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The Boston Process Approach: una tecnica di osservazione qualitativa

Il Boston Process Approach è descrivibile come “flessibile” perché si tratta di una tecnica che si può applicare ad uno svariato numero di test, mirando a non comprometterne la validità e specificità.

 

Il Boston Process Approach mira a valutare qualitativamente il comportamento del paziente all’interno della valutazione neuropsicologica, basandosi sul paradigma concettuale della neuropsicologia sperimentale e delle neuroscienze cognitive. Il suo sviluppo ha permesso di conciliare la parte descrittiva con quella quantitativa, migliorando la validità clinica di molti strumenti testistici di nuova generazione. Il concetto fondamentale dell’approccio consiste proprio in questo: andare oltre il semplice punteggio al test e considerare invece il “processo” che ha portato il paziente ad ottenerlo (Milberg et al., 2009).

Breve storia descrittiva del Boston Process Approach

L’approccio è stato sviluppato dalla Dott.ssa Kaplan nel 1983 tramite i primi studi su pazienti con aprassia, in seguito alla constatazione che la qualità delle loro risposte differiva significativamente in base alla localizzazione della lesione cerebrale presente. Una strategia di osservazione simile è successivamente stata applicata alle scale Wechsler, soprattutto per quanto riguarda la WAIS-R NI e la WMS nelle quali, sebbene non vengano più utilizzate, è visibile per la prima volta l’influenza di questo approccio.

L’approccio segue due principi fondamentali (Russell, 1981):

  • La differenza tra le funzioni cognitive fluide, ovvero l’abilità intellettiva; cristallizzate, ovvero le conoscenze apprese; e complesse, nel momento in cui vengono messe in atto entrambe per svolgere un compito (Horn e Cattell, 1967).
  • La natura multi-componenziale delle funzioni cognitive (Neisser, 2014), il cui utilizzo può variare da individuo a individuo in base a quali processi dei vari componenti vengono messi in atto, suddividendosi per stile (Hunt, 1983), livello generale di intelletto (Hunt, 1983, Sternberg, 1980) e livello di abilità (Neisser et al., 2014).

Il gruppo di Boston ha dunque combinato una serie di test quantitativi con osservazioni sistematiche delle strategie di problem-solving dei pazienti, ed il risultante metodo permette sia un assessment quantitativo della performance che una valutazione qualitativa dello stile di processamento di informazioni (Milberg et al., 2009).

Boston Process Approach: Tecniche flessibili

L’approccio è meglio descrivibile come “flessibile” perché si tratta di una tecnica che si può applicare ad uno svariato numero di test, mirando a non comprometterne la validità e specificità. Per questo, ciò che viene cambiato non è la procedura stessa del test quanto le tecniche di raccolta dati e analisi dei punteggi.

Una prima tecnica, utilizzata originariamente da Kaplan ed il suo gruppo, consiste nel “spingere ai limiti” i pazienti, ovvero:

  • Continuare con il test anche in seguito a fallimento (es. anche se commette molti errori, non interrompere il test ma lasciarlo continuare);
  • Cercare di ottenere una risposta anche nel caso il paziente dica “non lo so” o risponda a monosillabi, utilizzando anche domande a scelta multipla che aumentano la possibilità che il paziente risponda (questo fu applicato ai subtest Informazioni e Comprensione della WAIS-R NI);
  • Ripetere spesso le domande del test ed incoraggiarlo a provarci nuovamente in caso di fallimento.

Questo metodo è utile in caso di pazienti la cui lesione o disturbo provocano fluttuazione nella performance o inibizione nelle risposte. Nel primo caso, il paziente potrebbe rispondere bene alle domande più difficili e fallire in quelle facili per via di fluttuazione attentiva oppure di utilizzo di strategie non più efficaci (Milberg e Blumstein, 1981). Nel secondo caso, il paziente potrebbe essere in grado di eseguire il compito, sebbene l’inibizione lo blocchi (Milberg et al., 2009).

Una seconda tecnica consiste nel modificare i limiti di tempo in test cronometrati per pazienti particolarmente rallentati. Per non inficiare la validità statistica, occorre considerare sia il punteggio ottenuto entro il limite di tempo, sia il punteggio ottenuto senza limite di tempo (Milberg et al., 2009). Un esempio di questa tecnica si può ritrovare nello strumento Matrici Attentive (Della Sala et al., 1992) che permette di valutare la prestazione speed-form, con un limite di tempo di 45 secondi, e la prestazione power-form, senza limite di tempo. La power-form non influisce sul punteggio quantitativo ma fornisce indicazioni qualitative importanti.

Una terza tecnica consiste nel presentare item verbali sotto forma di stimoli visivi, in modo che siano maggiormente comprensibili per pazienti con span ridotti. Ciò permette di differenziare coloro che falliscono nel compito a causa di deficit collegati ad esso da coloro che falliscono per via di problemi di memoria a breve termine. Questo fu applicato al subtest Aritmetica della WAIS-R NI, nel quale in caso di punteggio deficitario si presentavano visivamente i problemi aritmetici e si permetteva al paziente di rappresentarli su un foglio con la matita (Milberg et al., 2009).

Queste non sono le uniche tecniche presenti, ve ne sono altre che sono state applicate a numerosi strumenti. Tutte, comunque, consistono in facilitazioni che si danno al paziente (es. item extra, risposte a scelte multiple, ripetizione di consegna, etc.) che permettono di annotare le strategie cognitive messe in atto al di là del punteggio deficitario ottenuto.

Boston Process Approach: Influenza nei test di nuova generazione

Successivamente all’introduzione dell’approccio all’interno delle scale Wechsler (WAIS-R NI e WMS) e in alcuni test di screening (GEMS, Boston/Rochester, MicroCog) vi sono state alcune critiche riguardo all’uso indiscriminato di queste modifiche. In particolare, le critiche erano dirette all’approccio qualitativo utilizzato per generare predizioni cliniche in cui non sussisteva una base statistica vera e propria. Per questo motivo, i test di nuova generazione sono stati creati con l’idea di combinare qualitativo-quantitativo per accrescere la validità e generalizzabilità statistica.

Esempi di test:

  • CVLT (California Verbal Learning Test): consiste nel presentare 16 parole al paziente per cinque volte consecutive. Dopo ognuna di esse, il paziente è invitato a ripeterne il maggior numero possibile. In seguito viene presentata una seconda lista, e viene poi richiesto di ricordare la prima per valutare se vi è un apprendimento a lungo termine. Se il paziente presenta difficoltà, si può effettuare un test di riconoscimento. L’influenza dell’approccio di Boston risiede nella suddivisione degli item della lista in 4 categorie semantiche (fornendo dunque una possibile strategia che il paziente può usare) e nel test di riconoscimento finale.
  • Test dell’Orologio: già a partire dalle sue versioni iniziali, questo test ha sempre permesso di evidenziare molti aspetti qualitativi della performance del paziente nei domini esecutivi, visuo-spaziali, prassici e mnemonici. La dott.ssa Kaplan ha introdotto il Boston Parietal Lobe Battery in cui si richiede di posizionare le lancette alle 11 e 10 per determinare se vi è ancoraggio allo stimolo.
  • DKEFS (Delis-Kaplan Executive Function System): consiste di 9 subtest che valutano una varietà di funzioni esecutive, con modifiche atte a inferire quali delle funzioni sono maggiormente compromesse o conservate.
  • Quantified Process Approach: una batteria testistica sviluppata da Poreh nel 2000 con l’intento di standardizzare le procedure di analisi qualitativa e osservazionale.

Utilità clinica del Boston Process Approach: osservare il comportamento qualitativo per localizzare lesioni e descrivere funzioni cognitive

All’interno dell’articolo di Milberg e collaboratori (2009) vengono presentate due tipologie di strategie messe in atto dai pazienti all’interno di compiti visuo-spaziali, utili nella localizzazione delle lesioni, nella descrizione delle funzioni cognitive e di conseguenza nello sviluppo di programmi riabilitativi:

Dettagli o globalità?

Quando si osserva una figura, un film, una scena, si possono mettere in atto due strategie per imprimerla nella memoria: concentrarsi sui dettagli oppure sul contesto globale. La strategia migliore, messa in atto da soggetti sani, è utilizzare entrambi gli approcci. Al contrario, pazienti che hanno subito lesioni o che presentano disturbi neuropsicologici solitamente danno priorità ad una delle due strategie, con una perdita di informazioni dovuta alla mancata elaborazione totale.

Questo si può osservare in vari test (come la Figura di Rey) nei quali coloro che danno priorità al contesto possono riuscire a riprodurre gli elementi principali della figura omettendo dettagli interni. Coloro che si concentrano sui dettagli solitamente riproducono la figura come se la stessero “scannerizzando”, parte per parte, con una rievocazione differita scarna poiché assente di una visione di insieme. Per poter considerare questi aspetti, Stern e colleghi (1994) hanno sviluppato uno scoring qualitativo per la Figura di Rey nel quale si considera non solo la accuratezza della copia ma anche la frammentazione, la rotazione, la perseverazione, la precisione e così via. Anche Shorr e colleghi (1992) hanno sviluppato una taratura simile per analizzare il perceptual clustering ovvero il raggruppamento di dettagli. L’osservazione di queste strategie può rendere prevedibile il comportamento futuro del paziente, il quale potrà avere difficoltà a prendere decisioni a lungo termine (strategia basata sui dettagli) o potrà avere difficoltà ad essere efficiente e preciso (strategia globale).

Priorità emispaziale

Un’altra strategia importante riguarda il processo cognitivo utilizzato per analizzare lo spazio. Possono, infatti, sussistere disturbi sub-clinici di neglect e deficit attentivi che non emergono dai dati quantitativi ma che possono influire sulla prestazione del paziente. Solitamente un soggetto sano destrimane analizzerà una figura partendo da sinistra verso destra, cambiando direzione se necessario. Al contrario, pazienti con lesioni all’emisfero destro tendono ad analizzarlo inflessibilmente da destra a sinistra (viceversa per pazienti con lesioni all’emisfero sinistro). Inoltre, pazienti con lesioni sinistre tendono a commettere errori o omettere dettagli nella parte controlaterale della lesione. Osservare che tipo di strategia mettono in atto fornisce informazioni preziose per presupporre la localizzazione della lesione cerebrale.

Quali sono i vantaggi del Boston Process Approach?

Come esposto precedentemente, si tratta di un approccio valido per la detezione e localizzazione delle lesioni cerebrali da utilizzare congiuntamente all’evidenza radiologica. A livello clinico può aggiungere informazioni precise che i dati quantitativi, considerati da soli, non riescono a fornire: è il caso di pazienti che, sebbene nel Mini Mental State Examination superino il cut-off previsto per il test, a livello qualitativo presentano difficoltà di gran lunga superiori alla loro probabile performance premorbosa. Il vantaggio principale si può riscontrare quindi a livello clinico nella pianificazione del trattamento dei pazienti e nella delineazione delle funzioni compromesse e conservate. È ciò che accadde nella riabilitazione di pazienti affetti da prosopagnosia nello studio di Degutis e collaboratori (2007): osservando le strategie di processamento configurale, misero in atto un training cognitivo per portare allo sviluppo di nuove strategie che permettessero un miglior riconoscimento visivo. Inoltre, si è rivelato resistente all’effetto della pratica (Glosser et al., 1982), dell’età (esclusi i pazienti con disturbo neurocognitivo lieve) e dell’educazione. Permette, infine, di differenziare tra pazienti con patologie psichiatriche severe, come la schizofrenia, e pazienti con deficit neuropsicologici (Milberg et al., 2009).

Riassunto conclusivo

In conclusione, l’approccio di Boston non è da considerarsi come una metodologia a sé, quanto più come una serie di tecniche che possono essere applicate ai test standardizzati permettendo una integrazione tra livello qualitativo e quantitativo e portando ad informazioni cliniche estremamente utili per programmare la riabilitazione o localizzare la lesione del paziente. Applicando queste tecniche, si procede ad osservare le strategie di problem-solving che il paziente mette in atto e che rivelano la patologia sottostante. In conclusione, consente una valutazione combinata della relazione cervello-comportamento.

Integrare le psicoterapie efficaci nel trattamento dei disturbi di personalità

Dagli studi di esito e dalle linee guida internazionali diversi trattamenti sono risultati efficaci per il trattamento dei disturbi di personalità, può essere funzionale una loro integrazione?

 

Nella pratica clinica siamo a contatto con il trattamento di casi complessi di pazienti con le più svariate storie di vita. Soprattutto per quanto riguarda la cura dei disturbi di personalità, il terapeuta si trova a dover essere molto creativo nel percorso trattamentale, in quanto il mantenere fede solamente ad un orientamento teorico per il piano di cura si rivela poco efficace, o meglio, non esaustivo nella ristrutturazione completa o quasi della personalità.

Questa non esaustività dei diversi trattamenti specializzati è data dal fatto che gli stessi hanno storicamente posto l’accento su un aspetto piuttosto che un altro della patologia di personalità (per esempio nella DBT la disregolazione emotiva, nella Schema Therapy gli schemi e i bisogni, nella TFT la diffusione dell’identità, ecc.), per cui il trattamento che viene somministrato ottiene sì una efficacia in senso diagnostico (cioè il paziente non è più borderline, paranoide o narcisista), ma non vengono trattate tutte le aree problematiche.

Questa breve introduzione è in linea con quanto affermato da Livesley et al. (2016), i quali con la pubblicazione del libro Il trattamento integrato dei disturbi di personalità, già recensito su questo portale da Sofia (2017), hanno già sollevato queste obiezioni.

Tale articolo ha l’obiettivo di stimolare i colleghi a trovare dei punti di incontro delle psicoterapie efficaci e nello stesso tempo identificare possibili limiti di questa integrazione.

Quali sono i trattamenti efficaci per i disturbi di personalità e cosa trattano

Dagli studi di esito e dalle linee guida internazionali (vedi APA div12; NIMH; NICE) i trattamenti maggiormente efficaci per il trattamento dei disturbi di personalità sono essenzialmente questi sotto elencati:

  • Terapia Cognitivo Comportamentale e Terapia Basata sulla Mindfulness (Beck, 1976; Ellis, 1988; Segal et al., 2013)
  • Schema Therapy (Young et al., 2003)
  • Psicoterapia Interpersonale (Klerman et al., 1984; Benjamin, 2019)
  • DBT, RO DBT, ACT (Linehan, 1993; Lynch 2018; Hayes et al., 1999)
  • Colloquio Motivazionale e Psicoterapia Centrata sul Cliente (Miller, Rollnick, 1991; Rogers, 1951)
  • Terapia Focalizzata sul Transfert (Kernberg, 1987; Clarkin, 2011; Yeomans et al., 2017)
  • Terapia Basata sulla Mentalizzazione (Bateman, Fonagy, 2005; 2010; 2019).

Ci permettiamo di aggiungere una postilla sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale già citata dalla letteratura internazionale e che è di per sé una psicoterapia integrata, e che utilizza strategie e tecniche contenute nella lista di psicoterapie qui riportata.

Problemi e limiti dell’integrazione

  • Come e da cosa è composta una struttura di personalità. La personalità è un set organizzato in modo non rigido di sottosistemi che include i sistemi del sé e interpersonale, un sistema di processi regolatori e modulatori, e i tratti. Si ritiene che la personalità si sviluppi attorno a predisposizioni ereditarie che fanno emergere i tratti di personalità. Da sempre la letteratura come DSM (APA, 2013) e altri autori (Widiger, Simonsen, 2005), hanno cercato di raggruppare le tipologie di personalità in cluster. C’è un accordo unanime nel ritenere che la personalità abbia una struttura cognitivo-emotiva e che l’obiettivo delle psicoterapie sia quello di cercare di ristrutturare le sottostrutture più disfunzionali. A nostro avviso, dovrebbe essere studiata maggiormente la struttura sana di personalità che permetterebbe al clinico di verificare anche le aree non problematiche di cui il paziente dispone e che rappresentano il suo punto di forza.
  • Epistemologia delle psicoterapie specializzate esistenti. Integrare non significa fare un mix di strategie e tecniche al bisogno, ma seguire una coerenza prima di tutto concettuale tra le varie teorie su cui si basano strategie e tecniche specifiche. In questo senso, un grosso ostacolo a una integrazione dei trattamenti è dato dall’epistemologia talvolta molto differente sulla quale poggiano le diverse scuole di pensiero. Un atteggiamento vantaggioso potrebbe essere quello di accettare i punti di contatto e di non contatto tra le varie teorie (tra cognitivo comportamentali e psicoanalitiche e psicodinamiche) senza polarizzarsi per principio per difendere il proprio territorio. Va anche detto che è opportuno probabilmente operare nella pratica attraverso dei moduli di intervento (preposti in fasi) piuttosto che asserire una epistemologia di base sulla struttura totale del trattamento. Su questo tema vedi Morgese (2018), che fa un ottima analisi sull’integrazione assimilativa (Messer) e la differenzia dall’integrazione teorica Lamproupolos (2001), dall’eclettismo tecnico Paul (1967) e dall’approccio basato sui fattori comuni (Grencavage, Norcross, 1990). Già Ruggiero (2015) su questo portale denunciava il fatto che l’integrazione in psicoterapia dovesse essere qualcosa di più del mero eclettismo tecnico.
  • Quali sono le aree deficitarie nei disturbi di personalità. Su questo punto troviamo ampia letteratura, dal DSM-5 sistema dimensionale (APA, 2013), a molti autori come Lenzeweger, Clarkin, 2005 e Livesley et al., 2016. Pare ci sia accordo nel ritenere che le aree deficitarie su cui dovrebbe basarsi un trattamento integrato efficace siano: l’area dei sintomi, l’area della regolazione e modulazione; l’area interpersonale; l’area del sé
  • La questione della gravità. Con l’avvento dei sistemi dimensionali c’è stata una forte sensibilizzazione dei clinici alla questione relativa alla gravità dei disturbi e in particolare ai disturbi di personalità, perché in passato nelle linee guida si era parlato sostanzialmente della presenza/assenza o della numerosità di item diagnosticabili, ma non della portata del disturbo nella sua globalità, a parte il lavoro di Kernberg (1984) ormai famoso sui “Disturbi Gravi della Personalità”. La letteratura contemporeanea è in fermento su questo tema (Bornstein, 1998; Parker, Barrett, 2000; Widiger et al., 2002; Hopwood et al., 2011; Riccardi et al., 2016; Livesley, Clarkin, 2016), e si spera tale fermento possa riflettersi nell’aggiornamento dei sistemi diagnostici, anche se attualmente non esiste una indicazione ufficiale.

Come integrare? Una proposta di trattamento

Livesley et al. (2016) propongono una terapia modulare. Sulla scorta dei limiti concettuali e pratici dell’integrazione di psicoterapie diverse, gli autori hanno identificato le aree problematiche dei disturbi di personalità: sicurezza, contenimento, regolazione e modulazione, esplorazione e cambiamento, integrazione e sintesi. Riportiamo qui le fasi che, secondo gli autori, (Clarkin, Livesley, 2016) devono essere affrontate:

  • Sintomi (Farmaci; struttura e supporto; interventi di contenimento; interventi comportamentali specifici).
  • Regolazione e modulazione (Farmaci; interventi cognitivo comportamentali specifici; ristrutturazione cognitiva; interventi metacognitivi).
  • Interpersonale (Interventi focalizzati sugli schemi; interventi psicodinamici; interventi interpersonali; interventi metacognitivi).
  • Sé/identità (Moduli di cambiamento generale; Interventi metacognitivi; Interventi cognitivi; Interventi psicodinamici; Terapia cognitivo-analitica; Metodi narrativi; Ingegneria sociale).

Questa linea guida è utilissima per chi si occupa di trattamento di disturbi di personalità perché coglie in maniera coerente gli aspetti da trattare presenti in qualsiasi disturbo della personalità e con qualsiasi psicoterapia. Tale proposta ricalca, inoltre, la linea della psicoterapia sensomotoria (Ogden, Fisher, 2016; Ogden et al., 2012; Van der Hart et al., 2010; Van der Kolk, 2015; Fisher, 2017; Steel et al., 2017) e altre centrate sul trauma che asseriscono il passaggio del trattamento su tre fasi: fase di stabilizzazione emozionale, fase di elaborazione del trauma, fase di integrazione.

E nello specifico? Linee guida per le diverse fasi

Fase di Pre-Trattamento

Tutti gli autori sostengono che prima della somministrazione del trattamento vero e proprio deve essere impartito un pre-trattamento di 3-4 sedute nel quale il terapeuta deve lavorare sulla valutazione della patologia del paziente, sull’apprendimento della sua anamnesi e sulla costruzione della relazione terapeutica. Dopo il colloquio di conoscenza può essere necessario somministrare test e questionari di personalità come la SCID-5PD (First et al., 2016), il MMPI-2 (Butcher et al., 1996), il MCMI-IV (Millon et al., 2015), o altri; batterie di questionari per valutare la presenza di ansia, depressione, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi somatici, disturbi alimentari, dipendenze, psicosi o altro; ed inoltre, una prima valutazione della presenza di schemi disfunzionali attraverso lo YSQ (Young et al., 2003).

Linee guida per il mantenimento di una buona relazione terapeutica e successivamente di una buona alleanza di lavoro (Bordin, 1979) includono le tecniche provenienti dal Colloquio Motivazionale e dalla psicoterapia rogersiana centrata sulla persona (Miller, Rollnick, 1991), dalla psicoterapia relazionale di Safran e Muran (2000) per il riconoscimento e la risoluzione di cicli interpersonali disfunzionali molto presenti nelle terapie con i disturbi di personalità, e più in generale dall’empirismo collaborativo tipico della psicoterapia cognitivo comportamentale, tenendo in considerazione l’attivazione dei sistemi motivazionali nel dialogo clinico (Liotti, Monticelli, 2008, 2014).

Al paziente viene insegnato fin dall’inizio del trattamento ad avere un atteggiamento metacognitivo (Carcione, Semerari, 2016), così come viene mantenuto dal terapeuta, e a mentalizzare l’apprendimento, rafforzando fin da subito la funzione metacognitiva di monitoraggio.

Una volta concluso il pre-trattamento si restituisce la diagnosi al paziente e si condivide un contratto terapeutico che comprende gli obiettivi che dovranno essere raggiunti. Alcuni terapeuti utilizzano un vero e proprio contratto scritto, ma è sufficiente una condivisione ampiamente discussa.

Sintomi

Se è presente una minaccia alla sicurezza del paziente (suicidio o simili) deve essere affrontato per primo questo argomento, fino a che la persona non è in grado di continuare la sua vita senza farsi del male; ed in questo caso ci viene incontro la DBT (Linehan, 1993), che è stata prima di tutto concettualizzata per le pazienti borderline suicidarie.

Se sono presenti sintomi come ansia, depressione, fobie, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi alimentari, dipendenze, psicosi, ecc. si preferisce la risoluzione di essi attraverso l’utilizzo della psicoterapia cognitivo comportamentale e della psicoterapia interpersonale (depressione) come riportato dalle linee guida internazionali. Una nota per il trattamento delle dipendenze comprende l’utilizzo del Colloquio Motivazionale, e l’appoggio a gruppi di auto-aiuto.

All’inizio di questa fase può essere consigliato un lavoro d’équipe con uno psichiatra, poiché la scelta migliore per l’eliminazione della sintomatologia risulta essere l’associazione di somministrazione di psicofarmaci (anche se di breve durata) e la psicoterapia. Nei casi di disturbi gravi di personalità, è buona prassi creare ad hoc una equipe multidisciplinare che si occupi del paziente, in quanto, di solito, si ha a che fare con prese in carico di tipo sociale.

Sempre in questa fase è opportuno fare una buona psicoeducazione della situazione clinica del paziente (sia sul disturbo sintomatologico che sul disturbo di personalità).

Regolazione e Modulazione

In questa fase si cerca di stabilizzare il paziente dal punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale. Sono ancora presenti comportamenti di coping, esplosioni emotive o ritiri e distorsioni cognitive esposte ancora in maniera eccessiva che rendono persistentemente il paziente disturbato. La psicoterapia cognitivo comportamentale e la DBT sono le tecniche elettive ed è anche consigliata la frequenza, oltre alla terapia individuale, di gruppi di skills training come quelli proposti sia dalla DBT (Lineahn, 1993) che dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale di Gruppo (Colle, Fiore 2016). La regolazione e modulazione prevede la riduzione di comportamenti che possono interferire con la terapia e/o con la qualità di vita della persona. In questa fase sono molto utili le tecniche basate sulla mindfulness (Segal et al., 2013), la programmazione delle attività settimanali (Beck, 1979) e l’analisi funzionale (Ellis, 1988) che rendono il paziente sempre più consapevole dei propri meccanismi interni.

Interpersonale, Sé/Identità

Una volta che il paziente è stabilizzato dal punto di vista emotivo ed è consapevole della ripetitività dei propri processi mentali e dei comportamenti di coping, è possibile lavorare in maniera più focalizzata sugli schemi disfunzionali che mantengono la patologia di personalità, e nello specifico la disfunzionalità nell’area delle relazioni interpersonali e del Sé.

In questa fase è possibile utilizzare strategie e tecniche provenienti dalla Schema Therapy, dall’Emotional Focused Therapy (Lehay), dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013), per identificare e cercare di disattivare i meccanismi disfunzionali abituali che il paziente mette in atto da molto tempo e che risultano fattori di mantenimento dei suoi problemi emotivi e sociali, e non gli permettono di mantenere relazioni soddisfacenti (Psicoterapia interpersonale) e di esperire emozioni congruenti ai fatti.

Quando il paziente riconosce in maniera automatica il suo schema è capace di differenziare, e questo rappresenta un ottimo miglioramento nel suo percorso terapeutico.

Lavorare sul cambiamento degli schemi significa lavorare anche sulle memorie autobiografiche altamente traumatiche come quelle presentate dalla maggior parte dei nostri pazienti con disturbi di personalità. L’elaborazione delle esperienze traumatiche può essere fatta attraverso tecniche esperienziali, corporee, cognitive e comportamentali provenienti da tutte le scuole di psicoterapia efficace come la Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, la Schema Therapy (Young, 2003), la psicoterapia Sensomotoria (Ogden, Fisher, 2016; Ogden et al., 2012; Van der Hart et al., 2010; Van der Kolk, 2015; Fisher, 2017; Steel et al., 2017), la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013), l’EMDR (Shapiro, 1998). Si ricorda inoltre, l’importanza dei contributi dell’ACT (Hayes et al., 1999) e della CFT (2010) nel trattamento di vissuti dolorosi.

Per quanto riguarda il lavoro sull’identità e il senso di vuoto attingiamo alle strategie psicodinamiche proposte dalla Terapia Focalizzata sul Transfert di Kernberg, (Kernberg, 1987; Clarkin, 2011; Yeomans et al., 2017) e altri autori fondamentali come Gunderson et al., 2018 sul senso di vuoto, una delle caratteristiche centrali nei disturbi di personalità.

Integrazione e Prevenzione delle Ricadute

Successivamente alla fase di elaborazione delle memorie traumatiche il paziente si trova a guidare un nuovo Sé nell’esperienza del mondo. La ristrutturazione della personalità è un processo lento, molto complesso e comprende molti passi falsi o ricadute del paziente in vecchi meccanismi, i quali sono altamente consolidati seppur disfunzionali. Occorre lavorare con il paziente alla stabilizzazione delle parti ristrutturate del Sé in modo tale che le percepisca come identitarie (integrazione). Il paziente deve riuscire a dare un senso e una spiegazione dei suoi processi interni, della sua esperienza e del suo cambiamento e percepirsi come coerente (senso di identità coerente). Questo processo di integrazione in realtà viene effettuato durante tutto il trattamento, perché si cerca di dare coerenza ai frequenti cambi di stati dell’io che il paziente manifesta. Avere un forte senso di integrazione significa sapere come si è “switchati” da uno stato all’altro e cosa ha “triggerato” lo switch. Queste informazioni di cui il paziente finalmente dispone permettono di dare senso alla sua esperienza e di migliorare il proprio meccanismo previsionale dei fatti, di vedersi nel futuro e nel passato in maniera coerente. Le tecniche di integrazione vengono dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013), dalla Terapia Focalizzata sul Transfert (Kernberg, 1987; Clarkin, 2011; Yeomans et al., 2017) e dalla Psicoterapia Basata sulla Mentalizzazione (Bateman, Fonagy, 2005; 2010; 2019).

 

Le avventure della SMAgliante Ada – Recensione del fumetto

Le storie fantastiche vissute dalla SMAgliante Ada raccontano come ognuno di noi sia unico e diverso dagli altri.

 

Le avventure della SMAgliante Ada è un fumetto prodotto nell’ambito di un progetto realizzato dall’Associazione Famiglie SMA in collaborazione con Roche Italia ed i Centri Clinici NeMO. Il primo volume è stato presentato nel settembre 2020 ed attualmente è disponibile anche il secondo volume. Il fumetto è reperibile online sul sito www.lasmaglianteada.it

Il progetto ha l’obiettivo di promuovere una cultura dell’inclusione sociale partendo dalla convinzione che la disabilità, legata all’atrofia muscolare spinale (SMA), possa essere affrontata ponendo attenzione, non ai deficit che la malattia genera, ma alle risorse che possiede chi ne è affetto. Inoltre il messaggio che la SMAgliante Ada vuole trasmettere è quello che è possibile trovare nella malattia una dimensione di leggerezza.

Le avventure della SMAgliante Ada 2020 2021 Recensione del fumetto Fig 1

 

L’atrofia muscolare spinale è una malattia neuromuscolare causata dalla mutazione di un gene che codifica per la proteina SMN necessaria per la vita cellulare dei motoneuroni e per il loro corretto funzionamento. È importante, per i bambini in genere e per i piccoli affetti da SMA, conoscere da tutti i punti di vista, anche quello scientifico, questa patologia genetica e progressiva così che sarà più semplice raggiungere l’inclusione che migliora la vita dei bimbi malati e di quelli sani.

Protagonista di entrambi i fumetti, realizzati da un team multidisciplinare di educatori, psicologi, medici, disegnatori, sceneggiatori e consulenti dell’associazione famiglie SMA, è Ada una cagnolina nata con l’atrofia muscolare spinale, che si muove sulla sua carrozzina elettrica di color rosso intenso. Nel fumetto vi sono delle tavole didattiche semplici che riguardano gli aspetti scientifici della malattia e vengono spiegate da Ada ai bambini.

La SMAgliante Ada vive tante avventure, ciascuna di queste è pensata e realizzata con un intento didattico. Le peripezie della cagnolina riguardano fatti delle quotidianità e mostrano come vivere le emozioni e gestire le relazioni. Le storie fantastiche vissute dalla SMAgliante Ada e dai suoi compagni raccontano come ognuno di noi sia unico e diverso dagli altri e come questa diversità sia preziosa perché ciascuno possa realizzarsi al meglio.

Questo fumetto che può essere definito ‘’letteratura disegnata’’ è uno strumento di comunicazione a tutto tondo, che tratta in un modo nuovo il tema dell’inclusione sociale dei bambini con disabilità. Il gruppo di lavoro, che ha permesso la realizzazione di questo progetto, ha dimostrato un’eccezionale capacità e professionalità.

 

E se una sostanza allucinogena fosse essa stessa un rimedio per il disturbo da uso di sostanze?

Il disturbo da uso di sostanze (ing. Substance Use Disorder, SUD) è una condizione per la quale l’utilizzo di uno o più psicoattivi porta a una compromissione clinicamente significativa o a disagio (American Psychiatric Association, 2013).

 

Il disturbo da uso di sostanze si riferisce quindi all’uso eccessivo di una droga che porta a effetti dannosi per la salute fisica e mentale di un individuo, o per il benessere di altri individui. Questo disturbo è caratterizzato da un modello di uso continuato patologico di una sostanza, che si traduce in conseguenze sociali avverse, come il mancato rispetto degli obblighi di lavoro, di famiglia o di formazione, ma anche in conflitti interpersonali e problemi legali (Mosby’s Medical, Nursing & Allied Health, 1998).

Secondo lo studio sul carico globale delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità, circa 11,8 milioni di persone in tutto il mondo soffrono di tossicodipendenza (Degenhardt et al., 2010). Diversi fattori contribuiscono al rischio di sviluppare il disturbo da uso di sostanze, inclusi fattori socioeconomici, come stile ed eventi di vita, episodi avversi (sia durante l’infanzia, sia in corso), disponibilità di farmaci o accettazione culturale dell’uso di droghe, e disturbi psichiatrici, come depressione, disturbo bipolare, disturbi d’ansia, e schizofrenia (Weiss et al., 1992).

Il trattamento del disturbo da uso di sostanze

Il trattamento del disturbo da uso di sostanze spesso comporta interventi sia farmacologici, sia psicologici, come la terapia cognitivo comportamentale, il colloquio motivazionale, la terapia familiare. Nonostante la crescente efficacia del trattamento di questo disturbo, ancora il 50-60% dei pazienti con disturbi da uso di droghe e alcol presenta delle recidive entro 6-12 mesi dopo il trattamento (Cornelius et al., 2003). Sono quindi urgentemente necessari nuovi trattamenti che si concentrino preferibilmente sulla riduzione del craving e del successivo uso massiccio di sostanze.

Sebbene possa risultare paradossale, alcuni studi hanno dimostrato come alcune sostanze allucinogene abbiano effetti significativi sulla riduzione della sintomatologia correlata al disturbo da uso di sostanze.

Come risultato della sua popolarità ricreativa degli anni ’60, il potenziale di abuso di LSD è stato vietato nel 1967, e ciò ha ridotto notevolmente la ricerca scientifica in questo campo. Recentemente, un altro allucinogeno, la psilocibina, ha guadagnato popolarità nella ricerca neuropsicologica. È stato dimostrato che la sostanza allucinogena contenuta in particolari specie di funghi, possa aumentare la flessibilità cognitiva e comportamentale (Gallimore, 2015) e le valutazioni di atteggiamento positivo, umore, effetti sociali e comportamento a due mesi di follow-up (Griffiths et al., 2008). Uno studio ha anche riportato cambiamenti positivi nell’atteggiamento e nel comportamento dopo una singola dose di psilocibina, cambiamenti persistenti per 25 anni (Doblin, 1991). È stato anche dimostrato che la psilocibina riduce i sintomi depressivi nei malati terminali di cancro (Grob et al., 2011). Questi risultati suggeriscono che la psilocibina potrebbe essere un composto prezioso per il trattamento delle condizioni psicologiche e psichiatriche.

L’uso della psilocibina nel trattamento del disturbo da uso di sostanze

Nella review del 2017 di de Veen e colleghi, gli autori evidenziano come la struttura chimica della psilocibina sia simile a quella della serotonina. Le disregolazioni del sistema serotoninergico sono associate ad alterazioni degli ormoni dello stress, come il cortisolo, e a variazioni dell’umore. Dopo la somministrazione di psilocibina, i livelli di cortisolo tendono ad aumentare, attivando la rete di controllo esecutivo, con conseguente aumento del controllo sui processi emotivi, nonché sollievo dal pensiero negativo e dalle emozioni negative persistenti. È importante sottolineare che la psilocibina ha un basso rischio di tossicità e di induzione di dipendenza e può essere utilizzata in sicurezza in condizioni cliniche controllate (de Veen et al., 2017).

Con la quantità limitata di effetti collaterali segnalati e i potenziali effetti benefici della psilocibina nel disturbo da uso di sostanze, de Veen e collaboratori credono fermamente che ci siano valide ragioni per indagare ulteriormente sull’efficacia terapeutica e sulla sicurezza della psilocibina come potenziale trattamento del disturbo da uso di sostanze (de Veen et al., 2017). Gli autori ipotizzano in particolare due meccanismi d’azione della psilocibina che potrebbero mediare le sue proprietà anti-assuefazione. Da un lato, la sostanza può esercitare le sue proprietà anti-assuefazione con effetti benefici su stati emotivi negativi e stress. D’altra parte, la psilocibina può migliorare la rigidità cognitiva e la compulsività. Data la sua implicazione nella modifica dei processi emotivi e comportamentali, il team di de Veen ipotizza che essa possa migliorare il funzionamento cognitivo e alleviare i sintomi legati all’ansia e alla depressione associati al disturbo da uso di sostanze (de Veen et al., 2017).

La ricerca sull’efficacia della psilocibina sul disturbo da uso di sostanze è ancora limitata; di conseguenza, molti importanti quesiti relativi all’uso dell’allucinogeno come complemento all’attuale trattamento del disturbo da uso di sostanze e ai suoi meccanismi di funzionamento rimangono senza risposta. Prima che la psilocibina possa essere implementata come opzione di trattamento per il disturbo da uso di sostanze, è bene sottolineare l’indispensabilità di studi sperimentali più approfonditi.

 

Niente più Esame di Stato per psicologi e non solo – Approvata in Senato l’abilitazione alla professione tramite titoli universitari

Niente più Esame di Stato per psicologi e non solo. Il titolo di studio magistrale sarà abilitante alla professione, ciò consentirà ai giovani laureati di entrare nel mondo della formazione specialistica e/o del lavoro in modo più veloce e diretto. 

 

Abolizione dell’Esame di Stato: approvato in Senato il Ddl 2305

Nella giornata di giovedì 28 Ottobre 2021, durante la 372ª Seduta pubblica, il Senato ha approvato definitivamente, con 184 voti favorevoli, il ddl 2305, collegato alla manovra di bilancio, recante disposizioni in materia di titoli universitari abilitanti. Il provvedimento prevede, all’articolo 1, che l’esame di laurea magistrale abiliti all’esercizio delle professioni di odontoiatra, farmacista, medico veterinario e psicologo (Senato della Repubblica, 2021).

Già approvato alla Camera dei Deputati lo scorso giugno, il provvedimento dà attuazione a uno degli interventi di riforma indicati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che l’Italia ha inviato alla Commissione europea, pensato per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro a giovani professionisti.

Cosa cambia?

Niente più Esame di Stato dunque, ma l’esame conclusivo del corso di studi universitario sarà coincidente con l’Esame di Stato, sì da ridurre i tempi di inserimento nel mercato del lavoro e nel mondo delle specializzazioni post-lauream.

Il primo corso di laurea per cui era stata eliminata l’abilitazione professionale è stata quello di Medicina, a seguito del decreto Cura Italia, scelta motivata dal forte bisogno di operatori sanitari durante la prima fase dell’emergenza Covid-19 (Redazione SkyTG24, 2021). Ora tale decisione si estende, tra le altre, alle lauree in odontoiatria e protesi dentaria (classe LM-46), in farmacia e farmacia industriale (classe LM-13), in medicina veterinaria (classe LM-42), nonché alla laurea magistrale in psicologia (classe LM-51).

L’abolizione dell’Esame di Stato e l’abilitazione diretta tramite conseguimento di titoli universitari saranno rese possibili da una modificazione dei percorsi di studio, in cui sarà garantita una più alta preparazione tecnico-pratico e la verifica della stessa. Questo aspetto consentirà all’Italia di allinearsi al resto d’Europa, imponendo agli atenei di ripensare l’offerta formativa in una direzione meno teorica e più pratica, per l’appunto, e maggiormente orientata alla professione grazie all’integrazione nel percorso di studi di stage e tirocini formativi.

Nell’ambito delle attività formative professionalizzanti previste per le classi di laurea magistrale, infatti, almeno 30 crediti formativi universitari saranno acquisiti con lo svolgimento di un tirocinio pratico-valutativo interno ai corsi di studio. Le specifiche modalità di svolgimento, valutazione e certificazione del tirocinio, saranno stabilite dalle singole classi citate e dai regolamenti didattici di ateneo dei relativi corsi di studio.

L’abilitazione tramite conseguimento di titoli universitari avrà decorrenza dall’anno accademico successivo a quello in corso alla data di adozione dei decreti rettorali cui è demandato l’adeguamento dei regolamenti didattici di ateneo ai sensi del disegno di legge in esame.

E per chi consegue la laurea prima dell’entrata in vigore del ddl?

Ci saranno modalità semplificate di espletamento dell’Esame di Stato per coloro che hanno conseguito o che conseguono i titoli di laurea previsti “dalla presente legge” in base ai previgenti ordinamenti didattici (privi del carattere abilitante). A tal fine, le università sono tenute a riconoscere le attività formative professionalizzanti svolte durante il corso di studio o successivamente al medesimo. Per gli studenti che hanno conseguito o conseguono la laurea magistrale in psicologia in base ai previgenti ordinamenti didattici non abilitanti, si stabilisce che questi ultimi acquisiscono l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo previo superamento di un tirocinio pratico-valutativo e di una prova pratica valutativa. Ai fini della valutazione del citato tirocinio, le università riconoscono le attività formative professionalizzanti svolte successivamente al corso di studi.

Coloro che invece hanno concluso il tirocinio professionale (ai sensi della normativa vigente, ex articolo 52, comma 2, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 giugno 2001, n. 328) acquisiscono l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo previo superamento di una prova orale su questioni teorico-pratiche relative all’attività svolta durante il medesimo tirocinio professionale, nonché su aspetti di legislazione e deontologia professionale (Quotidiano Sanità, 2021).

Titoli abilitanti e mondo del lavoro

Il ministro dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, ha così commentato (Il Sole 24ore, 2021):

L’approvazione all’unanimità al Senato della legge sui titoli universitari abilitanti è il segno che l’attenzione verso i giovani sta davvero tornando protagonista nel Paese. Con questa norma permettiamo alle nostre studentesse e ai nostri studenti di accedere al mondo del lavoro subito, senza aspettare anni di tirocinio e l’esame di stato per potere iniziare, li mettiamo in collegamento con i professionisti già durante il corso di laurea e diamo ancora più valore al loro tempo e ai loro studi

 

L’analfabetismo funzionale: la delimitazione concettuale e sociale sempre più preoccupante in Italia

In Italia il fenomeno dell’analfabetismo funzionale non è affatto sconosciuto, al contrario raggiunge percentuali preoccupanti.

 

Un tempo si parlava di analfabetismo e di assenza di scolarizzazione, oggi si parla ancora di analfabetismo ma quasi mai lo si fa per riferirsi al puro termine isolato.

Si parla spessissimo, invece, di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) specialmente in ambito scolastico. Poca attenzione però viene rivolta ad un altro disturbo tanto importante quanto diffuso: l’analfabetismo funzionale.

Si sente parlare pochissimo di questo fenomeno sebbene i dati e le statistiche siano allarmanti. Ma che cos’è? È una via di mezzo tra l’analfabetismo e i DSA? Nient’affatto, come invece si potrebbe pensare.

Spiegarlo non è così semplice ma per comprendere meglio di cosa si tratta è bene offrire prima una definizione di analfabetismo funzionale: si tratta di una condizione nella quale il soggetto, pur avendo ricevuto una corretta istruzione e scolarizzazione, non è pienamente capace di comprendere un testo che gli permetta poi di inserirsi in maniera adeguata e congrua all’interno di una discussione tra gli altri soggetti.

È subito chiara la differenza rispetto al “semplice” analfabetismo, in quanto in quest’ultimo caso spesso non si ha a che fare con la presenza di scolarizzazione (quindi la capacità di saper leggere in maniera fluida, scrivere in modo chiaro e fare operazioni di calcolo). Il classico leggere, scrivere e fare di conto.

Nel caso dell’analfabetismo funzionale il soggetto è incapace, in parole povere, di mettere in atto e utilizzare in modo corretto e adeguato queste sue abilità. L’analfabetismo funzionale, oltre al normale analfabetismo non va nemmeno equiparato ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento perché questi riguardano deficit neurologici e capacità elaborative che interessano linguaggio scritto, scrittura, lettura, disgrafia e calcolo. Non a caso il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) li inserisce all’interno dei Disturbi del Neurosviluppo.

Sia nei casi di DSA che nell’analfabetismo funzionale vi è però la presenza capacità cognitive nella norma; nel primo caso però ci sono delle mancate connessioni neuronali tra zone del cervello specifiche (DSA), mentre nell’analfabetismo funzionale vi è un importante declino delle abilità.

Impatto dell’analfabetismo funzionale nella società

In Italia questo fenomeno non è affatto sconosciuto, al contrario conosce percentuali preoccupanti. Lo confermano dati recentissimi, quelli raccolti e analizzati dall’indagine OCSE-PIAAC del 2019. In Italia quasi il 30% della popolazione compresa tra i 16 e i 65 anni è di fatto analfabeta funzionale ed è uno dei Paesi peggiori d’Europa.

In tutto il mondo, invece, sono circa 773 milioni i giovani e gli adulti che non possono vantare un’alfabetizzazione di base.

Si ipotizza che con la pandemia dovuta al Covid-19, i numeri, quando verranno rilevati nuovamente a distanza di qualche anno, saranno aggravati non soltanto in Italia ma anche nel resto del mondo, a causa del fatto che moltissimi giovani sono rimasti a casa da scuola in didattica a distanza. Perché l’analfabetismo funzionale è più una forma di illetteratismo, i giovani non solo sono incapaci di comprendere un testo che leggono ma persino di capirne il significato intrinseco.

Per non parlare delle ricadute a livello socioeconomico. È risultato che gli analfabeti funzionali sono più facilmente soggetti a intimidazione sociale, a rischi per la salute, a varie forme di stress e a bassi guadagni.

La correlazione tra criminalità e analfabetismo funzionale è ben nota a criminologi e sociologi: solo nei primi anni 2000 è stato stimato che il 60% degli adulti nelle carceri degli Stati Uniti fosse funzionalmente o completamente analfabeta, e che l’85% dei delinquenti minorenni avesse problemi riguardanti la lettura, la scrittura e la matematica elementare.

Ma tornando all’attuale situazione pandemica l’analfabetismo funzionale svolge un ruolo importantissimo nella comprensione e nell’elaborazione delle fake news. Gli analfabeti funzionali sembrano essere poco dotati nella capacità di riconoscere le informazioni fondate e quelle false o distorte. Gli analfabeti funzionali tendono a credere a notizie false e aiutare la loro diffusione, non ci stupirà più di tanto constatare allora che, nell’epoca rosa di Internet e dei social network, dove chiunque può pubblicare facilmente informazioni che possono raggiungere milioni di persone in un click, il problema sta assumendo dimensioni importanti. Pensiamo ora alla disinformazione legata ai temi medico sanitari e alle conseguenze che stiamo vivendo.

Gli interventi per l’analfabetismo funzionale

E allora quali possono essere le strategie di intervento per l’analfabetismo funzionale? Istruzione e formazione alla base di tutto.

La qualità dell’istruzione è l’unico modo per prevenire l’analfabetismo funzionale perché lettura ed elaborazione personale dei testi possono davvero aiutare a migliorare la comprensione e la capacità di scrittura. Anche l’E-learning ha ricevuto importanti evidenze scientifiche come intervento a favore dell’analfabetismo funzionale poiché stimola l’utilizzo di metodi diversi e originali per coinvolgere in maniera interattiva e flessibile il soggetto.

L’E-learning permette l’apprendimento tramite vere e proprie “simulations”, aiutando persone con difficoltà di lettura e scrittura a comprendere situazioni reali oltre che nel processo di decision making; dona poi l’opportunità di servirsi dello stesso contenuto digitale in diversi modi: formato testo, formato video oppure formato audio.

L’impegno cognitivo, che di norma viene minacciato dalle incapacità del soggetto e blocca l’apprendimento, tramite l’E-learning può essere riequilibrato perché permette di suddividere gli argomenti da studiare in micro-contenuti.

Ma la scuola da sola non basta a combattere questo fenomeno se queste abilità personali non vengono anche e soprattutto continuamente stimolate nella vita di tutti i giorni, attraverso libri e scritture. Siamo sempre qui, è tutta una questione di allenamento e di pratica. Allora ci vorrebbe un ruolo della scuola più marcato, così come il ruolo della famiglia e la passione per la lettura.

Per esempio, la lettura individuale, anche ad alta voce, aiuta la mente ad essere attiva ed aperta e stimola il pensiero individuale. Mantenere attive queste capacità basilari per la vita dell’uomo, non solo in quanto Homo Sapiens ma in quanto smanioso di relazioni sociali, mantiene la nostra mente attiva, allenata e giovane.

Comprendere il contenuto verbale di testi e dialoghi, saper valutare i dati e le statistiche con le quali ci tartassano ogni ora del giorno e saper usare in maniera corretta la tecnologia e Internet per non farci instupidire da tutto quello che ci dicono dovrebbe essere una priorità.

 

L’applicazione dell’ACT con i genitori durante la pandemia di Covid-19

L’ACT pone attenzione a tre aspetti fondamentali: mindfulness e accettazione, azioni impegnate e in linea con i nostri valori e self-compassion.

Marta Chemello – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

La pandemia di Covid-19 ha messo a dura prova le famiglie, alcuni genitori hanno continuato il loro impiego, aumentando il rischio di possibili contagi all’interno della propria famiglia, altri ancora sono stati alle prese con le richieste scolastiche poste ai loro figli.

A loro volta alcuni genitori avevano la propria famiglia di origine di cui prendersi cura. A ciò si aggiungono ulteriori difficoltà dovute alle caratteristiche dei propri figli, che possono manifestare fragilità dal punto di vista emotivo oppure difficoltà a livello comportamentale. Di conseguenza molti genitori si sono trovati a rivestire ruoli tra loro eterogenei che, in alcune circostanze, hanno aumentato i livelli di stress percepiti.

Cos’è l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) si può proporre come modello per l’intervento con genitori che manifestano difficoltà nella gestione dei propri figli sia in periodo di incertezza, come il presente, sia in momenti di ordinaria quotidianità. Tale modalità d’intervento è stata infatti utilizzata con successo in genitori di bambini con autismo (Da Paz &Wallander, 2017), con malattie croniche (Irwin, Jesmont&Basu, 2019) o in situazioni di stress genitoriale (Gouveia, Carona, Canavarro&Moreira, 2016). Lisa Coyne e collaboratori (2020) hanno proposto una modalità d’intervento indirizzata a promuovere nei genitori una maggior flessibilità psicologica e una più intensa attenzione verso la cura di sé. La flessibilità psicologica viene descritta come la capacità di comprendere la situazione attuale, rimanendo consapevoli di ciò che sta succedendo nel presente al fine di adattare il nostro comportamento alle specifiche richieste della situazione (Hayes, Strosahal & Wilson, 2012; Kashdan & Rottenberg, 2010). La cura di sé implica invece la capacità di occuparsi della propria salute fisica e mentale. Poiché questi elementi appaiono fondamentali nella regolazione emotiva durante i periodi di maggiore difficoltà, l’ACT pone attenzione a tre aspetti fondamentali che ben promuovono le competenze sopra citate: mindfulness e accettazione, azioni impegnate e in linea con i nostri valori e self-compassion.

Le indicazioni fornite sono pertanto le seguenti:

  • ricordare a noi stessi che anche i piccoli obiettivi che ci poniamo sono importanti e possono dare avvio a cambiamenti di maggiore entità;
  • non pensare sia necessario intervenire su molti aspetti contemporaneamente, poiché le differenti aree della nostra vita sono tra loro correlate; dunque cambiamenti in una di esse possono portare a delle modificazioni anche in altri ambiti;
  • guidare i genitori ad identificare le loro modalità di interazione con i propri figli piuttosto che sostenere la loro ricerca dell’essere dei genitori perfetti;
  • dare importanza anche ai più piccoli gesti e ai brevi momenti di condivisione;
    incoraggiare i genitori a cercare aiuto, mantenendo i legami con amici e parenti che li possono sostenere nei momenti di difficoltà;
  • promuovere nei genitori la capacità di osservarsi dall’esterno, magari attraverso lo sguardo di una persona a loro cara.

Come applicare l’ACT nella vita quotidiana

Come fare quindi per seguire i consigli fin qui forniti?

Seguendo la proposta di Coyne diventa fondamentale essere presenti a ciò che ci accade nel qui ed ora, ricordando a noi stessi che anche i piccoli gesti ed attenzioni sono importanti. Inoltre è fondamentale accettare ciò che ci accade, non in maniera passiva, ma mantenendosi aperti anche alle inevitabili emozioni spiacevoli che sperimentiamo nella nostra quotidianità; ciò permette ai genitori di riconoscere che anche a loro sono concessi dei momenti di vulnerabilità.

Altro elemento saliente è l’abilità di defusione, che consiste nell’adattarci con maggior facilità a ciò che ci accade, iniziando magari prendendo semplicemente consapevolezza di quello che ci sta succedendo e ricordando che i nostri pensieri sono semplicemente pensieri. Un’ulteriore indicazione che viene fornita consiste nel promuovere nei genitori la capacità di osservare se stessi dall’esterno con l’obiettivo di notare i loro comportamenti, sia quelli efficaci che non.

In secondo luogo promuovere nei genitori il riconoscimento dei loro valori li porta ad una maggior consapevolezza di ciò che davvero conta per loro; una volta fatto ciò sarà per loro possibile scegliere quali comportamenti attuare.

Infine incoraggiare i genitori a fermarsi e fare qualcosa per se stessi, in questo modo si ridurranno i sentimenti di autocritica e si accetteranno le proprie imperfezioni. Se ciò risultasse per loro difficile, i caregiver potrebbero dedicare a se stessi ciò che consiglierebbero ad un caro amico che ha trascorso una giornata difficile. Fortunatamente la pandemia ha una caratteristica di universalità che ci permette facilmente di condividere il nostro attuale stato d’animo con gli altri, mantenendo attiva la condivisione di emozioni e sentimenti a volte spiacevoli.

Le indicazioni fornite in questo articolo potrebbero essere utili da condividere con i genitori che arrivano a noi in questi mesi, preoccupati da un anno scolastico fatto di possibili nuove interruzioni dovute alla pandemia; fornire loro delle nuove abilità o suggerire loro semplici indicazioni potrebbe contribuire al miglioramento della salute mentale e favorire lo sviluppo di una più serena relazione con i loro figli.

 

La storia di Sandor Ferenczi e i suoi contributi nel contesto psicoanalitico

L’approccio con la psicoanalisi, per Ferenczi, avviene ben prima di fare la conoscenza degli scritti freudiani, quando ancora adolescente si interessa di ipnosi

 

Sándor Ferenczi è da molti considerato uno degli psicoanalisti più importanti della sua generazione, sicuramente tra i più innovativi, in grado, grazie alle sue sperimentazioni, di spostare l’attenzione al di fuori della dottrina psicoanalitica, buttandosi trasversalmente sullo studio della psiche umana attraverso approcci differenti e spesso poco ortodossi. La storia del medico ungherese è anche la storia della psicoanalisi, la storia di Freud, la storia di un momento preciso in cui l’Europa passa dal progresso scientifico alla devastazione del primo conflitto mondiale, il primo vero conflitto moderno. I destini di Ferenczi e del padre della psicoanalisi sono legati non solo dalla pratica medica e psicoanalitica, ma anche da una comunanza religiosa (seppur secolarizzata) che li espone agli stessi pericoli e agli stessi pregiudizi. Si tratta di una relazione complessa, carica di proiezioni e aspettative, e caratterizzata anche da incomprensioni spesso alimentate dagli stessi colleghi della neonata comunità psicoanalitica.

Il rapporto tra Ferenczi e Freud

Il rapporto tra i due medici fu comunque un rapporto anche di fiducia e collaborazione in cui il sentimento di amicizia non è mai venuto meno, nemmeno negli ultimi anni di vita di Ferenczi quando, contrariato dalla pubblicazione di Confusione delle lingue, Freud ne concesse comunque la presentazione al congresso di Wiesbaden, il 4 settembre 1932, dove fu accolto con critica e disappunto. Ne permise la lettura nonostante la resistenza di molti e infine, complici anche le presunte voci sulla sua malattia mentale, se ne impedì la pubblicazione postuma sull’International Journal of Psycho-Analysis.

Sándor Ferenczi nasce a Miskolc, in Ungheria il 7 luglio 1873. Ottavo dei dodici fratelli di Baruch Frankel un piccolo editore della Galizia. Ferenczi perde il padre prematuramente lasciando alla madre, una donna dal carattere poco sentimentale e piuttosto pratico, la gestione dell’attività di famiglia. L’approccio con la psicoanalisi, per Ferenczi, avviene ben prima di fare la conoscenza degli scritti freudiani, quando ancora adolescente si interessa di ipnosi e sperimenta (con scarso successo) la pratica sulle sorelle e sugli impiegati dell’azienda di famiglia. Da giovane medico assistente sopporterà con fatica l’incarico all’ospedale Ròkus di Budapest, nel reparto dedicato alle prostitute. Il 1907 è l’anno che sancisce il suo ingresso nell’area psicoanalitica, nonostante il primo incontro con Freud avverrà solo l’anno successivo.

Nel 1908, infatti, finalmente incontra Freud e ha inizio la sua carriera psicoanalitica con la pubblicazione dei suoi primi scritti sull’argomento: Il significato dell’eiaculazione precoce, Le nevrosi alla luce dell’insegnamento freudiano e la psicoanalisi, Interpretazione analitica e trattamento dell’impotenza psicosessuale, Psicoanalisi e pedagogia. È da collocarsi presumibilmente sempre nel 1908 il primo trattamento psicoanalitico condotto da Ferenczi.

Sarà di particolare importanza per la crescita dello psicoanalista ungherese anche il rapporto con Gizella (che diverrà sua moglie) ed Elma, la figlia di Gizella che egli, in una sorta di relazione familiare, condividerà con Freud. Gizella, infatti, riceverà diverse lettere dal padre della psicoanalisi ed egli stesso spingerà, con l’autorità del padre, Ferenczi verso il matrimonio promuovendone la causa amorosa. Nel frattempo, Ferenczi, su richiesta della madre, inizierà un’analisi con Elma, che provocherà un leggero dissidio con Freud in termini di ortodossia psicoanalitica. Freud, infatti, ammette in una lettera destinata al collega “Le auguro un grande successo pratico nella Sua nuova impresa con la sig.na Elma, ma temo, devo ammetterlo, che la cosa funzionerà bene solo fino ad un certo punto”.

Freud nel suo Introduzione alla psicoanalisi aveva già esposto alcuni dubbi riguardanti l’analisi di congiunti o persone con cui si condivide relazioni significative, poiché ciò, secondo Freud, provocherebbe inevitabilmente una intrusione intima e influenzerebbe negativamente il percorso psicoanalitico con il paziente. Regola che però non avrà problema ad infrangere quando si tratterà più tardi di prendere in analisi Anna Freud, la sua stessa figlia. Egli non sarà l’unico a contravvenire alla regola esposta nel trattato, tra i tanti psicoanalisti figurano Abraham, Jung e la futura allieva di Ferenczi, Melanie Klein; senza considerare poi l’analisi didattica che i membri della Società Psicoanalitica di Vienna porteranno avanti tra di loro in una promiscuità psicoanalitica, molto spesso dettata dalla mancanza di pazienti fidati su cui agire da sperimentatori.

In ogni caso, durante tutta la fase di collaborazione e di amicizia con Freud, Ferenczi ha sempre mantenuto il ruolo del figlio. Un ruolo che Freud, vittima della sua tendenza a divenire un padre per i suoi discepoli, ha sempre alimentato. Caratteristica questa, che spingerà lo psicoanalista ungherese a non sentirsi mai realmente “cresciuto”; egli, infatti, si sentirà come un ragazzino impossibilitato a raggiungere la maggiore età, fino a quando il silenzio rispettoso del figlio varcherà le soglie dell’età adulta trasformandosi in un j’accuse all’ortodossia freudiana nel suo Diario clinico (Ferenczi, 1932). Per alcuni, la rottura definitiva con Freud avviene nel 1931, secondo altre fonti invece si passa al 1932 con la redazione del suo Confusione delle lingue tra adulti e bambini. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione che verrà pubblicato postumo nel 1933.

La rottura tra Ferenczi e Freud

Egli viene visto come un eretico della dottrina da alcuni membri delle società psicoanalitiche anche se la diffamazione raggiunge livelli inverosimili quando viene accusato di attuare approcci che prevedono baci e carezze che trasformano la terapia in una relazione amorosa. Il collega Jones, successivamente, nel suo Vita e opere di Sigmund Freud (Jones, 1953), rincarerà la dose di calunnie dipingendo un Ferenczi alla ricerca di una compensazione sensuale nei confronti dei pazienti e afflitto da malattia mentale, lasciando intendere che la morte sarà in parte causa anche di questo suo malessere psichico. Ci vorranno sessant’anni perché lo stigma dovuto a queste illazioni venga dissolto, riscoprendo nei suoi scritti non solo una deviazione di fondamentale importanza dall’ortodossia psicoanalitica freudiana ma soprattutto perché venga compreso dalla comunità psicoanalitica il lascito scientifico e letterario di un gigante della psicoanalisi che aveva da sempre considerato il paziente come individuo e non come sintomo. Ferenczi si ammalò di anemia perniciosa con gravi conseguenze neurologiche e morì qualche anno dopo, il 22 maggio del 1933 in seguito a complicanze derivanti da tale patologia.

Il lascito di Ferenczi

Egli non si considerò mai come un eretico e il suo scopo non fu mai quello di discostarsi da Freud per creare una propria dottrina psicoanalitica, come fecero altri colleghi. Il suo lascito psicoanalitico non si compone di scuole di pensiero o di dottrine racchiuse in rigidi manuali ma bensì di sperimentazioni e princìpi. Sándor Ferenczi, sia quando stravolse il complesso di Edipo con la sua teoria sul trauma, sia quando enunciò le sue teorizzazioni sul processo transferale come relazione simmetrica, si affidò sempre a princìpi piuttosto che a regole o dottrine. Egli modificò la tecnica sulla base del singolo paziente e fece di tutto per entrare nel setting terapeutico, non come osservatore imparziale, ma come parte integrante di una costruzione relazionale. L’insegnamento più grande che può ancora impartire a chiunque si occupi di psicologia e psicoterapia in generale forse rimane quello di non legarsi troppo alle teorizzazioni ed ai manuali, ma di agire tentando di scoprire ogni volta la persona che si ha davanti come se si volgesse lo sguardo verso un universo nuovo, di cui non si conosce nulla e dal quale si ha tutto ancora da imparare.

 

Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione (2021) a cura di Lucilla Castrucci – Recensione

Nel testo Gli aspetti multidisciplinari dell’ansia patologica e le tecniche di gestione l’autrice approfondisce la tematica dell’ansia, operando anzitutto un distinguo tra ansia normale e ansia patologica.

 

Da un punto di vista etimologico la parola ansia deriva dal latino “angere”, che significa “stringere”, fornendo chiaramente l’idea di costrizione, minaccia, tensione esperita dai soggetti che ne soffrono.

Variabili utili alla discriminazione tra ansia funzionale e ansia disfunzionale, dunque patogena, sono l’intensità, la durata e la modalità di comparsa: un’attivazione psico-fisiologica intensa, durevole e ingiustificata comportano disagio nel soggetto. Tuttavia, il marcatore di cut-off è determinato dalla funzione adattativa che lo stato affettivo-emotivo deve avere per l’individuo che, di fronte ad una minaccia o ad uno stress, lo induce a reagire.

Il discrimine non è tuttavia semplice, dal momento in cui la percezione del pericolo che ciascun soggetto possiede è frutto di apprendimenti ed educazione ricevuta.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riporta come, in Europa, circa un terzo della popolazione, abbia sofferto almeno una volta nella vita di un disturbo d’ansia.

Tenendo in considerazione i principali manuali diagnostici, DSM 5 e ICD-10, nel testo si elencano i criteri necessari alla diagnosi dei diversi quadri ansiosi: ansia generalizzata, fobia specifica, mutismo selettivo, ansia da separazione, fobia sociale, agorafobia, disturbo di panico.

In riferimento alle manifestazioni cliniche, l’ansia si associa sia a sintomi somatici, come aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, piloerezione, dilatazione pupillare, alterazioni gastrointestinali ed urinarie, determinati da un’iperattività del sistema nervoso autonomo, sia a sintomi psichici, quali difficoltà di concentrazione, irritabilità, apprensione, autosvalutazione, catastrofismo, vergogna.

Altro distinguo centrale è tra ansia di stato e ansia di tratto, laddove con ansia di stato si intende un arresto momentaneo del normale assetto emozionale, mentre nel secondo caso essa si configura come un tratto piuttosto stabile della personalità, predisponendo il soggetto allo sviluppo di un disturbo ansioso.

Esempi relativi all’ansia di stato sono forniti in merito ad interventi medici invasivi, comportando un peggioramento delle condizioni generali e una maggiore percezione del dolore, andando ad interferire negativamente con le cure.

La percezione del dolore, oltre che essere direttamente collegabile al danno fisico, è riconducibile all’interpretazione personale della gravità del quadro: si comprende come tale percezione non sia uguale per tutti i soggetti, ma, al contrario, la medesima esperienza algica, può, in individui diversi, dar vita a differenti interpretazioni. Le credenze e, di conseguenza, le aspettative del soggetto circa il dolore e la possibilità di provarlo influenzano l’effettiva percezione del dolore fisico.

Le informazioni relative all’ansia e alla paura giungono dapprima nella corteccia sensoriale, per essere elaborate e trasferite alle strutture sottocorticali, talamo e amigdala, responsabili delle risposte affettive, comportamentali e somatiche.

Non è semplice distinguere tra ansia e paura, tuttavia, lo stimolo alla base dello stato affettivo della paura è generalmente un pericolo oggettivo e di natura non conflittuale, di contro l’ansia è collegata a conflitti intrapsichici o stimoli vaghi. Inoltre, mentre la paura sembrerebbe inibire il dolore, attivando risposte di fuga o attacco, l’ansia intensificherebbe la percezione di dolore provato, portando ad un incremento della ricettività sensoriale ed a focalizzare maggiormente gli stimoli sensoriali, tramite un meccanismo di attenzione selettiva.

In ambito medico si fa ricorso ad esercizi di immaginazione guidata che, tramite la visualizzazione di immagini mentali, aiutano i pazienti a gestire in maniera adeguata gli stati ansiosi.

L’autrice approfondisce gli aspetti eziologici dei disturbi ansiosi, prettamente multifattoriali, e le diverse teorie atte a spiegare il modello dell’ansia.

Secondo l’approccio cognitivo comportamentale le reazioni ansiose derivano da apprendimenti di risposte di attacco o fuga a stimoli inizialmente neutri, che, fissate in memoria, si riattivano riproponendo all’individuo un vissuto di imminente pericolo.

L’orientamento psicodinamico collega l’origine degli stati affettivi ansiosi a conflitti interni all’individuo.

Da un punto di vista terapeutico i disturbi d’ansia sono trattabili con farmaci, antidepressivi e benzodiazepine, da associare ad un percorso psicoterapeutico.

L’approccio con maggiore evidenza scientifica è sicuramente la terapia cognitivo comportamentale, che richiede un ruolo attivo del paziente e l’accettazione di obiettivi condivisi. Dopo aver ricostruito lo schema di funzionamento del disturbo e la sua storia, terapeuta e paziente lavorano per individuare i pensieri disfunzionali, al fine di procedere alla ristrutturazione cognitiva. Dal momento in cui il paziente ansioso mette in atto comportamenti di evitamento che rinforzano le sue credenze, autoalimentando l’ansia in un circolo vizioso, la terapia utilizzerà l’esposizione graduale, al fine di scalfire le paure e dar vita a nuovi apprendimenti. L’ultimo step della terapia riguarda la prevenzione delle ricadute, dove si rende il paziente consapevole del fatto che i sintomi potrebbero ripresentarsi: in tal caso sarà chiamato ad utilizzare gli strumenti appresi in terapia.

Disturbi in comorbidità appesantiscono il quadro clinico.

Rimedi per manifestazioni lievi o moderate sono dati dalla medicina complementare alternativa; risolutivi sono gli esercizi sulla respirazione e l’utilizzo del training autogeno.

 

Intelligenza emotiva e disturbi alimentari: una revisione sistematica

Individui con alti livelli di intelligenza emotiva sembrano riportare minori preoccupazioni verso l’alimentazione e la forma fisica.

 

L’impatto delle emozioni negative sulle condotte alimentari è una tematica che negli ultimi decenni ha catturato l’attenzione di molteplici ricercatori (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020). A partire dai primi studi sul tema, è emerso che deficit nell’elaborazione emotiva assumono un ruolo cruciale nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi alimentari (DA) (Polivy & Herman, 1993), causando, specialmente, un aumento dei comportamenti di abbuffata (Tarrier et al., 2000).

La teoria e la ricerca empirica negli ultimi due decenni suggeriscono che l’intelligenza emotiva (IE), ovvero la capacità di elaborare e regolare le emozioni in maniera adattiva (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020), può essere un fattore protettivo cruciale nei disturbi alimentari, ma nessuna revisione sistematica ha esaminato l’associazione specifica tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari. Comprendere la relazione tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari risulta fondamentale, al fine di guidare i programmi di prevenzione e gli approcci terapeutici per gli individui con disturbo alimentare già diagnosticato o per i soggetti a rischio, motivo per cui il seguente estratto si focalizza proprio sul presentare i risultati emersi da una revisione sistematica della letteratura sul tema in popolazioni sia generali, che cliniche (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020).

La sintomatologia del disturbo alimentare è risultata essere frequentemente associata a problematiche interpersonali (Fox & Power, 2009), bassi livelli di assertività (Goldner et al., 1999) e maggiori difficoltà nel riconoscere l’espressione facciale (Stice, 2002). Inoltre, rispetto ai controlli, i pazienti con disturbi alimentari manifestano livelli di impulsività significativamente più alti (Ross & Wade, 2004).

In merito alla traiettoria evolutiva della relazione tra intelligenza emotiva e condotte alimentari, risulta fondamentale considerare le differenze sostanziali tra popolazione evolutiva e adulta, sia di natura fisiologica, che socio-emotiva. La letteratura sul tema, nella psicologia dello sviluppo, rivela che ogni transizione evolutiva può essere associata a cambiamenti significativi delle abilità di gestione emotiva e delle relative condotte alimentari in quel periodo specifico. Un recente studio, condotto su 30.000 individui con disturbi alimentari, in diversi stadi di sviluppo (prima adolescenza, tarda adolescenza, giovane età adulta ed età adulta medio-tardiva), ha rivelato che, al di là della sintomatologia nucleare condivisa, la problematica alimentare varia significativamente dall’adolescenza all’età adulta (Christian et al., 2020).

Il risultato trasversale, emerso dagli svariati studi analizzati, è un rapporto inversamente proporzionale tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari: gli individui con alti livelli di intelligenza emotiva hanno riportato minori preoccupazioni verso l’alimentazione e la forma fisica, contrariamente ai soggetti con bassa intelligenza emotiva, che hanno manifestato condotte alimentari più o meno disfunzionali. Gli studi recensiti indicano una correlazione negativa tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari nei diversi stadi di sviluppo (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020). La revisione sistematica presa in esame suggerisce risultati promettenti, ma pur sempre preliminari in merito alla relazione tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari nelle diverse fasi di sviluppo.

Risulta, dunque, doveroso presentare anche i limiti emersi nella revisione: in primis l’eterogeneità degli strumenti utilizzati per valutare l’intelligenza emotiva, la frequente assenza di strumenti diagnostici specifici per la valutazione della sintomatologia alimentare, disomogeneità campionaria, mancanza di ricerche prospettiche (tutti gli studi hanno utilizzato un disegno trasversale) ed infine non è stato tenuto conto delle modifiche incluse nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013). A causa di tali limiti, non è stato possibile condurre uno studio di meta-analisi (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020). Future indagini di coorte longitudinali potrebbero essere utili al fine di comprendere le implicazioni teoriche e cliniche dell’associazione tra intelligenza emotiva e alimentazione. L’obiettivo primario consiste nell’implementare programmi di prevenzione per i soggetti a rischio di disturbo alimentare, alla luce della letteratura emergente sulla relazione tra intelligenza emotiva e disturbi alimentari. Rivedere e aggiornare il corpus di conoscenze attuali sul tema consentirebbe di delineare lo stato dell’arte attuale in maniera puntuale, al fine di proporre future linee di ricerca, per trascendere i limiti attuali e per cimentarsi in ulteriori frontiere cliniche (Romero-Mesa, Pelaez-Fernandez & Extremera, 2020).

Mukbang Watching – Il nuovo fenomeno spopolato sul web

Il Mukbang Watching, dal coreano mokta (mangiare) e bangsong (trasmettere) è una trasmissione audiovisiva, prevalentemente trasmessa online, in cui una persona mangia cibo mentre interagisce con il proprio pubblico.

 

È possibile guardare tali trasmissioni su piattaforme di streaming come Afreeca, Youtube e Twitch.

Internet è un vero e proprio strumento di mediazione per consentire agli individui di impegnarsi in comportamenti specifici online (Griffiths, 1999). È ormai noto che la tecnologia ha facilitato l’uso di un’ampia varietà di attività (gioco d’azzardo, sesso online, shopping, social network) e tra queste rientra anche il Mukbang Watching.

Attualmente non si sa molto di questa pratica, che consiste in veri e propri spettacoli alimentari dove un mukbanger o un broadcat jokey (individuo nella trasmissione) mangia enormi quantità di cibo mentre interagisce con gli spettatori.

Il Mukbang è diventato popolare in Corea del Sud circa 10 anni fa (nel 2010) ed ha raggiunto una crescente popolarità in numerosi altri Paesi, dove tantissime persone accedono ad Internet ogni giorno per guardare i video dei Mukbanger (Hawthorne, 2019).

Questo fenomeno si è diffuso nei Paesi occidentali nel 2015, dopo che una popolare emittente americana ha caricato un video in cui commentava i video di Mukbang Sud-Coreani.

Mangiare “in compagnia” della propria comunità virtuale si può tradurre in una compensazione di esigenze individuali uniche (Balakrishnan e Griffiths, 2017), portando dunque a diverse forme di gratificazione derivanti da tale attività (Montag et al., 2015).

Il CIUM (Modello Compensativo dell’Utilizzo di Internet, Kardefelt-Winther, 2014) ha tentato di spiegare la psicologia che si nasconde dietro le attività online, concludendo che gli individui le praticano per compensare bisogni non raggiunti quali il bisogno di appartenenza, le gratificazioni sociali, l’informazione.

Cercare di soddisfare le proprie esigenze in attività online, però, può portare a conseguenze negative (Kardefelt-Winther 2014) e a disturbi psicologici come depressione maggiore, ansia elevata, umore negativo, minore autostima, problemi del sonno, idee suicidarie, aumento dell’abuso di alcol e sostanze, minore integrazione sociale e problemi di condotta (Sherlock e Wagstaff, 2019).

Ma perché il Mukbang Watching è così popolare?

Cosa spinge le persone a guardarlo e a praticarlo? In base a varie ricerche si è concluso che gli spettatori lo guardano per motivi sociali, sessuali, di intrattenimento, alimentari e/o come strategia compensatoria di fuga.

Uso sociale – Nella società umana il comportamento alimentare va oltre la semplice sopravvivenza ed è strettamente legato alla vita e alla cultura. Ci sono diversi studi che hanno analizzato l’aspetto sociale legato a tale attività online. Schwegler Castañer (2018) ha descritto i casi di 3 donne mukbanger (una singaporiana, una sudcoreana e una americana). Lo scopo dei loro video era quello di contrastare la solitudine e l’isolamento sociale, condividendo un interesse simile con una comunità virtuale.

Spence et al. (2019) hanno condotto uno studio sulla commensalità digitale, ovvero la pratica del mangiare insieme sentendosi meno soli, concludendo che il Mukbang Watching potrebbe favorire sentimenti di connessione affettiva con altri individui.

Hakimey e Yazdanifard (2015) hanno esaminato l’interazione tra la cultura sudcoreana e il fenomeno del Mukbang, sostenendo che i sudcoreani di tutte le fasce d’età soffrivano sempre più nel vivere da soli e che tale isolamento sociale li ha portati a guardare i video dei mukbanger come mezzo per sentirsi emotivamente connessi con altre persone. Un altro aspetto importante è l’empatia provata dagli spettatori nei confronti della persona che tiene la trasmissione.

Un mukbanger famoso, per aumentare la connessione emotiva con il suo pubblico maschile, ha mangiato cibo in diretta in abiti da addestramento dell’esercito in una stanza decorata con diversi accessori dell’esercito (fucili giocattolo, figure di battaglia); questo ha riportato alla mente degli spettatori, che avevano prestato servizio come soldati, ricordi nostalgici.

Anche Choe (2019), analizzando i video di un mukbanger sudcoreano, ha concluso che gli spettatori si sentivano “come se stessero cenando con qualcuno” e che mangiare assieme è considerato un aspetto cruciale della cultura sudcoreana.

Il Mukbang forniva quindi un senso di unità sociale a coloro che mangiavano fisicamente da soli e il mukbanger in questione era in grado di fornire un senso di “mangiare collaborativo” coinvolgendo gli spettatori in diverse azioni alimentari. Attraverso il cibo era possibile superare la distanza fisica.

Anche altri autori (es. Kircaburun, K et al., 2020) hanno sostenuto che il Mukbang Watching fosse un mezzo per alleviare la solitudine e che il mukbanger fosse considerato un vero e proprio compagno di pasto dagli spettatori, i quali si collegavano alle piattaforme online intorno all’ora dei pasti o all’ora dello spuntino a tarda notte. Il Mukbang soddisfa la fame fisica e sentimentale delle famiglie di una sola persona fornendo semplici ricette o consigli per mangiare da soli, creando un legame sociale e di appartenenza con i mukbanger e gli spettatori.

Essi, inoltre, affermano che gli spettatori, nel momento in cui creano connessioni con i mukbanger, simulano l’atto di mangiare con amici e famiglia.

Gillespie (2019) ha invece analizzato il fenomeno dal punto di vista della cultura della magrezza guardando i video di 9 donne mukbanger provenienti dagli Stati Uniti, Canada e Corea del Sud. Egli ha affermato che agli spettatori (sopratutto ai maschi) piaceva vedere donne mangiare troppo e in modo disordinato, essere rumorose, anche se tali comportamenti erano considerati come atti aggressivi; le spettatrici, invece, si sentivano legate emotivamente ad altre donne che mangiavano enormi quantità di cibo malsano in modo disordinato e davanti ad un pubblico.

Bruno e Chung (2017) hanno affermato che i principali beneficiari dei piaceri per procura forniti dal mukbanger erano gli individui che mangiano da soli ma che desiderano una presenza sociale, percependo il Mukbang come uno spazio libero in cui condividere un piacere vicario.

Bruno e Chang (2019) hanno sostenuto che anche se tutti gli spettatori non si conoscevano, potevano sentire la presenza di altri spettatori attraverso la chat, i commenti e i “mi piace”. Per alcuni di essi la chat dal vivo dopo aver mangiato potrebbe essere più importante del mangiare stesso; infatti la loro analisi ha rivelato che circa il 10% degli spettatori rimaneva connesso dopo aver mangiato per chattare su diversi argomenti che riguardavano la propria vita quotidiana e che si sentivano attratti dai mukbanger perché mostravano il loro lato personale reagendo ai commenti degli spettatori, interrompendo il pasto e ringraziando gli spettatori per i regali ricevuti (gli spettatori a volte pagano per far sì che il mukbanger faccia determinate azioni che loro richiedono).

Song (2018), analizzando le chat, ha sostenuto che gli spettatori si sono affezionati ai mukbanger grazie all’interazione.

A volte, però, l’interazione tra gli spettatori può diventare incontrollata (Bruno e Chung, 2017): alcuni spettatori, ad esempio, hanno insultato i mukbanger per il loro aspetto e la quantità di cibo che consumavano oppure hanno cominciato a diffondere voci sugli emittenti per danneggiare la loro reputazione e la relazione con gli altri. Questo aspetto era importante perché era in grado di influenzare le reazioni di altri spettatori nei confronti di ciò che stavano guardando.

Uso sessuale – Secondo Schwegler Castañer (2018), il Mukbang potrebbe essere inteso come feticismo delle donne che mangiano enormi quantità di cibo dannoso mostrando un vergognoso appetito. Altri aspetti che ha sottolineato sono la potenziale oggettivazione sessuale del corpo femminile e il rafforzamento dei valori normativi riguardanti magrezza e consumismo.

Donnar (2017) ha sostenuto che la maggior parte degli spettatori di donne mukbanger magre e attraenti erano maschi e in sovrappeso. Essi erano attratti dal fatto che qualcuno di affascinante si trovasse in uno stato privato e vulnerabile (cioè mangiare); le sensazioni sessuali e alimentari provate erano le più varie: piacere, desiderio, brama, invidia, disgusto e vergogna.

Pereira et al. (2019) hanno notato che c’erano noti mukbanger che, oltre ad essere belli fisicamente, erano estremamente socievoli e simpatici, e questo attraeva un gran numero di spettatori.

Uso di intrattenimento – Choe (2019) sostiene che gli spettatori provano gratificazione guardando i Mukbang soprattutto per i “suoni” del cibo prodotti dal mukbanger ad esempio bevendo, masticando, preparando i cibi oppure per i rumori derivanti dall’apertura delle confezioni di cibo.

Woo (2018) sostiene che gli spettatori ottenessero piacere nell’ascoltare tali suoni perché fornivano un’esperienza di Risposta Meridiana Sensoriale Autonoma (ASMR) con sensazioni di formicolio lungo tutto il corpo e un senso di felicità e sollievo. Inoltre, questi suoni aumentavano la sensazione di telepresenza degli spettatori. Schwegler sostiene che il Mukbang potrebbe diventare un’esperienza di ASMR in cui gli spettatori sono più interessati ai suoni prodotti dall’atto di mangiare che al consumo stesso. Ha anche notato il divertimento di coloro che guardano i video semplicemente condividendo le esperienze alimentari degli altri.

Uso alimentare – Kim Hae-jin, dottoranda presso l’Università di Chosun, ha sostenuto che si può soddisfare il desiderio di cibo per procura osservando. D’altronde i mukbanger affermano di essere gli “avatar” del pubblico e che seguiranno esattamente ciò che la gente chiede loro di fare.

A cosa ci si riferisce con l’espressione “mangiare per procura”? Qualcuno mangia al posto nostro dando la soddisfazione di aver mangiato realmente. Hakimey e Yazdanifard (2015) hanno sottolineato che alcuni spettatori, essendo a dieta, avevano bisogno di guardare i Mukbang per avere l’esperienza di mangiare per procura.

Choe (2019), invece, ha sostenuto che alcuni spettatori provavano eccitazione nel vedere il mukbanger mangiare determinati cibi che loro dovevano evitare essendo a dieta. In questo modo chi teneva la trasmissione era in grado di soddisfare le voglie di cibo degli spettatori, dando loro un piacere vicario di mangiare tramite stimoli visivi e audio.

Donnar (2017) ha sostenuto che il Mukbang fosse simile al “food porn” piuttosto che alle immagini di cibo o ai programmi televisivi legati al cibo. Alcuni spettatori a dieta guardavano il Mukbang per soddisfare i loro desideri feticistici tramite il consumo vicario (mukbanger si sostituisce agli altri) poiché dovevano evitare di mangiare. Bruno (2016) ha sostenuto che gli spettatori si sentivano come se stessero mangiando, come se potessero “quasi assaporare il cibo e la conseguente sensazione di sazietà”.

Gallespie (2019) ha sostenuto che la fantasia alimentare (idea di mangiare quanto si desidera senza subirne le conseguenze) è stata una delle motivazioni più importanti che hanno spinto le persone a guardare Mukbang. Gli spettatori sono soddisfatti attraverso la sensazione di abbuffarsi.

Bruno e Chung (2017) sostengono un altro aspetto importante: alcuni spettatori vedevano i mukbangers come delle prostitute che mangiano e consumano qualsiasi cosa gli si chieda in cambio di denaro. Hanno anche affermato che parte del piacere vicario degli spettatori proveniva dalla performance alimentare del mukbanger: era importante che questi mangiasse il cibo che avevano selezionato e desiderato.

In che modo si può soddisfare il piacere vicario di alcuni spettatori (soprattutto quelli a dieta)?

Innanzitutto, il mukbanger deve ingurgitare enormi quantità di cibo malsano, fare suoni forti mentre mangia e mostrare il cibo alla telecamera in modo che risulti il più appetitoso possibile: questo attrae gli spettatori. Inoltre, deve mangiarlo con un godimento abbondante in modo che gli spettatori possano soddisfare se stessi.

Tu e Fishbach (2017) hanno esaminato il fenomeno della sazietà vicaria concludendo che guardare gli altri consumare cibi specifici influenza i desideri degli spettatori verso quei cibi particolari. Hanno condotto 3 esperimenti:

  • il primo esperimento ha indicato che gli spettatori che hanno visto qualcun altro mangiare una pizza desideravano meno pizza rispetto a prima di guardare il video;
  • il secondo esperimento ha dimostrato che gli spettatori che hanno visto qualcun altro mangiare M&M’s hanno posticipato il consumo di tali caramelle e hanno scelto di mangiare un altro prodotto dopo aver visto il video;
  • il terzo esperimento ha mostrato che alcuni spettatori provavano un’attenuazione del desiderio di mangiare un determinato cibo solo se chi mangiava condivideva la loro visione politica.

Dunque è possibile sperimentare una sazietà vicaria quando gli spettatori osservano il consumo degli altri come proprio.

Uso di fuga – (strategia compensatoria di fuga) – Alcuni spettatori guardano i Mukbang come fuga dalla realtà.

Hakimey e Yazdanifard (2015) hanno affermato che alcuni spettatori volevano osservare qualcuno mangiare cibi a cui non potevano accedere essendo, ad esempio, pazienti ospedalieri. Per altri (soprattutto i sudcoreani), guardare qualcuno mangiare era un modo per allievare lo stress causato dallo stile di vita frenetico. Bruno e Chung (2017) sostengono invece che alcuni hanno cercato di sfuggire al senso di colpa e allo stress di essere grassi. Inoltre, gli adolescenti che erano annoiati oppure affamati la sera tardi e che non potevano ordinare da mangiare perché i genitori erano a casa si sono goduti gli spettacoli alimentari di Mukbang come fuga dalla spiacevole realtà.

Quali sono le conseguenze del Mukbang Watching?

Il Mukbang Watching può avere sia conseguenze benefiche (diminuire la solitudine e l’isolamento sociale attraverso la costruzione di una comunità virtuale) sia conseguenze non benefiche (alterazione delle preferenze e delle abitudini alimentari, alterazione delle buone maniere a tavola, promozione di un’alimentazione disordinata basata sull’eccesso e può creare dipendenza).

Spence et al. (2019) sostengono che uno degli aspetti più dannosi del Mukbang è il fatto che il consumo di cibo degli individui potrebbe essere facilmente influenzato dal consumo di altri e questo porterebbe a consumare più cibo del normale. Vedere un altro individuo consumare un pasto abbondante ad alto contenuto calorico può influenzare lo spettatore che sarà poi motivato a causa del confronto sociale o del mimetismo (emulazione).

Secondo Donnar (2017), il Mukbang potrebbe promuovere la diffusione di disturbi alimentari oltre che favorire l’isolamento sociale nella vita reale. Egli ha affermato che, attraverso tale pratica, il rapporto dei sudcoreani con il cibo si è danneggiato anche perché è stato normalizzato il consumo di cibi diversi che non erano storicamente accettati in Corea del Sud (es. fast food occidentale).

Hong e Park (2018) hanno affermato che i mukbanger hanno influenzato la percezione degli spettatori verso il cibo spazzatura, sollecitandoli a godersi pasti che consistevano in cibi surgelati e poco nutrienti (piccanti oppure oleosi e con alto contenuto calorico). Inoltre, il Mukbang Watching ha influenzato negativamente le buone maniere a tavola degli spettatori perché di solito chi tiene la trasmissione strappa il cibo mangiandolo con noncuranza, emette suoni sgradevoli e allo stesso tempo conversa con gli spettatori nonostante la bocca piena.

Un altro aspetto importante analizzato da Hong e Park (2018) è il fatto che il Mukbang potrebbe dare una percezione distorta della magrezza in quanto alcuni mukbanger che erano molto magri consumavano enormi quantità di cibo senza ingrassare. Questo può manipolare la psicologia degli spettatori mettendo in discussione i loro sforzi per rimanere in forma.

Controversie sul Mukbang Watching

In Corea la cultura alimentare si basa principalmente su discussioni legate alla salute e all’etichetta rigorosa: il Mukbang è una pratica che si discosta dall’identità tradizionale. Allora nel luglio 2018 il governo sudcoreano ha annunciato che avrebbe regolato le linee guida Mukbang lanciando le “Misure globali di gestione dell’obesità” perché questa pratica poteva indurre ad abbuffate e danneggiare la salute pubblica. Park (2018) ha riferito che il tasso di obesità in Corea del Sud era passato dal 31,7% nel 2007 al 34,8% nel 2016, dunque il governo avvertiva l’esigenza di monitorare questi spettacoli. I mukbangers, però, si sono opposti sostenendo che “non vi è alcuna correlazione tra mukbang e abbuffate alimentari” e che “il governo sta violando la libertà individuale”. Alcuni genitori, dopo aver visto i propri figli sfidarsi a mangiare tanto quanto il mukbanger, hanno difeso il piano del governo perché sostenevano che il Mukbang potesse influenzare negativamente soprattutto i più giovani attraverso la modellazione di comportamenti scorretti percepiti come socialmente accettabili.

La preoccupazione più grande di due esperti di salute, Uxshely Chotai (fondatore della Food Psychology Clinic, Regno Unito) e il Dr. Naveed Sattar (professore di medicina metabolica all’Università di Glasgow, Regno Unito), è che il Mukbang promuove l’idea che abbuffarsi di cibo sia qualcosa di cui essere orgogliosi.

Shipman (2019), ad esempio, ha menzionato un mukbanger britannico che in un video ha mangiato più di 10.000 calorie di prodotti Lidl in una sola seduta. Vedere qualcuno che si abbuffa di questi cibi malsani potrebbe far sì che gli spettatori percepiscano l’abbuffata come un comportamento normale.

Malm (2014) ha affermato che il Mukbang Watching potrebbe persino trasformarsi in un comportamento di dipendenza per individui soli perché tramite il Mukbang possono comunicare con migliaia di persone.

Conclusioni

Uno degli aspetti più importanti del Mukbang Watching è sicuramente la compensazione dei bisogni sociali non raggiunti nella vita reale. Gli spettatori ottengono gratificazioni sociali guardando questi video e si tratta principalmente di individui soli che, interagendo con una comunità virtuale che condivide gli stessi interessi, tentano di alleviare il loro isolamento sociale. Questo suggerisce che gli individui si impegnano in attività online che facilitano l’interazione sociale (Stafford et al., 2004).

Tramite le piattaforme online è possibile creare forti amicizie e relazioni emotive perché le persone si sentono in grado di esprimersi in modi che non li fanno sentire a proprio agio nella vita reale (Cole e Griffiths, 2007).

Inoltre, si crea una vera e propria connessione emotiva tra l’emittente e gli spettatori e questo rende i video online delle vere e proprie forme elettroniche di intimità (Liu et al., 2013; Rosen, 2012).

Un altro aspetto è l’uso sessuale del Mukbang. Questa pratica sessualizza i corpi delle donne in un modo che alcuni spettatori sono più concentrati sul mukbanger che sul cibo che viene mangiato (Donnar, 2017; Schwegler Castañer, 2018). Il Mukbang ha il potenziale per essere un’attività sessuale vera e propria perché l’eccitazione sessuale è correlata con l’attrattiva fisica della persona osservata (Sigre-Leirós et al. 2016).

Anche i mukbanger uomini possono essere osservati per la gratificazione sessuale.

Joyal et al. (2015) sostengono che alcuni individui possono combinare gratificazioni sessuali e alimentari e formare un unico tipo di fantasia (feederismo).

Il Mukbang viene utilizzato anche a scopo di intrattenimento e questo concorda con gli studi che confermano l’utilizzo dei social come intrattenimento (Horzum, 2016). Alcuni mukbanger, per intrattenere i loro spettatori, si propongono sfide alimentari come ad esempio terminare una determinata quantità di cibo in un periodo di tempo molto breve; altri, invece, hanno comportamenti bizzarri e imprevedibili accompagnati da stili alimentari estremi (Hong e Park, 2018).

Tramite la pratica del “mangiare per procura”, le persone a dieta possono soddisfare il loro desiderio di cibo, provare la sensazione di abbuffarsi e avere una sazietà vicaria tramite la stimolazione audiovisiva (Choe, 2019). Questo serve come compensazione di atti che un individuo non compirebbe mai nella vita reale e/o come realizzazione di esperienze note riguardanti l’atto osservato tramite l’attivazione di un ricordo (Brennan, 2017).

L’uso del Mukbang come fuga dalla realtà è praticato principalmente da: 1) pazienti ospedalieri; 2) coloro che hanno stili di vita frenetici; 3) coloro che hanno un senso di colpa e stress sull’essere grassi; 4) coloro che sono annoiati. Dunque la fuga dalla realtà serve per affrontare situazioni spiacevoli ma a volte può allontanare così tanto che non ci si rende più conto dei reali problemi che si devono affrontare (Hong e Park, 2018).

Nel presente articolo sono state illustrate le conseguenze sia positive che negative di questo fenomeno. C’è un’ultima conseguenza negativa, ovvero quella che il Mukbang potrebbe creare dipendenza e c’è un solo articolo di giornale che sostiene questo aspetto. Compensare bisogni sociali non raggiunti utilizzando un’attività online potrebbe promuovere un uso dipendente di tale attività (Kardefelt-Winther 2014) e renderla davvero problematica. Ad esempio, gli individui che percepiscono il Mukbang come fantasia sessuale potrebbero diventare spettatori problematici e sviluppare una dipendenza riguardo le attività sessuali online (Wéry e Billieux 2016) oppure coloro che sono a dieta e hanno diversi disturbi alimentari possono anche diventare osservatori eccessivi di Mukbang che, guardando gli altri abbuffarsi, soddisfano il loro piacere vicario di mangiare. In generale, coloro che riescono a sfuggire alla loro spiacevole realtà guardando i Mukbang potrebbero diventare spettatori problematici di Mukbang.

Sebbene questo fenomeno sia diffuso da più di un decennio, si conosce molto poco su di esso. Siamo a conoscenza di alcuni usi, di alcune conseguenze (sia positive che negative), ma conoscere a fondo il Mukbang potrebbe essere importante per limitarne le conseguenze disastrose che può avere, come comportamenti sessuali problematici, dipendenza da Internet e disturbi alimentari.

Ci sono alcune strategie terapeutiche di successo che possono essere utilizzate per ridurre questi problemi. Ad esempio, forme specifiche di terapia cognitivo-comportamentale sono risultate efficaci per trattare disturbi alimentari sia a breve che a lungo termine (Brownley et al., 2016) oppure, allo stesso modo, la terapia cognitivo-comportamentale di gruppo è stata utilizzata con successo per ridurre i comportamenti sessuali compulsivi (Sadiza et al., 2011). Tutte queste strategie potrebbero essere utilizzate anche per i problemi legati al Mukbang Watching. Articolo tratto dagli scritti di Kagan Kircaburun et al. (2021).

 

Sindrome hikikomori: un approccio psicoanalitico


La sindrome hikikomori è un fenomeno globale in ascesa che riguarda in larga parte l’età evolutiva dell’adolescenza e che, in tempi recenti, ha attirato l’attenzione dei professionisti di vari settori, dagli antropologi agli psicologi.

 

Descrizione clinica della sindrome hikikomori

Il fenomeno hikikomori è stato descritto formalmente per la prima volta dallo psichiatra giapponese Takami Saitō (1998). La parola “hikikomori” deriva da “hiku” (tirare indietro) e “komoru” (ritirarsi), e si traduce testualmente con “stare in disparte, isolarsi, rinchiudersi” o, più semplicemente, con “ritiro sociale”.  Si tratta in larga parte di adolescenti, ma anche di giovani adulti, che decidono volontariamente di non partecipare alla vita di società e che si rinchiudono tra le mura domestiche. Il fenomeno è presente in Giappone da decenni, ma con l’andare del tempo si è esteso ai paesi asiatici vicini come Cina e Corea e, ultimamente, anche in Europa, Australia e Stati Uniti (Li, Wong, 2015; Ricci, 2014).

In questo momento la letteratura accademica non concorda sui criteri diagnostici (Aguglia, 2016): alcuni studiosi preferiscono considerare il fenomeno come una sindrome o una condizione sociale, mentre altri prediligono l’uso di categorie nosografiche (Caresta, 2018; Chan, Lo, 2013; Ricci, 2015; Saitō, 1998). Per tale motivo esistono attualmente una moltitudine di modelli teorici e di intervento diversi e non standardizzati. Prima di discutere del modello psicoanalitico preso in esame, esporremo brevemente il modello bio-psico-socio-culturale di Kato (2019), nel tentativo di descrivere in modo generale il fenomeno. Secondo Kato, il ritiro sociale si esprime su un continuum che include problematiche di natura psichiatrica e problematiche di natura non psichiatrica. I tre criteri diagnostici principali proposti sono:

  • Isolamento sociale marcato all’interno della propria abitazione: i soggetti escono di casa non più di tre volte alla settimana.
  • Il ritiro sociale dura per almeno sei mesi.
  • La vita del soggetto (salute, lavoro, relazioni ecc.) è compromessa dalla condizione di ritiro sociale.

Saitō (1998) riscontra nei soggetti hikikomori le seguenti caratteristiche: inversione del ritmo sonno-veglia, condotta violenta nei confronti dei familiari (in particolare della madre), fobia sociale, ritiro scolastico, pensieri suicidari o condotta suicidaria, apatia, umore depresso, mania di persecuzione, letargia, antropofobia.

Modello edipico e modello narcisistico della sindrome hikikomori

Il modello teorico che presenteremo ora integra psicoanalisi ed elementi di psicologia evolutiva, ed è stato ideato da Pietropolli Charmet e Piotti (2019); secondo tale teorizzazione, un dato soggetto può svilupparsi in due modi: in senso edipico o in senso narcisistico. Ciò dipende in larga parte dal fatto che il bambino sia stato cresciuto all’interno di un Campo edipico o un Campo narcisistico. Secondo Lewin (cfr. Lewin, 1943), il Campo psicologico è lo spazio psicologico all’interno del quale agiscono tutti i fattori psicologici alla base del comportamento umano, descritto tramite la seguente formula:

C = ƒ (P, A)

Dove: C è il comportamento messo in atto, P è il bagaglio di esperienze personali pregresse, ed A rappresenta l’influenza ambientale. Di conseguenza, la formula afferma che il comportamento è il prodotto dell’interazione tra il vissuto personale e il contesto.

Se il soggetto crescerà all’interno di un Campo edipico, si svilupperà in senso edipico: questi avrà un buon esame di realtà, un contatto integro col mondo e si rapporterà direttamente con esso; inoltre il sentimento fondamentale che orienterà la sua vita psichica sarà il senso di colpa. Se invece il soggetto crescerà all’interno di un Campo narcisistico, allora si svilupperà in senso narcisistico: il rapporto col mondo sarà mediato da un costrutto narcisistico detto “Sistema estroflessivo”, che intaccherà l’esame di realtà e la capacità di mentalizzare; il sentimento fondamentale che orienterà la sua vita psichica sarà il sentimento di vergogna.

L’hikikomori è un soggetto sviluppato in senso narcisistico e che presenta le seguenti caratteristiche: bisogno di rispecchiamento, fragilità narcisistica, ferita narcisistica, il «Grande Piano» genitoriale, ritiro sociale primario, “Amae” snaturato, ed uno scacco evolutivo nei quattro compiti adolescenziali (mentalizzazione del corpo sessuato e generativo, separazione-individuazione, nascita sociale, definizione dei valori).

Lo sviluppo in senso narcisistico implica una scarsa definizione del Sé, dato che il Campo narcisistico è caratterizzato, tra le altre cose, da un deficit della funzione riflessiva (anche detta mentalizzazione), definita come la capacità di vedere, capire ed intendere sé stessi e gli altri in termini di stati mentali, cioè di desideri, emozioni, convinzioni (cfr. Fonagy, Target, 2001). Il Sé di un individuo si costruisce in base alla consapevolezza delle proprie emozioni, e quindi secondo la propria capacità di mentalizzare (Fonagy, Gergerly, Jurist, Target, 2002). Il bisogno di rispecchiamento ricercato dal soggetto con fragilità narcisistica non ha lo scopo di confermare la propria grandiosità, ma quello di tentare di ottenere un feedback dalla realtà esterna nel tentativo di definire il Sé e scongiurare una “crisi identitaria”.

La fragilità narcisistica è definita come «una dolente e segreta suscettibilità alle delusioni che la vita di relazione somministra. Una strutturale permalosità, un originario orientamento a intercettare la mancanza di attenzione […] (quando) la mente dell’altro (è) occupata da altro che non sia la sua immagine e i suoi bisogni di rispecchiamento» (Pietropolli Charmet, Piotti, 2019).

La ferita narcisistica è un dolore molto profondo, spesso inflitto da una figura percepita come significativa. Non si tratta necessariamente del genitore: può essere anche una relazione all’interno della quale il soggetto ha investito molto, come un rapporto amoroso. Altre volte la ferita narcisistica è inflitta tramite episodi di bullismo a scuola (il bullismo, e la conseguente fobia scolastica che porta a dispersione, è un elemento spesso ricorrente nelle narrazioni dei soggetti hikikomori). In ogni caso, il risultato è che il dolore che ne scaturisce è così acuto da avere ripercussioni strutturali e permanenti sul Sé, che ne esce menomato. Il ritiro sociale si configura quindi come un tentativo di difendere il Sé vulnerabile.

Il “Grande Piano genitoriale” (Piotti, 2012) consiste nelle proiezioni narcisistiche che i genitori mettono in atto, in particolare la madre, sul figlio: si tratta delle aspettative che il soggetto hikikomori sente di essere obbligato a soddisfare. Ogni Grande Piano è composto da elementi specifici propri, che possono andare dalla coercizione vera e propria alla manipolazione subdola, ma in linea di massima ciò che viene richiesto all’adolescente è quello di ottenere successi di vita in grado di generare uno status sociale, che devono essere motivo di orgoglio per i genitori. Si tratta, in altre parole, di una percepita richiesta di eccellenza e perfezione che il ragazzo è tenuto a dimostrare tramite performance uniche. I soggetti narcisistici mal tollerano la pressione sociale e la competizione, poiché il rischio del fallimento è sempre in agguato e conseguentemente rischia di esporli a sentimenti di vergogna, che tentano di evitare in ogni modo. Il ritiro sociale allora, tra le altre cose, si configura come un modo di sottrarsi alle sfide potenzialmente mortificanti poste dalla società tutta, dalle relazioni sociali al mondo del lavoro.

Il ritiro sociale primario (Suzuki, 2013) consiste in un ritiro scatenato da problematiche di tipo narcisistico. Si distingue dal ritiro sociale secondario, che sarebbe invece la conseguenza di un disturbo pregresso (si pensi, ad esempio, ai soggetti affetti da schizofrenia, che spesso presentano sintomatologie di ritiro sociale). Va notato che la definizione di Suzuki non è esente da problemi, in quanto non sempre è possibile tracciare una linea ben definita tra i due tipi di ritiro.

“Amae” (Doi, 1971) è una parola giapponese traducibile con “dolcezza”, e si riferisce alla dimensione di interdipendenza presente all’interno delle relazioni sociali. Gli hikikomori presentano un amae snaturato che si esplica in una relazione simbiotica della diade madre-bambino, che porta ad un eccessivo attaccamento materno e contribuisce ad instaurare una certa fragilità narcisistica. La simbiosi genera la seguente dinamica relazionale: il figlio ha bisogno della madre per ottenere il rifornimento narcisistico necessario per il suo sviluppo, e la madre ha bisogno di nutrirsi dei successi sociali del figlio. Se il figlio non si dimostra capace di raggiungere i picchi di performance richiesti, il genitore si trasforma da rifornitore di rispecchiamento narcisistico in esattore, causando un corto circuito che genera forti livelli di angoscia all’interno dell’adolescente.

Sindrome hikikomori e adolescenza

Ma perché il fenomeno hikikomori emerge per lo più in adolescenza? Il motivo sarebbe da ricercare nella messa in discussione del Grande Piano genitoriale. L’adolescenza è una fase che porta con sé una rivoluzione all’interno dell’assetto psichico, dove tutti i cardini sui quali si regge la psiche vengono messi in discussione, compreso il Grande Piano, che inizia a diventare obsoleto nei confronti delle nuove richieste della vita. Il ragazzo si ritrova davanti a due scelte: rifiutare le condizioni che gli sono state imposte finora nel tentativo di far emergere il proprio Sé (nel caso specifico degli hikikomori ciò avviene intraprendendo il ritiro sociale), oppure continuare ad aderire masochisticamente al Grande Piano, sviluppando un Falso Sé (una “maschera” che ha il compito di proteggere il vero Sé) esponendosi a rischi suicidari. Analizziamo ora i quattro compiti evolutivi tipici dell’adolescenza (Pietropolli Charmet, Piotti, 2019) e il ruolo che questi hanno all’interno della sindrome hikikomori (Andorno, Lancini, 2019). I soggetti in ritiro sociale presentano uno scacco evolutivo, ovvero un blocco della crescita, su tutti e quattro tali elementi: tale blocco impedisce di passare alla fase della vita successiva, ovvero la fase adulta. A questo proposito è interessante notare come Saitō (1998) definisca la sindrome hikikomori come un’eterna adolescenza.

La mentalizzazione del corpo sessuato e generativo si riferisce all’operazione mentale che l’adolescente deve fare nei confronti del corpo che matura con la pubertà. Il corpo cambia, e di conseguenza vanno anche cambiate le rappresentazioni mentali di esso: è attraverso questo nuovo corpo che si costruiranno le nuove reti sociali e si sperimenterà la sessualità, quindi stabilire un buon rapporto con esso è importante. Il corpo dell’infanzia, psicoanaliticamente parlando, è bisessuale, indifferenziato e onnipotente. La pubertà impone la scelta di una meta sessuale e la costruzione dell’identità di genere, oltre che far realizzare che il corpo cresce, e che di conseguenza invecchia ed è mortale. Lo scacco evolutivo su questo compito porta ad un cattivo rapporto col proprio corpo, che diventa fonte di vergogna e deve essere nascosto dallo sguardo altrui: lo sguardo degli altri individui viene, in altre parole, paranoicizzato e vissuto come persecutorio. Nel caso dei soggetti hikikomori il ritiro sociale cerca, tra le altre cose, di far fronte a questo problema, ma in linea di massima uno scacco evolutivo su questo compito porta all’emergere di varie condotte che hanno l’obiettivo di attaccare e ferire il corpo, come condotte autolesioniste o l’anoressia.

Per separazione-individuazione intendiamo quel processo che porta il figlio a diventare un soggetto autonomo e separato dai genitori, e cioè un individuo in grado di pensare, decidere ed agire con la propria mente. Lo scacco evolutivo in questo compito è presente nei soggetti hikikomori, in quanto si nota un evidente stato regressivo, con immagini idealizzate e presentissime dei propri genitori ed una confusione identitaria, fonte di un conflitto tra l’idea che il giovane ha di sé e l’idea che i genitori hanno di lui.

Con “nascita sociale” ci riferiamo alla costruzione di rapporti sociali esterni a quelli del nucleo familiare. Questi nuovi rapporti hanno la caratteristica di essere stati scelti personalmente dal soggetto: hanno un ruolo indispensabile nello sviluppo della propria identità e sono un importante fattore di protezione, poiché le funzioni originariamente svolte dal nucleo familiare (sostegno emotivo, valorizzazione narcisistica ecc.) vengono ora svolte dal gruppo dei pari. Lo scacco evolutivo di questo compito è particolarmente evidente nei soggetti hikikomori: essi spesso non dispongono di una rete sociale e passano le proprie giornate in solitudine, di conseguenza non si avviano i processi di sviluppo dell’identità che dovrebbero essere supportati dal gruppo dei pari.

La “definizione dei valori” consiste nello scegliere chi si vuole diventare e quali obiettivi di vita perseguire. Questo processo si avvia tramite l’incontro con altri individui, pari o adulti che siano: il soggetto, facendo esperienza del mondo e di diversi stili di vita, costruisce una propria personale reinterpretazione fatta su misura per sé stesso, e ciò gli consente di avventurarsi nella vita adulta seguendo una direzione precisa. Anche qui si nota uno scacco evolutivo evidente nei soggetti hikikomori: senza un contatto col mondo esterno l’individuo in ritiro sociale non riesce a sviluppare un progetto di vita, a capire cosa gli piacerebbe fare o chi vorrebbe essere. L’unico riferimento valoriale disponibile è quello dei genitori, che risulta obsoleto davanti alle necessità adolescenziali. Di conseguenza le giornate vengono vissute con monotonia, stallo e senza una direzione.

Sindrome hikikomori e internet

Infine, non si può parlare di sindrome hikikomori senza discutere di internet. Esiste uno stereotipo comune molto radicato che individua in internet il male che ha portato il ragazzo a non uscire di casa, troppo occupato a giocare ai videogiochi, a navigare sui social o a guardare le serie TV, che lo hanno reso dipendente e hanno fatto in modo che si disinteressasse alla vita. Si tratta di un errore percettivo largamente sovrastimato: in realtà solo il 30% degli hikikomori utilizza assiduamente internet per comunicare o informarsi (Ricci, 2008). Innegabilmente, però, quando il soggetto in ritiro utilizza la rete, si nota un grande investimento. Allora ci chiediamo: qual è il ruolo di internet all’interno della sindrome hikikomori?

Internet è, innanzitutto, un luogo dal potenziale narcisistico illimitato, poiché consente di manipolare totalmente il rapporto con l’altro, e dove il concetto di identità risulta ambiguo, personalizzabile e perfettibile. Si può scegliere chi essere tramite l’uso di pseudonimi, si può scegliere come comportarsi grazie all’anonimato, si può manipolare totalmente l’interazione con l’altro a seconda dei propri capricci, scegliendo le community che si vogliono frequentare, ma ad esempio anche tramite le opzioni di blocco o censura dell’utenza percepita antipatica. L’individuo in ritiro sociale si rifugia in un ecosistema che sostiene la dimensione dell’immaginario e, in qualità di soggetto narcisista, non sorprende il rifiuto e il timore di interfacciarsi con ciò che sta al di fuori della propria camera: il contatto col mondo esterno lo rispecchierebbe per la persona che veramente è, demolendo l’immagine narcisistica che egli cerca di preservare, potenzialmente esponendolo al rischio di mortificazione. Dall’altro lato, però, internet funge anche da mediatore tra la dimensione dell’immaginario, tipica del narcisismo, e la realtà che si trova direttamente oltre allo schermo. Previene cioè il crollo psicotico, mantenendo attive le capacità di simbolizzazione e facendo in modo che sussista un qualche tipo di rapporto col mondo offline. Internet viene anche usato come strumento di automedicazione. La rete è insomma una «incubatrice psichica virtuale, che consente di anestetizzare l’angoscia e la solitudine, mantenendo in vita la prospettiva di un possibile futuro, in questo momento non realizzabile, ma almeno in parte pensabile» (Andorno, Lancini, 2019).

Internet rappresenta, inoltre, un oggetto transizionale digitale (Buday, 2019). Nella teoria psicoanalitica, l’oggetto transizionale è un oggetto fisico sul quale il soggetto ha molto controllo, e che il bambino esperisce come appartenente ad un’area intermedia tra il Sé e il non Sé, che ha il compito di favorire l’esplorazione dell’ambiente (Blos, 1962; Winnicott, 1953, 1971). I fenomeni transizionali sono propri dell’infanzia, ma ricompaiono nei periodi di grandi cambiamenti, come l’adolescenza. Se l’oggetto transizionale dell’adolescente di una volta era rappresentato da un diario personale pieno di dediche e firme degli amici, l’oggetto transizionale dell’adolescente moderno è rappresentato da internet: si pensi ai profili personalizzabili dei social network, dove si possono condividere foto e stati con gli amici, o ad alcuni videogiochi come Minecraft, che permettono al giovane di diventare un architetto che ha il completo controllo su un mondo virtuale.

 

L’amo o non l’amo. Vincere le ossessioni sulla relazione e sul partner (2021) di Marta Venturini Drabik e Gabriele Melli – Recensione

L’amo o non l’amo è un libro di auto-aiuto edito Erickson e scritto da Marta Venturini Drabik e Gabriele Melli sulle Ossessioni che riguardano le relazioni sentimentali e il partner.

 

Finalmente. Un libro che mancava decisamente all’appello.

Per i terapeuti, per poter finalmente indirizzare i propri pazienti verso contenuti psicoeducativi esaustivi e in lingua italiana essenziali per una terapia con queste persone, e per coloro che sono direttamente coinvolti e ai quali il libro si rivolge esplicitamente.

Si tratta infatti di un libro di auto-aiuto sapientemente costruito; un libro che parla ai pazienti e racconta di pazienti con i quali (se si soffre di questa forma di ossessioni pure) sarà facile immedesimarsi, riconoscersi e di conseguenza cominciare dal primo step del processo di guarigione.

È noto infatti quanto sia importante in tutti i disturbi, ma nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC da ora in poi) in particolare, imparare a riconoscerlo, a vederne e comprenderne i meccanismi per cominciare il processo di distanziamento, anticamera necessaria della possibilità di portare i sintomi in remissione. La psicoeducazione in questi casi è già una forma di intervento terapeutico.

Il libro, prima di affrontare il cuore della tematica proposta, riserva qualche pagina per spiegare cosa sia il DOC, come funzioni, quali siano i sottotipi di ossessioni e compulsioni, spiegazione introduttiva semplice ma necessaria per addentrarsi poi nella spiegazione lineare e chiara di cosa sia il Doc da relazione.

La premessa fondamentale riguarda le origini di questa forma specifica forma di DOC con ossessioni pure. I dubbi, in questo caso, si posano sulla “giustezza” della relazione sentimentale, o delle caratteristiche del proprio partner (pp15).

I padri di questa forma di DOC sono due psicologi israeliani che per primi si sono occupati di studiare questo quadro sintomatologico, Dr Guy Doron e Dr Danny Derby (è consultabile il sito in inglese www.rocd.net).

Come spesso accade, la ricerca prende spunto dalla clinica, e i due cominciarono a interessarsi di questa tematica proprio verificando come i loro pazienti e moltissime altre persone, in blog e siti appositi, si arrovellassero “ossessivamente” alla ricerca della certezza che il partner fosse quello “giusto” per loro.

Questo solitamente porta a mettere in atto comportamenti compulsivo-rassicuratori che portano a loro volta un aumento della sofferenza per l’impossibilità di trovare risposte e conferme.

Tutto ciò tende a formare un circolo vizioso che incrementa la quantità di dubbi, l’allontanamento dalla propria sfera emotivo-affettiva per cui è sempre meno facile capire i propri sentimenti, in un processo ricorsivo di mantenimento.

Chi soffre di questo disturbo infatti è pervaso dal dubbio che la persona che è al suo fianco possa non essere quella giusta, che i sentimenti che prova possano non essere sufficienti o abbastanza intensi, che non provi l’attrazione “che si dovrebbe provare” o che il proprio compagno/a non sia abbastanza bello, intelligente, spigliato/a (ecc…) e che quindi non vada bene.

Lo scheletro del libro è semplice e chiaro: una prima parte volta a comprendere cosa sia il DOC da relazione, come si strutturi e cosa lo mantenga e quali possano essere i fattori predisponenti.

La seconda parte è invece un ottimo strumento per autovalutare la propria situazione con test e domande per capire se e quanto questo problema coinvolge la persona (vengono infatti proposti i questionari ROCI Relationship Obsessive Compulsive Inventory, il PROCSI Partner-Related Obsessive Compulsive Inventory e il DOCS Dimensional Obsessive Compulsive Scale); la terza invece si occupa della fase più “terapeutica” e di cambiamento, fermo restando la missione di voler essere un libro self-help senza la pretesa di volersi sostituire ad un percorso psicoterapeutico spesso fortemente necessario per venire fuori da questo problema.

È importante infatti comprendere la differenza tra chi soffre di questo disturbo e chi sperimenta un momento relazionale difficile, in cui i propri sentimenti possono essere messi in discussione.

Nel primo caso infatti vi è l’intolleranza a momenti di difficoltà, di normalità, o definibili come “bassi” nella relazione. Nonché la conseguente sensazione che sperimentare uno di questi possa essere vissuto come una “minaccia” o come “sbagliato”.

Si distinguono due categorie di ossessioni, quelle che riguardano la relazione e quelle che riguardano il partner. Tra le prime le sottocategorie riguardano ossessioni circa l’amore che si prova nei confronti del partner “lo amo abbastanza?”, l’amore che il partner prova nei nostri confronti “mi ama abbastanza?”, o l’adeguatezza della relazione “è la relazione giusta per me?”

Tra le ossessioni sulle caratteristiche del partner, invece, possiamo distinguere quelle che si focalizzano su caratteristiche fisiche “è abbastanza bello/a?” quelle sulle caratteristiche morali “ è abbastanza per bene?”, quelle sulle caratteristiche sociali “è abbastanza simpatico/a?”, sulla competenza “è abbastanza di successo?”, quelle sulla stabilità emotiva “è abbastanza stabile emotivamente?”.

Solitamente le situazioni in cui si manifestano sono momenti in cui la relazione si trova di fronte importanti decisioni (matrimonio, figli, convivenza..), oppure quando si percepiscono naturali oscillazioni, o ancora in situazioni di confronto con le altre persone o le altre coppie che tendono ad apparire, per una serie di bias, sempre migliori.

Questi dubbi portano alla messa in atto di strategie, come accennato sopra, che hanno lo scopo di rassicurarsi e annientare l’incertezza. Con l’evidente epilogo di aumentare l’ansia, quindi i dubbi, quindi la sofferenza, proprio per l’impossibilità di trovare una risposta con quel grado irreale di certezza ricercato.

Evitamento, controllo dei pensieri, richiesta di rassicurazioni o tentativi di autorassicurarsi, sono alcuni dei comportamenti messi in atto che mantengono il problema.

Alla base di tutto vi è la tendenza a ricercare la relazione e/o il partner spinti da una serie di regole (rigide) su come “dovrebbe essere” o su come “dovrebbero funzionare le cose”, regole che appaiono rigide, perfezionistiche, estreme, catastrofiche e sprovviste di alcuna sfumatura.

Per quanto riguarda la parte finale del libro, quella relativa al cambiamento, i casi clinici riportati fungono da supporto esplicativo per provare a mettere in pratica alcune strategie per iniziare ad agire differentemente all’interno del circolo vizioso ossessivo.

Il primo step è l’auto-osservazione mediante diario (vengono riportati alcuni esempi di schede compilate dai pazienti del libro) secondo il modello cognitivo ABC (che viene debitamente fatto conoscere sin dall’inizio del manuale) alla ricerca, e presumibile scoperta, di credenze sottostanti il DOC e di relativi comportamenti di mantenimento.

Si passa poi alla fase di scoperta di tutte le valutazioni secondarie prima, e di credenze disfunzionali poi, sottostanti la problematica durante la quale vengono proposti esercizi da poter provare a svolgere individualmente. Il tutto costantemente sostenuto anche da supporti grafici in cui vengono descritti figurativamente i fattori di mantenimento e i circoli viziosi.

La fase finale, come in tutte le terapie cognitivo comportamentali per il DOC, prevede l’esposizione con prevenzione della risposta (ERP) (vi sono riportati esempi di gerarchia e di modalità con le quali vengono stilate) e la prevenzione delle ricadute.

In questo tipo di problematiche l’autodiagnosi è spesso difficile, sebbene capiti spesso che il paziente si avvicini al problema con “il dubbio che si possa trattare di doc”, ma il giudizio del clinico diventa particolarmente rilevante proprio per la natura stessa del problema e l’incessante ricerca di rassicurazione. Pertanto sebbene nasca come un libro self help, il suo perfetto posto può essere all’interno di un percorso di terapia. Proprio perché, all’avviso di chi scrive, è sinceramente qualcosa che mancava e di enorme utilità, per il paziente in primis, ma anche per il terapeuta, per poter fornire materiale sapientemente e facilmente scritto che possa essere utilizzato.

Completa il libro l’appendice con “indicazioni per il partner” di estrema importanza poiché questo problema, sebbene riguardi la persona singola, difficilmente non coinvolge anche il partner.

Anzi è fondamentale che anche quest’ultimo sia a conoscenza delle dinamiche di funzionamento (in quanto è egli stesso ad essere oggetto delle ossessioni) al fine che possa comprendere che non è un problema che riguarda lui o la relazione dapprima, e per imparare, in seguito, modalità più efficaci di gestione del disturbo, come il parlarne apertamente e l’evitare rassicurazioni o comportamenti che rafforzino la spirale negativa.

Decisamente un libro che non c’era, ma che serviva!

Dal “Festival delle Emozioni” impariamo a controllare le emozioni con l’aiuto della musica

Ad inizio ottobre si è tenuta a Terracina la settima edizione del “Festival delle Emozioni”, tra i temi affrontati in questa edizione grande spazio è stato dedicato al rapporto tra emozioni e musica.

 

Come la musica riesce a far nascere in noi delle emozioni e come ci può aiutare ad esercitare un controllo sui nostri stati emotivi. A questo argomento sono stati dedicati diversi incontri, riportiamo in sintesi quanto emerso dal doppio appuntamento sul tema “La musica come fonte di emozioni” e “Regolare le emozioni attraverso la musica“.

Obiettivi del Festival

Il Festival nasce come approfondimento culturale di tipo cognitivo con lo scopo di favorire una crescita complessiva della persona attraverso la conoscenza, l’analisi e l’elaborazione delle emozioni. Ad esse viene attribuito un ruolo rilevante per la vita personale e sociale di ciascuno di noi. Formano la nostra identità, influenzano il nostro modo di pensare, le nostre abitudini, il rapporto con noi stessi e con gli altri.

A questo scopo il Festival si fa promotore di una serie di seminari, workshop, attività ludiche e laboratori con studiosi, scrittori, politici, educatori, psicologi, criminologi ecc. nella convinzione che educare alle emozioni, a riconoscerle e regolarle, sia di grande aiuto per migliorare la propria vita e accrescere le proprie potenzialità.

Emozioni e musica

La musica è forse la forma di arte che più di ogni altra, e in modo più immediato, riesce a trasmetterci emozioni. È anche la forma di arte che incontriamo più frequentemente e in modo più casuale. Spesso ascoltiamo musica senza volerlo, riceviamo stimoli musicali dall’ambiente che ci circonda senza aver scelto volontariamente di farlo. Ciò nonostante, quando le note arrivano al nostro cervello producono degli effetti, suscitano reazioni emotive e fisiologiche che prendono il nome di emozioni.

L’insorgere di emozioni dipende da diversi fattori, alcuni insiti nelle caratteristiche stesse della melodia che stiamo ascoltando, pensiamo al ritmo, altri esterni ad essa ma conseguenti, a tratti ascrivibili alla personalità di chi ascolta.

Nell’ascolto, infatti, ciascuno di noi proietta un bagaglio di esperienze personali che lo condizionano. Vissuti, ricordi, sensazioni, che riaffiorano nel momento in cui degli stimoli esterni (in questo caso musicali) raggiungono la nostra mente e che influenzano la nostra valutazione di quegli stessi stimoli. A queste esperienze più direttamente attribuibili alla nostra sfera personale, si vanno ad aggiungere condizionamenti di tipo sociale, culturale ed ambientale. Il contesto in cui viviamo è in grado di esercitare un’influenza sul nostro modo di valutare gli stimoli e di rispondere ad essi attraverso il giudizio sociale e le opinioni che ci aspettiamo di ricevere in risposta alle nostre reazioni e alle nostre scelte.

L’importanza dell’empatia

L’intensità delle emozioni che ci derivano dall’ascolto di una melodia è fortemente condizionata dalla nostra disponibilità a stabilire una sintonia con quello che ascoltiamo.

Vi siete mai chiesti perché la musica dal vivo riesce ad emozionarci molto più di quella che possiamo ascoltare da una radio o dalle cuffiette del nostro smartphone? Una delle risposte è proprio nella nostra disponibilità all’ascolto. Se decidiamo di uscire di casa per andare ad un concerto, questo implica una scelta e una volontà precisa, di conseguenza uno stato d’animo più aperto ad entrare in sintonia con quello che ascolteremo. Al contrario, durante l’ascolto di musica registrata siamo spesso impegnati contemporaneamente in altre attività che ci distraggono fungendo da elementi di disturbo, con il risultato di inibire la nostra capacità di immedesimarci in quello che ascoltiamo.

Determinante, nel nostro modo stabilire un contatto con un’esperienza di tipo musicale, è infatti la nostra capacità di empatizzare, cioè di mettere in atto quell’atteggiamento di apertura e comprensione verso l’altro (in questo caso il musicista) che ci porta a condividere i suoi i processi psichici consentendoci di metterci nei suoi panni, assumendo la sua prospettiva nella valutazione della situazione specifica.

Regolare le emozioni attraverso la musica

Quando ascoltiamo musica, normalmente lo facciamo con l’intento di rilassarci oppure decidiamo di utilizzarla con uno scopo, che può essere quello di cambiare, mantenere o rinforzare emozioni e stati d’animo che stiamo sperimentando in quel momento. L’ascolto di una musica o di una canzone ha una funzione auto-regolativa che consiste in queste fasi:

  • ripercorrere l’esperienza emotiva che stiamo vivendo (per rimanerne in contatto e intensificare i nostri stati emotivi);
  • rievocare i ricordi passati (spesso associati al brano che ascoltiamo);
  • ricercare la vicinanza di un amico simbolico (attraverso l’empatia di cui abbiamo parlato);
  • distrarci (per concentrarci su un altro stato d’animo che non sia quello attuale).

Entrare in una nuova prospettiva ci consente di esaminare una situazione da una differente angolazione, consentendoci di prendere le distanze da noi stessi e sperimentare un altro punto di vista.

Prendiamo ad esempio l’ascolto di una canzone triste in un momento in cui il nostro umore è orientato alla malinconia. Ascoltare musica triste intensifica certamente i sentimenti dolorosi che già proviamo, ma ci fa sentire in contatto con le nostre emozioni. Assolve quindi ad una funzione “catartica” che porta a una contemplazione comprensiva e supportatrice, come se si volesse vivere la tristezza in maniera ancora più profonda per poi sentirsi sollevati e poter riemergere dal proprio stato d’animo negativo.

Un esempio pratico

La trattazione teorica del rapporto tra emozioni e musica si è conclusa con un laboratorio-esperimento basato sull’ascolto di musica dal vivo. Al pubblico presente sono stati fatti ascoltare diversi ritmi e accordi così da dare una dimostrazione pratica di come questi possano influire sulla nostra respirazione.

Successivamente, con la partecipazione di volontari a cui sono stati forniti degli strumenti a percussione, si sono create in modo estemporaneo delle musiche che rispondessero all’idea che ciascuno dei partecipanti, singolarmente, aveva delle emozioni base: paura, rabbia, tristezza, gioia, arrivando a dimostrare che il codice usato dalla musica per trasmettere emozioni è comunemente condiviso.

 

I principali problemi che affliggono i giovani adulti

Attualmente, in letteratura, esistono poche ricerche che si sono occupate di indagare quali siano i fattori di stress che colpiscono maggiormente i giovani adulti.

 

La maggior parte degli studi si è concentrata su particolari tipi di stressor, come l’esser stati vittime di traumi (Romana Alparone, Pagliaro, & Rizzo, 2015) o sui problemi legati specificamente all’arrivo all’università (Pennebaker, Colder, & Sharp, 1990). Nel complesso, l’utilizzo di categorie ristrette nelle ricerche precedenti ha ostacolato la comprensione di ciò che i giovani adulti considerano come i maggiori problemi della loro vita.

Inoltre, nessuna ricerca ha valutato il disagio emotivo associato ai diversi tipi di stressor e si possiedono informazioni esigue anche sulle differenze di genere rispetto ai principali problemi della vita. I dati esistenti indicano che gli uomini esperiscono più problemi legati al lavoro rispetto alle donne (Matud, 2004), mentre quest’ultime riportano più fattori di stress relativi alla famiglia e ad altre relazioni sociali ed esperiscono un maggior disagio emotivo rispetto agli uomini (Brougham et al., 2009).

Uno studio sui fattori di stress tra i giovani adulti

Attingendo agli scritti di 315 partecipanti universitari, ai quali è stato chiesto di scrivere per quattro giorni consecutivi, 20 minuti al giorno, sul più grande problema della loro vita, uno studio preso in esame si è proposto di superare i limiti delle ricerche precedenti, esaminando i più grandi problemi di vita dei giovani adulti. In particolare, gli autori hanno analizzato gli elaborati al fine di comprendere quali fossero i maggiori problemi nella vita dei partecipanti; se vi fossero differenze di genere rispetto alla tipologia di problemi riportati da uomini e donne; quale fosse il livello di stress emotivo tra i soggetti con diversi tipi di problemi e se ci fossero differenze di genere nel livello di disagio emotivo associato al problema più grande nella vita degli individui. Le analisi condotte hanno permesso di individuare sei macro-categorie di problematiche, tra cui: l’ambito accademico, le relazioni sentimentali, la famiglia e, più nello specifico, la paura di deludere i genitori, la paura del futuro e del fallimento e l’immagine corporea.

I risultati hanno offerto una valutazione dettagliata dei principali problemi nella vita dei giovani adulti e contribuiscono, più in generale, ad affrontare domande di ricerca fino ad ora trascurate e a sfidare alcune ipotesi di vecchia data sulle differenze di genere.

Nello specifico, i risultati indicano che, in linea con le ricerche precedenti, i principali problemi di vita tra i laureandi includono gli studi, le relazioni e l’incertezza sul futuro. I principali problemi relativi all’ambito accademico riguardavano per lo più i voti e la gestione del tempo, mentre, per ciò che concerne l’ambito relazionale, le preoccupazioni concernevano le rotture e gli amori non corrisposti. Inoltre, le analisi hanno rivelato la presenza di due nuove categorie di problemi, che non erano state citate nelle ricerche precedenti: salute e benessere e paura del fallimento. È bene specificare che le preoccupazioni inerenti alla salute e al benessere riguardavano per lo più la salute mentale.

Diversamente dalla ricerca precedente, i presenti risultati hanno indicato che uomini e donne avevano la stessa probabilità di identificare come maggiori problemi aspetti inerenti agli studi e alle relazioni romantiche. Questi risultati sfidano le ipotesi convenzionali secondo cui gli uomini sono più orientati al raggiungimento di risultati rispetto alle donne e che le donne sono più propense a sperimentare difficoltà relative alle relazioni sentimentali rispetto agli uomini.

I risultati hanno rivelato che le persone il cui principale problema di vita era caratterizzato da abusi o traumi passati, o dalla salute e dal benessere altrui, hanno sperimentato i più alti livelli di disagio emotivo.

Questi risultati aumentano la comprensione di quali siano i fattori di stress che probabilmente ostacolano o affaticano i giovani a livello psicologico, rendendoli più a rischio di contrarre gravi problemi di salute mentale e fisica (Foster et al., 2008).

Giovani adulti e salute mentale

Dunque, i giovani adulti vivono determinati aspetti della loro vita in modo particolarmente angosciante e, quanto appena detto, sfida il pensiero comune di molti adulti, che ritengono che i giovani d’oggi vivano con estrema superficialità le proprie vite, concentrandosi su aspetti futili, quando, in realtà, non è così. Si tratta di una generazione caratterizzata dalla paura di fallire e da un estremo sentimento di inadeguatezza, generato dall’idea che non bisogna perder tempo e che ogni giorno sarà necessario svegliarsi e correre più in fretta degli altri per essere migliori.

Pertanto, tenendo conto che l’insorgenza di molti disturbi mentali, come la depressione maggiore, il disturbo bipolare e l’abuso/dipendenza da sostanze avviene tra i 18 e i 24 anni (Kessler et al., 2012), esaminare la prevalenza e l’impatto emotivo dello stress potrebbe migliorare le politiche di prevenzione delle malattie e della promozione della salute (Foster, Hagan, & Brooks-Gunn, 2008) tra i soggetti in questa fascia d’età, consentendo ulteriormente di migliorare la qualità delle loro vite.

 

Aaron T. Beck: Il rasoio di Occam e la forza della semplificazione

Il modo migliore per ricordare Aaron T. Beck, scomparso oggi primo novembre del 2021, è riflettere ancora una volta sul suo contributo allo sviluppo della psicoterapia cognitivo comportamentale (cognitive behavioural therapy o CBT).

Nacque a Providence, Rhode Island, negli Stati Uniti, da genitori immigrati ebrei ucraini. Frequentò la Brown University, laureandosi nel 1942. Dopo aver completato i suoi internati e specializzazioni nel 1950, Beck divenne psichiatra presso l’Austen Riggs Center, un ospedale psichiatrico privato nelle montagne di Stockbridge. Inizialmente psicoanalista e allievo di David Rapaport, a partire dagli anni ’60 iniziò a sviluppare il suo modello di CBT.

Come si sa, nel modello CBT di Beck i disturbi emotivi sono considerati in relazione -a volte diretta- con errori di valutazione cognitiva della realtà da parte della mente e la terapia CBT di Beck consiste nella correzione di questi errori. Il contributo di Beck è stato quello storico di positiva economizzazione efficiente delle procedure cliniche, all’epoca perse in modelli psicodinamici dotati di intuizioni brillanti ma che a tutto obbedivano eccetto che al principio di semplificazione del rasoio di Occam. La deriva della psicoanalisi verso una complessità crescente ma disordinata dei principi teorici e verso una pratica clinica sempre meno accessibile (trattamenti di insostenibile lunghezza e intensità: anni di analisi con più sedute a settimana) portò a una difficoltà a valutare la reale efficacia dell’analisi e a una sfiducia nell’utilità clinica della psicoterapia, culminata con uno scoraggiante articolo di Eysenck (1952).

La CBT di Beck permise trattamenti di durata e intensità ragionevole la cui efficacia poteva essere valutata (Rush et al., 1977). L’economicità della CBT di Beck fu la sua forza, perché pur essendo affetta da alcuni limiti, essa agiva come il rasoio di Occam generando quel modello scientifico e clinico di psicoterapia ragionevolmente verificabile e affidabile che fino a quel momento era mancato. La CBT non produceva solo teorie e tecniche, ma forniva razionali -comprensibili al buon senso e al tempo stesso rigorosi- dell’intervento sulla sofferenza emotiva. Essa faceva dipendere la psicopatologia emotiva da modelli del disfunzionamento mentale costruiti senza inferenze troppo audaci e difficilmente verificabili ma ragionevolmente accessibili sia alla coscienza del paziente e osservabili sia durante il colloquio dallo psicoterapeuta che nella raccolta dati della ricerca empirica. Insomma, tutte le ipotesi erano controllabili a tutti i livelli:

  1. popolare (il paziente);
  2. clinico (il terapista);
  3. scientifico (la ricerca).

 

In breve, la CBT di Beck era un modello a bassa inferenza. Un modello che proponeva che la sofferenza emotiva e i comportamenti disfunzionali, quelle emozioni che tanto ci fanno soffrire e quelle azioni che ancora di più ci danneggiano, non sono frutto d’impulsi misteriosi e inaccessibili –insomma inconsci- ma dei nostri pensieri consci di tipo negativo e disfunzionale. Pensieri di relativo facile accesso alla coscienza del paziente e all’accertamento sia clinico in seduta mediante semplici domande (ad es., “cosa le è passato per la testa in quel momento in cui aveva l’ansia?”, con risposte del tipo: “non mi sentivo adeguato sul lavoro”, “che con gli amici non so mai cosa dire”, “sono completamente incapace di trovare un partner”) che in studi empirici, condotti con i questionari e le scale di valutazione. Ecco quella concisione e controllabilità di cui abbiamo parlato: siamo in ansia e passiamo la vita a nasconderci perché pensiamo di essere in pericolo; siamo depressi e non ci impegniamo in nulla perché nulla ci sembra sensato, divertente e valevole del nostro impegno; siamo arrabbiati e ce la prendiamo con gli altri perché pensiamo che qualcuno o qualcosa ingiustamente ci ostacoli.

Dunque, nulla d’incomprensibile ma tutto a portata di mano. Nel modello CBT di Beck la sofferenza emotiva dipende quindi da ragioni mentali prossimali, vicinissime al problema emotivo: quello che hai pensato un attimo prima di star male, errori di pensiero somiglianti ai pensieri giusti (chiamiamoli così) ma che trasformano la realtà in un incubo: sconfitte parziali trasformate in fallimenti globali della propria vita, esami universitari scambiati per prove terrificanti, e così via.

E altrettanto a portata di mano era il cambiamento emotivo e clinico, ottenibile semplicemente mettendo in discussione questo modo di pensare accessibile alla coscienza. Questo significa che nella CBT non solo la teoria della sofferenza ma anche la teoria della terapia e del cambiamento clinico è a bassa inferenza: ovvero, è possibile modificare i propri stati mentali ragionando sull’utilità pragmatica e sull’adesione logica alla realtà dei propri pensieri espliciti. Questo ha consentito alla CBT di essere il primo modello di psicoterapia che forniva dei metodi osservativi affidabili per accertare la psicopatologia, per valutare la correlazione tra psicopatologia e sintomi e per misurare la correlazione tra modificazione di variabili psicopatologiche che spiegassero la sofferenza emotiva e il miglioramento clinico.

Quindi, sebbene i processi mentali alla base della sofferenza emotiva siano più complessi e implicano non sola la corretta lettura della realtà ma anche la gestione (dis)funzionale dei propri stati emotivi (“se provo ansia, non lo sopporterò” oppure “se provo ansia, allora sono un incapace”), La felix culpa di Beck fu che intuì che le distorsioni di processo possono presentarsi alla coscienza come contenuti semplificati sul pericolo esterno o sulla incapacità personale e soprattutto che esse siano trattabili in termini di semplici contenuti valutabili criticamente mediante un esame di realtà, il classico questioning di Beck:

  • che probabilità c’è di essere bocciati all’esame?
  • che prove ci sono del fatto che sono / non sono capace?
  • che prove ci sono che posso / non posso tollerarlo?

 

Un altro aspetto qualificante fu che la CBT operazionalizzò, ovvero definì in maniera praticabile e controllabile la componente operativa dell’intervento (la cosiddetta “tecnica”), rendendo possibile la replicabilità dell’esecuzione dei trattamenti a ogni terapeuta adeguatamente formato in maniera corretta. Questa definizione della tecnica consentì alla CBT di essere tra le prime psicoterapie manualizzate e soprattutto la prima psicoterapia di cui si poteva verificare l’efficacia come si faceva per un farmaco: per la prima volta furono messi a punto degli interventi di psicoterapia chiari e operativi e la cui efficacia era dimostrabile (Beck, 1976).

Un altro punto di forza della CBT fu la specificità diagnostica e medica delle sue variabili, per cui fu in grado di medicalizzare -nel senso migliore del termine- la psicoterapia, ovvero di produrre modelli specifici per singoli disturbi psichiatrici. Ad esempio, il depresso (il modello di Beck fu pensato inizialmente per la depressione) ha pensieri di completa perdita di fiducia in sé stesso, nel mondo che lo circonda e nelle proprie prospettive di vita. Non è la tristezza generata dall’impossibilità di ottenere qualcosa a cui si tiene, ma una completa perdita di senso. Stesso discorso per l’ansia patologica: essa va al di là di un’accettabile preoccupazione perché l’individuo ansioso ritiene che una certa situazione, ad esempio un esame, non sia semplicemente difficile, ma estremamente impegnativa, forse addirittura pericolosa, e di non essere all’altezza della prova.

Insomma, l’applicabilità psichiatrica della CBT fu il fattore che permise quella medicalizzazione che talvolta oggi è vista come una colpa della CBT e che invece all’epoca rese un favore a tutte le psicoterapie, che smisero di essere considerate un possibile bluff, qualcosa che forse non funzionava come aveva suggerito Eysenck (1952). Permise quella valutazione di efficiacia che fino a quel momento era riservata solo ai farmaci riuscendo nell’impresa di dimostrarne l’effetto positivo sulla depressione (Rush, Beck, Kovacs, & Hollon, 1977).

La forza della CBT

  1. Operazionalizzazione della sofferenza emotiva: Definizione osservabile e operativa della psicopatologia come disfunzionalità mentale accessibile alla coscienza;
  2. Osservabilità del processo psicopatologico: Modello ragionevole e osservabile, ovvero a bassa inferenza del rapporto tra psicopatologia e sintomatologia;
  3. Operazionalizzazione del processo terapeutico: Definizione osservabile e operativa dell’intervento (questioning, ristrutturazione, esposizione) come modificazione della disfunzionalità mentale;

Amnesia di origine psicogena: tipologie ed esiti

L’amnesia psicogena consiste nella perdita di memoria a causa fattori psicologici.

 

L’amnesia psicogena può essere globale, ossia coinvolgere tutti i ricordi autobiografici di un individuo, oppure specifica alla situazione (Kopelman, 1987). Quest’ultima si riferisce ad una lacuna nella memoria per un incidente traumatico e può insorgere in una varietà di circostanze: come disturbo da stress post-traumatico (Brewin et al., 2011) o l’essere vittima di un reato (Andrews et al., 2000; Mechanic et al., 1998).

Sono stati identificati tre fattori predisponenti per l’amnesia psicogena globale (Kopelman, 1987): un grave stress precipitante come una crisi coniugale o emotiva come un lutto, una crisi finanziaria o una guerra (Kanzer, 1939); una storia di umore depresso e ideazione suicidaria (Berringron et al., 1956); e una precedente amnesia neurologica transitoria (Berringron et al., 1956).

Nonostante siano state identificate storie di traumi infantili, abusi sessuali e problemi di abuso di alcol e sostanze (Coons & Milstein, 1992), la scarsa ricerca a riguardo rende difficile generalizzare i fattori predisponenti.

Le difficoltà neuropsicologiche nei casi di amnesia psicogena globale sono piuttosto variabili; mentre la memoria autobiografica retrograda è compromessa, la memoria anterograda può essere intatta, lievemente o gravemente compromessa (Barba et al., 1997). Per quanto concerne le possibilità di recupero, la prognosi è generalmente buona (Parfitt & Gall, 1944) e condizionata da fattori ambientali (Schacter et al., 1982), sebbene in molti casi l’amnesia persista nel tempo (Kapur, 2000; Serra et al., 2007).

Negli studi di neuroimmagine funzionale volti a studiare l’amnesia psicogena, sono state riportate alterazioni nell’attivazione e inibizione prefrontale (Glisky et al., 2004; Markowitsch et al., 1997), alterazioni del lobo temporale (Yasuno et al., 2000), alterazioni corticali posteriori (Botzung et al., 2007), o una combinazione di tutti questi aspetti (Magnin et al., 2014). Questa variabilità può riflettere le differenze nelle sindromi descritte.

Data la carenza di studi su questa tipologia di amnesia e dei suoi sottotipi, l’indagine di Harrison et al., (2017), ha esaminato 53 casi di amnesia psicogena al fine di descrivere ed esplorare le differenti manifestazioni, confrontandole con un gruppo di pazienti neurologici.

I pazienti studiati riportavano quattro diverse sindromi cliniche di amnesia psicogena: 1) con fuga psicogena (perdita del senso dell’identità personale con un periodo di vagabondaggio di pochi giorni fino a un mese; Schacter et al., 1982); 2) con fuga psicogena ed amnesia focale retrograda (con perdita di memoria più persistente) (Kapur, 1993); 3) amnesia retrograda focale psicogena, a seguito di un episodio neurologico minore e 4) lacune di memoria per cause psicologiche. Sono emerse importanti differenze cliniche e psicometriche tra questi gruppi con significativo valore prognostico.

Nell’amnesia psicogena, i gruppi con la componente di fuga psicogena sperimentavano più di frequente la perdita dell’identità personale, mentre il mancato riconoscimento dei familiari era più comune nel gruppo con amnesia retrograda focale.

Tutti i gruppi con amnesia psicogena riportavano la presenza comune di una storia di disturbi neurologici, una diagnosi di depressione, problemi familiari/relazionali o finanziari/lavorativi. Tra le problematiche estremamente comuni vi era l’aver vissuto un infanzia problematica, l’abuso di alcol o di sostanze, mentre il disturbo di somatizzazione e il disturbo da stress post-traumatico erano meno frequenti di quanto era stato previsto.

L’amnesia psicogena si differenziava da quella causata da fattori neurologici, per la presenza della perdita dell’identità personale, mentre i sintomi neurologici erano sempre presenti nel gruppo con episodio neurologico. Inoltre, la depressione, l’incapacità di riconoscere i membri della famiglia, problemi familiari o relazionali, problemi finanziari o occupazionali e una storia di disturbo da stress post traumatico, erano presenti maggiormente tra coloro con amnesia psicogena. I pazienti di genere femminile, riportavano di frequente uno stress emotivo o un evento significativo antecedente l’amnesia di origini neurologiche (Quinette et al., 2006).

Infine, i ricordi autobiografici venivano recuperati similmente nell’amnesia con fuga psicogena e in quella per cause neurologiche. In generale, i gruppi con amnesia psicogena riportavano al follow up un miglioramento sostanziale nella memoria, evidenziando una prognosi migliore rispetto a quanto ha suggerito la letteratura precedente.

Globalmente, i soggetti con amnesia psicogena sono stati trattati per la loro depressione con farmaci antidepressivi, identificando e affrontando le preoccupazioni psicosociali sottostanti (crisi relazionali, problemi finanziari, lutti) e, in caso di persistente deficit, mediante un’intervista orientata al rievocare i ricordi  (McKay & Kopelman, 2009). Alcuni autori hanno proposto una forma di intervista sotto sedazione (Ruedrich et al., 1985) o ipnosi (Garver et al., 1981), ma i trattamenti attuali più efficaci incorporano tecniche della terapia cognitivo comportamentale e della terapia di accettazione/impegno (Cassel & Humphreys, 2016).

Nel tentativo di comprendere l’amnesia psicogena sono stati proposti due diversi modelli. La teoria di Markowitsch (2002) e Staniloiu & Markowitsch ( 2014) considerava il rilascio di ormoni legati allo stress (a seguito di disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene), come fattore chiave che avrebbe comportato una “sindrome da blocco amnesico”. Il modello di Kopelman (2000) invece, enfatizzava il ruolo di una grave crisi precipitante, umore depresso ed esperienza passata di amnesia neurologica transitoria, come fattori in grado di innescare una perdita della memoria autobiografica.

 

Formulazione del caso LIBET e modello cognitivo comportamentale: la conferma empirica

Con soddisfazione e orgoglio segnaliamo la pubblicazione della prima conferma empirica della procedura di formulazione del caso LIBET (Life Themes and Semi-Adaptive Plans—Implications of Biased Beliefs, Elicitation and Treatment) elaborato dal nostro gruppo di ricerca.

 

È un lavoro open access, gratuitamente accessibile a tutti e lo trovate cliccando qui oppure qui in formato PDF

La validazione empirica della formulazione del caso LIBET è la prima conferma concreta dell’affidabilità di una procedura di formulazione del caso che non intende essere l’ennesimo nuovo modello di psicoterapia tra i tanti che si stanno moltiplicando (e molti con la loro conferma empirica) ma, al contrario, si propone come una procedura di formulazione e impostazione di una terapia già affermata, la psicoterapia cognitivo comportamentale, che integra alcune tradizioni ma tutte interne all’ambito di questa psicoterapia, dall’attenzione alle distorsioni comportamentali e cognitive di stampo funzionalista all’interesse per la storia di vita e gli scopi personali di ispirazione evolutiva. Inoltre la LIBET si propone come conferma empirica non solo di se stessa come procedura ma anche della validità della formulazione diatesi – stress, formulazione che è alla base dell’intero modello cognitivo-comportamentale. Infine la LIBET, nei prossimi sviluppi, aspira a fornire euristiche e quando possibile anche indicatori per le scelte terapeutiche e per i loro razionali, scelte ancora una volta tendenzialmente interne al campo clinico cognitivo-comportamentale ma, dove possibile, anche esterne purché dotate di un razionale compatibile con le euristiche cognitivo comportamentali di scelta clinica strategica della LIBET. Insomma, se questa impresa riuscirà, si tratta di elaborare un modello coerente e testabile di integrazione clinica scientificamente fondata che vada oltre il pur legittimo eclettismo fondato sul buon senso clinico.

In questo primo articolo si descrivono e si validano i primi due assi organizzativi delle variabili LIBET, i “temi di vita” e i “piani semi adattivi”, termini che non si limitano a ribattezzare gli assi classici del modello cognitivo standard di Beck, le credenze centrali e le strategie di fronteggiamento, ma li rielaborano tenendo conto dell’aspetto evolutivo ed esistenziale del significato personale sia delle credenze centrali (che per questo diventano temi di vita) che delle strategie di fronteggiamento (che per questo piani semi adattivi). Si tratta insomma di riassorbire quella evoluzione -che qualcuno chiama costruttivista- delle variabili razionali di Beck, operata però in termini di integrazione del modello di Beck e non di sua confutazione.

Naturalmente la validazione della procedura LIBET non finisce qui ma proseguirà con la validazione dell’asse dei processi, ulteriore integrazione proposta dalla LIBET che aspira quindi ad assimilare anche la terza onda processualista in questo suo sforzo di riassorbimento delle correnti disperse del modello cognitivo comportamentale: comportamentismo, razionalismo, evolutivismo (preferiamo questo termine a quello di costruttivismo) e processualismo.

 

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