto bene. Perché paura, stenti e frustrazione nutrono la rabbia. L’esperimento del “Buon Samaritano” di Darley e Bateson (1973) ci aveva dato la misura di quanto una sola variabile sperimentale, la fretta, potesse far crollare la tendenza all’aiuto e noi non siamo certo stati esposti alla sola fretta.

Non possiamo negare che “il gioco del Calamaro”, la cui atmosfera richiama lievemente quella dell’esperimento del carcere di Stanford (in versione horror), si possa anche reinterpretare quale rappresentazione atrocemente satirica di una società sudcoreana ipercompetitiva, strappata, le cui frange disperate soccombono sotto il peso dei debiti. In effetti, neppure “1984” di Orwel (1948) doveva essere una lettura tanto leggera, ma all’epoca della pubblicazione non c’era internet e difficilmente un bambino di 9 anni ne avrebbe retto la lettura (tanto meno lo avrebbe potuto fare senza che i genitori se ne accorgessero).

E senza dubbio posso confermare, occupandomi da vent’anni ormai di dipendenze comportamentali, che v’è una rappresentazione molto accurata degli shift emotivi drammatici e delle distorsioni cognitive tipiche di chi soffre di Disturbo da Gioco d’Azzardo in forma attiva.

Ma c’è qualcosa che sfugge a una visione frettolosa.

Anche nella serie degli Hunger Games si trattava di giochi mortali ma c’era costrizione (o autosacrificio) e nessuna possibilità di scelta e il premio era la vita. In Squid Game si sceglie di trasformare la vita in accessorio che permetta di ottenere denaro, oltre ogni valutazione morale, in una visione disperata in cui fiducia e umana comprensione sono annientati da calcolo freddo e asettico.

Ma davvero è così pericoloso? Come può la sola visione di una serie tv incitare all’emulazione?

Lo temono le associazioni di genitori che chiamano a firmare petizioni per eliminare la serie, i dirigenti scolastici, anche il ministro dell’Education National Blanquer in Francia richiama tutti noi adulti alla responsabilità… Ma, onestamente, sappiamo già che la serie non verrà eliminata: troppi vantaggi economici.

E allora apriamo lo sguardo sulle conseguenze dei contenuti violenti e sull’effetto abituazione alla violenza e diminuzione dell’empatia, ricordando che, se Squid Game, per la sua straordinaria forza evocativa di angoscia e violenza oltre il limite, ci scuote ancora, non sono da meno i videogiochi sparattutto con cui molti dei nostri ragazzi annebbiano le loro menti, i manga che leggono in silenzio, o le conversazioni al vetriolo tra leoni da tastiera cui siamo tutti esposti giornalmente, soprattutto in quest’epoca.

Scelgo due studi icona:

  • Bandura e il pupazzo Bobo (1961): un gruppo di bambini vede un adulto picchiare il pupazzo Bobo e, lasciati poi liberi nella stessa stanza dei giochi, fanno lo stesso. Gli altri bambini, esposti a un modello non violento, giocano pacificamente. E il risultato non cambia se si replica con adolescenti o adulti, indipendentemente dal temperamento (succede a tutti, almeno un po’). I contenuti violenti appena visti vengono automaticamente replicati.
  • Bushman e Anderson e Confortably Numb (2009): due gruppi di universitari giocano a un videogioco per 20 min (il primo con uno sparatutto, il secondo con un gioco neutro). Alla fine della sessione si attiva una traccia audio in cui pare che qualcuno venga picchiato fuori dalla porta dello studio sperimentale. Il primo gruppo quasi non se ne rende conto o interviene con un tempo 5 volte inferiore a quello del gruppo a gioco neutro. Il contenuto violento diminuisce reattività, empatia e disponibilità all’aiuto.

Ora, il primo è ben conosciuto e replicato, e deve farci riflettere su cosa sia il caso che noi e i nostri ragazzi e bambini vediamo sugli schermi e nella realtà.

Il secondo ci fa pensare a quanto tutti noi, esposti a contenuti e modelli violenti, tendiamo a spegnere la nostra capacità di indignazione di fronte alla violenza, di desiderio di proteggere e aiutare gli altri in difficoltà.

Sarà mica che Squid Game, glacialmente elaborato per auto-rigenerarsi di visualizzazioni in un periodo particolare com’è quello che stiamo vivendo, aumenti di fatto la nostra insensibilità (e quindi accondiscendenza) alla violenza e diminuisca la nostra capacità di desiderare ossitocina, calma, gentilezza e vivere compassione e solidarietà calorosa?

Possiamo fare un esperimento noi stessi: avete notato che nella visione del primo episodio siamo colpiti, disgustati, impauriti e tesi mentre nel secondo siamo già più comodi sul nostro divano? E se vi prendete il tempo di riguardare il primo episodio, sorpresa! Quasi completamente insensibili. Effetto abituazione alla violenza…

E per poter continuare l’esperimento fatto in casa, magari possiamo anche chiedere ai nostri congiunti, che non abbiano guardato con noi, se notino che qualcosa in noi, quasi impercettibilmente, è cambiato. Loro ci vedono da fuori; fidiamoci.

Forse non giocheremo a “un, due, tre, stella” picchiando chi si è mosso.. ma teniamo gli occhi aperti: anche solo una rispostaccia incide sulla qualità delle nostre relazioni e potremmo non rendercene conto, come i nostri ragazzi che giocano per ore ai videogiochi, leggono manga violenti o scorrono conversazioni al vetriolo. Ora è tempo di decisione, speriamo, più consapevole.

L’utilizzo dei Potenziali Evocati nel dolore e nei disturbi di sensibilità di difficile inquadramento diagnostico

I potenziali evocati (PE) costituiscono un esame diagnostico di rilievo nei casi di dolore neuropatico in cui gli altri accertamenti strumentali non siano dirimenti.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Le tipologie di dolore

La persistenza di dolore e alterazioni della sensibilità, quali formicolii, bruciori, sensazione di “punture di spillo” o caldo/freddo, rappresentano frequentemente una sfida diagnostica e si correlano a un peggioramento della qualità della vita, alterazioni del tono dell’umore e del sonno. I potenziali evocati rappresentano un esame diagnostico talora dirimente nell’inquadramento di determinate tipologie di dolore cronico e di disturbi della sensibilità, anche quando essi si presentano in particolari sedi o associati ad altri disturbi selettivi, come quelli della sfera uro-genitale.

Il dolore di tipo “nocicettivo” deriva dall’attivazione di terminazioni libere di fibre nervose (nocicettori), per danno dei tessuti profondi o superficiali; un esempio comune di dolore nocicettivo è quello conseguente a traumi con lesioni della cute, delle ossa o delle strutture muscolo-tendinee ed è frequentemente rilevabile con esami diagnostici di routine. In altri casi, il dolore può essere conseguenza di un’alterazione a carico del sistema nervoso, in particolare a livello del cosiddetto “sistema somatosensoriale”, che rappresenta l’insieme delle vie di trasmissione e dei centri di elaborazione della sensibilità e del dolore. In tali casi, il dolore viene definito “neuropatico” e, come i disturbi della sensibilità, può essere ricondotto a molteplici cause:

  • patologie del sistema nervoso centrale a livello di encefalo o midollo spinale (ictus, sclerosi multipla, infezioni, patologie autoimmuni o genetiche)
  • patologie dei nervi cranici (come la nevralgia trigeminale e le nevralgie post-traumatiche)
  • patologie dei nervi periferici (polineuropatie, come quelle secondarie a diabete mellito o insufficienza renale)
  • patologie delle radici nervose o dei plessi (come quelle post-traumatiche o secondarie a ernia del disco cervicale, dorsale o lombosacrale)
  • sindromi dolorose miste (neuropatiche e nocicettive; ad esempio, il dolore neoplastico con invasione dei tronchi nervosi o i quadri di artrosi con compressione di radici nervose o nervi).

Cosa sono i potenziali evocati

I potenziali evocati (PE) costituiscono un esame diagnostico di rilievo nei casi di dolore neuropatico in cui gli altri accertamenti strumentali non siano dirimenti. Gli accertamenti radiologici, infatti, consentono di evidenziare alterazioni o danni anatomici, mentre i potenziali evocati, così come l’elettromiografia, indagano eventuali alterazioni funzionali nella conduzione dell’impulso nervoso, indipendentemente dall’evidenza o meno di una lesione strutturale. A differenza dell’elettromiografia, che rappresenta l’indagine d’elezione per il sistema nervoso periferico (nervi periferici e radici nervose), i potenziali evocati consentono di studiare le vie nervose centrali a livello di encefalo e di midollo spinale, oltre a quelle periferiche in sedi difficilmente esplorabili (es. decorso intracranico di nervi, radici nervose in prossimità del midollo spinale). Tuttavia, i potenziali evocati rappresentando unicamente un’indagine funzionale, non forniscono indicazioni sulla causa e sul tipo di patologia sottostante (es. vascolare, neurodegenerativa, ecc). Per questo motivo, costituiscono un esame complementare, da integrare sempre con una valutazione clinica specialistica ed altri esami laboratoristici e strumentali.

Il termine potenziali evocati si riferisce ai segnali bioelettrici generati nel sistema nervoso in risposta a stimoli sensoriali in grado di generare un’attivazione elettrica (depolarizzazione) simultanea di raggruppamenti di neuroni e assoni deputati specificatamente alla loro trasmissione ed elaborazione. Ciò implica che, utilizzando un determinato tipo di stimolo, è possibile indagare l’integrità di un’intera via nervosa, come la via ottica per lo stimolo visivo, la via uditiva per lo stimolo acustico, la via somatosensoriale per lo stimolo sensitivo.

Ciò che caratterizza i potenziali evocati specifici per ciascun tipo di stimolo è la caratteristica di essere «tempo correlati» (time locked) con lo stimolo: ciò significa che l’attivazione della popolazione neuronale specifica per un tipo di stimolo (ad esempio, uno stimolo sensitivo o visivo) avviene sempre dopo un intervallo costante di tempo dallo stimolo stesso. Pertanto, la registrazione di un “ritardo” nella generazione della risposta elettrica (latenza, indicata in millisecondi) è indicativo di un possibile danno nella rispettiva via o centro nervoso. Poiché i potenziali evocati presentano una bassa ampiezza, è necessario, mediante un processo di elaborazione elettronica, effettuare una media dei segnali elettrici generati da una sequenza di stimoli identici (averaging). Questo processo consente di visualizzare graficamente il potenziale evocato come un’onda, con un inizio (latenza, intesa come tempo intercorso tra lo stimolo e la risposta) e un picco (ampiezza massima), distinguendolo da altre concomitanti attività bio-elettriche, come quelle normalmente presenti a livello cerebrale (elettroencefalografiche) o muscolare (elettromiografiche).

In questa sede, ci concentreremo sui potenziali evocati specifici per l’indagine dei disturbi sensitivi o dolorosi di difficile diagnosi: i potenziali evocati somato-sensoriali e i potenziali evocati laser.

I potenziali evocati somatosensoriali

I potenziali evocati somatosensoriali (PESS) rappresentano le risposte bioelettriche evocate dalla stimolazione a livello cutaneo di nervi periferici misti o sensitivi. I nervi più comunemente stimolati agli arti superiori sono il nervo mediano o ulnare (a livello del polso); agli arti inferiori, il nervo tibiale posteriore (alla caviglia). Elettrodi posti lungo la colonna vertebrale e sul capo permettono la registrazione di onde che riflettono la sequenziale attivazione, in risposta allo stimolo, di strutture nervose dalla periferia all’encefalo lungo la cosiddetta via lemniscale, specifica per la sensibilità tattile e vibratoria.

La stimolazione del nervo periferico induce in primis l’attivazione di fibre nervose di grosso calibro A-beta; lo stimolo nervoso decorre poi nel midollo spinale a livello delle colonne dorsali dello stesso lato; successivamente, nel tronco encefalico decorre lungo il fascio denominato lemnisco mediale, che si incrocia, per venire elaborato nell’encefalo a livello del talamo e nelle aree parietali controlaterali rispetto all’arto stimolato.

Le risposte generate, registrabili e visibili al monitor sotto forma di “onde”, vengono denominate con una lettera (N o P) relativa alla polarità dell’onda (negativa o positiva), seguita da un numero indicativo della latenza dallo stimolo (espresso in millisecondi). La morfologia delle risposte e le caratteristiche delle loro componenti variano in funzione della diversa localizzazione degli elettrodi registranti.

Nel caso dell’indagine a livello degli arti superiori, mediante stimolazione del nervomediano al polso, è possibile registrare le seguenti componenti:

  • l’onda N9, periferica, registrata con un elettrodo posto in un punto sopra la clavicola (punto di Erb), esprime il passaggio dello stimolo attraverso il plesso brachiale;
  • le onde N11 ed N13, registrate da un elettrodo superficiale posto in corrispondenza della V vertebra cervicale, rappresentano la conduzione dello stimolo nel midollo spinale (cordoni posteriori del midollo per N11,  neuroni delle corna posteriori del midollo per N13);
  • le onde P14, P18 , N 20, P27-N35, P22-N30 registrate tramite elettrodi posti a livello del capo dal lato opposto rispetto allo stimolo, rappresentano l’attivazione a livello cerebrale (rispettivamente lemnisco mediale, talamo, aree parietali, aree prefrontali).

Nella pratica clinica, i valori usualmente studiati sono le latenze e gli intervalli temporali (intertempi) tra le onde  N9, N13 ed N20: un aumento della latenza di N9 indica una patologia esclusivamente periferica, un aumento dell’intervallo N9-N13 suggerisce una patologia radicolo-midollare, mentre un incremento dell’intervallo tra N20 e N13 (tempo di conduzione centrale) depone per un disturbo a carico delle vie sensitive di encefalo o tronco encefalico.

Il valore dell’ampiezza delle varie componenti risente di una  grande variabilità, sia intra- che interindividuale; pertanto, viene considerato solo nel caso si rilevi una notevole asimmetria nello stesso soggetto.

I PESS da stimolazione del nervo tibiale posteriore degli arti inferiori mostrano parecchie analogie.

Nella pratica clinica, le componenti usualmente studiate sono:

  • l’onda N22, registrata da elettrodi posti a livello lombare, esprime l’attivazione dei neuroni del midollo (corna posteriori);
  • l’onda P38, registrata da elettrodi posti sul capo dal lato opposto rispetto alla stimolazione, esprime l’attivazione dei neuroni corticali delle aree sensitive.

Anche per la stimolazione all’arto inferiore, il principale parametro clinico è la latenza di ciascuna componente e l’intervallo temporale (intertempo) tra di esse: un ritardo nella latenza di N22 è indicativo di un disturbo del nervo periferico e/o della componente radicolo-midollare, mentre un ritardo dell’onda P38 e dell’intervallo N22-P38 suggerisce un disturbo del sistema nervoso centrale.

La lunghezza della via esplorata e la possibilità di stimolare e registrare da diverse sedi di quest’ultima, spiegano come i PESS risultino alterati in numerosi e differenti condizioni cliniche.

I potenziali evocati somatosensoriali sono utilizzati principalmente nell’ambito di:

  • patologie del sistema nervoso centrale a molteplice eziologia (vascolare, traumatica, infettiva, demielinizzante, genetica, metabolica)
  • patologie del midollo spinale cervicale, dorsale o lombare
  • patologia del sistema nervoso periferico: polineuropatie, plessopatie, radicolopatie.

Studio neurofisiologico del piano perineale e Potenziali Evocati Somatosensoriali Sacrali (Pess)

Nel caso di disturbi della sensibilità, dolore in sede urogenitale (come vulvodinia, vaginismo) e/o “dolore pelvico cronico”, associati o meno ad alterazioni della continenza sfinterica (ritenzione o incontinenza) sia urinaria che fecale, è possibile eseguire i Potenziali Evocati Somatosensoriali Sacrali nell’ambito dello studio neurofisiologico del piano perineale.

Questo tipo particolare di potenziali evocati studia la conduzione elettrica degli stimoli di tipo sensitivo proveniente dall’area genitale lungo il nervo pudendo e il midollo sacrale, sino al loro arrivo a livello della corteccia sensitiva. La stimolazione viene effettuata, nell’uomo, con elettrodi ad anello sul pene (stimolando il nervo dorsale del pene), mentre nella donna con elettrodo bipolare al clitoride; le risposte a livello cerebrale vengono registrate con elettrodi posti sul capo. Un ritardo nella conduzione dell’impulso lungo tale via si estrinseca in un allungamento della componente P1 o P40, indicativo per un danno neurologico a livello della via nervosa descritta.

In questo tipo di pazienti, lo studio dei potenziali evocati sacrali viene integrato frequentemente con l’elettromiografia (EMG) dei muscoli del piano perineale, che consente di discriminare la presenza di una lesione nervosa a livello periferico. L’EMG viene effettuata con un elettrodo ad ago a livello del muscolo sfintere esterno dell’ano, al fine di studiarne l’attività elettrica in condizioni basali (di riposo) e durante la contrazione volontaria ed evidenziare eventuali segni di sofferenza neurogena acuta o cronica. L’integrazione delle due metodiche (PESS ed EMG) permette di individuare precocemente un danno a livello dell’arco sensitivo-motorio tra nervo pudendo e radici nervose sacrali S2 S3 S4, sede di integrazione delle funzioni vescico sfinteriche, e risulta particolarmente utile quando la natura dei sintomi non è stata chiarita dalle preliminari indagini ginecologiche o urologiche.

Potenziali Evocati da Stimolo Laser

I potenziali evocati da stimolo laser (Laser Evocked Potentials, LEP) assumono un ruolo particolarmente importante poiché studiano specificatamente la funzionalità delle vie responsabili della trasmissione del dolore fisiologico, le vie termo-dolorifiche, differenziandosi così dai PESS, specifici per le vie della sensibilità tattile e vibratoria. I LEP, in particolare, esplorano le vie della sensibilità dolorifica, termica e tattile protopatica (stimoli tattili “grossolani”). La metodica di esecuzione si caratterizza per l’utilizzo di uno stimolo laser, applicabile a qualsiasi area di cute integra e in grado di attivare le terminazioni libere cutanee connesse con recettori (nocicettori) collegati alle fibre nervose di piccolo calibro (mieliniche A delta e amieliniche C). A partire da tali fibre, lo stimolo termo-dolorifico raggiunge i neuroni situati nel corno posteriore della sostanza grigia del midollo spinale, i cui assoni si incrociano, ascendendo nei cordoni antero-laterali del midollo spinale del lato opposto e nei tratti laterali del tronco encefalico, sino ad arrivare nell’encefalo a livello del talamo (fascio spino-talamico) e delle aree parietali.

Gli stimoli laser vengono somministrati in modo “random”, per ridurre il fenomeno dell’abitudine (con conseguente riduzione di ampiezza delle risposte), ad intervalli di tempo variabili ed effettuando piccoli spostamento di sede tra uno e l’altro. Nella pratica clinica quello che viene valutato sono le risposte corticali allo stimolo, registrate mediante elettrodi applicati sul capo. L’esame non è doloroso ma la sensazione evocata da uno stimolo laser può essere paragonata ad una lieve puntura di spillo.

Tale metodica permette una valutazione funzionale, specifica del sistema nocicettivo e fornisce insostituibili indicazioni, in particolare quando i restanti accertamenti risultano nella norma (come nella neuropatia a piccole fibre, una patologia neurologica periferica caratterizzata da un danno solo alle fibre termo-dolorifiche di piccolo calibro).

PESS e LEP non presentano specifiche controindicazioni, né necessitano di particolari precauzioni da seguire pre o post-esame. Il fastidio correlato all’esame è ampiamente soggettivo e può differire anche in base alla sede in cui viene effettuata la stimolazione. Non vi sono effetti collaterali rilevanti, ad eccezione del possibile arrossamento cutaneo nella sede di stimolazione laser; tale effetto non si verifica invece con i potenziali evocati somatosensoriali o sacrali. L’indicazione per tali indagini deve essere posta da un medico specialista e l’esame viene abitualmente eseguito nell’ambito di un laboratorio di neurofisiopatologia ospedaliero o ambulatoriale, da parte di medici e tecnici di neurofisiopatologia. Come già sottolineato, il referto dell’esame va sempre interpretato e integrato in base al quadro clinico del paziente e agli esami laboratoristici e radiologici effettuati.

 

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