expand_lessAPRI WIDGET

I vantaggi del perdono tra gli adolescenti

Precedenti ricerche suggeriscono però che il perdono porterebbe con sé molti vantaggi per i ragazzi, aiutandoli a superare emozioni negative come rabbia, preoccupazione, paura e imbarazzo.

 

Nelle relazioni sociali, le persone occasionalmente violano le norme relazionali o danneggiano gli interessi altrui. Tali “trasgressioni” tendenzialmente suscitano due differenti reazioni: la tendenza ad evitare e la tendenza a cercare vendetta. Questo accade perché in seguito ad un’offesa le emozioni principali da parte di chi la subisce sono solitamente paura, rabbia e tristezza (Gilam et al., 2019). In alcuni casi, quando le reazioni istintive di evitamento e di vendetta sono ridotte ed emerge una motivazione ad essere benevoli, le persone scelgono il perdono come strategia efficace di mantenimento delle relazioni (Billingsley & Losin, 2017).

Il perdono è stato definito come una variabile situazionale (di stato) o disposizionale (di tratto). Secondo l’approccio situazionale può essere identificato come una risposta specifica ad una trasgressione interpersonale; da una prospettiva di tratto il perdono si riferisce invece a una disposizione nel tempo e in determinate situazioni (Toussaint et al., 2015). Sebbene siano state differenti le concettualizzazioni del perdono, la letteratura è concorde nel ritenere che si tratti di una decisione personale sul proprio comportamento nei confronti di una trasgressione o di un’offesa altrui, e un cambiamento emotivo provocato da una riduzione di pensieri, sentimenti e motivazioni vendicative e rabbiose, accompagnata da un aumento di pensieri e motivazioni positive nei confronti del trasgressore (Wade et al., 2014). Quando si parla di perdono ci si riferisce quindi ad aspetti cognitivi, affettivi, decisionali, comportamentali, motivazionali e interpersonali (Worthington & Scherer, 2004).

Effetti del perdono

Gli studi presenti in letteratura solitamente prendono in considerazione un campione adulto sebbene una strategia di coping positiva come il perdono possa essere utile anche e soprattutto per gli adolescenti. L’adolescenza è un periodo di grande turbolenza durante il quale si affrontano grandi cambiamenti fisici e mentali e si è quindi vulnerabili agli effetti negativi dei coetanei. Accade spesso, infatti, che durante un conflitto un adolescente risponda in maniera disadattiva alle offese interpersonali, danneggiando così la relazione. Alcuni studi dimostrano infatti che i ragazzi di 15-16 anni prendono in considerazione il perdono soltanto sotto pressione di altre persone (Enright, 1991). Precedenti ricerche suggeriscono però che il perdono porterebbe con sé molti vantaggi per i ragazzi, aiutandoli a superare emozioni negative come rabbia, preoccupazione, paura e imbarazzo, riducendo l’ansia e migliorando l’autostima, il benessere soggettivo e la soddisfazione personale (Bono e McCullough, 2006). Tra i vari vantaggi alcuni studi nel contesto del bullismo scolastico e del cyberbullismo riportano offese meno violente quando gli adolescenti hanno una maggiore tendenza al perdono (Quintana-Orts e Rey, 2018).

Perdono ed empatia

Diversi ricercatori hanno dimostrato che l’empatia ha un effetto stabile sul perdono (McCullough e Hoyt, 2002; Fourie et al., 2020). L’empatia si riferisce alla capacità di condividere e comprendere le emozioni e i sentimenti degli altri (Decety & Jackson, 2006). Secondo la teoria dell’altruismo empatico di Baston (1991), l’empatia fa sì che gli individui si preoccupino dei bisogni dell’offensore, percepiscano che anche l’offensore sta provando colpa e dolore, e di conseguenza sperino di ricostruire un contatto positivo con l’offensore e quindi promuovano il perdono. L’empatia ha quindi un impatto diretto sul perdono e gioca un ruolo di mediazione sul perdono e sulle scuse (McCullough et al., 1998). Tale ruolo importante è stato riscontrato anche tra gli adolescenti: empatizzare con l’offensore e pensare dalla prospettiva degli altri è una strategia chiave nel processo di perdono. Gli adolescenti con livelli più alti di empatia sono quindi più inclini a perdonare di fronte ad un’offesa rispetto a quelli con livelli più bassi. (Johnson et al., 2013). Lin Ma e Yingjie Jiang nel 2020 si sono occupati di esaminare il legame tra le motivazioni legate all’evitamento e alla vendetta, il perdono e il potenziale ruolo di mediazione dell’empatia negli adolescenti. Le ipotesi iniziali erano che il desiderio di vendetta e di evitamento dopo un torto subito fossero correlate negativamente con l’empatia e il perdono, mentre la motivazione di benevolenza fosse correlata positivamente con l’empatia e con il perdono. Infine, che l’empatia potesse mediare la relazione tra una trasgressione e il successivo perdono.

Perdono e adolescenti: uno studio

445 studenti delle scuole medie e superiori (188 maschi, 257 femmine) sono stati reclutati ed è stata sottoposta loro La Tendency to Forgive Scale (TTF) per valutare le differenze individuali nella tendenza a perdonare le offese nelle situazioni e nelle relazioni (Brown, 2003); il Transgression-Related Interpersonal Motivations Inventory (TRIM), un questionario self-report di 18 item che misura i cambiamenti motivazionali delle vittime verso i trasgressori (McCullough et al., 2006). Le differenze individuali nell’empatia sono state misurate usando due sottoscale dell’indice di reattività interpersonale (Davis, 1980): la preoccupazione empatica e l’assunzione di prospettive, pensate per valutare rispettivamente l’empatia affettiva e l’empatia cognitiva. Coerentemente con le ipotesi, i risultati hanno rivelato che le motivazioni di vendetta e di evitamento dopo la trasgressione erano correlate negativamente con l’empatia e il perdono, mentre la motivazione di benevolenza era correlata positivamente con l’empatia e il perdono. Inoltre è stata trovata una correlazione positiva significativa tra l’empatia e il perdono tra gli adolescenti. Infine è risultato che l’empatia avesse un effetto di mediazione tra le motivazioni e il perdono. Questo suggerisce che i giovani altamente empatici tendono a concentrarsi sulle esperienze altrui in modo abbastanza obiettivo o disinteressato, il che comporta una maggiore probabilità di perdonare i colpevoli invece che vendicarsi ed evitare (Toussaint e Webb, 2005).

In conclusione, dato che l’evitamento e il desiderio di vendetta degli adolescenti portano a una diminuzione dell’autostima, a una riduzione emotiva a lungo termine, a conflitti interpersonali, e problemi cognitivi, emotivi o comportamentali (Yao e Enright, 2018), sembrerebbe vantaggioso focalizzare l’attenzione sull’educazione al perdono e considerare anche il ruolo importante dell’empatia. Un programma sull’educazione al perdono nelle strutture scolastiche potrebbe migliorare la capacità empatica degli adolescenti per promuovere il perdono e quindi ridurre l’impatto negativo di un conflitto interpersonale su di loro (Lin Ma & Yingjie, 2020).

 

Il concetto di valore nell’essere umano, una riflessione assiologica

Nel trattamento delle sindromi psicologiche molto spesso ci imbattiamo in convinzioni che riguardano il proprio valore o il valore degli altri.

 

Tali convinzioni risultano fondamentali nel mantenimento del disagio psichico in quanto definiscono in modo totale ed invasivo non solo l’efficacia di tutte le aree funzionali della persona, ma la sua stessa essenza.

Il termine valore viene utilizzato in modo confuso ed indefinito, a volte è astratto mentre a volte è concreto. Come astratto designa le proprietà del valore ed è spesso usato come equivalente di merito o di capacità dell’individuo, come sostantivo concreto invece il termine si riferisce a cose o persone che hanno “oggettivamente” queste proprietà del valore.

Poiché il termine valore risulta piuttosto ambiguo, dobbiamo considerare che la teoria del valore si riferisce tanto alla proprietà del valore, quanto al processo di valutazione. Riguardo alla prima si pongono vari problemi: “Qual è la sua natura? E’ una qualità o una relazione? E’ oggettiva o soggettiva? E’ una proprietà singola o sono parecchie proprietà?”

Abbiamo due modi per affrontare il problema, il primo considerare il valore come legato ad una o più condizioni, parleremo allora di valore condizionato, il valore di una persona aumenterà in base alla presenza delle caratteristiche predefinite.

Tale assunzione, che sembrerebbe proporre un andamento lineare della valutazione, in realtà ci pone un evidente problema definizionale. Qualunque siano infatti le condizioni assunte, esse risulteranno necessariamente mutevoli nel corso del tempo, pertanto, per poter arrivare ad una definizione di valore assoluto nei confronti di una persona, dovremmo assumere la media pesata dei valori relativi, dovendo considerare:

  • tutti gli ambiti che ci interessano
  • i valori relativi del soggetto
  • tenere cioè conto dello specifico peso dell’ambito, facendo quindi una media ponderata.

Anche così facendo in realtà non avremmo risolto il problema, assumendo infatti l’algoritmo di valore condizionato non potremmo mai arrivare ad una valutazione definitiva, in quanto l’andamento delle condizioni definite, qualunque esse siano, è fluttuante e per giungere ad una conclusione coerente con le premesse date dovremmo redigere il bilancio solo all’ultimo secondo di vita, potendo solo allora trarre un bilancio non più soggetto a possibili cambiamenti.

Immaginiamo infatti, per semplicità di esempio, che la condizione assunta per qualificare il valore sia la ricchezza: nel corso della vita una persona potrebbe nascere povera, diventare poi ricca e, a seguito di varie avversità, ritrovarsi di nuovo povera, per poi successivamente riguadagnare un benessere economico. La definizione di valore sarebbe allora molto relativa, seguendo necessariamente l’andamento degli eventi.

Inoltre, nei casi più eclatanti, l’ambito valutativo potrebbe essere praticamente uno solo (i pesi degli altri ambiti sarebbero minimi). Per esempio, un integralista religioso valuterà le persone a seconda della loro fede; un razzista a seconda del colore della loro pelle, ecc., attuando una grave distorsione di sovra generalizzazione in base alla quale il valore di un individuo sarebbe dedotto dalla presenza o meno di un ristretto numero di tratti, caratteristiche o comportamenti, assumendo implicitamente che gli organismi umani sono semplici ed intrinsecamente coerenti, tanto da poter essere valutati globalmente.

Anche l’aspetto della valutazione, come procedimento attribuzionale, suscita qualche perplessità, infatti ne assumiamo automaticamente un significato oggettivo e condiviso, cadendo di nuovo in un errore di sovra generalizzazione. Anche quando operiamo con un algoritmo lineare utilizzando un criterio aritmetico come ad esempio il denaro, di fatto non possiamo sottrarci ai principi del relativismo; una persona che guadagna 10.000 euro al mese può risultare ricca se paragonata ad una che ne guadagna 1.000 e povera se al contrario la contrapponiamo ad una che ne guadagna 100.000, quindi in assoluto come dovremmo definirla?

È evidente che quando ci rapportiamo a valutazioni che riteniamo impropriamente oggettive, ognuno di noi utilizza necessariamente criteri soggettivi e personali, che derivano dalla propria situazione e dalle proprie esperienze di vita. Tale procedura appare in tutta la sua evidenza quando siamo chiamati a valutare secondo criteri non aritmetici, pensiamo ad esempio al concorso di Miss Universo, per eleggere la donna più bella del mondo, o ad una giuria chiamata a valutare la prova ginnica di un concorrente olimpico. Nelle milioni di situazioni analoghe verificatesi, l’uniformità di vedute è stata rarissima, a conferma del fatto che anche in questo caso non esiste un parametro “oggettivo”, ma le persone, anche se esperte nello specifico campo, esprimono pareri diversi e talvolta totalmente divergenti, evidentemente condizionati più da considerazioni personali che dall’applicazione di un metodo imparziale.

Appare manifesto che l’utilizzo del principio di valore condizionato non risolve il problema di una valutazione efficace e valida degli esseri umani, suggerendo che gli individui siano troppo complessi ed articolati per essere costretti in una definizione così semplicistica. Conveniamo tutti che considerare la persona di Gandhi solo alla luce della sua bellezza (posto che si riesca a definire un concetto condiviso di bellezza) o del suo reddito personale sarebbe quantomeno riduttivo.

Le persone che assumono tale algoritmo valutativo commettono due enormi errori, generati da due diverse distorsioni cognitive; la prima, il pensiero dicotomico, ci porta a concettualizzare per categorie onnicomprensive ed assolute, che azzerano la complessità e la gradualità dei comportamenti umani: o si è buoni o cattivi, o intelligenti o stupidi, assumendo implicitamente definizioni universali senza alcuna considerazione del relativismo soggettivo; nessuno può essere sempre intelligente in tutte le occasioni, in tutti i campi, nelle varie forme conosciute dell’intelligenza ecc.; la seconda, che risulta essere la più nefasta, è la schiavitù da risultato.

Se il valore di una persona è collegato ai risultati che si ottengono in alcuni determinati ambiti, ne consegue che la nostra autostima dipenderebbe in modo lineare dai risultati ottenuti, con effetti devastanti qualora questi risultati non fossero raggiunti.

Riprendiamo l’esempio del denaro, se il mio valore è condizionato da quanto guadagno, questo implicherà che più guadagno e più ho valore come individuo; fin qui tutto chiaro, ma la schiavitù da risultato funziona anche in senso regressivo, quindi meno guadagno e meno valgo; estremizzando posso arrivare a concludere che se non guadagno nulla non ho alcun valore.

Rischi dell’attribuzione di valore personale

Ed è questo l’aspetto drammaticamente negativo del valore condizionato, quale che sia il parametro adottato, ricchezza, bellezza, successo, razza, nazionalità, religione ecc., il modello inevitabilmente ci porta a concludere che chi è privo del requisito è privo di valore.

Nella storia dell’uomo abbiamo ben presente cosa questo concetto ha determinato: i genocidi, le persecuzioni razziali o religiose, la stessa condizione della donna si basano sull’assunto di valore condizionato.

Ma tale disastrosa implicazione la ritroviamo anche come valutazione endogena, come dicevo, la scarsa o nulla considerazione di sé stessi è ricorrente in molte delle sindromi psicologiche e rappresenta uno dei cardini del disagio psichico.

Perché allora sviluppiamo tale concetto?

Benché il comportamento delle persone derivi da una interazione di fattori situazionali e personali molto complessa, nella realtà pratica le persone adottano un modello, noto in letteratura come errore di attribuzione fondamentale, individuato da Fritz Heider, che tende ad attribuire il comportamento di una persona alle sue disposizioni personali piuttosto che alle circostanze.

Tale metodo sembra rispondere più efficacemente al nostro bisogno di comprendere gli accadimenti della vita, quindi il poter legare i comportamenti alle caratteristiche dell’altro sembra sollevarci dall’angoscia dell’incertezza interpretativa e dalla fatica di dover ogni volta contestualizzare un comportamento ed astrarre le sue motivazioni da una serie di fatti spesso non chiari o contraddittori.

Questa è una tesi molto forte perché significa che il processore si vincola il prima possibile a questa particolare interpretazione a spesa di altre interpretazioni. Noi formuliamo giudizi circa la verosimiglianza dei fatti sulla base della corrispondenza tra i dati e il modello disponibile.

Il che ci porta al punto più importante e cioè che l’adozione di una rappresentazione determina il modello con cui pensare e che tale modello, se è assunto acriticamente, diventa il fondamento del nostro modo di guardare le cose e più in generale il mondo.

Si comprende quindi come nel tempo, il modello preesistente rafforzi dogmaticamente le proprie interpretazioni a scapito di tutte le alternative divenendo quindi non una possibile interpretazione della realtà, ma la realtà stessa.

Va detto che questa predisposizione è giustificata dall’esigenza di disporre con rapidità di coping comportamentali. Ovviamente per arrivare ad una decisione ci è utile ricorrere a procedure di semplificazione altrimenti passeremmo tutto il nostro tempo a pensare. Queste procedure sono dette euristiche, dal greco “heuriskein” che significa trovare.

Le procedure euristiche servono a trovare una soluzione, non necessariamente quella ottimale, quanto piuttosto quella più veloce.

Il ragionamento intuitivo è basato sulla percezione complessiva di una situazione, senza impiegare un’analisi particolareggiata e quindi richiede molte meno risorse psichiche del ragionamento analitico.

Inoltre, tale concetto è divenuto un modello sociale molto diffuso e oserei dire imposto, almeno nelle culture incentrate sull’ottenimento di risultati, che favorisce la continua e sistematica etichettatura di noi stessi, degli altri e delle situazioni in termini dicotomici, (secondo il principio dell’essere) buono/cattivo, bello/brutto, giusto/sbagliato.

L’utilizzo di tali concetti in modo estremizzato ci porta ad incorporarli saldamente nel nostro sistema di valutazione e di credenze.

Ogni cosa assume allora una ed una sola valutazione, ogni comportamento etichettato in modo immodificabile e definitivo, ogni persona viene sommariamente rappresentata radicalmente nella sua più profonda ed intima essenza.

L’errore risiede proprio in questo, se ci si limitasse a valutare il comportamento e gli effetti che da esso possono derivare, se ne potrebbero valutare gli esiti su di un piano relativo, contingente alla situazione data, in effetti molti comportamenti possono rivelarsi utili o nocivi, efficaci o dannosi, l’errore fondamentale è che tali valutazioni vengono estese al soggetto che manifesta tale comportamento: non è sbagliato solo l’atto, ma anche e soprattutto chi l’ha commesso.

In altre parole si passa immediatamente dalla valutazione del comportamento alla valutazione della persona nella sua globalità; nella nostra società si è imposta la corrispondenza diretta tra la persona ed il suo comportamento, sottostimando sistematicamente l’influenza che il contesto può avere nel determinare quello specifico comportamento.

Esperienza comune è che i nostri educatori (famigliari, maestri, insegnanti, ma anche amici ecc.)  abbiano legato il nostro valore personale alla presenza di alcune attitudini quali l’intelligenza, la perseveranza, la bellezza, la competenza e così via.

Durante la fase della socializzazione primaria si attua il processo di apprendimento che porta i minori, inseriti in un determinato contesto sociale e culturale, ad assimilare le norme, i codici di comportamento ed a condividere il linguaggio di riferimento ai valori vigenti.

È quindi in questa fase che si definiscono i presupposti che porteranno poi ad utilizzare un concetto di valore personale profondamente distorto.

Quando a casa eravate ubbidienti ed educati, vi dicevano che eravate un bravo bambino e voi vi sentivate compiaciuti; quando eravate maldestri o disubbidienti vi dicevano che eravate cattivi, mentre di fatto formulavano la loro opinione su quello che facevate esprimevano valutazioni su ciò che eravate.

Un principio sul quale non si insisterà mai abbastanza, non solo in terapia, ma nella vita quotidiana, è che le opinioni che si hanno su di una persona non sono che opinioni e non fatti indiscutibili, non è corretto, né soprattutto vero, confondere l’opinione che si ha su una persona con la persona.

Se io affermo che un individuo è stupido non è detto che lo sia davvero, né tantomeno che lo sia sempre ma, se anche ciò fosse, questo non significherebbe generalizzare su tutta la sua persona un giudizio negativo (disvalore) in quanto potrebbe possedere molte altre qualità (gentilezza, disponibilità, onesta ecc.), inoltre assumo come univoca la mia soggettiva definizione di stupido, quando altri davanti ad un identico comportamento potrebbero definirlo come disponibile o gentile.

Le persone sono troppo complesse, troppo articolate e sfumate per poter essere correttamente definite ed etichettate con una sola definizione; abbiamo già visto però come opera la distorsione dicotomica che, basandosi sul principio di pensare binario, incasella la realtà nel principio del tutto o niente, schematizzandola e catalogandola in continue distinzioni nette e contrapposte.

Ecco quindi che il combinato delle due distorsioni produce una nefasta conclusione, non riuscendo ad essere sempre competente ne dedurrò che sono sempre un incompetente, e postulato che la competenza sia legata al mio valore personale me ne sentirò privo, ledendo radicalmente il concetto di autostima, che è appunto il modo in cui la persona valuta e considera sé stesso.

Come uscire quindi da questa trappola cognitiva?

Implicazioni sociali del principio di valore

Abbiamo illustrato le pessime conseguenze derivanti per l’individuo dall’accettare il principio di valore condizionato; appare utile considerare anche le implicazioni sociali che l’adesione di tale principio comporta. Infatti siamo indotti ad applicare tale modello anche alle altre persone derivandone un’euristica attribuzionale veloce e spietata; se gli altri non presentato sufficientemente i presupposti definiti, allora hanno poco valore, se non li presentano affatto, non hanno valore, ne sono cioè del tutto privi.

La devastante linearità di tale logica, spesso applicata in modo inconsapevole, ci sottrae alla comprensione delle sue tristi implicazioni concettuali. Definire una persona, in quanto non intelligente, o povera, o incapace o inadeguata, ponendo cioè una qualunque attribuzione come condizionante il suo valore, ci spinge ai confini estremi del razzismo e ci rende idealmente concordi con le peggiori ideologie che hanno inquinato la storia dell’uomo giustificandone i peggiori comportamenti.

I nazionalsocialisti sostenevano che le razze non ariane erano inferiori, prive dell’attribuzione condizionante il valore si sentivano legittimati a trattare gli ebrei, gli zingari, gli slavi e poi via via tutti i popoli assoggettati come “sub umani”. Analogamente, tale principio di valore condizionato all’appartenenza razziale è stato adottato dagli americani nei confronti dei nativi prima e delle persone di colore, dei cinesi e degli ispanici poi.

Del resto, basta estremizzare un pochino il ragionamento per comprenderne appieno il senso implicito. Abbiamo visto che se il valore di una persona è condizionato dalla sua ricchezza, questo significa che più la persona è ricca e più vale e, specularmente, meno è ricca e meno vale. Ma se la persona non solo è poverissima, ma versa in condizioni tali da non essere in grado di provvedere a sé stessa, dovremmo allora concludere necessariamente che è del tutto priva di valore. Se così fosse sarebbe allora legittimo domandarci se non fosse più conveniente ad esempio usare i suoi organi, gli organi di uno che non vale niente, per salvare due o tre persone, che invece essendo ricche, hanno più valore.

Cambiando esempio, dovremmo domandarci se è conveniente curare un anziano povero e non auto sufficiente piuttosto che impegnare le risorse sanitarie per dedicarle a persone di maggior “valore”. Prima di rispondere inconsapevolmente alla domanda vi suggerisco di mettervi nei panni dell’anziano e pensare che si potrebbe decidere del vostro destino, o di quello dei vostri genitori o addirittura dei vostri figli. E non è il caso di liquidare con disinvoltura la faccenda visto le recenti vicissitudini sofferte a causa della pandemia Covid, che hanno riproposto esattamente in questi termini le valutazioni rispetto alle persone anziane, o su più ampia scala, riguardo ai paesi poveri.

Dovrebbe quindi apparire evidente che l’adozione del valore condizionato nei confronti degli individui è una pessima scelta, sia da un punto di vista etico che procedurale, scelta che va abbandonata a favore di un principio più oggettivo e più stabile, differenziando nettamente il concetto di valore della persona da quello che riguarda l’efficacia dei suoi comportamenti.

Ed in effetti questo rappresenta il cuore del problema, nel rifiutare l’adozione di condizioni esterne che definiscano il valore di una persona, accettare il concetto che ogni persona vale in sé stessa e per sé stessa e non solo per la funzione che può svolgere, che ogni persona è un fine che ha valore assoluto e non solo un mezzo che vale per l’utilità che può offrire, individuando una qualità intrinseca che sia specie specifica, che sia caratteristica quindi di ogni essere umano.

E quale può essere una condizione che subordini alla sua assenza tutte le attribuzioni pratiche? Se io offrissi ad alcuni di voi, la fama, il successo, la ricchezza o qualsivoglia altra condizione, soddisfacendo quindi tutte le più inconfessate ambizioni, chiedendo in cambio solo il vostro tempo, consentendovi cioè di vivere così solo per un giorno e poi morire, quanti sinceramente accetterebbero?

La risposta a questa seconda domanda veicola anche la risposta alla prima, infatti la mia esperienza statistica maturata in molti anni di attività come psicoterapeuta, mi dice che pochissimi hanno tentennato nel rifiutare definendo la propria vita più importante di tutte le condizioni offerte.

Sono quindi in grado di rispondere alla domanda che mi ero posto: quale valore attribuire alla persona umana? La risposta ora appare semplice: poiché non esiste vita umana che non sia la vita di una persona; poiché qualunque condizione materiale ha un senso solo in presenza di un soggetto in grado di percepirla, ogni persona vale in sé e per sé in ragione del fatto che è viva, ed è l’essere vivo che caratterizza e definisce il senso delle nostre azioni e delle nostre attribuzioni.

Essere apprezzati, ammirati, poter disporre del benessere economico o di qualunque altra condizione che qualifichi soggettivamente la felicità, necessita come elemento fondamentale della presenza del soggetto percipiente, senza il quale questi fatti non veicolano alcun significato; non credo che Van Gogh sia ora in grado di essere soddisfatto del successo attualmente raggiunto dalle sue opere, o Leonardo della fama universalmente riconosciutagli, questi accadimenti non hanno ovviamente alcun senso se non gliene viene attribuito uno, specifico e soggettivo, dal singolo individuo.

 

Manuale del Disturbo Borderline di Personalità nell’infanzia e nell’adolescenza – Recensione

Manuale del Disturbo Borderline di Personalità nell’infanzia e nell’adolescenza è organizzato in sei parti, ciascuna di queste tenta di analizzare tematiche e problematiche connesse, riportando una grande quantità di ricerche, teorie e modelli.

 

Questo libro assume un grande valore scientifico e clinico, non solo racchiude gran parte delle ricerche scientifiche condotte sul Disturbo Borderline di Personalità in infanzia e adolescenza, in ottica multidisciplinare ed evoluzionistica, ma percorre varie tappe: dalla complessa questione diagnostica, alla prevenzione e al trattamento.

Il Nuovo libro Manuale del Disturbo Borderline di Personalità nell’infanzia e nell’adolescenza a cura di Carla Sharp e Jennifer I. Tackett, edizione italiana a cura di Ilaria Riccardi e Donatella Fiore; e pubblicato da FrancoAngeli editore, affronta la complessa e delicata questione del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) in infanzia e adolescenza, riportando in modo dettagliato ed analitico una vasta letteratura scientifica, tentando di restituire al lettore una visione più completa ed esaustiva possibile del presente disturbo. Un primo compendio che restituisce i risultati di anni di studi sull’argomento.

Il libro è organizzato in sei parti, ciascuna di queste tenta di analizzare tematiche e problematiche connesse, riportando una grande quantità di ricerche, teorie e modelli.

Nella parte iniziale del libro viene introdotto il costrutto del DBP, riportando i dati delle ricerche degli ultimi vent’anni, circa la complessità di concettualizzazione e la difficoltà diagnostica in infanzia e adolescenza.

Difatti, il DBP può essere definito come una modalità pervasiva di instabilità e di ipersensibilità nei rapporti interpersonali, instabilità nell’immagine di sé, estreme fluttuazioni dell’umore, e impulsività.

Data la pervasività e la gravità del disturbo e la compromissione del funzionamento, nonché la sofferenza dell’individuo, risulta di particolare rilevanza riuscire a identificare in età precoce l’evolversi di una sintomatologia affine. Perciò, nel corso degli anni, vari autori hanno tentato di rispondere a diverse domande, tra cui le più rilevanti: “Quali sintomi, in infanzia e adolescenza, sono i migliori predittori per lo sviluppo di un DBP?” “Quali fattori possono considerarsi un rischio per l’evolversi verso un DBP? E quali fattori di protezione?”

Ma anzitutto, “È corretto utilizzare i criteri diagnostici degli adulti, anche per bambini e adolescenti?” e ancora “Il costrutto rimane invariato oppure si manifesta in maniera differente nelle diverse età?”

Come si può comprendere, queste sono alcune delle moltissime domande a cui i ricercatori hanno tentato di rispondere ed è tutt’altro che semplice, lungi dall’esaurire la questione in poche centinaia di pagine del libro. Tuttavia, le finalità di questo manuale sono di far luce e chiarezza sul panorama scientifico e restituire in forma organizzata il sapere in unico testo, peraltro finalità ampiamente ed egregiamente raggiunte.

“Quali sintomi, in infanzia e adolescenza, sono i migliori predittori per lo sviluppo di un DBP?”

Molti degli autori concordano sul fatto che il DBP insorga in infanzia e adolescenza, anche se al momento risulta molto più complesso identificare segni e sintomi predittori soprattutto in infanzia rispetto all’età adolescenziale. Del resto, anche la fase adolescenziale stessa, non è priva di problematiche, anzi comporta una difficoltà nel distinguere efficacemente tra la sintomatologia del DBP e i cambiamenti tipici adolescenziali che non rappresentano necessariamente una problematica, a meno che non si raggiungano livelli tali da interferire con il funzionamento dell’individuo nella quotidianità.

Alcuni autori tentano di individuare sintomi precursori, sostenendo una semplicistica suddivisione di prevalenza di disturbi internalizzanti in infanzia, mentre in adolescenza disturbi esternalizzanti; altri autori invece, si spingono nell’individuazione di sintomi specifici. L’idea maggiormente condivisa è la presenza di una costellazione di sintomi che si manifesti in età adolescenziale come: disregolazione emotiva, instabilità dell’immagine di sé e delle relazioni interpersonali, multi-impulsività, autolesionismo e talvolta abuso di sostanze fino all’overdose. Inoltre, sono stati teorizzati i “Warning Signs”, cioè sintomi che devono allertare il professionista circa la possibilità di un DBP, ovvero tratti stabili come: sensazione cronica di vuoto, rabbia intensa e inappropriata, impulsività e instabilità affettiva.

Quali ipotesi eziologiche?

Le ipotesi avanzate dagli autori sono molteplici, tenendo conto di vari fattori che possono determinare un fattore di rischio o predisponente per l’insorgenza di un DBP nel soggetto. Il manuale riporta moltissime ricerche di questi fattori di rischio, di varia natura, come: genetiche, epigenetiche, neurobiologiche, sociali, cognitive, attaccamento, etc. In particolare, le ipotesi maggiormente condivise, sostengono che una mancanza di socializzazione precoce, un’esposizione costante ad ambienti caotici e traumatici, modelli familiari devianti, lieve alterazione neuropsicologica e biochimica, possa portare con più probabilità a un’insorgenza di DBP.

Diversamente da come si pensava in passato, la sola presenza di un trauma non sarebbe sufficiente a spiegare l’evoluzione verso la patologia.

Inoltre, vari autori hanno tentato nel tempo di dare una spiegazione maggiormente organizzata e integrata dell’eziologia del disturbo formulando differenti modelli, tra cui il più esaustivo sembra essere il modello multifattoriale dell’eziologia.

Il DBP rimane stabile nel tempo?

I dati riportati dai diversi studi suggeriscono che, se mentre nell’adulto il DBP è principalmente cronico, nel periodo adolescenziale il DBP è temporaneo e può andare incontro a variazione o addirittura verso una remissione. Quindi, se si interviene precocemente sarebbe possibile ridurre gli effetti e il progredire della patologia, perciò, viene da sé la necessità di identificare la sintomatologia precocemente.

La diagnosi in infanzia e adolescenza?

Una volta chiariti i criteri diagnostici in infanzia e adolescenza, il professionista, oltre all’utilizzo del colloquio clinico, può avvalersi di vari strumenti provenienti da diversi orientamenti teorico-scientifici. Quelli maggiormente utilizzati sono il Personality Assessment Inventory – Adolescent (PAI – A) e il Minnesota Multiphasic Inventory – Adolescent (MMPI – A), che permettono un inquadramento diagnostico più accurato.

Quali trattamenti?

Per l’adolescenza sono stati messi a punto vari trattamenti, molti dei quali risultano essere degli adattamenti di interventi già validati e destinati ai soggetti adulti. Di seguito gli interventi maggiormente utilizzati:

  • Mentalization Based Treatment for Adolescent (MBT-A): questo intervento individuale spesso viene associato insieme ad un intervento Familiare (MBT-F).
  • Transference Focused Psychotherapy for Adolescent (TFP-A)
  • Helping Young People Early programme (HYPE): questo programma di aiuto precoce integra i principi della Terapia Cognitivo – Analitica (CAT)
  • Dialectical Behavior Therapy (DBT)
  • Terapia Familiare
  • Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving (STEPPS): questo intervento viene svolto in gruppo.

In conclusione, questo libro risulta essere un volume che necessariamente dovrebbe essere presente nello studio di ciascun professionista che svolge la pratica clinica con soggetti in età infantile e adolescenziale.

Nonostante la chiarezza espositiva e l’intenzione comunicativa, la ricchezza di dettagli e la complessità delle argomentazioni, nonché la mole, fa sì che il pubblico a cui si rivolge il presente volume, sia perlopiù di tipo professionale.

Inoltre, questo manuale rappresenta una grande opportunità per il clinico, sia per ampliare e approfondire le proprie conoscenze sia per cogliere anticipatamente la sintomatologia riportata, diagnosticare accuratamente e intervenire precocemente per scongiurare l’evolversi della patologia stessa e migliorare il benessere del soggetto.

Difatti, la complessità che emerge dal libro, non è altro che il riflesso della complessità delle argomentazioni stesse.

Ci auguriamo che nuovi studi, in particolare focalizzati sull’infanzia, possano far luce su altri aspetti al momento sconosciuti, così da andare ad arricchire ulteriormente questo manuale.

 

“Quante realtà esistono? Una, nessuna o centomila?” L’importanza degli atteggiamenti secondo la psicologia sociale

L’atteggiamento viene definito in psicologia sociale come una “tendenza nel valutare il senso in positivo o negativo un oggetto, sia esso reale o astratto, ed essendo quest’ultimo proveniente dall’ambiente sociale lo si può identificare come la risposta, ma non solo, a qualcosa al di fuori di sé” (Maggio, 2018).

 

“C’è forse una realtà sola, una per tutti?
[…] Non ce n’è una neanche per ciascuno di noi, poiché in noi stessi la nostra cangia di continuo!”

(Luigi Pirandello, Uno nessuno e centomila, 1909).

 

Esiste un potenziale di cambiamento ancora prima che venga effettuata una comunicazione tra mittente e destinatario (Maggio, 2018). La psicologia sociale è una disciplina dove l’utilizzo degli strumenti non dev’essere pensato come una rigida applicazione di tecniche all’interno di specifici contesti, bensì come una possibile scienza che considera fondamentale il ruolo delle relazioni e dei sistemi sociali per comprendere i pensieri e gli agiti degli individui (Maggio, 2018). Il mondo psichico e il mondo sociale furono descritti lungo un continuum che parte da un livello intrapersonale (cioè come le persone organizzano la loro percezione, la valutazione dell’ambiente sociale e il loro comportamento all’interno di quest’ultimo) per arrivare ad un livello interpersonale (manifestazione di processi inter-individuali), un livello inter-gruppo (riguarda l’effetto delle posizioni di ruolo e di status sociale preesistenti) ed un livello ideologico (sono presenti delle concezioni generali e delle credenze, condivise attraverso i rapporti sociali, funzionali al mantenimento dell’ordine sociale stabilito) (Doise, 1986).

Le origini della psicologia sociale

La psicologia sociale affonda le sue radici nella filosofia: Platone asserisce la supremazia del contesto sull’individuo, dove quest’ultimo viene educato per adattarsi socialmente, mentre Aristotele sviluppa un pensiero in cui gli individui creano relazioni in modo spontaneo. La sociologia nasce grazie ad Auguste Comte (1830) con lo scopo di effettuare un confronto tra culture differenti attraverso la comparazione degli stadi dell’evoluzione sociale (Maggio, 2018, p. 131), mentre Durkheim (1898) apporta un notevole contributo a tale disciplina considerando gli eventi sociali come delle rappresentazioni collettive di una società: tali rappresentazioni vengono descritte come dotate di vita propria rispetto agli stessi individui che ne sono i creatori (Maggio, 2018, p.131). Charles Darwin (1871; 1872) conia la teoria dell’evoluzione dove l’uomo è considerato un animale sociale capace di adattarsi mentalmente, fisicamente e socialmente all’ambiente e alle sue modifiche grazie allo scambio emotivo che avviene tra gli individui (Darwin, 1871; 1872; Maggio, 2018).

La psicologia sociale oggi

Attualmente, esistono due approcci incentrati maggiormente sulla società e su una prospettiva osservativo-interpretativa e non sperimentale. La psicologia delle folle, approccio concepito alla fine del XIX secolo, fa riferimento alla tecnica della suggestione e all’epidemiologia per spiegare il “contagio mentale” quando sono presenti emozioni intense di rifiuto delle norme, mentre la Völkerpsychologie, rappresentante il pensiero tedesco del XIX secolo, considera la società come composta da tre elementi essenziali: Gemeinschaft (la comunità culturale), Volk (popolo di un posto che subisce un’influenza dall’ambiente) e formazione educativa (Maggio, 2018, p.132). Anche se non vi è una definizione precisa di psicologia sociale dal XIX secolo, Doise e colleghi (1986) definiscono il concetto di rappresentazione sociale come polimorfo, composto da processi socio-cognitivi e rappresentazioni sociali semantiche: lo scopo è quello di studiare i modi e le forme dell’articolazione tra il mondo sociale e il mondo psichico, fornendo risposte capaci di accrescere la conoscenza scientifica e quotidiana (Doise, 1986; Maggio 2018).

Psicologia sociale e atteggiamenti

Secondo la psicologia sociale, è possibile comprendere il rapporto tra individui e società studiando l’importanza degli atteggiamenti e il ruolo dell’influenza reciproca tra persone. L’atteggiamento viene definito come una “tendenza nel valutare il senso in positivo o negativo di un oggetto, sia esso reale o astratto, ed essendo quest’ultimo proveniente dall’ambiente sociale lo si può identificare come la risposta, ma non solo, a qualcosa al di fuori di sé.” (Maggio, 2018, p.139). Inizialmente, l’atteggiamento fu definito come ”un’elaborazione compiuta mentalmente dall’individuo di influenza delle risposte agli stimoli del contesto sociale, siano esse attuali che potenziali” (Thomas e Znaniecki, 1918-1920). Un atteggiamento si forma grazie all’esperienza diretta, o mediata, e attraverso l’educazione ricevuta dai familiari, dal gruppo di riferimento o dai mezzi di comunicazione di massa (Maggio, 2018). Attraverso l’identificazione, tale atteggiamento viene interiorizzato per una propria autorealizzazione, per un uso utilitaristico, per difesa o conoscenza (Katz, 1967; McGuire, 1969; Smith, Bruner e White, 1956).  Si parla di una “funzione di adattamento sociale” quando si considera un contesto utile a modificare tali atteggiamenti in quanto associati a frustrazioni nel raggiungimento di un esito; di “funzione conoscitiva” come risultato del ruolo di tali atteggiamenti che permette una migliore comprensione dell’ambiente circostante; “funzione di espressione” di valori per riferirsi ai principi morali in cui gli individui credono e, infine, “funzione ego-difensiva” per comprendere come gli individui controllano e fronteggiano situazioni che provocano emozioni negative, proiettandole su altre persone o altri gruppi (Maggio, 2018, p. 140).

Gli atteggiamenti possono essere misurati per conoscere come le opinioni siano distribuite in una popolazione, che siano favorevoli o meno (Maggio, 2018). Dato che non sono direttamente misurabili, vengono utilizzati degli strumenti utili a misurare il costrutto con cui potrebbe esserci un rapporto significativo: gli strumenti diretti includono scale e item, mentre gli strumenti indiretti si basano su tecniche di misurazione della conduttanza cutanea oppure dell’attività dei muscoli facciali, per comprendere la valenza positiva o negativa nei confronti di un oggetto e le varie emozioni suscitate (Ekman, 1971). Quando si parla di Sé, si fa riferimento ad un insieme di credenze che, in un dato momento, ogni persona possiede per costruire uno schema utile a comprendere quale evoluzione si è vissuta dinamicamente nel corso del tempo. Il Sé viene influenzato dall’Altro e non ci si può esimere dal manifestare un atteggiamento verso qualcosa con cui si ha un’interazione, in modo diretto o non (Maggio, 2018). In conclusione, quante realtà esistono?

Facendo riferimento all’opera pirandelliana (1909), come è funzionale assumersi la responsabilità di scegliere una rappresentazione armonica di noi stessi all’interno della società, è utile creare confronti grazie ad atteggiamenti e ad un’influenza reciproca, che servono da garanzia per uno scambio che porta alla progressione, tanto nella scienza quanto nella vita quotidiana (Maggio, 2018).

 

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne 2021

Il 25 novembre di ogni anno si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, un’occasione per puntare l’attenzione su una tematica dolorosa e, purtroppo, sempre più attuale

 

Le origini della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Questa importantissima ricorrenza è stata istituita dall’assemblea dell’Onu nel 1999. La data è stata scelta per ricordare il sacrificio di Patria, Minerva e Maria Teresa, tre sorelle che, a causa della loro militanza politica contro il regime del dittatore dominicano Rafael Leonida Trujillo, furono brutalmente trucidate nel 1960. Le sorelle Mirabal, fervide attiviste politiche della Repubblica Dominicana e sostenitrici del “Movimento 14 giugno”, mentre stavano andando in auto a far visita ai loro mariti (anch’essi incarcerati per la loro militanza politica), furono fermate dalla polizia, condotte in una piantagione di canna da zucchero e, dopo indicibili torture, gettate in un precipizio per simulare un incidente. L’opinione pubblica comprese subito che si trattò di un efferato assassinio. L’eco di tale tragedia si diffuse, però, solo dopo la morte del dittatore. E il sacrificio delle donne fu noto al mondo intero solo nel 1999, quando questa storia intrisa di violenza e di disuguaglianza di genere giunse sul tavolo dell’assemblea dell’Onu.

In Italia il ricordo di tutte le donne vittime di violenza si celebra dal 2005. Perché ancora oggi, a distanza di sessantuno anni dall’assassinio delle sorelle Mirabal, a casa, a scuola, a lavoro, per strada, su internet, una donna su tre (secondo i dati forniti dall’Onu) subisce violenza fisica e psicologica (Manco, 2018)

Dati dal mondo e dall’Italia

I dati raccolti dall’OMS nel più grande studio condotto sulla violenza contro le donne (dal 2000 al 2018) parlano chiaro: una donna su tre, ovvero circa 736 milioni in tutto il mondo, subisce violenza fisica o sessuale da parte di un uomo. Questo problema inizia in modo allarmante da giovane: una donna su 4 avrà già subito violenza da parte di un partner entro i 25 anni di età. (Ansa, 2021).

In Italia gli ultimi dati Istat (raccolti nel 2019) mostrano che il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner (Ministero della Salute, 2021)

Secondo il Rapporto Istat 2019 sulle donne vittime di omicidi, delle 111 donne uccise nel 2019, l’88,3% è stata uccisa da una persona conosciuta (il 49,5% di queste dal partner attuale; l’11,7%, dal partner precedente; il 22,5% da un familiare – inclusi i figli e i genitori – e il 4,5% da un’altra persona che conosceva – amici, colleghi, ecc.).

Nel mese di marzo 2019 la Polizia di Stato ha registrato, in media, ogni 15 minuti una vittima di violenza di genere di sesso femminile. Maltrattamenti, stalking, abusi sessuali, fino alla forma più estrema: il femminicidio

Nel triennio 2017-2019 (EMIUR, 2019), il numero totale di accessi in Pronto Soccorso con l’indicazione di diagnosi di violenza nell’arco del triennio è pari a 19.166 (1,2 accessi pro capite). Le stesse donne nell’arco del triennio hanno effettuato anche altri accessi in Pronto Soccorso con diagnosi diverse da quelle riferibili a violenza: una donna che ha subito violenza nell’arco del triennio torna in media 5/6 volte in Pronto Soccorso. La maggior parte degli accessi è di donne che tra 18 e 44 anni.

Nel 2021 invece si segnalano 19.128 reati spia (delitti indicatori di violenza di genere, espressione dunque di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica, diretta contro una donna in quanto tale, tra cui rientrano atti persecutori, maltrattamenti e violenze sessuali). Le donne uccise in ambito familiare/affettivo per mano del partner o l’ex partner sono l’89% (Ministero dell’interno, 2021)

La violenza contro le donne e la pandemia Covid-19

La pandemia ha costretto le famiglie a stare più a stretto contatto e a trascorrere più tempo assieme, sono aumentate le perdite economiche e i licenziamenti. Man mano che le risorse economiche diventavano più scarse, sono aumentate le forme di abuso, di potere e di controllo da parte del partner.

Nel 2020 le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking (promosso e gestito dal Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio) sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019. Il boom di chiamate si è avuto a partire da fine marzo 2020, in piena emergenza Covid-19, con picchi ad aprile (+176,9% rispetto allo stesso mese del 2019) e a maggio (+182,2 rispetto a maggio 2019). La violenza segnalata quando si chiama il 1522 è soprattutto fisica (47,9% dei casi), ma quasi tutte le donne hanno subito più di una forma di violenza e tra queste emerge quella psicologica (50,5%).

Rispetto agli anni precedenti, sono aumentate le richieste di aiuto delle giovanissime fino a 24 anni di età (11,8% nel 2020 contro il 9,8% nel 2019) e delle donne con più di 55 anni (23,2% nel 2020; 18,9% nel 2019).

Riguardo agli autori, aumentano le violenze da parte dei familiari (18,5% nel 2020 contro il 12,6% nel 2019) mentre sono stabili le violenze dai partner attuali (57,1% nel 2020).

Diversi tipi di violenza

I dati fin qui esposti sono molto probabilmente solo una parte del quadro complessivo. Quelli registrati sono i dati raccolti attraverso denunce e segnalazioni alle Forze dell’Ordine e ad altri enti di competenza. Una grande parte delle violenze resta taciuta. Il silenzio spesso è dovuto alla vergogna provata dalle donne vittime di violenza, alla paura di possibili ritorsioni, alla colpa di frequente provata nei confronti del perpretatore (soprattutto se si tratta di un familiare o di un partner). Ciò che infatti disorienta la vittima e che spesso la induce a reputarsi colpevole della violenza e quindi a non denunciare l’abuso è il fatto che a commettere questi soprusi siano persone a lei care, persone che dovrebbero amarla e proteggerla. Sono difatti diversi i tipi di violenza di cui possono essere vittime le donne, alcuni dei quali – basandosi su dinamiche di potere e manipolazione – possono diventare anche più difficili da riconoscere. In occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, è bene esaminarli e aiutare le donne vittime di alcuni tipi di violenza, a riconoscersi come vittime.

Con il termine violenza si fa riferimento a quella situazione nella quale uno dei due contendenti ha più potere ed utilizza quest’ultimo per imporre i propri interessi e le proprie scelte all’altro. Così facendo inevitabilmente lo danneggia (Godenzi, 1993).

  • La più conosciuta è sicuramente la violenza fisica.

Essa comprende tutte quelle azioni che comportano l’aggressione fisica come percuotere (con e senza oggetti), spingere, scuotere, mordere, strangolare, legare, bruciare con sigarette, privare del sonno e privare delle cure mediche. Ne fanno parte anche quei gesti intimidatori che terrorizzano l’altra persona come spaccare oggetti o uccidere animali a cui la vittima è affezionata. Questo tipo di violenza è la più facile da riconoscere perché le sue conseguenze sono ben visibili sui corpi delle vittime (Romeo e Sirotti, 2015).

  • Un altro tipo di violenza molto conosciuto è la violenza sessuale.

Essa comprende tutti gli atti sessuali imposti con la forza dalla coazione fino alla violenza carnale e alla prostituzione coatta (ibidem).

  • La violenza si può attuare anche a livello economico.

Essa comprende il divieto di lavorare, la costrizione a lavorare, il sequestro del salario nonché la facoltà di disporre esclusivamente delle risorse finanziarie arrogatosi da uno/una dei/delle partner (ibidem).

  • Un ulteriore tipo di violenza è quella psicologica.

Quest’ultima è la più subdola di tutte perché non lascia ferite visibili ma nascoste nell’animo della vittima. Essa comprende sia minacce gravi, privazione della libertà, nonché forme che di per sé non costituiscono nessuna minaccia immediata ma che, se sommate, debbono essere considerate alla stregua di un atto di violenza vero e proprio. In questo ambito rientra la violenza di carattere discriminatorio sotto forma di disprezzo, offesa, umiliazione, biasimo, critica che infonde sensi di colpa, intimidazione o insulto. Vi rientrano pure gli impedimenti imposti alla vita sociale di una persona, quali il divieto di uscire di casa, il divieto o il controllo severo dei contatti con i familiari e/o con conoscenti ed amici (Romeo e Sirotti, 2015).

  • Stalking

Una delle forme più recenti di violenza, riconosciuta ormai anche dalla giurisprudenza italiana in seguito ad eventi fin troppo noti, è quella relativa allo stalking. Stalking è un termine inglese, il cui significato letterale è “inseguimento”, che indica un insieme di comportamenti di sorveglianza e controllo ripetuti ed intrusivi volti a ricercare un contatto con la vittima (Bernardini de Pace, 2004). Lo stalking si può manifestare in varie modalità: attraverso lettere, telefonate, e-mail, messaggi sul cellulare, pedinamenti; e può essere rivolta a personaggi diversi (come personaggi di successo o datori di lavoro) anche se nella maggior parte dei casi gli aggressori sono ex-conviventi o ex-coniugi che non si rassegnano alla separazione (Romeo e Sirotti, 2015).

  • Molestia sessuale in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale, ovvero di atti di corteggiamento invasivo ed insistito (Cass. 12.5.2010 n. 27042)

La molestia sessuale, quindi, prescinde da contatti fisici a sfondo sessuale e normalmente si estrinseca o con petulanti corteggiamenti non graditi o con petulanti telefonate o con espressioni volgari, nelle quali lo sfondo sessuale costituisce un motivo e non un momento della condotta (Cass. 26.10.2005 n. 45957).

Possono inoltre essere considerate molestie quei comportamenti, siano essi espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un essere umano e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, come accade ad esempio con affermazioni e comportamenti sessisti (Loi, 2016).

  • Catcalling

Le molestie di strada (o street harassment) vengono generalmente definite come attenzioni sessuali non desiderate esercitate da un estraneo in ambienti pubblici, siano essi strade, parchi o trasporti (Wesselmann & Kelly, 2010). Questo genere di molestie comprende un ampio spettro di comportamenti, quali fischi, pedinamenti, palpeggiamenti o qualsivoglia altro tipo di atteggiamento volto ad intimidire la vittima, attraverso connotazioni dal forte contenuto sessuale e minando la sua sicurezza (Stop Street Harassment, 2019). Nonostante questo fenomeno si rifletta sia sugli uomini che sulle donne, queste ultime sono maggiormente esposte a tali rischi. Questo fenomeno correla positivamente con l’auto-oggettivazione, che coincide con la tendenza a focalizzarsi, preoccuparsi e, conseguentemente, a vergognarsi per il proprio aspetto corporeo (Fairchild & Rudman, 2008).

Vittimizzazione secondaria e Victim blaming

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne va ricordato quanto sia fondamentale denunciare. Spesso – purtroppo – le donne che denunciano, devono fare i conti con un fenomeno secondario di vittimizzazione. Col termine Victim Blaming si indica proprio la tendenza a colpevolizzare, in toto o in parte, le vittime di violenza, in quanto corresponsabili dei trattamenti loro inflitti. È come se i ruoli si invertissero: l’errore commesso viene trasferito dall’oppressore all’oppresso, che avrebbe agito in maniera tale da meritare quel torto, quello schiaffo, quel pugno, quell’insulto, quella morte (Romeo, 2021). Purtroppo, la questione interessa prevalentemente le vittime di violenza sessuale e/o domestica (Gravelin, Biernat, Bucher; 2019): in entrambi i casi, il martire è di solito una donna che, secondo il parere di chi le punta il dito contro, è troppo distante dall’idea stereotipata di “vittima indifesa, autentica, vera, leale” e peccherebbe di credibilità (Randall; 2016) in quanto, a causa del suo comportamento o atteggiamento provocatorio, del suo abbigliamento inopportuno e provocante, ha dato fuoco alla miccia. Tutto ciò, non soltanto aumenta la sofferenza di chi già patisce, ma ne raddoppia anche l’umiliazione (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021).

Nel caso specifico dei soprusi sulle donne, è chiaro quanto la tendenza a condannare chi non è in difetto sia alimentata, in parte e non solo, dagli stereotipi di genere (Johnson, Nadal, Sissoko, King; 2021), ovvero da un “insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti e l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere”; tali credenze influenzano negativamente gli atteggiamenti e i pensieri della società nei confronti di chi subisce violenza (Romeo, 2021).

Tale retroterra socioculturale è anche alla base del diffondersi della rape culture, ovvero «Un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne […] e che normalizza il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne.” (Pamela Fletcher, Emilie Buchwald e Martha Roth, 1993) Infatti, si manifesta e concretizza mediante l’adozione quotidiana di un lessico misogino, attraverso l’oggettivazione sessuale dei corpi femminili, operata dai media, e grazie a un massiccio processo di normalizzazione della violenza (Nuzzo, 2021).

Quanto più condividiamo questi tossici meccanismi, tanto più rendiamo difficile alle donne denunciare, parlare, allontanare e difendersi dalla violenza. Il cambiamento deve partire da tutti noi, bisogna riconsocere i modi in cui la violenza si diffonde intorno a noi e spesso anche dentro di noi.

Violenza sulle donne: Cosa fare

Qualsiasi forma di violenza va denunciata. Le donne vittime di violenza possono rivolgersi ai seguenti servizi (Ministero della Salute, 2021):

112: chiamare il numero di emergenza senza esitare, né rimandare:

  • in caso di aggressione fisica o minaccia di aggressione fisica;
  • se si è vittima di violenza psicologica;
  • se si sta fuggendo con i figli (eviti in questo modo una denuncia per sottrazione di minori);
  • se il maltrattante possiede armi.

Numero antiviolenza e anti stalking: 1522

  • Il numero di pubblica utilità 1522 è attivo 24 ore su 24 per tutti i giorni dell’anno ed è accessibile dall’intero territorio nazionale gratuitamente, sia da rete fissa che mobile, con un’accoglienza disponibile nelle lingue italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo. L’App 1522,  disponibile su IOS e Android, consente alle donne di chattare con le operatrici. È possibile chattare anche attraverso il sito ufficiale del numero anti violenza e anti stalking 1522

App: YouPol

  • realizzata dalla Polizia di Stato per segnalare episodi di spaccio e bullismo, l’App è stata estesa anche ai reati di violenza che si consumano tra le mura domestiche

Pronto Soccorso

  • soprattutto se si ha bisogno di cure mediche immediate e non procrastinabili. Gli operatori sociosanitari del Pronto Soccorso, oltre a fornire le cure necessarie, sapranno indirizzare la persona vittima di violenza verso un percorso di uscita dalla violenza

Vi sono poi altri enti o servizi a cui rivolgersi, tra cui consultori, farmacie e numeri verdi:

  • Mappa dei consultori in Italia
  • Centri antiviolenza sul sito del Dipartimento delle pari opportunità
  • Farmacie, per avere informazioni se non è possibile contattare subito i Centri antiviolenza o i Pronto soccorso
  • Telefono Verde AIDS e IST 800 861061 se si è subita violenza sessuale. Personale esperto risponde dal lunedì al venerdì, dalle ore 13.00 alle ore 18.00. Si può accedere anche al sito www.uniticontrolaids.it
  • Poliambulatorio dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà (INMP), dall’8 marzo 2021 è attivo il Servizio Salute e Tutela della Donna, dedicato alla presa in carico delle donne più fragili o comunque bisognose di assistenza sanitaria e psicologica.

La responsabilità è di tutti

La Giornata Internazionale per l’Eliminazione delle violenza sulle donne ci deve aiutare a comprendere la grande diffusione del fenomeno, le tante sfaccettature della violenza e le sue profonde radici all’interno della nostra società e della nostra vita. Sensibilizzare ci aiuta a capire quanto alcuni meccanismi violenti – che spesso riteniamo lontani da noi – possono esserci più vicini di quanto immaginiamo: riflettere sulle conseguenze di un linguaggio misogino, degli stereotipi di genere, del victim blaming ci mette nelle condizioni di scoprire se e in che modo tali condotte riguardano noi stessi e le persone a noi vicine e cosa fare per eliminarle. Non c’è tempo per de-responsabilizzarsi ma per diventare consapevoli e iniziare a fare la propria parte per eliminare qualsiasi traccia di discriminazione e violenza.

 

Psicoterapia evidence based: una risposta alla sofferenza psicologica – Intervista alla Dott.ssa Sandra Sassaroli

Per avere un quadro più chiaro della psicoterapia moderna, in particolare della psicoterapia evidence based, abbiamo intervistato la Dott.ssa Sandra Sassaroli, fondatore del gruppo Studi Cognitivi.

 

La salute mentale è una cosa seria, rivolgersi a un centro e/o scegliere il professionista che possa aiutarci a gestire il problema di cui soffriamo è fondamentale. Nell’immaginario popolare troppo spesso la psicoterapia è percepita come un raccontarsi incessante e senza finalità. In realtà, iniziare un percorso terapeutico significa iniziare un lavoro su di sé, guidati da un professionista, che consenta di raggiungere determinati obiettivi terapeutici, grazie all’utilizzo di strategie e tecniche scientificamente validate. Per avere un quadro più chiaro della psicoterapia moderna, in particolare della psicoterapia evidence based, abbiamo intervistato la Dott.ssa Sandra Sassaroli, fondatore del gruppo Studi Cognitivi.

Redazione State of Mind: Buongiorno Dottoressa Sassaroli, iniziamo con una domanda utile a tutte quelle persone che, dopo aver preso la decisione di iniziare un percorso di psicoterapia, non sanno a quale terapeuta rivolgersi.  Come si sceglie un terapeuta?

Dottoressa Sandra Sassaroli: Solitamente si va per passaparola o raccomandazioni personali: qualcuno ci indica un terapeuta dicendoci “ha fatto un ottimo lavoro con una mia amica”.. In altri casi cerchiamo in rete e scegliamo sulla base della simpatia o del viso che ci desta più fiducia.

Ecco, questo mi sembra appartenere a un’altra era.

Io non scelgo il mio cardiologo in base alla simpatia, ma lo scelgo per l’eccellenza della struttura in cui lavora e per le competenze dimostrate nel prendersi carico del mio problema cardiaco.

Noi pensiamo che la scelta del terapeuta non debba essere fatta unicamente sulla base di queste abitudini, ma che debba essere delegata a una struttura che ci dimostra che il clinico è stato formato adeguatamente per il tipo di problema che noi abbiamo. Ad esempio se ho un problema di ansia sociale o un timore del giudizio che mi blocca nella vita di tutti i giorni, mi conviene rivolgermi a una struttura dove ci sia un clinico esperto nel trattare questo tipo di disturbi secondo linee guida efficaci, piuttosto che un terapeuta che magari è anche estremamente capace o simpatico ma che non ha esperienza e formazione specifica in questo campo.

 

SoM: Esiste ancora molta confusione sui ruoli dello psicologo, dello psicoterapeuta e dello psichiatra. Dottoressa Sassaroli, può spiegarci in breve la differenza tra le tre figure professionali?

S. Sassaroli: Si tratta di tre figure professionali molto diverse, che a volte si possono sovrapporre.

Lo psicologo è un dottore laureato dopo 5 anni di studio, fa supporto per i momenti di difficoltà e può fare diagnosi ma non è abilitato e non ha gli strumenti per condurre una psicoterapia.

Lo psicoterapeuta è uno psicologo che alla laurea in psicologia ha aggiunto 4 anni di studio e specializzazione con un minimo di 2000 ore di formazione pratica e teorica per poter entrare in un albo professionale: quello degli psicoterapeuti.

Lo psichiatra è un laureato in medicina che dopo la laurea ha fatto 4 anni di specializzazione in psichiatria. Solo il medico e lo psichiatra possono somministrare psicofarmaci. Penso che sia fondamentale che lo psichiatra collabori con lo psicoterapeuta utilizzando, quando necessario, i farmaci a supporto della psicoterapia.

 

SoM: Prima di iniziare un percorso psicoterapeutico, è bene sapere che, così come in medicina, esistono studi di efficacia anche in psicoterapia. Per questo si parla di psicoterapia evidence-based. Ci può spiegare meglio che cos’è la psicoterapia basata su evidenza scientifica?

S. Sassaroli: La psicoterapia basata sull’evidenza segue gli stessi criteri di verifica della scienza medica: solamente i trattamenti che si sono dimostrati efficaci sono basati sull’evidenza.

Le prove di efficacia si applicano a determinati problemi. Non esiste infatti una terapia che va bene per tutti i problemi. L’approccio evidence-based significa anche questo: selezionare in modo puntuale il trattamento corretto per lo specifico problema. Insomma: conviene per specifici disturbi riferirsi a psicoterapie che hanno dimostrato la loro efficacia, come la psicoterapia cognitivo comportamentale.

 

SoM: Dunque la psicoterapia cognitivo comportamentale rientra tra le terapie più efficaci. Approfondiamo l’argomento per i nostri lettori: cosa è la psicoterapia cognitivo comportamentale?

S. Sassaroli: La Psicoterapia Cognitivo Comportamentale è una delle molte terapie esistenti al mondo, come la psicoanalisi, la terapia familiare, la terapia psicodinamica di gruppo. E molte altre.

La psicoterapia cognitivo comportamentale si distingue dalle altre perché è l’approccio che ha avuto maggiori prove di efficacia dagli anni 80 in poi, sui problemi ossessivi, sui disturbi d’ansia, sul disturbo di panico, sulla bulimia, e persino sul disturbo di personalità borderlineSe si ha una sofferenza mentale come ansia, depressione, ossessività, bulimia e anoressia o disturbi di personalità conviene riferirsi a un terapeuta cognitivo comportamentale, che è formato per padroneggiare e curare questi tipi di problemi.

 

SoM: Un altro passo importante, all’interno di un percorso psicoterapico, è la diagnosi. A cosa serve la diagnosi in psicoterapia?

S. Sassaroli: Quando abbiamo un problema fisico, ad esempio un sospetto di diabete, le analisi che ci fa fare il nostro medico di base sono fondamentali per orientare la cura. Ecco, anche la psicoterapia è una professione sanitaria: la diagnosi in psicoterapia è fondamentale per orientare il tipo di intervento psicoterapeutico raccomandato ed efficace.

Tutti noi dovremmo sempre pretendere di avere una diagnosi perché la diagnosi è un nostro diritto che ci permette di comprendere il nostro tipo di sofferenza e così poter accedere alle cure giuste.  Conviene a tutti avere una diagnosi condivisa con il terapeuta, basata su informazioni attendibili.

 

SoM: Parlando di psicoterapia, una delle espressioni più comuni a riguardo è “La terapia mette al centro la persona”. Un’espressione che spesso lascia spazio a diverse interpretazioni. In che modo, secondo lei, la terapia può davvero mettere al centro la persona?

S. Sassaroli: Non penso che una terapia basata prevalentemente sull’ascolto, sull’accoglienza e su una spalla su cui piangere possa davvero mettere al centro la persona.

La terapia che mette al centro il paziente è quella che garantisce l’accesso a terapeuti competenti per il disturbo diagnosticato e in base alle raccomandazioni internazionali. Qualsiasi servizio che eroghi salute mentale deve aiutarci ad avere: 1. una diagnosi chiara comprensibile e trasparente così da comprendere le caratteristiche del nostro soffrire e 2. aiutarci a trovare le cure più adeguate al problema che portiamo.

Questo penso che sia un nostro diritto quando chiediamo aiuto per un problema psicologico. Conviene muoverci con saggezza per trovare la diagnosi e le cure adeguate e efficaci alla nostra sofferenza mentale.

 

SoM: Fortunatamente, negli ultimi tempi, parlare di salute mentale non è più un tabù e stiamo diventando sempre più consapevoli dell’importanza di tutelare la nostra salute psichica. Quante sono oggigiorno le persone che presentano una sofferenza psicologica?

S. Sassaroli: Circa una persona su 6 in Europa e Stati Uniti soffre di disturbi depressivi o ansiosi. Nei paesi occidentali la sofferenza psicologica è responsabile di circa il 40% delle malattie, mentre meno del 20% è a carico di infarti, cancro, problemi al cuore, diabete e malattie croniche.

La sofferenza psicologica è quindi molto comune e diffusa, non è affatto un problema di pochi. È normale avere dei problemi, i tuoi problemi non sono diversi da quelli di tanti altri e per questi problemi sono disponibili cure efficaci. Ma si deve fare il primo passo. La maggior parte dei problemi psicologici che arrivano in terapia sono: disturbi ansiosi, depressione, stress, attacchi di panico e rimuginio. Per questo tipo di disturbi esistono percorsi efficaci e spesso brevi. 

 

Ringraziamo la dottoressa Sandra Sassaroli per averci aiutato a comprendere meglio cosa vuol dire fare psicoterapia e soprattutto quanto sia importante prendersi cura, in modo serio, della nostra salute mentale. Approfittiamo ancora delle parole della Dottoressa per ricordare a tutti che:

Noi ci abituiamo a soffrire psicologicamente come se fosse un destino, il destino all’ansia, alla melanconia, alla tristezza. Invece non c’è un destino alla sofferenza psicologica, si può vivere meglio

 

Psicoterapia evidence-based
Sandra Sassaroli parla del progetto inTherapy:

 

Maid – Storia di una donna che trova la forza per allontanarsi dal compagno violento e costruire giorni felici insieme alla figlia

Maid è una miniserie televisiva uscita il 1° ottobre 2021 su Netflix. La serie statunitense di genere drammatico è stata ispirata dal memoir di Stephanie Land Domestica: Lavoro duro, Paga Bassa, e la voglia di sopravvivere di una Madre.

 

Attenzione: l’articolo può contenere spoiler!

Trama

Nella serie, Alex, una giovane donna, decide di scappare durante la notte da Sean, compagno alcolista e violento, con la figlia di 3 anni, Maddy.

Alex ha rinunciato alla scuola di scrittura, non ha soldi e non ha il supporto degli amici o dei familiari. Ciò che spesso sperimentano le donne vittime di violenza domestica è una condizione di isolamento: deprivazione dell’autonomia economica, dei mezzi di sostentamento per se stessa e per i figli, rottura di relazioni sociali con continuo stato di allerta e stress.

Alex sta vivendo la prima fase della spirale della violenza, ma non lo sa. Trova ospitalità in una casa rifugio, ma sente di occupare quel posto impropriamente dal momento che non ha subito violenze fisiche. Può essere considerata vera e propria violenza l’abuso emotivo? Le donne vittime di violenza spesso si domandano se non stiano esagerando, se non sia solo una loro sensazione infondata quella di sentirsi controllate e minacciate, se non siano state, in qualche modo, loro la causa di quelle reazioni violente.

La donna, in ogni modo, spaventata dagli acting out quotidiani del partner, decide dopotutto di restare nella casa rifugio e di trovare un lavoro come domestica. Così inizia a destreggiarsi tra le difficoltà economiche, le esigenti richieste burocratiche e la realtà del contesto giuridico.

Come spesso accade però, il ciclo della violenza non si spezza. L’esplosione della violenza lascia spazio al pentimento: la cosiddetta fase della “luna di miele”.

Sean inizia il percorso di disintossicazione partecipando a gruppi terapeutici, promette di cambiare, trova un nuovo lavoro e Alex torna da lui. Da qui inizia di nuovo il “progressivo e rovinoso vortice in cui la donna viene inghiottita dalla violenza continuativa, sistematica e quindi ciclica da parte del partner” (Walker, 1979). La vittima riuscirà a liberarsi soltanto dopo l’ennesima “esplosione”, quando osserva il terrore negli occhi di Maddy, lo stesso terrore che Alex aveva conosciuto da piccola.

Ricomincia il percorso verso la rinascita per Alex e Maddy, questa volta sa cosa è successo, sa che dovrà affrontare le difficoltà economiche, le lunghe procedure burocratiche, le regole giuridiche. Questa volta sa chi è, qual è il suo colore preferito, sa che vuole imparare a fare la scrittrice e sa che vivrà molti giorni felici.

Maid rappresenta una storia come tante, rappresenta la storia di molte donne che vivono quotidianamente sulla loro pelle il terrore, le continue svalutazioni, le minacce, le violenze.

I dati Istat segnalano un aumento del rischio di violenza sulle donne durante il periodo pandemico, poiché molto spesso la violenza avviene nelle mura domestiche.

Nel 2020 le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking, sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019, sia per telefono, sia via chat (+71%).

La serie dunque offre la possibilità di riflettere sulle numerose dinamiche implicate nel pericoloso fenomeno della violenza domestica. Nello specifico permette di osservare le varie forme di violenza, le modalità cicliche con cui vengono messe in atto, le dinamiche intrapsichiche della vittima che vanno dalla negazione al riconoscimento, dal senso di colpa alla consapevolezza, dall’impotenza alla resilienza.

 

MAID – Guarda il trailer della serie Netflix:

https://www.youtube.com/watch?v=ZO4dyMGD7QU

 

L’impatto della “cultura della principessa” sulla concezione soggettiva di amore e romanticismo

Lo studio di Koontz et al. (2017) ha esaminato come le giovani donne percepiscono le rappresentazioni dei media delle principesse e come la ‘cultura della principessa’ influenza la costruzione delle loro relazioni romantiche.

 

L’amore romantico è, storicamente, un amore femminilizzato. L’impatto della cultura della principessa nell’immaginario delle giovani donne sull’amore e sul romanticismo rimane sconosciuto, sennonché teorici e ricercatori esprimono la preoccupazione che le favole possano spingere le ragazze a cercare relazioni romantiche basate su beni mercificati e/o su un “principe azzurro” che si prenda cura di loro.

L’impatto dei media nella cultura della principessa

Le rappresentazioni dei media giocano un ruolo fondamentale, in quanto hanno un impatto distinto e misurabile sulla comprensione della realtà. Balraj e Gopal (2013) hanno rilevato che gli individui organizzano la conoscenza del mondo che li circonda ordinando e semplificando le informazioni ricevute tramite i media, creando determinate rappresentazioni della realtà aventi un’influenza significativa sulla cognizione sociale, la comprensione, l’anticipazione e il controllo emotivo. La letteratura popolare e i media offrono un focus esplicito sulla cultura della principessa, tuttavia l’interesse predominante della ricerca accademica sui messaggi che rispecchiano l’etica e il ritratto dell’amore ideale si ripercuote sui film di Walt Disney. Alcuni studi hanno trovato che i film Disney descrivono la felicità come raggiungibile trovando un compagno di vita, le relazioni come facilmente mantenute attraverso l’immagine di un “amore a prima vista”, e le differenze di potere che favoriscono gli uomini sulle donne. Sulla base della prevalenza di questi temi e delle aspettative riportate, le giovani donne possono essere influenzate notevolmente dalla cultura popolare, così che le rappresentazioni mediatiche idealizzate dell’amore potrebbero perpetuare complicazioni tra aspettative ed esperienze vissute. Mentre gli studi esistenti suggeriscono che le donne possono essere influenzate da questi stereotipi, ulteriori ricerche possono far luce sulle concezioni dell’amore al fine di determinare come le giovani donne mettono in relazione le definizioni di amore e romanticismo con la cultura della principessa, includendo e/o superando tali copioni specifici della Disney. Lo studio di Koontz et al. (2017) ha tentato di esaminare i modi in cui le giovani donne percepiscono le rappresentazioni dei media delle principesse e come questo influenza la costruzione delle loro relazioni romantiche.

Come la cultura della principessa influenza le relazione romantiche

Tramite campionamento teorico (Charmaz, 2006) gli autori hanno reclutato studentesse universitarie iscritte a facoltà umanistiche e scientifiche per raccogliere diverse prospettive del fenomeno. Per supportare ulteriormente le differenze presenti nel campione i ricercatori si sono focalizzati sulla diversità, sulle minoranze e problematiche legate all’identità di genere. Il corpo studentesco era composto prevalentemente da donne caucasiche (57%), con una percentuale del 10% di donne afro americane e del 21% di ispaniche. I dati sono stati raccolti tramite un’intervista semi-strutturata, proposta a studentesse già coinvolte in uno studio sulla definizione del concetto di cultura della principessa, in cui venivano poste delle domande riguardo a quale impatto avesse quel tipo di cultura sulla loro vita universitaria. Le domande erano incentrate su come le partecipanti definissero l’amore ed il romanticismo e come potessero essere collegati o confrontati. La prima domanda era sempre “Come definiresti la cultura della principessa?”, seguita da domande pertinenti alle definizioni date dalle partecipanti riguardo a come si fossero sentite influenzate da suddetta cultura durante la loro crescita, soprattutto rispetto alle loro relazioni interpersonali. Le risposte indicavano il livello di influenza della narrativa fiabesca rispetto alla loro definizione dell’amore e ciò che i media definissero tale. Nel rispondere, le partecipanti facevano riferimento ad esempi derivati da libri, film o serie tv per supportare le loro idee e collocarle in un contesto culturale più generico. Durante la prima parte di analisi i ricercatori hanno codificato i termini emersi durante i focus groups legati all’amore, romanticismo, femminilità e matrimonio (Berg, 2009). Successivamente è stata fatta una codifica “line-by- line” per identificare i temi principali inerenti all’amore ed al romanticismo (Charmaz, 2006). Infine i ricercatori hanno comparato i dati raccolti con quelli ottenuti nella letteratura precedente per renderli fondati (Charmaz, 2006; Glaser and Strauss, 1967).

La cultura della principessa tra razionalità e idealizzazione

Dalla ricerca è emerso che nonostante si parta da una logica di amore razionale, la quale implica una visione dell’amore sostenibile attraverso il tempo e il lavoro di entrambi i partner (Illouz, 1991), i modi in cui le partecipanti hanno interpretato le rappresentazioni mediatiche dell’amore e della cultura della principessa differivano. Nello specifico, le giovani donne alle prese con l’interpretazione della cultura della principessa, sembravano affrontare un conflitto tra amore ideale e amore razionale, che si andava risolvendo con l’avvicinamento alla cultura della principessa o, al contrario, prendendo le distanze da questa visione romantica. La maggior parte delle partecipanti non era d’accordo con le rappresentazioni dell’amore romantico proposte dai media, definendole superficiali e in grado di costruire aspettative irrealistiche e stravaganti. Si preferisce spiegare l’amore attraverso la cornice della vita quotidiana, allontanandosi dai finali ideali proposti dalle fiabe percepiti come al di fuori del regno dell’amore razionalizzato. Nessuna relazione può essere considerata perfetta, perciò la realtà è che le relazioni sentimentali richiedono un lavoro e un impegno quotidiano (Illouz, 1997). Questa prospettiva si discosta dai copioni sull’amore romantico a cui le donne sono state esposte durante la giovinezza e dai quali si sono distaccate grazie al buon senso derivato dalle esperienze vissute che non sostenevano queste rappresentazioni idealizzate. Il processo di allontanamento dagli stereotipi sull’amore romantico implica la costruzione di sé sostitutivi, pertanto si può interpretare l’ambientazione dell’intervista come un luogo in cui si fa un discorso sull’identità che aiuta a comprendere come le partecipanti non stiano solo definendo le relazioni romantiche ma si stiano costruendo anche come persone razionali (Opsal, 2011). Le storie di alcune donne suggeriscono una nostalgia positiva associata alla narrazione delle principesse, utilizzata probabilmente come strumento di evasione dagli eventi negativi. Ad esempio, il divorzio dei genitori se vissuto in modo traumatico e in un’età precoce, può portare ad una maggiore dipendenza dai modelli di amore romantico. Dallo studio è emersa la necessità di continuare a sfidare gli ideali dell’amore romantico proposti dai media attraverso l’istruzione e la socializzazione nel tentativo di ampliare la consapevolezza che l’amore può e deve essere sano.

 

Guarire dalla dipendenza affettiva: tra resistenze e autonomie personali

La dipendenza affettiva ha conseguenze devastanti sulla qualità di vita, conducendo al totale annullamento della persona che ne soffre.

 

Diventa fondamentale, infatti, guidare il paziente verso il cammino della guarigione, permettendogli di riconquistare la propria autonomia e recuperare il controllo sulla propria vita: per poter intraprendere questo percorso è necessario che il dipendente riesca a sviluppare la consapevolezza della propria vulnerabilità, per poi decidere di reagire iniziando ad impegnare le proprie energie nel soddisfacimento dei propri bisogni e valori, nonostante si tratti di una scelta molto difficile per il dipendente affettivo, convinto di dover dedicare del tempo solo alle altre persone per non permettere loro di abbandonarlo. Questo percorso è finalizzato a permettere al dipendente di recuperare la propria autonomia, aiutandolo a sentire di non aver bisogno di altre persone per esistere: man mano che il dipendente impara a soddisfare i propri bisogni aumenta anche la fiducia in se stesso, nonché la consapevolezza di doversi prendere cura di sé, per raggiungere la stessa felicità che appare utopistica in condizioni di dipendenza affettiva. Il dipendente viene guidato a conoscersi realmente ed accettarsi, riconquistando la propria libertà (Serra, 2000).

Uno dei primi passi in questo percorso, finalizzato alla guarigione dalla dipendenza affettiva, si manifesta proprio nell’accettare la solitudine, riconoscendola come un’occasione per riflettere su se stessi, conoscere le proprie risorse e offrirle consapevolmente alle persone importanti; si tratta però di un aspetto che spesso impaurisce il dipendente affettivo, conducendolo all’isolamento e a piccoli episodi di depressione che culminano nella “noia” che il dipendente percepisce nella sua vita quotidiana, ormai priva di qualsiasi tipo di interesse personale.

Ricentrarsi per guarire dalla dipendenza affettiva

Dopo aver accettato la solitudine, è necessario riuscire a ricentrarsi (attribuendo valore adeguato alle proprie idee, emozioni, obiettivi e sensazioni); ricentrarsi vuol dire anche utilizzare il proprio tempo e le proprie energie per fare qualcosa che risulti effettivamente soddisfacente a livello personale, vuol dire riuscire a proporre attività gradevoli, nonché riuscire a dire di no senza avere paura che questo rifiuto implichi necessariamente una perdita. Ricentrarsi, dunque, costringe il dipendente a porsi numerose domande che gli permettano di ascoltare se stesso, comprendere i propri interessi reali e coltivarli, senza continuare a sacrificarli per soddisfare quelli altrui. Se il processo di ricentramento funziona, il dipendente arriva anche ad affermarsi, ossia ad appropriarsi della propria vita, facendosi rispettare dagli altri per ciò che è realmente, senza continuare a sentirsi costretto a soddisfare i desideri degli altri, assicurandosi così la loro vicinanza: l’auto-affermazione permette al dipendente di capire che il proprio giudizio vale quanto quello altrui, gli permette di porre dei limiti e di far rispettare i propri spazi, per cui si tratta anche di un’occasione per capire quali persone siano disposte a continuare a stargli accanto quando esce dalla condizione di “schiavitù” insita nella dipendenza affettiva. L’aspetto cardine che potrebbe condurre a superare effettivamente la dipendenza affettiva è riuscire a sviluppare la propria autostima poiché essa permetterà al dipendente di elaborare delle scelte consapevoli, eliminando la tendenza ad accontentarsi pur di non rimanere da solo, poiché lo sviluppo dell’autostima permette di cambiare le priorità: comprendendo il proprio valore, il dipendente non avrà più bisogno di fondersi con un’altra persona, ma inizierà la ricerca di una relazione in cui entrambi i membri riescano ad esprimere a pieno se stessi. L’autostima è uno dei presupposti per il raggiungimento della felicità e, una volta sviluppata, permette al dipendente di capire di non aver bisogno dell’altro per essere felice, ma solo delle sue risorse interiori (Passerone, 2001).

Il processo di guarigione dalla dipendenza affettiva, dunque, implica un cambiamento del paziente che deve riuscire a gestire le emozioni tipiche che lo pervadono (senso di colpa, vergogna, paura dell’abbandono) per sostituirle con nuove risorse interiori (fiducia e conoscenza di sé, amor proprio). Generalmente il dipendente affettivo prova vergogna per i suoi comportamenti, arrivando a sentirsi anche profondamente in colpa, ritenendo di essere causa di qualsiasi problematica propria e del partner: il senso di colpa è fra le principali caratteristiche della dipendenza affettiva e convince il dipendente di aver bisogno di asservirsi sempre di più al partner per espiare le sue colpe (spesso inesistenti). Senso di colpa e vergogna, dunque, camminano di pari passo: la vergogna porta il soggetto a svalutarsi completamente, arrivando a provare disprezzo e rifiuto per se stesso, aspetti che tendono a far aumentare parallelamente anche il senso di colpa. Il dipendente segue il partner come un guru, che spesso inizia a pretendere sempre di più dal dipendente e a gratificarlo sempre meno, conducendolo a provare vergogna anche quando non dovrebbe (De Totrou, 2002). Quest’insieme di sensazioni negative conduce ad un’estrema paura dell’abbandono.

Sviluppare la fiducia in se stessi per superare la dipendenza affettiva

Uno dei primi passi per giungere a liberarsi dalla dipendenza affettiva è riuscire a sviluppare fiducia in se stessi e nelle proprie capacità; il dipendente tende ad accumulare delusioni per la sua totale dedizione al partner e, non trovando altri soggetti disposti a ricambiare le sue aspettative, decide di vivere una vita senza fiducia, né verso se stesso, né verso gli altri, né verso il mondo. La mancanza di fiducia però conduce alla svalutazione di sé: per riuscire a riconquistarla, il dipendente deve accingersi in un percorso complesso che lo conduca a sentirsi libero di modificare i suoi pareri, di dire di no, di poter sbagliare. Il dipendente affettivo, infatti, nonostante conosca perfettamente la persona oggetto della sua dipendenza, ha una scarsissima conoscenza di sé, per cui sarà ancora più difficile riuscire a riaffermarsi poiché spesso guardarsi dentro equivale ad intraprendere una conoscenza con una persona nuova, di cui non si sa nulla. Il dipendente, dunque, per non rivestire più questo ruolo deve conoscersi e accettarsi, amarsi e donarsi consapevolmente e adeguatamente, dedicarsi anche a se stesso (servendosi anche di un pizzico di egoismo funzionale) per riconoscersi come importante e non preoccuparsi eccessivamente del parere altrui.

La fiducia in se stessi permette anche lo sviluppo dell’autonomia, meta particolarmente lontana per il dipendente affettivo che deve riuscire a valorizzarsi, iniziando ad agire in prima persona senza continuare ad aspettare l’approvazione degli altri; l’autonomia implica la capacità di scegliere, valutando le proprie priorità e, conseguentemente permette al dipendente affettivo di “iniziare a vivere una vita di cui è il protagonista indiscusso”, scoprendo e coltivando le proprie passioni e i propri talenti, fino ad allora, nascosti. Per il dipendente affettivo, lo sviluppo dell’autonomia, implica anche il rinunciare ad una posizione fin troppo “comoda”: il dipendente, infatti, è abituato a non pensare, non prendere decisioni e non assumersi responsabilità, lasciandosi trasportare dalle scelte altrui, ma quando riuscirà a raggiungere un traguardo da solo, quando sarà davvero autonomo, proverà una soddisfazione tale da chiedersi cosa l’abbia spinto a rimanere nell’ombra delle altre persone fino a quel momento (Marchetti, 2004).

La difficoltà della separazione nella dipendenza affettiva

Il dipendente, inoltre, manifesta evidenti difficoltà nel riuscire a superare la separazione da persone importanti: la perdita infatti per il dipendente ha un significato particolare e sembra che quest’ultimo riesca ad accettare con più facilità il dolore del lutto vero e proprio, rispetto a quello della rottura di un legame, poiché in questo caso c’è il rischio di incontrare nuovamente il soggetto del proprio malessere, cadendo ancora una volta nel baratro della sofferenza e favorendo il rimuginare sui propri errori, spesso inesistenti; se il dipendente riesce a percorrere adeguatamente i vari passi per giungere all’auto-affermazione, riuscirà anche ad affrontare le perdite con più tranquillità, rendendosi conto di dover guardare al presente e ricostruirlo, piuttosto che continuare a rimanere bloccato in un passato che continua inevitabilmente ad arrecargli sofferenza, poiché contraddistinto da pensieri disfattisti tipici del dipendente affettivo (es. non avere altre scelte, sprecare le proprie opportunità): il dipendente, dunque, dovrebbe essere guidato a capire che ognuno è artefice del proprio destino, che sia sempre presente una scelta diversa da quella effettuata, che sia necessario porsi al primo posto ed imparare anche a dire “no”, quando risulta necessario per impedire alle altre persone di approfittare della propria disponibilità, spingendo anche allo sviluppo dell’intelligenza emotiva, riconosciuta come la capacità di non lasciarsi sopraffare dalle proprie emozioni, riuscendo a gestirle e ad usarle in maniera funzionale (Rizzoli, 1996).

Il cammino verso la guarigione dalla dipendenza affettiva, dunque, risulta lungo e tortuoso, poiché spesso il dipendente deve riuscire a superare le sue resistenze (ricordiamo che una delle sue paure principali è proprio il cambiamento) e deve avere la pazienza di aspettare, senza pretendere utopisticamente di poter cambiare dall’oggi al domani.

 

Alimentazione e Covid-19: gli effetti del lockdown sull’alimentazione emotiva e sul binge eating

Diverse persone riferiscono di aver mangiato di più durante il lockdown e di aver avuto abitudini alimentari complessivamente più malsane.

 

Il lockdown e i suoi effetti

Il lockdown, imposto per contenere la rapida diffusione del Covid-19, ha previsto il blocco della maggior parte delle attività (es. scuole, università, palestre, ristoranti, uffici, attività commerciali) e l’isolamento sociale, impedendo le uscite al di fuori delle proprie abitazioni. L’incertezza per il futuro venutasi a creare, assieme alle limitazioni imposte durante la Fase 1 e la Fase 2 del lockdown, hanno provocato una serie di problemi psicologici. Su 18.000 risposte di un sondaggio sulla popolazione italiana, il 37% dei partecipanti ha manifestato sintomi di stress post-traumatico e circa il 20% ha riscontrato depressione, ansia o un elevato stress percepito (Rossi et al., 2020).

Le emozioni negative provate durante il periodo di chiusura hanno avuto impatto anche sul comportamento alimentare delle persone. Molte riferiscono di aver mangiato di più durante il lockdown e di aver avuto abitudini alimentari complessivamente più malsane, come il consumo di comfort food (alimento a cui si attribuisce un valore consolatorio, nostalgico e/o sentimentale), attribuendo questi cambiamenti nell’alimentazione ad una maggiore ansia esperita (Robinson et al., 2021; Scarmozzino & Visioli, 2020).

Il legame tra stress ed alimentazione

La letteratura ci mostra che lo stress e le emozioni negative come ansia e depressione predicono abitudini alimentari disfunzionali come il binge eating e l’alimentazione emotiva (Talbot et al., 2013; Rosenbaum & White, 2015). Per binge eating si intende l’ingestione di una grande quantità di cibo in un periodo di tempo limitato, associato ad una sensazione di perdita di controllo durante l’episodio (American Psychiatric Association, 2013). L’alimentazione emotiva, invece, è il mangiare non in risposta a stimoli di fame e sazietà, ma in risposta a stimoli emotivi come ansia, rabbia e paura (Van Strien et al., 1986).

La relazione tra alimentazione disfunzionale ed emozioni negative è mediata da due fattori in particolare: peso corporeo e livelli di alessitimia, ovvero la difficoltà nel percepire ed interpretare correttamente le proprie sensazioni emotive, distinguendole dalle sensazioni fisiche (Sifneos, 1973). Entrambe queste dimensioni possono quindi contribuire all’aumento di abitudini alimentari disfunzionali (Geliebter & Aversa, 2003). In particolare, l’alessitimia, riducendo la capacità di identificare gli stati emotivi e di distinguerli dai segnali interni di fame e sazietà, porta gli individui a regolare le proprie emozioni attraverso l’assunzione di cibo (Pink et al., 2019; Tan & Chow, 2014).

Effetti del lockdown sull’alimentazione

Uno studio di Cecchetto e colleghi (2021) ha indagato l’influenza dalle emozioni negative suscitate durante il lockdown (ansia, depressione e stress) e delle caratteristiche sociali che hanno caratterizzato la qualità della vita durante il lockdown (status socio-economico, isolamento sociale e qualità delle relazioni e della residenza domiciliare) sul comportamento alimentare degli italiani durante la Fase 1 e la Fase 2 del lockdown.

Per meglio inquadrare l’influenza di questi aspetti, lo studio ha incluso le caratteristiche personali degli individui come l’indice di massa corporea e il livello di alessitimia per capire come le caratteristiche personali interagiscono con emozioni e limitazioni del lockdown.

I risultati hanno dimostrato che le emozioni negative e la scarsa qualità della vita percepita durante la Fase 1 e la Fase 2 del lockdown hanno portato ad un consistente aumento di abitudini alimentari disfunzionali come l’alimentazione emotiva e il binge eating, rispetto alla prevalenza in Italia nella popolazione normale.

Nello specifico, livelli più alti di ansia e depressione e più bassi livelli di qualità della vita percepita hanno predetto maggiori livelli di alimentazione emotiva, mentre, maggiori livelli di stress hanno predetto maggiori episodi di abbuffate.

In questo studio, la qualità della vita di un individuo è stata valutata tramite un indice della quantità e della qualità dello spazio personale in casa, del reddito familiare e della qualità e quantità di relazioni. Quello che gli autori hanno riscontrato è che coloro che riferivano una qualità di vita inferiore sono stati più vulnerabili alle conseguenze negative dell’ansia, portandoli a maggiori rischi di sviluppare abitudini alimentari disfunzionali.

Oltre che su coloro con livelli di qualità di vita inferiori, il lockdown ha creato maggiori conseguenze in termini di alimentazione disfunzionale sugli individui con punteggi di indice di massa corporea e alessitimia più elevati. In particolare, soggetti con più alti livelli di alessitimia hanno mostrato un aumento di alimentazione emotiva, mentre punteggi di BMI più elevati erano associati sia a un aumento dell’alimentazione emotiva che al binge eating.

Un altro interessante risultato risiede nella differenza riscontrata tra la Fase 1 e la Fase 2: rispetto alla Fase 1, nella Fase 2 i punteggi dell’alimentazione emotiva sono diminuiti significativamente. Questa differenza dei punteggi potrebbe essere dovuta anche alla relazione tra alimentazione emotiva e la qualità delle relazioni percepita durante il periodo di chiusura. Gli individui che hanno riportato una qualità delle relazioni inferiore hanno presentato un’alimentazione emotiva più elevata durante la fase 1 rispetto alla fase 2; è probabile per cui che, durante la Fase 1, essendoci state maggiori restrizioni dal punto di vista sociale ed avendo percepito più negativamente le relazioni interpersonali, le emozioni negative come ansia, depressione e stress siano aumentate, influenzando quindi l’alimentazione emotiva.

Concludendo, i risultati suggeriscono che le emozioni negative sperimentate a causa del lockdown hanno aumentato i comportamenti alimentari disfunzionali, portando ad un aumento dell’alimentazione emotiva e del binge eating. Saranno necessari ulteriori studi per far luce sugli effetti a lungo termine del lockdown sul comportamento alimentare delle persone.

 

Argonauti e Xanax – Recensione dello spettacolo teatrale

Argonauti e Xanax nasce dal progetto svolto in due classi di liceo dove, partendo da immagini e situazioni riportate come fonti di ansia per i ragazzi, si è giunti alla composizione di una rappresentazione teatrale.

 

Lo spettacolo Argonauti e Xanax, scritto e diretto da Daniele Vagnozzi e portato in scena al Teatro Binario 7 dalla Compagnia Caterpillar dopo una preparazione svoltasi in residenza artistica al Filodrammatici, nasce da un progetto sociale che ha coinvolto due classi del Liceo Statale Carlo Porta di Monza in una successione di incontri con le psicologhe dell’Associazione “Jonas Monza Brianza”.

Il progetto, denominato Argonauti e Xanax – L’età dell’ansia, ha ricevuto il patrocinio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia insieme al sostegno di “Fondazione della Comunità di Monza e Brianza”, estendendosi anche all’informazione social attraverso interviste a psicologhe e psicologi sul tema dell’ansia, realizzate dal canale della Compagnia. Gli incontri a scuola hanno tracciato un percorso dalle immagini alle parole dell’emozione, iniziando dall’analisi di rappresentazioni visive – una ragazza da sola sommersa dai libri, uno stadio deserto, una classe vuota, un uomo con la maschera e molte altre – tra le quali ogni studente sceglieva quella maggiormente in grado di provocargli ansia, motivandone la ragione; in seguito è stato chiesto quali fossero le azioni con cui ciascuno di loro riusciva a gestire i propri stati di agitazione, e le risposte sono diventate una composizione drammaturgica, un testo registrato dalle voci degli attori di Argonauti e Xanax, ma costruito riportando integralmente le parole dei ragazzi.

A coronamento di questo viaggio compiuto dai giovani Argonauti alla scoperta della propria interiorità, lo spettacolo teatrale. Un gruppo di amici appena diplomati è uno spaccato di caratteri adolescenziali, insicurezze, sogni, desiderio di libertà. Marco è il letterato, l’aspirante scrittore giramondo, ma trattiene a stento una rabbiosa malinconia per essere ormai il personaggio che supera la persona, simbolo per gli amici di una forza estroversa che si riprende dopo ogni difficoltà raccontando storie e usandole per sostenersi, ingannarsi o intrattenere un uditorio inconsapevole della sua sofferenza. Il suo viaggio della vita è già deciso, sarà il Perù, l’inizio di una conquista umana che a vent’anni sa di liberazione dai vincoli aridi e costrittivi della piccola realtà che l’ha tenuto ingabbiato in tutti questi anni. Il viaggio della vita però, sarà un precipitoso ritorno a casa per chiudersi, in casa, stretto fra le maglie dolorose degli attacchi di panico, la paura degli altri, della luce, di un mondo troppo grande, aperto, indeterminato. Gli amici vogliono recuperarlo al legame di un tempo, lo cercano mostrando ciascuno il proprio modo di avvicinarsi, di intendere la sofferenza.

Non è semplice comprendere cosa stia accadendo a Marco, cogliere l’incomunicabilità di quel malessere capace di attanagliare proprio chi, servendosi delle parole, attirava lo sguardo affascinato delle persone. Ora Marco non vuole parlare, non vuole dire. È soltanto di Sara che lentamente si fida e accorcia la distanza, Sara che gli offre il suo Xanax come rimedio al male dell’ansia e ci aggiunge un carico di alcol a cui entrambi affidano la missione di stordirli, di farli rimanere sospesi tra l’oblio e la leggerezza. Non è una buona idea, questa idea da adolescenti disperati, e rischiare la vita porta se non altro la consapevolezza di dover tornare a soluzioni più ragionevoli. Ci sono gli amici, ci sono ancora gli amici della maturità, per ritrovarsi avendo sfatato il tabù del sentirsi deboli, ché anche in quel caso ci si può aiutare, anzi, soprattutto in quel caso.

Argonauti e Xanax è un testo che scorre agile, recitato da attori di talento e con una regia efficace, asciutta. Mette insieme elementi di una narrativa sull’adolescenza che racchiude la vitalità, l’impulsività e allo stesso tempo la natura contraddittoria di molti comportamenti che la caratterizzano. La ricerca di una frontiera più lontana, di un respiro più ampio che soffi verso la realizzazione delle proprie ambizioni non protegge dalle incognite dei conflitti emotivi, non offre tutele adeguate davanti alle possibili delusioni, al possibile fallimento. È in quegli interstizi che si insinua l’ansia col volto cangiante che l’accompagna, a minare le certezze e a rendere spaventose le speranze. Se ne può parlare però, si può fare parola di una compagna di viaggio che altrimenti diventa un mostro; parola e relazione, relazione con gli altri, con chi riesce a ispirare fiducia normalizzando ciò che altrimenti rimane sproporzionato e addirittura indicibile. Servono anche a questo le buone amicizie, serve anche a questo una scuola non giudicante, come quella che dà ai ragazzi la possibilità di svelare le proprie paure. E la psicologia, scienza giovane per eccellenza. Può servire anche lo Xanax? All’occorrenza sì, rigorosamente con acqua.

 

Le facce di Narciso

Il Disturbo Narcisistico di Personalità, si presenta con numerosi “volti” figli del medesimo nucleo psicopatologico, che rendono l’idea di un sistema molto più complesso di quanto appare.

 

E più profondo ancora è il significato della storia di Narciso:
non riuscendo ad afferrar l’immagine soave,
tormentosa che scorgeva nella fonte, si tuffò e morì annegato.
Ma quella medesima immagine noi stessi la scorgiamo in ogni fiume e in ogni oceano.
È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita: e questa è la chiave di tutto. (Herman Melville, Moby Dick o la balena).

Quante volte abbiamo sentito dire: “Sei un Narcisista!” e quanto spesso l’abbiamo detto noi? Questo termine, al giorno d’oggi cosi inflazionato, talvolta utilizzato con un’accezione negativa come scusa o come spiegazione più o meno logica a comportamenti subiti o manifestati nei confronti di qualcuno, racchiude in sé il significato stereotipato di colui che prova un amore smisurato per la propria persona al punto da non riuscire a spostare l’attenzione da sé e rivolgerla altrove.

In una cultura come quella in cui viviamo, dove l’esibizionismo e il solenne riconoscimento dei propri meriti sono sempre più rinforzati dal contesto, non è facile identificare la linea di demarcazione fra un tratto narcisistico e un tentativo di conformismo culturale.

Innanzitutto prima di addentrarci nel concetto vero e proprio di disturbo narcisistico di personalità, è necessario premettere che tutti noi possediamo dei tratti narcisistici ed è grazie ad essi se siamo in grado di perseguire i nostri obiettivi, di gioire dei successi e riuscire ad avere un certo grado di stima di sé senza presunzione, trovando un buon equilibrio tra il bisogno di riconoscimento e la capacità di poterne fare a meno.

Inoltre è necessario sottolineare il fatto che non esiste una persona “Narcisista”, ma vi è una struttura di personalità narcisistica in un individuo che possiede una serie di altre strutture, solo che in certe situazioni questa appare maggiormente dominante.

Per quanto concerne l’essenza del disturbo, possiamo dire che i suoi connotati appaiono spesso mitizzati dal senso comune che tende ad etichettare il Narcisismo come una caratteristica appartenente ad un freddo manipolatore, incapace di amare, che sfrutta l’altro solo per il raggiungimento dei propri fini. Tutto ciò non è sbagliato, tuttavia, le caratteristiche del disturbo sono molto più ampie e non catalogabili in un’unica spiegazione.

Il Disturbo Narcisistico di Personalità, si presenta con numerosi “volti” figli del medesimo nucleo psicopatologico, che rendono l’idea di un sistema molto più complesso di quanto appare.

Sebbene il sistema nosografico descrittivo (DSM-5) ne risulti privo, nel tempo numerosi autori hanno cercato di definirne i vari sottotipi al fine di ottenere una classificazione in grado di esemplificare la pratica clinica.

Sono state rintracciate tre sottocategorie di narcisismo dai confini spesso labili:

  • Sottotipo Inconsapevole o Grandioso (OVERT): qui ci troviamo di fronte a persone indifferenti ai bisogni altrui che utilizzano l’altro in modo utilitaristico anche all’interno delle relazioni di natura affettiva, l’altro serve solo per riflettere se stessi e la propria grandiosità. Hanno bisogno di costante e continua ammirazione e gratificazione, sono privi di rimorsi di coscienza e appaiono spesso come persone carismatiche per le quali provare rispetto e adorazione.
  • Sottotipo vulnerabile o ipervigile (COVERT): all’apparenza un tipo sensibile, fragile ed insicuro, una persona ansiosa spesso in stato di allerta, teme il rifiuto degli altri al punto da essere ipersensibile al giudizio e alla critica. Si sente solo, incompreso e ingiustamente malvoluto, dilaniato da un profondo senso di colpa. Tuttavia, ciò che alberga dietro questa maschera di marcata remissività è un’immagine di sè grandiosa e ipertrofica che si alterna a stati depressivi e d’ansia.

Ciò che accomuna ambedue i casi è una profonda ferita nella vulnerabilità e nell’autostima, che rappresenta il carburante che alimenta il senso della competizione seppur in una situazione di inadeguatezza e la profonda fatica ad ammettere i propri fallimenti.

  • Sottotipo ad alto funzionamento: questa rappresenta l’ultima variante che utilizza il narcisismo come lo strumento principale per raggiungere il successo, concentrandosi sull’obiettivo e quindi sul risultato finale. Siamo di fronte a persone estremamente estroverse, energiche, convincenti ed estremamente abili negli scambi interpersonali, pur conservando un’immagine di sé ipertrofica e di estrema importanza.

In tutti e tre i casi la persona possiede una profonda preoccupazione rispetto all’immagine che gli altri hanno della propria persona.

Detto ciò è importante sottolineare che i vari sottotipi rappresentano un’esclusiva bussola di orientamento all’interno della pratica clinica, non avendo la rigida pretesa di essere degli schemi precostituiti del funzionamento individuale.

 

“Ma da chi ho appreso il perfezionsimo?” Un’ipotesi di trasmissione intergenerazionale dei tratti perfezionistici

Alcuni autori hanno ipotizzato che le radici del perfezionismo siano ancorate nell’età infantile (Cook & Kearney, 2014; Karayağız et al., 2020) ed evidenziano l’influenza delle figure genitoriali.

 

A tutti probabilmente sarà capitato di dire/pensare almeno una volta nella nostra vita “ Sono/è un perfezionista!”.

In psicologia, il perfezionista è colui che esige da sé stesso e dagli altri performance di altissima qualità e standard generalmente molto alti, spesso è ipercritico e costantemente in ansia nel tentativo di svolgere le proprie mansioni sempre nel migliore dei modi (Bastiani et al., 1995; Hamacheck., 1978).

Le dimensioni del perfezionismo

Una delle concettualizzazioni multidimensionali del perfezionismo più popolari e comunemente usate consiste in un modello tripartito che include sia dimensioni intrapersonali che interpersonali: perfezionismo orientato al sé (SOP; esigere la perfezione da sé), perfezionismo socialmente prescritto (SPP; percepire gli altri come esigenti la perfezione da sé) e perfezionismo orientato agli altri (OOP; esigere la perfezione dagli altri) (Hewitt e Flett, 1991).

Spesso, queste caratteristiche personologiche vengono associate allo sviluppo e al mantenimento di diversi disturbi psicologici, sia per quanto riguarda gli adulti che i bambini (Carmo et al., 2021).

Alcuni autori hanno ipotizzato che le radici di questo costrutto siano ancorate nell’età infantile (Cook & Kearney, 2014; Karayağız et al., 2020), e, modelli che tentano di spiegare lo sviluppo del perfezionismo, evidenziano l’influenza delle figure genitoriali, nello sviluppo di tratti di personalità. Proprio sulla base di queste teorie, è stata proposta un’ipotesi di trasmissione genitore-figlio dei tratti perfezionistici (Carmo et al., 2021).

Come si sviluppa il perfezionismo

Tra i modelli teorici più riconosciuti c’è il Modello delle Aspettative Sociali e il Modello di Apprendimento Sociale (Flett et al., 2002). Per il primo modello, i bambini che percepiscono aspettative molto alte sulle loro performance da parte dei genitori, e che vengono criticati quando queste aspettative non vengono soddisfatte, nel tentativo di compiacerli e ricevere amore sviluppano del perfezionismo, facendo proprie l’autovalutazione negativa e le aspettative stesse. Il secondo modello, invece, pone l’enfasi sull’imitazione, concettualizzando il perfezionismo come tratto che si sviluppa osservando, e per l’appunto imitando, i comportamenti perfezionistici dei genitori.

Nella trasmissione dei tratti perfezionisti da genitore a figlio, due fattori sembrano inoltre assumere grande valenza: il sesso dei genitori (Flett et al., 2002) e gli stili genitoriali da loro messi in atto (Walton et al., 2020).

Per quanto riguarda il sesso, esistono due ipotesi: l’ipotesi del caregiver dello stesso sesso ipotizza che i bambini tendano per l’appunto a far proprie le caratteristiche del genitore dello stesso sesso, mentre l’ipotesi del caregiver primario prevede che le madri siano maggiormente responsabili dello sviluppo del perfezionismo a causa del più lungo periodo di tempo che trascorrono con i loro figli.

Per quanto riguarda gli stili genitoriali, Baumrind (1966) teorizza uno stile autoritario, uno permissivo e uno autorevole. La genitorialità autoritaria prevede genitori tendenzialmente rigidi, che nutrono aspettative eccessivamente alte su come i loro figli dovrebbero essere, arrivando anche a modellare, controllare e valutare i comportamenti e gli atteggiamenti dei figli. Lo stile permissivo prevede genitori poco esigenti ed altamente accettanti nei confronti dei figli, tendono ad esserci poca o nessuna punizione o regole esplicite, rendendo i figli liberi da vincoli esterni. I genitori autorevoli, invece, sono capaci di stabilire delle regole e guidare i loro figli quando necessario, sono affettuosi e reattivi ai loro bisogni, raggiungendo quindi un equilibrio tra l’affetto e la definizione delle regole. Lo stile maggiormente associato allo sviluppo di tratti perfezionisti è quello autoritario (Walton et al., 2020; Domocus & Damian, 2018; Damian et al., 2013).

La trasmissione intergenerazionale del perfezionismo

Uno studio molto recente (Carmo et al., 2021), nel tentativo di studiare il meccanismo di trasmissione intergenerazionale del perfezionismo, ha analizzato l’influenza del perfezionismo dei genitori e degli stili genitoriali percepiti sui livelli di perfezionismo riportati dai figli, indagando inoltre se il sesso dei genitori influenzasse questo processo di trasmissione.

I risultati ottenuti dallo studio sembrano supportare, almeno in parte, il modello dell’apprendimento sociale, secondo cui i bambini possono imitare i comportamenti perfezionistici dei genitori. In particolare, le madri che mostrano alti livelli di perfezionismo per sé stesse (SOP – Self-oriented perfectionism) e che percepiscono gli altri come persone aventi alte aspettative e standard eccessivamente alti nei loro confronti (SPP – Social prescribed perfectionism), hanno maggiori probabilità di avere figlie altamente esigenti con loro stesse, che percepiscono gli altri come eccessivamente esigenti e con aspettative irragionevoli.

É stata inoltre osservata una significativa associazione moderata tra alto livello di perfezionismo per sé stessi (SOP – Self-oriented perfectionism) dei padri e SPP (SPP – Social prescribed perfectionism) dei figli, suggerendo che quando i padri stabiliscono standard eccessivamente elevati e irrealistici per sé stessi, i figli tendono a percepire che anche le altre figure significative hanno aspettative rigide ed eccessivamente elevate per sé stesse.

Per ciò che concerne la relazione tra stili genitoriali e tratti di perfezionismo nei figli, lo studio dimostra che uno stile genitoriale autoritario è legato ad entrambe le dimensioni del perfezionismo (SOP e SPP) nei bambini, indipendentemente dal sesso. Questo risultato è in linea con studi che evidenziano lo sviluppo di forte autocritica nei bambini con genitori autoritari e criticanti (Kawamura et al., 2002). La medesima associazione viene riportata per gli adolescenti (Damian et al., 2013) e per l’età adulta (Zikopoulou et al., 2021). Interessante è il fatto che, indipendentemente dal sesso del bambino, gli stili genitoriali materni di tipo autoritario mostrano una correlazione maggiore rispetto agli stili genitoriali autoritari paterni. Questi risultati sono coerenti con la letteratura, in cui la madre appare come la figura predominante, anche se la durezza sia della madre che del padre è associata al perfezionismo delle figlie. (Frost et al., 1991)

Nel complesso, i risultati dello studio suggeriscono che, per alcune dimensioni del perfezionismo, sembra esistere un meccanismo di trasmissione da madre a figlia e uno da padre a figlio, con delle implicazioni in riferimento allo stile genitoriale assunto. Nonostante ciò, bisogna sottolineare e ricordare che lo sviluppo del perfezionismo coinvolge molti altri fattori, tra cui l’ambiente socioculturale, le interazioni con i pari e con altre persone (ad esempio, gli insegnanti, gli allenatori), nonché i fattori inerenti al bambino (ad esempio, il temperamento).

 

Dal laboratorio al territorio – Il caso del trattamento dell’OMS per le famiglie di bambini con autismo

Il Caregiver Skills Training è stato sviluppato dall’OMS per rispondere al bisogno delle famiglie di bambini con autismo di accedere a un intervento gratuito, evidence-based e che necessiti di poche risorse.

 

‘Treatment gap’ per l’autismo – un problema generalizzato di accesso alle cure

In Europa, un bambino su 10 affetto da autismo non ha accesso a trattamenti basati su evidenze scientifiche. Esiste infatti un esteso problema di accesso alle cure – il cosiddetto treatment gap – non solo nei paesi a basso e medio reddito, in cui la maggior parte dei bambini non accede ai servizi (Reichow et al., 2013), ma anche in quelli ad alto reddito (Salomone et al., 2016; Smith et al., 2020). In Italia, una recente analisi dell’Istituto Superiore della Sanità riporta che il 50% dei servizi pubblici di Neuropsichiatria Infantile non offre alcun tipo di trattamento specifico per l’autismo (Borgi et al., 2019) e solamente un terzo dei genitori ha accesso a training specifici per apprendere abilità utili a sviluppare le competenze dei bambini (Salomone et al., 2016).

Dal laboratorio al territorio – Cosa ci dicono i risultati sperimentali sul mondo reale

Per risolvere il treatment gap, una soluzione è lo sviluppo di nuovi trattamenti che siano efficaci ma allo stesso tempo richiedano poche risorse e possano essere accessibili a tutti. Esistono ormai molte prove, derivate da ricerche sperimentali in setting universitari, che i genitori di bambini con autismo possano apprendere con percorsi di ‘caregiver training’ quelle competenze utili a favorire lo sviluppo dei loro bambini (Oono et al., 2013). Tuttavia, un problema fondamentale nello sviluppo di trattamenti psicologici è capire quanto i risultati della ricerca sperimentale, solitamente condotta da clinici esperti e specializzati in setting di laboratorio universitari altamente controllati, siano poi effettivamente replicabili in setting di comunità. In questi contesti le condizioni sono molto diverse: l’intervento è erogato da personale sanitario non necessariamente specializzato, la platea di pazienti è molto eterogenea perché non selezionata sulla base di specifici criteri di inclusione o esclusione ed è possibile solo un ridotto controllo sull’effettiva applicazione concreta del trattamento. In altre parole: quanto i risultati ottenuti in laboratorio riflettono quelli ottenuti nel mondo reale? Una recente metanalisi (uno studio che valuta i risultati di numerose ricerche sperimentali al fine di ottenere conclusioni più precise) ha dimostrato che quando gli stessi trattamenti psicologici per bambini con autismo che hanno ottenuto risultati ampiamente positivi in setting di laboratorio – cioè alta efficacia sperimentale, o efficacy – sono implementati sul territorio, questi ottengono risultati significativamente inferiori – cioè bassa efficacia sul campo, o effectiveness – (Nahmias et al., 2019; Reichow, 2012). L’efficacia di questi interventi quindi si riduce sostanzialmente quando sono implementati nel contesto reale.

Come si può spiegare questo dato? I risultati ottenuti in setting sterili e altamente controllati spesso non tengono in conto dell’effettiva fattibilità di erogazione dell’intervento (cioè, barriere e difficoltà per l’implementazione fedele del programma, barriere alla partecipazione dei partecipanti alle sessioni o alla ‘pratica a casa’) e l’accettabilità per chi lo eroga e chi lo riceve (cioè, la comprensibilità, rilevanza, o allineamento con i valori personali dei contenuti e metodologie proposte). Ciò può avere in ultimo un effetto negativo sull’efficacia sul campo dei trattamenti proposti. Si comprende quindi come, per poter davvero ‘chiudere’ il gap nell’accesso alle cure, sia necessario non solo sviluppare nuovi trattamenti, ma anche valutare la loro efficacia clinica in contesti di comunità.

Il Caregiver Skills Training – Lo studio pilota dell’OMS in Italia

Un esempio positivo in tal senso è un recente studio condotto dall’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Georgia State University e Newcastle University, che ha valutato l’efficacia sul campo del Caregiver Skills Training (CST), un nuovo modello di intervento open-access per caregiver di bambini con disturbi del neurosviluppo, incluso l’autismo. Il CST è stato sviluppato dall’OMS per rispondere al bisogno delle famiglie di accedere a un intervento gratuito, evidence-based e che necessiti di poche risorse (Salomone et al., 2019). L’obiettivo principale del CST è la strutturazione di attività quotidiane in routine condivise tra bambino e caregiver al fine di fornire regolari esperienze di attenzione condivisa che lo aiutino a sviluppare nuove abilità, quali la comunicazione verbale e non-verbale, la condivisione di interessi e la regolazione dei comportamenti problema. Questo training, che consiste di 9 sessioni di gruppo e 3 visite domiciliari, fornisce ai caregiver le strategie necessarie per strutturare le attività del bambino, seguire la sua guida e usare l’affetto positivo per stabilire e mantenere routine sia di gioco che con le attività casalinghe quotidiane.

Per valutare se questo trattamento sia veramente efficace anche nei contesti in cui poi dovrebbe essere erogato alle famiglie, cioè il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), il CST è stato prima adattato al contesto italiano ed è poi stato testato in uno studio pilota diretto dalla dr.ssa Erica Salomone dell’Università di Milano-Bicocca, all’interno del field-testing a livello mondiale condotto dall’OMS. L’adattamento del CST, con lo scopo di mantenere un’alta accettabilità del trattamento, è stato condotto da un team di ricercatori e psicologi secondo le linee guida dell’OMS (Salomone et al., 2021a). Infine, l’adattamento italiano è stato valutato e affinato da un gruppo di operatori del settore (psicologi, terapeuti del linguaggio, neuropsichiatri infantili, terapeuti della psicomotricità ed educatori). Successivamente è stata testata l’implementazione del CST nei servizi di Neuropsichiatria Infantile del SSN in uno studio pilota randomizzato controllato (RCT) sull’efficacia dell’implementazione – che coniuga la validità empirica degli studi di laboratorio, con la variabilità e complessità dell’implementazione nel SSN – il primo di questo genere realizzato in un contesto di comunità in Italia.

Lo studio ha mostrato alti livelli di fattibilità di erogazione da parte di professionisti sanitari nel contesto pubblico ed eccellente accettabilità per i caregiver. Dal punto di vista dell’efficacia sul campo, lo studio ha indicato effetti favorevoli, a 3 mesi dalla conclusione dell’intervento, sulla qualità dell’interazione genitore-bambino, sulla comunicazione non verbale del bambino, sulle competenze genitoriali a supporto dell’interazione, nonché sull’autoefficacia e lo stress genitoriali (Salomone et al., 2021a; Salomone et al., 2021b).

Uno sguardo al futuro – Tra implementazione in comunità e pandemia

In conclusione, il CST sembra essere un programma efficace, fattibile e accettabile per caregiver di bambini affetti da disturbi del neurosviluppo, tra cui l’autismo. Lo studio pilota condotto in Italia non solo ha dimostrato la sua utilità e convenienza, grazie alla bassa quantità di risorse richieste, ma anche la sua grande adattabilità. In questa direzione, un ulteriore studio è in corso al fine di valutare l’efficacia, fattibilità ed accettabilità di implementazione tramite erogazione da remoto (cioé, videoconferenze per le sessioni di gruppo e analisi di videoregistrazioni dell’interazione caregiver-bambino per le visite a casa), in accordo alle restrizioni vigenti a causa della pandemia da Covid-19.

 

Lo stress da pandemia può influenzare il benessere di mamma e bambino, agendo a livello di DNA

Dai dati preliminari di ConfiNATI (progetto MOM-COPE) di Fondazione Mondino IRCCS di Pavia, le madri hanno un rischio più elevato di ansia e depressione post parto e gli effetti dello stress materno possono finire “sottopelle”, modificando il funzionamento del DNA del piccolo e alterandone lo sviluppo.

Comunicato Stampa

 

PAVIA, 30 luglio 2021 – Si intitola ConfiNATI (studio scientifico MOM-COPE), l’innovativo progetto di ricerca che Fondazione Mondino IRCCS, l’Istituto neurologico nazionale con sede a Pavia, ha avviato da aprile 2020 con l’obiettivo di indagare i potenziali rischi per la salute materno-infantile dovuti al contesto pandemico ed evidenziare i meccanismi psicobiologici (comportamentali ed epigenetici) che legano lo stress vissuto in gravidanza con il benessere di madri e bambini nei primi dodici mesi dopo il parto.

Il progetto, finanziato dal Ministero della Salute e con il contributo di Fondazione Roche per la Ricerca Indipendente, è coordinato dal dottor Livio Provenzi, psicologo, ricercatore e psicoterapeuta e coinvolge 50 collaboratori e dieci neonatologie nel Nord Italia, geolocalizzate in città fortemente colpite dalla pandemia, tra cui Milano, Brescia, Pavia, Piacenza e Lodi.

A più di un anno dall’inizio del monitoraggio, dai dati preliminari in un campione di più di 300 donne emerge che valori più elevati di stress legato alla pandemia si associano a un più alto rischio di sviluppare sintomatologia depressiva e ansiosa dopo il parto. In più, i maggiori livelli di ansia osservati in queste donne sembrano ridurre il senso di legame e vicinanza verso il proprio bambino e aumentano lo stress legato al ruolo genitoriale.

ConfiNATI: come lo stress influenza il neonato

Tuttavia, lo stress da pandemia non incide solo sul benessere materno, ma anche sul primo sviluppo dei piccoli: è stato riscontrato infatti, che gli effetti dello stress materno possono finire “sottopelle” e avere un legame indiretto sullo sviluppo fetale e sul benessere futuro del bambino. Nei bambini nati durante la pandemia, infatti, l’esposizione allo stress potrebbe aver influenzato lo sviluppo delle capacità di essere calmati, di prendere sonno, o di prestare attenzione all’ambiente circostante nei primi mesi di vita.

Si tratta di variazioni che non sembrano superare la soglia di preoccupazione per comportamenti problematici – chiarisce la dottoressa Serena Grumi, collaboratrice del dottor Provenzi nel progett ConfiNATI (studio scientifico MOM-COPE) – Tuttavia ci raccontano di come, ancora prima di nascere, l’ambiente in cui la madre porta avanti la gravidanza diventa parte integrante della storia di vita del bambino. Possiamo quindi identificare una traiettoria di rischio nascosta, che mina la salute materno-infantile a livello della popolazione generale ed è necessario che questi dati informino al più presto strategie di prevenzione e cura con interventi mirati che raggiungano le famiglie e il territorio.

La gravidanza è infatti un periodo di grande suscettibilità e sensibilità allo stress.

Le esperienze traumatiche o stressanti vissute dai genitori – spiega il dottor Provenzi, responsabile del Progetto – possono avere effetti indiretti sullo sviluppo fetale e sul benessere futuro del bambino. Questi effetti dipendono dal fatto che il nostro DNA non è completamente immutabile e stabile; anzi, il modo in cui funziona dipende in larga misura dalle esperienze di vita.

In altre parole, il nostro DNA sarebbe capace di imparare dall’ambiente in cui viviamo, modificando il modo in cui produce proteine e neurotrasmettitori fondamentali per il benessere psicofisico. Gli scienziati si riferiscono a questa capacità del DNA di apprendere dall’esperienza con il termine “epigenetica comportamentale”. Uno dei meccanismi epigenetici è la metilazione del DNA, un processo biologico per cui alcune porzioni dei geni inclusi nel DNA possono venire progressivamente spenti o silenziati, diminuendo la disponibilità di specifiche proteine o neurotrasmettitori.

ConfiNATI: i risultati dello studio

Il progetto ConfiNATI suggerisce che i neonati di donne che hanno vissuto più alti livelli di stress durante la gravidanza in rapporto alla pandemia mostrino maggiore tasso di metilazione in corrispondenza di un gene coinvolto nella regolazione della serotonina, un neurotrasmettitore molto importante per il benessere emozionale. Inoltre, dati in corso di pubblicazione suggeriscono che una elevata metilazione di questo gene si associ – tre mesi più tardi – a una minore capacità del bambino di esprimere tonalità affettive positive (sorrisi, risate) e una minore disponibilità del bambino a coinvolgersi in scambi sociali. In altre parole, come sottolinea il prof. Renato Borgatti, responsabile della Struttura Complessa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Fondazione Mondino IRCCS:

È possibile che in un periodo come la gravidanza in cui madre e bambino sono intimamente connessi a livello biologico, lo stress materno possa passare attraverso la placenta, raggiungere il feto e programmare almeno in parte il benessere futuro del bambino attraverso meccanismi di tipo epigenetico.

Questi risultati ovviamente dovranno essere confermati da studi futuri, ma ci mostrano ancora una volta come madre e bambino siano intimamente connessi, ben prima della nascita. Inoltre, se è vero che i bambini nati durante la pandemia possono mostrare difficoltà di regolazione degli stati emotivi o di disponibilità all’interazione sociale, allora è importante avviare e rafforzare i programmi di monitoraggio e di supporto alla salute materno-infantile.

La pandemia che stiamo vivendo entra a fare parte della nostra storia e della nostra esperienza; e questa viene scritta con molto probabilità nel DNA di ciascuno di noi – prosegue il dottor Provenzi – Queste ricerche ci aiutano ad assumere una prospettiva diversa nella cura di madri e bambini: una prospettiva che parta dall’idea di un apprendimento continuo della nostra biologia.

A maggior ragione, sarà importante aiutare questi bambini a fare apprendimenti che li aiutino a riscrivere o ri-annotare il proprio genoma con nuove esperienze caratterizzate da cure sensibili e rispetto delle loro peculiari individualità.

 

Variazioni della concentrazione di testosterone e competitività in concomitanza delle fasi mestruali in atlete professioniste

Il testosterone, un ormone steroideo, solitamente viene associato al dominio sociale, alla competizione e alla motivazione sessuale negli animali e nell’uomo (Archer, 2006).

 

Tuttavia, alcuni studi mostrano che l’ormone spesso agisce anche sulla motivazione: la ricerca psicobiologica suggerisce che l’aumento dei livelli di testosterone modula il funzionamento delle strutture cerebrali coinvolte nella motivazione e nelle emozioni (Packard et al., 1997); l’ormone sembra infatti migliorare la motivazione ad impegnarsi in un comportamento senza priming di ricompensa e in modo inconscio (van Honk et al., 2005). Altri autori sostengono che il testosterone (T) alimenti la motivazione a raggiungere la superiorità quando si compete per diverse risorse, elicitando comportamenti per raggiungere e mantenere uno status più elevato (Stanton & Schultheiss, 2009). Il modello biosociale (Mazur, 1985) dello status postula infatti che il testosterone suscita comportamenti per affrontare i confronti di dominio sociale, aumenta e diminuisce i suoi livelli dopo la vittoria e la sconfitta e fornisce un feedback affettivo che influenza i successivi stili di coping.

Testosterone e motivazione

Dal momento che sembrerebbe avere un legame con la motivazione, c’è un crescente interesse nei ruoli androgeni ed eccitanti del testosterone nello sport e nell’esercizio fisico, in particolare per quanto riguarda i comportamenti competitivi tra le donne (Cook & Beaven, 2013). La letteratura mostra che i cambiamenti o le differenze nei livelli di testosterone delle donne sono positivamente correlati all’autoefficacia, all’attenzione pre-evento, alla motivazione all’azione, al legame di squadra e ai carichi di lavoro (Aarts & van Honk, 2009). Il testosterone sembrerebbe essere quindi reattivo alla competizione e aumentare con l’allenamento. A conferma di ciò, i risultati di uno studio riportano una correlazione positiva tra il testosterone salivare (sal-T) e la motivazione pre allenamento di alcuni atleti maschi professionisti (Crewther et al., 2016); alti livelli di sal-T sono stati trovati anche in donne professioniste (più del doppio rispetto a donne non professioniste) e l’aumento di testosterone è stato indotto dall’esercizio fisico, sostenendo così potenzialmente quei comportamenti necessari per mantenere le prestazioni a livello agonistico (Keizer et al.,1987).

Diversi studi hanno riscontrato che nelle donne la concentrazione di testosterone varia anche con le diverse fasi del ciclo mestruale; solitamente si verifica un aumento di testosterone fino al 40% a metà ciclo o in fase ovulatoria, seguito da una diminuzione durante la fase follicolare, prima fase del ciclo ovarico che termina con l’ovulazione, e luteale, fase che segue la maturazione dei follicoli e che decorre fra l’ovulazione e l’inizio del periodo mestruale successivo (Cook, 2018). Inoltre sembra che tra le donne atletiche il testosterone aumenti conseguentemente ad uno stressor fisico durante l’ovulazione (16%) rispetto alle altre fasi (6-8%) (Crewther, 2019).

Testosterone e competitività

Poiché fino ad oggi nessuna ricerca ha esaminato l’effetto della sal-T sulla competitività nelle atlete, Crewther e colleghi (2018) hanno condotto uno studio longitudinale con l’obiettivo di indagare il legame tra il livello di testosterone salivare e la competitività in atlete agoniste e non agoniste. In particolare, i test sono stati eseguiti durante le tre fasi mestruali (follicolare, ovulatoria e luteale) e hanno tracciato il profilo della variazione dei livelli di sal-T e due misure di competitività legate allo sport: desiderio di competere e motivazione nell’allenamento. Le ipotesi formulate dagli autori erano che il testosterone salivare e la competitività sarebbero risultati elevati in fase di ovulazione rispetto alle altre fasi, che i cambiamenti di sal-T sarebbero stati più marcati nelle atlete professioniste e infine che queste ultime avrebbero mostrato relazioni più forti tra sal-T e competitività. Trenta atlete di diversi sport sono state reclutate e suddivise in due gruppi: atlete concorrenti a livello nazionale (professioniste) e atlete competitive in club o ricreativi (non professioniste) (Pokrywka et al., 2005); entrambi i gruppi sono stati monitorati nelle tre distinte fasi del ciclo mestruale: il test si è verificato nei giorni 6-8 (fase follicolare), 13-15 (fase ovulatoria), e 20-22 (fase luteale), dall’inizio delle mestruazioni precedenti e, dopo un prelievo salivare, alle atlete sono state poste alcune domande sulla competitività.

Come ipotizzato, il testosterone salivare ha mostrato fluttuazioni significative in concomitanza delle fasi mestruali: un aumento dalla fase follicolare a quella ovulatoria, seguito da una diminuzione in fase luteale. Tali risultati sono coerenti con i dati inerenti al sal-T in donne sane in età riproduttiva (Roney & Simmons, 2013). In particolare i cambiamenti del testosterone sono risultati più pronunciati nelle atlete professioniste, le quali hanno mostrato anche un picco in fase ovulatoria sia del desiderio competitivo sia della motivazione all’allenamento (Crewther & Cook, 2018). Ci sono diversi dati in letteratura che forniscono come spiegazione il fatto che esercitare il potere in modo mascolino durante una prestazione sportiva aumenti i livelli di sal-T nelle donne, per cui un’elevata concentrazione di testosterone potrebbe anche essere il prodotto di comportamenti mascolini per raggiungere e mantenere il dominio fisico. Un’ulteriore spiegazione può essere la selezione naturale per cui gli individui che possiedono livelli elevati di testosterone di base spesso scelgono uno stile di vita attivo e prediligono gli sport che massimizzano il loro potenziale di adattamento.

Infine, una maggiore competitività intrasessuale in fase ovulatoria, determinerebbe anche cambiamenti in  diversi altri ambiti oltre allo sport, tra i quali le scelte economiche, i comportamenti per migliorare il proprio aspetto (Saad & Stenstrom, 2012) o la posizione sociale (Durante et al., 2014) e le preferenze per i volti maschili (Welling et al., 2007).

 

Psicologia del denaro: esistono soldi zen? Pensieri limitanti sul connubio denaro-spiritualità

È la psicologia del denaro ciò che determina la relazione con la ricchezza, la quale dipende in particolare dalle nostre credenze.

 

Adriano Tilgher, giornalista e pubblicista dei primi del ‘900, nel suo saggio Homo Faber, scrive: ‘‘È facile deridere l’imprenditore o l’uomo d’affari, che da mane a sera si consuma in un lavoro senza tregua, accumulando ricchezze che non ha tempo né voglia di godere; è facile accusarlo di mancare di spiritualità. Ma intanto egli genera vita a torrenti intorno a sé; ma intanto egli gusta a volte la gioia divina del creatore e sempre, o quasi, la calma fresca e profonda delle energie disciplinate. Dopodiché, padrone chi vuole di trovarlo meno spirituale dell’asceta della Tebaide, assalito la notte dagli incubi dei sensi insoddisfatti, snervato il giorno dalla noia di un’esistenza inerte e monotona, che passa la vita a intrecciare stuoie, che poi, dopo averne fatto un bel mucchio, deve bruciare, mancandogli in quel deserto di pietre e di scorpioni clienti a cui vuole venderle’’. In questo passo l’autore esprime il concetto della conflittualità tra ricchezza e spiritualità. L’autore infatti espone le divergenze che possono nascere tra coloro che vivono di denaro (l’imprenditore) e coloro che vivono di spiritualità (l’asceta), tracciando tra di essi una netta linea di demarcazione.

Quello che risulta difficile da comprendere è se, appunto, questi due ‘status’ appartengano o meno ai due poli opposti di uno stesso continuum, o se al contrario possono trovare un punto d’incontro.

Secondo il dizionario Treccani il termine spiritualità è etimologicamente legato ad una particolare sensibilità e profonda adesione ai valori spirituali: la spiritualità del soggetto lo porta a disinteressarsi dei problemi concreti. Così ad esempio parliamo di un uomo, artista o scrittore di grande spiritualità.

Il denaro è invece, nel senso comune, legato ad un valore economico rispetto a determinati beni ed ottenibile attraverso l’attività lavorativa che in tal senso risulta essere il mezzo attraverso il quale raggiungere il fine: il guadagno. Questa visione meccanicistica (di causa-effetto) del lavoro svolto come modalità d’azione utile per raggiungere solo quel determinato scopo, genera uno dei primi pensieri limitanti rispetto a tale questione. Infatti, se si cambiasse prospettiva e ci si approcciasse all’impiego non come mezzo diretto ad una meta, ma come un’attività svolta per sé stessa, ecco che forse l’opinione corrente muterebbe. Cos’ha di diverso un artista che vende i suoi dipinti da un uomo d’affari che gestisce i propri capitali in un’attività economica?

L’inghippo è spesso collegato al binomio materiale-immateriale. Ciò che è materiale è definito come superficiale e consumistico, al contrario ciò che è immateriale è legato ad un’accezione considerata divina.

In realtà, si potrebbe dire che ciò che fa di un uomo un essere spirituale, inteso come non egoista e privo dei sensi di colpa legati al guadagno, è l’intenzione che esercita sull’azione che svolge. Nel momento in cui i soldi vengono concepiti come un flusso, e non come dei pezzi di carta finalizzati al consumo e/o all’arricchimento, ecco che la prospettiva cambia. Il flusso implica un continuo ciclo in cui il denaro circola in maniera continua, un po’ come il nostro respiro fa fluire l’ossigeno all’interno del nostro corpo.

L’ecosistema che verte intorno ai soldi è molto più complesso di quanto crediamo, e se facessimo un’analisi più accurata forse capiremmo anche che coloro che guadagnano e non risparmiano non sono necessariamente individui che amano ostentare la loro ricchezza, ma sono persone che attraverso i loro investimenti producono nuovi circoli di denaro producendo spesso occasioni lavorative. Quindi potremmo vedere gli investimenti come una forma di altruismo.

Denaro e spiritualità possono intendersi nel momento in cui il denaro non viene demonizzato come oggetto ‘del male’ dell’uomo, ma come aria che circola, come circola la stessa energia divina o universale che l’ascetico avverte nel mondo.

Marx Weber spiega, in una importante sua opera, le ragioni del ‘razionalismo economico’ e, citando Lutero, scrive che ‘‘il lavoro professionale è un compito o meglio il compito assegnato da Dio’’ e, pertanto, una ‘‘espressione esterna dell’amore verso il prossimo’’. Poi, citando Baxter (AChristian Directory,1678) scrive sempre Weber ‘‘Ciò che la morale veramente condanna è l’adagiarsi nel possesso, il godimento della ricchezza con la sua conseguenza di ozio e di concupiscenza e, soprattutto, con la conseguenza di deviare dal faticoso cammino verso la vita santa’’.

È la psicologia del denaro ciò che determina la relazione con la ricchezza, la quale dipende in particolare dalle nostre credenze. A partire dal 1951, con il lavoro di George Katona nella sua opera L’analisi psicologica del comportamento economico, si trova il primo tentativo di unire psicologia ed economia quando, ancora un decennio prima, si leggeva tra le righe di uno dei più importanti manoscritti di Marx: ‘‘Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della bruttezza, la sua repulsività, è annullata dal denaro (…). E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che mi unisce alla società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli, il vero cemento, la forza galvano-chimica della società?’’ (Karl Marx , Manoscritti economico-filosofici, 1844). Questa interpretazione del denaro è frutto di un’epoca in cui il guadagno sembrava essere l’unico generatore di senso, secondo quanto detto dall’autore, e quindi gli aspetti legati alla personalità e alla soggettività venivano spazzati via da questa forza egemone rappresentata dai soldi, che plasmavano in una dimensione prettamente quantitativa. Il denaro dunque è rappresentato come il metro di misura non solo della quantità, bensì anche del proprio modo di vivere e della propria essenza dinanzi agli altri.

Katona comincia invece ad affiancare la dimensione economica a quella prettamente psicologica, legata ad attività umane come il relazionarsi con gli altri, il pensiero e la capacità di elaborare idee. La comprensione dei processi economici muta nel momento in cui si focalizza l’attenzione sugli individui considerati in quanto tali e non come astrazioni, dimenticando o nascondendo le innumerevoli deviazioni e aberrazioni provocate dall’umana fragilità al solo scopo di poter fare raffronti utili e che si mantengano intatti (Katona,1951).

Quanto scritto sopra ha senso nel momento in cui l’attività economica è strettamente collegata al comportamento dell’uomo. E il comportamento è un fattore intrinsecamente collegato ad aspetti psichici dell’individuo. Si può dedurre come sia fondamentale lo studio della motivazione, delle credenze e delle aspettative dei singoli per facilitare la comprensione dei fenomeni economici.

Il ‘sentirsi ricchi’ è una percezione soggettiva, molto più spirituale di quanto si possa pensare. Non si può ridurre il guadagno ad una questione meramente oggettivistica e materialistica, altrimenti perché esisterebbero miliardari che in realtà sono spiritualmente poveri? Questa loro condizione rende conseguentemente anche il denaro che possiedono come privo di valore.

Il denaro può essere considerato zen perché può generare scambio, empatia e collaborazione.

In conclusione, se il proprio lavoro oltre ad essere una professione non è una passione e non porta quindi giovamento personale in termini ad esempio di autostima ed autorealizzazione, probabilmente i soldi che verranno guadagnati saranno ‘tristi’. In quest’ottica, come ben spiega Ken Honda nel suo libro ‘Happy Money’, il denaro non è un semplice numero o pezzo di carta, ma è un’energia che porta positività o negatività in base alle percezioni soggettive del suo possessore (Ken Honda, 2019).

 

L’organizzazione a network delle aree cerebrali nella malattia di Parkinson

Nella malattia di Parkinson è particolarmente comune il riscontro di una sindrome disesecutiva, caratterizzata da difficoltà nell’esecuzione di compiti complessi, nella pianificazione a lungo termine, nella memorizzazione e nel richiamo di nuove informazioni.

 

Un’architettura ben definita

Oggetto di grande interesse e di ricerca negli ultimi dieci anni, il connettoma, descrive lo studio dei network cerebrali; utile infatti nel delineare un’attività continua e riverberante non tanto di un singolo neurone, quanto di più neuroni attivi contemporaneamente (Hebb, D. O., 1949).

La connettività pertanto, se da un lato evidenzia l’attività di più assemblee neuronali, al contempo ne esplica le rispettive caratteristiche: funzionali e strutturali. La prima è di tipo anatomico ed evidenzia come le aree cerebrali siano tra loro connesse tramite collegamenti fisici, rappresentati dai filamenti di materia bianca (Faingold, C, Blumenfeld, H., 2014). Si riferisce oltremodo alle variazioni morfologiche (cerebrali) conseguenti sia all’apprendimento sia al declino delle capacità già apprese di elaborazione motoria o cognitiva (Sale, A, Berardi, N., 2014).

Invece, sotto il profilo funzionale, viene messo in risalto il concetto di network, ossia l’insieme di collegamenti che prende vita tra distretti cerebrali distanti e anatomicamente non collegati tra loro, basandosi sulla presenza e compresenza di segnali chimici con carattere elettromagnetico; per lo più è associato allo studio delle capacità di riorganizzazione dell’attività cerebrale in seguito all’apprendimento o durante il processo di recupero di un danno, che avvengono senza modificazioni del substrato anatomico.

Entrambi i profili (strutturale/funzionale) nel loro insieme consentono di mettere in coerenza i neuroni del circuito che si trovano ad essere reclutati per la stessa funzione senza legami fisici.

La variazione dell’architettura e dell’organizzazione cerebrale correlate al processo di plasticità (Schurz, M., Radua, J., 2014) possono essere inoltre analizzate sia a livello spazio temporale sia a livello di complessità. Infatti, se nel primo caso la plasticità può durare microsecondi sino a modificazioni perenni, a livello spaziale invece le modificazioni possono interessare intere regioni cerebrali e le relative connessioni interregionali (Sporns, O., 2012).

I contributi degli studi di RM sia morfologici che funzionali hanno infatti consentito di rilevare ed evidenziare le variazioni della plasticità cerebrale a livello di grande scala nei processi di riorganizzazione funzionale a seguito di una lesione. Sulla base di quanto descritto sinora, la plasticità neuronale risulta sottesa ad un processo di neurogenesi in rapporto all’ambiente circostante (Cajal, S., 1913).

Quest’ultima sembra circoscritta nello specifico a due zone presenti nel cervello adulto, rispettivamente la zona subventricolare e il giro dentato dell’ippocampo, due zone generative che risulterebbero coinvolte nei meccanismi alla base della neurogenesi stessa.

Il concetto di nicchia neurogenetica e la psiconeuroendocrinoimmunologia

L’aspetto peculiare che emerge è dato dalla compresenza di una pluralità di fattori in interazione tra loro e che in sintonia promuovono un cablaggio di più aree capaci di produrre nuove cellule, dando vita a quella che viene definita nicchia neurogenetica (Kempermann, G., 2011).

Ma questa interazione risente sempre di un equilibrio omeostatico interno all’organismo oppure possono subentrare ulteriori fattori disfunzionali?

Nel 1993 infatti Heather Hameron ed Elisabeth Gould, utilizzando un nuovo metodo di indagine che combina 3H-timidina con immunoistochimica, che identifica un marker specifico per i neuroni (chiamato NSE Neuron Specific Enolase), confermarono non solo come la neurogenesi si collochi a livello ippocampale, ma anche come lo stress intacchi il processo neurogenetico stesso (Bottaccioli, F, Bottaccioli, A, G., 2020).

Nel loro insieme tali concetti offrono un panorama rispetto al quale l’equilibrio interno all’organismo non può essere riducibile ad un fattore causale, ma al contrario correlabile ad un’omeostasi interna che chiama in causa la visione psiconeuroendocrinoimmunologica.

Infatti i fattori interni alla nicchia neurogenetica sono di varia natura tra i quali: molecole del sistema immunitario come le citochine IL-1, IL-6, TNF-α prodotti da astrociti e dalla microglia, fattori di crescita e di plasticità come il BDNF prodotto dai neuroni maturi e il VEGF, i quali in maniera reciproca e simultanea formano una rete di segnalazione che rende tale nicchia una rete composta da molecole diffuse a tutto il cervello, riguardante numerose aree cerebrali (Ziv, Y, Ron, N., 2011).

Nel panorama scientifico, se si parla di neurogenesi post natale, è altresì possibile ipotizzare come quest’ultima non solo risenta della dimensione epigenetica, ma anche come la stessa vada incontro sia ad un rafforzamento che ad un deterioramento durante il corso della vita.

Il contributo della neurogenesi ippocampale

La dimensione epigenetica infatti consente di comprendere come un ambiente stimolante sia promotore di quei cambiamenti e riorganizzazioni che vedono l’organismo in costante mutamento, a differenza di quei fattori disfunzionali che ne possono intaccare lo sviluppo, soprattutto durante la vecchiaia.

Durante questa fase della vita la neurogenesi ippocampale comincia a indebolirsi, ma non in maniera drastica, in quanto il proprio background fisiologico ed esperienziale consente di capire se si è in grado di far fronte ai nuovi stimoli in maniera più o meno adattiva (Bergmann, O, Spalding, K, L., 2015).

Nello specifico, infatti, un cervello che invecchia in salute continua a produrre neuroni nell’ippocampo e nello striato, ossia in quelle aree cerebrali importanti e fondamentali per le attività cognitive e di memoria.

Nella malattia di Parkinson lo stesso striato risulta infatti centrale non solo per l’attività motoria (i cui sintomi sono connessi all’atrofia delle cellule di questi nuclei che producono dopamina), ma risulta pienamente coinvolto anche nei circuiti emozionali e cognitivi.

In questa malattia neurodegenerativa le funzioni cognitive rientrano in quella categoria che prende il nome di sintomi non motori, i quali sotto il profilo neuropatologico si discostano dalla visione esclusivamente dopaminergica, interessando e coinvolgendo ulteriori sistemi caratterizzati da neuroni colinergici del nucleo basale di Meynert, neuroni noradrenergici del locus coeruleus, quelli serotoninergici degli emisferi cerebrali e del sistema nervoso autonomo. Valorizzando così come l’interazione tra più sistemi e il rispettivo grado di equilibrio più o meno funzionale, possa apportare notevoli cambiamenti.

Inoltre le funzioni cognitive sembrerebbero essere compromesse a seguito della deposizione dei LB (corpi di Levy), i quali coinvolgono nella fase avanzata della malattia le aree corticali.

Tali alterazioni che accompagnano la malattia di Parkinson sono di entità generalmente lieve ma, in una percentuale variabile a seconda degli studi, possono evolvere in un quadro di demenza. È particolarmente comune il riscontro di una sindrome disesecutiva, caratterizzata da difficoltà nell’esecuzione di compiti complessi, nella pianificazione a lungo termine, nella memorizzazione e nel richiamo di nuove informazioni.

La presenza di un significativo deterioramento cognitivo, non solo limita le opzioni e gli interventi terapeutici, ma si accompagna oltremodo all’insorgenza di allucinazioni, depressione grave e ad una nuova modalità psicosomatica di far fronte agli eventi cui l’organismo va incontro.

Nondimeno questi cambiamenti rispecchiano all’unisono una riorganizzazione dell’organismo, il quale sotto il profilo neuroendocrino può apportare notevoli modifiche, favorendo in maniera adattiva o meno una flessibilità al cambiamento o viceversa un deterioramento riscontrabile anche al dominio cognitivo stesso.

Tale dimensione (neuroendocrina), assieme a quella epigenetica, permette dunque di capire come spesso e volentieri i domini cognitivi risultino caratterizzati e inficiati da un proprio modo di stare al mondo e di farvi fronte, evidenziando così come un substrato fisiologico ed un background neurobiologico esperienziale possano rappresentare linee guida e chiavi di lettura acquisite nel tempo.

Stimoli ambientali sia esterni che interni (emozioni e stress) apportano cambiamenti nella produzione di ormoni surrenalici, tiroidei e gonadici tramite la produzione di ormoni ipofisari stimolati da fattori ipotalamici.

Come sottolineato già a partire dagli anni trenta da Geoffrey W. Harris (Harris, G, W., 1951) è proprio l’ipotalamo a dirigere la “danza”, un’affermazione che facilmente si correla a quanto riportato successivamente da Bruce Mc Ewen (MC Ewen, B, S., 1968), il quale ha affermato come il cervello non solo comanda la produzione di ormoni, ma al tempo stesso ne risulta essere il bersaglio.

Quanto riportato da entrambi gli autori, offre l’opportunità non solo di valorizzare l’unità psicosomatica e dunque la stretta unità Mente-Corpo, ma al contempo di comprendere il ruolo svolto dai feedback ormonali sul cervello (MC Ewen, B, S., 2015). Questi ultimi, infatti, regolando le funzioni ipotalamiche hanno un grandissimo impatto soprattutto sulle funzioni neurologiche, cognitive ed emozionali.

Il rimodellamento dell’architettura cerebrale si costituisce grazie al cablaggio più o meno adattivo di più sistemi (neurovegetativo, metabolico, immunitario e neuroendocrino), i quali risentono dell’impronta di meccanismi epigenetici nel corso della vita (Nasca, C, Zelli, D., 2015).

Assi e circuiti dello stress e implicazioni a livello cognitivo

Lo stress, come riportato da Hans Seyle, è l’essenza della vita, perché la sua attivazione coinvolge in contemporanea numerosi fattori esterni ed interni all’organismo stesso. Tuttavia, se i livelli fisiologici da un lato permettono di reagire e far fronte agli eventi quotidiani chiamando in causa opportune risorse energetiche, dall’altro non sempre le modalità dell’organismo risultano adattive e flessibili al cambiamento.

Il Corticotropin-Releasing Hormone (CRH) risulta infatti essere l’attivatore della catena neuroendocrina dello stress e il suo ruolo non è circoscritto ad un singolo distretto corporeo, in quanto diffusamente presente nel cervello, più nello specifico nell’amigdala, nella corteccia cingolata, nel locus coereleus e in altre aree cerebrali. Se nel breve periodo l’effetto del cortisolo è quello di mobilitare le risorse energetiche, a lungo termine invece, qualora i livelli fisiologici non rientrino nella norma, possono verificarsi effetti di natura patogena.

Sulla base di quanto accennato in precedenza, e in relazione a quanto appena introdotto, ciò vuol dire che a livello cerebrale si assiste ad una riorganizzazione inerente aree cruciali, con una possibile riduzione dei dendriti nell’ippocampo e nella corteccia mediale prefrontale.

Nello specifico si assiste ad una riorganizzazione cerebrale che è di tipo epigenetico e quindi potenzialmente reversibile, tramite il rilascio di glutammato, il quale non solo provoca effetti tossici sui neuroni ma al contempo il blocco della produzione di cellule nervose, inficiando così la neurogenesi ippocampale.

Inoltre, come riportato da Ron Kloet il ruolo del cortisolo è strettamente correlato a quello svolto dai rispettivi recettori, l’MR (mineralcorticoide) e l’GR (glucocorticoide). (De Kloet, E, R., 2005) (De Kloet, E, R, 2014). Sulla base delle ricerche condotte dall’autore è emerso come ambo i recettori siano presenti nel cervello, soprattutto nell’ippocampo e nell’ipotalamo. Ciò vuol dire che in una fase di persistente stress cronico il sistema limbico risente di un’alterazione del rapporto tra i recettori sopracitati, provocando una riduzione dei recettori MR, che porta ad un assetto disfunzionale dell’asse ipotalamo ipofisi surrene.

In relazione al piano cognitivo è stato inoltre dimostrato come la stimolazione del recettore MR causi una regolazione della produzione di cortisolo e al contempo un miglioramento della memoria, la quale risulta intaccata in fase di stress ripetitivo (Ferguson, D, Sapolsky, R., 2008).

Nondimeno nel 2013 (Groch, S, Wilhelm, I., 2013) un gruppo di ricercatori ha dimostrato come la somministrazione di fludrocortisone apporti miglioramenti relativi alla memoria verbale e alle funzioni esecutive. Nello specifico tali miglioramenti presentano una plausibilità biologica perché l’ippocampo e le aree prefrontali, cruciali per queste funzioni, hanno un’elevata espressione di MR. Inoltre un effetto positivo del fludrocortisone è stato riportato anche in rapporto alle cellule progenitrici dell’ippocampo, in quanto l’agonista dell’MR sarebbe protettivo e funzionale per la neurogenesi, la quale risulta bloccata dall’iperattivazione del recettore GR (Gesmundo, I, Villanova, T., 2016).

 

cancel