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Catcalling: dinamiche di potere e scopi comunicativi

Lo studio di Del Greco (2020), ha indagato le motivazioni degli uomini, il livello di tolleranza e il ruolo del potere nel fenomeno del catcalling.

 

Il fenomeno del catcalling

La crescente consapevolezza riguardo le molestie di strada le ha rese oggetto di plurimi dibattiti pubblici e culturali. Le molestie di strada sono generalmente definite come il subire attenzioni sessuali indesiderate da parte di estranei in contesti pubblici. Il catcalling, in particolare, coinvolge gli uomini che usano comportamenti verbali e non verbali per commentare l’aspetto fisico di una donna in modo da oggettivizzarla. Tali comportamenti possono includere l’utilizzo di un linguaggio volgare, fischi, sguardi, gesti e avances sessuali (Farmer, Smock Jordan, 2017). Il catcalling genera significativi effetti negativi sulla vita delle vittime, tra i quali reazioni fisiche, emotive e sintomi psicologici. I sintomi fisici generalmente riportati includono tensione muscolare, problemi di respirazione, vertigini e nausea (Tran, 2015). Inoltre, le donne affermano di avere una rilevante paura legata a un possibile danno fisico come la violenza sessuale (MacMillan et al., 2000). L’interiorizzazione dei sentimenti di invasione, di umiliazione e la paura associata alle esperienze di molestie sono precursori di rabbia repressa, depressione e ansia (Chhun, 2011). L’insieme di questi esiti induce le donne a valutare i loro dintorni, cambiare i modelli di socializzazione, limitare le scelte di abbigliamento e persino evitare certi quartieri o percorsi (Kearl, 2009). Così, gli effetti delle molestie di strada si ripercuotono in ambito fisico e psicologico, portando con sé conseguenti cambiamenti comportamentali. Tali cambiamenti suggeriscono che alla base delle molestie di strada possono esserci questioni di potere. È importante indagare tuttavia l’intento comunicativo alla base del catcalling per comprendere appieno la gamma di ragioni per cui alcuni uomini possono partecipare a tale fenomeno. Per esempio, è possibile che alcuni uomini non agiscano guidati dalla detenzione di potere ma, piuttosto, siano annoiati o credano di esprimere un complimento nei confronti della vittima. L’attitudine degli uomini ad impegnarsi nelle molestie di strada può variare in accordo con i loro sentimenti verso le molestie sessuali.

Uno studio sulle motivazioni sottanti il catcalling

Lo studio di Del Greco (2020), ha indagato le motivazioni degli uomini, il livello di tolleranza e il ruolo del potere nel fenomeno del catcalling.

Il campione dello studio era composto da 348 studenti americani, di cui 143 uomini e 205 donne mediamente ventenni di diverse etnie. Sono state utilizzate due diverse raccolte di questionari, una esclusivamente per gli uomini e un’altra per le donne, ciascuna con item personalizzati per analizzare il fenomeno da due prospettive differenti. I partecipanti hanno compilato una sezione sui comportamenti di molestie di strada, una sui tentativi di controllo e presa di controllo, una riguardo al potere di genere ed una sezione per indagare i motivi comunicativi. La frequenza e desiderabilità delle molestie di strada è stata misurata utilizzando una lista composta da 28 possibili comportamenti di molestie di strada creata da Sullivan (2011). Per quanto riguarda la seconda variabile presa in considerazione, ovvero i tentativi di controllo e presa di controllo, è stata utilizzata una lista di 18 possibili risposte alle molestie di strada (ad esempio “sorridere”, “iniziare a parlare” “fare brutti gesti”). Agli uomini è stato chiesto di indicare quali comportamenti desiderassero come risposta al catcalling, alle donne è stato chiesto di pensare al ricordo più recente legato al catcalling ed indicare quali comportamenti pensavano che il loro molestatore volesse ottenere e quali abbiano effettivamente messo in atto. Per quanto riguarda le credenze sul potere è stato utilizzato un solo item derivato da una scala creata da Dunbar ed Abra (2010), ovvero la domanda “chi ritieni abbia più potere in una relazione?”. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare quale genere avesse più potere secondo loro, in una scala in cui 1 equivaleva “al genere opposto”, 2 equivaleva ad “uguale potere” e 3 indicava “il mio genere”. Per analizzare gli scopi di comunicazione è stata utilizzata la “Interpersonal communication motives scale” (Rubin et al.,1988). Questa scala valuta gli scopi comunicativi ed include 28 item suddivisi in sei categorie: piacere, affettività, inclusione, svago, relax e manipolazione. La tolleranza alle molestie sessuali è stata indagata utilizzando la “Mazer and Percival’s scale” (1989), composta da 19 affermazioni a cui ad ogni soggetto del campione maschile era chiesto di attribuire il suo grado di accordo da 1 (completamente in disaccordo) a 7 (completamente d’accordo). Infine, è stata misurata la desiderabilità sociale utilizzando una versione a 10 item della “Marlowe-Crowne Social Desirability Scale” (Crowne & Marlowe, 1960; Strahan & Gerbasi, 1972) per capire quanto potesse influire sulle risposte date dai partecipanti.

Dallo studio condotto da Del Greco (2020), è emerso che il 78% degli uomini intervistati ha avuto atteggiamenti molesti in strada e di questi l’87% lo ha fatto con l’intento di modificare in qualche modo il comportamento della vittima. In generale, la maggior parte degli uomini vorrebbe che le donne rispondessero alle molestie di strada in modo più positivo, ad esempio sorridendo o iniziando una conversazione. Sembrerebbe dunque che le molestie di strada siano spesso utilizzate dagli uomini come tentativo di controllo. In questo caso, se la donna ha la percezione di avere uguale potere, è più frequente che la stessa metta in atto un tentativo di contro controllo, mentre la frequenza diminuisce se la donna crede di avere un potere inferiore rispetto all’uomo. La ricerca suggerisce che gli uomini hanno più probabilità di avere una maggiore tolleranza alle molestie sessuali quando hanno forti convinzioni sui ruoli di genere tradizionali, hanno un alto grado di dominanza sociale, hanno un alto grado di mascolinità e atteggiamenti ostili verso le donne o di stampo sessista (Glick & Fiske, 1997). Anche il contesto sembra influenzare il fenomeno: è molto probabile che chi molesta in strada non attuerebbe lo stesso comportamento in un ambiente domestico o lavorativo per via delle dinamiche relazionali in corso (Dunbar, 2004). Per quanto riguarda gli scopi legati a questo fenomeno, la motivazione più frequente risulta essere il desiderio di affettività, seguita da piacere, inclusione, svago, relax e manipolazione. Inoltre chi compie catcalling non lo percepisce come esperienza negativa e non si aspetta reazioni negative. Dal punto di vista delle donne è emerso che le motivazioni che potrebbero trovarsi alla base delle molestie sono: piacere, controllo, svago, inclusione, relax e desiderio di affettività.

I dati raccolti dimostrano che le donne sono colpite gravemente dalle conseguenze di questi comportamenti (Fairchild & Rudman, 2008). Pertanto, una maggiore educazione in merito ai sentimenti e alle esperienze delle donne potrebbe ridurre significativamente la comunicazione disfunzionale, la confusione, la paura e la violenza.

 

ABC UPGRADE: il metodo base della terapia cognitiva, e cosa ci permette di scoprire la “tendenza di comportamento”

La tecnica dell’ABC è una delle più conosciute in psicoterapia cognitiva (Ellis 1957, Beck 1975, Fiore 2011).

 

È un esercizio, all’apparenza banale, ma con tantissime potenzialità. Ci consente infatti di “fare ordine” nei nostri pensieri, soprattutto quando il livello emotivo aumenta rendendo tutto più confuso.

In preda ad una crisi d’ansia, capita di essere letteralmente trascinati dalla propria mente e sballottati fra mille pensieri angoscianti: ci si rende conto di star fuggendo a gambe levate, solo dopo aver corso a perdifiato per chilometri.

L’effetto più importante che gli stati emotivi allarmanti hanno su di noi è quello di farci perdere il controllo, apparentemente, sulle nostre azioni.

Ci ritroviamo risucchiati in un vortice, nel quale non percepiamo di avere alcuna scelta consapevole: pensiero e azione sono completamente fusi (Harris 2012).

Mettere ordine nella nostra esperienza attraverso l’ABC

Ma è davvero così?

In realtà è possibile creare un ordine tra ciò che accade, come valutiamo ciò che viviamo, cosa sentiamo e come ci comportiamo: incredibile pensare di avere così tanta scelta!

La psicoterapia cognitiva, parte da un assunto che può sembrare la scoperta dell’acqua calda, ma che in realtà fa molta differenza nella nostra esperienza della sofferenza.

Ci dice che non è tanto ciò che ci accade, ad essere importante nel farci soffrire, ma come lo interpretiamo, come ce lo raccontiamo.

Può sembrare l’uovo di Colombo, e invece no: è comune pensare che siano gli eventi gli unici responsabili del nostro malessere o benessere. In questi termini è una questione di fortuna o sfortuna, siamo in balìa degli eventi della vita. Ma un aspetto di questa spiegazione non torna: come mai di fronte ad uno stesso evento, magari anche traumatico, osserviamo reazioni diverse in persone diverse?

Quante volte ci capita di osservare ammirati persone che sono state vittime di ogni angheria, reagire con forza e risolutezza (e viceversa)?

Non è tanto ciò che accade quindi, ma il modo in cui ce lo raccontiamo sul momento, e come lo includiamo nella nostra storia personale.

Tramite l’ABC abbiamo la possibilità di fare ordine tra eventi, pensieri, emozioni e comportamenti, secondo questo schema (schema 1):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 1

Schema 1

Nella A descriviamo cosa ci ha colpiti, cosa è successo che, secondo noi, ci ha attivati, di qualsiasi cosa si tratti: un evento esterno, in cui sono comprese altre persone; un evento interno, come un pensiero, un ricordo o una sensazione. Qualsiasi cosa, insomma, che attrae la nostra attenzione e che provoca, in noi, una reazione.

Nella B annotiamo ciò che ci passa per la mente, in seguito all’evento che abbiamo descritto nella A. Descriviamo il nostro pensiero “a caldo”, rispetto ciò che è accaduto, come se potessimo osservarlo sullo schermo di un cinema. È importante che il pensiero sia immediato, temporalmente, e descritto in modo più pratico possibile, persino utilizzando il dialetto o le parolacce: meno è filtrato e meglio è.

Nella C, infine, vanno le emozioni provate come rabbia, tristezza, senso di colpa, paura, ansia, angoscia; ed il comportamento che ne è seguito.

Questo tipo di processo, la nostra mente lo fa continuamente, anche se non ce ne rendiamo conto: valutiamo ogni cosa che attira la nostra attenzione, anche se non tutti questi pensieri sono degni di nota. Un pensiero acquista un valore, o una “pesantezza”, in base all’emozione che suscita.

Prendiamo di nuovo lo schema precedente (Schema 2):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 2

Schema 2

Ogni emozione, come una ricetta culinaria, ha una sua composizione, una sua lista di ingredienti: ad esempio se mi rendo conto di aver subito un torto (A), che giudico ingiusto (B), provo rabbia (C-emozione), e avrò voglia di vendicarmi (C-comportamento).

Al contrario, se mi rendo conto di aver commesso un’azione verso qualcuno (A), che giudico ingiusta (B), proverò senso di colpa (C-emozione) e vorrò riparare (C-comportamento).

In questo modo, le emozioni scaturiscono dalle nostre valutazioni, dai nostri racconti degli eventi che viviamo.

Ma non solo, grande importanza ha anche come le inseriamo nella nostra immensa biblioteca cognitiva, dove negli anni abbiamo accatastato tomi su tomi, man mano che facevamo esperienze, davamo giudizi e provavamo emozioni.

Collocare nella storia di vita il vissuto rilevato con gli ABC

La nostra storia di vita, a sua volta, influenzerà il modo in cui, di volta in volta, valuteremo ciò che ci accade e proveremo determinate emozioni; ciò ci indurrà, poi, a certi giudizi (che possono diventare pre-giudizi), piuttosto che altri.

Esisterà, quindi, un modo di raccontarci e raccontare il mondo attorno a noi, che conosciamo e che come un filtro, utilizzeremo più spesso.

Il problema maggiore di tale filtro, è che tende ad essere rigido, a non modificarsi nel tempo o in base alle esperienze: soprattutto se l’evento che l’ha creato ha scatenato una reazione emotiva forte.

Se nella mia vita ho fatto esperienze di fallimento, e per questo mi sono raccontata come incapace, magari sostenuta da critiche di chi mi stava intorno, il filtro che si creerà mi suggerirà che sono un’incapace, che non vale la pena di provare esperienze nuove perché tanto fallirò e per me sarà gravissimo, perché non ho conosciuto nient’altro.

Provando a costruire uno schema (Schema 3):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 3

Schema 3

La storia di vita costituirà, quindi, una sorta di ago della bilancia verso i giudizi che daremo, rispetto agli eventi che ci accadranno.

Concentriamoci ora, per un attimo, sulla C.

Abbiamo detto che nella C, c’è una duplice informazione: le emozioni risultanti dal processo di valutazione tra pensiero ed evento, e il comportamento conseguente.

In realtà esiste un’altra informazione, importante da considerare: potremo chiamarla la “tendenza di comportamento”.

Rispetto al comportamento messo in atto, la tendenza di comportamento ci racconta una storia diversa, importante da considerare soprattutto quando siamo abituati, magari proprio a causa della storia di vita, ad esempio a trattenerci automaticamente dall’esprimere ciò che proviamo.

Abbiamo detto che ogni emozione ha degli ingredienti cognitivi, tuttavia la normale catena di eventi prevista per alcune emozioni, potrebbe essere “dirottata” dalle esperienze di vita che ci inducono verso comportamenti più “accettabili”, piuttosto che altri.

Se ci pensiamo bene, questo accade molto spesso ed ha un senso sociale: ognuno di noi ha sperimentato, ad esempio, una grande rabbia verso il proprio datore di lavoro per la quale avrebbe reagito in malo modo.

La valutazione della scarsa convenienza per il mantenimento del posto di lavoro, ad esempio, potrà frenarci dal mettere in atto un comportamento di rivalsa plateale (Schema 4).

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 4

Schema 4

Saremo tutti d’accordo, sul buon senso di tale “dirottamento”.

Ma cosa accadrebbe se invece di una valutazione attiva, improntata al buon senso, attivassimo una vera censura sistematica?

Guardiamo cosa potrebbe accadere, nello schema seguente:

La tendenza di comportamento diventa importante da valutare quando ci sono delle contraddizioni tra ciò che penso, ciò che percepisco e il mio comportamento. Da queste contraddizioni possono scaturire grandi forme di sofferenza: pensiamo alla censura sistematica della rabbia in una persona poco assertiva. La rabbia è un’emozione primaria molto potente che tende a reagire male all’accumulo sistematico: trova sempre una sua forma di espressione, magari sfruttando da una parte l’esperienza di vita, e dall’altra una comune reazione fisiologica come con l’ansia.

Spesso si osservano C di ansia, insieme a crisi di panico, in persone che hanno un ABC simile allo schema sopra descritto: l’ansia tende ad essere più socialmente accettata della rabbia, e nella storia familiare potrebbero esserci dei vissuti congruenti che avrebbero contribuito negli anni a raccontarsi come “soggetto ansioso”, sdoganando il vissuto ansioso rispetto a quello rabbioso.

Riprendiamo lo schema (Schema 5):

ABC fare ordine tra eventi pensieri emozioni e comportamenti in terapia Schema 5

Schema 5

La tendenza di comportamento ci dà la possibilità di riflettere sui giudizi censurati, e sulle motivazioni della censura. Abbiamo una finestra sulla “scatola nera” della nostra mente, e la possibilità di risolvere le contraddizioni che ci portano a soffrire.

Prendendo la persona dell’esempio, potremmo immaginare che sia abituata a raccontarsi come ansiosa, e che abbia una grossa ansia da prestazione conseguente. Questa persona potrebbe avere più dimestichezza con l’ansia che con la rabbia, dirottando le attivazioni fisiologiche più intense verso l’ansia e continuando così a perpetrare l’immagine di se stessa come soggetto ansioso, magari in accordo ad una storia familiare di ansia condivisa.

In questo caso, sdoganando e normalizzando gli effetti comportamentali della rabbia si ha la possibilità di arricchire la propria immagine di sé e delle proprie emozioni guadagnandosi il diritto nel provarle. Arricchire il bagaglio delle emozioni provate, consente anche di guadagnare flessibilità nel comportamento: ad esempio riconoscendo le mie reazioni come rabbiose e validando l’ingiustizia sottostante posso decidere di adottare un comportamento “di mezzo” tra la reazione violenta e la sottomissione plateale.

 

Nutrizionista e dietista – Come e quando fare l’invio ad uno psicoterapeuta

Ad oggi, le cause dei disturbi alimentari non sono ancora del tutto note. Ciò che la ricerca ha finora dimostrato è che tali problematiche derivano dalla combinazione tra predisposizione genetica e fattori di rischio ambientali.

 

Tuttavia, nei disturbi alimentari, i fattori di rischio sono unicamente di tipo “potenziale” mentre non sono ancora stati ritrovati quelli “causali”. La differenza tra le due tipologie è che i primi (quelli “potenziali”) incrementano unicamente il rischio di sviluppare il disturbo. L’assenza dei secondi (“causali”) è invece un fattore protettivo in grado di diminuire il rischio di sviluppo di una determinata patologia o di un disturbo.

Tra i fattori potenziali di rischio dei disturbi alimentari ritroviamo, tra i tanti, le diete, specie negli adolescenti normopeso. Studi dimostrano infatti che le adolescenti donne di 15 anni che seguono diete corrono un rischio di 8 volte superiore rispetto ai controlli di manifestare un disturbo dell’alimentazione nell’anno seguente. Altri studi evidenziano come gli adolescenti a dieta rischiano 18 volte in più rispetto ai coetanei non a dieta, anche se si tratta di regimi dietetici solo lievemente ipocalorici.

In aggiunta, sempre secondo gli studi, le diete sono correlate all’aumento di alimentazione incontrollata. Tale relazione è ancora più valida per quei regimi dietetici basati sul digiuno intermittente. Le 6 o le 14 ore successive ad un periodo di digiuno sono infatti maggiormente a rischio di alimentazione incontrollata. Ciò deriva dal fatto che le diete (ed il digiuno) determinano una riduzione del triptofano, precursore della serotonina che altera i segnali di fame e di sazietà.

È dunque importante che i dietologi, i dietisti e i nutrizionisti conoscano i disturbi alimentari e siano sensibili e attenti a tali problematiche. È inoltre essenziale che le figure professionali che si occupano di alimentazione sappiano riconoscere gli eventuali campanelli di allarme affinché evidenzino i pazienti con difficoltà alimentari per inviarli (per i motivi discussi in precedenza) ad uno psicoterapeuta o ad una figura formata nella cura dei disturbi alimentari.

Ecco dunque di seguito alcune informazioni che ogni esperto di nutrizione dovrebbe raccogliere durante il primo incontro anamnestico per valutare un eventuale “passaggio di consegne”.

Informazioni per valutare la possibile presenza di disturbi alimentari

1. Sesso: particolare attenzione va posta alle donne. Sono infatti i soggetti di sesso femminile ad essere più frequentemente colpiti dai disturbi dell’alimentazione. La motivazione potrebbe risiedere nel fatto che le donne sono più socialmente spinte (rispetto agli uomini) alla magrezza e basano maggiormente il proprio valore sull’aspetto fisico, sono pertanto più portate ad intraprendere percorsi nutrizionali.

2. Età: studi dimostrano che il doppio picco di insorgenza dell’anoressia nervosa è di 14-15 e 18 anni; 17-18 è invece quello della bulimia nervosa. Le età più delicate sono dunque quelle dell’adolescenza e della prima età adulta. Età in cui frequentemente vengono iniziate diete (spesso “da autodidatta”) con lo scopo di perdere peso in seguito, tra le varie cause, ai cambiamenti corporei legati alla pubertà, alla tendenza a giudicarsi in base al proprio peso e alla volontà di avere controllo in almeno un ambito della propria vita.

3. Precedenti percorsi nutrizionali o diete “fai da te”: per tutti i motivi discussi in precedenza è bene indagare la presenza di precedenti percorsi (anche “autosomministrati”) volti a modificare il proprio peso corporeo. Inoltre, dati da non trascurare sono il peso ed il BMI “pre-dieta”. Così facendo si valuta se dietro alla necessità di perdita di peso risiedessero anche motivazioni legate ad esigenze mediche (es. BMI elevato) oppure vi fosse unicamente una spinta verso l’ideale di magrezza.

4. Recenti cambiamenti di peso: tra i vari aspetti è utile indagare la storia poderale e, in caso di soggetti di sesso femminile, il peso al menarca. Particolare attenzione va posta ai cambiamenti recenti di peso. È bene dunque chiedere se nell’ultimo periodo si sono verificate perdite di peso più o meno importanti (anche involontarie) e, in caso di risposta affermativa, il peso di partenza facendo attenzione se il soggetto si trovava all’esordio in una condizione di normopeso (BMI≥18.5). Infine, se allo stato attuale il soggetto è sottopeso è importante monitorare la presenza di eventuali sintomi da malnutrizione (Minnesota Study). La loro individuazione permette infatti di valutare la necessità di coinvolgere anche il medico di base con le competenze necessarie per il monitoraggio di tali aspetti.

Campanelli di allarme per disturbi alimentari nello stile alimentare

Dopo aver indagato tali aspetti, è necessario approfondire lo stile alimentare del paziente affrontando gli aspetti elencati di seguito.

5. Presenza di una dieta rigida: chi ha problematiche con l’alimentazione tende a seguire diete rigide ed estreme con l’obiettivo di controllare il proprio peso e le proprie forme corporee. Lo scopo è infatti quello di perdere peso o di evitare un suo aumento. La modalità è però la messa in atto di comportamenti disfunzionali quali la restrizione quali-quantitativa e l’alimentazione ritardata ovvero saltare i pasti riducendoli in frequenza (es. consumare un solo pasto al giorno).

6. Presenza di alimenti evitati: fin dall’esordio i soggetti che soffrono di un disturbo alimentare tendono a modificare la propria alimentazione. Ciò comporta che gli alimenti che un tempo piacevano e che venivano consumati senza preoccupazione vengono rifiutati. Tali cibi sono, di norma, quelli contenenti carboidrati, i dolci e gli alimenti trasformati e non composti da un unico ingrediente. La scelta ricade dunque su altri cibi che sono tendenzialmente quelli additati come “salutari”. Ciò che è utile cercare di indagare è la motivazione per la quale vengono esclusi, per gusto o per il sottostante timore che tali alimenti possano incidere sul peso o possano condurre ad un episodio di perdita di controllo?

7. Presenza di regole dietetiche: è buona norma cercare inoltre di individuare la presenza (o meno) di regole dietetiche che generalmente riguardano come, cosa, quando e quanto mangiare. Tra queste, possiamo ritrovare: spezzettare il cibo in piccoli bocconi, mangiare solo alimenti che contengono meno di un certo numero di calorie, non mangiare dopo un determinato orario e mangiare meno degli altri.

8. Presenza di perdite di controllo/alimentazione sregolata: ovvero l’assunzione di una quantità di cibo (più o meno abbondante) associata alla sensazione di perdita di controllo. Può essere inoltre presente un’alimentazione eccessiva, in particolare in momenti “extra-pasto”, ovvero il consumo di una grande quantità di cibo senza però la sensazione di perdita di controllo. È utile indagare tali comportamenti perché possono essere il “sintomo” di una restrizione precedente.

9. Esercizio fisico intenso: una grande parte di persone con disturbi dell’alimentazione pratica un esercizio fisico eccessivo che, per durata, frequenza ed intensità, è superiore rispetto alle raccomandazioni delle Linee Guida (150-300 minuti settimanali di attività fisica di moderata intensità). Tale esercizio viene spesso vissuto come essenziale ed obbligatorio, anche in condizioni “avverse” (es. pioggia, slogature…) e pertanto viene definito anche compulsivo. Durante il primo colloquio è utile indagare anche questo aspetto poiché può essere un indizio di un rapporto poco sereno con il cibo e il proprio corpo.

10. Motivo della visita: forse di primaria importanza è bene sempre chiedere il motivo della visita e gli obiettivi che si vogliono ottenere cercando di captare anche il “non-detto”. Al di là della richiesta, del BMI del soggetto, della sua età, del sesso e dalla necessità medica (reale o meno) di lavorare sul peso corporeo è bene indagare se sono presenti forti preoccupazioni legate al proprio peso e alle forme corporee. Tendenzialmente, chi soffre di disturbo dell’alimentazione ha un forte timore di aumentare di peso mentre ha una persistente tendenza alla magrezza e al voler raggiungere un peso (sempre più) basso.

Come procedere in caso di sospetto disturbo alimentare

Cosa dovrebbe dunque fare un esperto di nutrizione dopo aver indagato tutti questi aspetti? Dovrebbe valutare se può prendere in carico autonomamente il paziente o se è al contrario necessario chiedere il supporto di uno psicoterapeuta. Se infatti alcuni (e non necessariamente tutti) di questi punti dovessero essere presenti si ritiene necessario il supporto di una figura in grado di lavorare sugli aspetti emotivi e cognitivi.

Per farlo è buona norma coinvolgere il paziente nella decisione, spiegando le proprie motivazioni e aiutandolo a comprenderne il razionale. Se il paziente dovesse mostrarsi d’accordo, gli si forniscono i contatti dei colleghi in modo tale che sia lui stesso a chiamare lo psicoterapeuta prescelto. È inoltre molto importante che, sempre in accordo con il paziente, le due figure (dietista e psicoterapeuta) facciano un “passaggio di consegne” e si tengano in contatto per tutta la durata della terapia.

Qualora il paziente dovesse mostrarsi titubante o addirittura oppositivo rispetto all’invio ad uno psicoterapeuta, il dietista può valutare ugualmente la presa in carico con però la consapevolezza di dover porre estrema attenzione. Potrà successivamente provare a riproporre al proprio paziente il percorso psicoterapico quando i tempi saranno “maturi”.

Infatti, per una completa presa in carico e per una remissione completa del disturbo, gli studi dimostrano la forza dell’équipe multidisciplinare formata, nel caso di problematiche alimentari da dietista, psicoterapeuta e psichiatra. Si tratta di professionisti differenti che (co)operano per il benessere del paziente fornendo il proprio contributo in base alle proprie competenze. In questo modo è possibile trattare la psicopatologia a 360° lavorando sui fattori di mantenimento, sulla normalizzazione eventuale del peso, sulle abitudini alimentari (alimenti evitati e regole dietetiche) fornendo le strategie non unicamente per il breve termine ma anche per la prevenzione di eventuali ricadute. In questo modo il paziente è infatti posto al centro del trattamento e si lavora con e per lui come una grande squadra.

 


 

Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione (2021) – Recesione

Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione costituisce una disamina completa del costrutto di ansia, proponendone una definizione generale e un inquadramento diagnostico accurato, per poi delineare i principali trattamenti psicofarmacologici.

 

Nella premessa, viene introdotta l’essenziale distinzione tra ansia normale o funzionale e ansia patologica o disfunzionale, in base a vari parametri quali la situazione, l’intensità e la durata: uno stato d’ansia normale è uno stato affettivo-emozionale fisiologico di fronte ad un pericolo o ad un agente stressogeno, necessario all’organismo per sviluppare l’energia essenziale a fronteggiare la situazione; l’ansia patologica, invece, è una risposta caratterizzata da un’eccessiva intensità, una lunga durata, e dalla sua comparsa in corrispondenza di eventi ritenuti normalmente non pericolosi, che interferisce negativamente con la prestazione richiesta al soggetto in quella situazione specifica.

Dal latino “angere” (stringere), il termine ansia veicola con chiarezza la sensazione di oppressione e la percezione di tensione vissuta da chi soffre di disturbi legati al suo spettro (Castrucci, 2021).

Castrucci delinea le basi neurobiologiche dello stato ansioso, sottolineando come le diverse manifestazioni psicosomatiche dell’ansia si realizzino attraverso diversi circuiti neuronali. Le principali zone cerebrali coinvolte sono state identificate in alcune strutture sottocorticali, quali il talamo e l’amigdala.  L’amigdala è una struttura centrale per la modulazione degli stati ansiosi, in quanto possiede numerose connessioni con strutture corticali e limbiche coinvolte nella risposta neuroendrocrina allo stress (Castrucci, 2021).

Successivamente, un capitolo viene dedicato all’indagine dell’ansia in ambito medico, chirurgico ed odontoiatrico, soffermandosi sull’ipotesi, supportata da vari studi, che l’ansia possa intensificare la percezione del dolore. Risulta essenziale una gestione ottimale dell’ansia in ambito medico-chirurgico, in quanto i soggetti che sperimentano elevati livelli di ansia preoperatoria vivono un’esperienza di forte dolore nella fase post-operatoria tale da richiedere alte dosi di farmaci analgesici (Castrucci, 2021). Inoltre, l’ansia, come reazione di stress, induce un aumento dei livelli di cortisolo e adrenalina che comporta un’immunodepressione nel post-operatorio, aumentando il rischio di infezioni. A tal proposito, vengono proposte alcune tecniche di immaginazione guidata che favoriscono la diminuzione dell’ansia preoperatoria e conseguentemente il dolore post-operatorio. Castrucci (2021) evidenzia come l’ansia sia una problematica significativa anche negli ambulatori dentistici, in quanto colpisce il 10-20% degli adulti e fino al 43% di bambini e adolescenti (Gordon et al., 2013; Shim et al., 2015).

Segue una disamina dell’eziopatogenesi dei disturbi d’ansia, prendendo in esame la teoria genetica, la teoria psicobiologica e le principali teorie psicologiche che si rifanno al modello cognitivo (cognitivo- comportamentale, cognitivo-evoluzionista, cognitivo-costruttivista) e al modello psicodinamico.

A seguito, viene proposto un puntuale inquadramento diagnostico dei disturbi d’ansia, secondo il DSM-5, il manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali, e in base all’ICD, la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati.

Castrucci (2021) sottolinea come circa un terzo della popolazione, (cioè il 27 % degli abitanti di età compresa tra i 18 ed i 65 anni), ha sofferto almeno una volta nella vita di un disturbo d’ansia, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Numerosi i fattori di rischio: questi disturbi colpiscono in maggior misura il sesso femminile, di giovane età, con una condizione socio-economica difficile e un livello istruttivo basso, single o divorziati. Si segnala come gli eventi con un carico stressogeno forte insieme ai maltrattamenti subiti in giovane età costituiscono a loro volta importanti fattori di rischio.

Il capitolo dedicato ai disturbi d’ansia nel DSM-5 è strutturato evolutivamente, con i disturbi in sequenza secondo l’età d’esordio (Black, D. W., & Grant, J. E., 2014).

Troviamo inizialmente il disturbo d’ansia di separazione, che segnala una reazione d’ansia eccessiva alla separazione dalla figura genitoriale di riferimento, e il mutismo selettivo, che indica una continua incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche, sebbene risulti possibile farlo in altre circostanze.

Segue la fobia specifica, che indica una reazione d’ansia marcata e un’istintiva reazione di fuga, di fronte a un oggetto o una situazione specifica (es. la paura del buio, nei bambini; la paura di volare, negli adulti), e la fobia sociale, anche definita disturbo d’ansia sociale, in quanto contraddistinta da una reazione ansiosa molto intensa che riguarda una singola o diverse circostanze sociali ben definite dove si può essere osservati dagli altri (es. parlare in pubblico). Interessante la distinzione proposta dal DSM 5, che definisce due tipologie di ansia sociale: se i sintomi si presentano solo quando un soggetto deve effettuare una performance pubblica, allora si parla di “disturbo d’ansia sociale correlato alle performance” (es. per musicisti, ballerini, atleti); nei casi in cui il disturbo si manifesti in modo indiscriminato anche in altre situazioni sociali, allora si impiega la denominazione di “disturbo d’ansia sociale”.

L’agorafobia (dal greco “agorà”, ossia “piazza”, e “phóbos”, cioè “paura”) segnala un forte timore di situazioni prive di una via di fuga, ovvero senza possibilità di uscita rapida e rifugio sicuro (es. viaggiare sui trasporti pubblici, stare in spazi aperti e/o chiusi, in mezzo alla folla).

Se il DSM-IV-R collegava la diagnosi di agorafobia al disturbo di panico, il DSM 5 propone di distinguere i due disturbi, per cui presenta il disturbo di panico e l’agorafobia.

Il disturbo di panico si riferisce alla presenza di ricorrenti attacchi di panico inaspettati, dove per attacco di panico intendiamo la comparsa improvvisa di una forte sensazione di paura e un disagio intenso, accompagnati da alcuni sintomi quali le palpitazioni, una forte sudorazione, tremori, senso di soffocamento e asfissia, paura di morire.

È bene precisare che gli attacchi di panico possono verificarsi nel contesto di qualsiasi disturbo d’ansia così come all’interno di altri disturbi mentali (es. depressivi); quando viene individuata la loro presenza, tale condizione dovrebbe essere rilevata come uno specificatore, per es. disturbo da stress post-traumatico con attacchi di panico (Black, D. W., & Grant, J. E., 2014).

Segue poi il disturbo d’ansia generalizzata, che segnala una condizione di preoccupazione persistente nei confronti di eventi e attività diverse, eccessiva nell’intensità, durata o frequenza rispetto alle reali probabilità o all’impatto dell’evento temuto.

Infine, sono presenti quattro categorie diagnostiche di disturbo d’ansia, quali il disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci, il disturbo d’ansia dovuto a un’altra condizione medica, e la categoria disturbo d’ansia con altra specificazione e disturbo d’ansia senza specificazione.

Ampio spazio è dedicato al trattamento dei disturbi d’ansia, attualmente fondato sulla farmacoterapia, sulla psicoterapia e sull’approccio combinato. Inoltre, vengono indicate una serie di strategie di prevenzione all’insorgere dell’ansia e dello stress: tecniche di rilassamento, come il training autogeno (TA) messo a punto, agli inizi del ‘900, dallo psichiatra tedesco Schultz, che consiste in una serie di esercizi di concentrazione che si focalizzano su diverse zone corporee, allo scopo di ottenere un generale stato di rilassamento sia a livello fisico che psichico; tecniche di riabilitazione respiratoria, come il metodo Buteyko volto a normalizzare la respirazione e mantenere un corretto quantitativo di CO2 polmonare (Castrucci, 2021).

Interessante l’algoritmo proposto da Murray BS. e Jitender S., algoritmo per il trattamento e la gestione dei disturbi d’ansia:

Gli aspetti multidisciplinari dell ansia patologica 2021 Recensione del libro Fig 1

Un’ansia di stato di lieve e moderata entità può essere, inoltre, trattata con la medicina complementare alternativa (CAM), che include alcune strategie non comunemente usate dalla medicina occidentale. L’agopuntura, l’omeopatia e la fitoterapia sono ritenuti i più efficaci, oltre che maggiormente usati, tipi di CAM.

 

The Mind Dispatch: il canale Telegram di State of Mind

State of Mind lancia un canale Telegram: “The Mind Dispatch” per ricevere aggiornamenti in tempo reale dalla nostra redazione.

 

È nato The Mind Dispatch, ovvero il nuovo canale Telegram di State of Mind. Un esperimento della redazione di State of Mind per portare l’immediatezza e la facilità d’uso delle notifiche da app ai nostri lettori. Gli iscritti riceveranno gli aggiornamenti su tutti gli articoli pubblicati nella giornata in modo selettivo e veloce: una notifica avviserà quando un nuovo articolo viene pubblicato e a portata di un solo clic si potrà accedere direttamente al contenuto.

Su The Mind Dispatch saranno inoltre diffuse notizie e comunicazioni importanti rivolte in primis ai clinici e/o agli studenti ma anche, a seconda della natura della comunicazione, a tutti gli appassionati di Scienze Psicologiche.

 

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Quando l’empatia porta all’insight

In psicologia, l’insight è la capacità di riconoscere (insight psichico) e di accettare la propria malattia mentale (insight emotivo) (Thirioux et al., 2020).

 

La mancanza di insight, cioè l’essere inconsapevoli della propria condizione psicologica, si riscontra in modo frequente in condizioni psichiatriche (Thirioux et al., 2020) come schizofrenia (Medalia e Thysen, 2008), disturbi da uso di sostanze o comportamenti dipendenti (Goldstein et al., 2009; Moeller & Goldstein, 2014) e disturbo ossessivo-compulsivo (Foa et al., 1995). Tale inconsapevolezza si osserva anche in disturbi neurologici come trauma cranico (Prigatano et al., 2005), ictus (Jehkonen et al., 2006; Orfei et al., 2007) e morbo di Alzheimer (Antoine et al., 2004). I pazienti non sono in grado di etichettare i propri eventi mentali come anormali e non identificano le conseguenze della malattia, tantomeno acconsentono alle cure o ai trattamenti (David, 1990; Markova & Berrios, 1995; Amador et al., 1991; Bedford et al., 2012). L’insight può essere sviluppato grazie all’adozione di una prospettiva obiettiva sulle proprie esperienze soggettive (Thirioux et al., 2020; Lewis, 1934; David, 1990; Langdon & Ward, 2009), facendo affidamento su una combinazione tra l’autoriflessione intatta e la capacità cognitiva di cambiare prospettiva. Nello specifico, l’insight richiede l’empatia, definita come “la capacità cognitiva di adottare la prospettiva dell’altro che, se intatta, contribuisce alla capacità metacognitiva di riflettere sulla propria salute mentale dal punto di vista dell’altro” (Langdon & Ward, 2009).

Thirioux e colleghi (2020) hanno proposto un modello utile a spiegare questi meccanismi disfunzionali. Hanno postulato che l’associazione tra autoriflessione compromessa e capacità empatica ha un impatto negativo sull’insight. Hanno definito il processo dell’oggettivazione, derivante da processi eterocentrici empatici e cognitivi, come un punto di vista oggettivo su se stessi che permette di riconoscere il proprio disturbo, influendo così sull’insight psichico (Thirioux et al., 2020). Il processo della soggettivazione deriva, invece, da processi affettivi empatici, poiché sperimentare affettivamente il pensiero di un’altra persona su se stessi rafforza l’adesione del sistema emotivo, utile a valutare e a riconoscere il proprio disturbo (Thirioux et al., 2020).

Insight e teoria della mente

La teoria della mente (ToM) è la capacità di riconoscere il pensiero o le emozioni altrui al fine di prevedere un comportamento (Chakrabart & Baron-Cohen, 2013). Gli autori hanno applicato tale modello a diverse condizioni psichiatriche, tenendo in considerazione il limite della ToM in alcuni disturbi come la schizofrenia (Langdon & Ward, 2009). Per l’appunto, durante episodi acuti, i risultati ottenuti mostrano come ci sia un crollo totale delle capacità empatiche in pazienti affetti da schizofrenia, con un conseguente effetto deleterio sull’insight (Thirioux et al., 2020). I pazienti schizofrenici con sintomi negativi non sono in grado di empatizzare spontaneamente con altre persone in quanto ipofunzionanti, cioè deficitari nell’assunzione di prospettive visuo-spaziali eterocentriche, mentre i soggetti schizofrenici con sintomi positivi mostrano un processo di oggettivazione alterato, con un conseguente impatto negativo sull’insight (Thirioux et al., 2020). Per quanto riguarda il disturbo bipolare, i risultati mostrano come i pazienti in fase maniacale hanno un’empatia affettiva maggiore rispetto ai pazienti in fase depressiva (Shamay-Tsoory et al., 2009; Cusi et al., 2010; Bodnar & Rybakowski, 2017). È stato ipotizzato come questo effetto possa dipendere dalle eccessive reazioni affettive empatiche dovute ai disturbi legati all’inibizione delle emozioni e alla persistenza di emozioni positive (Gruber, 2011, Thirioux et al., 2020). Infine, i risultati mostrano come i soggetti con un disturbo ossessivo compulsivo (OCD) con basso insight abbiano un processo di oggettivazione intatto e un processo empatico affettivo alterato, mentre i soggetti OCD senza insight hanno grandi difficoltà a disimpegnarsi da se stessi a causa dell’ipofunzionalità, cioè dall’utilizzo di una prospettiva visuo-spaziale eterocentrica (Thirioux et al., 2020).

Insight ed empatia

Per Thirioux e colleghi (2020), l’empatia comporta processi affettivi incarnati mentre la ToM si basa su caratteristiche simulative. Di conseguenza, l’empatia non è solo una simulazione cognitiva dello stato mentale di un’altra persona (Thirioux et al., 2020). Secondo i teorici della simulazione quando un individuo simula un’altra persona usa e proietta mentalmente i propri schemi percettivi, emotivi e cognitivi su qualcun altro (Goldman, 1992; Gordon, 1996; Harris, 1995). Tale proiezione può portare a errori dovuti da parte di pregiudizi egocentrici (Hoffman et al., 2016), mentre quando si empatizza viene inibita la tendenza a proiettare i propri schemi su terze persone (Thirioux et al., 2020). Con l’applicazione del modello su diversi disturbi psicologici, gli autori ipotizzarono che l’effetto negativo tra compromissione della propria autoriflessione e capacità empatiche sull’insight sia uno stato transnosografico, cioè la sintomatologia è insufficiente a individuare una specifica patologia (Thirioux et al., 2020). Hanno previsto anche un limite legato alla modulazione di tale effetto negativo da parte delle differenze endofenotipiche dei soggetti in questione. La raffinazione di tale modello potrebbe portare allo sviluppo di nuove terapie cognitivo comportamentali adatte ad ogni malattia psichiatrica in ciascuna fase clinica, cioè prima insorgenza, episodio acuto, stabilizzazione e remissione, per migliorare la qualità delle cure (Thirioux et al., 2020).

 

Binge eating e addiction: similitudini, differenze e implicazioni di trattamento

Il seguente articolo espone alcune teorie a favore del ritenere il binge eating una dipendenza, e teorie secondo le quali i due fenomeni sono da considerarsi separati e distinti, seppur con caratteristiche che li accomunano, per poi porre a confronto i trattamenti.

 

Una domanda sulla quale da molti anni gli studiosi si stanno interrogando è se il binge eating possa considerarsi una forma di dipendenza, allo stesso modo della dipendenza da alcol e da sostanze. Sono, infatti, sempre più diffuse terminologie come “dipendenza da cibo” e “mangiare in modo compulsivo”, e queste definizioni hanno portato allo sviluppo di molti programmi di trattamento basati su tali presupposti. È opportuno però chiedersi se effettivamente questa connessione possa considerarsi realistica, al fine di proporre e implementare trattamenti adeguati e efficaci.

Con il seguente articolo vorrei, dopo aver descritto i termini “binge eating” e “dipendenze”, esporre in primo luogo alcune teorie e opinioni a favore del ritenere il binge eating una dipendenza, per descrivere in seguito teorie secondo le quali i due fenomeni sono da considerarsi separati e distinti, seppur con caratteristiche che li accomunano. Vorrei poi porre a confronto un trattamento che fa riferimento alle prime teorie (“Modello dei 12 Passi”) con un percorso cognitivo comportamentale che parte da presupposti molto diversi (CBT-E).

Binge eating

Il termine binge era utilizzato in passato dalla maggior parte delle persone con un solo significato: bere in eccesso. Oggi, invece, il termine è utilizzato per indicare il mangiare in eccesso. Secondo gli studiosi, le abbuffate hanno due elementi in comune: la quantità di cibo assunta è percepita come eccessiva e in quel momento la persona ha la percezione di perdere il controllo. Per molte persone un’abbuffata è qualcosa di assolutamente innocuo, un cedimento o un eccesso alimentare, che avviene una volta ogni tanto e che non presenta conseguenze e ripercussioni a livello psicologico e fisico. Per altre, tuttavia, essa rappresenta una parziale o totale perdita di controllo sul cibo e può portare a gravi danni fisici e psicologici. Oltre alle caratteristiche descritte sopra, possiamo descriverne altre (Fairburn, 2013):

  • Sensazioni: il gusto e la consistenza del cibo possono risultare, inizialmente, piacevoli, ma si trasformano poi in sensazioni di disgusto verso se stessi per quanto si sta mangiando.
  • Velocità dell’assunzione di cibo: durante l’abbuffata le persone mangiano spesso molto in fretta e in modo meccanico, masticando a malapena.
  • Agitazione: le persone sono spinte ad abbuffare da un desiderio persistente e irresistibile (craving), al quale difficilmente riescono ad opporsi.
  • Sensazione di alterazione della coscienza: spesso le persone descrivono di essere come in trance durante un’abbuffata, di non pensare a nulla in quel momento, se non al cibo.
  • Segretezza: le abbuffate avvengono tendenzialmente in segreto, dal momento che le persone si vergognano molto di questo comportamento e tendono a nasconderlo, anche per anni.
  • Perdita di controllo: l’esperienza di non avere il controllo sul comportamento è uno degli elementi che caratterizza il disturbo e che lo differenzia da una normale alimentazione in eccesso.

Dipendenze

La presenza di un disturbo correlato a sostanze si caratterizza per un uso continuativo nonostante l’insorgenza di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici che generano un elevato grado di difficoltà e una compromissione a livello psicosociale (Calamai, 2018). Un’altra importante caratteristica risiede nell’alterazione che il consumo provoca a livello neuronale e che si esprime nelle numerose ricadute e nell’intenso desiderio di assumere la sostanza.

A prescindere dal tipo di sostanza, le dipendenze patologiche presentano un insieme di comportamenti caratteristici elencati nei seguenti criteri (Marazziti et al., 2015):

  • Tolleranza: fenomeno per il quale è necessario incrementare l’uso della sostanza al fine di ottenere i medesimi effetti sull’organismo.
  • Astinenza: presenza di sintomi fisici o emotivi nel momento in cui il soggetto interrompe l’assunzione della sostanza.
  • Compromissione delle attività sociali, lavorative o ricreative: questo aspetto incide negativamente sul funzionamento e sull’umore della persona.
  • Ridotte capacità di controllo sull’uso della sostanza: la persona ne fa un uso eccessivo o la assume per periodi di tempo più lunghi del previsto (carattere compulsivo del comportamento); è inoltre presente il desiderio di smettere o ridurne l’uso, associato a tentativi che non riscuotono successo.
  • Craving: un intenso desiderio della sostanza che può manifestarsi in qualunque momento, ma è più probabile avvenga in presenza di stimoli associati alla stessa.
  • Utilizzo rischioso della sostanza: la persona ne fa uso in situazioni fisicamente rischiose (ad esempio: alla guida); il consumo non viene interrotto nonostante provochi ricorrenti problemi fisici o psicologici.

Binge eating come dipendenza: “food addiction”

My drug of choice is food. I use food for the same reasons an addict uses drugs: to comfort, to soothe, to ease stress – Oprah Winfrey

Secondo la teoria che vede il binge eating come una forma di dipendenza, esso è il risultato di un processo fisiologico sottostante analogo a quello responsabile dell’alcolismo (Dalle Grave, 2019). Secondo tale teoria, le persone che si abbuffano sono biologicamente vulnerabili e sensibili di fronte a certe tipologie di alimenti e, di conseguenza, ne diventano “dipendenti”. (Gearhardt, Davis, Kuschner & Brownell, 2011). Inoltre, l’osservazione delle immagini di risonanza magnetica delle persone con Binge Eating Disorder ha mostrato un’alterazione nel sistema della dopamina, simile a quanto si osserva nelle risonanze magnetiche delle persone con una dipendenza da sostanze (Hadad & Knackstedt, 2014).

I risultati neurobiologici hanno portato a proporre che nelle persone sane il sistema di ricompensa è autoregolato in modo tale da consentire un adeguato controllo inibitorio nei confronti del consumo di sostanze o del cibo in eccesso. Al contrario, nelle persone in cui questo sistema è disregolato, ci sarebbe la tendenza ad avere meno controllo sull’assunzione di sostanze o cibo per un deficit nel sistema della ricompensa (Dalle Grave, 2021). Da questi studi emerge dunque che le persone che presentano episodi di abbuffata non sono in grado di controllare l’assunzione del cibo (come le persone che abusano non sono in grado di controllare l’assunzione della sostanza) e da ciò ne consegue che il loro consumo aumenta progressivamente.

Possiamo dunque sicuramente trovare delle analogie tra il binge eating e le dipendenze classiche, come l’abuso di alcol e di sostanze, e molte persone si concentrano su queste somiglianze per sostenere la teoria del food addiction. I punti evidenziati da questa corrente di pensiero sono i seguenti:

  • Sensazione di perdere il controllo su tale comportamento
  • Pensieri e preoccupazioni fissi sull’alimentazione
  • Negare la problematicità del comportamento
  • Percepire la voglia irrefrenabile (craving) e il bisogno di mettere in atto il comportamento
  • Tentativi ripetuti di interrompere il comportamento, senza risultati
  • Utilizzare il comportamento per alleviare emozioni negative
  • Il soggetto persiste nel comportamento disfunzionale, nonostante le conseguenze negative.

Binge eating e addiction: le differenze

Le somiglianze che sono state esposte sopra sono, tuttavia, parziali, e il concentrarsi solo sulle somiglianze non consente di soffermarsi su alcune differenze, altrettanto importanti (Fairburn, 2013; Belloli, 2021):

Il binge eating non implica il consumo di una particolare tipologia di alimenti (Wilson, 2010). Qualora il binge fosse una dipendenza, i pazienti tenderebbero a scegliere alimenti specifici che, appunto, danno dipendenza (ad esempio, i dolci). L’elemento che caratterizza le abbuffate è, invece, la quantità di cibo, piuttosto che la qualità.

Le persone che si abbuffano cercano di evitare tale comportamento. Una delle caratteristiche principali di chi abbuffa (a accezione di chi soffre di Binge Eating Disorder) è il costante tentativo di ridurre la quantità di cibo ingerito, attraverso diete ferree, digiuno, metodi di compenso, onde evitare l’aumento ponderale (tentativi che in realtà mantengono la problematica alimentare). L’abbuffata è vissuta con sentimenti di sconforto, colpa e rabbia perché è il risultato del fallimento di questi tentativi estremi e rigidi di controllo sull’alimentazione. Nelle persone che abusano di sostanze accade l’opposto: non vi è alcuna motivazione intrinseca a evitare o interrompere l’utilizzo della sostanza. Uno degli obiettivi principali dei programmi di cura è dunque proprio quello di problematizzare il comportamento e di far giungere la persona alla consapevolezza di aver bisogno di aiuto.

Le persone che abbuffano presentano una psicopatologia specifica, data dall’Eccessiva Valutazione del peso e della forma del corpo e da tutti gli elementi che la formano e la mantengono (check del corpo, evitamenti, sensazione di essere grassi). Questa psicopatologia svolge un ruolo di primaria importanza nel mantenere il disturbo alimentare e gli episodi di abbuffata. Differentemente, chi utilizza sostanze non presenta una psicopatologia specifica comune.

La relazione tra abbuffate e abuso di sostanze non è specifica. Alcuni studiosi riportano che i tassi di abuso di alcol e sostanze sono sproporzionatamente alti tra i soggetti che abbuffano; in realtà, i risultati scientifici affermano che i tassi non sono più elevati di quelli riscontrati nei soggetti affetti da altri disturbi psichiatrici.

Alcuni studiosi, con l’obiettivo di chiarire il legame tra assunzione di cibo in eccesso e uso di sostanze, hanno condotto studi neurobiologici di confronto tra soggetti con obesità e soggetti normopeso, ma i risultati non appaiono significativi; infatti, non ci sono studi che ad oggi hanno dimostrato che esista una sensibilizzazione neurale al cibo.

Nel 2001 uno studio con la tomografia a emissione di positroni (PET), in un gruppo di soggetti con obesità, ha dimostrato la presenza di una riduzione dei recettori striatali D2R della dopamina, negativamente correlato con l’Indice di Massa Corporea (Wang et al., 2001): questo dato potrebbe indicare uno stato di deficit di ricompensa, la quale porterebbe a una maggiore assunzione di cibo in soggetti che presentano una condizione di obesità, per ottenere lo stesso livello di ricompensa percepito dai soggetti che sono normopeso. I dati dello studio non rilevano però se i cambiamenti nei ricettori possano essere una causa o una conseguenza dell’obesità e anche studi successivi hanno prodotto risultati non significativi (Ziaudden, Farooqi & Fletcher 2012).

Due modelli a confronto: il “Modello dei 12 Passi” e la CBT-E

Il trattamento che deriva dal modello teorico della dipendenza, basato sulla metodologia di intervento degli “Alcolisti Anonimi”, viene chiamato anche “Overeaters Anonymous” o “Modello dei 12 Passi” ed è un programma diviso in dodici fasi rivolto a tutte le persone che presentano comportamenti compulsivi verso il cibo (Elisabeth, 2010).

I principi sottostanti a tale trattamento sono in totale disaccordo con l’approccio terapeutico che invece si è dimostrato essere il più efficace nel trattare questa tipologia di disturbi, ovvero la Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E). Possiamo così riassumere le principali differenze tra i due percorsi di cura:

  • Secondo l’Approccio degli “Overeaters Anonymous” non esiste una cura, essendo l’abbuffata vista come una malattia cronica e quindi destinata a peggiorare nel corso del tempo. Al contrario, il trattamento cognitivo comportamentale porta evidenze scientifiche secondo le quali la remissione completa del sintomo è possibile. Infatti, l’efficacia della CBT è stata supportata da revisioni sistematiche e meta-analisi (Hilbert et al., 2019), le quali hanno confermato che il trattamento determina la remissione degli episodi di abbuffata in circa il 50-55% dei pazienti e il miglioramento della psicopatologia del disturbo anche a lungo termine (Dalle Grave, Calugi & Sartirana, 2020).
  • Il modello basato sulla teoria della dipendenza assume che l’astinenza immediata è fondamentale. I partecipanti al gruppo vengono invitati fin da subito a non assumere più cibi che possono portare a comportamenti compulsivi e ci sono regole molto rigide a riguardo (spesso le persone che non riescono in questo intento vengono invitate ad abbandonare il gruppo). L’approccio CBT-E si basa su presupposti completamente diversi; il percorso che porta a interrompere gli episodi di alimentazione incontrollata può richiedere diverso tempo, in base anche alle difficoltà soggettive. Si arriva a interrompere le abbuffate lavorando sui meccanismi di mantenimento del problema e quindi sulle regole dietetiche, sulla dieta ferrea, su eventi ed emozioni legate all’alimentazione. È un lavoro che viene portato avanti in modo collaborativo con il paziente, non si tratta dunque di un approccio coercitivo e direttivo (Dalle Grave, Calugi & Sartirana, 2018).
  • Il “Modello dei 12 Passi” utilizza come strategia principale per il raggiungimento dell’astensione l’evitamento totale dei cibi che scatenano l’abbuffata. La CBT- E sostiene esattamente il contrario, ovvero che non esistono cibi vietati o tossici, e che sarà importante portare avanti un lavoro in direzione di una graduale reintroduzione di questi alimenti. Secondo le evidenze scientifiche, infatti, il tentativo estremo di privarsi e allontanarsi da un cibo porta a conseguenze opposte ed è uno dei fattori che possono portare all’abbuffata.
  • Infine, l’approccio che prende spunto dalle teorie che vedono il cibo come una dipendenza si basa sul pensiero dicotomico “tutto o nulla”, sostenendo che la persona o mantiene il controllo o lo perde totalmente e che i cibi o sono “sani” o sono “tossici”. La CBT-E, invece, si pone l’obiettivo fin da subito di discutere e mettere in discussione questo bias cognitivo, dal momento che risulta essere uno dei fattori che porta al perpetuarsi delle abbuffate. Se la persona impara a riconoscere un episodio di abbuffata come uno scivolone e non come un fallimento vero e proprio, riuscirà più facilmente ad affrontarlo, imparando da esso e non lasciandosi prendere dallo sconforto.

Conclusioni

Nonostante siano presenti delle somiglianze tra episodi di abbuffata e disturbo da uso di sostanze, ci sono differenze fondamentali tra le due condizioni che riguardano la psicopatologia, l’epidemiologia e i fattori di rischio (Dalle Grave, 2021). Ritengo, dunque, che intervenire sugli episodi di alimentazione incontrollata utilizzando un trattamento riconosciuto a livello di efficacia possa portare a una maggiore remissione del disturbo, soprattutto nel lungo termine, andando a lavorare anche sulla prevenzione delle ricadute e aiutando i pazienti a gestire in autonomia l’impulso ad abbuffare, fornendo loro una serie di strategie e procedure da portare avanti anche a trattamento concluso.

Penso che la maggior efficacia della CBT-E risieda anche nel fatto che va a lavorare su più fronti, affrontando da una parte le abitudini alimentari disregolate (reintroducendo l’alimentazione regolare), dall’altra lavorando sugli aspetti cognitivi che sono alla base del disturbo e che lo portano ad autoperpetuarsi (l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo e tutti gli elementi che la costituiscono).

Il trattamento presso le Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIP-Milano Navigli)

Come già anticipato precedentemente la CBT-E, sviluppata dal Centre for Research on Eating Disorders at Oxford (CREDO) (Fairburn, 2008; Fairburn, Cooper & Shafran, 2003), è ritenuto ad oggi il trattamento per pazienti adolescenti e adulti con disturbi alimentari con più evidenze di efficacia ed è dunque raccomandato dalle linee guida NICE (2017). Originariamente il trattamento era stato progettato per i pazienti affetti da bulimia nervosa, ma successivamente è stato modificato per renderlo adatto a qualsiasi tipo di disturbo alimentare caratterizzato da abbuffate. In generale, il trattamento comprende tre fasi distinte (Fairburn, 2003):

  • Fase 1: Creare una formulazione personalizzata della problematica alimentare, per favorire lo sviluppo di una maggiore consapevolezza da parte della persona e aiutarla a distanziarsi dal suo problema; iniziare il lavoro di automonitoraggio quotidiano su pensieri, emozioni e comportamenti disfunzionali legati al cibo; introdurre l’alimentazione regolare, andando a diminuire gli episodi di abbuffata; educare la persona sul disturbo alimentare.
  • Fase 2: Affrontare le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo e per il controllo dell’alimentazione; introdurre i cibi vietati nel regime alimentare regolare e, gradualmente, eliminare le forme di dieta; sviluppare le competenze per far fronte ad eventi ed emozioni che influiscono sull’alimentazione.
  • Fase 3: Acquisire strumenti e sviluppare risorse per ridurre al minimo il rischio di ricadute.

Il trattamento sopra descritto viene implementato presso le Cliniche Italiane di Psicoterapia (CIP) a Milano. Di seguito troverete i contatti del Centro:

 

CONTATTI CIPda MILANO

  • Indirizzo: Ripa di Porta Ticinese 79, Milano
    Come raggiungere il CIPda: La sede è a pochi passi dalla fermata di Porta Genova, sulla linea verde della metropolitana, ed è facilmente raggiungibile con le linee tram 2 e 10.
  • Telefono: 02 36725912
  • E-mail: [email protected]
  • Orari della segreteria: lunedì-venerdì, 10-19

 

 

Sessualità e relazioni. Seconda edizione del Festival della Sessuologia – Parte I – FluIDsex

Sabato 9 e domenica 10 ottobre 2021 si è svolta la seconda edizione del Festival della Sessuologia organizzato da Giunti Psychometrics, dal centro integrato di sessuologia “Il Ponte” e dal profilo Instagram “Sessuologia”.

La seconda parte del report dal Festival della Sessuologia sarà stata pubblicata nei giorni scorsi su State of Mind

 

Questa seconda edizione, svoltasi interamente online con oltre diecimila partecipanti, si è concentrata sui temi della sessualità e delle relazioni. I partecipanti potevano seguire la sessione plenaria, che vedeva coinvolte varie personalità di rilievo nel campo della sessuologia che si confrontavano in tavole rotonde, e vari laboratori che permettevano di affrontare in modo pratico le tematiche proposte (es. “giochi kinky”, “educazione sessuale per genitori”, “conoscere il pavimento pelvico”).

L’impatto del COVID-19 e del lockdown sulla salute sessuale

La prima tavola rotonda, moderata da Michela Vancheri (psicologa, psicoterapeuta, e sessuologa), “Sesso e relazioni dopo il COVID-19”, vedeva la partecipazione della dottoressa Cristina Critelli (ginecologa, psicoterapeuta e sessuologa), il dottor Nicola Macchione (urologo e andrologo) e la dottoressa Francesca Rizzello (ginecologa). Non sorprendentemente, tutti i relatori concordavano circa il grande impatto che la pandemia, e in modo particolare, le misure restrittive del lockdown, hanno avuto sulla salute mentale e sulla salute sessuale delle persone. Ad esempio, la dottoressa Critelli sosteneva come il Disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione in questo periodo sia peggiorato drasticamente nelle pazienti in cura e come vi siano sempre più richieste per questo tipo di disturbo. Questo disturbo, e in modo particolare la vulvodinia, trova negli aspetti psicosociali e relazionali dei fattori di rischio e di mantenimento del disturbo stesso. Di conseguenza, l’aggravamento della sintomatologia è stato una prevedibile evoluzione dell’emergenza sanitaria e del lockdown. Si pensi allo stress che la pandemia ha generato, ai vissuti di ansia e depressione, alla paura della morte e del contagio, alla paura che il partner potesse contagiare. Come argomentava la dottoressa, la conseguenza di tutto ciò è la riattivazione di uno schema di funzionamento difensivo che sfocia nella contrazione muscolare andando a peggiorare la sintomatologia del disturbo da Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione.

L’intervento successivo ha visto la partecipazione del dottor Macchione che ha illustrato una panoramica generale dell’impatto del COVID-19 sulla salute sessuale presentando vari articoli scientifici sul tema. In modo particolare, ha rassicurato i partecipanti circa l’incapacità del vaccino contro il COVID-19 di creare eventuali disfunzioni. Al contrario, ha argomentato circa i possibili effetti a lungo termine di un’infezione da COVID-19 sull’apparato genitale maschile in quanto un’infezione di questo virus causa vasculopatia che, a sua volta, può causare importanti disfunzioni.

Successivamente sono stati illustrati i vari cambiamenti che sono avvenuti durante la pandemia e il lockdown: dal cambiamento radicale delle abitudini sessuali e alla diminuzione del desiderio sessuale (tendenzialmente si intrattenevano meno rapporti sessuali) all’implementazione dell’autoerotismo e l’uso di pornografia, nuove tecnologie e sex toys. Come sosteneva il dott. Macchione, proprio questi ultimi hanno giocato un ruolo fondamentale: l’uso di pornografia è aumentato vertiginosamente e sempre più persone hanno iniziato a sperimentare con sex toys.

Concludendo l’intervento e stimolando una riflessione, il dott. Macchione si è chiesto: che ruolo hanno la pornografia e i sex toys sulla nostra esperienza sessuale? L’importante, come suggeriva la moderatrice dott.ssa Vancheri, è che non vi sia una scissione tra pornografia/sextoys e relazioni.

L’ultimo intervento, della dottoressa Francesca Rizzello, ha posto l’attenzione del pubblico verso l’impatto che il lockdown ha avuto sulla procreazione medicalmente assistita (PMA). In modo particolare, durante il lockdown è stato richiesto ai centri di procreazione assistita di erogare solamente le prestazioni più urgenti andando a limitare gran parte delle attività. Come sosteneva la dottoressa Rizzello, vi è sempre più una maggiore richiesta di PMA da parte di donne con un’età maggiore di 35 anni. Di conseguenza, le limitazioni imposte ai centri di PMA hanno ritardato le procedure a quelle donne che le necessitavano il prima possibile proprio a causa dell’età.

Tuttavia, ci si aspettava che durante il lockdown vi fosse un aumento delle gravidanze grazie al maggior tempo trascorso in coppia. Purtroppo, come sostiene la dottoressa Rizzello, le coppie hanno dovuto affrontare varie sfide come una minore privacy data da eventuali figli o il timore che il COVID-19 potesse avere un effetto negativo sulla gravidanza. Inoltre, tramite la presentazione dell’articolo di Cirillo e colleghi (2021), la dottoressa ha mostrato i vari cambiamenti avvenuti durante il lockdown che hanno impattato sulle gravidanze: vi è stato un maggior consumo di sigarette, incremento di peso, diminuzione di attività fisica, cambio delle abitudini alimentari e disturbi del sonno. Inoltre, un altro dato importante è che il 37% del campione ha interrotto la ricerca della gravidanza a causa di paure legate alla genitorialità come la minore possibilità di sostenere i costi di un figlio.

Concludendo, è stata fatta chiarezza circa i rischi della vaccinazione e del contagio sulla gravidanza. Se si prende in considerazione la scelta di cercare una gravidanza è opportuno vaccinarsi in quanto l’infezione da COVID-19 causa in donne incinte sintomi più severi, un rischio di 6 volte maggiore di gravidanza pretermine rispetto alle donne non infette e un rischio di 16 volte maggiore nelle donne in gravidanza con diabete e/o obesità (Allotey, 2020).

I problemi dell’educazione sessuale

Una problematica importante segnalata da Daniel Giunti, ideatore del festival, riguarda il fatto che l’educazione sessuale, o comunque la divulgazione di temi inerenti alla sessualità, viene costantemente bannata dai social e, in modo più allarmante, dalle istituzioni scolastiche e dai genitori.

In modo particolare, durante lo spazio “Sesso e relazioni tra adolescenti” con la dottoressa Camilla Tonioni e il dottor Emanuele Palagi, si è parlato dell’importanza di una corretta educazione sessuale e di come l’istituzione scolastica dovrebbe fornire maggiori e migliori informazioni in tal senso. Come sosteneva la dottoressa Tonioni, molti professori e presidi hanno reticenza nei confronti dell’educazione sessuale a scuola, soprattutto per la paura di andare contro al volere di qualche genitore o incorrere in problematiche. Per far comprendere maggiormente la problematica, la dottoressa Tonioni ha illustrato due esempi: il primo è quello di un preside che ha chiesto di non utilizzare termini come “masturbazione” ed “orgasmo”, il secondo è quello di una scuola che ha chiesto agli educatori sessuali di firmare una dichiarazione in cui attestavano di non avere interessi pedofilici. Fortunatamente, vi sono state anche richieste da parte di altri presidi di spiegare esplicitamente agli alunni varie tematiche contemporanee come l’uso della pornografia, l’utilizzo di piattaforme come OnlyFans e il sexwork.

Si trova, quindi, un panorama frastagliato che non fornisce ai giovani adolescenti le informazioni di cui hanno necessità. Come sosteneva la dottoressa Tonioni, il centro integrato di sessuologia clinica “Il Ponte” riceve frequentemente, da parte di giovani adolescenti, richieste di chiarimento su tematiche come il consenso, la contraccezione, domande sui propri genitali e, soprattutto, domande sulla normalità della propria esperienza. Questo perché i giovani adolescenti hanno bisogno di conferme, di capire se la loro esperienza sessuale sia normale o meno e, come suggerisce il dottor Emanuele Palagi, c’è bisogno di ascoltare gli adolescenti e insegnare loro ad ascoltare se stessi, portandoli allo sviluppo dell’assertività.

Bisogna abbandonare la logica dello spavento e della “bulimia informativa”, come definita dal dott. Palagi, e passare ad una logica basata sull’ascolto e sullo sviluppo delle competenze emotive e sociali.

Quello che viene attualmente fatto nelle scuole è sovraccaricare i giovani adolescenti di informazioni che dicono “fare sesso è rischioso. Se non usi il preservativo puoi contrarre un’infezione sessualmente trasmessa”. C’è poi un’altra fonte di disagio e problematiche per gli adolescenti: la pornografia. Secondo il dott. Palagi, quello che la pornografia stimola ai ragazzi è la percezione di essere degli esperti e che bisogna essere prestanti.

Concludendo, servono interventi da parte di professionisti competenti che possano rispondere in modo adeguato alle nuove esigenze dei giovani adolescenti, sia a livello informativo che emotivo.

Sintetizzando, la nostra salute sessuale ha subito drastici cambiamenti con il COVID-19: da una parte la paura di rapportarci con l’altro, dall’altra un uso maggiore di pornografia e di sex-toys. Come si è potuto intuire, un’attenzione maggiore andrebbe posta ai giovani adolescenti e alla loro richiesta di essere educati correttamente. Per fare ciò è necessario l’intervento di professionisti competenti che educhino e, soprattutto, ascoltino le richieste e le paure.

 

La violenza in un clic. Itinerari di prevenzione del cyberbullismo fra adolescenti – Roberto Sgalla e Anna Maria Giannini (a cura di) – Recensione

La violenza in un clic sottolinea l’incapacità da parte dell’adolescente, ma anche, a volte, del genitore stesso, di comprendere la gravità di quel semplice clic che espone un altro soggetto, la vittima, a forme denigratorie e di disprezzo capaci di distruggerlo.

 

Nella nostra società moderna protagonista sembra essere una lotta contro il tempo, in cui i ritmi si mostrano sempre più serrati, travolgenti, quasi incapaci di concedere quella pausa così salutare per corpo e mente.

In questo turbine di eventi vivono i nostri figli, travolti completamente da un’era che li rende protagonisti ed esperti di una tecnologia che, se da un lato concede loro una serie di benefici, un tempo impensabili, dall’altro li può rendere schiavi di se stessa, dominati da un virus virtuale contro il quale non sempre si ha la capacità di produrre anticorpi, forse proprio per quella mancanza di consapevolezza e di informazione che potrebbero nascere in quelle pause ormai inesistenti.

I digital native popolano le pagine dei social, alla ricerca di una notorietà, vista da loro come metro di misura della propria identità: più like si ricevono più ci si sente affermati, in una dimensione del Sé affamata di apparenza e non di sostanza, alimentata da quell’aleatorio che solleva i piedi da terra, fomentando una nuova forma di narcisismo cosiddetto digitale che, in realtà, di solidità ha ben poco.

D’altro canto, invece, ci sono i cosiddetti digital immigrant, ovvero tutte quelle persone già adulte, che all’arrivo delle nuove tecnologie, hanno risposto in maniera più lenta e con più difficoltà e che, proprio per questo, spesso non hanno compreso e non comprendono veramente la pericolosità del viaggiare via web.

In effetti Internet, se pur strumento con infinite potenzialità, è colmo di buchi neri, in cui spesso i giovani adolescenti si ritrovano a condividere messaggi tutt’altro che positivi, intrisi di violenza e di aggressività.

Il fenomeno del Cyberbullismo è una delle forme più gravi nate da quel virus digitale inarrestabile, capace di diffondere in pochissimi secondi qualsiasi messaggio, immagine, video, anche a contenuto sessuale, con l’aggravante di rendere colui che dà inizio alle danze, completamente o in gran parte ignaro delle conseguenze di un simile gesto.

Nel volume viene sottolineata l’incapacità da parte dell’adolescente, ma anche, a volte, del genitore stesso, di comprendere la gravità di quel semplice clic che espone un altro soggetto, la vittima, a forme denigratorie e di disprezzo capaci di distruggerlo. Tra i meccanismi ricorre, senza dubbio, il disimpegno morale nel momento in cui etica e azione commessa sono discordanti: si innesca una sorta di spegnimento selettivo dei veti interni in grado di produrre comportamenti e valutazioni in completa contraddizione con la propria etica e le proprie regole, nonostante queste continuino a rimanere valide. Una sorta di black out momentaneo che giustifica azioni assolutamente contrarie alla nostra abitudine.

Ecco perché ben si evidenzia la necessità di una maggiore consapevolezza, nata dalla conoscenza e dall’informazione riguardo a fenomeni così virali come cyberbullismo e sexting, conoscenza ed informazione che hanno sicuramente raggiunto un traguardo importante con la legge n.71 del 29 maggio 2017, legge sulla prevenzione e contrasto al cyberbullismo, riconoscendo la presenza di un pericoloso fenomeno da combattere.

Nel testo si sottolinea la necessità di un lavoro interdisciplinare, oggetto di ricerca scientifica, da parte delle scuole e delle Università in collaborazione con la Polizia Postale e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità: le istituzioni in stretta unione tra loro per combattere un fenomeno così preponderante, attraverso la partecipazione attiva degli studenti, coinvolti in ricerche e chiamati a rispondere a specifici quesiti in riferimento alla comunicazione attraverso la rete, alle emozioni che scaturiscono e soprattutto alle convinzioni presenti, quando si mettono in evidenza comportamenti illeciti all’interno di uno spazio digitale.

Nel primo capitolo viene affrontata la tematica della violenza e più nello specifico della violenza in rete, sottolineandone i meccanismi psicologici che la caratterizzano. L’aggressività in rete risulta difficile da delineare e limitare proprio per la mancanza di confini dello spazio stesso in cui è protagonista, capace anche di uscire dal digitale e proseguire all’esterno, verso contatti diretti o viceversa, coinvolgendo dunque più dimensioni. Ne vengono sottolineati i meccanismi di disimpegno morale e di abbassamento della temperatura empatica, a causa della presenza dello schermo che nasconde tutto quel linguaggio non verbale di cui ben si conosce la forza comunicativa. Inoltre, pervade anche un’illusione di onnipotenza che fa sentire il soggetto capace di raggiungere chiunque e qualunque cosa, alimentando quel desiderio di rimanere connesso che lo porta a perdere il controllo perfino su sé stesso.

Nel secondo e terzo capitolo si sottolineano gli importanti aspetti giuridici e la rilevanza del cyberbullismo, riconosciuto come fenomeno da fronteggiare e da contrastare. A partire dalla legge 71/2017 viene ben documentata l’applicazione della misura dell’ammonimento da parte del Questore, art.7, “in caso di condotte di ingiuria, diffamazione, minaccia e trattamento illecito dei dati personali, commessi mediante Internet da minori ultraquattordicenni nei confronti di altro minorenne e fino a quando non sia formalizzata querela o presentata denuncia”, che testimonia la constatazione dell’efficacia che trova strada nella sua forza dissuasiva e non punitiva. Si sottolineano l’importanza del gruppo dei pari in un periodo così complesso come quello dell’adolescenza, gruppo che esprime in toto la percezione dell’incerto e dell’incognita prodotta dalle trasformazioni fisiche e psicologiche. Purtroppo la rete estranea queste percezioni di corporeità e di soggettività che mettono in evidenza anche le proprie fragilità, ricamando dei profili costruiti ad hoc in grado di presentarsi nella loro illusorietà, senza sbavature e senza difetti. Si limita “la vertigine dell’incertezza”, ostacolando la costruzione della propria vera identità, fatta anche di aspetti meno graditi e più vulnerabili, rendendo il soggetto sempre più permaloso e incapace di tollerare frustrazioni.

Nel quarto capitolo viene esplicitato il grande impegno da parte del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità per un’azione di prevenzione e di intervento nei confronti di minorenni e giovani adulti che hanno commesso un reato online. Si cerca di delineare una risposta il più possibile individualizzata, in modo tale da non trascurare il difficile e turbolento passaggio adolescenziale, e soprattutto cercando di non trascurare il suo ambiente, costituito da famiglia, scuola e gruppo di pari.

Nel quinto capitolo si cerca di delineare il profilo di coloro che commettono reati in rete, con la consapevolezza che non sia affatto impresa facile e tenendo conto della mancata consapevolezza da parte del reo delle conseguenze della sua azione, spesso anche piuttosto gravi. Vengono presentate tre storie e tre profili di minori italiani, raccogliendo materiale fornito dagli operatori della Giustizia attraverso lo stesso Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, per far partire un’indagine dei casi entrati nel sistema penale che possa aiutare a comprendere le dinamiche che sottendono il fenomeno, puntando sull’istituto della messa alla prova con la convinzione che il reato si possa ricondurre il più delle volte ad un “temporaneo disagio non legato ad una scelta deviante e sia risolvibile proprio attraverso l’aderenza al nuovo progetto di vita”.

Nel sesto capitolo si attua una ricostruzione di alcuni studi del caso da parte del Centro Nazionale per il Contrasto alla Pedopornografia Online (CNCPO) della Polizia di Stato per trascrivere le maggiori fenomenologie di reati sul web commesse da minori. Tra le caratteristiche maggiormente in rilievo si trova il disimpegno morale (Bandura, Barbaranelli, Caprara e Pastorelli, 1996a) che rende plausibili comportamenti invece così riprovevoli, scagionandoli dal pesante senso di vergogna e di colpa che potrebbero minare l’autostima del giovane che commette reato. Vengono delineate le gravi conseguenze che una simile azione può innescare nella vittima, ossia l’abbandono scolastico, fobie sociali, problematiche relazionali fino al suicidio, mettendo in evidenza la necessità di formalizzare al più presto una denuncia per reati di cyberbullismo di rilievo e la tempestività delle segnalazioni anche da chi è osservatore passivo.

Nel settimo capitolo viene esposta una delle ricerche effettuate per comprendere la percezione che ha il minore dei reati informatici, ricerca che ha preso il nome di “E tu quanto #CONDIVIDI?” e che ha coinvolto un ampio numero di studenti tra gli 11 e i 18 anni, nata dall’interazione e la collaborazione tra la facoltà di Medicina e Psicologia di Sapienza Università di Roma e L’Unità CNCPO. Si analizza a fondo il modo di rappresentare e percepire il cyberbullismo da parte dei giovani.

Nell’ottavo capitolo si esplicano i percorsi socioeducativi e di mediazione penale che possono essere intrapresi nei confronti dei minori autori di reato online. Si sottolinea la necessità di far acquisire maggiore consapevolezza del danno provocato e della necessità di mettere in atto percorsi di informazione e di educazione che promuovano progetti che aiutino i giovani a sperimentare un diverso modo di gestire il proprio tempo e a stimolare l’acquisizione di competenze e il riconoscimento di quelle che sono le potenzialità e attitudini di ognuno.

Nell’ultimo capitolo si espone l’azione di contrasto messa in atto dalle autorità competenti verso l’uso distorto delle nuove tecnologie, puntando molto sulla prevenzione attraverso una maggiore sensibilizzazione e soprattutto puntando molto sulla presenza di un team di psicologi dell’Unità di Analisi Dei Crimini Informatici per osservare e comprendere le maggiori e specifiche fragilità dei cyberbulli e delle cybervittime.

A completamento di questa analisi così approfondita del fenomeno in questione vengono inserite in appendice le linee guida Safe Web della Polizia di Stato per la protezione degli strumenti in rete, oltre che le iniziative della Polizia Postale e delle Comunicazioni in materia di sensibilizzazione ai rischi di Internet.

Un testo senza dubbio esaustivo che permette al lettore di visionare un fenomeno così attuale nella sua totalità e di comprenderne la pericolosità e la necessità di interventi sempre più mirati in collaborazione tra le istituzioni, una sinergia necessaria per poter raggiungere importanti traguardi a scapito dell’utilizzo distorto ed esasperato degli strumenti informatici.

 

Caregiver Skills Training (CST): un nuovo modello per i caregiver di bambini autistici, messo a punto dall’OMS – Comunicato Stampa

Uno studio dell’Università di Milano-Bicocca ha esaminato l’efficacia clinica di un nuovo modello di intervento open-access per caregiver di bambini con disturbo del neurosviluppo, incluso l’autismo: il Caregiver Skills Training (CST).

Comunicato Stampa

 

Sono stati pubblicati sulle riviste Journal of Autism and Developmental Disorders e su Autism i risultati di uno studio dell’Università di Milano-Bicocca che ha esaminato l’efficacia clinica di un nuovo modello di intervento open-access per caregiver di bambini con disturbo del neurosviluppo, incluso l’autismo, il Caregiver Skills Training (CST).

Il CST è stato sviluppato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per rispondere al bisogno delle famiglie di accedere a un intervento gratuito e informato da modelli evidence-based (Salomone et al., 2019). Infatti spesso gli interventi precoci sono scarsamente accessibili alle famiglie, non solo nei Paesi a basso-medio reddito (Reichow et al., 2013), ma anche nei Paesi ad alto reddito, incluso negli Stati Uniti (Smith et al., 2020) ed in Europa (Salomone et al., 2016), Italia compresa.

Un gruppo di ricerca condotto dalla dr.ssa Erica Salomone del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con l’OMS, la Georgia State University e Newcastle University ha testato l’implementazione del CST in servizi di Neuropsichiatria Infantile del Servizio Sanitario Nazionale con uno studio randomizzato controllato, il primo di questo genere realizzato in un contesto di comunità in Italia. Lo studio ha mostrato alti livelli di fattibilità di erogazione da parte di professionisti sanitari nel contesto pubblico, eccellente accettabilità per i caregiver ed effetti favorevoli, a 3 mesi dalla conclusione dell’intervento, sulla qualità dell’interazione genitore-bambino, sulla comunicazione non verbale del bambino, sulle competenze genitoriali a supporto dell’interazione, nonché sull’autoefficacia e lo stress genitoriali (Salomone, Ferrante, et al., 2021; Salomone, Settanni, et al., 2021).

 

Per saperne di più >> Leggi il Comunicato Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

 

“Volersi bene e volersi male”: la sessualità secondo la psicopatia e il BDP

Khan e colleghi (2017) hanno svolto il primo studio per considerare gli effetti indipendenti dei tratti psicopatici rispetto ai tratti del disturbo borderline di personalità sulla sessualità.

 

Nel campo della sessualità, numerosi studi dimostrano come uomini e donne possano attuare comportamenti coercitivi, come approfittarsi del proprio partner con pressioni verbali e forza fisica (Koss e Oros, 1982), e strategie di adescamento o di seduzione attraverso comportamenti utili ad attrarre una persona che già vive una relazione affettiva, a breve o a lungo termine (Schmitt e Buss, 2001).

Psicopatia e sessualità

La psicopatia è definita da comportamenti egocentrici, impulsivi ed egoistici a causa della mancanza o della scarsa empatia provata dal soggetto in questione (Hare, 1996). Secondo la Hare Psychopathy Checklist Revised (PCL-R; Hare, 2003), due fattori in particolare contraddistinguono la psicopatia: il primo si focalizza sugli aspetti affettivi e interpersonali dei soggetti psicopatici, spesso correlati a condotte immorali, manipolative o ingannevoli (Khan et al., 2017). Il secondo si focalizza sulla devianza sociale ed evidenzia come i soggetti psicopatici siano maggiormente impulsivi e tendano alla ricerca di sensazioni nuove (Khan et al., 2017). La psicopatia primaria e secondaria (Karpman, 1941) sono misurate attraverso indicatori che riflettono le differenti traiettorie di sviluppo degli individui psicopatici (Khan, 2017). Fulton, Marcus e Payne (2010) sottolineano come i comportamenti associati a tali fattori vengono definiti tratti impulsivi-antisociali. La psicopatia è associata a molestie sessuali (Zeigler-Hill et al., 2016), aggressioni sessuali (Kosson, Kelly e White, 1997), coercizione sessuale (Harris et al., 2007) e atteggiamenti tendenti alla funzione di un comportamento sessualmente predatorio (O’Connell & Marcus, 2016).

Disturbo borderline di personalità e sessualità

I comportamenti sessuali atipici sono stati correlati a disturbi che vengono spesso diagnosticati più frequentemente nelle donne, come il disturbo borderline di personalità (BPD; Lieb et al., 2004). Il BPD è associato a maggiori livelli di assertività, stima e preoccupazione nella sfera sessuale (Hurlbert, Apt e White, 1992), con tratti tendenti alla preferenza di intraprendere nuove relazioni piuttosto che protrarre nel tempo quelle familiari (Cheavens, Lazarus e Herr, 2014). A causa della paura dell’abbandono, i soggetti con BDP tendono ad alternare tra l’idealizzazione e la svalutazione del partner, comportamento che porta alla coercizione per ridurre il disagio e il senso di minaccia che questa paura genera (Khan et al., 2017). Per contrastare il loro stile interpersonale, i comportamenti sessuali adottati da soggetti con tale disturbo possono essere motivati da impulsi sessuali e/o dalla necessità di raggiungere una sicurezza emotiva (Agrawal et al., 2004).

Psicopatia, disturbo borderline di personalità e sessualità

La psicopatia e il BDP sono associati alla promiscuità sessuale (Kastner & Sellbom, 2012). Dato che l’impulsività e l’evitamento del rifiuto sono correlati rispettivamente alla psicopatia secondaria e al disturbo borderline di personalità, Khan e colleghi (2017) hanno svolto il primo studio per considerare gli effetti indipendenti dei tratti psicopatici rispetto ai tratti del disturbo borderline di personalità sui comportamenti sessuali. Lo studio è stato svolto su un campione non clinico, composto da studenti universitari di sesso misto (N =187). Nonostante ciò, data la presenza di una differenziazione sessuale tra psicopatia e BPD, i ricercatori hanno ipotizzato che tutti i comportamenti sessuali esaminati mostrano una moderazione sulla sessualità in termini di tratti relativi a ciascuna di queste condizioni (Khan et al., 2016).

Sono stati utilizzati differenti strumenti per misurare i livelli di psicopatia (LSRP; Levenson et al., 1995; PCL-R; Hare, 2003), i tratti borderline (PDQ-4; Hyler, 1994), la coercizione sessuale (PSP scale; Struckman-Johnson et al., 2003), l’adescamento (ARAS, Schmitt & Buss, 2001), l’esclusività relazionale (SSDSQ; Schmitt & Buss, 2000) e la coercizione sessuale.

I risultati ottenuti mostrano tratti della psicopatia primaria correlati alla coercizione sessuale, all’adescamento, alla mancanza di esclusività relazionale e riflettono l’uso strumentale degli altri per soddisfare desideri personali (Khan, 2017). Questi comportamenti sessuali possono essere spiegati dalla ricerca di brivido sessuale e dall’impulsività, nonché dalla lotta per l’intimità della relazione a causa della paura dell’abbandono nel caso del disturbo borderline di personalità (Khan, 2017). Per quanto concerne il genere femminile, le relazioni esclusive sono identificate tra tratti di psicopatia primaria e uso di tattiche coercitive sessuali non violente, sono presenti termini di esclusività relazionale ridotti e maggiore probabilità di adescamento del compagno. Nel genere maschile invece, è stato osservato come i tratti del disturbo borderline di personalità hanno mostrato una relazione indipendente con una maggiore probabilità di coercizione sessuale e con la perdita di almeno un partner a causa dell’adescamento.

 

I disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva: le evidenze sul loro significato e sul trattamento

Sta attualmente aumentando l’attenzione rivolta al manifestarsi di disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva.

 

Essi sono spesso causa di istituzionalizzazione, accrescono il deficit cognitivo ed abbassano la qualità di vita dei pazienti e dei caregivers.

In letteratura sono prevalenti gli studi che indagano i disturbi comportamentali nella demenza (BPSD). Sono però vari i quadri clinici, dell’età evolutiva e dell’età adulta, caratterizzati dall’esistenza di deficit cognitivo, in cui si presentano anche disturbi del comportamento (Croce L. 2019).

La disabilità intellettiva presenta, dal punto di vista  sintomatologico, la compromissione di alcune funzioni cerebrali superiori quali l’attenzione, la memoria, l’apprendimento, le funzioni visuo-spaziali e prassiche ed il linguaggio (Greenspan S. 1999).

Il comportamento è il modo in cui un individuo agisce e reagisce quando si trova in relazione con gli altri e con l’ambiente ed è una manifestazione di uno stato psicologico. I disturbi del comportamento sono delle disfunzioni e sono caratterizzati dalla difficoltà di gestire le emozioni, dalla comparsa di rabbia, aggressività e oppositività, dalla trasgressione delle regole sociali e morali e dalla necessità impellente di soddisfare i propri bisogni (Finkel SI, Burns A. 2000; Fujii M., BluterJP., Sakasi H 2014).

Le origini dei disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva

La patogenesi di questi disturbi è complessa e, secondo la teoria biopsicosociale  (Engel G., 1977), la loro origine è da ricercare nell’interconnessione di vari fattori: biologici, ambientali e psicosociali. Tra i fattori biologici hanno rilevanza le anomalie della corteccia prefrontale, l’alterazione dell’equilibrio dei neurotrasmettitori, la bassa concentrazione del cortisolo e l’elevata concentrazione del testosterone (Blundo, C. 2016). Si annoverano tra i fattori ambientali i trasferimenti e le istituzionalizzazioni. Infine hanno rilevanza, dal punto di vista psicosociale, la personalità premorbosa del soggetto e lo stress sia del paziente che del caregiver. ( Engel, G. L. 1980)

Si sta affermando sempre di più la convinzione che la presenza di disturbi del comportamento, in soggetti con deficit cognitivo, sia da interpretare come una modalità che i pazienti, con difficoltà intellettive e sensoriali, hanno per manifestare uno stato di disagio. Esistono evidenze che imputano la comparsa di problematiche comportamentali a situazioni in cui il paziente prova dolore fisico oppure disagio emotivo e sociale o prova noia per mancanza di un’adeguata attività (Bianchetti A. 2010). I comportamenti problematici nel deficit cognitivo possono essere considerati come una difformità tra i bisogni del paziente e la competenza dell’ambiente nel soddisfarli (Vitali S., Guaita A. 2000).

Secondo la teoria dell’impotenza appresa, la comparsa ed il perdurare di tali disturbi è da ricondurre al vissuto d’incapacità che il malato ha rispetto al saper affrontare determinate situazioni problematiche o di disagio. Non sentendosi capace, l’unica cosa che riesce a fare è continuare a mettere in atto un comportamento disfunzionale (Seligman ME. 2005).

Gli interventi per i disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva

La maggior parte delle linee guida sugli interventi in caso di disturbi comportamentali nella disabilità intellettiva, indicano l’approccio non farmacologico come quello da prediligere (Savaskan E., Bopp -Kistler I., Buerge M. 2014). In caso di necessità di trattamento farmacologico questo deve essere abbinato alle strategie non farmacologiche. Queste indicazioni sono supportate, oltre che dalle evidenze, dall’esperienza clinica (Alteya 2021).

Attraverso gli interventi le cui tecniche sono, nella maggioranza dei casi, mutuate dalla psicologia cognitivo comportamentista, si ha come obiettivo quello di una riduzione della comparsa dei comportamenti disfunzionali. Quest’obiettivo può essere raggiunto attraverso la valorizzazione dei punti di forza del paziente ed il potenziamento delle capacità di adattamento sociale (Veltro F.,Chiarullo R., Leanza V. et AL. 2013).

Queste tecniche, in base a quanto emerge dalla letteratura, sono da preferire alle sanzioni punitive che hanno l’intento di reprimere il comportamento problematico. Queste ultime insegnano modelli di comportamento aggressivo, deteriorano la relazione d’aiuto e provocano disagio e disturbi emotivi ( Kirk DS., Wakefield S. 2018).

Secondo Skinner “la punizione non elimina la risposta, ne abbassa la frequenza di emissione per un periodo di tempo circoscritto. Successivamente la risposta viene emessa con frequenza equivalente a quella che caratterizza la risposta non punita

 

Catcalling e Victim blaming: inezia o problema?

Victim blaming, catcalling, revenge porn sono termini sempre più noti, grazie al grande uso che ne viene fatto sul web e nella cronaca giornalistica, che descrivono atteggiamenti ancora largamente diffusi, nonostante la società “ufficialmente” si stia impegnando verso la loro condanna.

 

Il victim blaming è l’atteggiamento di chi colpevolizza la vittima ritenendola responsabile o corresponsabile (anche per elementi come abbigliamento e atteggiamento) della violenza subita.

Ma cosa spinge le persone a condannare la vittima, soprattutto se è donna, in caso di stupro?

Il vestiario femminile diviene immediatamente un’arma, una prova del fatto che la donna sia colpevole. Indossare un top o una gonna corta, aver sorriso e scherzato, ma anche esprimere l’intenzione di voler fare la modella, attrice, cantante, scienziata, fino all’uscire di casa senza essere accompagnata da un uomo (il suo) sono tutti elementi in grado di rendere colpevole la donna di “essersela cercata” e di, in fondo, aver desiderato l’aggressione.

Questa associazione fra condotta femminile e colpevolezza è storia antica: il comportamento della donna deve essere grazioso, docile, premuroso, e non mostrare la presenza di “grilli per la testa”.

Deve sorridere, ma non troppo, deve essere gentile, ma non troppo, deve camminare bene, in modo sensuale, ma non troppo e, se la donna dovesse superare questo limite e sconfinare in questo “troppo”, allora starebbe provocando e questo giustificherebbe come normale il fatto che possa subire continuamente catcalling (o peggio).

In presenza di abiti succinti le grida anche troppo tipiche della società saranno: “se l’è cercata” e, in difesa del criminale di turno, “all’uomo parte l’ormone, è istintivo, è la sua natura”. Fino, nei casi opposti, come ad esempio quando la vittima risultasse senza un centimetro di pelle scoperta, pioverebbero frasi come: “è brutta, deve ringraziare il Dio che c’è chi la guarda e la desidera”.

Nel 2018 nacque l’hashtag #MosqueMeToo per segnalare le molestie subite dalle donne durante lo hajj, il Pellegrinaggio alla Mecca, un momento di ricerca di purezza spirituale, di contatto con il divino, che si trasforma in un altro tipo di ricerca che sembra tirare in ballo il voler “toccare con mano” per essere sicuri.

Ma quando queste violenze avvengono in contesti religiosi, l’esigenza di nascondere il fatto cresce ancora di più, con la scusa di un silenzio mantenuto in difesa di un bene superiore.

La frase tipica? Dio vede e provvede.

E così subentrano silenzi, malessere psichico e fisico causati dal non poter e non dover dire nulla nell’impossibilità di denunciare molestie che forse nemmeno potrebbero essere provate.

Ma la cosa peggiore è che, persino in questo caso, ad essere colpevolizzata è la donna, anche se del tutto vestita e coperta, con la sola esclusione delle mani e del viso.

In base a questo possiamo dedurre come non siano i vestiti a chiamare la violenza, ma piuttosto una mentalità retrograda in cui la donna è vista come un oggetto. Mentalità, questa, spesso interiorizzata e poi promossa dalle donne stesse. Velata o non velata la donna viene sempre criticata.

La letteratura e l’arte affrontano la tematica della rappresentazione della donna nella società in vari periodi storici.

Non è l’arte in sé ad essere maschilista, ma il contesto socio-culturale nel quale le opere vengono create, anzi, riproporre il pensiero della società nella prosa, nei versi, nella pittura, significa fornire un’immagine di come sia la realtà in un dato tempo, allo scopo di offrire una testimonianza che possa riportare a galla e risolvere ogni lato negativo e ogni contraddizione.

Anche per questo gli attacchi nei confronti delle opere artistiche e dei loro autori, separati dal loro contesto, hanno ben poco senso.

Prendiamo un esempio abbastanza recente e molto attuale.

E dalle macchine per noi
I complimenti del playboy
Ma non li sentiamo più
Se c’è chi non ce li fa più

Il testo della canzone di Fiorella Mannoia affronta una tematica assai interessante, un atteggiamento che è presente sin dalla notte dei tempi, quello del fischiare quando una donna passa, con complimenti e altri “apprezzamenti” non richiesti, che è proprio quello che viene definito come catcalling. La canzone è stata condannata per promuovere il maschilismo, ma è davvero così?

L’arte non è solo immaginazione fine a se stessa, ma è anche pensiero in grado di affrontare e analizzare i problemi che affliggono le società. Tuttavia l’arte sa farlo non solo per vie esplicite, ma anche in modi molto sottili che potrebbero essere fraintesi.

È quindi inutile auto eleggersi a giudici per condannare una poesia, una canzone o un romanzo, quando sarebbe invece sensato analizzare testo e contesto per comprendere le motivazioni alla base di quelle espressioni ritenute, anche giustamente, problematiche.

Analizzando il testo della canzone della Mannoia, si percepisce molto bene il modo in cui vengono viste le donne dalla società: vanitose, amanti di complimenti e fischi, confuse, non sanno ciò che vogliono.

Donne che nell’immagine sociale dicono sempre sì anche quando è no.

La donna è tale se nasconde il dolore, se sorride sempre, se in fondo, anche se nega, “le è piaciuto”.

Il testo non fa altro che rappresentare questo immaginario collettivo che vede protagonista la donna insieme a tutti gli stereotipi annessi.

No, questa canzone non è un inno al catcalling, ma una rappresentazione culturale di come il mondo spesso vedeva e vede le donne tutt’ora.

Oggi la nascita e la diffusione di internet hanno esasperato gli scontri sociali e, in certi ambienti, pregiudizi e stereotipi risultano addirittura amplificati. Oggi quello che avviene nei social ha una rilevanza talmente elevata che ne devono tenere conto le aziende di marketing, i programmi politici, i candidati alle elezioni e persino gli enti pubblici.

La giustizia si sposta sul web

Il web non è solo un luogo di scambio di opinioni, ma sembra essere diventato avvocato, pm, procura, magistrato e tribunale e, quando si diffondono certe affermazioni, sarebbe bene pensare alle possibili conseguenze, soprattutto se ha farlo è un personaggio dotato di grande visibilità e seguito.

In merito a questo basti pensare alle recenti dichiarazioni di Beppe Grillo.

Il figlio di Grillo, con alcuni suoi amici, viene accusato di stupro, ma cosa succede in relazione a ciò? La reazione è sempre la stessa, non cambia mai: la colpevole per Grillo è la stessa donna presunta vittima e questo diviene, nel web, fatto pubblico che rischia di sottolineare e amplificare ulteriormente questa distorta opinione comune.

Grillo alle accuse nei confronti del figlio reagisce in modo nevrotico attraverso video interviste e dichiarazioni.

La presunta vittima era in vacanza nello stesso luogo in cui si trovava anche il figlio di Grillo, con alcuni suoi amici. Dopo aver creato un rapporto amicale con i ragazzi, sarebbe uscita con loro e, in seguito, il gruppo, l’avrebbe fatta bere per poi abusare di lei.

Grillo con un tono paternalistico arriva a sostenere senza dubbio che, nel video, si veda più che bene come la ragazza fosse consenziente.

La ragazza “si stava divertendo”.

Per Grillo basta questo per gridare mediaticamente come non esista nemmeno un dubbio minimo per tirare in ballo un possibile stupro.

La ragazza nel filmato era “ferma” e “se una donna viene stuprata urla, si agita, grida, non aspetta che passino dei giorni per denunciare”.

Come se di fronte a certe situazioni così estreme non ci possa che essere, come reazione, solo quella che Grillo riterrebbe opportuna.

Dall’alto delle sue conoscenze, quindi, Grillo, condanna senza appello la presunta vittima e assolve incondizionatamente il figlio, insieme ai suoi amici.

Anche Parvin Tadjik, moglie di Grillo, sostiene che una ragazza che subisce stupro “non vada a fare kitsurf, per poi denunciare a ben 8 giorni di distanza dai fatti”.

Si dimentica, la signora, di come sia tipico che le donne stuprate vadano a lavorare come se niente fosse successo, per paura, per l’opinione pubblica, per le accuse che riceverebbero (come in questo caso, ad esempio), per aver interiorizzato questi messaggi errati che colpevolizzano la vittima.

Anche lei sembra dimenticarsi che la paura immobilizza e blocca, e non proprio tutti riescono a reagire con le urla e con la fuga: quando si è sotto shock le reazioni non sono univoche.

Si dimenticano i coniugi Grillo che per denunciare una violenza sessuale, per legge, si hanno a disposizione fino a sei mesi di tempo. E che, se vogliamo, sono pure pochi.

Sarà la giustizia a determinare le colpa o l’eventuale innocenza delle parti, non possiamo certamente affermare che i ragazzi siano per forza colpevoli, ma sarebbe opportuno fare molta attenzione alle parole che si usano nel sostenere, a spada tratta, l’innocenza o la colpevolezza di qualcuno, soprattutto in pubblico, cercando apposta un consenso da parte delle masse e sperando che questa opinione abbia perfino ruolo in sede legale.

Questo è ancora più grave se fatto, come in questo caso, diffondendo idee preconcette che non tengono conto di noti fattori psicologici, come i pregiudizi per cui si debba per forza denunciare subito o per cui l’aver accettato un’uscita di gruppo sia la prova indubitabile di atti sessuali consenzienti.

Questi falsi luoghi comuni vanno combattuti con decisione e con una corretta informazione.

Victim blaming e catcalling quali conseguenze?

Viviamo in un mondo che cambia alla velocità della luce e in cui l’essere umano non sempre riesce a stare al passo delle sue stesse innovazioni.

L’essere umano ha bisogno di rassicurazioni che tutto vada bene, ha bisogno di sapere che non ci sono pericoli o che, nel peggiore dei casi, si possano comunque evitare o nascondere.

La zona di comfort che ognuno si costruisce è sacra e, se viene spezzata, tale rottura può mandare facilmente in crisi una persona.

Pensare di vivere in un mondo fatto di rischi e pericoli che possono trovarsi dietro ogni l’angolo può generare o aumentare l’ansia; per gestire tutto ciò gli individui hanno bisogno di trovare delle scuse per poter vivere in modo tranquillo, scuse che possiamo chiamare meccanismi di difesa.

Dare la colpa all’atteggiamento femminile e al suo vestiario rientra in questa serie di “trucchi”, bugie che raccontiamo a noi stessi e, “protetti” dal falso mito che, nascondendoci, nessun male mai ci affliggerà, rischiamo di divenire a nostra volta promotori inconsapevoli della violenza.

Paura e violenza sono infatti facce della medesima medaglia che si nutrono l’una dell’altra.

Da un lato la violenza e la sua possibilità spaventano, fanno paura e creano un senso di timore, ma dall’altro anche il panico, a sua volta, produce reazioni violente con l’aspettativa di risolvere velocemente la causa delle ansie e delle insicurezze.

La vittima della molestia o dello stupro viene colpevolizzata ulteriormente proprio perché a nessuno piace identificare il mondo come un luogo non sicuro. La visione di un mondo in cui esiste un bilanciamento per cui ognuno semina ciò che raccoglie e ha “quello che si merita”, paradossalmente, riesce invece ad essere rassicurante.

In questo modo risulta semplice illudersi di avere tutto sotto controllo, in base al nostro comportamento.

Ma la possibilità o l’idea che violenze di ogni tipo possano capitare a tutti noi, senza il meritarcele in alcun modo, ci spaventa e risulta difficile, se non impossibile, da accettare.

Le false credenze che si generano come risposta semplice a questi bisogni psicologici, tuttavia, nel tempo hanno distrutto le vittime, rendendole vittime due volte, anche di sentenze moraliste ed esclusione dal tessuto sociale.

Ma non è tutto.

La colpa proiettata verso la vittima cambia, nei modi, in base a società e cultura di riferimento: il viaggio è lungo, tra vestiari, profumi, trucchi, lingue e abitudini, ma ciò che resta immutato è sempre il risultato finale: l’atteggiamento di fondo, cioè il victim blaming: la colpa è della vittima, su questo sono quasi tutti in accordo.

Cause identiche stanno anche alla base del catcalling, un insieme di complimenti non richiesti, fischi, versi, esclamazioni.

Le frasi più comunemente usate sono: “Vabbè, hai visto come era vestita?”, “mamma mia, che bambola”, “dai vieni qui che ti faccio vedere io cos’è un uomo vero”, “che bel culo”, “ma cosa sei”, ecc.

Oltre alla esternazione verbale le donne non di rado vengono fermate e inseguite da coloro che fanno i suddetti “complimenti”, spesso in gruppo rassicurati dall’appartenenza al “branco”.

A dimostrazione di quanto siano radicate le idee del victim blaming, una ricerca condotta da Laboratorio Adolescenza e dall’istituto IARD dal titolo “Adolescenti e stili di vita”, pubblicata nella parte finale del 2018, ha restituito dati preoccupanti.

Il 46% del campione composto da 2654 giovani studenti ritiene che nelle violenze sulle donne le stesse siano corresponsabili e il 7,6% ritiene che le violenze siano giustificate dagli atteggiamenti provocatori delle donne.

Questi dati restituiscono una fotografia della violenza sulla donna che non si discosta dal maschilismo che caratterizza la società nel suo insieme.

Gli adolescenti si mostrano preoccupati dai sempre più frequenti episodi di violenza sulle donne, ma non si rendono conto di non avere un atteggiamento di ferma condanna degli stessi.

Purtroppo, in questo modo se ne rendono partecipi, almeno nella misura in cui tramandano e trasmettono idee e condotte maschiliste.

Ma la donna non è soggetto che cerca avventure disinteressandosi dei traumi che potrebbe attrarre col suo atteggiamento e l’uomo non è soggetto incapace di trattenere le sue pulsioni! È ora di affermarlo con forza.

E per riuscirci bisogna puntare sull’educazione, con sani spazi di discussione sulla ricerca delle motivazioni, e con le relative riflessioni su se stessi, sull’altro e sulla società nel suo insieme.

Nel periodo marzo-giugno 2020, con il lockdown per la pandemia, le chiamate al numero antiviolenza 1522, secondo l’istat, sono aumentate del 119,6% passando da 6.956 a 15.280. Probabilmente l’esser costretti in casa ha fatto emergere rapporti nocivi, le cui tensioni erano tenute “in sordina” dal fatto da non esser costretti a condividere gli stessi spazi per troppo tempo.

Quella della violenza è una vera emergenza e, per vincere la sfida, e sradicarla, è necessario agire su più fronti.

Uno è sicuramente quello di dare alla giustizia più strumenti, per fare in modo che le denunce siano prese in considerazione e le vittime siano messe al riparo da altre violenze, ma questo, diversamente da quello che si potrebbe pensare con un’analisi superficiale, non sarebbe per niente sufficiente: è necessario lanciare una sfida educativa.

Il primo trigger da innescare è rendere quante più persone possibile consapevoli del fenomeno.

Atteggiamenti come il victim blaming allontanano la nostra responsabilità dagli atti di violenza, ci rendono passivi e sminuiscono il problema. In fondo noi (che potremmo e dovremmo controllarci) non perpetriamo alcuna violenza, sono gli altri che se la attirano addosso con il loro modo di fare e che quindi ne sono responsabili.

E cosa c’è di male a fare un complimento a una bella ragazza?

Questi discorsi, che molti si raccontano, hanno diversi effetti, tutti negativi.

Ad esempio quello di abbassare i campanelli di allarme: se si è vittima di complimenti o palpeggiamenti si sarà portati a pensare che, se la violenza si limita a quello, allora in fin dei conti non è poi cosa così grave.

Solo se ci si dovesse spingere oltre allora sarebbe “vera” violenza.

Il problema è che, se si entra nelle dinamiche di un rapporto affettivo, quando quell’oltre è già stato superato, ci si ritrova incapaci di reagire nel modo più totale, in quanto ci si aggrappa alle esperienze positive che si sono vissute, finendo con il restare disarmati. Anche il solo pensare di ribellarsi o denunciare rischia di divenire impossibile.

Questo non coinvolge solo le persone che fanno o subiscono il victim blaming o il catcalling, ma anche gli amici o gli estranei che vi assistono: saranno anche loro educati alla passività, anche di fronte a violenze conclamate e le accetteranno come “cose normali”.

Il secondo trigger da “attivare” è complesso e difficile da strutturare, soprattutto emotivamente, mentalmente e psicologicamente: la costruzione di un io solido, ma equilibrato.

I rischi sono alle porte: anche se è giusto insegnare a puntare sulle proprie forze, bisogna comunque fare attenzione a non esagerare con l’importanza data a questo aspetto e al controllo.

Se si finisce sovraccarichi di questo senso del dovere e non si conseguono i successi sperati, si è più portati a sviluppare forme di sofferenza esagerata, anche relativa alle delusioni inevitabili e normali della vita, e a sviluppare vere forme di depressione.

Se si insiste troppo con questo schema mentale si può arrivare a costruire l’illusione di poter controllare tutto con facilità e al bisogno di governare anche le persone attorno a noi, addirittura con mezzi manipolatori.

Tuttavia un io strutturato e sano è utilissimo per comprendere certe situazioni e saper prendere in tempo le giuste distanze da dinamiche che possono includere o portare a subire forme di violenza.

Una percentuale considerevole delle violenze subite dalle donne risale all’ambiente domestico e al partner. Difficilmente in queste “relazioni tossiche” il carattere violento del partner risulta manifesto sin da subito. Viene costruita una dipendenza affettiva a piccoli passi, in cui si alternano momenti di positività a momenti di inganno, urla e pretese. Si fa credere che molte cose, dai gusti personali agli spazi quotidiani, debbano cambiare: questo rende la vittima ancora più debole, soprattutto facendo credere alla stessa che il tutto sia per il suo bene, per renderla “migliore”, nascondendo in realtà un preciso intento di controllo.

Chi subisce queste dinamiche relazionali corre il rischio di entrare in un vortice affettivo che, anche per una persona indipendente e dotata di una buona base caratteriale, sarà difficile da interrompere.

Il victim blaming, in questo caso, è uno degli strumenti principe con cui questi atti manipolatori possono essere messi in atto e, come dicevamo poco fa, anche solo l’esposizione a questi comportamenti può contribuire a indebolire la nostra capacità di reagire alla violenza e al sopruso.

Terzo trigger, se le idee vengono trasmesse con il dovuto impegno, si propagano poi da sole. Nel male, ma anche nel bene!

A quanto pare la società occidentale è quasi completamente schierata contro la violenza sulle donne, ma come gli adolescenti della ricerca succitata, continua ad accettare molti degli strumenti con cui questa viene messa in atto.

Bisogna diffondere le giuste idee e smantellare i vecchi pregiudizi!

Dovendo pensare a un percorso educativo, nella speranza che nelle nuove generazioni si possa assistere a un cambiamento, è necessario che si rifletta più in profondità sulle azioni e sulle dichiarazioni, soprattutto pubbliche, e le loro conseguenze a lungo termine.

La strada da fare per formare una coscienza collettiva davvero consapevole di quegli atteggiamenti violenti che la storia ha passato come “normali”, è ancora lunga, ma non si può dire che il viaggio non sia iniziato.

Gli organi legati all’istruzione, come quelli di stampa e informazione, oggi hanno notevoli responsabilità verso le quali non possono fare finta di nulla: è importante dare giusto spazio a messaggi e informazioni corrette, avendo anche il coraggio di evidenziare come errati quei comportamenti e quei preconcetti che, nonostante appartengano ad una sorta di tradizione, non fanno altro che permettere alla violenza di continuare a diffondersi indisturbata e, a volte, nei casi più gravi, con conseguenze anche letali.

 

L’incontinenza in bambini e adolescenti. Guida per genitori, insegnanti e operatori sanitari (2021), di A. Von Gontard – Recensione

L’incontinenza fecale (encopresi) o urinaria (enuresi) in bambini e adolescenti è un problema frequente e non di poca rilevanza, basta pensare a tutte le conseguenze emotive che porta con sé.

 

L’incontinenza in età evolutiva è un problema ben più comune di quel che si pensi. È pur vero che se ne parla un po’ poco, ma presumibilmente questo è dovuto al fatto che il diretto interessato, così come l’adulto di riferimento, prova vergogna nell’esternare la cosa.

Questo testo ha pertanto un’utilità cruciale: informare e fornire strategie circa l’incontinenza in bambini e adolescenti.

La chiarezza con cui l’autore ha stilato questa guida non può non balzare all’occhio: fin dalle prime pagine vengono fornite una serie di domande per l’adulto di riferimento. Egli sarà così in grado di inquadrare il problema a cui si trova di fronte e, a seconda della risposta, troverà un capitolo dedicato.

L’incontinenza fecale (encopresi) o urinaria (enuresi) in bambini e adolescenti è un problema frequente e non di poca rilevanza, basta pensare a tutte le conseguenze emotive che porta con sé.

Questo testo ha lo scopo di fornire un valido aiuto al problema, fornendo informazioni pratiche sull’incontinenza e suggerirne il trattamento.

La guida riunisce due volumi stilati da Von Gontard originariamente separati – uno dedicato all’enuresi, l’altro all’incontinenza fecale – pubblicati in tedesco e poi tradotti in inglese.

Una prima edizione completa fu stilata nel 2010, a cui sono seguite numerose ristampe, fino a quella italiana, curata da Marco Carotenuto.

In quest’ultima edizione vengono inserite una serie di simpatiche e piacevoli illustrazioni che fanno da cornice a varie testimonianze di bambini e genitori alle prese con il problema.

L’adulto di riferimento coinvolto non potrà non riconoscersi in alcune delle tante esperienze raccontate nel libro.

E se il genitore alle prese con tale problema pensa di conoscere già bene i concetti di enuresi o encopresi, potrà ricredersi, in quanto esistono varie tipologie di incontinenza.

Come già anticipato il testo si divide in due parti, e la prima è dedicata all’incontinenza fecale. La guida è stilata secondo un ordine ben preciso. Sicuramente colui che si trova alle prese con l’encopresi si chiederà inizialmente se il problema è frequente tra la popolazione oppure no. L’autore a questo interrogativo dà una risposta affermativa. Lo sporcarsi è uno dei disturbi più comuni dell’infanzia, e non solo: se il problema presente nel bambino non viene trattato potrebbe perdurare anche in età adolescenziale.

Detto ciò il lettore vorrà conoscere le cause di tale problema. Purtroppo i pregiudizi a tal merito sono frequenti e spesso si tende a pensare che un bambino che si sporca sia semplicemente ancora immaturo nello sviluppo. Eppure non si tratta di un segno di ritardo di maturazione. Talvolta potrebbe trattarsi di un problema di tipo psicologico, ma anche in tal caso molti studi hanno dimostrato che solo il 40% delle cause è attribuibile a ciò. Dunque non esistono cause univoche e talvolta la disposizione genetica potrebbe giocare un ruolo importante. L’autore fornisce una brillante descrizione di tutte quelle che potrebbero essere le varie cause al problema, per poi riservare un’accurata parte del testo al trattamento.

Inutile negare che un problema di questo tipo porterà con sé delle conseguenze di tipo psicologico, e il libro non trascura ciò, soprattutto dando all’adulto di riferimento adeguati consigli al fine di riconoscere tali risvolti. Perché sovente il genitore privilegerà il voler risolvere il problema in sé, tralasciando il resto, che ha comunque notevole importanza.

Relativamente alla seconda parte del testo l’attenzione si sposta sull’incontinenza urinaria.

Anche in questo caso l’autore va ad elencare le varie tipologie di enuresi presenti, facilitando le distinzioni anche mediante l’utilizzo di tabelle. Lo schema è simile a quello mostrato nella sezione dedicata all’encopresi: un focus sui pregiudizi, le cause e i suggerimenti vari per il trattamento. Inoltre l’autore consiglia più volte di sentire il parere di un esperto pediatra, senza perdere mai di vista l’obiettivo finale.

Il libro si chiude con una dettagliata appendice contenente utilissimi strumenti: dei questionari volti ad inquadrare al meglio il problema e una serie di schede efficaci per il trattamento. In questo modo l’adulto di riferimento potrà tenere sotto controllo il problema mediante una serie di tabelle da compilare a seconda del disagio esperito e della conseguente strategia utilizzata.

Si tratta senz’altro di un’ottima guida, che amplia le vedute sui vari problemi di incontinenza, apre gli occhi sulle possibili cause e fornisce le giuste strategie e suggerimenti.

Il linguaggio molto scorrevole fa sì che il testo possa essere utilizzato anche dagli adulti meno esperti in materia.

Il messaggio conclusivo sarà senz’altro rassicurante: i disturbi da incontinenza sono frequenti, ma tutti possono essere adeguatamente trattati con ottimi risultati per la maggior parte dei bambini e degli adolescenti.

 

Ossitocina: il potenziale ruolo terapeutico nel mantenimento dei legami di coppia e nella riduzione della gelosia

Con l’intento di studiare gli effetti dell’ossitocina sulla gelosia, Zheng e colleghi (2021) hanno condotto uno studio sottoponendo i soggetti a compiti riguardanti l’infedeltà dopo la somministrazione di ossitocina.

 

La gelosia è un’emozione complessa definita come “la percezione di una minaccia di perdita di una relazione di valore con un rivale reale o immaginario che include componenti affettive, cognitive e comportamentali” (Mullen 1991), che può comportare una serie di emozioni come ansia, depressione, disperazione, rabbia, comportamenti intimidatori, tentativi di controllo, violenza e, in alcuni casi, può portare alla morte (Leahy & Tirch, 2008).

Una teoria ampiamente diffusa che tenta di spiegare il perché gli esseri umani provino gelosia è la teoria evoluzionistica, che la concettualizza come un sistema comportamentale che si è evoluto per proteggere l’”investimento” di un individuo in una relazione in cui esiste la possibilità di procreare (Buss, 2000). Seguendo questa teoria, e secondo i risultati degli studi sulle differenze di genere, i fattori che scatenano la gelosia nei maschi e nelle femmine sono differenti: gli uomini, tendenzialmente, sembrano sentirsi più gelosi nei casi di infedeltà sessuale, mentre le donne esperiscono livelli di gelosia maggiori per l’infedeltà emotiva (Zheng, Xu, Xu, Kou, Luo, Ma, & Kendrick, 2021).

Nonostante quindi la gelosia sia un’esperienza comune nelle relazioni sentimentali, essa può assumere forme più gravi e patologiche.

La gelosia ossessiva e la gelosia delirante

A livello diagnostico, il DSM 5 prevede due forme di gelosia patologica: la gelosia patologica inserita nella classe di Disturbo Ossessivo-Compulsivo non altrimenti specificato (comunemente chiamata gelosia ossessiva) e il delirio di gelosia come specifica del Disturbo Delirante (comunemente chiamata gelosia delirante) (American Psychiatric Association, 2013).

Nella gelosia ossessiva le tematiche del tradimento assumono la forma delle caratteristiche del disturbo Ossessivo-Compulsivo: il dubbio dell’infedeltà del partner crea pensieri invadenti, irrazionali e spiacevoli, che spesso sfociano in comportamenti di controllo, come la ricerca di indizi di tradimento e comportamenti di ricerca di rassicurazioni da parte del partner. Al contrario della gelosia ossessiva, nella gelosia delirante il dubbio riguardo il tradimento non esiste. Il tradimento da parte del partner è, per l’individuo che ne soffre, una certezza, nonostante non sussistano prove reali e oggettive a favore (Batinic et al., 2013).

Un caso letterario che rappresenta questo ultimo tipo di gelosia è il personaggio di Otello che, convinto erroneamente dell’adulterio commesso dalla moglie Desdemona, la uccide prima di togliersi la vita.

Il trattamento della gelosia

La Terapia Cognitivo-Comportamentale ha dimostrato una grande efficacia nel trattamento della gelosia, focalizzandosi sulla correzione o la modifica di interpretazioni o credenze disfunzionali che danno origine a questa complessa emozione (Leahy & Tirch, 2008); per i casi in cui la gravità della sintomatologia rende necessaria la somministrazione di farmaci, i più utilizzati sono gli antipsicotici per la gelosia con sintomi deliranti e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) per la gelosia con caratteristiche ossessivo-compulsive  (Zheng & Kendrick, 2021).

Le basi neurali della gelosia

Studi recenti che hanno indagato le basi neurali della gelosia (patologica e non), hanno dimostrato il coinvolgimento del sistema serotoninergico e dei sistemi di ricompensa cerebrale dopaminergica (Marazziti et al., 2013; Zheng et al., 2019; Zheng et al., 2021).

Essendo l’ossitocina un neuropeptide che influenza l’esperienza della ricompensa agendo sul sistema dopaminergico e sul serotoninergico, negli ultimi anni è diventato un tema di ricerca gettonato per i suoi potenziali effetti terapeutici.

L’ossitocina, anche denominato l’ormone dell’amore, è un ormone prodotto dall’ipotalamo riconosciuto come fondamentale durante il travaglio, il parto e successivamente nel processo di allattamento, più in generale nella cura e nella vicinanza materna (Mitra, 2021).

Recentemente, diversi studi hanno dimostrato che l’ossitocina può apportare molti benefici agli individui influenzando differenti aree cerebrali coinvolte nella regolazione dell’appetito, nelle relazioni sociali, nello sviluppo della fiducia e della cooperazione, può ridurre il conflitto all’interno delle coppie e influenza persino la formazione e il mantenimento dei legami con il partner in una relazione sentimentale (Quintana et al., 2019; Zheng & Kendrick, 2021; Mitra, 2021).

Il metodo di somministrazione intranasale è molto comune negli studi perché permette ai vasi sanguigni del naso di assorbire l’ossitocina trasportandola oltre la barriera emato-encefalica nel cervello (Zheng & Kendrick, 2021).

Con l’intento di studiare gli effetti dell’ossitocina sulla gelosia, Zheng e colleghi (2021) hanno condotto uno studio sperimentale con 140 soggetti (70 coppie eterosessuali) sottoposti a compiti riguardanti l’infedeltà in contesti immaginari o reali dopo la somministrazione di ossitocina per via intranasale (o dopo la somministrazione di uno spray placebo per il gruppo di controllo).

Nel primo task sono state presentate brevi frasi che descrivevano esempi immaginari di infedeltà emotiva o sessuale da parte del partner; i soggetti hanno letto le frasi in silenzio e, conseguentemente erano chiamati ad immaginare le situazioni descritte per poi valutare i propri sentimenti di gelosia, di eccitazione generale, di rabbia, tristezza, sorpresa e felicità. Il secondo compito prevedeva un gioco online chiamato Cyberball (Harmon-Jones et al., 2009), durante il quale i partecipanti erano chiamati ad interagire preferenzialmente con uno sconosciuto del sesso opposto, oltre che con il proprio partner, per creare situazioni di “infedeltà” reale.

I risultati di questo studio (Zheng et al., 2021) hanno dimostrato che la somministrazione di ossitocina intranasale ha ridotto i sentimenti di gelosia e le valutazioni di eccitazione nei confronti di altri individui estranei in entrambi i sessi, dimostrandosi così efficace nel ridurre la gelosia in scenari di infedeltà emotiva e/o sessuale immaginati o reali. Ha inoltre ridotto significativamente i sentimenti negativi (tristezza e rabbia) e aumentato i sentimenti positivi esperiti dai partecipanti. Quindi, nel complesso, i risultati di questo studio, assieme ai risultati degli studi precedenti, sottolineano la funzione dell’ossitocina come promotore di maggiore attrazione verso gli attributi positivi del proprio partner nelle relazioni, che può aumentare di conseguenza la fiducia riposta nei loro confronti, diminuendo la gelosia percepita.

Considerando inoltre che i trattamenti con ossitocina intranasale non sono stati associati ad alcun effetto collaterale avverso, questo metodo sembra delinearsi come un modo sicuro ed efficace per facilitare la riduzione della gelosia presente all’interno delle relazioni sentimentali e per rafforzare e mantenere i legami tra partner (Zheng & Kendrick, 2021).

Per quanto riguarda le dimensioni patologiche, finora non sono stati pubblicati studi che riportano un’efficacia terapeutica dell’ossitocina intranasale sulla gelosia patologica, nonostante alcuni studi dimostrino l’influenza del neuropeptide sulle risposte e sulla connettività funzionale dei sistemi sia dopaminergici che serotoninergici, che sono gli attuali principali bersagli terapeutici per questo disturbo (Kendrick et al., 2017 ; Jiang et al., 2021).

 

L’infertilità e la dimensione del lutto nella coppia

L’impatto della diagnosi di infertilità conduce anche le coppie più unite e stabilmente legate a prendere contatto con le proprie fragilità.

 

Abstract

 Di fronte alla diagnosi di infertilità i partner sperimentano, seppur in modalità differenti, un dolore molto affine all’esperienza di lutto. L’attesa silenziosa e prolungata della gravidanza mette a dura prova il rapporto e l’intimità della coppia. Una possibilità è che ciascun partner reagisca alla perdita chiudendosi alla comunicazione con l’altro e che anche la coppia si chiuda rigidamente in se stessa, in un circolo vizioso che può essere interrotto attraverso l’elaborazione del vuoto percepito e, solo in seguito, all’apertura verso altre forme di generatività.

L’impatto della diagnosi di infertilità

Non riuscire a concepire un figlio è un evento, o meglio un non-evento, che crea un forte disagio all’interno di una relazione di coppia. I timori che investono i partner si rinforzano a ogni tentativo naturale non andato a buon fine, sfociando nella paura più grande: non riuscire a realizzare il proprio progetto di genitorialità condivisa. E così, nell’apparente perfezione di una melodia a due voci, l’ombra dell’infertilità irrompe come un’assordante nota stonata.

L’impatto della diagnosi conduce anche le coppie più unite e stabilmente legate a prendere contatto con le proprie fragilità e con il considerevole impatto sulla famiglia allargata: i partner, infatti, devono non solo confrontarsi con le proprie aspettative di genitori, ma anche mettere in discussione la possibilità per i familiari di diventare nonni e zii (Riccio, 2017). Riprendendo il concetto di “lealtà invisibili” di Boszormenyi-Nagy e Spark (1973, trad. it. 1988), in questa condizione la coppia potrebbe veder minata la possibilità di portare a termine il proprio dovere generazionale, sdebitandosi con i propri genitori.

La condizione vissuta dalle coppie infertili ricorda metaforicamente il dramma di Samuel Beckett “Waiting for Godot”, in cui i protagonisti trascorrono la propria vita in perenne attesa. Questo misterioso signor Godot, che fa continuamente sperare il suo arrivo, in scena non compare mai e i due vagabondi sono costretti a riempire il tempo con discorsi vuoti e senza senso. In questo dramma, come evidenziato da Auhagen Stephanos (1991, trad. it. 2008), i due protagonisti sono in una situazione di stallo, proprio come le coppie infertili che sperano, di ciclo in ciclo, di veder realizzato il proprio desiderio di genitorialità. In questa dimensione circolare in cui l’attesa si configura come parte strutturante della vita di coppia, si è destinati a una sofferenza senza fine, in un tempo che, pur sembrando immobile, scorre.

L’attesa silenziosa e prolungata della gravidanza gioca un ruolo determinante per la relazione: l’assenza di una dimensione sociale in cui condividere la propria esperienza dolorosa trascina la coppia in una condizione di solitudine; vengono così portati all’estremo gli aspetti simbiotici, corrispondenti al bisogno di vicinanza e coesione (Riccio, 2017). Analogamente alle esperienze di lutto perinatale, sentire che il proprio partner condivide gli stessi stati d’animo è un fattore protettivo per il legame di coppia e aumenta le possibilità di affrontare il lutto con successo (Swanson, Karmali, Powell, Pulvermarker, 2003; Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018). Nonostante i buoni propositi però, spesso i partner reagiscono mettendo in atto strategie di evitamento che trasformano l’argomento in tabù e non permettono di sciogliere i nodi irrisolti (Riccio, 2017).

Le differenze di genere nell’affrontare l’infertilità

La capacità della coppia di superare il lutto della diagnosi d’infertilità risente delle differenze di genere. Spesso nell’uomo predomina il piano simbolico legato alla trasmissione dei geni, mentre nella donna a essere privilegiato è il piano dell’immaginario, in cui il figlio tanto desiderato è parte della propria identità (Vegetti Finzi, 1997). Talvolta il dolore femminile per la maternità negata è così intenso da escludere il partner, nel tentativo di proteggerlo o nella convinzione di non poter essere compresa (Riccio, 2017). La ricerca ha dimostrato, infatti, come vi sia un esito positivo nell’elaborazione del lutto per tutte quelle coppie in cui la donna riesce ad accettare la propria condizione (Repokari, Punamäki, Unkila-Kallio, Vilska, Poikkeus, Sinkkonen, Almqvist, Tiitinen, Tulppala, 2007). Più precisamente “la capacità di una donna di accettare una diagnosi di infertilità è direttamente proporzionale alla presenza di un uomo e di una coppia in grado di sostenere e proteggere” (Riccio, 2017, p. 69).

Conclusioni

Una diagnosi d’infertilità è, dunque, paragonabile a una vera e propria perdita ed è spesso accompagnata dai sentimenti tipici di un’esperienza di lutto (Weaver, Clifford, Hay, Robinson, 1997). L’infertilità è una perdita che riguarda il corpo, la salute, la quotidianità, la speranza e la progettualità condivisa (Salerno, 2010) e a cui i partner cercano di sopravvivere nonostante la rottura, a volte insanabile, dell’equilibrio della relazione. Solo attraverso un’adeguata elaborazione del vuoto percepito, possibile anche attraverso un percorso terapeutico, la coppia potrà dire di aver superato la diagnosi e abbracciare nuove forme di generatività.

 

Pandemia e isolamento sociale: quale impatto hanno avuto sulla salute fisica e mentale della popolazione anziana?

La pandemia da COVID-19 dovuta al virus SARS-Cov-2 si è diffusa ed è progressivamente aumentata in tutto il mondo a partire da dicembre del 2019.

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS; Fonte: Health Emergency Dashboard) aggiornati al mese di luglio 2021 contano oramai quasi 190 milioni di casi dall’inizio della pandemia e più di 4 milioni di morti in tutto il mondo. La prevalenza nella comunità è comunque in parte incerta a causa dei molti casi asintomatici, ma tutti i gruppi anagrafici sembrano essere stati ugualmente colpiti.

La popolazione anziana tuttavia, è a maggior rischio di andare incontro ad esiti negativi, i quali possono portare a un tasso elevato di mortalità, che è stato visto essere cinque volte superiore alla media globale per le persone di età superiore agli 80 anni (World Health Organisation, 2020).

Oltre il 95% dei decessi dovuti a COVID-19 in Europa e circa l’80% in Cina hanno incluso persone di età superiore ai 60 anni (Zazhi, 2020). Negli Stati Uniti, l’80% dei decessi sono stati tra gli adulti di età pari o superiore a 65 anni.

Le diverse strategie messe in atto dai Governi (come le misure di quarantena e il distanziamento sociale) sono state e sono ancora molto importanti per evitare la diffusione del coronavirus e per la salvaguardia della salute della popolazione.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha tuttavia più volte evidenziato come ci sia una stretta relazione tra il livello di partecipazione sociale nella comunità e le funzioni fisiche e mentali.

Per partecipazione sociale si intende la partecipazione attiva dei soggetti alle attività religiose, culturali, politiche, sportive e di volontariato della propria comunità. Vari studi hanno sottolineato gli effetti protettivi della partecipazione alle attività sociali, sulla salute della popolazione più anziana, considerata uno stimolo per aumentare il livello di attività fisica e le funzioni cognitive (Douglas, Georgiou, & Westbrook, 2017; Sepúlveda-Loyola, Ganz, Maciel, et al., 2020).

La partecipazione sociale è stata associata ad una migliore qualità della vita, ad una maggiore massa muscolare, a delle migliori funzioni cognitive e ad un livello inferiore di comorbidità e disabilità nella popolazione anziana (Douglas et al., 2017; Smith, Banting, Eime, Sullivan, & Uffelen, 2017).

Durante la pandemia, molte strutture e organizzazioni comunitarie sono state chiuse come misura preventiva; molte persone anziane sono state costrette per lungo tempo a non ricevere più visite dai loro familiari, conseguentemente la partecipazione sociale è stata drasticamente ridotta e in molti casi annullata. Possiamo quindi ipotizzare come la diminuzione dell’interazione sociale prodotta dal distanziamento sociale abbia potuto causare un impatto negativo sulla salute mentale e fisica delle persone anziane.

Nella popolazione anziana l’attività fisica ha un impatto positivo sulla salute e sulla qualità della vita, riducendo il rischio di decadimento fisico e cognitivo, il rischio di cadute, fratture, depressione e di sindromi geriatriche, di ospedalizzazione e conseguentemente di mortalità (Ozemek, Lavie, & Rognmo, 2019). Le ricerche, condotte durante precedenti quarantene, hanno documentato non solo gli effetti dell’isolamento sulla salute fisica della popolazione anziana, ma anche le conseguenze sulla salute mentale, come il maggior rischio di depressione, disturbi emotivi, stress e insonnia (Lee, Chan, Chau, Kwok, & Kleinman, 2005), fattori che sono stati associati a percentuali di suicidi più elevati tra la popolazione più anziana (Yip, Cheung,  Chau, & Law, 2010).

Tuttavia, gli effetti della quarantena causata dal COVID-19 sulla salute della popolazione anziana non sono stati ancora documentati.

Stando queste precedenti considerazioni una recente review (Sepùlveda-Loyola, Rodrìguez-Sánchez, Pérez-Rodríguez, Ganz, Torralba, Oliveira, & Rodríguez-Mañas, 2020) ha approfondito e analizzato questi temi:

  • gli effetti potenziali dell’isolamento sociale causato dalla pandemia da COVID-19 sulla salute fisica e mentale nella popolazione anziana
  • le raccomandazioni e le attività consigliate da svolgere a casa, per contrastare il declino cognitivo e funzionale.

I ricercatori hanno incluso nella review 41 articoli, pubblicati tra il 2019 e maggio 2020. Gli articoli selezionati dovevano includere soggetti di ricerca con più di 60 anni. Per quanto riguarda le linee guida e le raccomandazioni gli autori hanno selezionato quelle provenienti da diverse organizzazioni internazionali che si occupano di salute mentale e attività fisica.

Covid-19 e popolazione anziana: i risultati

La salute mentale

I dati emersi dalle ricerche condotte hanno evidenziato un effetto negativo generale sulla salute mentale della popolazione anziana durante il periodo di isolamento sociale dovuto al COVID-19.

Questo effetto si declina innanzitutto con livelli più alti di ansia, depressione e una qualità del sonno peggiore.  La prevalenza di ansia e depressione varia tra i diversi studi, con tassi di prevalenza che vanno dall’8,3%  al 49,7% per l’ansia e dal 14,6% al 47,2% per la depressione. Alcuni studi hanno evidenziato anche vari potenziali fattori di rischio associati a questi risultati:

  • il sesso femminile (Mazza, Ricci, Biondi, S. , et al., 2020);
  • avere una percezione negativa della propria età (Losada-Baltar, Jimenez-Gonzalo, Gallego-Alberto, Pedrosos-Chaparro, Fernades-Pires, & Marquez-Gonzáles,2020);
  • l’essere un operatore sanitario ( Huang & Zhao, 2020),
  • avere scarse risorse personali e familiari (Losada-Baltar et al., 2020),
  • la quantità di tempo dedicata alle ricerca di notizie e informazioni sul COVID-19 (Losada-Baltar et al., 2020);
  • e l’avere un conoscente o un familiare ammalato di COVID-19 o una storia pregressa di problemi di salute (Mazza, et al., 2020).

La salute fisica

Il distanziamento sociale dovuto alla pandemia potrebbe condurre a conseguenze negative per la salute della popolazione anziana. Questo effetto sulla salute fisica è stato studiato in particolare da due ricerche (Castañeda-babarro, 2020 ; Goethals, Barth, Guyot, Hupin, Celarier & Bongue, 2020) dove è emerso che esso è dovuto alla diminuzione dei livelli di attività fisica a causa dalle restrizioni imposte. Il numero di anziani che frequentano programmi di attività fisica di gruppo e l’attività fisica in generale, come il tempo dedicato alle passeggiate, sono fortemente diminuiti durante il confinamento.

La partecipazione sociale ha molti effetti positivi. Le ricerche hanno dimostrato infatti che gli anziani che partecipano con costanza alle attività sociali hanno più forza muscolare, un apparato polmonare e respiratorio più sano, minori infiammazioni croniche  e disabilità rispetto a quelli che non vi partecipano (Tomioka, Kurumatani, & Hosoi, 2017).

Per tal ragione, la partecipazione alle attività di gruppo è un’importante componente per un sano invecchiamento. Le ricerche evidenziano come la relazione tra l’interazione sociale e la salute fisica operi lungo vie differenti. Ad esempio, la partecipazione alle attività sociali è in grado di stimolare i sistemi muscolo scheletrico, cardiovascolare, respiratorio e nervoso attraverso l’attività fisica e l’interazione sociale (Fernandez-Alonso, Muñoz-García, & La Touche, 2016). L’attività fisica genera benefici sulla salute fisica stimolando la contrazione muscolare, il dispendio energetico, diminuendo il sistema infiammatorio e lo stress ossidativo e riducendo la prevalenza di vari disturbi cronici e di sindromi geriatriche (Jiménez-Pavón, Carbonerll-Baeza, & Lavie , 2020)

Raccomandazioni per la salute mentale e fisica della popolazione anziana durante la quarantena

Dai risultati in letteratura emergono le seguenti raccomandazioni e linee guida per preservare il più possibile la salute mentale e fisica della popolazione anziana:

  • Rafforzare le connessioni sociali, utilizzando ad esempio video chiamate, applicazioni telefoniche o attraverso la partecipazione a gruppi di supporto telefonici;
  • Adoperare delle modificare al proprio stile di vita (applicando delle routine quotidiane, regolarizzando i ritmi sonno-veglia, le abitudini alimentari e l’attività fisica);
  • Impiegare tecniche di rilassamento (la respirazione diaframmatica o il rilassamento muscolare);
  • Non tralasciare la stimolazione cognitiva (impiegando esercizi di stimolazione mentale mediante anche l’utilizzo di applicazioni ad hoc, soprattutto per quei soggetti già affetti da deterioramento cognitivo).

I caregivers possono avere un ruolo cruciale nel promuovere il benessere fisico e mentale dei soggetti più anziani. Per ridurre gli stati di ansia e la sensazione di essere “poco utile”, viene molto raccomandato, a prescindere dal quadro cognitivo del soggetto, di far partecipare l’anziano ad adeguate attività quotidiane, (Chinese Society of Geriatric Psychiatry, 2020). L’esposizione ai media deve essere regolata evitando il rischio che i soggetti anziani possano eccederne o reperire informazioni da fonti non ufficiali. Spiegare le notizie provenienti dai media in modo chiaro e accompagnare le informazioni con delle illustrazioni può essere molto utile, specialmente in quella fascia della popolazione affetta da decadimento cognitivo.

Per aumentare la resilienza della popolazione più anziana è fondamentale una giusta combinazione tra educazione alla salute e counselling psicologico. Rinforzare il concetto di come la quarantena sia di aiuto per la loro e altrui sicurezza, adottare un linguaggio inclusivo quando si fa loro riferimento, valorizzando anche il loro contributo, sono elementi utili per raggiungere questo obiettivo. È importante anche garantire agli anziani continuità nei controlli medici e nelle terapie: aiutarli ad avere accesso alla telemedicina con consulti medici on line ad esempio, è fortemente raccomandato (DiGiovanni, G, Mousaw, K, Lloyd T, et al., 2020).

Come abbiamo sottolineato, il distanziamento sociale ha fortemente ridotto il livello di attività fisica con un impatto negativo sulla salute fisica. A tal proposito, nella review, sono state prese in considerazione le indicazioni di otto organizzazioni mondiali (American College of Sports Medicine (ACSM), American Heart Association (AHA), American Physical Therapy Association (APTA), International Association of Physical Therapists working with Older People (IPTOP), World Health Organization (WHO), World Confederation for Physical Therapy (WCPT) e l’International Network of Physiotherapy Regulatory Authorities (INPTRA) le quali raccomandano tutte l’incremento dei livelli di attività fisica.

In particolare vengono raccomandati: 150-300 minuti a settimana di attività fisica aerobica di moderata intensità e due sessioni a settimana di allenamento per la forza muscolare; circuiti misti di esercizi cardio e di potenziamento da eseguire a casa; esercizi di coordinazione e di mobilità. Anche in questi casi è fondamentale il supporto e la supervisione dei caregivers, e possono essere impiegate proficuamente anche applicazioni telefoniche o piattaforme digitali.

 

Esiste il rapporto sessuale? (2021) di Massimo Recalcati – Recensione del libro

Il punto di partenza nel volume Esiste il rapporto sessuale?, come avviene spesso nelle riflessioni di Recalcati, è ancora una volta Lacan.

 

Il connubio psicoanalisi/sessualità appare inscindibile sin dall’inizio con Freud e la sua rivoluzione. Non stupisce affatto, quindi, che Recalcati, dopo aver affrontato in testi divulgativi di ampio successo temi quali la madre, il padre, l’insegnamento come passione, le varie declinazioni dell’amore, la biografia di alcuni artisti, l’importanza dei libri, tralasciando i volumi più specialistici e complessi dedicati alla teoria e alla pratica clinica, abbia dedicato l’ultima sua fatica letteraria alla sessualità.

La psicoanalisi condivide il principio dell’identità di genere secondo cui non è il sesso anatomico ad essere decisivo nella determinazione dell’identità sessuale, quanto la scelta soggettiva che, sebbene non possa prescindere né dall’anatomia né dai condizionamenti culturali, non può essere ridotta a funzione di essi. Recalcati nota come il tema dell’identità di genere fosse assente nella prima fase dei movimenti di liberazione sessuale iniziati sotto la spinta della contestazione del Sessantotto, mentre oggi ha acquisito centralità. Tuttavia, in questa legittima rivendicazione della scelta anche inconscia del proprio sesso, egli segnala giustamente il rischio di reputare come automaticamente pacificata e risolta una sessualità che abbia adeguato il proprio genere non all’anatomia ma alla scelta soggettiva.

Il punto di partenza, come avviene spesso nelle riflessioni di Recalcati, è comunque ancora una volta Lacan. Stavolta, si tratta dell’affermazione relativa all’inesistenza del rapporto sessuale. Affermazione di certo paradossale e, come spesso avviene per le tesi di Lacan, e ancor più per quelle di novelli allievi che si autodefiniscono da lui ispirati, si tratta di assunti che vanno contro il pensiero comune. Banalizzo, e so di farlo, ma per fare un esempio: tutti pensiamo che l’amore materno sia importante e fondante e, allora, giù a segnalarne le potenzialità distruttive. In questo caso, se pensavamo che la sessualità fosse un momento di profondo incontro con l’altro, ebbene, ci sbagliavamo: mai come durante l’atto sessuale siamo soli con noi stessi e distanti dall’altro. Insomma, l’esperienza erotica è quella che ci consente di sentire il corpo e l’anima del partner nella loro massima vicinanza, fino a poter raggiungere vette estatiche come nelle pratiche tantriche, o si tratta sempre solo del proprio godimento, anche quando si esprime nella capacità di far godere l’altro? Inoltre, la questione del rapporto tra desiderio sessuale e dimensione affettiva/amore non è mai facilmente risolvibile. La potenziale forza eversiva della sessualità, con il conseguente timore che suscita in chi detiene il potere, è testimoniata dal fatto che anche le lotte della comunità Lgbt sinora si siano risolte più nel diritto al matrimonio piuttosto che condurre al riconoscimento del diritto a un sesso libero, svincolato dal legame affettivo. Ad esempio, come segnala Manzotti, anche in tempi recentissimi nella emancipata California è stata sdoganata la poligamia, ma solo a patto che avvenga all’interno di relazioni affettive significative tra più persone. Insomma, il piacere sessuale puro, fine a se stesso, continua a essere un tabù. Ma perché è cosi? Perché, in tante culture, è considerato sbagliato che persone adulte e consenzienti traggano piacere dai loro corpi attraverso pratiche sessuali?

Tornando al libro, la tesi di Lacan secondo cui il “rapporto sessuale non esiste” mira a ricordarci come nella sessualità umana, a prescindere dalla declinazione in cui essa si concretizzi, vi sia qualcosa che rende impossibile il rapporto. Anche se fosse possibile emancipare la sessualità da tutti i dispositivi disciplinari e morali che la opprimono, essa resterebbe comunque perturbante e disarmonica. Per la posizione psicoanalitica non si tratta di combattere per i diritti civili di tutti, battaglia in sé sacrosanta, ma di affrontare il tema più profondamente. La lezione della psicoanalisi ci impone di credere che il desiderio, prima di incontrare il partner, sia guidato sul piano inconscio da una pluralità di fantasmi che regoleranno tale incontro.

È ciò che rende irriducibilmente diversa la vita sessuale umana da quella animale: la sessualità umana, a prescindere da come si realizza, non poggia su nessun istinto ed è, dunque, obbligata a separarsi dalla natura. L’accoppiamento sessuale nella vita umana non dipende solo da risposte e reazioni istintuali e le nostre complessità perverso-polimorfe ci impongono tragitti tortuosi e contraddittori, dice Recalcati. “Contrariamente a quanto accade nel mondo animale, dove colori, odori, stagioni, maturazione degli organi riproduttivi sono comandi naturali sufficienti a innescare un accoppiamento tra i sessi senza inciampi, il percorso del desiderio sessuale umano è inevitabilmente labirintico e accidentato”. L’istinto obbedisce alla legge universale della natura, mentre la pulsione sessuale è senza legge, per principio sregolata, deviata, assolutamente singolare, anarchica, iperedonista, perversa e polimorfa. Ciò che ci differenzia dagli animali è l’esperienza del godimento, che va oltre l’istinto. Questa esperienza comporta sempre, oltre all’estasi e alla gioia, all’eccitazione e all’erotismo, al piacere e al godimento, una quota irriducibile di turbamento e di inquietudine. Il rapporto dell’essere umano con il proprio corpo è sempre un “rapporto disturbato” dal godimento che si pone come un’esigenza, un eccesso, una spinta che irrompe nella routine della vita altrimenti regolata dal sonno istintuale. Infatti, mentre il piacere si mantiene in un’area di equilibrio e di moderazione, il godimento con il suo carattere eccessivo scompagina questa zona che diviene tumultuosa, eccitante e inquietante insieme. La natura anarchica del desiderio umano rivela il suo statuto nomade, erratico, che mal si combina con la normatività di una relazione coniugale monogama. La potenza del desiderio rischia di mettere a repentaglio ciò che si è costruito in tanti anni ed in tante situazioni, che a volte ritroviamo nella pratica clinica; è proprio l’irruenza del desiderio a mettere in crisi relazioni stabili e durature dove non manca l’affetto ma è venuta meno la passione.

In ogni caso, nonostante tutto, Recalcati lascia aperta una speranza. Il confine oltre il quale il piacere deborda nel godimento è sempre sottile. La vita sessuale dell’uomo, per definizione, va oltre il principio del piacere. Il godimento spinge a travalicare questo limite. Quando ciò avviene in negativo assistiamo alla trasformazione dell’eccitazione in impeto violento, della tenerezza in possesso, del desiderio in brama incontrollabile, dal trovarsi insieme al perdersi. Tuttavia, questo andare oltre, che può diventare un eccesso rovinoso e distruttivo, può costituire anche un’eccedenza positiva, che arricchisce la vita. Il godimento perverso è distruttivo, ma il godimento erotico afferma la vitalità della nostra esperienza umana. L’essenza della perversione non risiede nella scelta di talune pratiche piuttosto che altre ma è più radicale e consiste nella riduzione del partner a puro oggetto del proprio godimento. L’altro diviene solo uno strumento e il perverso accentua la dimensione autistica, senza rapporto, del sesso. Non si tratta, come è ovvio, di un’opposizione rigida tra sessualità buona e cattiva. Il rapporto tra piacere e godimento è molto complesso ma non necessariamente irrisolvibile. Mentre infatti il piacere si mantiene in una zona di equilibrio e di moderazione, il godimento scompagina quella zona rendendola tumultuosa, eccitante e inquietante insieme. Tuttavia, è possibile che tale perturbazione possa essere “il nome di una gioia” (p.200). Ciò  avviene quando c’è l’amore che sottrae il corpo sessuale all’anonimato, per renderlo unico e insostituibile. Come dire, nonostante Freud e Lacan, duemila anni di cristianesimo non si possono buttare…. E sarà dunque ancora una volta la forza dell’amore a renderci migliori…

 

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