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10×10? Un risultato oltre ogni aspettativa! – In occasione del decimo anniversario di SoM

Il 25 Ottobre 2021 State of Mind ha compiuto 10 anni! In tutti questi anni non abbiamo mai perso di vista il nostro obiettivo: promuovere e diffondere conoscenza nel campo delle Scienze Psicologiche e non solo. 

 

Conoscenza accessibile tanto ai professionisti, quanto ai meno esperti. Perché crediamo che una solida cultura psicologica sia il primo passo per sensibilizzare e promuovere benessere.

In occasione di questo importante giorno abbiamo pubblicato le parole di Sandra Sassaroli che meglio narrano la storia di State of Mind, dagli inizi ad oggi, di cui vi consigliamo la lettura: State of Mind compie 10 anni! – Editoriale di Sandra Sassaroli

10 anni, 10 punti di forza

Per questo 10° anniversario, vorremmo anche condividere quelli che sono stati e ancora sono i 10 punti di forza che hanno fatto di State of Mind il giornale di Psicologia numero 1 in Italia.

  • 1 – I NOSTRI AUTORI, LE VOSTRE IDEE

Più di 10.000 articoli, frutto della passione e dell’entusiasmo dei nostri numerosissimi collaboratori. Diamo voce alle idee e ai contributi di chi scrive, il cui lavoro ha reso, nel corso degli anni, State of Mind la rivista per eccellenza in campo psicologico.

  • 2 – INFORMAZIONE VERIFICATA E ATTENDIBILE

Forniamo un’informazione sì comprensibile a tutti ma seria, basata non su opinioni del tutto personali ma su riferimenti bibliografici attendibili e consultabili.

  • 3 – UNO SGUARDO CONTINUO ALLE NOVITÀ

State of Mind è un webjournal che cerca di stare al passo con la continua evoluzione della Psicologia, della Psichiatria e delle Neuroscienze. Ogni giorno informiamo i nostri lettori sulle novità dal campo della ricerca grazie alla nostra sezione Flash News

  • 4 – IMPORTANTI APPROFONDIMENTI

SoM è diventato il primo webjournal di Psicologia in Italia grazie agli oltre 600 argomenti trattati dai nostri autori e alle più interessanti rubriche pensate per i lettori che intendono approfondire i temi più curiosi, più importanti o più attuali delle Scienze Psicologiche. Tra le rubriche più seguite: La LIBET nelle narrazioni, FluIDsex, Psicologia Digitale, Monogamia & Tradimenti.

  • 5 – CI AGGIORNIAMO E AGGIORNIAMO

Da 10 anni cerchiamo di aggiornarci e aggiornare i nostri lettori tramite le collaborazioni con i convegni organizzati da Università e Scuole di Specializzazione e tramite una sezione dedicata agli studi, ai poster e alle slides di ricerca. Discutiamo inoltre, ogni giorno, delle novità dal mondo accademico – professionale, grazie ai reportage dai congressi e alle recensioni di saggi e manuali.

  • 6 – EXPLORING THE MIND WITH GREATEST MINDS

Su State of Mind le interviste ai più noti esperti di fama internazionale, per esplorare la mente e i meccanismi che la governano, per comprendere la terapia e le sue dinamiche, ma soprattutto per conoscere più da vicino le persone dietro le più grandi teorie e le più celebri scoperte.

  • 7 – GRANDI CLINICI ITALIANI

Come diffondere al meglio conoscenza se non attraverso le parole di chi crea conoscenza? Nel corso degli anni abbiamo intervistato i clinici e gli studiosi più illustri del panorama italiano. E abbiamo pubblicato articoli firmati dai più importanti esperti in materia, tra cui: Giovanni Maria Ruggiero, Sandra Sassaroli, Roberto Lorenzini, Giancarlo Dimaggio, Paolo Moderato, Francesco Mancini, Riccardo Dalle Grave, Antonio Scarinci e Gabriele Caselli

  • 8 – DIBATTITI E CONFRONTI

State of Mind è un punto di riferimento per gli esperti, che sulle nostre pagine spesso si confrontano, facendo così nascere importanti dibattiti che risuonano in tutto il panorama clinico e scientifico. Tra questi ricordiamo il dibattito su Trauma e psicoterapia e sulla centralità della relazione terapeutica nel trattamento psicoterapico.

  • 9 – LA PSICOLOGIA PER TUTTI

Rendiamo accessibile la Psicologia a tutti e nelle più diverse forme, non solo attraverso gli articoli più divulgativi, ma anche attraverso i video e i podcast rivolti al grande pubblico

  • 10 – NON SOLO PSICOLOGIA

Non solo Psicologia, descriviamo e riflettiamo su ciò che succede intorno a noi, dedicando ampio spazio all’attualità, all’arte, al cinema, alla letteratura e alla cultura.

Qualche curiosità su SoM

Qual è stata la giornata con più view? E il mese con più view? Chi è l’autore più letto? E gli articoli più letti? In occasione dei dieci anni di SoM abbiamo pubblicato un interessante articolo con le risposte a queste e ad altre domande: Diamo i numeri!! 10 anni di State of Mind

Ringraziamenti e progetti futuri

Nonostante i tanti traguardi raggiunti in questi primi 10 anni, non smettiamo di guardare avanti. Altri progetti ci aspettano, tra cui un nuovo sito, una più ampia sezione dedicata ai temi divulgativi e una maggiore condivisione sui canali social pensata per tutti. I contributi di chi vorrà unirsi a noi in questo percorso saranno sempre benvenuti.

Quale occasione migliore dunque per ringraziare i nostri lettori e tutti i nostri autori? È grazie alla vostra curiosità, al vostro interesse e alla vostra passione che State of Mind è diventato tutto questo.

 

Il militare e la sua famiglia: due facce della stessa medaglia

Madri, padri, mogli, mariti, figli più o meno grandi, fratelli…tutti i familiari, l’altra faccia della medaglia, vivono da casa la missione dei militari.

Mariasilvia Rossetti e Serena Pierantoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

“Mamma, papà, da grande voglio fare il militare!”, più o meno è un mestiere che inizia così. A volte, perché in famiglia vi è già qualcuno che ha percorso questa strada e, allora, quel bambino ha il desiderio di seguire le orme del proprio genitore o parente, altre perché è una passione che si sviluppa crescendo.

Questa scelta, però, coinvolge un po’ tutte le persone che ruotano intorno a chi sceglie di fare il militare, soprattutto quando arriva la notizia che non vorresti mai arrivasse: “Devo partire per andare in missione”.

Non puoi dire di no? Per quanto? Dove? È pericoloso? Quando torni? Sono solo alcune domande che, chi resta a casa, si pone ogni giorno, emotivamente impreparato a gestire tale situazione.

Madri, padri, mogli, mariti, figli più o meno grandi, fratelli…tutti i familiari, l’altra faccia della medaglia, vivono da casa la missione.

Cosa succede quando chi parte lascia a casa un bambino piccolo o che ancora deve nascere? Come impatta questo lavoro sulle dinamiche familiari? Quali sono i risvolti? Quali problematiche scaturiscono?

Lo stress inizia prima ancora della partenza per la missione e colpisce entrambi i membri della famiglia, nonché i figli: chi parte si prepara psicologicamente e fisicamente per quello che dovrà affrontare; chi resta deve prepararsi a gestire la famiglia da solo e vive con la preoccupazione circa la sicurezza del coniuge in missione (Lieberman & Van Horn, 2013).

Le famiglie di militari vivono in un clima di stress persistente, rispetto alle famiglie civili, in quanto sperimentano spesso la separazione a causa di posti di lavoro lontani da casa, addestramenti, esercitazioni e missioni, per periodi più o meno lunghi, vivono con la consapevolezza del rischio associato al servizio militare, sia esso danno fisico, psicologico o, nei casi più gravi, la morte. Questi fattori stressogeni associati alla vita militare portano ad un continuo sconvolgimento nelle dinamiche relazionali e familiari (Daigle, 2013). Pertanto, queste famiglie potrebbero costituire una popolazione altamente vulnerabile, rispetto alla popolazione generale, qualora i fattori stressogeni vengano gestiti in modo non funzionale, con ripercussioni sia a livello fisico, psicosociale che psicologico.

Tra i sintomi a livello fisico si riscontrano disturbi del sonno, affaticamento, stanchezza o poca energia, mal di testa, tachicardia, variazioni nell’appetito e cambiamenti di peso, i quali aumentano all’aumentare del livello di stress percepito (Padden& Posey, 2013; Burton, Farley & Rhea, 2009). Ovviamente, i sintomi e le problematiche, dipendono dalla lunghezza, dalla durata e dalla frequenza con cui un militare parte per la missione.

Gli effetti di una missione sulla famiglia dei militari

Una revisione sistematica condotta nel 2014 (Creech, Hardley& Borsari) ha analizzato circa 40 studi svolti per indagare gli effetti che una missione ha sui genitori, i bambini e gli adolescenti, mostrandone il suo impatto pervasivo e negativo. In particolare, hanno rilevato che i bambini che crescono in “famiglie militari” hanno significativamente più problemi di salute mentale, tra cui ansia, depressione, problemi comportamentali esternalizzanti, fino all’uso di sostanze e all’ideazione suicidaria, rispetto ai figli di “famiglie civili”. Pressley et al. (2012) hanno rilevato come i bambini più grandi, figli di famiglie militari, avevano maggiore probabilità di ricevere una diagnosi da parte del dipartimento di salute mentale e di essere ricoverati in ospedale per tentativi di suicidio.

Una ricerca volta a determinare gli effetti causati da un parente militare che parte per una missione sul numero di visite mediche ambulatoriali che coinvolgono i figli, di età compresa tra i 3 e gli 8 anni, ha rilevato che aumentano dell’11% il numero di visite volte a valutare la salute mentale e le problematiche comportamentali; aumentano del 19% i disturbi del comportamento e del 18% i disturbi legati allo stress (Gorman, Eide& Hisle-Gorman, 2010). Tale ricerca ha, inoltre, evidenziato l’interazione tra la missione e il genere del genitore militare: quando è l’uomo ad essere militare i tassi di visite ambulatoriali aumentano, rispetto a quando ad essere militare è la donna. Questi risultati suggeriscono che nel primo caso vi sono un maggiore riconoscimento dei problemi del bambino da parte dell’adulto e della capacità di portare questi problemi all’attenzione di un professionista. Le visite ambulatoriali aumentano anche nella condizione in cui i figli sono più grandi e i genitori coniugati.

Il senso di sicurezza e di protezione che un bambino piccolo sviluppa, soprattutto nei primi anni di vita, dipende totalmente dalla disponibilità fisica ed emotiva che viene mostrata dai suoi genitori. È facile, quindi, comprendere quanto possa essere difficile per un bambino piccolo la lunga assenza di un suo genitore. Nel caso in cui il genitore parta per una missione quando il piccolo è ancora in grembo o nei suoi primi mesi di vita, mesi in cui si creano, si formano le basi e stabiliscono le relazioni di attaccamento, al ritorno potrebbe riunirsi con un bambino che, non solo è molto diverso e cresciuto rispetto a quello che hanno lasciato, ma che non ha alcun ricordo del genitore, sia esso il padre o la madre; inoltre, non ha nessuna relazione consolidata dalla quale attingere (Mutter, 2004).

Infatti, mentre i bambini più piccoli potrebbero non comprendere appieno il motivo per cui un genitore deve andarsene e potrebbero reagire con rabbia, i bambini più grandi e gli adolescenti devono affrontare la lontananza del genitore durante una fase critica e rapida dello sviluppo sociale ed emotivo, che è già impegnativo di suo, in quanto caratterizzato da scelte scolastiche da effettuare, modificazioni corporee, nonché la costruzione dell’identità.

A partire dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 a New York, sono aumentati i periodi di permanenza in missione e questo ha comportato un aumento dei disturbi di salute mentale, incluso il disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Le ricerche, inoltre, mostrano che più è lunga la durata della missione, maggiori sono le difficoltà a cui la famiglia e i figli vanno incontro. Oltre al già citato PTSD, aumentano i rischi per la depressione, i disturbi del sonno, lo stress coniugale e i divorzi (Negrusa, Negrusa & Hosek, 2014; Tanielian, Tanielian& Jycox, 2008). Le reazioni dei coniugi alla partenza per una missione riguardano irritazione, tensione, incredulità, aumento della distanza emotiva, sintomi somatici, shock, sentimenti di rabbia verso chi parte.

Ciò che influenza queste problematiche non è la missione militare in sé, ma lo stress che questo evento provoca e l’eventuale presenza di problematiche psicopatologiche nel genitore che resta a casa. I fattori di rischio e i fattori di resilienza interagiscono tra loro e vanno ad influenzare le relazioni psicosociali tra il genitore che resta a casa e il bambino, le quali, a loro volta, producono conseguenze dirette sul bambino (Palmer, 2008). L’aumento dello stress nel genitore che resta a casa e l’assenza del genitore militare, impattano negativamente sulla qualità delle interazioni genitore-figli: probabilmente i bambini ricevono meno contatti fisici ed emotivi, rispondono allo stress dei genitori e apprendono la loro stessa modalità di rispondere allo stress. I bambini, siano essi neonati o in età prescolare, sono abili nel leggere le espressioni facciali, nell’interpretare il tono della voce del genitore, percepiscono che qualcosa è cambiato. Sentono lo stress provato dal genitore e potrebbero rispondere con maggiore irritabilità che, a sua volta, fa scaturire reazioni di rabbia e impazienza nell’adulto, che poi si sente in colpa per non essere emotivamente, né fisicamente, disponibile per il bambino (Lieberman & Van Horn, 2013).

Gli effetti del pendolarismo dei militari sulla famiglia

Oltre alla missione, che prevede la permanenza all’estero di vari mesi, un altro fenomeno importante, che impatta sul contesto familiare, è quello del pendolarismo (Ferri, 2021). Sembra una soluzione che garantisce l’unità della famiglia, ma solo a prima vista, in quanto oltre a sopportare le ore del viaggio, il militare pendolare trascorre dentro la propria casa un numero ristretto di ore. Questo comporta una limitazione nel dialogo e nell’interazione con i propri cari che potrebbe portare a stanchezza, irritabilità e difficoltà di comunicazione, che, se gestite in modo non funzionale e scorretto, potrebbero condurre a problematiche correlate allo stress, quali depressione, traumi e disturbi di vario genere.

Tuttavia però, non sempre è così. Nel caso di un adolescente, l’assenza di un genitore potrebbe anche avere risvolti non negativi e portare ad uno sviluppo maggiore dell’autonomia e del senso di responsabilità, che andrebbero a costituire un terreno molto fertile per la resilienza, cioè la capacità di affrontare un evento stressante o traumatico e di saper riorganizzare positivamente la propria vita di fronte alle difficoltà. Inoltre, i bambini i cui genitori sono in grado di rispondere in modo più sensibile ai loro bisogni emotivi e hanno una relazione forte come coppia probabilmente avranno capacità più sane per la regolazione delle emozioni e per lo sviluppo psicosociale generale (Paris, DeVoe, Ross, & Acker, 2010).

Il ricongiungimento tra militari e famiglia

Missione, trasferimento e il ricongiungimento, tanto atteso, sono tre fenomeni che causano stress sulla famiglia militare (Drummet, Coleman & Cable, 2003).

Anche il momento del ricongiungimento tra il militare che rientra dalla missione e la sua famiglia è caratterizzato da un alto livello di stress, seppur un momento tanto atteso, in quanto include la paura del rifiuto, sentimenti di esclusione, fino alla depressione. Dopo il ricongiungimento potrebbero aumentare i conflitti e le difficoltà coniugali, nonché i tassi di divorzio, in quanto la comunicazione tra adulti risulta essere alterata, l’intimità è diminuita a causa del periodo passato distanti e, spesso, si trovano in disaccordo sulla disciplina e l’educazione dei figli o su scelte che sono state prese durante il periodo trascorso separati. La famiglia deve di nuovo riorganizzarsi.

La salute mentale dei bambini figli di militari

Vi sono poi altri fattori che influenzano la salute mentale dei bambini che crescono in famiglie militari.

Come già accennato, uno dei più importanti è la salute mentale dei genitori, sia di quello militare che di quello che resta a casa e si occupa della prole. Questo aspetto non si discosta molto dalle dinamiche che si creerebbero anche in una famiglia civile, dove uno dei due genitori ha problematiche psicopatologiche, ma se si vanno ad aggiungere ai fattori stressogeni dovuti alla missione, espongono la famiglia ad un maggior rischio di vulnerabilità. Se, ad esempio, la madre mette in atto una risposta di tipo depressivo, anche i figli potrebbero rispondere rispecchiando tali sintomi. Altro fattore che potrebbe pesare sulla salute mentale del bambino è la differenza individuale tra ogni bambino, nonché lo stile di personalità (Cramm et al., 2019).

Le ricerche mostrano che a fare la differenza è anche il ramo dell’esercito in cui il genitore presta servizio e il grado che occupa, in quanto, questo ultimo aspetto è indicatore sia della responsabilità, che dello stato socio economico della famiglia. Altro aspetto a volte sottovalutato, riguarda le notizie mediatiche che, spesso, risultano essere distorte o incomplete e, pertanto, vanno ad incrementare il livello di stress di chi resta a casa.
Una revisione sistematica della letteratura ha evidenziato come le strategie di coping di un bambino dipendono dalla sua età e dallo sviluppo raggiunto, dalla salute mentale e la capacità di coping del genitore che resta a casa, dalla salute mentale di entrambi i genitori, dalle vulnerabilità preesistenti, dalla capacità di resilienza e dalle risorse presenti (Bello‐Utu & DeSocio, 2015). Un altro studio del 2016 (Lester et al.,), condotto per esaminare l’associazione tra esposizione al combattimento, l’adattamento piscologico dei genitori, la genitorialità, il funzionamento familiare e l’eventuale instabilità, ha messo in relazione salute-comportamento dei genitori, stile della genitorialità e adattamento sociale ed emotivo del bambino (di età compresa tra 0 e 10 anni) durante il periodo in cui un genitore era schierato. I risultati mostrano che all’aumentare del periodo di esposizione alla missione, aumentano le difficoltà di comunicazione che diventa meno sana, si riduce il coinvolgimento affettivo e la modalità di risoluzione dei problemi risulta essere meno efficace. Questi processi familiari, a loro volta, aumentano lo stress percepito, influenzano negativamente la capacità di resilienza familiare e il benessere del bambino. In conclusione, la maggiore sensibilità dei genitori e un buono stile comunicativo sono associate a un migliore adattamento del bambino.

Alla luce di quanto detto, è necessario che entrambe facce della stessa medaglia, vengano supportate psicologicamente, sia a livello di prevenzione, che durante i periodi di maggiore stress, attraverso la psicoeducazione, gruppi di sostegno per militari e civili e, se necessari, percorsi di psicoterapia.

 

Disturbo dissociativo dell’identità

Il disturbo dissociativo dell’identità è costituito dall’esistenza di personalità (alterazioni dell’identità) differenti e disgiunte nella stessa singola persona.

 

La Dissociazione è un meccanismo di difesa che compromette la coscienza vigile attraverso la mancanza di alcuni elementi come la coscienza di sé, del tempo e del contesto. Secondo il DSM-5, essa viene definita come “Separazione di gruppi di contenuti mentali dalla consapevolezza. Spesso conseguenza di un trauma psichico, essa consente all’individuo di mantenere l’adesione a due verità contraddittorie rimanendo inconsapevole della contraddizione”. È importante sottolineare come la dissociazione risulta essere il distacco di un concetto dal suo significato emotivo e dall’affetto connesso (Martinotti et al., 2015).

Secondo i criteri del DSM 5, il disturbo dissociativo dell’identità è quindi costituito da:

A. Disgregazione dell’identità caratterizzata da due o più stati di personalità (descritta talvolta come possessione) che comprende marcata discontinuità del senso di sé e della consapevolezza delle proprie azioni accompagnata da correlate alterazioni di: affettività, comportamento, memoria, coscienza, percezione, cognitività, funzionamento senso-motorio. Questi segni e sintomi possono essere osservati da altri e segnalati dall’individuo.

B. Ricorrenti amnesie nella rievocazione di eventi quotidiani, importanti informazioni personali e/o eventi traumatici non riconducibili a ordinaria dimenticanza.

C. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.

D. Il disturbo non è parte tipica di una pratica culturale e religiosa largamente accettata.

E. I sintomi non sono attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o di un’altra condizione medica (APA, 2013).

Il Disturbo (denominato in precedenza disturbo della personalità multipla) è costituito dall’esistenza di personalità (alterazioni dell’identità) differenti e disgiunte nella stessa singola persona. Numerosi studi evidenziano che, come detto anche precedentemente, trauma e dissociazione sono collegati tra loro. Janet (1889) parlò per primo, infatti, di “désagrégation” come l’indebolimento dell’abilità di sintetizzare delle diverse funzioni mentali (sensazioni, ricordi, cognizioni e affetto) con il subentro del trauma. Ciò vuol dire che sensazioni e ricordi venivano eliminati dalla coscienza. Freud, invece, volle parlare di “scissione” negli studi sull’isteria (1898) evidenziando come la scissione fosse nient’altro che repressione attiva (rimozione) alla generazione del sintomo. La ragione potrebbe essere, in questo caso, l’incongruenza dell’idea da eliminare con l’aggregato delle rappresentazioni dominanti dell’Io (differentemente da Janet che evidenziava il deficit dell’Io). Questo processo causa così una patogenesi (Martinotti et al. 2015; Siracusano et al., 2014).

Importante è sottolineare che, da un punto di vista psicoanalitico, la dissociazione è quindi un meccanismo di difesa con cui la persona conduce i conflitti emozionali mediante il mutamento delle funzioni della coscienza. Nella prospettiva cognitivo-evoluzionistica, invece, la dissociazione è la mancanza di collegamento tra i diversi ambiti della coscienza di sé-con l’altro. Ciò favorirà l’assenza di una regolazione fisiologica delle emozioni.

Per quanto riguarda la sintomatologia del disturbo, essa può manifestarsi all’improvviso, con l’evidenza che non vi siano collegamenti tra le differenti personalità. Quando avviene l’episodio dissociativo si hanno delle sensazioni corporee estranee, accompagnate da un eccessivo stato d’ansia e da sensazioni di deformazione corporea. Si provano anche vertigini, preoccupazioni somatiche, alterata percezione del tempo, paura di impazzire e continue rimuginazioni sul proprio status. Si aggiungono anche depressione, ansia e pensieri suicidari, incapacità di affrontare situazioni di stress, sia emozionale che lavorativo, stress e problemi relazionali, identità confusa, percezione distorta di ciò che ci circonda, senso di separazione da sé stessi o dalle proprie emozioni e perdita di memoria selettiva (Martinotti et al. 2015; Siracusano et al., 2014).

Le diverse forme del disturbo dissociativo dell’identità

Vi sono inoltre due tipi di dissociazione con differenti sintomatologie: forma di possessione e forma di non possessione. La forma di possessione si distingue poiché le personalità multiple sono evidenti ai familiari e alle altre persone; le personalità sono infatti completamente differenti tra di loro. Nella forma di non possessione, invece, le molteplici personalità non sono evidenti, anzi il soggetto prova sensazioni di irrealtà e di distacco del proprio sé. Sente di perdere il controllo del proprio agire e di essere soltanto osservatore della sua vita.

L’epidemiologia indica che il 5% dei pazienti psichiatrici viene colpita e che tale disturbo è più diffuso nel genere femminile.

Le possibili cause del disturbo dissociativo dell’identità

Possibile causa potrebbe essere l’influenza di più fattori come i molteplici episodi di stress elevato, la fissazione difensiva alle normali tappe evolutive e i traumi psichici ripetuti. Altri fattori potrebbero essere quelli genetici poiché uno studio su coppie di gemelli monozigoti e dizigoti ha sottolineato che la causa di tale disturbo sia la predisposizione genetica, indipendentemente dal contesto. Inoltre possono aggiungersi anche fattori biologici poiché il processo di neurosviluppo può essere compromesso davanti ad un fenomeno traumatico a causa del rilascio di fattori neurochimici. In ultimo si parla di fattori ambientali come la causa di un disturbo dissociativo poiché, come hanno affermato varie teorie psicologiche, la dissociazione è una difesa della mente di fronte ad eventi traumatici. Il 50% dei pazienti psichiatrici è stato vittima di maltrattamenti ed episodi di abusi fisici e sessuali in età infantile (Martinotti et al. 2015; Siracusano et al., 2014).

Quando il disturbo non viene trattato in modo giusto, l’evoluzione della dissociazione diventa cronica e spesso con mancanza di remissione spontanea.

Comorbilità e disagnosi differenziale per il disturbo dissociativo dell’identità

La Comorbilità: solitamente nel campione clinico di pazienti con disturbo dissociativo si rileva anche la presenza di disturbi dell’umore, disturbo di somatizzazione, disturbo ossessivo-compulsivo, schizofrenia e disturbo da stress post-traumatico.

Diagnosi differenziale: il disturbo spesso potrebbe essere confuso con un disturbo psicotico poiché le voci interne vengono scambiate per pseudoallucinazioni; la perdita di controllo, invece, è scambiata per segni del disturbo formale del pensiero. Altra diagnosi differenziale può essere fatta con il disturbo post traumatico, poiché spesso persone con disturbo post traumatico hanno anche un disturbo dissociativo, ma è indispensabile cercare quei sintomi che non ci sono in un paziente con post-trauma come ad esempio intrusioni disgregative a causa della dissociazione degli stati del sé, cambiamenti a causa delle varie personalità, amnesie per vari giorni. Anche i disturbi convulsivi possono essere confusi poiché i soggetti con disturbo dissociativo hanno spesso sintomi simil-convulsivi e crisi parziali complesse. Inoltre si aggiungono i disturbi di conversione, amnesia dissociativa e disturbo di derealizzazione e depersonalizzazione (momenti di irrealtà e di estraniamento dall’ambiente e momenti in cui si assume il ruolo di osservatore esterno ai propri pensieri e sensazioni) (Martinotti et al., 2015; Siracusano et al., 2014).

Trattamento per il disturbo dissociativo dell’identità

In conclusione bisogna capire come trattare tale disturbo. È indicato un trattamento farmacologico (inibitori selettivi della ricaptazione di serotonina- SSRI e betabloccanti), ma soprattutto di tipo psicoterapico, ovvero mediante l’approccio psicodinamico che permette la possibilità di unire le parti scisse garantendo una sola personalità e un miglior funzionamento integrato. L’obiettivo è far conoscere le varie identità tra loro, l’una con l’altra, accettandosi come parti legittime del sé e negoziando per risolvere i loro conflitti (Siracusano et al., 2014, Martinotti et al., 2015).

Oltre alla psicoterapia individuale, i pazienti possono scegliere la terapia dialettico-comportamentale DBT (Linehan, 1993a, 1993b), la desensibilizzazione e rielaborazione mediante i movimenti oculari (EMDR; Shapiro, 2001), la psicoterapia sensomotoria (Ogden et al., 2006), le terapie di gruppo.

 

“Cartoline in tempo surreale”. La fantasiosa realtà di un progetto – Recensione

Il progetto che ha portato alla pubblicazione del libro Cartoline in tempo surreale. Messaggi dallo spazio allontanato nel pieno corso della pandemia ha mirato a creare un’alternativa al silenzio siderante cui la malattia ha costretto e continua a costringere.

 

Se c’è una cosa che la pandemia non è riuscita a toglierci è la capacità di reinventarci. La pressione con cui siamo stati spinti a modificare tutte le nostre abitudini, e a crearci nuovi stili di vita, ha trovato un fido alleato in quella flessibilità di pensiero che spinge all’adattività, e crea vie d’uscite anche dove sembra difficilissimo trovarne. La fantasia, relegata con eccessiva fretta come un fattore ludico ad esclusivo appannaggio dei bambini, ci ha aiutato a portare a termine imprese all’apparenza insostenibili, facendo nascere un flusso di idee a loro volta produttive e generative di opportunità.

Al contempo, l’impossibilità di uscire ci ha spinto verso l’indagine del nostro universo interiore. Così come il divieto di andare avanti ha disegnato la traiettoria di un viaggio a ritroso, alla riscoperta di gesti ed abitudini che ci sono parsi all’improvviso un’utile alternativa all’immobilità assoluta.

Alla luce di ciò, possiamo chiederci legittimamente se si sia trattato davvero di una regressione. O se magari, questo scartabellare tra le dimensioni più intime del Sé, si sia rivelato il segnale di una crescita interiore, il passo avanti verso la conquista di nuovi significati di vita. Forse era necessario fermarsi un po’. Al di là della pandemia. E fare luce laddove per troppo tempo ci siamo illusi di poter vedere anche al buio.

Da cartoline a libro: la “magia” di un processo trasformativo

Sembra questo l’intento del progetto attuato da Lavinia Fagiuoli e Maddalena Giusto, nel pieno corso della pandemia: creare un’alternativa al silenzio siderante cui la malattia ha costretto e continua a costringere, lasciando al contempo tracce vive e suggestive di tutte quelle emozioni che, vittime di un isolamento forzato, non hanno potuto essere comunicate, condivise, simbolizzate.

Ogni elemento di questo progetto appare insolito, curioso, quasi incredibile: a partire dal titolo, che catapulta da subito in una dimensione in cui il contatto con la realtà non è così prioritario.

Cartoline da un tempo potenziale – messaggi da uno spazio allontanato: una presa di coscienza, o forse di posizione, da parte delle autrici, che, in una sorta di avvertimento comunicano al lettore ciò a cui si stanno approcciando, spingendolo a non aspettarsi nulla di canonico e ordinario, in una situazione in cui il concetto stesso di normalità si è notevolmente relativizzato.

Il risultato è uno scenario frammentato, delimitato da contorni spazio-temporali fortemente diluiti; un luogo arcaico e indefinito in cui i legami sociali si sono dispersi, e l’unico modo per raggiungersi reciprocamente è stabilire un contatto a distanza.

Per riuscire ad iconizzare questo paesaggio interiore, a sua volta riflesso di una realtà esterna disintegrata, le ideatrici del progetto hanno scelto di realizzare una vera e propria cartolina, con tanto di messaggio e rappresentazione grafica di un luogo ipotetico da cui si vuol mandare un saluto, o forse una semplice traccia di Sé, a destinatari altrettanto generici.

L’esperimento, nato come uno dei tanti mezzi creativi con cui infrangere la solitudine imposta dall’esilio pandemico, si è infine sistematizzato, assumendo i contorni di un autentico piano di lavoro: è così che le cartoline sono state prodotte ad intervalli regolari, e il gioco in cui le autrici si sono improvvisate postine di una realtà parallela, ha trovato accoglienza all’interno di un libro che ne raccoglie i frammenti in una funzione “contenitiva”. 26 cartoline in tutto, con un’ultima aggiunta, ad uso e consumo del lettore: la presenza di due cartoline vuote – da riempire ed inviare liberamente al destinatario di preferenza. Ulteriore contributo che va a consolidare l’intento comunicativo – relazionale alla base del progetto.

Dal particolare al collettivo: il senso corale al di là del sé

Le cartoline raffigurate nel libro si presentano come schegge di una realtà sincretica, anomala, in cui nulla è consueto: a partire dal contenuto verbale, che non è certo il classico saluto che ci aspettiamo di trovare sul retro di un souvenir di viaggio. Si tratta piuttosto di messaggi estemporanei, disgiunti l’uno dall’altro; voci stridenti, brevi, salienti, e per questo ancor più suggestive. Sono scorci di emozioni, affetti condensati che cercano disperatamente di uscire da se stessi per raggiungere la dimensione dell’alterità: a volte lo fanno per trasmettere speranza, altre volte sono tinti di tristezza ed impotenza, in altre occasioni hanno il sapore di una provocazione, strali sarcastici che raggiungono il lettore colpendolo al cuore, con la loro punta affilata. Alcuni risuonano come espressioni di saggezza dal valore metaforico, pronunciate per dare coraggio, letteralmente, a quanti credono di non farcela. Altri emergono da un silenzio arcaico come inviti alla riflessione, altri testimoniano la voglia di ricominciare.

In alcuni possiamo percepire l’amarezza di un rimpianto, la nostalgia di un ricordo, il rammarico di un congedo o il dolore per uno sbaglio a cui non si può rimediare, e al quale, in fondo, avremmo dovuto pensare prima. Sono domande, valutazioni, consigli, talvolta persino sfrontati, tanto appaiono diretti e lapidari; si presentano definiti ma mai completamente saturi: chiunque avrebbe potuto scriverli, chiunque può riconoscersi in essi e dar luogo a quella risonanza emotiva che spinge a condividere il dolore per renderlo meno inaccettabile. Meno distruttivo. È un affascinante collage di emozioni. Un insieme di verità individuali che assumono un respiro inevitabilmente collettivo, in cui la dimensione puramente privata viene travalicata da un intento corale, quasi archetipico, che traspare nell’intera opera.

È grazie a questo aspetto universalizzante se al termine della lettura si percepisce un’impressione globale di simmetria, quasi di ordine logico-sequenziale. Come se questo esperimento grafico narrativo – nato all’ombra di un colorato guazzabuglio di intenti e contenuti- riuscisse a mettere in ordine dimensioni caotiche, selvagge, pericolosamente alimentate da una contingenza traumatica.

La pandemia ha avuto l’effetto paradossale di metterci a nudo, pur costringendoci a mascherarci. E in questa sottrazione di identità ci ha spinto a ritrovare noi stessi, in un fantasioso quanto necessario viaggio condotto nelle profondità endopsichiche. Dove queste frasi giacevano, probabilmente da tempo immemore, e che la solitudine pandemica ha solo aiutato ad emergere. Parole letteralmente gridate, dal profondo di quello spazio allontanato preannunciato nel titolo, che a ben pensarci risuona come lo spazio potenziale di cui parlava Winnicott (1960) in cui è il gesto spontaneo, la verità del Sé più autentico ad avere la meglio sulle falsità dell’apparenza.

In questo scenario improbabile, eppure così drammaticamente realistico, anche il confine dicotomico tra realtà e fantasia diventa incerto, dando vita ad uno spazio di confine, una terra di mezzo in cui è possibile trovare rifugio ed evacuare angosce disintegranti. Una sorta di ventre psichico, di holding materno, dall’innegabile valore salvifico.

Il provocatorio surrealismo della grafica

L’omaggio alla nudità emozionale da cui l’opera trae ispirazione si riflette anche nel suo aspetto grafico, simile al riflesso di un contesto “disintegrato” in cui la realtà ha perduto ogni potere, perché sconfitta da una fantasia impetuosa che consente di simbolizzare flussi emotivi altrettanto irruenti. Un po’ come avviene nei disegni dei bambini, ove l’elemento realistico risulta sopraffatto da un intento sensoriale, un senso di onnipotenza narcisistica che aiuta a controllare le angosce di un mondo sconosciuto e minaccioso.

Le immagini, icastiche sebbene non collegate al contenuto specifico dei messaggi, trasportano in un altrove immaginario che consente di rimanere aggrappati ad una parvenza di realtà e di fendere un silenzio schizoide; al contempo, l’energia pulsionale trova la propria gestalt in un disegno consapevolmente “provocatorio”, in cui le componenti razionali vengono totalmente ignorate: compaiono donne che cavalcano pistole o si arrampicano su bicchieri da cocktail, uomini che nascondono la testa sotto il pavimento, figure indefinite in sella ad un tappeto volante, conigli che escono dal cilindro.

Il realismo visivo viene superato dalla forza di una pulsione emotiva pressante, per certi aspetti aggressiva, di cui si riconoscono i tratti nelle linee spezzate, negli angoli duri e gutturali, nelle simmetrie totalmente scomposte, nelle dimensioni non rispettate, nelle proiezioni ignorate. Gli stessi colori non sembrano voler dar conto di una realtà attendibile, ma di un paesaggio interiore in cui l’elemento cromatico è soltanto l’espressione di uno stato d’animo. Un’emozione che nell’elemento grafico trova canale espressivo immediato, e che col suo variegarsi multiforme riesce a fendere il grigiore indifferenziante imposto dalla pandemia. Per ricordare che al di là di un vuoto apparente esistiamo ancora, e siamo uno diverso dall’altro.

Il disegno si rivela nuovamente un mezzo utile ad “addomesticare” emozioni disregolate ed esteriorizzare paure amorfe che rischierebbero di annichilire. Ma è soprattutto un mezzo per fondersi e confondersi con l’altro, nella consapevolezza che la comunicazione del proprio vissuto interiore è lo specchio di un afflato relazionale necessario alla sopravvivenza.

Il senso del progetto

Per quanto la pandemia abbia costretto all’isolamento, dunque, non è possibile rassegnarsi. Il bisogno di raggiungere l’altro non cessa di mostrarsi prioritario, insostituibile. Le ideatrici del progetto lo hanno sapientemente ribadito, quasi gridato, oltretutto avvalendosi di un mezzo di comunicazione in disuso come la cartolina, ormai rimpiazzata dalla ben più “scattante” messaggistica virtuale e telefonica.

Ma non c’è da stupirsene. Anche questo ritorno al passato è l’effetto di una regressione progressiva che ci ha spinto nelle soffitte delle nostre abitazioni, così come nei meandri più oscuri dell’inconscio, alla ricerca di vecchi oggetti dimenticati, e di pulsioni rimosse. Memorie arcaiche che da tempo anelavano di emergere dall’oblio.

Ovvio come alla fine sembri riduttivo chiamarle soltanto cartoline. Le pagine che compongono questo libro sono in realtà esperienze di vita grondanti di emozioni. Sono resilienze d’emergenza in cui chiunque può rispecchiarsi; sono le ricchezze inattese e più autentiche del Sé, in grado di infrangere un silenzio psicotico che rende tutto pericolosamente uguale. Sono souvenirs di un viaggio interiore che la pandemia ha incidentalmente provocato, ma che sarebbe interessante continuare anche nel periodo post Covid, per dar voce alle nostre dimensioni più intime, troppo spesso inascoltate.

Stabilire un flusso relazionale continuo con il Sé e con l’altro è ciò di cui abbiamo bisogno. Nella speranza che non ci voglia un’altra pandemia per capirlo; questo progetto si premura di ricordarlo e lo fa con onestà di intenti, regalando un prezioso senso di equilibrio in un mondo provvisoriamente senza gravità. Potremmo chiamarlo un esperimento di fantasia incredibilmente realistico. Cartoline di cui tutti ci troviamo “lusingati” destinatari.

 

Il decorso del disturbo di panico nel periodo peripartum/post-partum

Il disturbo di panico (DP) è uno dei disturbi psichiatrici più diffusi e invalidanti, le cui stime di prevalenza sono doppiamente superiori nel genere femminile, rispetto a quello maschile (Jacobi et al., 2015).

 

L’età d’insorgenza del disturbo di panico si colloca mediamente prima o durante gli anni riproduttivi (età media: 30,3 anni; nel range 26,1-34,6). Pertanto, l’indagine del decorso del disturbo di panico durante il periodo peripartum e il relativo impatto sullo sviluppo del figlio costituisce un obiettivo di ricerca di primaria importanza (Martini et al., 2020). Precedenti studi hanno mostrato che il decorso del disturbo di panico peripartum è variabile: alcuni hanno riscontrato una diminuzione dei sintomi o tassi piuttosto bassi (Bandelow et al., 2006; Hertzberg e Wahlbeck, 1999; Klein et al., 1994; Northcott e Stein, 1994), mentre altri hanno riportato peggioramenti o alterazioni del disturbo (Cohen et al., 1994; Griez et al., 1995; Wisner et al., 1996). Ulteriori dati suggeriscono esiti eterogenei anche durante il periodo post-partum: riduzione della sintomatologia, andamento stazionario o esacerbazione del disturbo (Cohen et al., 1996).

Gli attacchi di panico possono implicare l’esposizione del feto agli ormoni dello stress: i figli di genitori con disturbo di panico, infatti, presentano un maggior rischio di sviluppare un disturbo d’ansia (Yonkers et al., 2017). È emerso, inoltre, che i figli di madri con disturbi d’ansia tendono a manifestare livelli più elevati di attaccamento insicuro (Kraft et al., 2017). Comportamenti genitoriali specifici (ad es. manifestazioni di ipercontrollo/rabbia, ipo-iper vicinanza emotiva) sono stati collegati a livelli più elevati di ansia nel bambino (Drake e Ginsburg, 2012;), ma solo pochi studi hanno indagato il comportamento genitoriale nelle madri con disturbo di panico prima che i bambini sviluppassero una psicopatologia manifesta (Warren et al., 2003).

Nel complesso, dalla letteratura precedente sul tema, non è possibile trarre conclusioni valide sul decorso del disturbo di panico nel periodo peripartum, motivo per cui il seguente estratto si focalizza su uno studio prospettico longitudinale che confronta specificatamente gli esiti di donne con disturbo di panico peripartum con quelli di altre senza sintomatologia ansiosa e/o depressiva (Martini et al., 2020). Dallo studio sono emerse differenze riguardanti: gli esiti gestazionali, la durata dell’allattamento al seno, lo stile genitoriale e i disturbi regolatori nei neonati. In linea con altri studi che hanno riportato uno sviluppo variabile del disturbo di panico, durante il periodo peripartum (Northcott & Stein, 1994), anche in questo studio sono stati osservati decorsi eterogenei. La maggior parte dei casi di disturbo di panico è stata identificata durante le prime fasi della gravidanza e un numero relativamente basso di donne ha riferito sintomi da disturbo di panico dopo il parto.

Una caratteristica peculiare dello studio in questione è stata il reclutamento di partecipanti già durante il primo trimestre di gravidanza: periodo spesso mancante in studi precedenti (Martini et al., 2020). Si può presumere che i cambiamenti fisici legati alla gravidanza, l’adattamento del sistema cardiovascolare e le sensazioni corporee associate possano assumere la valenza di stimoli interocettivi che provocano attacchi di panico durante questo periodo (Winkel et al., 2015). A tal proposito, il disturbo di panico durante la gravidanza risulta essere piuttosto transitorio nella maggior parte dei casi, al contrario molteplici donne con disturbo di panico peri-partum hanno presentato un decorso persistente con attacchi di panico frequenti dopo il parto. In merito al rapporto diadico madre-bambino, in linea con studi precedenti, è emerso che le mamme con disturbo di panico post-partum hanno più frequentemente riportato un legame caratterizzato da attivazioni rabbiose e da un’educazione più rigida e strutturata, rispetto ad altre donne senza sintomatologia ansiosa (Asselmann et al., 2018). Questi fattori implicano spesso maggiori livelli di ansia infantile e possono essere cruciali per la trasmissione familiare dei disturbi d’ansia (Drake e Ginsburg, 2012). Infine, le donne con disturbo di panico post-partum hanno riportato una durata minore della fase di allattamento al seno, rispetto alla tempistica raccomandata di 6 mesi (WHO, 2018). Pertanto, in questi casi, sarebbe necessaria un’assistenza specifica per poter mantenere l’allattamento al seno (Martini et al., 2020).

Nel complesso, i risultati di questo studio sono in linea con i risultati di Warren e colleghi, secondo cui le madri con disturbo di panico mostrano comportamenti genitoriali (es. manifestazioni di attivazioni rabbiose/ansiose) che potrebbero essere associati ad avversità precoci nei figli. Infatti, i bambini di madri con disturbo di panico hanno maggiormente mostrato problemi regolatori (Warren et al., 2003), i quali possono essere percepiti come fattori di rischio per una successiva psicopatologia (Hemmi et al., 2011). Tali comportamenti genitoriali disfunzionali possono risultare particolarmente problematici in combinazione a vulnerabilità avverse dello sviluppo neurologico (prematurità, basso peso alla nascita ecc.), quando si identificano bambini con alto rischio di esordio psicopatologico (Bilgin e Wolke, 2017). In conclusione di tale estratto, è possibile evidenziare il ruolo cruciale di un’adeguata diagnostica, psicoterapia e psicofarmacoterapia durante il periodo peripartum e post-partum (Martini et al., 2020). Gli specialisti dovrebbero valutare approfonditamente la storia psichiatrica delle pazienti, per poter adeguatamente rilevare un eventuale disturbo di panico durante il periodo peripartum o post-partum. A tal proposito, risulta, però, doveroso ribadire che una corretta diagnosi di disturbo di panico peripartum viene spesso complicata dalla sovrapposizione clinica tra i sintomi del panico e quelli fisiologici della gravidanza (es: mancanza di respiro, sensazione di svenimento, nausea ecc.). Una recente revisione di Marchesi et al., ha riportato che la terapia cognitivo-comportamentale, congiunta al trattamento farmacologico a base di inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), costituisce il trattamento di prima linea per ottenere miglioramenti significativi del disturbo di panico in gravidanza e nel periodo post-partum (Marchesi et al., 2016).

 

Un concetto base della psicologia sociale: l’anticipazione degli eventi – II Parte

Studiando come gli individui costruiscono le proprie previsioni degli eventi, la psicologia ci permette di identificare e tentare di compensare molti di quegli errori che facciamo quando facciamo previsioni.

Ndr – Il presente articolo è il secondo di una serie di due articoli sul tema dell’anticipazione degli eventi. Il primo contributo è stato pubblicato il 26 Ottobre 2021 su State of Mind

 

Tentare di prevedere un evento futuro, il proprio comportamento o altrui è una costante del nostro quotidiano. Molte professioni fanno della previsione di scenari futuri la propria attività fondamentale oppure si basano su di essa come punto di riferimento per prendere decisioni da implementare nel presente(ad esempio l’economia, la meteorologia, la psicologia forense, la clinica medica). Questo tipo di attività, di fatto, è presente a molti livelli della condotta umana.

Studiando il modo in cui gli individui costruiscono le proprie previsioni degli eventi, la psicologia ci permette di identificare e tentare di compensare molti di quegli errori che facciamo quando tentiamo di visualizzarci scenari futuri.

Nell’articolo precedente abbiamo visto che il processo di previsione può essere descritto nei termini della costruzione di simulazioni mentali di scenari futuri, basate sull’informazione che l’individuo possiede e/o estrapola dall’ambiente (Dunning, 2007). Abbiamo anche visto che tali simulazioni sono soggette ad alcuni errori di base. Dal punto di vista dei risultati le nostre previsioni tendono ad essere troppo ottimistiche oppure tendiamo a farvi eccessivo affidamento. Dal punto di vista del processo mentale con cui le costruiamo, poi, abbiamo visto come: tendiamo a fare previsioni troppo astratte anziché basate su aspetti concreti (‘l’esame andrà bene’ vs ‘all’esame prenderò tra il 25 e il 27’); tendiamo a trascurare i risultati principali delle nostre previsioni trascurando le alternative (‘cosa farò quando sarò promosso?’ vs ‘cosa farei se invece venissi bocciato?’); tendiamo a focalizzarci su aspetti ottimistici trascurando quelli pessimistici (‘l’esame andrà bene e risponderò in modo completo a tutte le domande’ vs ‘forse potrei non essere preparato su alcune domande’); tendiamo, confrontando due o più eventi possibili, a focalizzarci sugli aspetti che hanno in comune piuttosto che sulle differenze; tendiamo, infine, a focalizzarci sull’evidenza a favore delle nostre previsioni trascurandone l’affidabilità (‘ho visto dei puntini nel cielo: sicuramente sono UFO’).

I limiti nelle previsioni

A questi limiti già visti se ne aggiungono altri. Gli scenari che ci costruiamo, infatti, possiedono un limite intrinseco: non ci è possibile ottenere tutte le informazioni che ci servono per valutare a pieno una situazione, come anche non siamo in grado di prevedere ogni singola eventualità possibile. Le situazioni possono evolversi in modi potenzialmente infiniti, e non potremmo avere mai il tempo né i mezzi per ottenere tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno per creare una perfetta previsione del futuro, come anche prevedere ogni singolo scenario possibile. Gli esseri umani però, si sa, sono contraddittori, e quindi crediamo che le previsioni che facciamo siano perlopiù complete e valide (Griffin & Ross, 1991) anche se, in effetti, il futuro potrebbe presentarsi in modi molto diversi da quelli che ci immaginiamo, come forse abbiamo già sperimentato personalmente in alcune occasioni.

In questo articolo verrà mostrato brevemente un altro limite particolarmente interessante e che ci riguarda da vicino, forse più di tutto il resto, poiché ha a che fare con le nostre emozioni; verranno, infine, mostrati alcuni metodi che possiamo utilizzare per rendere le nostre previsioni sul futuro un po’ più accurate e affidabili (anche se non serve essere scienziati per sapere che il futuro non lo conosce nessuno).

Chi è particolarmente ansioso sa bene quanto l’anticipazione delle emozioni che potrebbero essere sperimentate nelle situazioni future possa essere una fonte di disagio, fino anche all’incapacità di funzionare anche nelle circostanze più banali. In parte questi effetti sono legati alla nostra difficoltà di prevedere con accuratezza gli stati emotivi che sperimenteremo nel futuro. Tendiamo, infatti, a sovrastimare l’impatto emotivo che un evento avrà su di noi (ad esempio pensando a come ci sentiremo bene dopo aver preso un voto alto, Buehler & McFarland, 2001), la durata del nostro stato emotivo in relazione ad un evento (ad esempio quanto tempo durerà la mia gioia se la mia squadra del cuore dovesse vincere; Wilson, Wheatley,Meyers,Gilbert & Axsom, 2000), come anche, infine, l’impatto delle emozioni che viviamo sulle nostre azioni successive e sulle nostre preferenze (Van Boven & Loewenstein, 2003).

Non siamo in grado di prevedere in maniera accurata neppure in che modo la soddisfazione di aver mangiato uno snack influisce sui nostri processi decisionali (Read & van Leeuwen, 1998). Pensare, quindi, di essere in grado di prevedere come uno stato emotivo intenso possa influenzare i nostri pensieri, comportamenti e decisioni successive sembra perciò un’impresa poco realistica, più difficile di quanto non ci sembri ad un primo sguardo dato che, spesso, diamo per scontata la conoscenza completa del nostro proprio mondo interiore.

Come rendere le previsioni più accurate

La domanda che sorge spontanea a questo punto è: ‘Considerati tutti questi limiti alla nostra capacità di leggere nel futuro, come possiamo, se non rimediarvi completamente, almeno rendere le nostre previsioni un po’ più realistiche e più accurate?’.

Dunning (2007) ci fornisce alcuni consigli:

  • Anziché focalizzarci solo sulle circostanze che ci porterebbero ai risultati che desideriamo, prestare attenzione e tempo alla presenza di circostanze che invece potrebbero impedircelo;
  • Oltre a considerare solo le circostanze che hanno un impatto diretto sui risultati che desideriamo, consideriamo anche in che modo le situazioni quotidiane potrebbero facilitare o impedirci la realizzazione di essi;
  • Adottiamo una visione ‘da fuori’ (Kahneman & Lovallo, 1993), considerando la situazione oggetto della nostra analisi come una delle tante situazioni con caratteristiche simili, e consideriamo le possibili conseguenze delle nostre scelte a partire da tutte le diverse situazioni, simili per certi versi e diverse per altri, che riusciamo a considerare;
  • Possiamo ‘riparare cognitivamente’ le nostre previsioni (ad esempio Epley & Dunning, 2006), considerando scenari futuri in chiave maggiormente pessimistica, oppure chiederci quanto, in effetti, le nostre previsioni siano affidabili. Ciò dovrebbe renderle maggiormente realistiche (Heath, Larrick & Klayman, 1998);
  • Se ci è possibile, infine, potremmo rilevare le previsioni di più persone, aggregarle e farne, anche intuitivamente, una ‘media’, che dovrebbe così eliminare l’errore sistematico insito nelle previsioni dei singoli individui (ad esempio Einhorn, Hogarth & Klempner, 1977).

Vorremmo che le nostre decisioni fossero sempre corrette. Vorremmo avere sempre ragione. Vorremmo essere infallibili e prevedere con esattezza cosa ci accadrà nel futuro, cosa faranno gli altri, cosa potrebbe succedere. Lo facciamo tutti e lo facciamo tutti i giorni. La psicologia non può correggere la fallibilità della nostra natura umana (e quindi delle nostre previsioni), ma può fornirci gli strumenti per comprendere meglio dove sbagliamo e dove possiamo, se non correggerci, almeno migliorare, e rendere attuale il nostro potenziale per fare scelte migliori e, si spera, vivere anche una vita più soddisfacente.

 


UN CONCETTO BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ANTICIPAZIONE DEGLI EVENTI – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

 

La morte in terapia

Il timore della morte è un pensiero ricorrente che tende a ossessionare ognuno di noi per tutto il corso della vita, riversandosi sulle nostre fantasie e i nostri incubi.

 

Come uomini erigiamo difese, basate sulla negazione, al fine di affrontare la dura consapevolezza che la fine è ineluttabile.

Ne Il dono della terapia (2014), lo psicoterapeuta Irvin Yalom evidenzia come la morte sia presente in ogni percorso di terapia, sebbene molti terapeuti evitino intenzionalmente la discussione diretta della morte, trasmettendo implicitamente il messaggio che sia troppo terribile per parlarne o sia un tema inutile in terapia. In realtà, la prima buona ragione per cui dovremmo affrontare questa delicata tematica risiede nell’essenza stessa della terapia, quale esplorazione profonda ed esaustiva del corso e del significato dell’esistenza umana, all’interno della quale la morte ricopre un ruolo centrale.

“Sebbene la morte fisica ci distrugga, l’idea della morte può salvarci”: è questo il messaggio, semplice quanto profondo, da veicolare, secondo Irvin Yalom.

Molte grandi opere letterarie contengono un significato simile. Yalom riporta come, alla maggior parte degli operatori di salute mentale che si occupano di pazienti vicini alla morte, sia stato consigliato, durante la loro formazione, di leggere il racconto di Tolstoj «La morte di Ivan Il’ič»:

Ivan Il’ič, un meschino burocrate ormai agonizzante, si imbatte in un’intuizione sorprendente proprio alla fine della vita: si rende conto che muore male perché ha vissuto altrettanto male. La sua intuizione produce un grande cambiamento personale, e negli ultimi giorni la vita di Ivan Il’ič si riempie di una pace e di un significato mai raggiunti prima (p.102).

Esempi simili sono rintracciabili in Guerra e pace, dove Pierre, il protagonista, vive un cambiamento profondo dopo che la sua fucilazione viene sospesa all’ultimo secondo; nel Canto di Natale di Dickens, nel quale la trasformazione del vecchio protagonista Scrooge avviene quando lo spirito del futuro gli concede di essere testimone della propria morte e di vedere degli estranei azzuffarsi per accaparrarsi i suoi beni.

Galimberti rimarca come la morte non abbia una propria voce ma si esprima a partire da mediazioni culturali perché è sempre la cultura a interpretarne il senso. Egli descrive come il concetto di essere mortale sia radicato nella cultura greca, in base alla quale l’essere umano definisce sé stesso a partire dalla morte, intesa come la fine di tutto. A tal proposito, Galimberti evidenzia come l’essere umano sia qualificato dai greci “brotos” ossia mortale, e infatti Omero non utilizza mai il termine anthropos (uomo) nelle sue opere, ma narra le imprese dei “mortali”.

La morte nella cultura greca

È interessante osservare come, per i Greci, “la gioia della vita è resa possibile dalla crudeltà della morte, per cui il dolore e la morte non sono qualcosa che è capitato alla vita in seguito a una caduta o a una colpa, come nella tradizione giudaico-cristiana, ma sono intrinseci alla vita stessa come condizioni del suo accadere” (Galimberti, 2012).

In altre parole, i Greci hanno colto la circolarità della vita con la morte, la felicità e la gioia della vita inseparabile dal dolore e dalla morte, come termine ultimo e ineludibile.

Consapevoli del ciclo naturale dell’esistenza, i Greci riescono a elaborare risposte attive all’inevitabilità della fine; infatti, Galimberti sottolinea come, per i Greci, dal dolore per l’ineluttabilità della legge di natura nascano due importanti forme di resistenza, che sono il sapere, che consente di evitare il male evitabile, e, soprattutto, la virtù cioè la forza e il coraggio di vivere pienamente, al di là delle avversità (Galimberti, 2005). Dalla consapevolezza della morte, quindi, deriva la volontà di accrescere e potenziare la vita: è questa l’essenza della tragicità greca, un lascito prezioso da cogliere e far proprio.

La morte come parte dell’esistenza umana

Dal punto di vista filosofico, Yalom (2014) riporta il pensiero del tedesco Heidegger, il quale nella sua celebre opera Essere e tempo analizza le due modalità principali dell’esistenza: l’esistenza inautentica e l’esistenza autentica. La prima è l’esistenza quotidiana, monotona, nella quale l’uomo si lascia catturare e distrarre dal mondo, cadendo nel conformismo, in quanto incapace di essere propriamente sé stesso. L’esistenza autentica, invece, costituisce l’esperienza umana della libertà, nella quale l’uomo non fugge da sé stesso, non si conforma acriticamente agli schemi impersonali della società, ma si rivela per quello che propriamente è.

Quando viviamo la nostra vita in modo autentico, al di là delle preoccupazioni e chiacchiere di ogni giorno, liberi di esprimerci per ciò che propriamente siamo, entriamo in uno stato di particolare ricettività per un cambiamento personale. Solitamente, il passaggio dal modo di vivere quotidiano al modo autentico di vivere avviene attraverso le cosiddette «esperienze di confine», cioè episodi urgenti che ci scuotono via dalla bieca «quotidianità» e inchiodano la nostra attenzione sull’«essere» in sé. È bene sottolineare che il confronto con la propria finitudine – e quindi con la propria morte – costituisce l’esperienza di confine più potente, che apre alla possibilità di un cambiamento personale nel corso della terapia.

La morte e l’esperienza del lutto

Generalmente, ogni percorso terapeutico è costellato di esperienze che possono rimandare alla tematica della morte e della perdita, come il lutto di una persona cara.

Secondo Yalom (2014), la morte dell’altro è un’esperienza di confine la cui potenzialità è sfruttata troppo raramente nel processo terapeutico, in quanto si tende a concentrarsi in modo esteso ed esclusivo sulla perdita, sulle questioni rimaste in sospeso nel rapporto, sul difficile distacco dal defunto per poi rientrare di nuovo nella corrente della vita; tutte questioni sicuramente importanti, ma che non dovrebbero distogliere l’attenzione dal fatto che la morte dell’altro possa servire come monito e occasione di confronto, netto e pregnante, con la nostra stessa morte.

Yalom sottolinea come sorgano molte opportunità per discorsi correlati alla morte nel corso di una terapia; infatti, la mortalità forma l’orizzonte di tutte le discussioni sull’invecchiamento, sulle fasi della vita e i relativi cambiamenti corporei, oltre che di molti momenti significativi della vita, come compleanni e anniversari, la partenza dei figli per l’università e il conseguente fenomeno del nido vuoto, il pensionamento, la nascita dei nipoti.

Conclusioni

In conclusione, il discorso – difficile, faticoso e scomodo – sulla morte consente di parlare del significato della vita, la cui ricerca continua ci fa spesso precipitare in profonde crisi di significato. Non a caso, Jung riferì che un terzo dei suoi pazienti lo consultava proprio per questo motivo.

Un esempio calzante è riportato da Yalom ne Il dono della terapia e riguarda uno dei più comuni accorgimenti utilizzati nel corso dei laboratori sperimentali volti a incoraggiare il discorso sul significato della vita: chiedere ai partecipanti che cosa sceglierebbero come epitaffio per la loro tomba.

 

Mens sana in corpore sano: l’effetto benefico dell’irisina muscolare nella malattia di Alzheimer

Una ricerca condotta dal team del Massachusetts General Hospital ha studiato come l’irisina, un ormone scoperto recentemente che viene prodotto dall’organismo durante l’esercizio fisico, abbia effetti benefici nel morbo di Alzheimer.

 

Fin dall’antichità, come testimonia il motto “mens sana in corpore sano”, è nota la relazione esistente tra esercizio fisico e salute mentale. Gli studi scientifici hanno dimostrato come l’attività fisica sia un fattore protettivo rispetto allo sviluppo delle demenze. (Kivipelto M., Mangialasche F., Ngandu T. 2018).

In modelli animali si è evidenziato che l’esercizio fisico stimola la sintesi di nuovi neuroni ippocampali e l’ippocampo è proprio una delle prime regioni celebrali colpite in caso di demenza (Smit JC., Nielson AN, Woodard JL. et al. 2014).

Una ricerca condotta dal team del Massachusetts General Hospital ha esaminato l’effetto a livello cerebrale  dell’irisina, un ormone, scoperto recentemente, prodotto dall’organismo durante l’attività muscolare. I ricercatori sono giunti alla conclusione che quest’ormone ha effetti protettivi nel morbo di Alzheimer (Islam MR., Valaris S., Young MF. et al. 2021).

L’irisina è una miochina, identificata nel 2012 dai ricercatori della Harvard Medical School, prodotta dal tessuto muscolare scheletrico in seguito alla sua attività, ha un’azione anabolica sul tessuto osseo aumentandone così massa e resistenza e rendendo l’osso più difficilmente soggetto a fratture.

Questa molecola ha inoltre effetti positivi sul metabolismo generale dell’organismo ed è in grado di convertire, grazie al meccanismo molecolare di browing, la cellula adiposa bianca in grigia favorendo il controllo dell’obesità (María L., Trujillo G.,  García D. et al. 2016).

Lo studio, pubblicato su Nature Metabolism dai ricercatori del Massachusetts General Hospital, parte dalla considerazione che l’irisina è presente anche a livello dell’ippocampo e nel liquido cerebrospinale (Islam MR., Valaris S., Young MF.  et al. 2021).

Gli autori hanno evidenziato, utilizzando un modello sperimentale animale, come una riduzione dell’irisina e del suo precursore a livello cerebrale, ottenuta con la delezione genetica dell’irisina, compromette nei topi il potenziamento della memoria a lungo termine e la memoria necessaria per il riconoscimento degli oggetti.  Aumentando, negli animali, i livelli di irisina ematica, i ricercatori hanno ottenuto un miglioramento delle funzioni cognitive ed una riduzione dei fenomeni di neuroinfiammazione.

La neuroinfiammazione gioca un ruolo importante nell’eziopatogenesi della malattia di Alzheimer. Il sistema immunitario riconosce le placche e gli ammassi neurofibrillari che si formano a livello cerebrale nell’Alzheimer, come delle alterazioni da combattere ed avvia contro di esse una reazione neuroinfiammatoria nel tentativo di neutralizzarle. Questa reazione ha inizialmente un ruolo protettivo ma il suo perdurare favorisce la progressione del morbo (Parbo P., Ismail R., Hassen VH. Et al.2011).

La diminuzione, generata dall’irisina, dei fenomeni neuroinfiammatori porta ad ipotizzare che quest’ormone possa avere effetti benefici, non solo nella malattia di Alzheimer, ma anche in altre malattie neurodegenerative e possa, in futuro, essere utilizzata come presidio farmacologico.

 

Le metafore di Moro – Recensione di “Le lingue impossibili” (2017) di Andrea Moro

Le lingue impossibili un testo breve ma denso, ricco di spunti, talvolta complesso dal punto di vista concettuale.

 

Andrea Moro, considerato il maggiore erede di Noam Chomsky, coniuga le competenze del linguista con quelle del neuroscienziato. Infatti, è professore di Linguistica generale presso la Scuola Universitaria Superiore di Pavia, dove ha fondato il centro di ricerca in Neuroscienze, epistemologia e sintassi teorica. È stato ordinario per circa 10 anni presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Tra le sue precedenti pubblicazioni, Breve storia del verbo essere (Adelphi 2010) e Parlo dunque sono (Adelphi 2012). L’ultima sua opera, Il segreto di Pietramala (La nave di Teseo, 2018), è un romanzo giallo in cui descrive le peripezie di un linguista francese che gira il mondo alla ricerca di lingue esotiche e che deve scoprire i misteri che si nascondono in un borgo isolato della Corsica, abbandonato da secoli. La forte cultura umanistica che possiede traspare anche dall’abbondante uso di metafore presenti nell’opera Le lingue impossibili pubblicata nel 2017 in Italia e successivamente tradotta all’estero. Si tratta di un testo breve (circa 120 pagine, se si escludono bibliografie e indice analitico) ma denso, ricco di spunti, talvolta complesso dal punto di vista concettuale.

In questo libro, viene esplorata l’esistenza delle lingue impossibili, alla ricerca dell’“impronta digitale” del linguaggio umano. La linguistica generale si è posta storicamente la questione di individuare le caratteristiche di una ipotetica grammatica universale, rintracciabile in tutte le lingue, che costituisca una sorta di lingua primordiale. Una grammatica generativa, per usare l’espressione di Chomsky. Ma perché si sono sviluppate tante lingue e non parliamo tutti la stessa lingua primordiale? Studiare quante sono, in linea teorica, le lingue possibili porta a chiedersi anche se possono esistere lingue impossibili, in quanto contrarie o non assimilabili  a tali principi generali. Esistono infatti una moltitudine di lingue, più o meno diverse, che condividono alcune regole strutturali essenziali tali da essere decodificate dal nostro cervello secondo dei codici preesistenti, ma non possono esistere un numero infinito di lingue, questa l’opinione di Moro, nel solco del paradigma chomskiano. Ciò pare dipendere da una necessità di economizzare che guida il nostro cervello e la nostra struttura biologica selezionando solo alcune delle informazioni possibili. Una lingua, studiata in una prospettiva esclusivamente fisica e non come codice, vive in due ambienti diversi: fuori del cervello, sottoforma di onde meccaniche d’aria rarefatta, ossia suono, e dentro il cervello, sotto forma di onde elettriche, ovvero il codice che i neuroni utilizzano per scambiarsi informazioni. Pertanto, chiedersi se può esistere una lingua impossibile è in realtà una domanda duplice: una domanda formale, che concerne le regole, e una domanda fisica, che riguarda la materia. Il libro prova a rispondere ad entrambe le questioni.

Di fatto, la questione si può riformulare in tal modo: le lingue devono essere considerate come una costruzione culturale, e quindi in un certo senso arbitraria, o sono una funzione delle proprietà del cervello, dotata di una base biologica? Moro propende per la seconda ipotesi. Ed in questo senso dobbiamo postulare le lingue impossibili, inconcepibili secondo il funzionamento della nostra mente, ovvero che non hanno la possibilità di essere riconosciute dalle nostre reti neuronali. Egli paragona la sintassi al rovescio di un arazzo, che rivela la struttura nascosta e una serie di intrecci non visibili a chi osserva solo la parte nota dell’arazzo, descrive il cervello come un setaccio ma ascolta anche il suono del pensiero attraverso la registrazione dell’attività elettrica encefalica.

Per spiegarci come possiamo comprendere e studiare il linguaggio Moro utilizza nella parte conclusiva del volume una sorprendente metafora con un quadro: l’autoritratto del pittore austriaco di età barocca Gumpp. Nell’opera, riprodotta nel libro, è raffigurato di spalle il pittore mentre dipinge con la mano destra su una tela il proprio ritratto, utilizzando uno specchio che tiene nella mano sinistra. Il quadro così mostra due volte il viso del pittore, che appare identico nello specchio e sul cavalletto, riproduzione dell’attore principale, che è di spalle e il cui viso possiamo solo immaginare. Per Moro, i due volti simboleggiano i due domini che possiamo osservare: le onde sonore e le onde elettriche, per comprendere ciò che ci sfugge: il linguaggio e soprattutto l’uso creativo che ne facciamo. Per quello che riguarda le onde elettriche, la ricerca di Moro utilizza anche le tecniche di neuroimaging, non a disposizione delle precedenti generazioni di linguisti. Tali ricerche mostrano che ci sono aree del cervello dedicate alla sintassi, che si attivano in risposta a un enunciato sintatticamente plausibile, ma privo di significato. Così come, quando si prova ad insegnare una lingua sintatticamente impossibile, si attivano altre aree cerebrali non collegate al linguaggio. Le radici del logos si confermano affondate nella sintassi e in alcune sue proprietà universali, che ricerche come quelle di Moro promettono di ancorare, in un futuro non troppo lontano, alla struttura neurofisiologica del cervello.

Concludo, riportando un’altra metafora accattivante di Moro: le lingue sono come fiocchi di neve, tutti diversi, ma con qualcosa in comune e non infinitamente diversi. E la natura ci ha dotati di una sorta di “setaccio irragionevole” (l’espressione, ancora una volta metaforica, è sempre di Moro) che seleziona ciò che è possibile da ciò che è impossibile, anche se non sappiamo ancora perché certe lingue sono concepibili ed altre no (ad esempio, perché non possa esistere la regola che una certa parola compaia sempre come quarta in ogni frase: regole simili non esistono in nessuna lingua reale).

 

Disturbo da uso di sostanze nella disabilità intellettiva e nel funzionamento intellettivo borderline

Il disturbo da uso di sostanze nella disabilità intellettiva lieve e nel funzionamento intellettivo borderline costituisce una condizione complessa e talvolta cronica.

 

Gli individui con disabilità intellettiva lieve (Mild Intellectual Disability, MID; quoziente intellettivo nel range 50-70) o con funzionamento intellettivo borderline (Borderline Intellectual Functioning, BIF; quoziente intellettivo nel range 70-85) sono riconosciuti, su scala mondiale, come una categoria a rischio per problematiche connesse al consumo di sostanze stupefacenti o addirittura per l’esordio di un disturbo da uso di sostanze conclamato (Lakhan et al., 2019). Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) definisce il disturbo da uso di sostanze come una condizione invalidante, caratterizzata da pattern pervasivi e ricorrenti, che può implicare significative menomazioni nel funzionamento quotidiano, incluso il mancato rispetto delle responsabilità in ambito professionale e relazionale (APA, 2013).

L’uso problematico di sostanze e il disturbo da uso di sostanze conclamato possono essere associati a deficit di natura neuropsicologica (es. controllo esecutivo), emotiva-comportamentale (es. disregolazione nella gestione degli impulsi e delle attivazioni emotive) o socio-economica (es. status socio-economico precario); tale associazione è stata riscontrata sia nei casi di disabilità intellettiva lieve, sia in quelli di funzionamento intellettivo borderline (Didden et al., 2020). L’eziologia del disturbo da uso di sostanze è complessa e multifattoriale, molteplici variabili possono spiegare l’aumento del rischio d’esordio, tra cui: deficit nelle abilità di coping e sociali, inibizione compromessa, suscettibilità alla pressione sociale e difficoltà nel comprendere le conseguenze negative dell’abuso di sostanze (van Duijvenbode & VanDerNagel, 2019).

I modelli per spiegare il disturbo da uso di sostanze

Diversi modelli teorici per il disturbo da uso di sostanze sono stati esplorati in individui con disabilità intellettiva lieve e funzionamento intellettivo borderline: uno particolarmente influente è il ‘modello a doppio processo’, secondo cui il disturbo è mantenuto da automatici processi impliciti (es. bias di attenzione e selezione) ed espliciti controllati (es. motivazione, inibizione), oltre ad essere associato alla compromissione dei processi di controllo inibitorio, motivazionale e di ricompensa, con conseguenti carenze nell’elaborazione delle informazioni (Didden et al., 2020).

Il ‘modello motivazionale del consumo di alcol’ è stato recentemente studiato in giovani adulti con disabilità intellettiva lieve e funzionamento intellettivo borderline in contesti residenziali (Schijven et al., 2019). Secondo questo modello, gli individui sono motivati ​​a bere alcolici a causa del rinforzo interno (es. alleviare l’ansia) o del rinforzo esterno (es. l’approvazione dei pari). I motivi alla base del consumo di alcol sono stati misurati da un questionario specifico, il Drinking Motives Questionnaire Revised Short Form (DMQ-R SF; Kuntsche & Kuntsche, 2009), che valuta le seguenti quattro tipologie di motivazione: sociale (confermare le relazioni sociali), conformità (prevenire il rifiuto da parte del gruppo), coping (regolare le emozioni negative) e ‘miglioramento’ (aumento del tono timico). Dai risultati è emerso che tutte le quattro variabili esplorate dal questionario sono connesse al consumo di alcol e droghe (Didden et al., 2020).

Uso di sostanze e dimensioni personologiche

Quattro dimensioni personologiche sono state associate ad un aumento del rischio d’esordio del disturbo da uso di sostanze: (i) attitudine ansiosa, (ii) pensiero negativo, (iii) impulsività e (iiii) ricerca di sensazioni. Il ruolo delle dimensioni della personalità, nel consumo di sostanze stupefacenti, è stato esplorato in giovani adulti con disabilità intellettiva lieve e funzionamento intellettivo borderline in contesti di cura residenziali: è emerso che gli individui con bassi livelli di attitudine ansiosa e alti livelli di pensiero negativo, impulsività e ricerca di sensazioni hanno mostrato un consumo maggiore di alcol. Alti livelli di pensiero negativo e ricerca di sensazioni erano correlati a un uso maggiore di droghe (Didden et al., 2020).

La presa in carico

Il disturbo da uso di sostanze, nella disabilità intellettiva lieve e nel funzionamento intellettivo borderline, costituisce una condizione molto complessa e talvolta cronica, che necessita una presa in carico di natura multidisciplinare (Juberg, Røstad & Søndenaa, 2017). A tal proposito, purtroppo, le strutture specifiche per il trattamento della disabilità intellettiva spesso non possiedono le competenze e gli strumenti adeguati per poter affrontare un eventuale disturbo da uso di sostanze nella popolazione clinica in cura. Allo stesso tempo, i centri specifici per le dipendenze, invece, non sono spesso adatti per soddisfare le esigenze specifiche dei pazienti con disabilità intellettiva lieve e funzionamento intellettivo borderline implicando frequenti drop-out e scarse risposte al trattamento (VanDerNagel et al., 2018). In conclusione di tale estratto è possibile affermare, dunque, che risulta necessaria una maggiore sinergia tra il trattamento delle dipendenze e della disabilità intellettiva, al fine di fornire servizi integrati e specifici per le esigenze del singolo caso; sia in un’ottica preventiva, che riabilitativa (Didden et al., 2020).

Amore e cervello: dall’attrazione al sentimento

Nella fase di innamoramento la persona che suscita attrazione costituisce un segnale potente che fa attivare tutto l’organismo e produce un’eccitazione mediata da alcuni neurotrasmettitori.

Ambra Lupetti ed Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

La monogamia

Come ci spieghiamo la monogamia? Dal punto di vista biologico, adottando una prospettiva darwiniana possiamo ricondurre ad una serie di cambiamenti, avvenuti nell’evoluzione della nostra specie, l’emergere della tendenza a formare un legame esclusivo con un partner basato su monogamia e fedeltà, una tendenza che si è poi radicata nella nostra biologia in quanto molto vantaggiosa ai fini del successo riproduttivo. I meccanismi evolutivi hanno fatto in modo che l’essere umano producesse una progenie fortemente immatura il cui sviluppo avvenisse solo in parte all’interno dell’utero nei nove mesi della gestazione, e continuasse al di fuori del corpo della madre, durante un periodo molto lungo. Una progenie così vulnerabile non poteva, tuttavia, essere allevata solo dalla madre, viste le fragilità delle donne in seguito alla gravidanza, al parto e all’allattamento e alla difficoltà di conciliare la vicinanza al figlio con la necessità di procurare il necessario per il sostentamento. Affinché i piccoli sopravvivessero e divenissero a loro volta adulti era necessario l’aiuto di un’altra persona. Questa persona non poteva che essere il padre, il cui successo riproduttivo era ugualmente assicurato dal portare quei bambini a un’età tale da potersi riprodurre a loro volta (Carter, 2004).

Sono queste le motivazioni biologiche che fanno da sfondo alla monogamia, che generalmente caratterizza i rapporti affettivi della nostra specie. Questa spinta ad instaurare un legame di coppia stabile e duraturo è talmente forte che si mantiene ben oltre il mero rapporto sessuale.

Ma quali sono le varie fasi che conducono ad un rapporto stabile monogamico? E cosa succede nel cervello di uomini e donne?

L’attrazione verso il partner

Secondo alcune teorie (Botwinet al., 1997, Buss, 1990) uomini e donne si sentono attratti e scelgono come potenziali partner di una relazione d’amore coloro che meglio possono adempiere a questo scopo evoluzionistico riproduttivo.

Gli uomini generalmente sono colpiti dalla bellezza e dalla giovane età nelle potenziali partner. I ricercatori hanno messo in luce come ovunque nel mondo gli uomini preferiscano mogli fisicamente attraenti, fra i 20 e i 40 anni, in media di 2 anni e mezzo più giovani e che abbiano pelle luminosa, occhi brillanti, labbra piene, capelli lucenti e figura sinuosa (Botwinet al., 1997). Tutti questi tratti infatti sono forti ed evidenti indizi di fertilità. Potendo contare su decine di milioni di spermatozoi, gli uomini sono in grado di generare un numero quasi illimitato di discendenti, purché riescano a trovare abbastanza femmine fertili con cui accoppiarsi; nel corso di milioni di anni, quindi, i circuiti neuronali maschili si sono evoluti allo scopo di individuare nelle donne immediati segnali visibili della loro fertilità. Oltre all’età è importante anche la salute i cui indicatori visibili sono la vitalità, il portamento spigliato, tratti somatici simmetrici, pelle liscia, capelli lucenti e labbra turgide. Anche la forma del corpo è un ottimo indicatore di fertilità. Dopo la pubertà le femmine sane sviluppano forme più morbide, con il giro vita di circa un terzo più stretto del giro-fianchi. Le donne con queste caratteristiche fisiche producono più estrogeni e restano incinte con maggiore facilità e ad un’età inferiore rispetto a quelle con caratteristiche più androgine. Anche la reputazione sociale è spesso un altro fattore che entra in gioco nella valutazione maschile, perché i maschi di maggiore successo dal punto di vista riproduttivo hanno bisogno di scegliere donne che si accoppieranno solo con loro: vogliono esser certi della paternità ma anche di contare sulle doti materne di una donna per garantirsi che i propri discendenti crescano sani e robusti.

Per quanto riguarda le donne, per più di 5 anni il ricercatore David Buss (1990) ha studiato le preferenze di oltre 10mila individui appartenenti a 37 culture diverse e ha visto come in ogni cultura le donne si preoccupano poco delle attrattive fisiche di un potenziale marito, mentre sono più interessate alle sue risorse materiali e alla sua posizione sociale, fattori questi che manifestano e garantiscono la volontà e la possibilità di portare avanti una relazione duratura. Anche secondo lo psicologo evoluzionista Robert Trivers (1972) scegliere un compagno in base a queste caratteristiche è un’attenta strategia di investimento. Le femmine umane infatti dispongono di un numero limitato di uova, e, rispetto ai maschi, investono molte più energie nel mettere al mondo ed allevare i figli. Essere estremamente caute è quindi un atteggiamento vincente. Mentre un maschio può fecondare una donna tramite un unico rapporto sessuale e poi andarsene, una donna deve affrontare nove mesi di gravidanza, i rischi del parto, l’allattamento e il compito oneroso di cercare di assicurare la sopravvivenza del bambino.

L’attrazione verso una particolare persona risente di criteri di scelta biologicamente determinati ma non bisogna omettere allo stesso tempo che questi criteri sono determinati anche dalla storia personale e dalle caratteristiche individuali.

Durante la fase del corteggiamento uomini e donne generalmente cercano di fornire all’altro l’immagine migliore di se stessi. Con il progredire della relazione, tuttavia, sono inclini a cercare inconsapevolmente degli indicatori di sensibilità e di responsività emotiva come la capacità di rispondere ai momenti di sconforto dell’altro o fornire aiuto, indici della possibilità che il partner possa diventare una buona figura di attaccamento per sé e per i propri figli.

L’infatuazione

L’amore appassionato o anche la semplice infatuazione è uno stato cerebrale ben documentato: fa capo agli stessi circuiti cerebrali che governano ossessioni, manie, ebbrezza, sete e fame (Aron & Fisher, 2005). L’attrazione iniziale è da ricondurre all’attivazione del sistema sessuale. Il desiderio sessuale è innescato principalmente dagli androgeni (tra cui il testosterone) e dagli estrogeni; entrambi presenti sia nelle donne che negli uomini anche se in quantità diverse. Nelle donne il testosterone è fondamentale; il suo picco, a metà del ciclo mestruale, è responsabile dell’innalzamento del desiderio sessuale, proprio nel momento di maggiore fertilità. Con il progredire della relazione, nel passaggio dall’attrazione all’innamoramento, il livello di testosterone diminuisce nei maschi, così che i comportamenti aggressivi sono sostituiti, in chi è innamorato, da comportamenti maggiormente basati sulla tenerezza.

L’innamoramento

In questa fase iniziale la persona che suscita attrazione costituisce un segnale potente che fa attivare tutto l’organismo e produce un’eccitazione che è mediata da alcuni neurotrasmettitori. La feniletilamina ad esempio è una sostanza affine all’adrenalina. Viene sintetizzata e rilasciata nel sistema nervoso centrale quando si sperimentano situazioni piacevoli e raggiunge livelli altissimi durante l’attrazione e l’innamoramento. Ad esempio la cioccolata è un alimento ricco di feniletilamina, ed è per questo che amplifica quel senso di gratificazione e di piacere assicurato dalle zone del cervello che ha il potere di attivare. La feniletilamina è inoltre particolarmente importante in quanto stimola anche il rilascio di dopamina, la quale ha un peso determinante nelle prime fasi della relazione di coppia. È quel neurotrasmettitore che regola i sistemi della gratificazione e che può essere considerato responsabile della sensazione di energia e di euforia che si prova di fronte a stimoli eccitanti, come ad esempio la sola vista della persona desiderata, che innesca benessere in tutto il corpo e anche uno stato di grande eccitazione.

La passione

La dopamina viene di solito prodotta dall’organismo in maniera spontanea e, quando presente in quantità sufficiente, genera un senso di appagamento. Quando ci si ritrova di fronte a qualcuno di cui ci si sente molto attratti il suo livello aumenta e produce effetti euforizzanti così forti da spingere in maniera incontrollabile a fare in modo che quell’evento si ripeta con meccanismi e reazioni simili a quelli sperimentati da chi dipende da cocaina (Insel, 2003). La cocaina aumenta la disponibilità di dopamina nel cervello producendo un senso immediato di benessere e una grande fiducia in se stessi; la fame e il sonno spariscono. Esauritosi però l’effetto euforizzante, nei giorni a seguire, si sperimenta spossatezza e depressione che spingono l’individuo a voler usare di nuovo quella sostanza. Allo stesso modo, l’assenza della persona amata o una sua mancanza di disponibilità, può suscitare ansia e calo dell’umore simili a quelli provocati da deficit di sostanze. Quando l’amore è in una fase iniziale tuttavia, se da un lato aumentano nel cervello quei neurotrasmettitori che producono eccitazione ed euforia, dall’altro ne diminuiscono altri, la cui carenza è in grado di indurre uno stato di forte ansia. Da una serie di studi (Cahill, 2003) emerge infatti che, se una relazione non si è ancora consolidata si abbassa la produzione di serotonina, un neurotrasmettitore che quando è in equilibrio, produce sensazioni di buon umore e regola le emozioni.

L’amore completo

Progressivamente, dalla passione si passa a una nuova fase del rapporto, la quale vede nell’intimità e nell’impegno le sue componenti principali. In accordo con il modello triangolare, proposto dallo psicologo Sternberg (1986), possiamo identificare tre componenti distinte alla base dell’amore: la passione, l’intimità e l’impegno (Fig. 1).

In accordo con questo modello, l’amore completo, quello che lui definisce “vissuto”, si compone di tutte e tre le dimensioni precedentemente elencate.

La passione è quella che caratterizza l’attrazione fisica, il desiderio. L’intimità implica l’affinità e la confidenza, mentre l’impegno concerne la volontà di mantenere una relazione stabile.

Amore e cervello dall attrazione alla formazione di una relazione stabile Fig 1
 Fig. 1: Il modello triangolare

La passione, intesa come eccitazione incontrollabile, prevale nella fase iniziale. Nei legami di coppia che funzionano non termina mai del tutto, ma con lo scorrere del tempo prevalgono le altre due componenti quali intimità e impegno. Infatti lo stato cerebrale che fa da sfondo alla passione amorosa dura sei/otto mesi, fino a un massimo di tre anni. Secondo alcuni studiosi (Esch & Stefano, 2005) il dato che la fase dell’innamoramento duri al massimo tre anni può essere considerato il risultato di pressioni evoluzionistiche, le quali garantirebbero un coinvolgimento elevato per il tempo necessario alla gravidanza e alla protezione del padre almeno per il primo periodo di vita del bambino. In seguito, la dopamina esaurisce la sua funzione euforizzante e nell’organismo si instaura una condizione di assuefazione nella quale il cervello si abitua alle elevate concentrazioni di questo neurotrasmettitore. Tuttavia, laddove emergano altri fattori, quali la fiducia, una forte intimità emotiva oltre che fisica, e il senso di una profonda interdipendenza, la relazione continua ma assume un aspetto diverso. In qualche maniera, se l’attrazione e le emozioni che si provano nelle prime fasi dell’innamoramento sono quasi involontarie e legate principalmente al sistema limbico, nelle fasi successive entra in gioco maggiormente la neocorteccia, così che si mettono in atto strategie per mantenere la relazione (Young & Alexander, 2014).

Sternberg individua tuttavia anche tipologie di amori “non completi”: i rapporti definiti “amore amicizia” sono quelli caratterizzati dalla presenza di intimità e di impegno, ma nei quali manca la passione. La presenza del solo impegno fa definire un rapporto come “amore vuoto”, ed è quello che si riscontra quando due persone continuano a stare insieme ad esempio solo per non sciogliere l’impegno preso. L’amore romantico è quello caratterizzato invece da forte intensità, in un misto di intimità e passione, ma destinato a terminare a causa della mancanza di impegno. L’ “amore fatuo” è definito dalla presenza di impegno e passione, ma è privo delle componenti di intimità e di reciproca conoscenza in grado di rendere più profondo il rapporto.

Ma quando l’amore finisce …

La rottura di un legame affettivo importante, e quindi di attaccamento, è un’esperienza dolorosissima che passa attraverso alcune fasi (Bowlby, 2000):

  • L’obnubilamento e la protesta. Subito dopo la rottura del legame vi è una prima fase di obnubilamento, ovvero di intontimento. Successivamente si iniziano a provare invece emozioni intense ma estremamente contraddittorie: rabbia, grande agitazione, estrema tristezza o sentimenti di colpa. Queste reazioni fanno parte della fase di protesta: tutto l’organismo reagisce e si attiva seguendo l’ipotesi che attraverso queste reazioni intense si riuscirà a ricongiungersi con il proprio partner.
  • La disperazione. Quando diventa più evidente che la separazione è definitiva, cominciano ad emergere una sorta di rassegnazione e una forte sofferenza. Si sta attraversando la fase della disperazione in cui ci si può sentire privi di forze e inattivi, depressi con un ridottissimo coinvolgimento con il mondo esterno. Tali reazioni hanno un senso da un punto di vista biologico poiché è come se l’organismo si mettesse “in condizione di riposo”, così da evitare di incorrere in pericoli esterni dato che la figura di protezione non c’è più. In questa fase nel cervello si attiva l’amigdala, in grado di produrre uno stato di allerta e di paura.
  • Il distacco. Quando si perde completamente la speranza si entra nella fase definita da Bowlby del distacco e si attivano gli stessi circuiti cerebrali che si accendono quando si prova un dolore fisico. Il dolore per la perdita dura al massimo un anno, un anno e mezzo, con un’ampia variabilità individuale a seconda delle caratteristiche di personalità. Alla fine di questo processo l’individuo si riorganizza a livello pratico ed emotivo e, data l’importanza di avere accanto una figura di attaccamento in grado di proteggere e, se si è in età riproduttiva, la necessità di aver un compagno/a con cui avere progenie, si inizia ad avvertire il bisogno di dopamina e di serotonina che solo un nuovo innamoramento può dare.

In conclusione appare evidente che la biologia influenza moltissimo la vita degli individui, tuttavia non la determina in assoluto. Infatti il cervello è plastico, perciò è rintracciabile una grande variabilità da individuo a individuo nel modo in cui il cervello reagisce agli stimoli che provengono da un partner nelle varie fasi attraverso cui si snoda un rapporto sentimentale. Ognuno ama come ama a seguito dell’intreccio di moltissime variabili che possono essere ecologiche, relazionali, genetiche (Attili, 2017).

 

Inward e outward nelle organizzazioni di significato personale

Nella visione post razionalista di Vittorio Guidano, vengono individuati due diversi poli emotivi; essi sono l’inwardness e l’outwardness.

 

Queste due dimensioni si rifanno a due differenti modalità di sentire le emozioni e di organizzare la propria esperienza di vita. Nella inwardness il corpo diventa il nucleo centrale, invece nella outwardness l’esterno diventa la parte essenziale a cui si rifà l’individuo. L’inward implica la disposizione a trasformare l’ambiente esterno al fine di farlo divenire più adatto alle attivazioni interne; la persona ha la tendenza a rivolgere il divenire della propria identità sulla interiorità e sulla tutela del senso di sé.

Nell’outward, il soggetto è centrato sulla discrepanza e sulla mutevolezza del contesto di relazione di cui fa parte. Ciò comporta la tendenza a modificare il proprio mondo interno al fine di renderlo somigliante con il mondo esterno.

Il soggetto inward possiede come emozioni prevalenti la felicità, la paura, la collera e la costernazione. Egli legge attentamente i propri stati interni facendo riferimento alla componente fisica, visto che ha fiducia esclusivamente nelle proprie sensazioni; inoltre focalizza la propria esperienza a partire dall’interno definendo il proprio sentire in maniera trasparente. La persona con dimensione outward, invece, si baserà sugli elementi esterni per dare un senso a ciò che avviene. Ciò lo porta a una variazione dei propri vissuti sulla base di veri e propri codici esterni. Egli non si fonda sulle sue emozioni per focalizzarsi su di sé, ma si rifà a modelli esterni e ad emozioni varie come la fierezza, la colpa, l’imbarazzo e il disgusto. Un soggetto outward avrà maggiore difficoltà a demarcare i propri stati interni, che appaiono vaghi o deboli, ma al contrario si uniformerà a quelli esterni per sentirsi apprezzato e considerato.

A livello di organizzazioni di significato personale (OSP) che possiamo annoverare troviamo:

  • Fobica (FOB)
  • Dappica (DAP)
  • Depressiva (DEP)
  • Ossessiva (OSS)

Mentre le FOB e DEP sono inward, le DAP e OSS al contrario sono outward.

L’organizzazione fobica è di tipo controllante. I soggetti ricercano protezione nei legami interpersonali e sono fortemente centrati sui messaggi che gli invia il proprio corpo. Questo tipo di organizzazione si ha in soggetti che hanno sperimentato un attaccamento insicuro evitante o coercitivo ed in cui c’è difficolta nella separazione con l’altro. Le madri dei soggetti FOB fanno percepire il mondo circostante come pieno di insidie, pericoloso e minaccioso, non agevolando il distacco da sé.

I DAP hanno un Sé indefinito, cercano di conformarsi agli altri per ottenere consenso ed approvazione. La figura genitoriale materna è predominante, basata sull’esteriorità e su modelli di perfezionismo. A livello familiare la comunicazione è priva di scontri (come se andasse sempre tutto bene) e critiche.

L’organizzazione DEP invece è caratterizzata dal tema della perdita. I soggetti DEP hanno una forte sensazione di non amabilità. Essi vivono la vita con sfiducia e cinismo e la sensazione di dovercela e potercela fare totalmente in autonomia è preponderante.

Infine gli OSS costruiscono un senso di Sé basato sulle regole; tengono a tenere sotto controllo ogni stato emotivo senza lasciarsi mai andare; tutto ciò nasce dal fatto che il soggetto OSS vuole controllare le oscillazioni emotive che lo pervadono.

 

La possibilità di reinserimento degli autori di crimini a sfondo settario – Abstract congresso SIC Ottobre 2021, Milano

Crimini a sfondo settario: che cosa sono le sette? Il termine, in latino secta, deriva dalla radice del verbo sector che vuol dire: seguire, andare dietro; potremmo ricondurlo anche al verbo seco che significa: tagliare, separare.

 

 L’obiettivo di questo mio intervento è quello di fornire un contributo per analizzare e comprendere, per quanto lo spazio concessomi mi permetterà, la possibilità di reinserimento degli autori di crimini a sfondo settario. Per dare una spiegazione esaustiva di questo fenomeno è bene capire che cosa sono le sette. Il termine, in latino secta, deriva dalla radice del verbo sector che vuol dire: seguire, andare dietro; potremmo ricondurlo anche al verbo seco che significa: tagliare, separare. Nella prima ipotesi, la setta può essere inquadrata come un gruppo di seguaci di una persona, di un gruppo di esse o anche di una particolare dottrina; nel secondo caso, come un gruppo che si potrebbe essere separato da un’aggregazione maggioritaria.

Le sette sono organizzazioni di stampo religioso che costruiscono la propria dottrina basandosi sugli insegnamenti di una o più religioni ufficiali, ma se ne separano e si oppongono a queste attraverso l’affermazione di nuovi principi.

Il focus del problema sarà incentrato sul satanismo acido; si tratta di un mondo fai da te, con una conoscenza, spesso acquisita sulle bancarelle dei libri usati o sui siti internet dedicati ma di stampo commerciale. È un fenomeno settario clandestino, che spesso rimane “fluido” poiché i gruppi si aggregano e si separano con estrema facilità. Non c’è organizzazione nella struttura. I gruppi variano da un numero di dieci ad un massimo di quindici ragazzi, tra i 14 e i 25 anni di età. È importante ricordare che a questi piccoli gruppi aderiscono soprattutto adolescenti con problematiche principalmente collegate al nucleo familiare; è molto facile che un adolescente che abbia gravi problemi familiari o conflitti con se stesso possa trovare nel contesto settario una nuova idea di conforto e famiglia. Il reclutamento dei giovani ragazzi avviene in maniera mirata attraverso il “flirty fishing”, una pratica di avvicinamento elementare messa in atto dai soggetti già inseriti e che si sanno già muovere all’interno della setta; il gruppo può mettere in atto dei processi di indottrinamento molto rozzi per aumentare la permanenza del nuovo entrato. La persona modifica il proprio stato psicofisico attraverso l’uso smodato di droghe sintetiche, proprio per questo tale gruppo viene definito “acido”; oltre a eventuali comportamenti orgiastici da parte di tutto il gruppo.

Sotto il punto di vista penale i crimini commessi dalle cosiddette sette sataniche giovanili sono specifici, reati a basso profilo; si parla infatti di dissacrazione di tombe, danneggiamenti di luoghi sacri, furti all’interno di chiese, soprattutto di ostie e oggetti ornamentali che verranno poi utilizzati durante le “messe nere”; in casi molto particolari, per fortuna rari, si possono palesare anche omicidi rituali, uccisione di animali, stupri e/o istigazione al suicidio.

In moltissimi casi, i neofiti hanno a disposizione pochi contenuti, quasi sempre, di bassa “qualità”; nonostante ciò, nella tipologia acida, hanno la possibilità di creare un linguaggio comune che li avvicina nell’esecuzione di eccessi e devianze mediante il consumo di droghe e una sessualità spesso fuori controllo.

I demoni, di cui tanto si parla e dietro cui ci si nasconde, risiedono fra questi ragazzi e vengono amplificati dalle loro fragilità psicologiche e dalle droghe ad ampio spettro. Il meccanismo disfunzionale potrebbe essere messo in moto dal fenomeno di aggregazione innescato dalla condivisione degli stessi gusti musicali (Hard metal o Death metal). Infatti, nei giovani di età compresa tra i dieci e i vent’anni, uno dei più importanti fattori culturali con effetti di condizionamento è rappresentato dalla musica. Occorre, assolutamente, sottolineare che per quanto il genere musicale possa essere trasgressivo, non è da considerare prodromico e necessario rispetto alla potenziale commissione di reati nell’ambiente del satanismo giovanile.

I crimini a sfondo settario in Italia

Nella cronaca nera del nostro paese emerge, per violenza e crudeltà, una vicenda che si svolge a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Stiamo parlando delle Bestie di Satana, presunta setta satanica che ha preso vita nella provincia di Varese, in un momento di difficoltà sociale davvero profondo. Sarebbe importante capire se questo gruppo di giovani ribelli e oltraggiosi verso la vita sia stato davvero una setta o meno; il primo a parlarne in questi termini e a definirla tale è stato Andrea Volpe; ciò avviene nella prima confessione che lui rese nel Maggio 2004. Da lì in poi lo si è dato per acquisito.

Nel gruppo, ove non emerge la dose di fanatismo tipica di altre realtà settarie, a posteriori c’è stata anche confusione sulla designazione dei leader. Il gruppo non esprimeva neanche una forte impronta religiosa poiché, alcuni di loro, non credevano alle messe nere ed ai vari riti che si sarebbero potuti praticare. Tale aggregazione non si è dimostrata totalizzante: ognuno viveva la sua vita ed aveva proprie occupazioni indipendenti.

I soggetti possono essere catalogati all’interno del cosiddetto Satanismo Acido. Erano ragazzi annoiati, confusi, ribelli contro le principali “istituzioni” sociali: la famiglia, la scuola e la chiesa.

Manifestavano bisogni di evasione dalla “noia” di una provincia che in quegli anni offriva ben poco in termini di stimoli coinvolgenti e motivanti, orientandosi in alternativa verso una vita fatta di eccessi ed emozioni forti. Il tutto è stato caratterizzato da fatti di micro criminalità.

L’uso eccessivo di sostanze psicotrope portava con sé una dose massiccia di allucinazioni, vita disregolata e un comportamento disfunzionale e disadattivo. In tutta la vicenda possiamo osservare le famiglie adottare strategie poco adatte per contenere e modulare gli agiti dei figli nella loro crescita e nelle loro fasi di transizione.

Il leader viene indicato in tale Paolo Leoni, secondo il parere della maggioranza degli “adepti”, forse a causa del carattere forte e di una personalità “importante”. Mentre il Volpe ha sempre additato Nicola Sapone come vera guida del gruppo e Mario Maccione ha fatto vari nomi in momenti diversi.

In questo tipo di contesto, spesso, non servono minacce o paura; può bastare un timore reverenziale consolidato, per giustificarsi il proprio restare, o anche la voglia di non perdere il senso di appartenenza ad un gruppo vitale per il proprio essere, “perso” in una fase della vita di transizione o quando si cercano punti fermi a cui fare riferimento. Questo è necessario per affermare che, in un caso come questo, possiamo escludere un eventuale “lavaggio del cervello”; ricordiamo che l’Art. 603 del codice penale è stato derubricato (reato di plagio) dalla Corte Costituzionale con sentenza n.96 9/4/1981.

Hanno fornito dati confusi sui libri su cui si sarebbero documentati come presunti satanisti; oltretutto, alcuni non erano interessati all’occultismo come specifico fenomeno. Sono stati compiuti rituali molto confusi e approssimativi. Vengono fornite spiegazioni infantili che caratterizzano un livello di immaturità generale e/o mancanza di consapevolezza, soprattutto per quanto riguarda i moventi degli omicidi e la loro stessa esecuzione.

Un modo per sentirsi vivi era la ricerca di una vita parallela e l’interesse per un mix di esoterismo, spiritismo e occulto. C’era una forte dose di de-individualizzazione; nessuno ha più senso da solo. Venivano compiute prove di coraggio, molto pericolose, che apparivano normali, di quella normalità finta che tutto mescola e tutto confonde.

Vi erano forti componenti sessuali, ludiche e anche psicopatologiche. Tutto è iniziato per gioco con le “sedute spiritiche” presiedute da Mario Maccione; poi sono arrivate le droghe mischiate ad una sessualità promiscua e selvaggia, senza limiti. Annotiamo la presenza di psicopatologia pregressa in Eros Monterosso con Disturbo Borderline di Personalità, diagnosticato in seguito alle visite per la leva militare; oltre a lui, Pietro Guerrieri, il 3 e 10 aprile 1999, ha avuto due ricoveri in psichiatria a Monza. Scompenso psicotico per abuso continuato di droghe. Sono state elaborate delle ipotesi di tratti borderline di Andrea Volpe. Guerrieri: grande fragilità personologica, vizio parziale di mente.

L’associazione a delinquere non è mai stata riconosciuta al gruppo per l’estemporaneità delle decisioni omicide, improvvise e senza progettazione, con molta distanza tra l’una e l’altra. Non c’era un programma criminoso da seguire e, nonostante si ritenesse ci fossero figure carismatiche come Sapone, Leoni e Volpe, il resto dei ruoli tra i membri era intercambiabile. Se quel gruppo sia stato una setta o meno, probabilmente, può essere solo una valutazione giuridica.

Crimini a sfondo settario: dopo la condanna

Ad oggi, quasi tutti i componenti del gruppo sono in stato di libertà. Elisabetta Ballarin è cresciuta ed è diventata una donna. È stata correa nel brutale omicidio di Mariangela Pezzotta insieme ad Andrea Volpe, da cui era stata iniziata alla droga ed alla tossicodipendenza.

Dopo l’arresto e l’inizio del processo, è iniziata la ripresa alla vita, dopo anni di confusione, ribellione e oblio sintetico causato dalle sostanze psicoattive. In carcere ha potuto lavorare su se stessa, libera dagli stimoli e dalle persone negative di cui si era circondata per troppo tempo prima dei tragici fatti di Golasecca e Somma Lombardo in cui hanno perso la vita Fabio Tollis, Chiara Marino e la Pezzotta. Possiamo ipotizzare che, all’epoca delle “Bestie di Satana”, punto di aggregazione per un disagio sociale sempre più accentuato nella provincia di Varese alla fine del secolo scorso, la stessa non avesse le risorse personali e familiari per comprendere il disvalore dell’ambiente in cui era inserita e di conseguenza allontanarsi da esso.

Poc’anzi abbiamo usato la parola ribellione; ribellarsi ad un sistema famiglia percepito come troppo distante da sé, non rassicurante e che non operava come una base sicura nei momenti di difficoltà della Ballarin.

La droga come anestetico per il male di vivere, contro le paure di un’adolescente ancora troppo inesperta e sprovveduta per fronteggiare da sola le asperità della vita.

L’ipotesi del Satanismo Acido costituisce un punto di partenza per analizzare la voglia di evadere dai confini di una realtà avvertita come estranea; è andata alla ricerca di un’alterità che potesse dare spazio, in maniera eccessiva e disregolata, alle sue frustrazioni e ai suoi bisogni di rivalsa ed indipendenza a dispetto di una realtà composta da adulti che, molto probabilmente, non l’hanno considerata e tenuta da parte in un’età particolarmente sensibile.

Come emerge dalla perizia del Dott. Picozzi, non si erano create relazioni di dipendenza con gli altri componenti, soprattutto con Andrea Volpe; ipotizziamo che la suddetta abbia attuato delle strategie di coping e ipercompensazione di tipo maladattivo nei confronti di un mondo troppo grande e vuoto per lei.

Fortunatamente ha avuto modo di incontrare Silvio Pezzotta, padre di Mariangela, secondo il principio di giustizia riparativa. Quest’uomo è riuscito a ricucire uno strappo dolorosissimo con una degli assassini di sua figlia. Tutto ciò ha permesso di far progredire in avanti Elisabetta per continuare sulla sua strada di persona nuova, memore di tutto il percorso fatto in carcere. In questi anni ha potuto acquisire delle risorse, delle strategie di coping nonché un senso di self-efficacy per far fronte a nuove situazioni negative che potrebbero presentarsi nuovamente, probabilmente non della stessa valenza negativa dei tragici fatti di cui siamo a conoscenza.

Siamo entrati dentro uno dei casi più atroci di quest’ultimo spaccato di secolo, che ci lascia dentro una forte angoscia e disagio; nonostante ciò, ed a dispetto dei culti settari più estremisti come la cosiddetta mafia nigeriana, nel tema da noi trattato potremmo ipotizzare una maggiore possibilità di reinserimento.

Questa affermazione la possiamo sostenere sottolineando l’efficacia della generatività creata dall’esperienza della giustizia riparativa e dei contesti applicativi, di studio e lavorativi collegati allo stato carcerario.

Abbiamo valutato l’importanza della componente psicopatologica in un caso in particolare, quello di Eros Monterosso. Il suo stato di malattia, aggravato dalle condotte di dipendenza, può essere contenuto e modulato attraverso un adeguato percorso di cura psicofarmacologico e di terapia.

Elisabetta Ballarin si è laureata: “Posso ritrovare una data di inizio, era il quinto anniversario della morte di Mariangela. Si stava svolgendo la messa nella sezione del carcere e lì mi sono avvicinata alla fede. Mia madre e Silvio Pezzotta mi hanno impedito di restare ferma di fronte alla tragedia, mi hanno spinta a perdonarmi”.

Cosa resterebbe al carnefice senza questo percorso di riabilitazione? Solo la vittima. Legati per sempre, in ogni tempo, in ogni spazio; in momenti di distrazione e svago. Anche quando avrà una smorfia dura, guardando in faccia la cruda verità: la vita che gli è passata davanti troppo velocemente.

 

Forze del destino (2021) di Christopher Bollas – Recensione

Bollas, nel suo testo Forze del destino, descrive quella che definisce come pulsione del destino, affrontando in maniera molto chiara la distinzione tra fato e destino.

 

Bollas, in questo testo, ripropone il concetto di “vero sé” esposto da Winnicott, al fine di dare un’enfasi particolare a quella che risulta la “configurazione unica dell’essere” o, come viene definita da lui, “idioma personale” e quanto, in questo processo, sia fondamentale l’uso che il paziente fa degli elementi dello psicoterapeuta, “l’uso dell’oggetto” descritto da Winnicott, lo sviluppo di “spazi intermedi e potenziali” e la possibilità di stimolare un processo creativo di realizzazione del proprio potenziale.

Uno degli aspetti fondamentali che caratterizza questo lavoro di Bollas, è proprio l’importanza dell’uso dello psicoterapeuta da parte del paziente, attraverso il quale articolare ed elaborare il proprio idioma personale, che si potrebbe ricollegare a ciò che Recalcati (2020) definisce come un “dare forma alla forza della vita”.  Winnicott, definisce il vero sé come “una potenzialità ereditata di sentire la continuità dell’esistenza e di acquisire a modo proprio, con un proprio ritmo, una realtà psichica e uno schema corporeo personali”. Il vero sé della persona, o l’idioma per come viene definito da Bollas, è un insieme di possibilità specifiche che, per potersi articolare, hanno bisogno dell’esperienza vissuta nel mondo reale, e quindi, nei singoli villaggi viventi, composti da oggetti scelti per coltivare necessità, desideri, interessi e che vengono costantemente creati nella vita di ciascuno di noi. Quindi, nel dare vita a spazi potenziali, “spazi psichici” che consentano l’espressione del proprio idioma, risulta essenziale una dialettica tra idioma personale e cultura umana, che favorisca un sano equilibrio di forze tra il vero sé della persona e il mondo reale.

In particolare, questa dialettica, rappresenta ciò che venne messo in rilievo da Winnicott, attraverso “i fenomeni transizionali”. Esperienze di attaccamento sicuro, che consentano al bambino di sperimentare un senso di continuità nell’esperienza di sé e dell’altro, in cui i genitori abbiano un buon senso intuitivo del figlio, riescano a rappresentarselo nel viso, nei gesti, nel linguaggio in modo sensibile al suo idioma personale e, a detta di Bollas, gli presentino gli “oggetti da usare”, permettono al bambino di “giocare con la realtà”, di godere nel rappresentare se stesso, di acquisire quella che Fonagy definisce “mentalità psicologica” e celebrare quindi l’arte della trasformazione nell’esperienza con l’altro. Per Winnicott, un iniziale adattamento attivo ai bisogni del bambino risulta essenziale per dar vita ai fenomeni transizionali, i quali quindi non possono prescindere da una condizione di dipendenza. In particolare, esperienze di illusione da parte dei caregiver, consentono al bambino di fare esperienza di onnipotenza.

Winnicott (1965), scrive: “La madre colloca il seno reale, laddove il bambino è pronto a crearlo e al momento giusto”. Senza l’esperienza dell’illusione, non c’è per nessun essere umano alcun significato nell’idea di una relazione con un oggetto e che quindi costituisce la base fondante della creatività primaria. Sempre Winnicott (1965) scrive come le graduali esperienze di delusione portino ad un rapporto con la realtà esterna che riconosca il limite, ma senza un equilibrio tra esperienze di illusione e delusione il bambino non impara che esiste un limite all’esperienza della frustrazione, non crea spazio psichico e la continuità dell’esperienza resta bloccata in stati mentali congelati. Bollas, inoltre, scrive che il concetto di uso dell’oggetto presuppone che il bambino possieda un senso relativamente sicuro dell’amore dell’oggetto, il che gli permette di sperimentare tutta un’ampia gamma di stati emotivi e mentali in relazione a se stessi e all’altro e quindi di comprendere la realtà in termini di stati mentali intenzionali e del loro rapporto con l’esterno. L’oggetto è reale e sopravvive alla distruzione in quanto oggetto interno, dotato di uno spazio psichico. Ciò, a mio avviso, si riconnette a quello che Bromberg (2011) definisce come capacità di essere sé stessi nel cambiamento. Winnicott (1965) afferma: “Si suppone quindi che il compito dell’accettazione della realtà non sia mai terminato, che nessun essere umano si liberi dallo sforzo di collegare la realtà esterna con quella interna e che tale sforzo venga alleviato da quest’area intermedia”.

Bollas, nel suo testo, continua descrivendo quella che lui definisce come pulsione del destino, affrontando in maniera molto chiara la distinzione tra fato e destino, essenziale peraltro nella distinzione tra le manifestazioni di un “vero sé” e di un “falso sé”. Fato, participio passato del verbo fari, che significa parlare, viene definito nel testo come il potere che si ritiene determini il risultato degli eventi prima che essi avvengano e che, quindi, volendolo utilizzare come metafora, permette di cogliere come la persona maturi l’impressione, che può diventare certezza, di essere determinata dalla propria storia di vita. Una persona colpita dal fato, è già una persona che non ha sperimentato la realtà favorevole alla soddisfazione del suo idioma interno e che quindi darà agli oggetti interni scissi e proiettati all’esterno maggior potere di influenzare la propria vita, con il solo risultato di avere delle esperienze abortite di se stesso in relazione agli altri. Il soggetto in questione si cristallizza nella credenza che gli eventi gli accadano, in una realtà dove ciò che prevale è lo stimolo e non la rappresentazione, in cui il sé è formato da isole e in cui le aree intermedie di esperienza tra l’interno e l’esterno risultano morte.

Una persona che si sente predestinata può immaginare opzioni per il futuro che portano il peso della disperazione. Invece di possedere opzioni per il futuro che nutrono la persona nel presente e che servono ad esplorare creativamente i percorsi di viaggi potenziali, la persona predestinata proietta solo gli oracoli. Bollas, all’interno del testo, accenna al caso di Nancy, la quale, per come descritto dall’autore, era solita fare affermazioni sciocche che mettevano un sigillo alle azioni, privando se stessa e l’altro di ogni potenziale autenticità d’incontro. Ad esempio, seduta in salotto con il suo ragazzo gli diceva: “Andiamo all’opera”. Non usava espressioni che coinvolgessero realmente l’altro come del tipo: “Mi piacerebbe andare all’opera”. Poteva annunciare azioni improvvise che potevano alterare il corso della vita in qualunque momento. La relazione con i genitori era pervasa da un clima di costrizione e assolutizzante, in cui obbligavano lei e loro stessi ad azioni drasticamente alternative, quali cambiare improvvisamente scuola, stile di abbigliamento, casa, amici. La continuità nell’esperienza di sé e dell’altro, l’equilibrio tra illusione e delusione, la possibilità di fare esperienza di una molteplicità di aspetti di sé e dell’altro, di coltivare un senso di responsabilità nei confronti della propria libertà, erano state del tutto soffocate. Bollas, continuando il racconto dell’esperienza con questa paziente, fa riferimento ad un’apparente spontaneità nel modo in cui Nancy esordiva in tali affermazioni, maturando pertanto l’impressione che i suoi annunci impulsivi fossero una via di mezzo tra comandamenti fatali e destino. In particolare, un impulso poteva essere considerato un’espressione del movimento del vero sé e quindi, quando dichiarava di volere andare all’opera, in parte sposava un futuro per dare spazio ad un elemento che necessitava di un’esperienza particolare in quel momento. Ma ciò che veniva a mancare era il rispetto della soggettività dell’altro, del suo idioma, di cui probabilmente ne veniva colta una parte, ma che veniva comunque strumentalizzata e quindi soffocata nel tentativo di prepararsi a riattualizzare uno scenario fatale. Tutto ciò rappresenta la morte dell’oggetto transizionale, a detta di Bollas, un oggetto interno morto, che rimane in un aldilà spettrale e quindi impossibilitato a trasformarsi nell’esperienza.

Ricollego quest’esperienza di morte dei fenomeni transizionali e quindi di ogni generatività nel rapporto con gli altri, a ciò che Yalom (1980) dice a proposito di individui terrorizzati dalla propria solitaria vulnerabilità. Questi individui, tentano di mitigare l’angoscia attraverso modalità relazionali rigide e coatte in cui l’altro viene incorporato, o meglio la relazione con l’altro viene svuotata di potenzialità trasformative. Bollas fa riferimento a quelle che definisce “personalità spettrali”, in cui vi è il netto rifiuto di permettere agli oggetti interni di diventare esseri esistenziali, definiti dallo stesso Bollas come “oggetti alternativi”. Essi sono segreti del soggetto, che devono essere agiti verso l’interno. Il soggetto si sente come se nutrisse questi altri sé e oggetti e allo stesso tempo li incarcerasse. Questi sé vengono costantemente scissi e mantenuti interni. Secondo l’autore, ciò rappresenta una continua uccisione, in cui prevalgono sentimenti di colpa (a mio avviso connesso anche alla colpa esistenziale di cui parla Yalom (1980), in cui l’individuo si sente costantemente in difetto, esiliato dal proprio potenziale generativo e dal proprio idioma), di paura inconscia di un attacco vendicativo da parte di questi sé soffocati e di odio. Queste persone conservano il vero sé come potenziale, in uno spazio interno non intermedio, né tantomeno psichico, ma piuttosto si tratta dell’immagine di un aborto in cui il vero sé, totalmente separato dal resto del mondo, rimane potenziale senza alcuna possibilità di articolazione di un idioma personale.

All’interno del testo, viene fatto riferimento al caso di Adreinne, la quale conobbe un ragazzo in spiaggia che la invitò a cena. Fecero passeggiate romantiche sulla spiaggia e dopo qualche giorno l’uomo le dichiarò il suo amore e le disse che voleva vederla spesso. A questo punto lei non sapeva cosa fare. Andava bene come bell’oggetto sulla spiaggia, ma come persona vera con cui vivere nel tempo, era soltanto fonte di angoscia assoluta. Così cominciò a rivolgerglisi con toni sempre più bassi, come se stesse parlando ai suoi spettri, per poi interrompere il contatto visivo diretto con lui e cominciare a fargli maglioni, comprargli libri e circondarlo di doni. A detta di Bollas, questa paziente tentava di trasformare una persona viva in un oggetto interno. Una vera e propria lotta contro la vita, afferma Bollas, come se in seduta questa paziente dicesse costantemente: “Non azzardarti a portarmi alla vita”. Si sentiva costretto esistenzialmente alla non esistenza.

Altro aspetto importante, è il concetto di destino fornito da Bollas. Come accennato precedentemente, nel destino e quindi nel dare forma all’idioma personale è implicato l’uso degli oggetti e la creazione di spazi potenziali, che non può prescindere da un senso interno di aver creato la propria vita. In questo è importante che i genitori favoriscano “l’esperienza dell’onnipotenza”, la quale si sposa con un altrettanto senso interno dell’evoluzione personale nello spazio e nel tempo. Un’evoluzione che segue la maturazione progressiva dell’individuo e quindi l’integrazione tra passato, presente e futuro. Un senso del destino si potrebbe pertanto definire come quella sensazione da parte del soggetto di stare compiendo alcuni dei termini del suo idioma personale mediante oggetti familiari, sociali, culturali e intellettuali. Nondimeno quindi, lo si potrebbe intendere come un corso naturale del vero sé che, tramite spazi potenziali creati all’interno dei vari tipi di uso dell’oggetto, e quindi anche di connessione psichica con l’ambiente, coltiva un senso interno di intimità permanente che non preclude la scoperta di sé nell’incontro con l’altro ma piuttosto la incoraggia.

Nell’esperienza della psicoterapia, Bollas, indica un elemento essenziale al fine di permettere al paziente di dar forma all’idioma personale, ovvero la “spietatezza” e la disponibilità da parte dello psicoterapeuta “a farsi distruggere”. Ogni uso di transfert dell’analista è, per certi versi, una distruzione della vera personalità del terapeuta e questo uso spietato risulta essenziale per consentire al paziente di formarsi rappresentazioni sulla vita psichica in termini di stati della mente e per oltremodo riuscire ad elaborare il vero sé attraverso l’esperienza. Ma per fare esperienze di “gioco con la realtà” che permettano fenomeni transizionali, e quindi anche quella che a detta di Fonagy (2005) risulta una comprensione della realtà in termini di “stati come se”, il terapeuta deve indicare al paziente quando sia pronto ad essere distrutto. In questo senso è importante che vi sia uno spazio che consenta l’uso immaginativo del terapeuta. In questa direzione bisogna anche considerare l’uso che il terapeuta faccia del paziente, attraverso le manifestazioni del controtransfert. Interessante, a tal proposito, risulta un altro caso presentato da Bollas, in cui la paziente Jill, durante le sedute, sprofondava in silenzi mortali. Le iniziali interpretazioni di Bollas in merito alla fredda rabbia della paziente, al suo sentirsi tradita e trattata ingiustamente rispetto al fatto di non poter incontrare il terapeuta durante il fine settimana, non sembravano sortire alcun effetto, se non un ulteriore congelamento della paziente. E ciò inoltre, non permetteva alla paziente di sperimentare più parti di sé nella relazione e di formare rappresentazioni, precludendo oltretutto al terapeuta la possibilità di viaggiare tra stati della mente. Perciò, iniziò a chiedersi come si sentisse in presenza di questa paziente, che sensazioni, stati d’animo, emozioni, sentimenti stesse provando e che parte avesse lui nell’incoraggiare la paziente in questi comportamenti. Si rese conto, di non riuscire a sopportarla un minuto di più e che questi congedi freddi e morti, fossero semplicemente orribili. Perciò decise di dirglielo spontaneamente: “Lei è un mostro”, “Ciò che lei fa è mostruoso, un comportamento disumano”. La paziente, dopo un iniziale pianto di rabbia, cominciò a protestare sostenendo l’enorme ingiustizia da parte del terapeuta per poi arrivare a litigare con lui. Questa affermazione di Bollas, per quanto apparentemente possa sembrare non etica, in realtà ha favorito una molteplicità di usi dell’analista, la quale ha permesso alla paziente di passare a nuovi stati del sé. Il litigio, in questo, ha favorito un’aggressione reciproca con l’oggetto, esperienza che le era totalmente nuova. Jill si identificava con il suo fato, rendendo morta se stessa e gli altri. L’affermazione fatta da Bollas, oltre ad avere spezzato un circolo, ha avuto un carico di spietatezza non indifferente, nell’ottica presentata in questo libro. Lo stesso autore scrive: forse era determinata dal bisogno del mio vero sé di distruggere un rapporto oggettuale patologico nel tentativo di trovare e usare gli oggetti che formano la mia identità professionale e dare alla paziente la possibilità di riscoprire il suo vero sé nel processo psicoterapeutico.

Una persona colpita dal fato sprofonda in un mondo interiore in cui si ripete lo stesso scenario, o meglio, la persona si prepara a rivivere lo stesso scenario, disponendo di uno scarso senso del futuro che può essere completamente diverso dall’ambiente interno che essa porta con sé. In questo senso, la persona dispera di poter influire sul corso della propria vita, tutto le accade, si sente travolta dagli eventi. Nel senso del destino, la persona sente di muoversi nel progredire della propria personalità. Le persone che hanno un senso del destino investono psichicamente sul futuro, con una “spietatezza necessaria” e una distruttività creativa, del passato e del presente, per cercare le condizioni necessarie alle opzioni sul futuro. E, in tutto questo, vivono uno stato di solitudine fondamentale ed esistenziale che caratterizza tutti gli incontri autentici con l’altro. Winnicott scrive: “Essere soli è la condizione di fondo del nostro essere; la solitudine è il contenitore del sé”. Nel vero sé siamo soli. Anche se negoziamo il nostro io con gli altri, e popoliamo il nostro mondo interiore di sé ed altri, veniamo espressi da quell’altro che è la parola (teoria del simbolico di Lacan), il nucleo assoluto dell’essere è una solitudine senza parole e senza immagini. Scrive Bollas: “La psicoterapia è un’esperienza di solitudine”. A mio parere, la solitudine di cui parla Bollas può essere connessa alla solitudine esistenziale a cui fa riferimento Yalom, ovvero un abisso incolmabile tra l’individuo e ogni altro essere, che porta ad incontrare l’altro su un piano umano.

 

È facile smettere di pensare se sai come farlo… Ma è vantaggioso?

Sulla base della teoria di Wegner, una meta-analisi ha supportato l’effetto di miglioramento immediato tenendo conto del carico cognitivo durante la soppressione del pensiero.

 

La teoria dei processi ironici si riferisce al fenomeno in cui gli individui che cercano di liberare la propria mente da un pensiero attraverso una strategia di soppressione sperimentano ironicamente maggiori livelli di occorrenza del pensiero stesso rispetto agli individui che si concentrano deliberatamente su quella credenza (Wegner, 1994).

Il controllo dei pensieri

Il controllo dei pensieri indesiderati attraverso la soppressione è un’importante funzione umana che può portare a risultati adattativi in ​​più domini, come l’inibizione di giudizi stereotipati (Galinsky e Moskowitz, 2007), la cessazione del fumo, la dieta (Erskine, Georgiou e Kvavilashvili 2010) e il benessere psicologico in generale (Wenzlaff & Wegner, 2000). Tuttavia, la ricerca ha suggerito che l’atto di soppressione del pensiero può essere un mezzo controproducente per controllare i propri pensieri (Slepian et al., 2014; Wegner, 1994). Gli studi hanno dimostrato effetti ironici della soppressione del pensiero per cui l’evitamento attivo della credenza bersaglio portava a una maggiore preoccupazione per quel pensiero (Cioffi & Holloway, 1993). In poche parole, provare a non pensare a un elefante rosa, non solo non impediva di pensare all’animale, ma accresceva la preoccupazione rispetto allo sforzo di non pensare. Sebbene la ricerca meta-analitica abbia mostrato il verificarsi di questo effetto rebound (lett. effetto rimbalzo) dopo la soppressione del pensiero, pochissimi studi hanno messo in luce l’effetto di miglioramento immediato durante la soppressione, dimostrando che è possibile non pensare all’elefante rosa, seppur per pochissimo tempo (Abramowitz et al., 2001; Magee et al., 2012).

Gli effetti temporanei della soppressione del pensiero

Secondo Wegner (1994), una condizione necessaria per osservare l’effetto di miglioramento immediato è la presenza di un carico cognitivo che impedisca di concentrarsi su distrattori per sopprimere il pensiero indesiderato. Sulla base della teoria di Wegner, Wang, Hagger e Chatzisarantis, hanno svolto una meta-analisi che ha supportato l’effetto di miglioramento immediato tenendo conto del carico cognitivo durante la soppressione del pensiero. Coerentemente con le previsioni degli autori, gli effetti rebound sono stati osservati indipendentemente dal carico cognitivo, mentre gli effetti di miglioramento immediato sono stati osservati solo in presenza di carico cognitivo durante la soppressione del pensiero (Wang, Hagger e Chatzisarantis, 2020).

L’assenza di un effetto di miglioramento immediato in condizioni di assenza di carico cognitivo indica che quando il sistema intenzionale non è appesantito dal carico, la soppressione del pensiero è solitamente efficace. Tuttavia, l’effetto di miglioramento immediato osservato sotto carico cognitivo suggerisce che quando l’individuo è in stato di preoccupazione non solo fallisce nella soppressione, ma, ironia della sorte, sperimenta una maggiore frequenza di accadimento e accessibilità del pensiero indesiderato (Wang et al., 2020). Come previsto da Wegner, il carico cognitivo sembra essere un catalizzatore per il fallimento intenzionale del sistema e quindi una precondizione per la manifestazione di effetti di miglioramento immediati.

I risultati della meta-analisi di Wang e colleghi suggeriscono che il valore della soppressione del pensiero come strategia di controllo mentale sia contingente ai criteri utilizzati per valutarne l’efficacia (Wang et al., 2020). Prendendo per esempio la variabile tempo, è possibile osservare come a breve termine la soppressione del pensiero sembra essere adattiva se gli individui sono alleggeriti dal carico cognitivo, ma controproducente se è presente un carico elevato. A lungo termine, la soppressione del pensiero sembra, nel complesso, essere un mezzo disadattivo per controllare i pensieri indesiderati, dato che gli individui che si dedicano alla soppressione tendono a sperimentare un livello esacerbato di preoccupazione per il pensiero bersaglio una volta soppresso rispetto a coloro che non lo fanno (Wang et al., 2020). Tuttavia, data la dimensione dell’effetto relativamente piccola del rebound, si potrebbe sostenere che gli effetti insidiosi della soppressione del pensiero potrebbero essere sopravvalutati (Najmi et al., 2009).

Conclusioni

In sintesi, la teoria attuale e l’evidenza empirica suggeriscono che sebbene la soppressione del pensiero possa essere un’efficace strategia di controllo mentale quando gli individui dedicano la loro totale attenzione alla soppressione di un particolare pensiero, ciò è arduo in quanto spesso la nostra attenzione è divisa su stimoli differenti, nonché non vantaggioso, poiché ciò potrebbe accrescere i livelli di preoccupazione. In particolare, quando la ricerca intenzionale di distrattori appesantisce il carico cognitivo, gli individui sono più vulnerabili ai pensieri indesiderati durante la soppressione del pensiero piuttosto che se fossero effettivamente concentrati sullo stesso pensiero.

 

I fumatori e la dissonanza cognitiva

La dipendenza da nicotina causa difficoltà a smettere di fumare. Fumatori che cercano di smettere possono provare ansia, irritabilità, agitazione, cattivo umore, frustrazione, aumento dell’appetito, insonnia.

 

Secondo quanto riportato dal Ministero della Salute i morti in Italia a causa del fumo sono oltre 93.000 all’anno. Per l’Unione Europea si stima un numero di decessi pari a circa 700.000 persone. Per quello che riguarda i dati a livello mondiale, l’OMS ritiene che muoiano, ogni anno, più di 8 milioni di persone.

Gli effetti del fumo

È stato evidenziato che una persona che inizia a fumare a 25 anni e che fuma 20 sigarette al giorno, perde 4,6 anni di vita; si può quindi dire che per ogni settimana di fumo si perde un giorno di vita.

Per 1.000 maschi adulti che fumano, uno morirà di morte violenta, sei a seguito di incidente stradale e 250 a causa del fumo. Oltre alla ben conosciuta correlazione tra fumo e tumori polmonari, il fumo può causare anche tumori del cavo orale, della gola, dell’esofago, del pancreas, del colon, della vescica, della prostata, del rene, del seno e delle ovaie; può inoltre far insorgere alcuni tipi di leucemie.

Il fumo, inoltre, è causa anche di malattie respiratorie non neoplastiche tra cui, ad esempio, la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Può inoltre determinare episodi asmatici e infezioni respiratorie. Un ulteriore rischio è quello cardiovascolare: un fumatore ha un rischio di mortalità per coronaropatia da 3 a 5 volte maggiore rispetto a un non fumatore.

Il fumo può determinare danni alla sessualità maschile. Vi sono poi rischi anche per l’apparato riproduttivo femminile: il fumo può indurre una menopausa precoce anche di due anni. Ciò in quanto il fumo influenza la produzione di ormoni sessuali femminili.

Non sono da sottovalutare anche i danni estetici: gengive bianche, ingiallimento dei denti, invecchiamento della pelle. Il fumo determina inoltre anche un calo delle difese immunitarie contro la placca batterica e aumenta il rischio di gengiviti.

Anche il fumo passivo è dannoso per la salute: in Italia si calcola che ogni anno ci siano circa 1.000 decessi.

Il contenuto delle sigarette

Ogni sigaretta contiene circa 600 ingredienti che, quando bruciano, danno origine a più di 7.000 molecole di varie sostanze. Tra queste ci sono, ad esempio:

  • acetone;
  • acido acetico, corrosivo, può irritare gli occhi e le vie respiratorie;
  • acido cianidrico, una delle sostanze da cui deriva il cianuro. Veniva usato per la produzione dello zyklon B adoperato dai nazisti nelle camere a gas;
  • ammoniaca, gas incolore, dall’odore pungente. In genere è usato come disinfettante;
  • arsenico, metallo pesante tossico. Notoriamente impiegato come veleno;
  • benzene, usato come additivo per gasolio e solventi industriali. È una sostanza cancerogena;
  • butano. È il gas usato negli accendini;
  • metanolo, detto anche alcol metilico. Adoperato come solvente o reagente industriale. È anche utilizzato illecitamente come additivo nel vino. Può essere letale;
  • mercurio. Metallo pesante tossico ed inquinante per l’ambiente;
  • cadmio, viene utilizzato per le batterie. Metallo pesante tossico;
  • nichel, metallo contenuto in molti materiali, ma anche cosmetici ed alimenti. Può causare irritazioni, dermatiti ed allergie;
  • polonio 210. Sostanza radioattiva, è presente nelle sigarette in quanto contenuto nei fertilizzanti usati per le piantagioni di tabacco. Il polonio raggiunge l’apparato bronco-polmonare fissandosi nelle biforcazioni dei bronchi più piccoli.

La dipendenza da nicotina

La nicotina, anch’essa sostanza presente nelle sigarette, causa la dipendenza del fumatore dalla nicotina stessa. Ciò in quanto questa aumenta la secrezione di neurotrasmettitori che regolano l’umore ed il comportamento. Tra questi è inclusa la dopamina, che genera una sensazione di piacere.

La dipendenza da nicotina causa difficoltà a smettere di fumare. Un fumatore che comunque cerca di smettere, può provare ansia, irritabilità, agitazione, cattivo umore, frustrazione, aumento dell’appetito ed insonnia. Le maggiori difficoltà si hanno nei primi quattro giorni; i sintomi tendono comunque ad attenuarsi entro un mese, anche se il malessere può durare per alcuni mesi.

La dissonanza cognitiva

Secondo Leon Festinger (Leon Festinger, 1957) si possono definire come cognizioni o elementi cognitivi “ogni conoscenza, opinione, o credenza che riguardi l’ambiente, la propria persona o il proprio comportamento”. In particolare, si prova dissonanza quando il rapporto tra due elementi cognitivi è incongruente. Ad esempio, se io sono consapevole che fare esercizio fisico è importante per la mia salute, ma non ne faccio, ho un comportamento incoerente. Ciò in quanto la mia consapevolezza sull’importanza dell’esercizio fisico è in contrasto con la mia pigrizia.

Peraltro, come evidenziato sempre da Festinger “l’individuo mira alla coerenza con se stesso”. Ciò significa che, nel momento in cui una persona sperimenta dissonanza, cercherà di ridurre tale dissonanza; gli sforzi saranno poi maggiori quanto più grande è la dissonanza stessa, che dipende dall’importanza degli elementi.

Ma come faccio a ridurre la dissonanza tra due elementi cognitivi? Festinger evidenzia tre azioni possibili:

  • posso cambiare il mio comportamento;
  • posso introdurre un nuovo elemento cognitivo;
  • posso mutare un elemento ambientale.

Peraltro, mentre il cambiamento del comportamento e l’introduzione dell’elemento cognitivo sono, nella maggioranza dei casi, sempre possibili, posso avere difficoltà a mutare l’elemento ambientale.

Tornando all’esempio dell’esercizio fisico, posso quindi cambiare il mio comportamento ed incominciare ad allenarmi. Oppure posso introdurre un nuovo elemento cognitivo, ad esempio convincendomi che non ho tempo per andare in palestra. Di contro, non posso mutare l’elemento ambientale, cioè il fatto che l’attività fisica sia importante.

I fumatori e la riduzione della dissonanza

La teoria della dissonanza cognitiva è stata definita come una delle più importanti e influenti teorie nel campo della psicologia sociale (Julia Kneer, Sabine Clock, Diana Riger, 2012). Ma cosa c’entra con i fumatori? L’analisi della dissonanza cognitiva in questi soggetti, è senza dubbio uno degli esempi più utilizzati da Leon Festinger (Omid Fotuhi, Geoffrey Zong, Mark Zenna, e altri, 2013).

I fumatori, infatti, sperimentano una forte dissonanza. Da una parte sono consapevoli che, fumando, mettono in atto un comportamento dannoso, dall’altra, continuano a fumare; ciò comporta un costo non solo in termini economici, ma soprattutto in termini di salute.

I fumatori sono quindi portati a ridurre la loro dissonanza. Ma quali strategie adottano? Ormai non ci sono più dubbi sul fatto che il fumo sia dannoso per la salute. È stato infatti osservato (Omid Fotuhi, Geoffrey Zong, Mark Zenna, e altri, 2013) che le strategie basate sulla minimizzazione dei rischi sono piuttosto rare: è alquanto difficile che un fumatore tenti di negare i danni causati dal fumo. In linea generale, infatti, i fumatori preferiscono ridurre la dissonanza (e giustificare il loro comportamento) introducendo degli elementi c.d. “funzionali”.

Una ricerca condotta su alcuni fumatori (Daisy Jane Orcullo, Teo Hui San, 2016) ha evidenziato come le “giustificazioni” siano le più varie. C’è quindi chi fuma perché sul luogo di lavoro lo fanno tutti e quindi fumare risulta anche un modo per “sentirsi parte del gruppo”. C’è chi fuma perché lo trova rilassante. C’è chi fuma perché ormai è un’abitudine giornaliera “un po’ come quando ti lavi i denti”. C’è chi fuma perché ha incominciato a fumare con il proprio partner e quindi il fumo “è come un legame” che unisce la coppia.

Il fumo causa problemi di dipendenza fisica, come evidenziato prima, a causa della nicotina. Molto forti sono però anche le giustificazioni razionali (quindi nuovi elementi cognitivi) che ostacolano la cessazione della dannosa abitudine.

È stato suggerito (Sharham Heshmet, 2016) di riflettere, a mente fredda, sull’opportunità di non fumare, soppesando i vantaggi di non fumare (tanti) e i vantaggi derivanti da questa pessima abitudine (nessuno).

È stato inoltre evidenziato (Julia Kneer, Sabine Clock, Diana Riger, 2012), in ogni caso, che le tecniche di comunicazione utilizzate per convincere a smettere di fumare, dovrebbero far leva sulle giustificazioni del fumatore. Quindi, la focalizzazione non dovrebbe avvenire sul rischio per la salute, in quanto questo è conosciuto e accettato dal fumatore. La comunicazione dovrebbe invece concentrarsi sugli elementi cognitivi utilizzati dal fumatore per giustificare il proprio comportamento.

Ad esempio, se un uomo pensa di essere “figo” perché fuma, bisogna fargli capire che essere “figo” non dipende dalla sigaretta.

 

Un concetto base della psicologia sociale: l’anticipazione degli eventi – I Parte

Questo e il prossimo articolo cercheranno di introdurre il lettore poco esperto ai principi teorici della psicologia della predizione.

Ndr – Il presente articolo è il primo di una serie di due articoli sul tema dell’anticipazione degli eventi. Il secondo contributo sarà pubblicato nei prossimi giorni su State of Mind

 

Sono fuori dall’ufficio del professore in attesa di essere ricevuto. Mi è stato dato appuntamento per discutere del progetto per la tesi di laurea. Non sono nervoso, ma non saprei con precisione cosa aspettarmi. I pensieri girano cercando di predire in anticipo quali domande e quali osservazioni saranno fatte al mio lavoro, e sulla base di queste supposizioni inizio a preparare le mie risposte. Penso anche nel frattempo a cosa potrei fare per migliorare il progetto e dove troverò il tempo per farlo, dato che siamo a ridosso dell’estate e, francamente, desidererei stare in spiaggia anziché davanti a un computer in camera.

Ogni giorno le persone spendono gran parte del proprio tempo per pensare, parlare e fare calcoli su cosa le aspetta nel futuro: cosa faranno gli altri, cosa faranno loro stessi, cosa accadrà nel mondo. Anche molte professioni sembrano fondarsi sulla capacità del professionista di leggere le informazioni presenti nell’ambiente, per poi estrapolarne previsioni sul futuro e sostenerne la ragionevolezza di fronte al proprio pubblico: il medico cerca di prevedere il decorso di una malattia, l’operatore di borsa l’evoluzione dei prezzi sui mercati, lo psicologo forense e lo psichiatra la probabilità che l’imputato possa riattuare una condotta deviante. Gli esempi possono essere molti.

La psicologia della predizione cerca di studiare i processi che descrivono adeguatamente la capacità delle persone di crearsi un’idea di ciò che faranno loro stessi, gli altri, e ciò che accadrà nel mondo. Nel complesso questa disciplina dimostra come gli individui raramente possiedono tutta l’informazione necessaria per fare predizioni accurate e, comunque, anche se la possedessero, il risultato sarebbe fortemente influenzato da bias e distorsioni cognitive derivanti da abitudini di pensiero scorrette e dalla mancanza di consapevolezza degli elementi della psicologia individuale che influenzano tali risultati.

Sulla base di queste osservazioni Dunning (2007) fornisce un resoconto teorico che sintetizza i limiti della cognizione umana appena considerati, come anche per fornire indicazioni su come ‘riparare’ (rendere più accurate e valide e, quindi, aderenti alla realtà) le proprie previsioni.

Questo e il prossimo articolo cercheranno di introdurre il lettore poco esperto ai principi teorici della psicologia della previsione, considerando i quali potremmo non solo comprendere i meccanismi tramite cui costruiamo le nostre previsioni sul futuro, ma anche migliorarne l’aderenza alla realtà.

Gli errori nella previsione degli eventi

Sono fondamentalmente due gli errori che le persone fanno quando considerano i risultati attesi in una situazione. Vediamoli uno a uno.

Innanzitutto, tendiamo in diversi modi a crearci previsioni eccessivamente ottimistiche. In primo luogo, tendiamo a sovrastimare la probabilità di esiti positivi e a sottostimare la probabilità di eventi negativi, dando origine a previsioni eccessivamente ottimistiche, soprattutto per le nostre azioni future. Quanto spesso abbiamo iniziato, ad esempio, ad andare in palestra a fare esercizio fisico animati dalle migliori intenzioni, per poi ritrovarci dopo qualche tempo non più così motivati di ritrovare la nostra forma fisica di quando avevamo vent’anni, perché troppo faticoso? Oltre a ciò, sembra che non siamo in grado di stimare adeguatamente neanche il tempo di completamento di un piano d’azione, di una scadenza, di un progetto (planning fallacy; Buehler, Griffin & Ross, 1994). Alzi la mano chi è riuscito a preparare la propria tesi entro i tempi previsti al momento della consegna del progetto in segreteria.

Il secondo errore riguarda poi il dare eccessiva fiducia alle nostre previsioni, siano esse positive o negative. Vediamo, infatti, quella che è una mera sensazione soggettiva di certezza come la garanzia che il mondo e gli altri si conformeranno alla nostra intelligenza acuta, penetrante, infallibile. Leggiamo nel futuro. Nostradamus o megalomani? Pensate a tutte le volte che le cose non vi sono andate come avevate immaginato e giudicate voi. Ma non vi preoccupate, lo facciamo tutti. Persino i professionisti in ambito medico (Oksam, Kingma & Klasen, 2000), psicologico (Oskamp, 1965) e i professionisti coinvolti nella politica internazionale (Tetlock, 2002). Se iniziate ad avere qualche timore vi capisco perfettamente.

In sintesi, sembra quindi che tendiamo a fare previsioni eccessivamente ottimistiche e a darvi eccessiva fiducia.

I principi alla base di una previsione ottimistica

Ma perchè accade questo? La risposta ce la danno alcuni principi che guidano i processi cognitivi responsabili della creazione di queste previsioni (Dunning, 2007).

Il primo principio riguarda la natura delle previsioni stesse. Esse sono scenari che ci costruiamo in base alle informazioni che possediamo sugli eventi, sull’ambiente, sugli altri; scenari che tentano di costruire successioni di eventi plausibili in relazione causale tra loro, per noi dotate di senso.

Più lo scenario che ci costruiamo ci sembra semplice, facile da costruire, plausibile e contenente un gran numero di oggetti, persone o eventi, più esso ci sembrerà probabile che accada (ad esempio Atance & O’Neil, 2001). Se vi sembra troppo meccanicista come risposta, provate a pensare a voce alta quando state cercando di prevedere qualcosa e valutatene questi aspetti (Dougherty, Gettys & Ogden, 1999). Potreste farlo, ad esempio, con la vostra dolce metà, cercando di prevedere se il bello e la bella protagonisti del film che state guardando si troveranno prima o poi in una qualche situazione romantica e tesa e finiranno per mettersi insieme (quasi certamente).

Il secondo principio riguarda la completezza degli scenari, e ci informa che gli scenari che ci costruiamo sono spesso parecchio tendenziosi. Nello specifico, attueremmo uno o più di questi cinque errori (Dunning, 2007):

  • Focalizzarci sugli aspetti astratti senza considerare adeguatamente quelli concreti. Più è astratto uno scenario, più semplice e rapida ne sarà la costruzione, e più valido ci sembrerà il risultato, poiché basato su conoscenza schematica e stereotipata, soprattutto se l’evento è distante nel futuro (Vallacher & Wegner, 2007);
  • Concentrarci eccessivamente sui risultati cui siamo principalmente interessati, trascurando risultati per noi secondari (Redelmeier, Koehler, Liberman & Tversky, 1995); e a non aggiornare le nostre previsioni anche se l’ambiente ci manda informazioni utili a riguardo (Koriat, Lichtenstein & Fischoff, 1980). Spendiamo molto tempo a pensare cosa faremmo se ottenessimo qualcosa (ad esempio ‘verrò quasi certamente promosso, vado in concessionaria a comprare un’auto nuova’), senza pensare a cosa faremmo se non la ottenessimo (‘cosa accadrebbe nel caso non venissi promosso e non guadagnassi di più?’);
  • Concentrarci su elementi ottimistici a scapito di quelli potenzialmente pessimistici, che tendiamo a minimizzare, se non a ignorare, soprattutto per previsioni molto in là nel tempo (Eyal, Liberman, Trope & Walther, 2004). Una volta che l’evento previsto si avvicina sembra invece accadere l’opposto. In questo caso tendiamo invece a far slittare le nostre predizioni ottimiste su una china pessimista, progressivamente diminuendo la nostra stima sulla probabilità che l’evento accada (Gilovich, Kerr & Medvec, 1993). In altre parole, se a inizio semestre penso di prendere trenta al prossimo esame, all’avvicinarsi di questo potrei pensare o che, dopotutto, non è detto che prenda un voto alto (in termini di probabilità), oppure pensare che questo voto non sarà alla mia portata;
  • Un quarto errore, il focalismo (Wilson, Wheatley, Meyers & Gilbert, 2000), si presenta nel momento in cui falliamo nel considerare come il risultato desiderato avrà un impatto sul nostro quotidiano, come anche nel concentrarsi sugli aspetti condivisi da eventi diversi senza considerarne gli aspetti distintivi.
  • Le persone, infine, tendono a essere troppo concentrate sulla forza delle evidenze che usano per creare le proprie previsioni, piuttosto che sul peso delle evidenze stesse (ad esempio, Griffin & Tversky, 1992). In altre parole, tendiamo a mettere insieme ragioni per dare supporto delle nostre previsioni (c’è fumo, quindi c’è fuoco) senza valutare l’affidabilità delle evidenze considerate (c’è del fumo, ma mi trovo in un appartamento in centro, forse è solo l’arrosto che brucia nel forno).

In sintesi, in questo articolo abbiamo visto alcuni dei principali errori che le persone tendono a fare quando si formano una previsione su un futuro scenario, sul proprio comportamento o sul comportamento degli altri. Ciò accade perché le nostre previsioni non sono altro che simulazioni mentali di scenari che reputiamo probabili, sulla base delle informazioni a nostra disposizione.

Nel prossimo articolo vedremo in che modo la costruzione di simulazioni mentali di scenari futuri sia di per sé un procedimento soggetto a incertezza. Vedremo poi gli errori che le persone di solito fanno nel tentativo di stimare l’impatto emotivo che un evento futuro avrà su di sé e, infine, alcuni procedimenti che potremmo utilizzare per tentare di correggere questi limiti intrinseci alla cognizione umana.

 


UN CONCETTO BASE DELLA PSICOLOGIA SOCIALE: L’ANTICIPAZIONE DEGLI EVENTI – LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DELLA SERIE:

Come funziona il nostro cervello?

La neuroeconomia propone l’idea della contabilità mentale, in base alla quale le persone suddividono i budget mentali in specifiche categorie di spesa e acquistano considerando questi diversi budget.

 

Come funziona il nostro cervello? Cognitive style, brain imaging e mental accounting sono solo alcuni dei metodi utilizzati dalla neuroscienza per dare una risposta a questa curiosa domanda.

Il nostro cervello è un organo complesso, spesso al centro di ricerche e studi volti a cogliere e analizzare le sue funzioni. Esistono diverse tecniche che hanno permesso di approfondire l’argomento in questione, tra le più importanti c’è sicuramente il neuroimaging. Esso è composto da specifici strumenti come la fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), in cui l’approccio neuroscientifico indaga l’anatomia del cervello e rileva quali aree vengono attivate durante l’esecuzione di un compito specifico. La fMRI è oggi l’unica tecnologia che permette di osservare, nel modo più preciso, il funzionamento delle aree cerebrali in risposta a determinati stimoli, ancor prima che avvenga l’elaborazione cosciente (Schaefer, 2009).

La neuroeconomia e la teoria della contabilità mentale

Esperti, ricercatori e Nobel provenienti da diverse formazioni educative come psicologi, economisti, neuroscienziati e sociologi, hanno formulato teorie relative al cervello. La neuroeconomia, per esempio, propone l’idea della contabilità mentale, in base alla quale le persone suddividono i budget mentali in specifiche categorie di spesa (ad esempio “cibi”, “hobby”, “casa”, “vestiti”, ecc.) e poi acquistano considerando questi diversi budget (Banerjee et al., 2019). Quindi, il denaro non è considerato un bene fungibile e vengono considerati due nuovi traguardi: la definizione di budget diversi per specifiche categorie di spesa e il monitoraggio delle spese correnti rispetto a budget prestabiliti (Huang et al., 2020).

Questa teoria della contabilità mentale mette in luce il possibile verificarsi di comportamenti economici irrazionali. Inoltre, una volta stabilito un budget per una specifica categoria, il consumatore tenderà a effettuare acquisti relativi ai prodotti con essa più congruenti, definendoli tipici. Da queste considerazioni, gli studi hanno mostrato come le “carte regalo” possono influenzare la mente dei consumatori e modificare le loro preferenze. Chi tende a fare acquisti con una gift card di una marca specifica sarà più propenso ad acquistare prodotti tipici di quella marca (Reinholtz et al., 2015). Nel suo studio del 2015, Reinholtz dimostra come una persona, ricevendo una carta regalo da uno specifico rivenditore, abbia maggiori possibilità di spenderla per uno di quei prodotti di quel marchio, creando un conseguente account mentale che influenza il modo in cui le persone rappresentano mentalmente i potenziali acquisti dal rivenditore emittente. In questo modo, gli acquisti tipici, basati su uno specifico account mentale, diventano maggiormente preferiti verso un determinato brand. Un altro aspetto importante è la capacità del rivenditore di stimare quando le persone acquisteranno con la carta regalo specifica del rivenditore, in modo che il rivenditore sarà in grado di personalizzare l’offerta per quel particolare consumatore.

La neuroeconomia e lo stile cognitivo del consumatore

È importante considerare altri due aspetti fondamentali: il budget assegnato a una specifica categoria di spesa dal consumatore e il suo stile cognitivo. Il primo consiste in acquisti personali, guidati da un budget del consumatore stabilito per quella particolare categoria di spesa, che può implementare il rischio di un sotto o sovra consumo (Huang et al., 2020). Il secondo punto chiave riguarda lo stile cognitivo del consumatore che è un processo cognitivo in grado di influenzare la contabilità mentale e il suo consumatore. Secondo lo studio di Banerjee (2019), lo stile cognitivo può essere suddiviso in analitico e olistico, entrambi soggetti allo specifico background culturale del singolo consumatore. Lo stile olistico, infatti, è prevalente nelle culture orientali e si concentra sull’interrelazione tra oggetti diversi. Quella analitica, invece, è tipica delle culture occidentali ed è caratterizzata dalla focalizzazione sullo specifico oggetto centrale in un contesto determinante, che implica decisioni basate su regole. È molto interessante notare come i due diversi stili cognitivi comportino due diversi processi contabili: uno molto frammentato (per lo stile analitico) e uno completo (per lo stile olistico).

In sintesi, come è stato mostrato in questo articolo, le persone sono caratterizzate da un forte comportamento irrazionale quando prendono decisioni economiche. Pertanto, è fondamentale che i rivenditori studino il loro cervello con un approccio di neuroimaging. Ad esempio, la neuroeconomia può mostrare come il cervello umano reagisce ai marchi e l’impatto che esercitano sul suo comportamento (Schaefer, 2009).

Ci sono tante teorie economiche classiche che sostengono come un essere umano sia un soggetto razionale, e tante altre teorie economiche che sono più focalizzate sul comportamento del consumatore, evidenziando come spesso le decisioni si basino su comportamenti irrazionali e istintivi. La neuroeconomia sembra essere un valido strumento per comprendere il cervello di un consumatore ed essere in grado di soddisfare le esigenze individuali, personalizzando le offerte e segmentando i clienti in cluster specifici. Pertanto, dai profili psicologici e sociali, le aziende hanno la capacità di analizzare il soggetto economico attraverso degli strumenti che sono in costante sviluppo. Questi consentono alle aziende di capire davvero il cliente, offrendo la migliore soluzione personalizzata e su misura per le sue esigenze.

 

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