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Diet culture e restrizione cognitiva nei disturbi alimentari

La società occidentale è ormai permeata dalla cosiddetta diet culture, la cultura della dieta: che effetti potrebbe avere il diffondersi di tale cultura da un punto di vista cognitivo e fisico?

 

La società occidentale è ormai permeata dalla cosiddetta diet culture, la cultura della dieta: avere un fisico magro e muscoloso, riuscire a mantenere una dieta e delle regole alimentari ferree e praticare una rigida attività fisica viene generalmente visto come una dimostrazione di forza e determinazione e, di conseguenza, di valore personale.

Negli ultimi 50 anni, l’ideale di magrezza è andato via via rafforzandosi, come dimostrano alcuni studi che hanno analizzato i dati antropometrici delle modelle apparse sulle copertine di diverse riviste, sia indirizzate ad un pubblico maschile sia femminile: queste analisi hanno dimostrato, infatti, che sia l’indice di massa corporea (calcolato dividendo il peso per il quadrato dell’altezza) sia le circonferenze di vita e fianchi sono andate via via riducendosi dagli anni ’50 in poi.

Diet culture, disturbi alimentari e restrizione alimentare

Questo diffuso ideale di magrezza è uno dei motivi per cui vivere in una società occidentale, contraddistinta dalla diet culture, è uno dei fattori di rischio per lo sviluppo di un disturbo alimentare.

In queste patologie, l’attenzione verso il peso e le forme del corpo, alla quantità e alla qualità degli alimenti introdotti viene portata patologicamente all’estremo e diventa tanto importante nella quotidianità dell’individuo, da rappresentare un vero e proprio (se non l’unico) metro di valutazione di sé come persona.

Al fine proprio di controllare il peso e le forme del corpo, all’interno della psicopatologia dei disturbi alimentari, un aspetto diffuso e comune è la restrizione alimentare, che può assumere diverse sfaccettature:

  • controllo su quanto mangiare: restrizione alimentare quantitativa, caratterizzata dalla riduzione dell’introito energetico giornaliero, il quale risulta spesso inferiore rispetto al fabbisogno minimo;
  • controllo su cosa mangiare: restrizione alimentare qualitativa o cognitiva, contraddistinta dall’esclusione di alimenti e gruppi alimentari (frequentemente carboidrati e lipidi);
  • controllo su quando e talvolta dove mangiare: rigidità di orari e luoghi in cui consumare i propri pasti, che si traduce spesso nell’evitare di mangiare in compagnia e nel non consumare pasti cucinati da altre persone.

I potenziali rischi della restrizione quantitativa sono facilmente immaginabili e identificabili: essa può infatti portare a sottopeso, carenze di micro e macronutrienti, scompensi elettrolitici, problemi ossei quali osteopenia e osteoporosi, e amenorrea (scomparsa del ciclo mestruale).

Disturbi alimentare e restrizione cognitiva

Più insidiosa è la restrizione cognitiva, non solo perché ha effetti meno visibili, ma anche perché affonda le proprie radici in quella diet culture, cultura della dieta, tanto diffusa e radicata nella società da rendere difficile accorgersi della presenza di un problema reale.

Prediligere alcuni alimenti (considerati “buoni”, “magri”) rispetto ad altri e riuscire ad eliminarne totalmente alcuni (visti, di contro, come “cattivi” o “ingrassanti”), nonostante inizialmente possa essere visto come una prova di forza, alla lunga finisce per risultare più un obbligo morale che una scelta, e può creare grandi difficoltà nel funzionamento della persona e nella sua capacità di prendere parte alla vita sociale.

Non riuscendo a partecipare agli eventi in cui è presente un qualche “cibo proibito”, chi soffre di un disturbo alimentare finisce per isolarsi sempre di più, limitando ulteriormente gli ambiti in cui misurare il proprio valore come persona e rinforzando l’idea di doversi misurare solo in base al peso, alla dieta e al loro controllo.

In aggiunta a questo effetto relazionale, la restrizione cognitiva aumenta enormemente le preoccupazioni rispetto al peso, alle forme del corpo e al cibo stesso, andando inevitabilmente ad aumentare la sintomatologia del disturbo alimentare stesso.

Inoltre, escludere alcuni alimenti può portare all’aumento del craving, dell’intenso desiderio, di quegli stessi alimenti evitati e con esso della probabilità di avere episodi di abbuffata in cui questi cibi hanno un ruolo di protagonisti.

Affrontare la restrizione cognitiva è, pertanto, estremamente importante nel percorso di cura di un disturbo alimentare, qualunque forma esso assuma.

Disturbi alimentari e psicoterapia

Nella terapia cognitivo comportamentale (CBT) applicata ai disturbi alimentari, il fronteggiare gli “alimenti proibiti” è parte integrante del trattamento: la persona affetta dal disturbo alimentare, affiancata passo passo dal terapeuta, è spronata a compilare una tabella con tutti i cibi tabù, in ordine crescente di difficoltà e paura percepita, e ad affrontarli uno ad uno.

L’esposizione graduale e controllata, contestualmente al percorso della CBT, consente di affrontare le proprie paure, siano esse più focalizzate sul “pericolo” di un aumento di peso o di un episodio di abbuffata, e di riacquistare il controllo della propria alimentazione.

Anche quando le condizioni di salute fanno sì che il recupero del peso sia l’urgenza e la priorità, è importante che la restrizione cognitiva venga affrontata nel momento in cui la persona che combatte contro un disturbo alimentare si sente pronta a farlo: il semplice recupero del peso, infatti, non è sufficiente a far sì che la guarigione sia effettiva e non elimina il rischio che le caratteristiche del disturbo alimentare semplicemente mutino verso un versante ortoressico.

L’ortoressia è, infatti, una forma di disturbo alimentare e in cui la distinzione tra alimenti “buoni” e “cattivi” è più marcata e vi è una vera e propria ossessione per una dieta considerata sana e salutare, con le conseguenze di isolamento sociale e sofferenza individuale che questa rigidità ovviamente porta con sé.

Affrontando la restrizione cognitiva, la persona torna a poter nuovamente scegliere nell’intera gamma degli alimenti, senza più privarsi di alcuni di essi né provare ansia all’idea di trovarsi a doverli mangiare. Questo le permette di vivere con maggiore serenità tutti gli eventi sociali connessi al cibo e tornare a far parte del mondo che la circonda e, di conseguenza, rende possibile l’ampliamento di quei domini di valutazione di sé limitati in origine alla triade peso-corpo-cibo, superando così uno dei nuclei del disturbo alimentare.

 

Mindfulness e self-compassion: tra psico-educazione e clinica – Report dalla Conferenza Internazionale

La conferenza internazionale dal titolo Mindfulness e Self-compassion: tra psico-educazione e clinica ha avuto come tema principale le modalità di connessione tra la mindfulness e la self-compassion e il mondo della psicologia e psicoterapia. 

 

Il 27 e 28 novembre 2021 si è svolta, in modalità a distanza, la conferenza internazionale dal titolo Mindfulness e Self-compassion: tra psico-educazione e clinica organizzata da “Bioenergetica e Mindfulness” di Nicoletta Cinotti e “Interessere – mindfulness in azione” con il patrocinio del Consiglio Nazionale degli Ordini degli Psicologi.

Le pratiche di mindfulness da tempo ormai si sono affacciate sul panorama clinico offrendo molte esperienze in diversi contesti sociali e lavorativi mostrando effetti positivi sia dal punto di vista del benessere psico-fisico personale esperito dai singoli, sia sul versante scientifico, come dimostrano le numerose ricerche nate attorno all’argomento.

Con la situazione pandemica globale poi, moltissime persone si sono avvicinate alla mindfulness e alle pratiche meditative. 

La conferenza internazionale tenutasi in modalità online sabato 27 e domenica 28 novembre 2021 ha avuto come tema principale le modalità di connessione e lo stato dell’arte attuale tra la mindfulness e la self-compassion e il mondo della psicologia e psicoterapia.

Mindfulness e Self-compsassion tra psico-edcazione e clinica: i punti di forza della conferenza

La web-conference era dedicata e aperti a tutti, gli argomenti trattati e la modalità con cui questi sono stati affrontati tuttavia presupponevano conoscenze precedentemente acquisite circa le tematiche specifiche. Nota di merito per l’organizzazione di entrambe le giornate: svolte sulla piattaforma zoom, gestite egregiamente dai tecnici sia le sessioni plenarie, sia le pratiche in piccoli gruppi. Sono state infatti svolte due sessioni di pratica formale in seguito alle quali hanno avuto luogo condivisoni in piccoli gruppi. La platea virtuale era composta da circa 180 uditori, i gruppi di condivisone erano formati da una decina di persone, tale condizione ha permesso una dimensione interpersonale intima non inibente che ha consentito ad ogni partecipante l’esposizione delle sensazioni esperite. La lingua della conferenza era l’inglese, la traduzione simultanea e l’ottimo lavoro delle professioniste che se ne sono occupate ha offerto la possibilità di seguire gli interventi in italiano. Infine per i professionisti sanitari vi era la possibilità di acquisire crediti formativi, la registrazione di entrambe le giornate è stata resa disponibile il giorno successiva alla fine dei lavori. La piattaforma symposia congressi con un’interfaccia semplice e intuitiva permetteva l’accesso alla piattaforma virtuale, la consultazione rapida del programma e di tutti i documenti del convengo compresi contenuti aggiuntivi consigliati e suggeriti.

I protocolli Mindfulness

Il programma ha visto un intenso susseguirsi di interventi e sessioni di pratica per tutta la giornata di sabato e per l’intera mattina della domenica.

Durante la mattinata della prima giornata, mediata da Paola Mamone – cofondatrice di “Interessere Mindfulness in azione”, l’attenzione è stata rivolta alla pratica clinica dei protocolli mindfulness con particolare interesse alla genitorialità (italianizzato dal termine inglese parenting) e dei sistemi familiari in cui i genitori e i figli sono inseriti. Il tema è stato ben affrontato nell’alternarsi degli interventi di Nicoletta Cinotti e Susan Bogels, autrice del libro Mindful Parenting (2020) la quale ha parlato del Mindful Parenting in tempi difficili. Dal Regno Unito invece l’intervento successivo di Rebecca Crane ha spiegato la qualità delle competenze necessarie negli interventi basati sulla mindfulness attraverso l’osservazione di criteri stabiliti per l’assessment secondo il modello MBI-TAC (Mindfulness-based Teaching Assessment Criteria). Nella seconda parte Nicoletta Cinotti ha guidato una pratica formale di reparenting. Nota dolente in questo caso la qualità del suono attraverso la piattaforma telematica che ha quasi annullato il riverbero della campana tibetana (strumento fondamentale nelle pratiche di mindfulness). Finita la pratica, si è svolta la condivisone in piccoli gruppi guidata dai facilitatori, alla quale è seguita la condivisone generale in plenaria.

Self-compassion

Il pomeriggio della stessa giornata è stato completamente dedicato alla self-compassion (in italiano tradotto come compassione) pratica che condivide alcuni principi con la mindfulness ma che presenta caratteristiche proprie. L’introduzione del pomeriggio è stata affidata ad Alessandro Giannandrea che ha presentato un magnifico intervento sulla natura della coscienza e sul suo ruolo all’interno della pratica terapeutica e negli interventi di mindfulness. L’arduo compito di spiegare i complessi legami tra mindfulness, self-compassion e psicoterapia è stato affidato a Christopher Germer, ideatore, insieme a Kristin Neff, proprio del protocollo di Mindful Self-compassion. La relazione di Germer, presentata in maniera egregia, ha chiarito il legame tra mindfulness e lavoro psicoterapico riprendendo quello che già avevamo potuto leggere nel suo testo del 2018: Le psicoterapie orientate alla Mindfulness.

La conclusione della sessione plenaria affidata alla spagnola Maya Wrzesien ha presentato gli interventi ad oggi attuati in termini di compassione dal punto di vista clinico.

La pratica formale, affidata questa volta alla voce di Paola Mamone, ha permesso di sperimentare la gentilezza e la compassione verso di sé. La riflessione in piccoli gruppi e poi in sessione riunita è seguita subito dopo concludendo così la prima giornata.

La mindfulness tra scienza e clinica

Il secondo giorno di incontro, tenutosi solo nelle ore mattutine, ha visto l’alternarsi di due interventi molto belli ma tecnici, considerando la natura degli argomenti. Dopo la Mamone, che ha parlato del percorso affrontato negli anni per affermare a livello scientifico e nella sfera clinica la pratica della mindfulness, è intervenuto dai Paesi Bassi Robert Brandsma che ha esordito con una riflessione attenta e apprezzabile, seppur di poche parole, rispetto al vantaggio a livello ambientale delle modalità online. Il suo intervento si è focalizzato sulla difficoltà e allo stesso tempo sull’importanza della fase dell’inquiring all’interno delle sedute con i praticanti. Un leggero ritardo nei lavori iniziali non ha permesso il tempo previsto per il break. La tavola rotonda, in programma dopo la pausa, ha visto l’alternarsi a ritmi sostenuti (circa 7 minuti per ogni relatore) di diversi terapeuti che hanno mostrato i punti di contatto e l’utilizzo della mindfulness all’interno dei diversi approcci terapeutici: Acceptance and Commitment Therapy presentata da Andrea Bassanini; Schema therapy; Compassion Focused Therapy, ben esposta da Nicola Petrocchi; psicoterapia analitica e antropologia esistenziale; mindfulness interpersonale; Self-compassion. Nota particolare per Maria Beatrice Toro che ha presentato la prospettiva cognitivista arricchendo il suo intervento di forte emozione e di una bellissima metafora.

In conclusione si è lasciato spazio alle domande e ai ringraziamenti sentiti a tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione delle giornate.

Complessivamente una conferenza ben organizzata dal punto di vista logistico, per la qualità e la modalità degli argomenti trattati e per le personalità di spicco che vi hanno presenziato. Tutti gli interventi hanno mostrato in modo consono e adeguato il modo in cui la pratica della mindfulness si può declinare all’interno dei diversi approcci terapeutici, arricchendo la clinica di un elemento importante quale quello dell’attenzione focalizzata e della presenza consapevole nel rapporto con il paziente e nell’alleanza con esso. Gli interventi hanno assunto il carattere scientifico che la Mindfulness ha dimostrato di avere grazie alle numerose ricerche, sopratutto internazionali, presenti ad oggi nel panorama scientifico.

La pratica di consapevolezza è stata presentata come elemento arricchente dell’approccio terapeutico, basato sul sentire del clinico che partecipa in prima persona all’ascolto e all’attenzione dell’esperienza condivisa del paziente e che con esso “risuona”. Bellissima l’immagine di Brandsma che paragona il terapeuta a una campana tibetana, questa risuona restituendo note ordinate e comprensibili all’orecchio solo quando vuota, cioè libera da ogni cosa che potrebbe risiedere al suo interno, allo stesso modo il terapeuta deve essere libero da pensieri non richiesti al fine di entrare in un approccio di ascolto e attenzione consapevole con il paziente.

 

Come la qualità del sonno e l’autocontrollo influenzano la procrastinazione nei lavoratori

La procrastinazione è definita come un ritardo irrazionale che comprende una discrepanza tra l’intenzione e l’azione e si verifica quando le persone hanno intenzione di agire ma non agiscono, nonostante sappiano che ne soffriranno.

 

Alcuni studi in letteratura hanno dimostrato che la procrastinazione ha conseguenze dannose in termini di produttività, salute e benessere (Van Eerde, 2003; Steel, 2007). È noto, infatti, che non solo il ritardo, ma anche il senso di colpa e la vergogna per il comportamento irrazionale, possono avere un impatto sulla vita. Per tali ragioni la procrastinazione può anche portare a disturbi di salute, ansia e depressione (Sirois, 2016).

Sebbene sia stata ampiamente studiata in ambito accademico, la procrastinazione è stata studiata molto raramente in ambito lavorativo, anche se è risaputo che alcuni comportamenti di autoregolazione come il rispetto delle scadenze e il raggiungimento degli obiettivi, risultano particolarmente compromessi dalla procrastinazione (Van Eerde, 2003), ma sono invece importanti per la performance individuale. In aggiunta, sembrerebbe che non tutti gli individui siano coerenti nei loro comportamenti di procrastinazione, ma quest’ultima ha una grande variabilità quotidiana (Kühnel et al., 2017a).

Siccome la procrastinazione può essere vista anche come un comportamento di evitamento, dove il ritardo irrazionale serve a regolare l’umore negativo associato al completamento di un compito, in un ambiente lavorativo questo provoca una diminuzione del benessere e una minore performance (Marcus et al., 2016).

La prospettiva autoregolativa della procrastinazione sostiene che essa sia il risultato di una diminuzione delle risorse autoregolative (Klingsieck, 2013). È probabile, quindi, che i fattori che determinano la procrastinazione siano tutte quelle variabili quotidiane che provocano dei cambiamenti nelle risorse autoregolative. La qualità del sonno, per esempio, ha dimostrato di avere un impatto sul comportamento lavorativo autoregolativo: il lavoro è caratterizzato da un insieme di attività che richiedono autoregolazione e pianificazione per il completamento dei compiti (Claessens et al., 2010).

Procrastinazione e qualità del sonno

La qualità del sonno è stata quindi identificata come una variabile che influenza la procrastinazione in quanto diminuisce l’energia delle persone ad impegnarsi nel lavoro e a sostenere uno sforzo nel tempo: quando l’energia manca, la procrastinazione diventa molto più probabile. In generale, la qualità del sonno può influenzare le prestazioni, la salute e gli atteggiamenti sul lavoro (Litwiller et al., 2017). Molte delle questioni relative al comportamento lavorativo problematico sono legate all’autoregolazione, dove le risorse cognitive ed emotive sono necessarie per sostenere risultati desiderabili sul lavoro (Diestel et al., 2015). Un’alta qualità del sonno può quindi aumentare la disponibilità di risorse in modo che queste possano essere indirizzate alle attività lavorative che necessitano di autoregolazione, piuttosto che evitarle con la procrastinazione. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che una maggiore qualità del sonno riduce la procrastinazione del lavoro il giorno successivo (Kühnel et al., 2017a).

Inoltre, molti dati della letteratura hanno messo in luce che un’altra variabile che ha un impatto sull’autoregolazione è l’autocontrollo. Quest’ultimo è definito come “la capacità di annullare o cambiare le proprie risposte interiori, così come di interrompere le tendenze comportamentali indesiderate (come gli impulsi) e astenersi dall’agire su di esse” (Tangney et al., 2004  p. 274); può essere quindi visto come una capacità generale di autoregolarsi. Coerentemente con questa prospettiva, l’autocontrollo di tratto può essere inteso come la differenza individuale in questa capacità. Data la sua relazione con l’autoregolazione, l’autocontrollo di tratto dovrebbe giocare un importante ruolo moderatore nella relazione tra la qualità del sonno e la procrastinazione lavorativa quotidiana.

Procrastinazione e qualità del sonno: un studio

Van Eerde e Venus, nel 2018 hanno condotto uno studio che indagasse la relazione tra la qualità del sonno durante la notte e il suo effetto sulla procrastinazione al lavoro del giorno successivo. Le ipotesi iniziali erano quindi che nelle persone, la qualità del sonno notturno sarebbe stata correlata negativamente alla procrastinazione del lavoro il giorno successivo e, inoltre, che la relazione tra la qualità del sonno notturno e la procrastinazione del lavoro potesse essere moderata dall’autocontrollo di tratto; in particolare, che la relazione negativa risultasse più debole quando l’autocontrollo era elevato. 71 impiegati a tempo pieno che lavoravano in vari settori hanno partecipato allo studio, completando dapprima un questionario per valutare l’autocontrollo di tratto (Tangney et al., 2004). Successivamente, i dipendenti hanno ricevuto due questionari giornalieri per valutare la qualità del sonno (misurata tramite il Pittsburgh Sleep Quality Index (Buysse et al., 1989), e un test sulla procrastinazione (adattato da Tuckman, 1991) nel corso di 10 giorni lavorativi.

Come ipotizzato, i risultati hanno mostrato che la qualità del sonno era correlata negativamente alla procrastinazione del lavoro il giorno successivo. Inoltre, è emerso l’effetto moderatore dell’autocontrollo: non solo la relazione tra la qualità del sonno e la procrastinazione era più bassa per i dipendenti con alto autocontrollo, ma è risultata addirittura non significativa. Questo implica che la qualità del sonno è più importante per coloro che hanno un basso livello di autocontrollo: gli impiegati con un alto autocontrollo di tratto tendono ad essere “immuni”. Oltre ad un aumento di energia, aver dormito bene può dunque aiutare a superare gli impulsi. Il sonno è fondamentale per l’autoregolazione (Barnes, 2012) e la compromissione dell’autoregolazione è legata al sonno insufficiente (Wagner et al., 2012). Avere sane abitudini nella quantità di ore di sonno e alcuni interventi sull’insonnia hanno dimostrato di apportare grandi giovamenti per ridurre la procrastinazione lavorativa e aumentare l’autocontrollo (Barnes et al., 2017).

 

Fuori o senza bordi – Riflessioni e significati della serie “Strappare Lungo i Bordi”

Quante volte ci siamo chiesti se fosse davvero questo ciò che dovevamo aspettarci dalla vita, se abbiamo fatto tutto per ‘benino’, come se ci fosse una lista da seguire e delle spunte da mettere per ogni azione svolta. La serie Netflix Strappare lungo i bordi del fumettista romano Michele Rech in arte Zerocalcare, ci invita a riflettere su tutte quelle volte in cui siamo andati fuori dai bordi.

 

È tutto sotto controllo!

Cosa può andare storto se hai tutto sotto controllo?

Cosa potrebbe andare storto se non avessi tutto sotto controllo?

Nasciamo e cresciamo con stereotipi e pregiudizi che ci portiamo dietro nell’adolescenza e anche nell’età adulta per poi arrivare ad un punto in cui mettiamo tutto in discussione e ci chiediamo se sia davvero questo che ci dovevamo aspettare fino a questo punto dalla nostra vita e se abbiamo fatto tutto per ‘ benino’, se siamo stati bravi all’asilo, a scuola, a casa, in famiglia, a lavoro, con gli amici… come se ci fosse una lista da seguire e occorresse mettere una spunta per ogni azione svolta e, guai a non seguirla.

Strappare lungo i bordi: ritrovare se stessi nei personaggi

La serie Netflix Strappare lungo i bordi, del fumettista romano Michele Rech in arte Zerocalcare , ci costringe a calarci nei panni di Zero, ma anche in quelli di Sarah, Secco ed Alice.

Siamo stati tutti Zero e alcuni di noi lo sono ancora, insicuri, paranoici, indecisi, con poca consapevolezza di sé , con bassa autostima, con scarsa attenzione verso le emozioni degli altri, incapace di comprendere i discorsi astratti però impeccabile nell’aiuto pratico, come andare a comprare 800 panini se un amico ha fame.

Siamo Sarah, quando vediamo sempre un lato bello in tutto, quando ancora la speranza in noi non si spegne e ci obblighiamo a vedere il lato vero delle cose. In modo brutale e a volte con una ventata di ottimismo e realismo riportiamo gli amici con i piedi per terra e gli mostriamo che non sono poi così indispensabili per gli altri e che il mondo non è sorretto sulle nostre spalle. Quindi possiamo rilassarci.

Alcuni di noi hanno la leggerezza, la spensieratezza e anche la superficialità di Secco che vive di gelato, metaforicamente ma anche realisticamente, o sfugge alle difficoltà non pensandoci o non preoccupandosene mai.

E siamo spesso Alice, nascondiamo le nostre debolezze e preoccupazioni agli altri per non farli soffrire, non chiediamo mai aiuto a nessuno e sacrifichiamo la nostra felicità per non scomodare mai gli altri, ma perdiamo anche molte occasioni, forse perché abbiamo accanto degli Zero che non si accorgono di nulla e che vivono perennemente in una fase adolescenziale incapaci di dare sostegno emotivo. In alcuni casi, si perde anche la vita perché combattiamo battaglie interiori più grandi di noi e preferiamo perderle da soli che affrontarle chiedendo aiuto alle figure di riferimento.

Insomma, siamo noi, è come sedersi e guardare una serie tv sulla nostra vita e chi nega che si sia rivisto in almeno uno dei personaggi, mente.

Strappare lungo i bordi: e se prendessimo altre direzioni?

L’autore ci vuole comunicare come la società ci impone certe strade obbligate un po’ come se dovessimo ritagliare la nostra vita esattamente lungo i bordi e guai ad uscire dal tracciato.

E se invece ci perdessimo e ce ne fregassimo dei dogmi e della società, e volessimo seguire un’altra strada e dunque un’altra linea non tratteggiata?

Il senso che dovremmo cogliere è che, se anche così fosse, nessuno ha il diritto di considerarci “diversi” o “sbagliati” , semplicemente abbiamo fatto scelte che per noi in quel momento erano più adeguate e maggiormente sentite e per le quali il corpo ci ha mandato segnali e vibrazioni positive.

Alice poteva essere aiutata ma solo se si fosse fatta aiutare.

È giusto andare fuori dai bordi o meglio non avere nessun bordo tratteggiato ma decidere strada facendo le proprie azioni e vivere di conseguenza, senza rimpianti, più consapevoli di noi stessi.

Filosofi, psicologi e armadilli: cos’è la coscienza

Essere un po’ Zero ci porta a fare molta introspezione, che si nota nella serie durante i flashback e gli aneddoti ma anche con il confronto puntuale e puntiglioso con la sua coscienza morale, l’armadillo.

E notare bene che tutti siamo provvisti di una coscienza, dipende solo da come viene utilizzata e il tipo di calibratura gli diamo nel corso della nostra vita con l’educazione ricevuta ma anche grazie alle nostre risorse cognitive. Non è così scontata la coscienza, a questo riguardo vediamo che cos’è e come funziona e perché quella di Zero era così fastidiosamente sincera. La coscienza può essere definita come la valutazione morale del proprio agire, spesso intesa come criterio supremo della moralità.

La coscienza di Zero parlava molto, questo perché il protagonista si interrogava molto e metteva sempre tutto in discussione, per insicurezza o estrema precisione?

La coscienza è stata studiata da molti autori, soprattutto da filosofi. Renè Descartes introdusse il concetto di dualismo mente-corpo, ossia l’idea che mentre la mente e il corpo sono separati, interagiscono.

Lo studio dell’esperienza cosciente fu uno dei primi argomenti studiati dai primi psicologi.

Gli strutturalisti hanno usato un processo noto come introspezione per analizzare e riportare sensazioni, pensieri ed esperienze coscienti. Lo psicologo americano William James paragonò la coscienza a un flusso: ininterrotta e continua, nonostante i continui cambiamenti. Mentre l’attenzione di gran parte della ricerca in psicologia passò a comportamenti puramente osservabili durante la prima metà del ventesimo secolo, la ricerca sulla coscienza umana è cresciuta enormemente dagli anni ’50.

La recente ricerca sulla coscienza si è concentrata sulla comprensione delle neuroscienze dietro le nostre esperienze coscienti. Gli scienziati hanno persino utilizzato la tecnologia di scansione del cervello per cercare specifici neuroni che potrebbero essere collegati a diversi eventi consci (Lewis, 2014)

I ricercatori moderni hanno proposto due principali teorie della coscienza:

  • La teoria dell’informazione integrata: tenta di guardare alla coscienza imparando di più sui processi fisici che sono alla base delle nostre esperienze coscienti. La teoria tenta di creare una misura dell’informazione integrata che forma coscienza. La qualità della coscienza di un organismo è rappresentata dal livello di integrazione. Questa teoria tende a focalizzarsi sul fatto che qualcosa sia consapevole e in che misura sia consapevole.
  • La teoria dello spazio di lavoro globale: suggerisce che abbiamo una banca di memoria da cui il cervello attinge le informazioni per formare l’esperienza della consapevolezza cosciente. Mentre la teoria dell’informazione integrata si concentra maggiormente sull’identificazione della consapevolezza di un organismo, la teoria dello spazio di lavoro globale offre un approccio molto più ampio alla comprensione di come funziona la coscienza.

Mentre la coscienza ha incuriosito filosofi e scienziati per migliaia di anni, abbiamo chiaramente una lunga strada da percorrere nella nostra comprensione del concetto. I ricercatori continuano a esplorare le diverse basi della coscienza, comprese le influenze fisiche, sociali, culturali e psicologiche che contribuiscono alla nostra consapevolezza cosciente (Horgan, 2015).

Attenzione! Segue Spoiler

Ognuno ha l’armadillo che si merita

L’armadillo accompagna Zero sempre e gli concede un po’ di tregua apparente solo durante la cerimonia funebre di Alice. I protagonisti affrontano il viaggio da Roma a Biella, rivivendo la loro infanzia, e vedendo scorrere la loro vita fanno il punto della situazione e si rendono conto che nonostante fossero sicuri di seguire i bordi, erano fermi, o stavano proseguendo lentamente e questo li ha portati a fare confronti con la vita degli altri, ad esempio con la ragazzina topo Valentina.

Ognuno ha l’armadillo che si merita.

Non c’è niente di sbagliato nell’andare piano e nel fare esperienze diverse dagli altri.

Non bisogna mai sentirsi sbagliati, né confrontare le nostre vite con quelle degli altri perché non possiamo sapere cosa ognuno di loro vive realmente: da fuori le vite degli altri possono sembrare perfette e gettarci nello sconforto.

È giusto fare introspezione e un bilancio della propria vita ma solo per porre nuovi e stimolanti obiettivi e poi verificarli a distanza di tempo ma senza spuntare una lista.

Possiamo sbagliare e uscire dai bordi, strappare fuori o non tracciarli proprio, perché la vita è nostra e nessuno ce la preconfeziona – per fortuna! – e se le cose vanno male, nel frattempo che torni il sereno, “S’annamo a pijà er gelato!”

 

Strappare lungo i bordi – Guarda il trailer della serie:

Perché ci piace guardare gli altri giocare: il caso degli esports – Psicologia Digitale

Milioni di persone sono appassionate di esports e seguono campionati e tornei sia dal vivo che in streaming. Quali sono le motivazioni di un fenomeno tanto diffuso?

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 25) Perché ci piace guardare gli altri giocare: il caso degli esports

 

Cosa sono gli esports

 Gli esports (anche e-sport, eSport, dall’inglese electronic sport) sono competizioni di videogiochi di livello amatoriale, semiprofessionistico e professionistico. Quello degli esports è un fenomeno sempre più popolare e diffuso: secondo i dati del Global Esports & Live Streaming Market Report 2021 (Newzoo, 2021) il pubblico globale dei giochi in live-streaming supererà i 700 milioni nel 2021. Campionati e tornei, sia online che dal vivo, come qualunque altro evento sportivo hanno arbitri, commentatori specializzati, leghe professionali, sponsorizzazioni e diritti mediatici per la trasmissione dell’evento sulle piattaforme (ad esempio su Amazon o Twitch). Secondo la classificazione di Funke e collaboratori (2018) possiamo suddividere gli esports in: giochi di combattimento, sopratutto in prima persona (FPS, first person shooter), giochi di strategia in tempo reale (RTS, real-time strategy), videogiochi sportivi (SVG, sport videogames) e giochi di strategia in cui ci sono sfide a squadre (MOBA, multiplayer online battle arena). Tra i più conosciuti abbiamo la League of Legends’ World Championship, la Fortnite World Cup o la FIFA eChampions League; ma ce ne sono molti altri.

Perché guardiamo lo sport

Per capire come mai ci piace guardare gli esports dobbiamo prima comprendere come mai ci piace guardare eventi sportivi in generale.

Questo interrogativo è stato esplorato in diversi studi da cui emergono delle motivazioni centrali (Pizzo et al, 2018): apprezziamo i momenti di condivisione con gli amici, lo spettacolo in sé ma anche l’imprevedibilità del risultato e la possibilità che ci siano eventi inattesi come ribaltamenti dei pronostici. Tutte cose che rendono guardare lo sport un’esperienza divertente. Inoltre, l’aspetto competitivo e guardare una gara tra professionisti rende la visione più emozionante.

Un altro fattore importante è la conoscenza: infatti molti dichiarano di apprezzare la visione di un evento sportivo soprattutto quando si tratta di uno sport di cui capiscono le logiche e la complessità, così che riescono a capire in ogni momento cosa sta succedendo.

Perché guardiamo gli esports

Ai fattori indicati sopra se ne aggiungono altri tipici degli esports. Qian e collaboratori (2019) ne hanno individuati alcuni e messo a punto uno strumento, la Motivation Scale of Esports Spectatorship (MSES) che identifica ciò che motiva le persone a guardare gli esports.

Secondo gli autori gli esports hanno specifiche caratteristiche che rispondono a motivazioni specifiche. Per esempio, un motivo importante è che guardare esports online è un modo per migliorare le proprie prestazioni ed abilità. Il desiderio di migliorare ed imparare nuovi trucchi/modalità di gioco motiva quella gran parte di spettatori che sono anche giocatori che desiderano migliorare le proprie competenze.

D’altro canto seguire gli esports ha anche una caratteristica unica, non presente quando si tratta di sport tradizionali: la visione in prima persona. Infatti, quasi sempre gli spettatori possono guardare il gioco dalla stessa prospettiva di chi gioca. Questa immersione porta ad un coinvolgimento molto più forte ed immersivo che genera una cosiddetta sensazione vicaria, ovvero la sensazione di essere al posto di un altro vivendo così le stesse situazioni ed emozioni. La natura unica dell’esperienza visiva degli esports attraverso una visione in prima persona porta gli spettatori a godersi l’esperienza e immergersi come se stessero effettivamente giocando (Qian et al., 2019).

Come per lo sport tradizionale, guardare una partita è un aggregatore sociale e rafforza i legami amicali, anche se la socializzazione ha delle caratteristiche peculiari negli esports. Se da un lato la forte componente di senso di appartenenza a una comunità è presente in entrambi, l’opportunità di socializzare anche con utenti che non si conosce è un fattore molto importante. Attraverso alcune funzioni come la chat si può interagire tra spettatori e con gli streamer tramite testo/immagini potendo così ampliare la propria cerchia sociale a persone con interessi simili, su Twitch come su altre piattaforme.

Da un lato questa visione ribalta l’immagine dei consumatori di esports come socialmente isolati, dall’altro ciò implica che viene rinforzato il comportamento di alcuni utenti che si isolano nel mondo offline ma socializzano negli ambienti online (Seo & Jung, 2016).

Le basi teoriche

Il lavoro di Deci e Ryan (2000) è stato utilizzato per spiegare cosa motivi gli spettatori a guardare gli esports. Secondo la loro teoria dell’autodeterminazione ciò che ci motiva e ci orienta all’azione deve soddisfare tre bisogni fondamentali: autonomia, competenza, relazione. Il bisogno di autonomia indica l’agire secondo il proprio volere ed interesse, secondo i propri valori e su base volontaria; quello di competenza indica il bisogno di sentirsi capace ed in grado di padroneggiare dei compiti anche complessi; infine, il bisogno di relazione riguarda la sfera sociale ed il sentirsi parte di un gruppo e di una comunità e di avere relazioni interpersonali.
Le motivazioni degli spettatori online di esports possono essere identificate ed esaminate anche all’interno della teoria degli usi e gratificazioni (Katz et al, 1973). Questa teoria è uno dei paradigmi più utilizzati per comprendere il consumo e l’impatto delle nuove tecnologie; in una prospettiva più ampia, secondo questa teoria, l’uso dei media in generale non è passivo ma appunto motivato dal soddisfacimento di bisogni di natura psicologica e sociale. In questo senso gli utenti volutamente ed attivamente utilizzano i media, ed in questo caso gli esports, per sentirsi parte di qualcosa e stare con altri. Questo perché i contesti virtuali offrono esperienze interattive e partecipative e sono fonte di interazione sociale. Si può interagire in tempo reale con streamer, commentatori ed altri spettatori attraverso le chat e vivere le azioni di gioco in prima persona: questo cambia la prospettiva di consumo rendendo gli esports una pratica unica co-costruita tra più parti simultaneamente (Seo & Jung, 2016).

Guardare lo sport vs guardare l’esport

In generale, essere spettatori di un evento sportivo ci piace per diversi motivi. È divertente ed emozionante, soprattutto quando l’esperienza è condivisa con amici, ma anche perché non sai mai come va a finire. In maniera più implicita, ci piace perché soddisfa dei bisogni come quelli di autonomia, competenza, relazione già visti in precedenza (Deci & Ryan, 2000). Attraverso la lente della teoria degli usi e gratificazione invece possiamo leggere l’importanza degli utenti come attivi nei contesti virtuali dove ci sono esperienze interattive e partecipative. Guardare altri giocare non equivale a contrapporre un’attività passiva vs attiva (guardare vs giocare). Si tratta più che altro di un’interazione tra spettatore e ambiente inteso come l’insieme degli altri (altri spettatori, commentatori, giocatori), senza contare che la linea di demarcazione tra giocatore e spettatore non è così netta: una gran parte di chi guarda gli esports è a sua volta un giocatore quantomeno di livello amatoriale (Seo & Jung, 2016).

Se guardiamo e ci appassioniamo agli sport tradizionali per l’intrattenimento ed il senso di comunità, non si può dire esattamente lo stesso per gli esports. In questo senso, alcune motivazioni si sovrappongono mentre altre sono tipiche dei contesti virtuali.

Per esempio, sport tradizionali ed esport condividono l’attrattività per la visione di una competizione, la spettacolarità di vedere professionisti fronteggiarsi in discipline che comprendiamo e che amiamo.

Non si può dire lo stesso per quanto riguarda l’area delle competenze. Vedere lo sport tradizionale ci porta ad apprezzare non solo l’abilità nella specifica disciplina ma anche altre qualità come atletismo, attrattiva fisica dei giocatori ed in generale l’estetica in sé degli atleti. Queste dimensioni non sono rilevanti negli esports dove invece vengono enfatizzate destrezza, coordinazione, conoscenza strategica e tattica, o una combinazione di tutte (Seo, 2015).

In definitiva, gli spettatori degli esports hanno motivazioni simili a quelle che troviamo tra gli spettatori di sport tradizionali, sebbene con alcune specificità (Seo & Jung, 2016).

 

Preoccupazione ed umorismo: prendere la vita con leggerezza è davvero utile ad incrementare il benessere?

Diversi studi hanno dimostrato che le persone con un maggiore senso dell’umorismo presentano meno ansia e stress rispetto alle persone con un minore senso dell’umorismo (Kuiper, 2012).

 

L’umorismo è un costrutto multidimensionale che combina svariati aspetti, come abitudini comportamentali, abilità e competenze, un tratto di personalità e una strategia di coping (Ruch, 2008). Recentemente è stato sviluppato un modello che descrive le differenze individuali nell’uso dell’umorismo concentrandosi su una lista di otto stili, ovvero i Comic Style Markers (CSM) (CSM; Ruch, Heintz, et al., 2018)

Gli otto stili comici possono essere classificati come stili di umorismo “leggeri” o “oscuri”. Gli stili “leggeri”, che riguardano l’affetto benigno e sociale sono: (1) il divertimento, volto a diffondere il buon umore e la buona compagnia; (2) l’umorismo, che suscita la simpatia scoprendo le discrepanze nelle esperienze quotidiane; (3) il nonsense, basato sul giocare con le incongruenze e le bizzarrie senza uno scopo specifico; e (4) l’arguzia, indicata come la capacità di creare collegamenti intelligenti tra idee e pensieri. Gli stili “oscuri”, basati sulla derisione e il ridicolo, sono: (1) l’ironia, che riflette un contrasto o un’incongruenza tra le aspettative per una situazione e ciò che è la realtà, contenendo l’opposto di ciò che si intende; (2) la satira, diretta a criticare e correggere le carenze, la cattiva condotta e gli errori morali con l’intenzione di migliorare il mondo; (3) il sarcasmo, fondato sull’essere critici verso gli altri e trasmettere disprezzo; e (4) il cinismo, volto a svalutare i valori comunemente riconosciuti (Ruch, Heintz, et al., 2018).

La preoccupazione (worry) rappresenta la componente cognitiva dell’ansia ed è descritta come un tipo di catena intrusiva, ripetitiva e incontrollabile di pensieri e immagini negative. Gli stili di umorismo “leggeri”, in quanto favorevoli alle emozioni positive, potrebbero essere per lo più correlati a un maggior benessere e a una migliore predisposizione ad affrontare gli eventi stressanti, al contrario, gli stili “oscuri”, che rappresentano la tendenza ad esibire un atteggiamento negativo e distruttivo, potrebbero influenzare negativamente il benessere.

Umorismo, preoccupazione e benessere

Lo studio di Dionigi et al. (2021) ha indagato la relazione tra gli otto stili comici, la preoccupazione e il benessere. Nella ricerca sono stati coinvolti 254 partecipanti italiani (131 uomini e 123 donne) di età compresa fra i 18 ed i 67 anni. I soggetti sono stati reclutati online, inviando il link di Google Moduli ad una mailing list. Il campione era costituito per la maggior parte da persone con un diploma di scuola superiore (47.2%) o laureati (30.3%). Per raccogliere gli stili di comicità è stata proposta la versione italiana del Comic Style Markers (CSM; Ruch, Heintz, et al., 2018; Dionigi et al.,2021), un questionario autosomministrabile composto da 48 items che indaga otto stili di comicità: divertente, comico, ironico, nonsense, arguto, satirico, sarcastico e cinico. Ad ogni stile di comicità corrispondono 6 items che vengono valutati su una scala in cui 1 significa “fortemente in disaccordo” e 7 “fortemente d’accordo”. Per accertare i livelli di worry dei partecipanti è stato utilizzato il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990; Morani et al. 1999), un questionario composto da 16 items che valutano la generalizzazione, l’eccessività e l’incontrollabilità dei livelli patologici del worry. Ogni item viene valutato su una scala a 5 punti in cui 1 corrisponde a “per niente tipico” e 5 “molto tipico” . Per valutare il benessere emotivo i partecipanti hanno dovuto compilare la World Health Organization-5 Well-Being Index (WHO-5; WHO, 1998), uno strumento che valuta la frequenza di determinati sentimenti nelle ultime due settimane, in base al punteggio attribuito a ciascuno dei 5 items. La frequenza viene valutata su una scala a 6 punti in cui 0 indica “mai presente” e 5 “sempre presente”.

Dal presente studio è emerso che gli otto stili comici presi in esame si riferiscono in modo differente alla preoccupazione e al benessere psicologico. Nello specifico, il divertimento e l’umorismo risultano essere correlati positivamente all’estroversione e negativamente al nevroticismo (Dionigi et al., 2021; Ruch, Heintz, et al., 2018). Gli individui con bassi livelli di stabilità emotiva hanno più probabilità di sperimentare stati emotivi negativi con pensieri intrusivi e ricorrenti (Muris et al., 2005). Inoltre, un basso livello di estroversione viene associato al disturbo d’ansia generalizzato (Gomez & Francis, 2003) mentre il cinismo risulta avere una correlazione positiva con la preoccupazione. Chi è più incline ad assumere un atteggiamento critico nei confronti del mondo risulta essere anche più preoccupato per i potenziali pericoli per sé (Mathews, 1990) e ad avere relazioni qualitativamente più basse (Ruch, Wagner e Heintz, 2018). In conclusione, sia l’umorismo che il divertimento risultano essere molto efficaci al fine di diffondere il buon umore e alleviare le avversità, migliorando così il benessere personale (Ruch, Wagner e Heintz, 2018).

 

Alto Potenziale Cognitivo e Doppie Eccezionalità (2021) di Ermelinda Maulucci – Recensione

Come spiegato nel volume Alto Potenziale Cognitivo e Doppie Eccezionalità l’intensità e la sensibilità dei bambini plusdotati possono essere meglio compresi secondo la teoria delle “overexcitabilities”

 

Ermelinda Maulucci è una autorevole voce nel panorama legale e psicologico nazionale ed europeo che supporta il riconoscimento dei bambini e ragazzi plusdotati. In questo libro l’autrice si occupa di doppia eccezionalità che tuttavia non è eccezionale riscontrare tra bambini e ragazzi. L’autrice invita il lettore ad approfondire la complessità della plusdotazione cognitiva e il contesto in cui si sviluppa, spesso confuso con caratteristiche o profili riconducibili ai disturbi dell’attenzione, DSA e alla sfera dell’autismo. Nel nostro paese l’Alto Potenziale Cognitivo secondo le Linee Guida viene valutato su una base psicometrica, tuttavia la plusdotazione è caratterizzata da un funzionamento globale diverso dalla generalità delle altre persone, in particolare per un possibile sviluppo asincrono e specifici tratti emotivi e sociali. I bambini plusdotati come sottolinea Michael Piechowski (in Silverman, 1998) presentano un’organizzazione cognitiva complessa, un alto livello di sensibilità, una vivida immaginazione e sensazioni amplificate determinando una percezione del mondo differente: penetrante, coinvolgente, assorbente, complessa.

Il testo esamina i principali strumenti psicometrici di valutazione del QI e sottolinea l’importanza di considerare il contesto nel quale si svolgono.

L’intensità e la sensibilità dei bambini plusdotati possono essere meglio compresi secondo la teoria delle “overexcitabilities” secondo la quale vi sono cinque tipi di iper-eccitabilità: Intellettiva, Immaginativa, Emotiva, Psicomotoria, Sensoriale e possono essere confuse con alcune caratteristiche proprie di alcuni disturbi.

Come per tutti i bambini, il ruolo dei genitori e della famiglia è fondamentale per favorire lo sviluppo di una personalità armonica con le loro caratteristiche.

Gli insegnanti involontariamente possono contribuire a rendere la vita scolastica meno soddisfacente, ostacolando per esempio soluzioni originali. Per questo motivo in molti Stati è prevista una didattica differenziata, la Gifted Education. Il mancato riconoscimento di questi bambini può determinare la credenza di essere sbagliati, quindi diversi e manifestare iperadattamento, sottorendimento, calo dell’autostima, ansia e depressione.

Per tale ragione l’intelligenza elevata deve avere un ruolo nel processo diagnostico e in particolare identificare i bambini con doppia eccezionalità è molto complesso. Diversi studi evidenziano che un bambino gifted può presentare un disturbo e/o una neurodiversità come un bambino normodotato.

Il testo propone importanti considerazioni e suggerisce strumenti utili da tenere in evidenza in un processo diagnostico riguardante DSA, Sindrome di Asperger e ADHD.

L’intento della Maulucci, sulla base della letteratura internazionale, sembra sia quello di offrire un contributo a favore dei doni di bambini e ragazzi ad alto potenziale cognitivo che meritano di essere espressi al meglio. L’autrice quindi offre un’occasione di riflessione attenta per insegnanti e genitori e questo libro non può mancare nella libreria dei professionisti impegnati nella pratica clinica in età evolutiva per una corretta valutazione globale.

 

Immagine di sé e sessualità in pazienti oncologici

Sebbene la vita dei pazienti oncologici muti in seguito alla diagnosi o ai trattamenti, non molto spazio viene dato a come le relazioni col partner e la sessualità possano modificarsi in relazione ai cambiamenti dell’immagine di sé.

 

Gli effetti positivi per i trattamenti locali dimostrati dalla chemioterapia hanno ampliato il suo utilizzo (Nygren, 2001) ma, nonostante i suoi benefici, questo intervento può comportare degli effetti collaterali: tra i più comuni nausea, vomito, affaticamento e alopecia (Kayl & Meyers, 2006).

Pazienti oncologici e alopecia

Poiché i capelli spesso possono rappresentare un simbolo di bellezza o maturità, la loro perdita rappresenta un evento significativo tale da intervenire sulla percezione di crescita personale, attrattività o morte (Helms, O’Hea & Corso, 2008). Sebbene gli uomini tendano a vedere la perdita di capelli come una conseguenza logica del loro trattamento, le donne tendono a correlarla maggiormente a esiti infausti della malattia: quest’ultime sono maggiormente predisposte all’uso di parrucche, anche per evitare lo stigma sociale di malato e per non perdere la propria identità. L’alopecia è inoltre correlata al modo di vedere il trattamento: se questo sarà considerato benefico, la perdita di capelli sarà accettata come il “prezzo da pagare” al fine di guarire; se la chemioterapia viene vista invece come un trattamento distruttivo, l’alopecia sarà percepita come una sofferenza e come una perdita di sé che influenzerà la qualità di vita del paziente (Rosman, 2004).

Affrontare la realtà sociale in seguito alla perdita di capelli risulta essere più difficile: i pazienti tendono ad intraprendere meno attività quotidiane e rapporti sociali, influenzando in tal modo la qualità di vita e l’autostima (Kim et al., 2012). La forte angoscia che accompagna questa conseguenza del trattamento, sembra però essere mitigata nel momento in cui i pazienti vengono informati dai sanitari, affrontando meglio questo evento rispetto a quelli che non lo sono (Rosman, 2004; Frith, Harcourt & Fussell, 2007). Si è notato come i pazienti ai quali erano mostrate preventivamente immagini di calvizie e parrucche, avessero un’angoscia da alopecia significativamente più bassa rispetto a coloro che non le avevano viste (McGarvey et al., 2010); inoltre la comunicazione sanitaria focalizzata sui sintomi quotidiani dei trattamenti e il sostegno sociale possono contenere l’impatto di tale conseguenza sulla qualità di vita (Rosman, 2004).

In quanto simbolo visivo del trattamento, l’alopecia può causare sentimenti di imbarazzo, rabbia, perdita di forza fisica o di vitalità e aumentare il rischio di depressione maggiore o disturbo d’ansia; può inoltre comportare una confusione dell’identità di genere in un contesto sociale: la perdita dei capelli può influenzare, fino a perderla, l’identità delle ragazze a causa della confusione degli altri sul loro genere; i ragazzi tendono invece a raffigurare l’alopecia come un’esperienza che permette loro di esplorare l’identità e sfidare le norme interiorizzate sul proprio aspetto sociale (Dua et al., 2017).

Pazienti oncologici e immagine corporea

Un altro tipo di intervento che si può effettuare in seguito a diagnosi tumorale è rappresentato dalla chirurgia: questa si è visto provochi un’alterazione della percezione dell’immagine corporea, in particolare nei soggetti più giovani, che sperimenterebbero maggiore ansia qualora questo intervento dovesse rivelarsi deturpante (Dropkin, 1999).

Il cancro al seno è il più frequente tipo di neoplasia diagnosticabile nelle donne: il seno rappresenta un simbolo di femminilità e maternità e, dal momento in cui la paziente dovesse subire un intervento chirurgico (nodulectomia o mastectomia), si potrebbero verificare conseguenze negative in ambito di funzionamento psicosociale, particolarmente nel senso di fiducia, umore, stima, sessualità, autocompiacimento e qualità di vita (Helms et al., 2008). Inoltre operazioni invasive sul corpo potrebbero comportare preoccupazioni per aumento o perdita di peso e sul probabile rifiuto del partner, con conseguenti problemi sessuali e maggiori difficoltà a comprendere i propri sentimenti (Fobair et al., 2006).

I vari trattamenti sono infatti associati a diverse aree della qualità di vita: alterazioni fisiche del corpo, oltre all’alopecia e al cambiamento di peso, anche relativamente a terapie ormonali che modificano le caratteristiche sessuali secondarie, possono comportare problemi all’immagine di sé. Il rischio di infertilità, la disfunzione erettile e la riduzione della libido potrebbero aumentare infatti il rischio di isolamento fisico ed emotivo nei confronti del partner. Nonostante la scarsità di ricerche in quest’ambito, anche numerosi fattori concomitanti possono comportare tali difficoltà: oppioidi prescritti per alleviare il dolore o antidepressivi per trattare ansia e depressione possono portare ad una diffusione dei problemi sessuali che può toccare anche il 90% dei pazienti oncologici (Hodern, 2008).

Particolarmente per le donne, può essere difficile accettare il proprio corpo in seguito ai trattamenti oncologici, anche a causa delle cicatrici, del cambiamento di colore della propria pelle o dei drenaggi. Inoltre, possono non riuscire ad impegnarsi in attività sessuali a causa della secchezza vaginale che può provocare dolore durante i rapporti. Anche la perdita di massa muscolare, in seguito al fermo dovuto dalla somministrazione dei trattamenti, può creare disagio a causa della fatica maggiore che si riscontra nell’atto sessuale e, allo stesso modo, l’incontinenza urinaria o intestinale possono provocare disagio per paura di un incidente (Hughes, 2009).

L’abbandono dell’attività sessuale può, per alcuni, essere anche un segno di “lasciarsi andare” o di una preparazione alla morte: il supporto del partner però può condurre ad una maggiore accettazione dei cambiamenti dati dai trattamenti (Rice, 2000), a testimonianza di come il sostegno sociale sia fondamentale per limitare il distress che la malattia oncologica comporta (Zebrack et al., 2015).

 

Effetto spotlight: una vita sotto i riflettori

L’effetto spotlight è stato definito come una convinzione legata al sovrastimare la quantità di attenzione, ricevuta da parte di terzi, rispetto al proprio aspetto fisico o al proprio comportamento (Myers e Twenge, 2017).

 

Tale tendenza a sovrastimare le proprie caratteristiche, nella convinzione che le altre persone le notino con particolare attenzione, fu definita inizialmente da Brown e Stopa nel 2007.

Sono presenti numerosi studi su questo effetto e sull’abbigliamento: Gilovich e colleghi (2000) fecero indossare dei vestiti a dei soggetti che giudicavano tali indumenti come “imbarazzanti”. I soggetti della ricerca credevano che almeno il 50% delle persone presenti avesse notato il cambio d’abbigliamento, in realtà solo il 23% se ne accorse (Gilovich et al., 2000). Lawson (2010) svolse una ricerca con degli studenti universitari, facendo indossare loro una felpa con un logo sopra, per osservare che solo il 10% dei compagni di classe ricordava il logo originale, mentre la maggior parte di loro non si rese nemmeno conto del cambio di felpa (Gomez, 2021). Tale effetto si collega ad alcuni fenomeni come l’illusione della trasparenza (fenomeno secondo la quale mostriamo le nostre emozioni agli altri in modo più chiaro di quanto realmente appaia), il realismo ingenuo (Ross e Ward, 1996) e il pregiudizio di sé come obiettivo sociale (cioè il pensare che determinati eventi accadano in quanto diretti verso il soggetto interessato). Nello specifico, il realismo ingenuo si basa sul presupposto che proprio il punto di vista sia corretto nell’osservazione del mondo e che quello degli altri, se differente, sia soggetto ad errori o disinformazione.

Nel DSM 5 (APA, 2013), l’ansia viene definita come l’anticipazione di una minaccia futura, uno stato orientato a qualcosa che la persona non percepisce come immediato. A livello fisiologico, l’ansia è correlata ad un’attivazione che porta ad un’elevata vigilanza, a tensione muscolare e all’attuazione di condotte preventive per affrontare la situazione vissuta come pericolosa (Psicologo Roma Eur, n.s.). La classificazione del DSM 5 è fatta secondo elementi comuni e include disturbi come l’ansia sociale, il disturbo di panico, l’agorafobia, il disturbo d’ansia generalizzata e, per i bambini, il mutismo selettivo e l’ansia da separazione (APA, 2013).

Effetto spotlight e ansia sociale

L’effetto spotlight viene riscontrato frequentemente in soggetti affetti da ansia sociale, in quanto temono una valutazione negativa da parte degli osservatori. Diversi ricercatori (Clark e Wells, 1995, in Brown e Stopa, 2007) hanno evidenziato come la sensazione di essere osservati rinchiude il soggetto all’interno di un circolo vizioso ansioso, dove lo spostamento dell’attenzione su di sé porta ad attuare dei meccanismi per dedurre quali siano i pensieri delle persone presenti e “giudicanti”.

Secondo il Merriam-Webster Online Dictionary (n.d.), l’ansia è descritta come nervosismo o disagio per un male imminente o previsto; il termine ansioso è definito per l’appunto come un’estrema inquietudine mentale o la paura di qualcosa in determinate contingenze (Gomez, 2021).

Effetto spotlight e ansia: studi a riguardo

Diversi studi analizzano la relazione tra l’effetto spotlight e un aumento dei livelli d’ansia. Ad esempio, Moon e colleghi (2020) hanno eseguito otto studi differenti su un campione composto da attori. Tali compiti si focalizzavano sulla quantità di attenzione ricevuta da parte degli spettatori durante uno spettacolo. I risultati hanno evidenziato come gli attori tendessero a sovrastimare l’attenzione del pubblico, in particolar modo quando avevano commesso un errore, mentre molti spettatori nemmeno si erano accorti degli errori commessi.

Nel 2021 Gomez ha svolto un esperimento per indagare i livelli d’ansia e dell’effetto spotlight su un campione composto da 30 studenti. Nello specifico, l’ipotesi di ricerca sostiene che un soggetto crede di ricevere attenzioni negative e giudizi da parte dei suoi compagni in base al suo aspetto fisico, con un conseguente aumento di tale effetto (Gomez, 2021). I soggetti hanno compilato un questionario contenente due sessioni: la prima sessione include strumenti come la Depression Anxiety Stress Scale-21 (DASS-21; Lovibond e Lovibond, 1995) e questionari per valutare l’ansia e l’effetto spotlight, mentre la seconda sessione contiene una parte demografica per raccogliere i dati rispetto a genere, etnia, classe frequentata e affiliazioni religiose (Gomez, 2021). I risultati di questo studio sostengono l’ipotesi alternativa in quanto è presente un aumento dei livelli di ansia quando si pensa di ricevere un giudizio o un’attenzione negativa da parte dei coetanei (Gomez, 2021). Tale esperimento suggerisce come il livello d’ansia possa aumentare a causa dell’effetto spotlight sperimentato da parte dei soggetti (Gomez, 2021).

 

“Noi siamo uno. Terapia integrata per la prevenzione del trauma” – Salute psicofisica individuale e collettiva dopo la pandemia. Quali strade per far fronte all’incertezza? – Report del webinar

Dal 12 al 14 Novembre 2021 si è tenuto l’evento “Noi siamo uno. Terapia integrata per la prevenzione del trauma” per costruire una riflessione condivisa con professionisti della salute di diversa provenienza e impostazione teorica, sul tema dello stress e del trauma.

 

Con il patrocinio del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione, EMDR e Società Italiana di psico-neuro-endocrino-immunologia, l’esperienza della pandemia è occasione per la Dott.ssa Marta Zighetti, psicoterapeuta e terapeuta supervisore EMDR, e per l’associazione “Essere Esseri Umani”, per costruire una riflessione condivisa con professionisti della salute di diversa provenienza e impostazione teorica, sul tema dello stress e del trauma.

All’insegna di questi tre giorni di ascolto e partecipazione, 12, 13 e 14 Novembre, sembra esserci su tutto, prima di tutto, l’idea di integrazione: professionisti con competenze diverse, mente e corpo, individuale e collettivo, parola e immagine, persona e ambiente.

I 16 interventi sono stati condotti da esperti di psicologia, psicoterapia, neurofisiologia, filosofia, psiconeuroendocrinoimmunologia, teoria polivagale, EMDR, yoga, mindfulness, ma il livello significativamente articolato e complesso del convegno ha permesso di fare riferimento anche a temi di grande attualità come il rapporto fra salute e inquinamento e il problema della violenza sulle donne. Le parole chiave sono: ascolto, partecipazione, contatto, relazione, trasformazione.

Stress e trauma in pandemia

Uno dei primi interventi ad aprire, quello del Dott. Giovanni Tagliavini, psichiatra e psicoterapeuta, presidente di AISTED, offre una riflessione relativa alle differenze fra il concetto di trauma e quello di stress, specificando che per la maggior parte delle persone l’epidemia ha avuto a che fare più con dei vissuti da stress che con esperienze traumatiche. Se il trauma è un’esperienza di rottura, allo stress è possibile far fronte grazie alla resilienza.  “Per trauma in psicopatologia si intende un’esperienza minacciosa estrema, insostenibile, inevitabile, di fronte alla quale un individuo è impotente” (Hermann, 1992 b; Krystal, 1988, van der Kolk, 1996). Lo stress è invece una risposta psicofisica a compiti diversi, di natura emotiva, cognitiva o sociale che la persona vive come eccessivi. Se l’esperienza è stata traumatica per quei congiunti che hanno perso i loro cari, in una condizione di solitudine in ospedale, è stata invece più o meno significativamente fonte di stress per chi ha dovuto affrontare la quarantena, le restrizioni, la perdita temporanea del lavoro e delle possibilità di relazione.

Parlare di trauma apre alla possibilità per il Dott. Tagliavini di fare riferimento alla questione della violenza sessuale sulle donne, con riferimento nello specifico al concetto di “Finestra di tolleranza”. La nostra finestra di tolleranza è una risposta percettiva agli stimoli dell’ambiente e si situa in uno spazio che si muove fra una condizione di iper-arousal (situazioni percepite come attivanti) e ipo-arousal (situazioni percepite come inibenti). Nel corso di una violenza sessuale o di un tentativo di violenza sessuale è possibile che una donna vada incontro ad uno shock tale da provocarle una reazione inibente, di immobilizzazione, di difesa dalle emozioni, piuttosto che una reazione di attacco-fuga, con tutte le riflessioni che in ambito giuridico e penale ne conseguono.

Il vissuto di impotenza degli operatori sanitari

L’intervento successivo  è a cura del Prof. Aurelio Filippini, presidente dell’Ordine delle Professioni infermieristiche OPI di Varese. Il suo è un racconto molto intimo, personale. In qualità di infermiere racconta gli ultimi istanti di vita di molti pazienti Covid. La frustrazione, il dolore, l’impotenza generata dall’alto numero di morti, sono state accolte e contenute dall’affetto e dal sostegno dei colleghi e dei cari, ma anche dalla stessa esperienza di contatto con il paziente prima della morte, da quei momenti di profondità forse difficili da dire e da rappresentare. Il senso di vuoto e di freddezza che caratterizzavano i percorsi in auto, dall’ospedale a casa e da casa all’ospedale, facevano da contraltare angosciante, in tempi di zona rossa, ai ritmi duri e difficili dei turni, durante i quali però avvertiva la bellezza della vicinanza con gli altri. Il Prof. Filippini si chiede e ci chiede come partecipanti: “Quando il tempo è dolore? Quando è bellezza?” E ancora: “Quando è Kairos? Tempo giusto, opportuno, propizio e conveniente, che determina la buona occasione per l’incontro con l’altro”.

Processi infiammatori e sistemi infiammati

L’intervento del Dott. Bottaccioli, psicologo clinico neurocognitivo e Presidente Onorario SIPNEI, partendo dal presupposto che i sistemi psichici e biologici si influenzano reciprocamente, si concentra sul costrutto di “sistema infiammato”. Un corpo infiammato va incontro ad un’alterazione sistemica dell’organismo. Le cause possono essere: stress, alimentazione, obesità, sedentarietà, malattie infiammatorie, inquinamento, farmaci, condizione sociale, psicologica e relazionale. Alcuni studi evidenziano la correlazione fra disturbi dell’umore, ansia, schizofrenia, e alterazione del microbiota intestinale quando comporta uno stato infiammatorio dell’intestino. Con l’espressione “le parole della psiche diventano molecole e infiammano cervello e immunità” vengono illustrati i risultati delle ricerche che evidenziano la pericolosità dell’isolamento sociale, i possibili effetti della solitudine sulla prognosi, in seguito alla diagnosi di cancro. Se il rimuginio, e “la mente vagabonda” favoriscono un’alterazione dell’Ippocampo, l’isolamento sociale attiva in modo costante il sistema immunitario con conseguenze che hanno probabilmente lasciato il segno negli ultimi due anni, nello specifico su quei pazienti che hanno dovuto affrontare la malattia in reparti Covid o in altri reparti in condizione di solitudine. La riflessione sui “sistemi infiammati” invita a un’analisi circa l’incidenza dell’inquinamento sulla prognosi di pazienti affetti da Covid 19. Sulla base di quanto riportato dal relatore, il numero elevato di morti a causa del virus nella Pianura Padana si può spiegare anche osservando la relazione fra inquinamento e “processi infiammatori”. Le particelle sottili, le polveri fini, un’aria quindi ricca di PM, danneggiando gli alveoli polmonari, attiva i macrofagi in senso infiammatorio. Il sistema immunitario di chi è costantemente a contatto con un’aria inquinata può essere quindi epigeneticamente segnato in senso infiammatorio e contribuire allo sviluppo di una forma grave da Covid 19.

Covid-19: un j’accuse al pre-pandemia

In ambito psicosociale, il direttore del CENSIS, Dott. Massimiliano Valeri, sottolinea gli aspetti di continuità fra il periodo della pandemia e la condizione precedente, affermando che la diffusione del Covid, ha consentito un “J’accuse” rispetto ad uno stato di cose preesistente. L’epidemia viene interpretata come un acceleratore di tratti e caratteristiche che connotavano la nostra società già in precedenza. Se è vero che i reparti di terapia intensiva si sono trovati fortemente in difficoltà, è anche vero che fra le nazioni dell’Ocse, l’Italia era stata l’unica ad aver ridotto in modo così importante la spesa pubblica in ambito sanitario. Durante la pandemia il 9% dei ragazzi è stato escluso dalla didattica a distanza, ma già precedentemente si registrava un grave livello di abbandono in ambito scolastico. Lo stesso filo di continuità si riscontra rispetto al numero delle nascite e al problema dell’occupazione femminile. Ne deriva che il problema è di natura identitaria e che la nostra società è passata da una comunità in cui vinceva il modello dell’ascensore sociale, alla società dell’incertezza, del rancore diffuso. Se il mondo materiale e quello psicologico si influenzano reciprocamente, quali ricadute sul piano psicologico e sociale per i giovani? Com’è possibile aiutarli affinché costruiscano la speranza e la fiducia nei loro mezzi e nelle loro possibilità?

EMDR e pandemia

Tornando all’area psicoterapeutica, la Dott.ssa Isabel Fernandez, presidente associazione EMDR Italia e EMDR Europa, descrive la rilevanza dei trattamenti EMDR negli ospedali e nei servizi sanitari, presso carceri e varie associazioni durante l’ultimo anno. Le persone sono andate incontro a problemi legati a incredulità e negazione, senso di vulnerabilità, isolamento, minaccia, sopraffazione, eccessiva rapidità, affidamento, adattamento, connessione. È stato importante raggiungere gli operatori sanitari nei luoghi di lavoro in cui si trovavano, senza che questi stessi si trovassero nella condizione di dover richiedere un aiuto o un intervento. L’obiettivo dell’associazione è stato quello di focalizzare il trattamento su incontri di gruppo che riducevano il dispendio di energia e di tempo. Gli operatori sanitari hanno dovuto affrontare con maggiore frequenza problematiche legate a:

  • Timore della stigmatizzazione per il ruolo svolto
  • Stress causato dai dispositivi di protezione
  • Timore di contagiare gli altri
  • Elevato numero di morti

Nel resto della popolazione sono emersi principalmente problemi legati a stati depressivi, evitamento, confusione, disturbo da stress post traumatico, perdite, lutti professionali e relazionali, aggressività e rabbia verso le istituzioni e all’interno del contesto familiare.

Hatha Yoga

Infine, Paolo Proietti, Maestro esperto CSEN/CONI, ha introdotto il primo fra gli ultimi interventi, che sono stati di natura prevalentemente esperienziale. Ha evidenziato l’utilità di questa pratica, l’Hatha Yoga, in condizioni di stress, ma anche in funzione del mantenimento e del raggiungimento della salute. L’Hatha Yoga è una tecnica che prevede la recitazione di mantra, visualizzazioni, concentrazione e meditazione. Non tralasciando gli aspetti teorici della disciplina, ha posto in evidenza alcune correlazioni fra EMDR e Hatha Yoga, la teoria di Hillman e Hatha Yoga, oltre ai risultati di alcuni studi in ambito neurofisiologico. La parte finale del webinar, concentrata maggiormente sul piano fisico dell’esperienza, ha permesso di elaborare con maggiore fluidità il livello di complessità suggerito dai tanti interventi e la rilevanza delle domande suscitate.

 

Il burnout lavorativo: effetti psicologici e trattamento

Il burnout è una sindrome tipica delle professioni coinvolte nelle relazioni di aiuto; è una reazione emotiva, cognitiva e comportamentale di progressivo allontanamento da una fonte di malessere.

 

Lavorare in determinati ambiti infatti non è sempre facile, le componenti stressanti, ovvero gli “stressors” con cui ci si confronta, possono portare ad un logoramento professionale, emotivo, psichico, provocando delle alterazioni sull’efficacia lavorativa e sul rapporto con l’utenza.

Si rende nota la presenza del burnout negli anni ’70, quando i rapporti familiari e sociali cambiano andando verso una dimensione più privata, mettendo in secondo piano in gruppo informale e delegando le funzioni di sostegno esclusivamente alle istituzioni pubbliche.

Maslach e Jackson definiscono il burnout come un costrutto caratterizzato tipicamente da tre dimensioni:

  • Esaurimento emotivo: sensazione di essere svuotati, logorati, inariditi;
  • Depersonalizzazione: atteggiamento distaccato, cinico, ostile, freddo dell’operatore nei rapporti con l’utenza;
  • Ridotta realizzazione personale: percezione della propria inadeguatezza nel lavoro.

Oltre allo stress, le cause che possono provocare tale stato alterato vanno ricercate anche nella prospettiva di importanza che viene data all’attività lavorativa; infatti, spesso vi è una vera e propria etica della consacrazione delle helping professions, secondo cui la persona che vi si dedica raggiungerebbe il senso della propria vita. Il lavoro è il centro del proprio mondo, se fallisce si è falliti in tutto e soprattutto nel proprio progetto personale. Si tratta di molteplici professioni, dall’insegnante allo psicologo, sino all’infermiere; tipico di queste professioni d’aiuto infatti è contribuire alle modifiche di un’altra persona e alla relazione in cui sono coinvolte attraverso tecniche specialistiche e attraverso la propria preparazione e professionalità. Per Rogers si tratta di una relazione in cui uno dei due ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturazione nei processi di adattamento e di risoluzione dei problemi che da sola non è in grado di affrontare.

L’operatore della professione d’aiuto è una persona che deve porre continuamente se stesso come catalizzatore dei processi di crescita dell’altro, per cui c’è il rischio di una prolungata situazione di stress lavorativo; le conseguenze sono, dunque, una ridotta produttività, deterioramento delle relazioni con utenza e colleghi, alterazione dell’equilibrio emotivo. Ci sono, però, alcune “tecniche” che l’operatore può mettere in atto per contrastare l’insorgenza del burnout:

  • Personalizzare l’aiuto, per cui ogni caso è a sé;
  • Lasciare libera espressione delle sensazioni del cliente;
  • Impegnarsi autenticamente ma evitando il coinvolgimento emotivo;
  • Astenersi dal giudizio;
  • Mantenere il segreto professionale;

Le condizioni interne di personalità del lavoratore si intersecano con quelle dell’ambiente in cui lavora, per cui fattori predisponenti sono l’essere soggetti sensibili, eccessivamente empatici, idealisti. Gli ambienti maggiormente “a rischio” sono: pronto soccorso, terapia intensiva, oncologia, patologie croniche, dipendenze, disturbi psichiatrici…dipende molto dunque dal tipo di mansione, durata, contesto.

Maslach ha creato uno strumento apposito per indagare sull’eventuale insorgenza di burnout, il MBI, Maslach Bornout Inventory, che si basa appunto sui tre aspetti del bornout (depersonalizzazione, esaurimento emotivo, ridotta realizzazione).

Le professioni più colpite dal burnout

La riabilitazione del ritardo mentale è uno dei settori colpiti da burnout; maggiore gravità del paziente corrisponde ad una maggiore probabilità di insorgenza di burnout. Infatti, i soggetti che non riescono a raggiungere certi obiettivi, che non inviano feedback, che non gratificano l’operatore, risultano essere molto stressanti. Fonti di stress risultano essere anche i rapporti con le famiglie e gli altri operatori professionali.

Anche se non è esattamente una professione d’aiuto, anche il caregiver può essere soggetto a burnout. Sono coloro i quali assistono persone malate, generalmente familiari. Da alcuni studi emerge una differenza tra uomini e donne, le quali risultano essere più stressate, e tra laureati e non, i primi infatti sembrano più consapevoli della gravità della situazione. Molto spesso il caregiver si porta dietro l’investimento emotivo, ansia, dolori e problemi fisici, perdita di controllo. Sembra inoltre esserci un atteggiamento diverso, dipendente dal tipo di patologia di cui ci si occupa: infatti i caregiver di pazienti neurologici sono molto stressati, di meno lo è chi si occupa di pazienti oncologici, probabilmente per la consapevolezza della durata della malattia. Progetti di informazione e rieducazione possono aiutare il caregiver a capire ed affrontare il cambiamento del congiunto e ridurre lo stress.

Gli operatori sanitari più a rischio sono coloro i quali si occupano di oncologia, AIDS e pazienti sieropositivi. Il reparto di oncologia soprattutto mette a dura prova gli operatori, in quanto provoca delle idee di morte riferite anche a sé ed ai propri familiari. Inoltre contribuiscono caratteristiche di personalità, impossibilità di ritirarsi dalla relazione, mancanza di preparazione per una cura globale del paziente, identificazione con il paziente. Spesso esaurimento emotivo e depersonalizzazione sono più alti nei casi di pazienti oncologici adulti piuttosto che nei bambini. Infatti in questi ultimi casi si può avere un decorso più lento e maggiore speranza di ripresa.

Anche gli insegnanti possono subire il burnout, nella difficoltà a rapportarsi agli alunni, nell’insensibilità verso i loro problemi, nella percezione di inefficacia del loro insegnamento; gli insegnanti di sostegno hanno maggiore probabilità di per via delle più ore di lavoro, stress, grado di disturbo dell’allievo.

Per fronteggiare il problema è necessario “prendersi cura di chi si prende cura”. È importante che si avvii una buona prevenzione, in modo tale da evitare che chi si prenda cura di qualcuno abbia bisogno a sua volta di aiuto.

I livelli di intervento sono:

  • Cognitivo: maggiore conoscenza degli elementi di rischio che caratterizzano la malattia e dei fattori di rischio nel relazionarsi con essa;
  • Emotivo: consapevolezza delle proprie emozioni, motivazioni, vissuti…
  • Organizzativo: supporto tra colleghi e professionisti del settore

Durante la formazione alle professioni va riaffermata la formazione non solo tecnico-professionale, ma anche quella personale, in quanto persona. In alcune professioni, come ad esempio la psicoterapia, è già previsto. Sarebbe importante ed utile estendere anche ad altre professioni questo indirizzo.

Il trattamento del burnout

Sul piano della prevenzione, Cherniss ha elencato le seguenti strategie da adottare prima che la sindrome si manifesti in maniera conclamata.

  • In primo luogo, bisogna conoscere le dinamiche implicite della sindrome, analizzare gli obiettivi e le aspettative personali, accertare la proporzionalità tra richieste e risorse e creare meccanismi difensivi alternativi che sostituiscano il “ritiro” tipico del burnout.
  • È necessario intervenire in ambito lavorativo: una modifica delle strutture di ruolo, di potere e normative dovrà procedere ogni altro tipo di intervento.
  • Come dice l’autore sopra, bisogna prevenire: non si deve sottovalutare il valore delle azioni antecedenti l’insorgere della sindrome.

È altrettanto importante sottolineare il “valore della consapevolezza”, intesa come presa di coscienza dei propri progressi, e il fallimento delle strategie tese al solo potenziamento delle risorse individuali.

Sulla base di questi principi l’intervento si articolerà in:

1. Organizzare mirati aggiornamenti di sviluppo professionale: gli operatori possono essere incoraggiati a ridurre il livello di stress lavorativo attraverso un’accurata pianificazione dello sviluppo professionale, mirato a promuovere tra gli operatori obiettivi più realistici o nuovi obiettivi, che possono fornire fonti alternative di gratificazione. Si può, quindi, intervenire aiutando gli operatori a utilizzare meccanismi di controllo e di feed-back, fornendo frequente possibilità di supervisione e di formazione per incrementare l’efficienza del ruolo; insegnare al team a difendersi mediante strategie quali il corretto utilizzo del tempo; orientare preventivamente i nuovi arrivati sulle difficoltà del lavoro; effettuare dei check-up organizzativi periodici o utilizzare un servizio di consulenza centrata sui temi del lavoro e dello stress; incoraggiare la formazione di gruppi di sostegno.

2. Un cambio delle mansioni e delle strutture di ruolo: migliorando la struttura di ruolo si accresce la realizzazione personale e professionale degli operatori, riducendo così lo stress. È fondamentale che i ruoli e le strutture siano flessibili, in funzione delle diverse soggettività e delle diverse motivazioni lavorative. Le trasformazioni strutturali si possono articolare in questo modo, limitando il numero degli utenti; distribuendo tra tutti i membri del team i compiti più difficili e meno gratificanti; pianificando le attività, in modo da alternare quelle gratificanti e quelle non gratificanti; permettendo agli operatori di prendersi “periodi di riposo” quando è necessario; utilizzando personale ausiliario per fornire al team ordinario possibilità di riposo; incoraggiando gli operatori a prendersi frequenti vacanze, anche con un breve preavviso se necessario; limitando il numero di ore di lavoro; non demonizzare il lavoro part-time; dare ad ogni operatore la possibilità di fare proposte nuove; costruire dei percorsi di carriera trasparenti.

3. Pianificazione della gestione: nell’organizzazione la qualità della leadership è molto importante in quanto esige una certa capacità di risoluzione dei problemi e di individuazione delle priorità. Si raccomanda di creare programmi specifici di supervisione e di sviluppo del management; creare per i dirigenti dei sistemi regolari di feed-back sulle prestazioni dei loro subordinati; controllare i livelli di conflitto e di tensione ed intervenire se diventano eccessivi.

4. Problem solving: anche nel caso in cui il lavoro è ben pianificato e strutturato c’è sempre il rischio che sorgano dei conflitti sul piano interpersonale e organizzativo. Per questo motivo è opportuno intervenire creando meccanismi di gruppo per la soluzione di problemi e dei conflitti organizzativi; programmare dei percorsi formativi che orientino alla risoluzione del conflitto; accentuare l’autonomia del personale e contemporaneamente curare la partecipazione alle decisioni. Migliorare la chiarezza degli obiettivi e dei modelli di management: si può intervenire per sostenere il burnout rendendo chiari e compatibili gli obiettivi, sviluppando un adeguato modello gestionale, investendo in formazione.

Le azioni per prevenire il burnout sono numerose, ma non essendoci una terapia specifica è indispensabile intervenire sul gruppo, oltre che sull’individuo. Nelle helping profession, il malessere dell’operatore si ripercuote sull’utente, che ha già delle difficoltà che si trovano a essere vittime inconsapevoli dell’organizzazione alla quale chiedono invece sostegno.

 

Esiste il rapporto sessuale? (2021) di Massimo Recalcati – Recensione

L’esperienza di limite che Recalcati sottolinea nel suo nuovo libro Esiste il rapporto sessuale?, parte dall’impatto del corpo con l’azione del linguaggio, che rivela come di fondo non esista un’“essenza del sesso” data a priori come dato della natura.

 

Recalcati, nel suo ultimo scritto, racconta il tema della sessualità umana, anche attraverso la presentazione di parecchi esempi clinici, in quanto incastro complesso non solo di soggetti ma anche di fantasmi, dimensione peraltro fondante di ogni incontro che veda emergere la vita erotica, in quanto labirintica e intimamente ingovernabile.

Uno degli aspetti centrali proposti da Recalcati, risulta una sessualità che sfugge ad uno “schematismo istintuale”, ad una naturalizzazione, le quali vengono rappresentate pienamente dall’accoppiamento nel mondo animale, portatore di un ordine prestabilito e di una legge naturale. La realtà del godimento, che vada oltre la superficie è sempre ricca di “scarti”, “eccessi”, “spinte”, che disturbano la vita “universalmente regolata dei piccioni” come afferma Recalcati, citando un passo di Woody Allen. I piccioni sono saldi nel moto istintuale che li dirige, dove una sorta di pilota automatico li dirige verso il loro unico e indissolubile partner. “Ma noi non siamo piccioni”, scrive Allen, perché la fedeltà è dettata dall’istinto e non dal desiderio”. Una sessualità abortita, espressione spesso utilizzata da Yalom (1980), dove l’aspetto del controllo risulta predominante, dove prevale l’identificazione coatta in un ruolo, preserva apparentemente la sicurezza e il proprio senso di sé, rispetto ad un’alterità dell’altro che non può essere dominata e che in quanto tale, contiene un abisso angosciante, ma soprattutto rispetto al contatto con “la propria alterità”, con il proprio “straniero” come scrive Recalcati. Lacan scrive che il corpo umano è “il luogo dell’altro” e che in quanto tale non può essere soltanto il risultato dell’anatomia, ma anche del linguaggio, del taglio simbolico e del carattere singolare della sessuazione. Pertanto tutto il processo di integrazione psicosomatica del reale nel simbolico, porta ad una dimensione di perdita, di vuoto, di “sacrificio simbolico” come afferma Recalcati. La vita non coincide con se stessa, il nostro mondo interno non corrisponde all’esterno, ma a detta di Winnicott (1971), si forma uno “spazio psichico”, ci muoviamo attraverso stati della mente. Sempre a detta di Winnicott, la creazione di spazio psichico, quale sano equilibrio tra le forze del vero sé della persona e il mondo reale, consente di coltivare un senso di continuità nell’esperienza e quindi di sperimentare un’ampia gamma di stati emotivi e mentali in relazione a se stessi e all’altro. L’esperienza di limite che Recalcati sottolinea, parte dall’impatto del corpo con l’azione del linguaggio, che rivela come di fondo non esista un’“essenza del sesso” data a priori come dato della natura. Il linguaggio pertanto compie un’azione paradossale, limitando il godimento, ma al tempo stesso, lo accende, lo stacca dall’istinto, lo perverte. Da una posizione autocentrata, prevalentemente autoerotica, in cui il giro della pulsione si chiude su se stesso, che rappresenta il tempo dell’infanzia, nel tempo della pubertà l’autoerotismo non scompare, ma porta con sé la possibilità inedita di incontrare il corpo sessuale dell’”Altro”.  “Altro” che viene indicato da Recalcati con la lettera maiuscola, proprio per prendere contatto con il nostro Altro interno, “sconosciuto”. La maturazione della vita sessuale, afferma Recalcati, non coincide con la separazione dalla sessualità infantile, periodo in cui la dimensione autoerotica pregenitale consente la formazione dei fantasmi inconsci del soggetto (di oggetti parziali, citando la Klein), necessari alla strutturazione del desiderio sessuale, ma con una rinuncia ad essere un oggetto che colmi la mancanza dell’Altro. In altre parole, si tratta di un percorso di lutto simbolico, in cui il soggetto accetta di non esaurire il mondo dei loro genitori e di altri significativi durante il percorso di vita, né di essere ciò che dia senso a quel mondo. Comporta il lasciare andare il mito che ci sia qualcuno di grande che ci protegga, a cui delegare la responsabilità sulla nostra vita, che ci salvi: un salvatore ultimo, a detta di Yalom. Si tratta di un passaggio importantissimo da un punto di vista esistenziale, in cui il soggetto accoglie la propria “perdita d’essere”, il proprio “esisto soltanto se”. A tal proposito, Recalcati scrive: “Il soggetto si separa dall’altro, tanto quanto l’altro si separa dal soggetto”. Una mancata separazione, può arrivare ad imporre in maniera coatta condizioni soggettive per accedere al godimento. È il caso di una paziente di Recalcati, che aveva vissuto con una coppia di genitori troppo occupati con il loro lavoro per dedicarsi alle sue cure. Motivo per cui, passava la maggior parte del tempo sola, travolta da un’intensissima angoscia e, durante le giornate, scopre il piacere di strofinarsi i genitali sul divano di casa. Recalcati scrive: “Il piacere autoerotico compensa la frustrazione alla sua domanda d’amore”. Durante il suo sviluppo, per non sottoporsi al rischio di “innamorarsi” e quindi di trovarsi in una condizione di vulnerabilità rispetto alla perdita intollerabile per lei, stacca la sessualità dal rapporto. Questa diventa la sola modalità per accedere al godimento sessuale, che ripete nei rapporti sessuali con uomini che non deve amare. Tenta quindi di annullare l’angoscia della mancanza e della dipendenza dal partner, attraverso una sorta di coazione solitaria a godere.

Focalizzandosi sul titolo del testo, Recalcati riprende uno dei più celebri aforismi di Lacan: “Il rapporto sessuale non esiste”. Quello che Lacan intende dire, scrive Recalcati, è che non esista alcuna possibilità di rapportare i due godimenti in gioco in ogni rapporto sessuale. Nel mentre stesso del rapporto, ciascuno dei due amanti è costretto a sperimentare l’impossibilità di uscire da sé stesso. Alla base vi è un’eterogeneità tra la pulsione che determina il godimento sessuale e il desiderio che sostiene la domanda d’amore. Il desiderio si nutre del segno del desiderio dell’altro e in questo rivela la sua natura dialettica, mentre la pulsione si caratterizza per un movimento chiuso su sé stesso. Il movimento pulsionale, in questo senso rimane sempre autoerotico, quindi la relazione tra i corpi sarà sempre mediata da un “non rapporto fondamentale”, dall’impossibilità della condivisione senza scarti dell’Uno con l’Altro, del “particolare”. Recalcati, continuando sulla scia di Lacan, afferma che se il corpo sessuale per un verso sia autoerotico, per un altro verso risulta sempre esposto al rapporto dal momento che la sua stessa esistenza si dissolve nel rapporto. Ogni vita deriva necessariamente dal rapporto, ed è la relazione nella sua autenticità che permette di “dare vita a qualcosa” in se stessi e nell’altro. Il desiderio quindi è carico di quell’ingovernabile di cui accennato all’inizio, proprio perché se da un lato risulta inaggirabile, ovvero non si può non essere in un rapporto, dall’altro contiene un’altra impossibilità, ovvero quella di fare esistere il rapporto. L’altro è sempre impenetrabile, sgusciante, intrattabile. Nel mito biblico, per il desiderio non c’è mai la possibilità di ricostituire un intero che non è mai esistito. All’origine, non c’è l’uno indiviso, ma una differenza. Il desiderio erotico, pertanto, non mira a ricomporre la scissione tra i due, ma è causato da un oggetto perduto che viene rintracciato nell’altro. La voce, i seni, le mani, tutta una serie di oggetti piccoli che incarnano la costola di Adamo, sono espressioni di un’alterità che non si lascia riassorbire nell’uno. L’oggetto quindi resta perduto per sempre, non c’è nessuna riappropriazione, dislocato nel corpo dell’altro e quindi per entrare in rapporto con esso, il soggetto è tenuto a spendersi con l’Altro. C’è quindi sempre la mediazione della soggettività dell’altro, quello che secondo Winnicott (1971), permette la formazione di aree intermedie di esperienza. Spendersi con l’altro, incontrare l’altro, implica entrare in uno spazio dove l’ego arretra, e in questo senso Recalcati accenna all’importanza dell’abbandonarsi al buio, lasciare che il corpo erotico si apra ad un godimento non più circoscritto alla visione, che può diventare vigilanza scopica. Buio inteso quindi come abbandono del controllo e di modalità rigide e ripetitive di stare con se stessi e con l’altro. Buio che consente al corpo di accogliere una gioia affermativa, quale segnale di una convergenza tra amore e godimento sessuale. La dimensione dell’ingovernabile del godimento trova la sua massima espressione nel femminile, da non associare soltanto al sesso anatomico. Questo godimento, secondo Recalcati, sottratto alla centralità del fallo, si diffonde il tutto il corpo, essendo pertanto plurale, decentrato, nomadico. Il femminile si dispone quindi come apertura per l’heteros, accoglienza, riconoscimento dell’alterità dell’altro. Il miracolo dell’amore è rendere quel corpo unico e insostituibile, come se fosse un nome, interrompendo quindi una feticizzazione seriale, un incastro con una serie anonima di corpi. Recalcati scrive: “Il corpo può diventare davvero un nome quando, osservando i suoi movimenti più comuni (camminare, sorridere, vestirsi), esso si mantiene fuori dal comune. È la prossimità del nome al senza tempo del Nuovo che non cessa di ripetersi nello stesso”.

Recalcati conclude con un aspetto, a mio avviso, fondante del “fare l’amore”. Il “fare l’amore” ci porta fuori dal recinto delimitato del nostro corpo, non nel senso di “fonderci con l’altro” e con il suo “particolare assoluto”, ma come esperienza del proprio corpo che non è del tutto proprio. In questo caso, vi è una perdita dei confini interna che attiene proprio al dare voce a più parti di sé. La perdita dei confini attiene quindi ad un atto di disarmo, la deposizione delle armi dell’ego, una separazione dal proprio io che genera gioia, ampliamento di sé e sconfinamento. In questo senso l’erotismo non è solo un’esperienza di appropriazione, ma soprattutto di svuotamento, di decentramento attraverso l’Altro che va accolto principalmente in se stessi. In questo senso, Recalcati lo enfatizza in maniera poetica attraverso l’espressione del “fare per disfare”, ad un fare che si lascia fare, non assoggettato dall’assillo consueto del “dover fare”.

 

“Tradisco sì, ma solo per timore di rimanere da solo!” La paura di essere single come mediatrice nella relazione tra attaccamento ansioso e tradimento

L’infedeltà, intesa come una violazione delle norme di relazione che regolano l’esclusività, rappresenta uno degli aspetti più dolorosi all’interno delle relazioni romantiche.

 

Infatti è associata ad una serie di outcome negativi come l’aumento del rischio di problemi di salute sia mentali (ad es. ansia, depressione) che fisici (ad es. malattie sessualmente trasmissibili), diminuzione dell’autostima, fiducia danneggiata nel partner, violenza domestica, rottura e divorzio (Fincham & May, 2017).

Infedeltà e attaccamento

La ricerca precedente ha dimostrato che alcuni fattori di personalità influenzano il coinvolgimento nel tradimento: persone con alto livello di estroversione, nevroticismo, narcisismo e psicopatia riportano livelli più elevati di infedeltà (Altgelt et al., 2018; Jones & Weiser, 2014), mentre un’elevata gradevolezza e coscienziosità sono state associate a livelli più bassi di infedeltà (Barta & Kiene, 2005).

Un ulteriore fattore che sembra avere una grande influenza nei comportamenti di infedeltà è il tipo di attaccamento. Il sistema comportamentale dell’attaccamento deriva dalle esperienze con gli altri significativi (caregiver), che modellano poi le modalità con cui gli individui si rapportano con gli altri nelle relazioni successive (Bowlby, 1982). I tipi di attaccamento che Bowlby ha teorizzato sono: lo stile di attaccamento sicuro, lo stile di attaccamento insicuro evitante, lo stile insicuro ansioso ambivalente e lo stile disorganizzato.

L’attaccamento ansioso, in particolare, predice in modo affidabile il coinvolgimento in atti di infedeltà (Pereira et al., 2014; Russell et al., 2013). Tuttavia, i meccanismi alla base di questa relazione tra ansia di attaccamento e infedeltà rimangono inesplorati.

L’attaccamento ansioso è caratterizzato dalla preoccupazione per la disponibilità e la reattività della figura di attaccamento, un’ipersensibilità all’abbandono e una forte preoccupazione per la vicinanza (Shaver & Mikulincer, 2002). Nelle relazioni sentimentali, gli individui con un attaccamento ansioso presentano una paura cronica per la non disponibilità e la non reattività dei partner nei loro confronti, e temono costantemente di poter essere rifiutati o abbandonati dal partner stesso. La ricerca ha dimostrato che le persone con attaccamento ansioso riferiscono di avere più relazioni (Russell et al., 2013), ottengono punteggi più alti nelle misure di infedeltà emotiva e fisica (Pereira et al., 2014) e si impegnano in atti di infedeltà online più frequentemente (Ferron et al., 2017; McDaniel et al., 2017).

La relazione esistente tra attaccamento ansioso e tradimento è interessante perché rappresenta in un certo senso un paradosso: dato che l’attaccamento ansioso è caratterizzato da un’elevata preoccupazione per l’abbandono, che porta gli individui a cercare costantemente la vicinanza ai loro partner e ad aggrapparsi a loro (Brennan & Shaver, 1995), perché le persone che temono così tanto che i loro partner possano lasciarli si impegnano in più atti di infedeltà, che inevitabilmente mettono a rischio la relazione?

Infedeltà e paura di essere single

Una variabile che potrebbe avere un ruolo significativo è la paura di essere single. La paura di essere single è definita come l’ansia, il disagio o la preoccupazione relativa all’incapacità di raggiungere o mantenere una relazione romantica, finire da soli e sentirsi inadeguati (Spielmann et al., 2013). Questa paura può essere molto diffusa: le norme sociali comunicano ancora in modo pervasivo che gli individui che hanno un partner sono più felici, più adattati e hanno una vita più significativa rispetto alle persone che sono single (DePaulo e Morris, 2005).

Anche se la paura di essere single è stata maggiormente studiata tra le persone single, anche gli individui nelle relazioni romantiche possono segnalare questo stato di ansia in relazione all’angoscia di essere single in futuro (George et al., 2020; Spielmann et al., 2016).

La ricerca ha dimostrato che un attaccamento ansioso predice in modo affidabile livelli più elevati di paura di essere single (George et al., 2020; Spielmann et al., 2016; Spielmann et al., 2020). Questo non sorprende dato che un modello di sé negativo, spesso sviluppato da chi possiede un attaccamento ansioso, che prevede la considerazione di sé come persone indegne di amore e sostegno e la paura dell’abbandono, può aumentare la paura di rimanere single.

Inoltre, persone con attaccamento ansioso e persone con paura di rimanere single hanno dimostrato di essere ipersensibili ai segnali di rifiuto (Spielmann et al., 2013), credendo quindi con più facilità che i loro partner stiano per lasciarli quando questi segnali di rifiuto vengono colti. Questa percezione di rifiuto potrebbe aumentare la propensione all’infedeltà perché gli individui, quando percepiscono una minaccia alla loro relazione, potrebbero cercare “rifugio” in partner alternativi (Birnbaum et al., 2019).

Quindi, in altre parole, quando si percepisce la possibile minaccia di essere lasciati, la profonda preoccupazione di rimanere senza una relazione/partner fa sì che venga attuato un “piano di riserva” cercando altri partner alternativi nel caso in cui il partner attuale se ne vada, rendendo più probabili i comportamenti di infedeltà.

Motivazioni sottostanti l’infedeltà

A sostegno di queste ipotesi, alcuni studi hanno dimostrato che tra le motivazioni alla base dei tradimenti commessi vi erano: l’insicurezza su quanto fosse stabile e affidabile la loro relazione attuale, la mancanza di attenzione da parte del partner attuale o il tentativo di testare se erano attraenti per altri (Feldman & Cauffman, 1999; Barta & Kiene, 2005 ).

Per cogliere il meccanismo attraverso il quale l’attaccamento ansioso è collegato all’infedeltà, uno studio (Sakman et al., 2021) ha tentato di analizzare il ruolo della paura di essere single come variabile mediatrice nella relazione tra attaccamento ansioso e comportamenti di infedeltà.

I risultati ci mostrano che, anche in questo studio, un attaccamento ansioso prevedeva la probabilità di impegnarsi in comportamenti di infedeltà e che, inoltre, la relazione tra attaccamento ansioso e tradimento è mediata dalla paura di rimanere single.

Le persone con attaccamento ansioso hanno riportato livelli più elevati di paura di essere single, che a loro volta prevedevano probabilità più elevate di impegnarsi in atti di infedeltà, supportando quindi l’ipotesi secondo cui l’infedeltà può essere un comportamento messo in atto da individui cronicamente preoccupati di essere abbandonati, al fine di ridurre al minimo il rischio futuro di essere single.

Questi risultati, oltre ad aver fatto luce su un meccanismo ancora poco conosciuto, possono inoltre essere utili per i professionisti della consulenza di coppia, dato che l’infedeltà è tra le principali motivazioni per cui queste si recano in terapia. Gli individui con attaccamento ansioso possono essere identificati come un gruppo di intervento target, in cui vengono offerte strategie per gestire l’eccessiva preoccupazione di essere lasciati senza un partner. Inoltre, l’innesco di sicurezza per aumentare l’attaccamento sicuro all’interno della relazione attuale potrebbe essere utilizzato come potenziale strategia di buffering per questi individui a rischio.

 

Il DOC ai giorni nostri visto dagli occhi di un ragazzo di 28 anni. Il caso di A.

Nel 2017 A. approda presso lo studio di uno psichiatra per iniziare un percorso di terapia integrata e si configura la prima diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo.

 

Corre l’anno 2021 e nella nostra società molti stereotipi fanno, ancora, fatica a scomparire.

Sicuramente uno di questi è che tutte le persone che hanno e/o avrebbero bisogno di supporto dallo psicoterapeuta e/o dallo psichiatra siano “strani” o “non normali”.

Soprattutto chi ha bisogno di aiuto psichiatrico è considerato strano, alienabile dalla quotidianità sociale anche se i manicomi sono stati chiusi secondo la L.180 del 1978 (legge Basaglia).

Sarebbe così difficile spiegare la differenza, ad esempio, tra disturbo bipolare e pericolosità sociale?

Far capire che il mondo che sto per raccontarvi è un mondo a sé, pieno di risorse e capace di raggiungere i suoi traguardi, anche se con grande fatica?

Molte persone, nel corso della loro vita, hanno sfumate e transitorie manifestazioni ossessive o sintomi subclinici.

Non è infrequente che si torni dentro casa per scacciare il dubbio di non aver spento tutte le luci o aver chiuso male la porta di casa; si potrebbe avere anche la spiacevole sensazione che le cose non siano come dovrebbero essere.

Le suddette potrebbero stimolarci anche alcuni pensieri blasfemi o moralmente disdicevoli.

Nella maggior parte dei casi si tratta di fenomeni transitori, occasionali e di breve durata.

Nonostante ciò, esistono situazioni in cui questi sintomi possono diventare invalidanti, al punto da configurare una specifica diagnosi, quella di DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo).

Vorrei presentare il caso di A., ragazzo di 28 anni che, nonostante i mille progetti in testa, si rimproverava di non essere riuscito a dare alla propria vita quella svolta che aveva sognato e che avrebbe dovuto ricompensarlo delle critiche e frustrazioni avvertite sin da bambino.

Spesso aveva avuto l’impressione di non essere apprezzato dai propri genitori, di sbagliare in continuazione e di suscitare critiche e accuse da parte del prossimo.

Oltre a ciò, si rimproverava di non apprezzare consapevolmente e pienamente la propria famiglia, la sicurezza economica che gli garantiva e il percorso di studi che si era scelto e che stava perseguendo.

Nel 2014 subisce un cambiamento radicale nella sua vita: in seguito ad una operazione chirurgica di routine, inizia a provare uno strano disagio che somigliava molto alla sensazione di essere contaminato e sporco nel proprio corpo.

Inizia un regime alimentare restrittivo poiché non avrebbe potuto continuare a praticare il suo amato sport per qualche tempo; in poche settimane è andato incontro ad un forte ed evidente dimagrimento, notato da tutte le persone con cui si relazionava.

In quel periodo A. frequentava l’università, aveva una fidanzata e sembrava intrattenere buone relazioni sociali con i suoi compagni di corso.

Dopo questo viraggio verso il versante restrittivo c’è stato uno shift verso il polo della iperfagia e delle abbuffate, con condotte di compenso; cerca una volta di vomitare ma senza successo.

Successivamente, terminato il periodo di convalescenza, inizia ad allenarsi, in maniera ossessiva, per contenere il forte ed eccessivo introito calorico che assumeva ogni giorno, a volte anche due volte al dì.

Inizia a sentire il peso di tutto ciò e, nonostante tutto, resiste fino al 2016.

Al termine del suo percorso di laurea magistrale, decide di cercare un aiuto specialistico.

Non sopportava più le pressanti preoccupazioni ed angosce, non considerava giusto essere tormentato da tutti questi problemi e nuove ossessioni.

Si sentiva solo stanco ed oltretutto, dal 2014, aveva vissuto solo cose brutte.

Nel 2017 approda presso lo studio di uno psichiatra per iniziare un percorso di terapia integrata e si configura la prima diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo.

Si può facilmente immaginare come possa essere stato per un ragazzo così giovane subire questa diagnosi.

In un mondo così iperstimolante e ipercompetitivo, per un assetto di personalità di tipo ossessivo compulsivo è molto difficile stare al passo con le richieste provenienti dall’esterno.

A., di solito, si trova a combattere con compulsioni cognitive per cercare di scacciare le ossessioni che si presentano, puntualmente, nei momenti meno opportuni.

“A blurred mind” è il titolo del testo di una canzone; in questo caso diventa molto appropriato per descrivere lo stato mentale di A. dopo una giornata spesa, in buona parte, tra ossessioni, rimuginazioni e intrusioni.

Una mente nebulosa, stanca e priva di forze.

Spesso ripeteva: ho il cervello stanco!

Quello che normalmente confonde è che le compulsioni non sono comportamentali e, quindi, visibili ma rimangono nella sfera cognitiva e mentale, cioè ignota ai più.

Probabilmente una o due persone, veramente intime nella sua vita, hanno saputo di questo mondo.

Nessun altro è entrato così in profondità nella testa di A, non gli è stato permesso.

Stando alla società in cui viviamo, oggi, lui ha paura, oggettivamente, di essere giudicato.

Il timore del giudizio lo accompagna da quando era piccolo; probabilmente è scaturito dall’ambiente famigliare e dalle sue prime relazioni sociali.

Nonostante ciò, riesce a mascherare abbastanza bene queste sue peculiarità facendole passare per stranezze e, quindi, conformandosi un po’ agli standard comuni.

A fine giornata si sente davvero molto stanco e, spesso, non ce la fa ad uscire la sera; si chiude in camera senza luce accesa.

I sintomi manifestati da A. potrei paragonarli, forse in maniera un po’ azzardata, agli shutdown che si ritrovano nel Disturbo dello Spettro Autistico; è tale il sovraccarico sensoriale che, proprio come un computer sotto stress, ha bisogno di spegnersi e riavviarsi per poter funzionare al meglio nella vita di tutti i giorni.

Il Covid-19, poi, non lo ha di certo aiutato ad alleggerire il carico delle compulsioni.

Da quelle prettamente cognitive siamo passati anche a quelle comportamentali; ha iniziato ad effettuare delle procedure di disinfezione dei vestiti e delle borse, appena varcata la soglia di casa.

Tutta la procedura coinvolge i familiari cui chiedeva, continuamente, rassicurazioni sulle operazioni effettuate o sull’effettiva pericolosità di introdurre vestiti “contaminati” dentro casa.

Le ruminazioni mentali di A. erano di due tipi: ricordare costantemente le cose da fare durante la giornata con l’inconveniente di avere la sensazione della dilatazione del tempo e perdita dei confini della giornata.

Oltre a ciò, ricordava più e più volte eventi potenzialmente dannosi per la sua incolumità; ad esempio passare accanto ad una mascherina usata che si trovava per strada lo metteva in uno stato di allerta massima.

Nelle giornate di picco massimo poteva arrivare anche ad elaborare anche 80 domande da rivolgere alle persone a lui più intime.

Vertevano sulla paura di contaminazione, la sensazione di sporco e la forte ipocondria che aveva sviluppato nel corso degli anni.

Durante questa pandemia ha sviluppato una maggiore percezione ad un’eventuale responsabilità di contagio auto o etero-diretto e verso comportamenti protettivi, utili a neutralizzare un possibile rischio di contaminazione e la possibile colpa per comportamenti irresponsabili.

Ad aggravare ulteriormente la situazione ha contribuito, anche, l’aumento del washing durante la giornata, costringendo A. ad usare molte volte il bagno.

Lo psichiatra, curante dal 2017, oltre a continuare con la consueta terapia integrata modificandola al bisogno, inizia un percorso di psicoeducazione per migliorare il suo adattamento quotidiano.

La parola d’ordine diventa “esercizio” e, tramite l’esposizione e la prevenzione della risposta, nonché attraverso la dilazione della stessa, A. migliora la sua capacità di coping e resilienza.

È stato necessario intraprendere anche il parent training per aiutare i familiari ad accogliere e gestire in un modo più funzionale per tutti le peculiarità di A.

Con il passare del tempo questo ragazzo ha trovato il modo di contenere questo suo modo di essere, di rapportarsi con il mondo e di vedere le cose attraverso lenti più spesse, a volte un po’ troppo appannate per assimilare tutti gli stimoli che gli arrivano addosso come un’onda violenta in pieno inverno.

La “bestia”, come la chiama lui, a volte è più sopita del solito, altre volte cambia schema e prende alla sprovvista tutti costringendo a cambiare abitudini e routine.

La certezza assoluta, ricercata spasmodicamente in questo tipo di disturbo, non può esserci perché occorre sempre prendere in considerazione la percentuale di rischio e imprevedibilità insita in ogni azione della nostra vita.

Tutto ciò A. lo ha imparato sulla sua pelle, con fatica, sudore e respiri mancati in piena notte quando gli veniva a mancare la terra sotto i piedi.

Oggi A. è come se si trovasse nel grado 8 di difficoltà per gli alpinisti; ad ogni nuovo capitolo della sua vita ripete dentro di sé: “ottavo superiore…..ottavo superiore” per ricordarsi quanto è importante un allenamento e una pratica costante per gestire gli aspetti più particolari della sua vita.

 

Il gioco d’azzardo patologico: un’eziopatogenesi psicodinamica

Nell’ottica freudiana il ricorso al gioco d’azzardo non costituisce soltanto un mezzo di difesa contro impulsi sessuali edipici, ma anche uno strumento di autopunizione.

 

Nel tentativo di identificare una possibile eziopatogenesi del disturbo da gioco d’azzardo compulsivo, la prospettiva psicodinamica pone l’attenzione sull’analisi del vissuto retrospettivo individuale, inteso come il condensato delle esperienze psicologiche maturate sin dalle prime fasi della vita e dei loro contenuti caratterizzanti. Proprio la natura più o meno appagante di questi vissuti potrebbe aver provocato la maturazione di una dimensione egoica ben coesa e strutturata, o alternativamente di un autentico vuoto affettivo, un “buco nell’Io” di cui la dipendenza rappresenta il tentativo riparatore.

Stein (1989) riconduce l’eziopatologia del gambling ad uno stato di fissazione evolutiva, una sorta di ritardo nello sviluppo cognitivo che costringe il pensiero ad una stasi nello stadio delle operazioni concrete. Si tratta del periodo evolutivo che Piaget chiama del pensiero pre operatorio – collocato tra i 6 i 12 anni circa – nel quale le azioni non vengono valutate tanto sulla base della loro potenzialità o consequenzialità lesiva, ma soltanto in base ad una valutazione superficiale, limitata alla piacevolezza dell’attività e alla mancanza di impedimenti alla sua esecuzione.

In questo senso il gioco diventa l’espressione di un desiderio di diletto da scaricare in modalità immediata, nella credenza ottimistica e illusoria che ogni partita sarà quella buona e che nessuna perdita, per quanto considerevole, risulterà dannosa. I giocatori sviluppano così una serie di dispercezioni ipervalutanti circa il Sé, credendosi imbattibili, abili, potenti, capaci persino di influenzare la sorte. Sarà solo con l’accesso ad un pensiero di natura formale-astratta che si potrà maturare maggior consapevolezza circa la natura rischiosa e incontrollabile del gioco, limitando al contempo l’illusione ottimistica tipica dell’egocentrismo piagetiano infantile (Stein, 1989).

Per chiarire l’origine della condotta di dipendenza in generale, e di gambling nello specifico, la psicodinamica si occupa di analizzarne l’aspetto di ambivalenza, da cui trapela una matrice indubbiamente nevrotica. Dunque il gioco d’azzardo è paragonabile ad un sintomo che concilia in sé aspetti conflittuali, posti a metà tra pulsionalità e censura, il cui esercizio costituisce una modalità di espressione abreativa dell’angoscia.

Il piacere sotteso all’esercizio del gioco non è mai puro, non è mai autentico: si mostra piuttosto l’interfaccia di un’esperienza sofferente che, non riuscendo ad assumere una natura verbalizzata, viene comunicata attraverso un agito compulsivo in cui la condotta di dipendenza costituisce uno strumento di sollievo, per quanto apparente. Secondo la prospettiva psicodinamica, la sua funzione è in realtà quella di mantenere nell’inconscio un vissuto rimosso e di impedirne la temuta emersione a mezzo di sofferti e dispendiosi controinvestimenti egoici, attuati proprio attraverso il rinnovarsi compulsivo della condotta di gioco.

Il gioco d’azzardo tra piacere sessuale e pulsione masochistica

Se il gioco d’azzardo è un sintomo di natura nevrotica, ciò significa che al di là dello stesso si pone la volontà inconscia di celare una pulsione che, per quanto gratificante, viene percepita come minacciosa, e per questo ostacolata dall’Io. Il sintomo, come nel più classico processo di rimozione nevrotica, viene a costituire il compromesso funzionale tra censura e scarica di una pulsione proibita.

Proprio sulla natura di questa “proibizione pulsionale” si sono avvicendate numerose ipotesi.

Greenson (1947) vi legge una forte carica sessuale sperimentata verso gli oggetti genitoriali, e per questo vissuta con senso di colpa, una paura pregenitale gestita attraverso il sintomo. La natura sessuale del gioco d’azzardo è evidenziata ulteriormente dalle sue componenti strutturali, che risultano sovrapponibili a quelle dell’eccitazione di un evento orgasmico, ove si riscontra egualmente la presenza di una tensione endogena crescente che, dopo aver raggiunto un acme esponenziale, tende a diminuire fino al perseguimento della quiete finale.

Nell’ottica freudiana il ricorso al gambling non costituisce soltanto un mezzo di difesa contro impulsi sessuali edipici, ma anche uno strumento di autopunizione per il desiderio di distruggere il padre e sostituirsi al suo potere.

È nella monografia Dostoevskji e il parricidio (Freud, 1928) che la coazione al gioco d’azzardo viene definita come una forma di autopunizione, nel quale la ricerca della perdita si spiega con una necessità di sconfitta e umiliazione, percepita sulla scia di desideri conflittuali edipici.

Il romanzo evidenzia come, nella storia evolutiva di molti giocatori patologici, sia possibile riscontrare la figura di un padre severo e autoritario, del quale si desidera prendere il posto non soltanto per risultare l’unico oggetto d’amore della madre, ma anche per debellarne l’autorità dispotica: in particolare, il senso di potere riscontrabile nella possibilità di sfidare la sorte e controllare le uscite di denaro, consente l’opportunità di identificazione emulativa con un paterno che decide e dispone, e del quale, per questo, si desidera la distruzione. In risposta a tale pulsione, ovviamente censurata dal Super Io, il soggetto avverte una necessità di autopunizione che può essere pienamente evacuata nel gioco d’azzardo e nelle perdite ad esso collegate.

“Egli sapeva che l’essenziale era il gioco in sé e per sé, le jeu pour le jeu. Egli non trovava pace fino a quando non aveva perduto tutto, il gioco era per lui un modo di punirsi. Quando la perdita dei propri averi metteva a tacere il senso di colpa edipico, la situazione nevrotica compulsiva trova un temporaneo appagamento prima di presentarsi di nuovo, manifestando lo stesso incontrollabile impulso di venir evacuata. E il ciclo ricomincia (Freud, 1928).

In questo caso l’impulso da evacuare in modalità difensiva è quello volto alla distruzione del padre, la cui presenza viene sostituita, a livello inconscio, da un desiderio di distruzione del Sé. È in tal modo che anche la punizione, il dolore, la colpa e l’umiliazione vengono accolti con positività. Il desiderio inconscio di perdere, e dunque di punirsi, di umiliarsi, di venire ripetutamente sconfitto, è l’unico strumento con il quale è possibile evitare l’insorgere di un’angoscia persecutoria di matrice superegoica (Freud, 1924).

Il masochismo gioca così una componente catartica, ponendo la sconfitta come un dovere inviolabile. Imbucci (1997) parla di divieto interiore di vincere, al fine di non entrare in competizione con la figura paterna interiorizzata e quindi con l’Ideale dell’Io. È per questo che l’umiliazione della sconfitta rappresenta un elemento di stimolo beneficiante per il giocatore, che in essa trova appagamento a quella sorta di aggressività interiore che proprio attraverso il suicidio vicario della perdita può essere scaricata al di fuori di Sé.

È un incoercibile desiderio inconscio di risultare perdente a manipolare la mente del giocatore, che non si ferma di fronte a nessuna possibilità di sconfitta; anzi, è proprio nello stato di incertezza in cui lo pone ogni giocata, ogni tiro, ogni scommessa, che egli trova un pungolo di sopravvivenza; è nell’aleatorietà, nel rischio di poter perdere che avverte lo stesso rischio di perdere se stesso, quell’eterna battaglia tra la vita e la morte che in una tensione dialettica distruttiva lo mantiene in vita.

L’incertezza del gioco, benefica e dolorosa, si identifica nella fonte di un piacere quasi vitale, per il giocatore: “una persona normale fa di tutto per evitare l’incertezza penosa, mentre è proprio quell’incertezza che cerca il giocatore d’azzardo, godendo dell’attesa del risultato, e della tensione che ad esso si accompagna, in una sorta di limbo conflittuale in cui la vittoria rappresenta una conferma del Sé arcaico, mentre una sconfitta incarna la punizione per aver desiderato la morte o la distruzione del padre fungendo da alibi catartica per l’inconscio” (Bergler, 1957, p. 176).

Al contempo l’urgenza dell’agito, intesa come l’incapacità di attendere o procrastinare la gratificazione, corrisponde a una situazione di non pensiero, un funzionamento scandito dal processo primario. La Mac Dougall parla di atti-sintomo che, impedendo la rielaborazione affettiva, si sostituiscono al lavoro psichico, e nel loro compiersi compulsivo rappresentano la fuga da una situazione ansiogena tramite un ripudio delle rappresentazioni disturbanti e una rapida evacuazione degli affetti connessi (1982).

L’invidia verso gli oggetti buoni

L’impulso di distruzione sotteso al gambling potrebbe risultare il correlato di una fase schizoparanoide in cui l’avidità per gli oggetti buoni posseduti dal genitore viene percepita in una modalità così distruttiva, e al contempo precoce, che può essere evacuata solo attraverso meccanismi di difesa arcaici come la proiezione difensiva. E viene dunque scaricata all’esterno, per preservare l’oggetto buono da possibili attacchi sadici aggressivi (Klein, 1928).

La volontà di privare l’oggetto genitoriale dei propri beni fin tanto da distruggerlo viene in seguito compensata da un vissuto riparativo, garantito dal sopraggiungere della fase depressiva, grazie alla quale l’invidia verso i beni materni si mostra stemperata da un impulso di accudimento e protezione (Klein, 1952). Nel caso del gioco d’azzardo entrambi gli aspetti risultano simbolizzati: da una parte la corsa compulsiva alla scommessa rappresenta la volontà di impossessarsi dei beni materni, sotto la spinta impetuosa di un’invidia distruttiva; dall’altra, il desiderio di continuare le scommesse, malgrado le perdite, rappresenta l’impulso riparativo esercitato tramite l’autopunizione depressiva, e per certi aspetti masochistica, che trae piacere catartico anche dalla propria devastazione.

Sotto un ulteriore punto di vista il gioco d’azzardo potrebbe essere interpretato come il tentativo di controllare una figura genitoriale imprevedibile, da cui sente di dipendere disfunzionalmente, in una regressione arcaica non verbalizzata. È proprio la natura incontrollabile di questa figura genitoriale e delle sue reazioni affettive a spingerlo ad una necessità di controllo della stessa, in un continuo alternarsi tra atteggiamenti controfobici e contro dipendenti; ciò al fine di mantenere con essa un legame affettivo pur premurandosi di controllarne le contraddizioni e le incoerenze.

Il gioco compulsivo, in questo caso, potrebbe rappresentare il condensato simbolico di volontà di controllo di una sorte, i cui tratti di mutevolezza e imprevedibilità ben si uniformano a quelli della figura genitoriale interiorizzata. Controllare la paura della perdita e della sconfitta, dunque, potrebbe significare, dominare la paura dell’abbandono.

I connotati narcisistici del gambling

L’esaltazione dell’incertezza- intesa come azzardo e sfida della sorte- è stata altresì identificata come il possibile connotato di una personalità narcisistica che, nel tentativo di difendersi da un senso di debolezza e fragilità insostenibile, necessita di sfidare compulsivamente la sorte per ricevere conferme della propria onnipotenza (Rosenthal, 1992).

L’evento della vincita al gioco costituisce la simbolizzazione di una vittoria contro i propri limiti, e al contempo incarna la negazione dell’esistenza degli stessi, a conferma di un sovrainvestimento narcisistico suscitato da un contesto diadico deprivante, da un oggetto materno non empatico o non all’altezza dell’Ideale dell’Io.

L’aspetto più eccitante del gioco consiste nella possibilità di regolare con il proprio volere l’imprevedibilità del risultato: atteggiamento presumibilmente riconducibile alla presenza di un forte senso di vulnerabilità endogena, di disgregazione della famiglia e di sopraffazione della realtà che spinge il soggetto alla relazione con oggetti- Sé non adeguatamente responsivi (Rosenthal, 1992).

Il senso di onnipotenza e di negazione di dipendenza dall’oggetto-tipici della personalità narcisistica- rappresentano in questo caso l’elemento compensativo della deprivazione empatica patita nell’infanzia, ed esitata in un’inguaribile incertezza del Sé (Khout, 1971). Ma sono anche l’esito simbolizzato di un disprezzo verso l’oggetto affettivo che, non essendosi mostrato all’altezza dell’Ideale dell’Io, viene punito, rifuggito negato, proprio a mezzo di un gioco reiterato e dissociativo.

Il valore del legame oggettuale e l’oggetto transizionale

La dipendenza viene a ricreare quel rapporto mancato con la madre ambiente, conferendo occasioni di sicurezza altrimenti mancanti. In questo senso il gioco d’azzardo patologico può essere ricondotto all’attività ludica infantile, con cui condivide altresì la funzione liquidatoria e abreativa di un vissuto angoscioso. Un gioco liberatorio, perché in grado di trasformare una realtà minacciosa attraverso vissuti fantasmatici liberatori. Ma anche una sorta di reverie, di benessere diadico capace di ricreare un contesto facilitante in cui la madre aiuta a dominare le emozioni selvagge e a controllare l’ansia di differenziazione in una prospettiva evolutiva (Bion, 1962).

In una direzione che colloca l’origine del gioco d’azzardo patologico in un deficit relazionale, il gambling potrebbe rappresentare l’esito dell’assenza di un legame attendibile con l’oggetto primario, cui è conseguito un difetto fondamentale (Balint, 1968). Un’assenza distruttiva cha ha reso impossibile la rielaborazione del dolore abbandonico, e dunque la mancata maturazione di un oggetto transizionale con cui fronteggiare gradualmente il dolore per il distacco dalla madre (Winnicott, 1953).

Il bambino che non ha sperimentato un’adeguata responsività diadica non ha avuto l’opportunità di sviluppare una capacità di simbolizzazione dell’oggetto materno, laddove con questa espressione si intende la capacità di sostituire la madre con qualcosa che stia al suo posto e ne replichi la funzione rassicurante.

Data l’assenza di un oggetto transizionale funzionale al distacco evolutivo, la madre non può essere sostituita né simbolizzata: niente e nessuno può prendere il suo posto. Da qui il crollo emotivo, che porta alla necessità di creare oggetti transizionali d’emergenza, provvisori e disfunzionali, con cui supplire l’assenza di un contesto materno securizzante (Ogden, 1994).

Il gambling, col suo reiterarsi alternato di perdita e vincita, potrebbe dunque rappresentare l’oggetto transizionale di un dolore abbandonico mai rielaborato, ed esteriorizzato attraverso il fluttuare compulsivo di un gioco che, come il rocchetto del piccolo Ernst, consente di avvicinarsi all’angoscia quel tanto necessario per conoscerne l’entità, senza tuttavia venirne distrutti.

FORT- DA! Laggiù e qui. È una coazione a ripetere, quella che fa sparire e ricomparire il rocchetto nel tentativo di dominare l’angoscia per l’assenza della madre. Ed è ugualmente un processo nevrotico coattivo quello che spinge il giocatore a tirare i dadi sul tavolo per poi ritrarli, ancora e ancora, nell’illusione di poter “gestire” una mancanza di legame con l’oggetto, ignorando gli effetti distruttivi di questa patologica “scommessa” con il Sé.

 

Uno studio sui cavalli: riconoscimento emotivo attraverso immagini e vocalizzazioni

Negli ultimi anni numerosi studi hanno osservato le emozioni animali e la loro modalità di espressione attraverso il linguaggio corporeo e le espressioni facciali (Waller e Micheletta, 2013), vocali (Briefer, 2018) e olfattive (Kikusui et al., 2001; Trösch et al., 2019).

 

Il riconoscimento delle emozioni tra gli animali

Il riconoscimento emotivo è importante in quanto permette una reazione adeguata per facilitare l’interazione che avviene tra membri della stessa specie (Špinka, 2012). Dato che non è ancora chiaro se gli animali possano classificare le emozioni o meno, lo studio di Trösch e colleghi (2019) vuole valutare questa capacità studiando il riconoscimento cross modale delle emozioni, cioè integrando le informazioni percepite da sensi differenti (Massaro e Egan, 1996; Trösch et al., 2019). Mentre una semplice discriminazione tra emozioni potrebbe essere spiegata da semplici regole associative apprese da parte dell’animale (Albuquerque et al., 2016), il riconoscimento cross modale implica l’identificazione dei messaggi emozionali espressi, la loro interpretazione e migliora l’efficienza, l’accuratezza e l’affidabilità del riconoscimento emotivo (Albuquerque et al., 2016; Massaro e Egan, 1996; Trösch et al., 2019).

Molti animali come cani, scimpanzé e scimmie cappuccino riescono a riconoscere le emozioni dei loro simili, discriminando le immagini presentate in base alla loro congruenza con la vocalizzazione associata (Albuquerque et al., 2016; Izumi e Kojima, 2014; Payne e Bachevalier, 2013; Evans et al., 2005), si pensi ad esempio ad una foto di una scimmia che ride, ad una foto di una che urla e ad una registrazione audio di una scimmia che emette un grido (Trösch et al., 2019). I cani inoltre riconoscono le emozioni umane (Albuquerque et al., 2016) in quanto un riconoscimento specifico delle emozioni potrebbe essere vantaggioso per coloro che vivono quotidianamente con le persone (Trösch et al., 2019; Ringhofer e Yanamoto, 2016; Smith et al., 2016; Catala et al., 2017; Chijiiwa et al., 2017; Schuetz et al., 2017; Trösch et al., 2019).

Il riconoscimento delle emozioni umane nei cavelli

Trösch e colleghi (2019) vogliono studiare come i cavalli percepiscono e reagiscono alle emozioni umane. Nello specifico, voglio osservare se la valenza delle emozioni che esprimiamo porta a sua volta ad una risposta emotiva in questi animali (ad esempio, un uomo che mostra una risposta di paura può spaventare l’animale stesso), suggerendo così un impatto sul benessere del cavallo e sulla sicurezza degli utenti che praticano equitazione (Trösch et al., 2019). Esistono numerosi studi sulle emozioni dei cavalli: possono comunicare emozioni sia vocalmente (Briefer et al., 2017) che visivamente attraverso la postura del corpo e le caratteristiche facciali (Lansade et al., 2018), inoltre reagiscono in modo diverso quando sono di fronte a delle facce o a dei vocalizzi, positivi e negativi, di altri cavalli o degli umani (Smith et al., 2016; Proops et al., 2018; Baba et al., 2019; Wathan et al., 2016; Smith et al., 2018; Trösch et al., 2019).

In questo studio (Trösch et al., 2019), con un campione composto da 34 cavalli (di razza Welsh Mares), sono state mostrate contemporaneamente due immagini di un volto umano (nello specifico, un’immagine esprime gioia e un’altra che esprime rabbia) e sono state fatte ascoltare delle vocalizzazioni positive (gioia) e negative (rabbia) con un autoparlante (Trösch et al., 2019). L’ipotesi di ricerca consiste nel fatto che i cavalli possono discriminare le due immagini in base alla vocalizzazione emessa con l’autoparlante, guardando preferibilmente l’immagine associata, e che abbiano una reazione diversa in base alla vocalizzazione (Trösch et al., 2019). Sono state effettuate sei misurazioni per ogni cavallo, osservando l’indice di preferenza dell’immagine, la risposta comportamentale delle immagini presentate e misurando il battito cardiaco (Trösch et al., 2019). I risultati ottenuti indicano che l’indice di preferenza è significativamente più alto per le immagini che sono incongruenti con la valenza emozionale della vocalizzazione eseguita, inoltre i cavalli si comportano in modo diverso a seconda della valenza della vocalizzazione: la percentuale di tempo trascorso in una posizione vigile è significativamente più alta durante le vocalizzazioni rabbiose, mentre il tempo trascorso in una posizione rilassata è più alto durante quelle gioiose. Per quanto riguarda la frequenza cardiaca, il battito cardiaco è maggiormente elevato durante le vocalizzazioni rabbiose (Trösch et al., 2019).

Conclusioni

In conclusione, lo studio suggerisce come i cavalli siano in grado di categorizzare le emozioni basandosi sulla valenza delle vocalizzazioni emesse. Questo studio è importante per l’incolumità del cavallo e della persona, in quanto una persona che esprime emozioni negative potrebbe causare stress e potrebbe contribuire ad incidenti scatenati da una reazione paurosa. Al contrario, un tono pacato potrebbe avere un effetto calmante per il cavallo e può essere utilizzato in un contesto di formazione (Trösch et al., 2019).

 

L’alleanza terapeutica: contributi teorici, rotture e riparazioni

L’alleanza terapeutica è una variabile, forse la più importante, che costituisce la relazione terapeutica.

 

Riprendendo una definizione in ottica di Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), la relazione terapeutica “consiste nell’insieme dei processi interpersonali che intercorrono tra terapeuta e paziente, sia nel contesto della “relazione reale” che si svolge nel qui e ora (vissuti di simpatia, senso di affinità, condivisione di interessi comuni, ecc.), sia nel contesto della relazione transferale e controtransferale, in cui sia nel paziente che nel terapeuta si attivano modelli relazionali e emozioni in gran parte derivati dalle rispettive storie evolutive” (Dimaggio et al., 2013).

Una buona alleanza si raggiunge quando paziente e terapeuta lavorano in maniera cooperativa e collaborativa per il raggiungimento degli obiettivi della terapia, attraverso la condivisione di compiti da svolgere durante il trattamento, mantenendo un legame affettivo caratterizzato da fiducia e rispetto (Bodrin, 1979).

La storia dell’alleanza terapeutica

Il concetto di alleanza terapeutica è stato introdotto da Freud in Studi sull’isteria (Freud, Breuer, 1892-1895): un atteggiamento del paziente di tipo collaborativo può accrescere la possibilità di risolvere i sintomi nevrotici del soggetto.

L’espressione alleanza terapeutica è stata usata per la prima volta dalla psichiatra americana Elisabeth Zetzel (1958) per descrivere la condivisione della realtà tra paziente e terapeuta nella situazione analitica: “un rapporto stabile e positivo tra terapeuta e paziente che mette in grado quest’ultimo di impegnarsi positivamente nel lavoro d’analisi”.

Dagli anni 70 in poi il costrutto di alleanza terapeutica è divenuto oggetto di attenzione clinica e sperimentale da parte dei maggiori orientamenti psicoterapeutici.

Grazie a numerosi studi e a ricerche trasversali, l’alleanza terapeutica è divenuta una delle variabili comuni a tutte le forme di psicoterapia, non più solo in ambito psicodinamico.

L’autore che più d’ogni altro ha contribuito al superamento dei confini tra le diverse impostazioni teoriche è lo psichiatra americano Edward Bordin.

La sua formulazione, infatti, pone l’attenzione sulla collaborazione attiva tra il paziente e il terapeuta contro il nemico comune (il dolore) e contro alcuni comportamenti autodistruttivi del paziente. (Horvath & Luborsky, 1993).

Bordin definisce l’alleanza terapeutica come “un reciproco accordo riguardo agli obiettivi del cambiamento e ai compiti necessari per raggiungere tali obiettivi, insieme allo stabilirsi dei legami che mantengono la collaborazione tra i partecipanti al lavoro terapeutico” (Bordin, 1979).

Secondo lo psichiatra statunitense, l’alleanza è composta da 3 fattori:

  • Gli obiettivi (Goals): cambiamenti che l’intervento terapeutico vuole produrre. L’accordo fra paziente e terapeuta sugli obiettivi da perseguire è un momento fondamentale nella costruzione dell’alleanza terapeutica. Più gli accordi sugli obiettivi sono chiari e definiti e più l’alleanza risulterà stabile.
  • I compiti (Task): attività specifiche che il paziente deve svolgere, volte al raggiungimento degli obiettivi.
  • I legami (Bond): legami affettivi che si instaurano tra paziente e terapeuta, includono confidenza, accettazione e fiducia reciproca.

I tre fattori variano in funzione di ogni singola psicoterapia.

La sola alleanza, naturalmente, non è sufficiente per la buona riuscita del trattamento terapeutico, ma è la base indispensabile attraverso la quale il paziente può iniziare, proseguire e portare a termine la propria terapia (Bordin, 1994).

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90, autori di differenti scuole di pensiero iniziano a gettare le basi per la costruzione di strumenti per la misurazione quantitativa e qualitativa dell’alleanza terapeutica. I primi tentativi di misurazione si basano sull’analisi audio e video di sedute registrate (Safran e Muran, 2019), fino alla costruzione di questionari self-report, nelle versioni per il paziente e per il terapeuta (IVAT, Lingiardi, 2002).

Alleanza terapeutica e stili di attaccamento

J. Bowlby, grazie ai suoi studi sugli stili di attaccamento, sostiene che l’alleanza terapeutica è influenzata dalla relazione di attaccamento sviluppata dal paziente nell’infanzia verso le prime persone che lo hanno accudito.

La nuova alleanza che si instaura con il terapeuta permette al paziente, essendo parte attiva del processo terapeutico, di sviluppare una relazione diversa, più sana e gratificante (Liotti, Monticelli, 2014).

Il terapeuta funge quindi da “base sicura”, in questo modo il paziente può sperimentare nuove esperienze relazionali più funzionali dapprima in un ambiente protetto, per poi “esportarle” fuori dalla stanza del terapeuta.

Alleanza terapeutica e caratteristiche del paziente e del terapeuta

La formazione di una buona alleanza e di conseguenza la capacità di risolvere le eventuali rotture, è influenzata dalle variabili proprie del paziente (le caratteristiche interpersonali, il grado di motivazione al trattamento e i sentimenti di ostilità/amichevolezza del paziente nei confronti del terapeuta e della terapia), da quelle del terapeuta (l’empatia, la mentalizzazione, l’ascolto attivo e il tipo di tecniche terapeutiche usate) e dal rapporto, unico ed esclusivo, che si instaura tra i due partecipanti.

Le fasi dell’alleanza terapeutica: rotture e riparazioni

Durante il processo terapeutico l’andamento dell’alleanza è spesso imprevedibile e oscillante tra momenti di grande intesa e altri di perdita della sintonizzazione; come osservano Horvath e Greenberg (1994, p. 3), questo andamento può assumere le caratteristiche di un ottovolante!

Safran e Muran nel loro libro: Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica (2019) definiscono l’alleanza come un processo di negoziazione intersoggettiva dei bisogni di entrambi i partecipanti (paziente e terapeuta) alla relazione terapeutica caratterizzato da un costante movimento tra rotture e riparazioni.

Le rotture dell’alleanza sono “utili finestre sul mondo soggettivo del paziente”, non ostacoli alla terapia, ma fattori di cambiamento molto potenti. Infatti è proprio a partire dalle rotture dell’alleanza che il terapeuta ha la possibilità di intervenire sulle modalità relazionali disfunzionali del paziente e lavorare per renderle più sane (Safran & Muran, 2019).

Gli autori distingono le rotture in:

  • rotture da ritiro (Withdrawal): si manifestano con ritardi o assenze agli appuntamenti, negazione di stati d’animo evidenti, povertà della comunicazione.
  • rotture da confronto (Confrontation): il paziente esprime direttamente disaccordo, lamentandosi di alcuni elementi della terapia, come l’adeguatezza del terapeuta, il progresso o l’utilità della terapia, il pagamento.

I pazienti possono utilizzare una o l’altra modalità, oppure muoversi lungo il continuum che le unisce.

Non sempre i pazienti sono in grado di comunicare al terapeuta il loro disagio o disaccordo circa l’andamento della terapia. Lo psichiatra David L. Rennie (1994) individua alcune motivazioni, quali la paura di criticare il terapeuta, il bisogno di aderire alle sue aspettative, l’accettazione dei limiti del terapeuta o la paura di ferirne l’autostima, ma anche il timore di manifestare ingratitudine.

Il compito del terapeuta è anche quello di riconoscere queste difficoltà e inquadrarle nella storia del paziente, così da aiutarlo a prenderne consapevolezza.

Fortunatamente i soli momenti di stallo o le rotture nell’alleanza non sono sufficienti a determinare l’esito della terapia: la capacità del terapeuta di riconoscere ed affrontare in modo costruttivo tali situazioni gioca un ruolo determinante. L’alleanza migliora quando il terapeuta è in grado di rispondere in modo non difensivo al paziente, ma riconoscendo e discutendo insieme gli episodi di rottura.

 

Nata due volte (2021) di Giorgia Bellini – Recensione

Nata due volte è un libro che racconta un’esperienza di vita. È stato scritto da Giorgia Bellini che lo ha editato con pubblicazione indipendente nel 2021.

 

L’autrice è una giovane che ha sofferto di bulimia ed è riuscita a riconquistare una normalità di vita. Ha voluto, con questa sua opera, condividere la sua storia. Nell’introduzione Giorgia chiarisce come il motivo che l’ha spinta a scrivere e pubblicare questo libro è la voglia di testimoniare che, da un lato, i disturbi alimentari possono spingere le persone a ‘’toccare il limite’’ e, dall’altro, che è possibile guarire.

Come sottolineato da Giuseppe Magistrale, psicologo e psicoterapeuta con una importante esperienza nel trattamento dei disturbi alimentari, il valore dell’opera di Giorgia Bellini sta nel fatto che per chi è affetto da un disturbo alimentare non c’è nulla di più prezioso che poter attingere dall’esperienza di chi ha vissuto lo stesso dolore.

Leggendo ciò che la Bellini racconta ci si rende conto di come, superando ogni remora, si metta a nudo condividendo con il lettore i suoi pensieri più intimi. Lo stile narrativo è caratterizzato dall’uso dei dialoghi in forma diretta e questo permette, a chi legge, di comprendere perfettamente le riflessioni ed i vissuti dell’autrice.

Il libro ripercorre tutta l’esperienza di malattia: il rapporto con il cibo, la sofferenza e la guarigione. Due concetti pervadono tutto il racconto: la solitudine e la vergogna. Giorgia si è sentita sola nella malattia poiché, pur soffrendo di bulimia, è sempre stata normopeso e questo ha reso la sua sofferenza invisibile agli occhi degli altri, una sofferenza così grande da spingerla a tentare il suicidio. Dal racconto emerge come questa solitudine abbia radici antiche in un clima emotivo infelice vissuto dall’autrice fin dall’infanzia. L’altro motivo di sofferenza è legato alla vergogna che Giorgia ha provato nell’essere affetta da un disturbo così particolare, il messaggio che la Bellini lancia, con la sua testimonianza, è che non c’è nulla di cui vergognarsi poiché può capitare a chiunque di ammalarsi. Nel libro traspare l’importanza dell’esperienza del ricovero ospedaliero, durante il quale l’autrice ha imparato a fare i conti con sue le emozioni. Per Giorgia essere riuscita a sconfiggere la bulimia è stata una rinascita e la sua nuova vita è una testimonianza tangibile per tutti coloro che stanno ancora lottando contro i disturbi alimentari.

Secondo i dati pubblicati sul sito dell’Ordine dei Farmacisti di Roma, in Italia sono più di tre milioni le persone che soffrono di disturbi alimentari. Il numero di morti ogni anno per anoressia si attesta intorno al 6%, mentre è pari al 2% per la bulimia ed è sempre del 2% per gli altri disturbi alimentari non specificati. Questi numeri fanno comprendere l’importanza del libro di Giorgia Bellini.

 

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