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Vasi comunicanti: il dialogo tra Mente e Corpo

 

“La chiave della salute è vivere pienamente la vita del corpo.

Vivere la vita del corpo significa essere in contatto con i propri sentimenti ed essere capaci di esprimerli.

 Questo richiede che il corpo sia il più possible libero dalle tensioni muscolari che ci affliggono”

(A. Lowen)

 

Vasi comunicanti. il dialogo tra mente e corpo. - Immagine:  © freshidea - Fotolia.comLa ricerca scientifica ha ormai trovato accordo sul fatto che vi sia un forte legame tra benessere fisico e benessere psicologico (tra mente e corpo) e che vanno l’un l’altro influenzandosi sia in senso positivo che in senso negativo. Questo deve essere tenuto bene nella mente del clinico nella presa in carico di pazienti con dolore cronico o fribromialgia: una patologia così invalidante, che ha delle conseguenze spesso molto importanti nella quotidianità delle persone in termini di relazioni, vita sociale e lavorativa. Una patologia che sulla carta spiana il terreno allo svilupparsi di una sintomatologia ansiosa o depressiva.

I dati pubblicati dai ricercatori dell’Università di Pisa su Psychotherapy and Psycosomatic vanno proprio in questa direzione, sottolineando, appunto, il dialogo tra mente e corpo.

I ricercatori della Clinica reumatologica dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa hanno studiato un campione di 48 donne affette da fibromialgia e lo hanno confrontato con un campione omogeneo per età di donne sane.  La fibromialgia è un disturbo che si manifesta con dolori diffusi, stanchezza e difficoltà di concentrazione e porta spesso a un atteggiamento negativo verso il mondo dato l’impoverimento della vita sociale relazionale e lavorativa secondario alla malattia stessa.

Sindrome da Affaticamento Cronico. Immagine: © lassedesignen - Fotolia.com
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Questo stesso dato porta il soggetto ad una maggiore vulnerabilità nello sviluppare sintomi ansiosi o depressivi andando di conseguenza a peggiorare anche la percezione della “disabilità” causata dalla malattia in una sorta di circolo vizioso al negativo. Obiettivo della ricerca è stato valutare quanto il benessere psicologico potesse andare a incidere sulla disabilità secondaria alla fibromialgia. Per benessere psicologico si intende la sensazione di stare conducendo una vita significativa, l’avere buone relazioni amicali ed affettive, l’avere una buona considerazione di sé, oltre alla percezione di poter “controllare” la propria vita. Attraverso una serie di questionari i ricercatori hanno indagato le variabili oggetto dello studio: benessere psicologico, percezione del dolore e disabilità funzionale. I dati raccolti hanno mostrato che la depressione è un tratto significativamente più comune nel gruppo delle pazienti rispetto ai controlli sani, ma soprattutto  hanno mostrato che il benessere psicologico influenza sia il grado di disabilità percepita che la probabilità di sviluppare un disturbo dell’umore. “Avere una direzione, ovvero, programmi ed obiettivi, assieme a un buon grado di relazione e fiducia negli altri sembra prevenire una riduzione delle capacità funzionali, e questo protegge dalla depressione. Anche essere positivi e avere una buona autostima diminuisce il rischio di ansia e quindi di disturbo dell’umore” concludono gli autori.

Questi dati in un’ottica biopsicosociale di presa in carico suggeriscono che i sintomi della fibromialgia possano essere attenuati da buone relazioni sociali ed interpersonali, da una buona autostima e dall’avere degli obiettivi e propositi di vita da perseguire.

Un altro dato interessante a conferma del dialogo tra mente e corpo ci arriva dal mondo degli atleti “confrontando la percezione del dolore di 550 atleti e 330 persone con livelli normali di attività fisica, sia uomini che donne, non sono emerse differenze significative nella percezione del dolore, ma gli atleti presentavo una maggior tolleranza allo stimolo doloroso, erano, cioè, in grado di sopportare un dolore più intenso. Questo quanto emerge da un articolo pubblicato su Pain.

Sistema immunitario - Immagine: © DPix Center - Fotolia.com
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Lo studio ha inoltre rilevato che la tolleranza allo stimolo doloroso dipende anche dal tipo di attività fisica praticata: gli atleti che praticavano i cosidetti game sport (giochi di squadra, tennis…) avevano livelli di tolleranza variegati tra loro, mentre gli atleti che praticavano sport di resistenza avevano una tolleranza del dolore piuttosto omogenea tra di loro. Questo dato oltre ad interessare neurobiologi e fisiologi risulta essere molto interessante sul piano clinico, in quanto ci fa presupporre che un certo tipo di allenamento e certi esercizi fisici possano migliorare la percezione del dolore. Questo va a confermare i dati che ci dicono che il praticare una regolare attività fisica va a migliorare la qualità della vita delle persone che soffrono di dolore cronico, in una specifica direzione non andando a diminuire la percezione, ma aumentandone la tolleranza, rendendo, quindi, la convivenza con il sintomo più accettabile.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Amore online: relazioni reali con match virtuali

Amore online: relazioni reali con match virtuali. - Immagine: © Costanza Prinetti 2012.
Amore online. Immagine: © Costanza Prinetti 2012.

 

Amore online: Stabilire relazioni strette, in particolare quelle amorose, è un bisogno essenziale dell’essere umano che direziona molte delle nostre azioni e delle nostre scelte. Creare e mantenere relazioni solide è di fondamentale importanza per il nostro benessere e contribuisce a dare senso e soddisfazione alla nostra vita.

Un’ analisi approfondita degli studi scientifici in materia di amore online è stata pubblicata recentemente da Finkel  e collaboratori (2012). Gli autori, dopo avere discusso approfonditamente le teorie di psicologia sociale relative alle relazioni, hanno messo a confronto la ricerca del partner su internet con quella tradizionale del tu per tu. Le domande che ne sono emerse non sono di poco conto: gli incontri online hanno le stesse caratteristiche di quelli, per così dire, offline? Sono migliori? Soprattutto, algoritmi matematici creati per supporti informatici possono creare delle coppie compatibili?

La Scelta del Partner: dall'innamoramento alla costruzione di una relazione stabile. Immagine: © Artistan - Fotolia.com -
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Secondo i ricercatori, la ricerca del partner attraverso canali virtuali non è cosa nuova, ma era già presente a partire dagli anni ’60. La svolta decisiva si ha però nel 1995 con il lancio del sito web match.com. Grazie alla tecnologia più avanzata rispetto ai decenni precedenti, infatti, è stato possibile creare programmi semplici su computer veloci. Attraverso questi strumenti migliaia di persone avevano l’opportunità di connettersi, condividere e comunicare attraverso il web. Era nata la prima generazione di ricerca di partner online. La successiva svolta si ha nel 2000 con la nascita di eHarmony che, andando oltre ciò che pubblicizzavano i siti web concorrenti, prometteva di trovare il partner compatibile, utilizzando screening psicologici e strumenti scientifici. Attualmente, ci troviamo addirittura in una terza generazione di rapporti online basati sulle apps dei dispositivi mobili che ci portiamo in giro tutti i giorni. Oggi, se hai voglia di avere un appuntamento con un possibile partner, hai solo bisogno di uno smartphone che attraverso il GPS ti indica persone disponibili nella tua zona.

Ma che cosa offrono in più, rispetto alla relazione tradizionale, gli strumenti informatici?

Prima di tutto l’accesso: non vi è alcun dubbio che con l’avvento di internet le occasioni di “incontrare” nuove persone sono aumentate esponenzialmente. Se si considera che normalmente le persone si conoscono all’interno di ambienti circoscritti – come il lavoro, la scuola, i gruppi sportivi etc. , le nuove tecnologie permettono di entrare in contatto con una quantità di persone che normalmente non potremmo mai incontrare. Secondo i dati di Finkel (2012), il 30% della popolazione mondiale utilizza internet regolarmente. Tradotto in termini di incontri virtuali, significa che tutti noi siamo esposti all’incontro online con quasi 2 milioni di persone. Certo, nessuno di noi ha bisogno di 2 milioni di appuntamenti romantici, ma sicuramente questo dato non ha rivali nel passato. Oramai chattare con persone attraverso la rete, visualizzare profili e proporsi come partner sul web sono diventati fenomeni comuni, socialmente accettati.

Il secondo aspetto legato a internet è sicuramente quello della comunicazione: i siti web di incontri virtuali permettono alle persone di comunicare, parlare, mandarsi messaggi privati o visualizzare foto prima ancora di incontrarsi. La propria pagine web diventa un luogo di presentazione personale e di promozione di sé.

Infedeltà emozionale ai tempi del web 2.0 - Immagine: © Spectral-Design - Fotolia.com
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Il terzo aspetto che i ricercatori indicano come caratteristico degli strumenti virtuali è il matching: la novità delle nuove generazioni di siti dediti agli incontri online, sta nel fatto che essi non si limitano esclusivamente a offrire la possibilità di connettersi con altre persone, bensì promettono di trovare LA persona giusta. Ad esempio, i programmatori di eHarmony hanno affermato che “Dopo tre anni di ricerca e sviluppo, abbiamo identificato la chiave delle dimensioni di personalità che predicono compatibilità e potenzialmente, il successo di una relazione a lungo termine”.

In siti come questo, le persone compilano dei questionari online con alcune informazioni generali (come il sesso, l’età, il livello di istruzione, l’orientamento religioso ecc..) accompagnate a domande più legate alla personalità: interessi, immagine di sé, preferenze sportive, ecc. Alla fine, il candidato in questione inserisce una foto, paga una piccola tassa di iscrizione e…Il match è fatto!

Il particolare omesso è che questi servizi non forniscono alcune informazioni su come le variabili vengono pesate statisticamente e su come vengano combinate tra loro a computer. Gli algoritmi di tali siti web sono per lo più segreti e non sono mai stati pubblicati studi sulla validità o affidabilità delle scale di misura utilizzare o dei modelli usati per accoppiare le persone.

Certamente, scegliere e rimanere in una relazione a lungo termine con una persona è impresa assai ardua da predire. Le coppie, una volta nate, infatti, agiranno come diadi e il loro successo dipenderà da come i partner sapranno affrontare le crisi che si presenteranno. È l’interazione che conta, ciò che ognuno porta nello spazio comune della coppia, che determinerà l’evoluzione della coppia stessa e che può essere scoperto solamente dopo che la coppia si è formata.

Indubbiamente, internet ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare, di connetterci con gli altri e anche di incontrare nuove persone. Rappresenta uno strumento estremamente utile e con infinite potenzialità. Ciò che a mio parere bisognerebbe tenere a mente è che si tratta di un mezzo, uno strumento che può aiutare e che offre stimoli e possibilità ogni giorni diverse. Chiaramente non può essere vissuto come la soluzione ai problemi o come una via di fuga dalle relazioni reali.

Come diceva già il Dr. Snyder del MIT in un articolo del 1966, internet per lo meno ti permette di vedere chi è disponibile.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Medici & Pazienti: diagnosi, comunicazione e internet

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

“Dottore, mi fido di lei ma onestamente guardo anche su Internet!”

I pazienti navigano su internet alla ricerca di significati e interpretazioni dei propri sintomi. Aspetto che ritroviamo sicuramente in modo patologico nei pazienti ipocondriaci, ma non solo. E soprattutto il fenomeno non riguarda solo la sintomatologia psichiatrica ma anche la sfera somatica in generale. Secondo un nuovo studio della University of California i pazienti dei nostri tempi utilizzano molto Internet per documentarsi, informarsi e arrivare preparati alle visite medico-specialistiche giocando un ruolo più che attivo nel processo diagnostico e terapeutico. Lo studio ha preso in esame circa 500 persone membri di gruppi di supporto on-line e che avevano fissato un appuntamento con un medico specialista. Analizzando le modalità di fruizione di tali gruppi, di altre risorse di Internet e di fonti tradizionali (tra cui anche chiedere pareri ad amici e familiari) la ricerca ha dimostrato che non vi sono evidenze per cui i pazienti che ricercano informazioni su Internet riguardanti la propria patologia non debbano avere fiducia nel medico specialista cui si stanno rivolgendo.

Altri fattori sembrano invece impattare sulla scelta di ricercare attivamente informazioni su Internet riguardo al proprio stato di salute, tra cui, per esempio, una condizione di preoccupazione rilevante oppure la sensazione di poter avere un margine di controllo sul proprio malessere. Ritroviamo anche una maggiore ricerca attiva di informazioni in rete nei casi in cui i pazienti ritengano che sia molto probabile la persistenza nel tempo della loro condizione medica.

Un altro dato interessante riguarda come operativamente vengono poi giocate le informazioni raccolte nelle relazione medico-paziente: circa il 70% dei soggetti dello studio ha riferito che avrebbe chiesto chiarimenti al medico riguardo le informazioni trovate su Internet, e addirittura il 40%  ha espresso l’intenzione di stampare il materiale trovato in rete per condividerlo con lo specialista durante la visita.

Al di là delle osservazioni naives che ciascun professionista (e anche ciascun paziente) raccoglie nell’ambito della pratica clinica, questi dati fanno luce su  nuovi fenomeni in cui gli artefatti digitali degli anni 2000 stanno modificando le relazioni e le interazioni medico-paziente nell’ambito sanitario. Dunque, quali emozioni sono in gioco e che interpretazioni darà il singolo specialista di fronte a questo fenomeno, e soprattutto francamente quali possono essere  i pro e i contro per la pratica clinica, sia essa medico-somatica o psicoterapica? 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Le Psychiatric Band nella Riabilitazione Psichiatrica – Prima Parte


La nostra sofferenza non è mica un problemino da curare con ricette

 scritte in un cioccolatino…

Impariamo a volare, Fermata Fornaci, 2009

 

Le Psychiatric Band nella Riabilitazione Psichiatrica - Prima ParteIl cosiddetto stigma in ambito psichiatrico è un’attitudine negativa nei confronti delle persone affette da disagio psichico, frutto di dannosi pregiudizi (pericolosità sociale, rischio di “contagio”, sottovalutazione delle capacità). Lo stigma non è privo di conseguenze molto negative che possono portare all’esclusione sociale delle persone che soffrono di patologie psichiatriche e all’allontanamento delle stesse dai percorsi di cura.

Nel 2008 è decorso il trentennale della Legge Basaglia (1978), che ha portato alla chiusura dei manicomi e alla nascita di una psichiatria più moderna. Per ricordare tale data storica, in collaborazione con il Comune di Modena ed altri enti socio-assistenziali locali abbiamo organizzato il concorso “Oltre il muro, una canzone a trent’anni dalla legge Basaglia”, in cui abbiamo invitato gruppi musicali e cantautori della zona a scrivere una canzone ispirata ad alcuni pensieri del grande psichiatra veneziano.

Hanno risposto all’appello più di quaranta band ed è lì che per la prima volta ho sentito parlare di psychiatric band. Quattro dei gruppi partecipanti erano nati infatti nell’ambito della riabilitazione psichiatrica e comprendevano utenti, operatori e talvolta musicisti volontari. 

Da tale iniziativa è nato un CD e un libretto con i testi delle canzoni, scaricabile

Musica & Terapia: "La prossima volta porti la chitarra". - Immagine: © RA Studio - Fotolia.com
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La definizione psychiatric band non ha una sua ufficialità scientifica, o per lo meno non ho trovato ancora nulla in letteratura, ma credo sia un termine simpatico ed efficace per definire gruppi musicali formati da utenti (musicisti e non), operatori (musicisti e non) e musicisti volontari che nascono proprio all’interno di percorsi di riabilitazione psichiatrica pubblici, privati convenzionati o nell’ambito del volontariato sociale (Centri diurni, Day Hospital, Associazioni famigliari di pazienti psichiatrici). 

Le psychiatric band si esibiscono pubblicamente ove possibile in contesti “protetti” (feste interne dei centri riabilitativi allargate ai famigliari, settimane della salute mentale) e “non protetti” (rassegne, locali, piazze, etc.). I gruppi possono interpretare covers o scrivere canzoni originali (il cosiddetto songwriting).

La zona modenese, oltre a vantare una nota tradizione musicale cantautorale (Guccini, Bertoli, Caselli, Equipe 84, etc.) ha dato vita già tanti anni fa ad esperienze di questo tipo con il lavoro di Claudio Cavallini, pioniere della musicoterapia che favorì lo sviluppo di gruppi corali  (Corale Arcobaleno) o strumentali di integrazione che avevano finalità di “individuare condizioni favorevoli ad un graduale e progressivo sviluppo della indipendenza e dell’autonomia del soggetto rispetto alle tutele e alle sicurezze rappresentate dal servizio”, e ancora “costruire una esperienza non psichiatrica in un gruppo finalizzato alla espressione e alla produzione culturale, …eventuali esibizioni pubbliche, da valutarsi volta per volta, in accordo tra i responsabili del servizio e il maestro conduttore…all’occorrenza, favorire il passaggio e sostenere lo sforzo in prospettiva professionale o semiprofessionale” (Albano F. et al, 2004).

Dal 2002 si svolge a Viterbo il Festival nazionale delle psychiatric band, promosso dal Centro Diurno “Luna piena” del DSM di Viterbo, coordinato dal Dr. Venanzio Venanzi, psicologo e chitarrista (degno del migliore Dave Gilmur dei Pink Floyd). 

Nel 2009 ho avuto il piacere di partecipare all’edizione del Festival accompagnando una psychiatric band nata in un Centro Diurno di Sassuolo, i Darkiska. Dividere il palco con gruppi provenienti da diverse parti d’Italia e che si sono esibiti in generi così eterogenei (dal rock, al rap, al folk) è stata un’esperienza che ricordo con molto piacere. Oltre alla parte prettamente musicale dell’esperienza, credo che la cosa che mi ha colpito di più siano stati il viaggio e la convivenza per due giorni con i componenti del gruppo.

Per me, giovane psichiatra, è stata la prima volta che trascorrevo del tempo con i pazienti al di fuori dei contesti istituzionali (ambulatori, day hospital, reparti) e mi sono reso conto come tali esperienze ti portino davvero a vedere la malattia da punti di vista nuovi e slegati dai pregiudizi della routine clinica stereotipata. Confrontandomi su questo tema con educatori ed altre figure che frequentemente trascorrono del tempo con gli utenti al di fuori degli spazi di cura istituzionali (dai viaggi, alle vacanze, ma anche semplicemente fare la spesa o trascorrere in vari modi il tempo libero) ho ricevuto le stesse impressioni di come si scoprano aspetti delle persone che difficilmente emergono all’interno dell’istituzione.

Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale. - Immagine: © spiral - Fotolia.com
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Sono occasioni preziose, in cui la persona non si identifica con la propria malattia. Mi ricordo ad esempio, mentre prendevamo il treno, la domanda di un utente su come venivano fissati i bulloni alle rotaie. Ti accorgi di come l’attenzione delle persone possa focalizzarsi su aspetti esperienziali a cui tu non avresti mai pensato. E’ questa la ricchezza della diversità. 

Altre volte ti accorgi di nutrire pregiudizi anche come operatore, come quando durante un’esibizione a teatro, un paziente che aveva precedentemente sofferto di una forte depressione con idee autolesive fissò la sua attenzione sul cordame che si trova sospeso sul soffitto dietro al sipario, destando in me il pensiero automatico che quelle corde potessero fargli pensare al suicidio tramite impiccagione. Poco dopo semplicemente mi spiegò che era la prima volta che scopriva i segreti che si celano dietro il teatro e ne era affascinato. A volte con certi pazienti siamo troppo ansiosi o iperprotettivi!    

Quali sono le finalità e gli obiettivi di questi tipi di esperienze?

Secondo la mia esperienza e il confronto con i colleghi che organizzano gruppi musicali simili, le principali funzioni delle psychiatric band possono essere:

 

  • Migliorare la socializzazione
  • Favorire l’espressività e la creatività
  • Combattere lo stigma della malattia mentale
  • Migliorare l’autostima
  • Studiare le dinamiche di gruppo
  • Favorire l’ascolto reciproco
  • Migliorare la concentrazione
  • Migliorare l’autocontrollo

 

L’esperienza dell’esibizione dal vivo, sebbene non debba essere ricercata in modo esasperato, rappresenta spesso un’indispensabile fonte di motivazione per far progredire il gruppo lungo il proprio percorso di crescita. Va tenuto presente a questo riguardo il rischio della iperstimolazione che può talvolta creare scompensi in certe persone particolarmente fragili. L’equipe curante dovrebbe chiaramente tenere in considerazione il potere stimolante della musica e valutare la partecipazione al gruppo di ogni componente a seconda del proprio stato psichico.

Inoltre l’esibizione in luoghi pubblici comporta per molti vissuti di vergogna, in quanto risulta difficile (e ipocrita) nascondere che il gruppo nasca nel contesto della riabilitazione psichiatrica. In tali casi è proprio la partecipazione diretta degli operatori, che “si mettono in gioco” (cantando, suonando, ballando), che può aiutare a superare tali paure. E’ inoltre abbastanza normale per il pubblico durante le esibizioni di gruppi costituiti da operatori, utenti e volontari, non distinguere “chi sia chi”.

Il cercare e selezionare quindi due o tre occasioni per esibirsi durante l’anno diventa indispensabile per dare un senso all’esperienza. 

Psicantria - Copertina disco -
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A Modena ad esempio ogni anno teniamo un concerto in un parco (rassegna Loving Amendola) in cui si esibiscono le psychiatric band e i cantautori che hanno partecipato al concorso Oltre il muro, di cui parlavo prima, in modo tale da fare continuare l’esperienza e monitorare anno dopo anno i progressi delle band, ascoltare i nuovi brani composti e trascorrere del tempo assieme.

Un altro possibile obiettivo del gruppo può essere la registrazione dei brani che può avvenire a vari livelli di professionalità e complessità. 

A prescindere dalla metodologia di registrazione (in studio di registrazione, durante un live, con il computer nella sala prove del Centro Diurno…), la realizzazione di un CD musicale rappresenta un’impronta del passaggio del gruppo, il frutto dell’esperienza che può essere condiviso anche con amici, famigliari, altri operatori e talvolta può essere venduto ai concerti come fonte di autofinanziamento. Tanto ormai, con la crisi del discografica attuale, bisogna essere “matti” per pensare ancora di produrre dei CD…

Nella seconda parte dell’articolo racconterò la mia esperienza con i Fermata Fornaci, psychiatric band nata nel Day Hospital dell’Ospedale Privato Villa Igea di Modena. 

 LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO 

 

BIBLIOGRAFIA:

Vota la vignetta di State of Mind al concorso di Internazionale!

@stateofmindwj

State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche. Twitter: @stateofmindwj - State of Mind's Tweets Cover Image © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

State of Mind partecipa al concorso per vignette di Internazionale.

La vignetta più bella sarà premiata nel corso del festival di Internazionale a Ferrara il 5-6-7 ottobre 2012.

Il concorso è organizzato dalla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea in collaborazione con Internazionale per premiare la migliore vignetta politica pubblicata sulla stampa italiana nel 2012.

 

VOTA PER LA VIGNETTA DI STATE OF MIND! 

 Le Vicissitudini Psicologiche dell'Euro. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti.

Christine Lagarde sorveglia e segnala come un guardalinee, la Merkel imperterrita sentenzia le sorti delle “squadre europee”. Il parallelismo tra gli Europei di calcio 2012 e le dinamiche dell’Europa economica si gioca anche sulla terminologia, sul maggior rigore economico predicato dall’arbitro Merkel(arbitro peraltro molto severo e dal cartellino rosso facile), sull’espulsione dal campo per “comportamento scorretto”. Ma in gioco c’e ben più di una coppa calcistica, e le altre squadre lo sanno bene.

 Leggi l’articolo 

 

 

 

Psicoterapia & Desiderio: Costi e Benefici del Pensiero Desiderante

 

Psicoterapia & Desiderio- Costi e Benefici del Pensiero Desiderante. - Immagine: © dpaint - Fotolia.comIn diversi articoli ho descritto il pensiero desiderante come uno stile cognitivo cosciente che può essere responsabile dell’esperienza di Craving e di una scarsa percezione di controllo sui propri impulsi (Caselli, Soliani & Spada, 2012).

Ricordiamo di cosa si tratta: un modo di pensare focalizzato su un oggetto o un’attività desiderati con due componenti: (1) prefigurazione sensoriale e immaginativa dell’esperienza positiva connessa con l’oggetto del desiderio e (2) pianificazione operativa e concreta delle modalità per ottenerla (Caselli & Spada, 2011). Il pensiero desiderante e le sue conseguenze sono state evidenziate in molteplici disturbi: abuso di alcool, dipendenza da nicotina, gioco d’azzardo patologico, bulimia nervosa (Caselli & Spada, 2010; Caselli, Ferla, Mezzaluna, Rovetto & Spada, 2012; Caselli, Nikcevic, Fiore, Mezzaluna & Spada, 2012).

Ma il pensiero desiderante è una facoltà dell’essere umano anche molto utile. Come per la maggior parte delle funzioni cognitive il problema non sta tanto nel processo stesso ma nel suo uso e nelle regole metacognitive che lo governano. 

Riflettiamo su quali possono essere i vantaggi del pensiero desiderante:

1. è un ottima strategia per automotivarsi e tenersi attivi in un impegno immediato verso un obiettivo specifico

2. permette di pianificare azioni complesse per raggiungere l’obiettivo

Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio

3. garantisce una forma di anticipazione della gratificazione immediata (permette di assaporare già ora un po’ del piacere che verrà)

4. mantiene la concentrazione e rende resistenti alle distrazioni.

Quando diventa un problema? Al momento possiamo lanciare solo qualche plausibile ipotesi. Un primo problema può essere il target, cioè l’oggetto del desiderio. Abbiamo verosimilmente un problema se usiamo il pensiero desiderante per oggetti o attività (1) dannosi e/o pericolosi (es: droghe), (2) che non sono accessibili o non raggiungibili, (3) che non vogliamo realmente raggiungere perché a un’accurata e più astratta osservazione li troviamo in contrasto con altri nostri valori (es: desiderare il ragazzo dell’amica).

In queste condizioni siamo in pericolo e abbiamo bisogno di avere una certa consapevolezza distaccata per cambiare lo stile di pensiero; restare nel pensiero desiderante in queste condizioni ci esporrebbe a pericoli e frustrazioni.

Il secondo problema è l’uso autoregolatorio del pensiero desiderante. Il desiderio può diventare lo strumento per (1) indurre un immediato piacere virtuale o (2) distrarsi da altre preoccupazioni o pensieri negativi.

Certo nell’immediato tiene occupata la mente, la cattura e la dirige verso un obiettivo piacevole, la sostiene con una forma di piacere virtuale molto simile per il nostro cervello a quello reale. Ma per non ricadere nei pensieri negativi l’individuo è costretto a rimanere dentro il desiderio e con il tempo il piacere dell’ipotesi di avere qualcosa di bello diventa il dolore di non averlo davvero. E allora nella percezione individuale, semmai vi fossero stati dei freni, a questo punto non resta che affogare nell’azione concreta, apparentemente impulsiva, un azione di ricerca fisica, controparte della ricerca mentale del pensiero desiderante.

Molte cose ancora restano da scrivere. Tuttavia è sempre più chiaro come la conoscenza del modo in cui pensiamo ai nostri desideri e la capacità di regolare il proprio stile cognitivo-attentivo, rappresentano un’interessante frontiera per la psicoterapia cognitiva di questi disturbi.

 

BIBLIOGRAFIA: 

Dinorfina: l’oppioide endogeno che placa l’Ansia – Neuroscienze

FLASH NEWS   NeuroscienzeFarmacologia

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

 In questi giorni la rivista scientifica Journal of Neuroscience pubblica un interessante articolo in cui si presentano i dati di un programma di ricerca che ha identificato il meccanismo in grado di bloccare il naturale e graduale placarsi dell’ansia a seguito di un evento stressante/traumatico.

Nel momento in cui il cervello rilascia una quantità non sufficiente di dinorfina ecco che l’ansia non se ne va. L’elemento chiave che aiuta a comprendere le differenze individuali nel mantenimento di una condizione ansiogena importante, da un punto di vista neurobiologico sembra essere la scarsa quantità a livello cerebrale di dinorfina, una sostanza naturalmente prodotta dal nostro corpo e che fa parte della famiglia degli oppioidi (tra cui ritroviamo anche le endorfine) e che avrebbe proprio la funzione di attenuare gli intensi stati emotivi negativi.

 LEGGI ARTICOLI SU: ANSIASTRESSTRAUMI

Partendo da un esperimento sui topi di laboratorio i ricercatori hanno dimostrato che nei piccoli animali in cui veniva inibito il gene per la formazione della dinorfina, dopo essere stati esposti a un breve shock elettrico, si presentavano sintomi di ansia lungamente persistenti; viceversa nei topi che rilasciavano normali livelli di dinorfina, seppur presenti all’inizio, i sintomi ansiosi andavano scemando nel tempo.

I risultati sono trasferibili anche sugli esseri umani. Considerando le variazioni naturali individuali nella quantità di dinorfina prodotta, un secondo esperimento ha coinvolto 33 individui divisi in due gruppi: il primo caratterizzato una predisposizione genetica a un maggiore rilascio di dinorfina, mentre il secondo da una minore espressione di tale gene. Ai partecipanti è stato somministrato uno stimolo spiacevole -trigger di uno stato emotivo stressante e negativo- mentre venivano registrate le loro attivazioni cerebrali. I soggetti con una minore attività del gene della dinorfina presentavano reazioni di stress e ansia di durata considerevolmente maggiore rispetto a coloro che erano predisposti al rilascio di maggiori quantità di questa molecola; inoltre, è stata osservata una graduale diminuzione dell’attività dell’amigdala e un aumento dell’associazione tra amigdala e corteccia prefrontale nel gruppo predisposto a un adeguato rilascio di dinorfina rispetto al gruppo “deficitario” in cui invece era presente una maggior attivazione dell’amigdala e una minore associazione tra quest’area e la corteccia prefrontale.

Lo studio si pone chiaramente -e ancora una volta di questi tempi- a livello neurobiologico nella lettura del fenomeno della persistenza di condizioni sintomatologiche ansiose e traumatiche, fornendo nuovi spunti per lo sviluppo di strategie integrate di trattamento per i pazienti traumatizzati.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Andras Bilkei-Gorzo, Susanne Erk, Britta Schürmann, Daniela Mauer, Kerstin Michel, Henning Boecker, Lukas Scheef, Henrik Walter, and Andreas Zimmer. Dynorphins Regulate Fear Memory: from Mice to Men. The Journal of Neuroscience, 4 July 2012, 32(27):9335-9343; DOI: 10.1523/JNEUROSCI.1034-12.2012

Albert Ellis Institute – #1 – Cronache da New York

 

Visita all’Istituto Albert Ellis di New York: primo giorno

Albert Ellis Institute - Day 1 - Cronache da New York. - State of Mind
Albert Ellis, padre della Rational-Emotive Behaviour Therapy

La redazione di State of Mind va in pellegrinaggio in una delle sedi storiche della nascita della terapia cognitiva: l’Istituto Albert Ellis di New York, dove ancora oggi si insegna il modello della terapia razionale emotiva comportamentale (REBT) di Albert Ellis. Cesare de Silvestri (1926-2009) importò in Italia questo modello negli anni ’60 e da allora esso rimane una delle radici storiche della pratica terapeutica cognitiva nel nostro paese. Chi si è formato sulla REBT è particolarmente attento e appassionato alla tecnica, al come si fa terapia cognitiva. Anche per questo, e per bilanciare la grande passione teoretica che ha sempre mostrato il cognitivismo italiano, alcuni di noi hanno deciso di tornare a nutrirsi alla fonte della tecnica di Ellis.

Frequentiamo perciò il “Practicum”, il corso dove si ripercorrono le basi tecniche e teoriche della REBT. Si espone il noto modello dell’ABC. Si conferma che il disputing alla Ellis è focalizzato soprattutto sulle domande “a che ti serve ragionare così?” e “quanto ti conviene davvero ragionare negativamente?”, insomma sull’aspetto pragmatico e tende sempre a sfociare nella critica della convinzione del paziente di non essere in grado di tollerare la frustrazione . Insomma, si conferma quello che sapevamo, e questo è confortante sulla qualità della trasmissione del sapere REBT che si riceve in Italia.

Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis. - Immagine: © zero13 - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis

Apprendiamo però alcune sfumature che sono importanti per comprendere lo spirito della “real thing”. Per esempio la centralità di quelle che noi chiamiamo “doverizzazioni” e loro “demand” (e non più “must”; un’innovazione rispetto a Ellis? L’ho chiesto, ma la risposta è stata evasiva). Le doverizzazioni sono quelle convinzioni rigide e inflessibili di tipo valoriale per le quali, se una data situazione o evento non avvengono in una certa modalità, diventano inaccettabili e quindi catastrofiche.

Si insiste molto sulla domanda. “che cosa ha pensato che glielo rende inaccettabile?” Domanda che è più focalizzata sull’aspetto negativo rispetto alla formulazione più aperta “che cosa non ti piace in questo?” di derivazione costruttivista. Le doverizzazioni sono considerate le credenze irrazionali primarie, mentre le altre tre (terribilizzazione, intolleranza della frustrazione e auto-svalutazioni) sono definite derivate.

Si conferma definitivamente un accorgimento tecnico che non sempre è chiaro nei libri REBT: le conseguenze emotive e comportamentali “C” si accertano prima delle credenze, i “B”. Anzi, si può anche partire dal “C”, poi accertare la situazione attivante ”A” e infine arrivare al “B”. Un modello “CAB”.

Un’altra piccola sfumatura è che il B è ridotto alle 4 categorie di pensiero cosiddetto irrazionale (le elenchiamo ancora: doverizzazione, terribilizzazione, intolleranza della frustrazione e auto-svalutazione). Ogni altro pensiero diventa un “A”. Ad esempio, in un’ansia da esame anche il pensiero “ho paura di non passare l’esame” non è un B ma un A. Il B sono “devo assolutamente passarlo” (doverizzazione), “se non lo passo sarà terribile” (terribilizzazione), “se non lo passo non reggerò” (intolleranza alla frustrazione) e “se non lo passo sarò un/a miserabile” (auto-svalutazione).

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico. - Immagine: © Carsten Reisinger - Fotolia.com
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Questo significa una cosa ben precisa: il terapeuta REBT fa scarsi tentativi di sdrammatizare alla Beck. Quasi per niente (anche se a precisa domanda si sono un po’ calmati e hanno ammesso che si può fare). Per loro si va sempre allo scenario peggiore, lo si “sdoverizza” e poi si apprende che si può tollerarne l’intrinseca frustrazione. La decatastrofizzazione ellisiana non è quindi una sdrammatizzazione dell’esito concreto (insomma, non stanno tanto a chiedere “perché dovrebbero bocciarti?”), ma solo delle doverizzazioni (“perché è così necessario che tu pensi che questi esame vada superato?”).

Si conferma dunque la natura stoica e pessimista della REBT, in contrasto con quella ottimista di Beck. Questo è confermato anche dal largo uso che fanno della tecnica del “worst scenario”. Qual è lo scenario peggiore? E anche se si avverasse, perché lo ritieni così tremendo? E sei sicuro di non poterlo tollerare?

Anche questo si vede poco nei libri ma diventa chiarissimo nella pratica, nelle simulate che fanno. Questa insistenza sullo scenario peggiore e sulla sua accettazione “sdoverizzata” è anche teorizzato: gli ellisiani pensano che, se ci si limitasse a sdrammatizzare alla Beck, il paziente sarà sempre dipendente dal buon o cattivo esito dei suoi desideri e passioni. Occorre invece prepararlo al peggio.

Insomma, la REBT sembra una terapia per uomini duri. Forse esagerano un po’.

Concluso il primo giorno di training, abbiamo assistito a uno dei famosi “Friday Night Live” dell’Istituto Ellis, incontri aperti al pubblico in cui volontari (spesso ex-pazienti, ho intuito) parlano davanti a tutti dei loro problemi e poi sono ristrutturati in tempo reale dal conduttore. Un tempo li conduceva Ellis in persona.

Nel prossimo articolo descriveremo il “Friday Night Live” a cui abbiamo assistito. Rimanete in linea.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Vademecum per i giovani papà…

 

Vademecum per i neo - papà. Immagine - © drubig-photo - Fotolia.comDiventare genitori, si sa, è un processo molto complesso. Gli adattamenti psicologici richiesti ai neo-genitori verso la nuova condizione di “papà e mamma” richiedono tempo e spesso non seguono percorsi lineari. Se ne è parlato molto qui su State of Mind

Spesso, in questo percorso, il ruolo dei papà è un po’ sottovalutato o viene lasciato in secondo piano. Sicuramente alle neo-mamme sono richiesti i compiti più “ingrati”, emotivamente e concretamente, ma ciò non significa che i papà, non possano svolgere un ruolo molto importante, che faciliti gli adattamenti della compagna e che non sia ridotto a quello del “ma cosa ne vuoi sapere tu, me lo sono portato io in pancia per nove mesi!”. 

Nel marasma di informazioni che ci arrivano dai media, un neo-genitore si trova a fare i conti con esperti che sentenziano sul “cosa fare e cosa no”, media che riportano una visione bucolica, stereotipata e idealizzata dell’essere genitori, altri genitori intorno sempre pronti a dispensare consigli e spiegazioni su “come hanno fatto loro con i figli” etc… Su State of Mind vorrei semplicemente sollecitare, tramite alcuni spunti di riflessione, il coinvolgimento dei padri nelle proprie vicissitudini “post-partum” e una loro maggior partecipazione, che sia di aiuto per la propria compagna e per sè stessi, evitando il rischio di provare i frequenti sentimenti di esclusione dalle vicende della coppia madre-bambino. Per rendere molto concreto il tutto, segue una lista riflessioni che i papà (e anche le mamme) potrebbero prendere in considerazione e leggere con un atteggiamento consapevole, curioso e proattivo. 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Padri Autorevoli vs Padri Autoritari: La perseveranza nei figli

 1. Il passaggio alla genitorialità implica il doversi costantemente adattare a enormi cambiamenti fisici (soprattutto per le mamme), emotivi e sociali (per entrambi). Il mito che “avere un bambino significa che la mia vita sarà sempre e tutta meravigliosa e bellissima”… è un mito! 

2. La maggior parte dei genitori incontra delle difficoltà ad adattarsi al nuovo ruolo, alcune tra queste migliorano con il tempo (e a breve), altre necessitano di un aiuto esterno (si vedano ad esempio le forme di depressione post-partum, che non è un disagio esclusivo delle mamme ma che spesso include anche i papà, che diventano reattivamente depressi “post-partum” a loro volta);

3. Attenzione alle aspettative irrealistiche! È difficile e molto improbabile che le cose vadano tutte bene e che non ci sia nessuno scossone in famiglia (per quanto lieve e gestibile);

4. Il diventare genitori implica almeno due cose: gestire le richieste fisiche e gestire le richieste emotive. Solitamente i papà sono abbastanza bravi nel gestire le richieste fisiche (le famose nottate, impegni, gestire il lavoro e la propria presenza a casa…). È sulle richieste emotive, proprie e della propria compagna che a volte i papà traballano un po’. Anche i papà dovrebbero legittimarsi a provare emozioni, che possono essere sgradevoli e negative e a esprimere tali emozioni condividendole con amici e parenti, al fine di costruire consapevolmente il proprio ruolo di padre, emotivamente sentito e partecipato. 

5. Nel diventare genitori, esistono molte questioni comuni a quasi tutti i papà: mancanza di sonno, non sapere in che modo essere utile, essere criticati, gestire gli impegni di lavoro e i lavori in casa, sentirsi tagliati fuori etc… Sono temi che andrebbero affrontati all’interno della coppia e discussi in modo costruttivo, al fine di negoziare soluzioni funzionali e adeguate. 

6. Molte coppie sentono che la loro relazione, con l’arrivo di un figlio, ha perso intimità. Tutte le energie sono rivolte al/alla nuovo/a arrivato/a e questo può far sentire i partner come “messi da parte” o che l’attenzione sulla coppia in quanto coppia (spogliata del proprio ruolo da genitore…) è venuta meno. Non c’è più tempo per fare niente. Questo aspetto, alla lunga può diventare un problema. Una buona soluzione è quella di trovare del tempo per la coppia, per quanto breve e risicato, per discutere e condividere emotivamente. Questo non vale solo per i padri, ovviamente, ma anche per le neo-mamme che si trovano ad affrontare un notevole cambiamento degli equilibri di coppia, che si vanno a sommare ai propri cambiamenti psicologici, molto potenti in gravidanza e nel post-partum. Un esempio? Organizzare del tempo insieme: dormire, fare una passeggiata con la carrozzina, cercare una baby-sitter… condividere del tempo insieme significa creare le condizioni per comunicare i propri sentimenti, sentirsi meno soli e ravvivare la relazione di coppia, pensando che è proprio la qualità di quella relazione (nella maggior parte dei casi…) che ha portato alla scelta di diventare genitori. 

7. Le richieste del neonato sono continue, e la presenza fisica e emotiva, l’esserci per, con e insieme al bambino fonda le basi relazionali e la qualità del legame di attaccamento con i genitori. Questo non significa distruggere, abbandonare e indebolire la relazione di coppia, bensì, al massimo, “sospenderla”, metterla in “standy-by” per un breve periodo funzionale alle esigenze del bambino. 

8. E giungiamo, infine a qualche “consiglio per la sopravvivenza”, nel caso in cui il processo che porta un uomo a diventare papà subisca rallentamenti o presenti difficoltà. 

Perfezionismo e genitorialità. Immagine: © sonya etchison - Fotolia.com -
Articolo consigliato: “Perfezionismo e Genitorialità, lo stress e l’ansia di essere un genitore perfetto”

a. Mantenere “segrete” le proprie fragilità e difficoltà non aiuta, né voi, né la vostra compagna né la relazione con vostro/a figlio/a

b. Accettare aiuto dagli altri (amici, parenti o specialisti) è un segno di grande forza e maturità psicologica

c. Prendersi qualche spazio per sé, magari concordandolo con la propria compagna, per rilassarsi, con moderazione

d. Trovare (regolarmente) del tempo da spendere con la vostra compagna, insieme e da coppia non da genitori

e. Sforzarsi di non cadere nel circolo vizioso del “mi sento escluso perché la mia compagna mi esclude, quindi io mi escludo ancora di più e poi la mia compagna mi accusa di essere un padre assente e io perdo le forze e divento davvero assente”.

9. L’attacco e l’accusa vicendevole sono spesso in agguato nelle coppie di neo-genitori e a volte sembrano la soluzione “migliore” (a breve termine) per “sfogarsi” e per gestire le proprie frustrazioni.. Attenzione! Le fatiche sono tante, questo è sicuro, tanto quanto le soddisfazioni e la gioia…viverle in due, ognuno con i propri ruoli, capacità e possibilità, non è scontato né dovuto e quando è possibile, diventa un motore molto potente che rende la vita più ricca e più soddisfacente, come coppia e come genitori.      

 

 

BIBLIOGRAFIA:

IED (Intermittent Explosive Disorder ): Il disturbo esplosivo intermittente negli adolescenti

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl Disturbo Esplosivo Intermittente (in inglese Intermittent Explosive Disorder – IED) è una sindrome che rientra nel quadro dei disturbi del controllo degli impulsi, caratterizzata da ricorrenti gravi azioni aggressive (criterio A) plausibilmente esito di una deficitarietà del controllo degli impulsi aggressivi, in cui il grado di aggressività manifestato è spropositato rispetto ai fattori psicosociali stressanti precipitanti (criterio B).

E’ possibile fare diagnosi di IED solo nel momento in cui vengano esclusi altri disturbi che potrebbero includere gli episodi di comportamento aggressivo; similmente i comportamenti aggressivi non sono dovuti all’effetto fisiologico diretto dell’uso di sostanze o di una condizione medica generale (criterio C). La sindrome in ottica DSM-IV TR mette al centro della sintomatologia il discontrollo degli impulsi aggressivi.  Il soggetto solitamente descrive gli episodi aggressivi come attacchi di collera in cui il comportamento esplosivo è preceduto da una sensazione di tensione o eccitazione, cui segue generalmente a breve termine un senso di sollievo. A lungo termine, il soggetto può sperimentare emozioni secondarie di colpa, tristezza e imbarazzo in relazione all’episodio aggressivo attuato.  

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Uno studio della Harvard Medical School rivela che questi gravi episodi di rabbia incontrollata sarebbero molto frequenti proprio tra gli adolescenti. A partire dalla survey National Comorbidity Survey Replication Adolescent Supplement gli autori affermano anche che 1 adolescente su 12 (circa sei milioni di ragazzi negli USA) soddisfano i criteri per una diagnosi di Disturbo Esplosivo Intermittente (in inglese Intermittent Explosive Disorder – IED). I risultati sono stati pubblicati da pochi giorni su Archives of General Psychiatry.

La ricerca mostra anche che la maggior parte dei casi di IED non riceve un adeguato e specifico trattamento: mediamente il 37.8 % degli adolescenti con diagnosi di IED è in trattamento per generici “problemi emotivi”, mentre solo il 6.5 % riceverebbe trattamenti altamente specifici per la gestione della rabbia. E’ evidente che, con tutte le cautele legate alla possibilità di iper-patologizzazione di determinate situazioni, uno screening attento e altrettanti specifici programmi di terapia sarebbero più che auspicabili anche in contesto italiano.

 

BIBLIOGRAFIA: 

TAPP (Talking About a Personal Problem): la conversazione guidata intorno ad un problema personale #1


La conversazione guidata intorno ad un problema personale - parte prima - Immagine: © freshidea - Fotolia.comLa TAPP, Talking About a Personal Problem (Lenzi, Bercelli, 2010), e’ un’intervista semistrutturata che si dedica all’analisi di un problema personale presentato dal paziente.

Quattro le fonti teoriche:

Il cognitivismo clinico costruttivista, secondo il quale l’individuo da’ senso alla propria esperienza utilizzando schemi di conoscenza personali e significati costruiti soggettivamente.

La tecnica della moviola (Guidano, 1991; Dodet, 1998; Lenzi, 2009), che si concentra su un episodio raccontato dal paziente e collega il livello dell’esperienza immediata, ossia come il soggetto ha percepito l’evento, con la rielaborazione esplicita relativa all’immagine di sé, ossia il significato che il soggetto attribuisce a quell’evento quando lo riconduce all’idea globale che ha di sé.

L’interpretazione dei trascritti di seduta con la metodologia dell’Analisi Conversazionale (Bercelli, Lenzi, 1998; Lenzi, Bercelli, 2010), in cui “la lettura delle risposte fornite dal paziente nei termini di adesione ai formati conversazionali e quindi di mosse linguistiche proprie (che segnalano una sintonizzazione e capacità di attivazione di quel particolare registro narrativo) o improprie…permette di evidenziare il tipo di uso interpersonale che il soggetto fa dei propri racconti (per esempio attività di insubordinazione e/o non pertinenti quali lamentela, accusa, richieste di soccorso, ecc..) e quindi di descrivere quelli che possiamo definire gli aspetti interpersonali di costruzione della conoscenza di sé” (Lenzi, Bercelli, 2010, pp. 206-207).

L’Adult Attachment Interview (Main, Goldwin, 2010; Crittenden, 1999), che suggerisce come la memoria della propria storia personale e la narrazione autobiografica siano legate sia agli eventi specifici sia alle successive modalità di elaborazione che il soggetto pone in atto, nonché ai contesti interpersonali ai quali le rievocazioni si riferiscono.

La costruzione delle narrative personali in terapia cognitiva. - Immagine: Copertina del libro. Proprietà di Eclipsi Editore.
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Analogamente, la TAPP si propone di indagare i formati conoscitivi che il soggetto utilizza per interpretare gli eventi.

L’intervista si compone di cinque sezioni:

  • descrizione generale del problema;
  • ricostruzione storica e la forma che il problema assume nel presente;
  • narrazione di almeno un episodio significativo;
  • domande del terapeuta riguardanti la memoria per immagini e le valutazioni di pericolo;
  • rielaborazione integrativa o riformulazione del problema. 

La TAPP analizza in primo luogo lo stile conversazionale, nel quale vengono distinti sei diversi elementi:

  • modalità di adesione ai successivi frame dell’intevista ed eventuale presenza di attività comunicative informali;
  • analisi degli aspetti procedurali, che si identificano in particolare col tentativo di distanziare o coinvolgere l’interlocutore;
  • utilizzo efficace della memoria per immagini;
  • livello di integrazione fra memorie episodiche e memoria semantica;
  • capacità di operare una sequenzializzazione cronologica, tematica e causale degli eventi raccontati;
  • capacità di esplicitare e discernere le differenti tipologie di contenuti tematici e vissuti esperienziali soggettivi.

L’intervista esplora inoltre le prospettive di narrazione; in linea con quanto teorizzato da Wiedeman (1986), esse forniscono indicazioni importanti sulle modalità con cui viene organizzata la conoscenza personale e danno forma a tre differenti tipologie di resoconto: la rimessa in scena/trailer, la partecipazione/documentario, la rielaborazione/film.

Gli stili narrativi rispecchiano peculiari stili di organizzazione della conoscenza personale, ad esempio l’eteroregolazione del sé e delle emozioni contrapposta all’autoregolazione (Lenzi, 2005), e definiscono l’assetto relazionale che si sta sviluppando nel corso del dialogo terapeutico.

In altri termini il modo in cui un soggetto si racconta, i tempi e le cadenze con cui egli svela i propri contenuti problematici, indicano come sia abituato a gestire e a definire le emozioni, come sia solito approcciarsi alle relazioni interpersonali e quale significato stia dando all’esperienza della psicoterapia.

Nel primo stile narrativo, la rimessa in scena, il paziente colloca gli eventi nel contesto interpersonale immediato, in riferimento al proprio stato psicologico e agli scopi comunicativi perseguiti.

La partecipazione rappresenta invece una modalità in cui il paziente ricostruisce i fatti con precisione, ponendo attenzione al contesto di svolgimento e alla sequenza temporale e divenendo testimone esplicito di ogni comportamento osservabile del protagonista.

La rielaborazione, infine, racchiude valutazioni, opinioni ed esperienze personali del narratore, che organizza e integra il racconto all’interno di un’immagine di sé coerente e funzionale.

La terapia, fissando come obiettivo la comprensione e l’eventuale ristrutturazione del tema di vita del paziente, si focalizza sul linguaggio utilizzato ma soprattutto sullo sfondo percettivo ed emotivo; negli strumenti comunicativi di cui l’individuo si serve per raccontare un episodio della propria vita possiamo scorgere il ritratto che egli fa di sé stesso, il significato personale che le sue esperienze hanno assunto nel corso del tempo.

 

 

BIBLIOGRAFIA

La paura dell’abbandono

La paura dell'abbandono. - Immagine: © deviantART Fotolia.comLa paura dell’ abbandono è uno dei timori che spesso affligge gran parte dei nostri pazienti. Rappresenta una delle paure più grandi di cui soffrono molte persone e che crea diversi disagi nel momento in cui condiziona la vita affettiva e relazionale della persona.

 

In cosa consiste la paura dell’ abbandono?

Fondamentalmente, nel timore di rimanere soli, senza nessuno che possa prendersi cura dell’altro, Nell’affrontare in solitudine tutte le diverse prove alle quali la vita ci espone. Si manifesta con la costante e incessante paura di poter perdere la persona con cui si condivide la quotidianità, la persona amata e di conseguenza di rimanere privi di qualsiasi legame affettivo.

Queste persone vivono con la costante convinzione che la persona più cara possa lasciarli in qualsiasi momento. Sono talmente ossessionati da questa convinzione che si svegliano in piena notte in preda ad incubi in cui sognano di essere soli, vulnerabili e indifesi, esposti a qualunque rischio, visto che non c’è nessuno pronto a prendersi cura di loro. Il pensiero più profondo è rappresentato dall’estrema convinzione che passeranno la loro vita in totale solitudine. Questa convinzione si traduce e si manifesta nelle relazioni affettive, esasperando le manifestazioni emotive più semplici, mettendo in atto una serie di comportamenti che anziché portare all’avvicinamento della persona amata, inevitabilmente la allontanano. E’ come se si fossero incastrati in una trappola dalla quale non esiste via d’uscita.

 

Da cosa origina la paura dell’abbandono?

E’ necessario considerare i classici due fattori che da sempre determinano patologia: la biologia e l’ambiente relazionale in cui si sviluppa l’individuo. Nel caso in cui l’infanzia fosse stata caratterizzata da relazioni affettive sicure, in particolare con la propria madre, anche chi avesse una predisposizione biologica potrebbe non sviluppare la trappola dell’ abbandono.In caso contrario quando si cresce in ambienti instabili emotivamente e costellati da perdite o abbandoni, persino chi non mostra una predisposizione potrebbe sviluppare  questa paura.

Da cosa deriva la paura dell’abbandono? Da diversi fattori inerenti a perdite reali, come lutti, traslochi, divorzi, o presunti come immaginare l’interesse del proprio partner per un’altra persona, interpretare i comportamenti normali come abbandonici, etc. Qualsiasi situazione in cui si percepisce una reale o presunta interruzione del contatto emotivo potrebbe attivare la paura dell’ abbandono.

 

E’ possibile guarire dalla paura dell’abbandono?

Sicuramente è possibile familiarizzare e rendersi consapevole dell’esistenza di questa vulnerabilità. Considerando questo nucleo la parte di se stessi da salvaguardare e proteggere. Esistono diversi step che portano a prendere dimestichezza con questa paura:

– Fare un salto nel passato: E’ importante indagare quali sono le circostanze infantili che possano aver portato alla nascita della paura dell’ abbandono. Ricordare l’origine del proprio vissuto abbandonico, perdite, lutti, separazioni reali o emotive, aiuta a capire in che modo spiegare le odierne paure.

– Osservate gli attuali sentimenti di abbandono: diventare consapevoli dei sentimenti di abbandono attuali è importante, perché porta a riconoscere in quali situazioni si attiva questa paura per poi imparare a gestirla. Non si deve fugare l’emozione che deriva da questa situazione di paura, ma sforzarsi di conviverci, trascorrendo del  tempo nel modo che fa più paura, in maniera graduale e non immediata: stando soli con se stessi.

Spesso chi vive la paura dell’abbandono rifuggia la solitudine, per questo è prezioso imparare a sopportarla. Solo in un secondo momento si riuscirà anche ad apprezzarla.

– Cercare di evitare partner instabili o poco desiderosi di impegnarsi in una relazione, anche se suscitano attrazione. Solamente quando si ha una relazione equilibrata ci si può conoscere e imparare a mantenere la propria identità all’interno della relazioni. Se ci si concede interamente al proprio partner si rischia di perdere se stessi. Se si dà tutto all’altro, la sola idea di poterlo perdere appare una reale catastrofe. E’ importante imparare a non rinunciare alla propria identità all’interno di una relazione affettiva. Quindi, contrariamente a quello che si può pensare, essere in relazione con qualcuno non significa essere dediti all’altro in maniera totale, ma essere inclini a se stessi.

– Lasciate al vostro partner il proprio spazio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla gelosia, parente stretta della paura dell’abbandono, ma valutare le alternative alla gelosia vivendola come una manifestazione della paura stessa. Se esiste una buona relazione con un partner stabile e interessato alla vostra persona, non è necessario agire in modo esagerato ai piccoli problemi sul fronte affettivo, ma bisogna lasciarli scorrere senza controllarli. Esaminare le proprio risorse e creare delle alternative aiuta la coppia. Ma la cosa fondamentale da fare è imparare a stare bene da soli, con se stessi.

 

Convivere con la paura dell’abbandono

Lo scopo ultimo di tutto questo percorso è diventare consapevoli del proprio disagio facendo emergere emozioni, sentimenti, pensieri e riflessioni rielaborandoli in modo funzionale e visualizzando sempre una alternativa alla situazione temuta. Solo così facendo è possibile iniziare a costruire una parte di sé nascosta, definita dall’altro. Quando si è soli e si impara a convivere con questa paura, senza utilizzare comportamenti che possano evitare di affrontare la paura stessa, si diventa consapevoli di chi si è e di cosa si vuole dalla vita.

 

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BIBLIOGRAFIA

Avere paura del parto rende più duraturo il periodo del travaglio

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLe donne che hanno paura del parto passano più tempo in travaglio rispetto alle donne che non hanno questo timore pervasivo: è quanto suggerisce una nuova ricerca norvegese pubblicata a fine giugno sulla rivista International Journal of Obstetrics and Gynaecology.

Dal 5 al 20 % delle donne in gravidanza presenta una paura specifica del parto e sembrerebbe maggiormente prevalente in particolare nelle donne più giovani e nelle primipare; altri fattori potenzialmente correlati sono la pre-esistenza di disturbi psichici (anche comuni come ansia e depressione), la carenza di supporto sociale e precedenti eventi negativi a livello ostetrico.  

Lo studio ha coinvolto ben 2206 donne di età media di 30 anni, di cui il 50% circa primipare, in stato di gravidanza non gemellare intenzionate a partorire naturalmente. Alla 32° settimana di gestazione alle donne è stato chiesto di compilare il Wijma Delivery Expectancy Questionnaire (W-DEQ), un questionario validato finalizzato alla misurazione della paura di partorire.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Il criterio fissato per identificare una significativa paura del parto è definito da un punteggio maggiore di 85. Sul totale del campione esaminato il 7,5% delle donne presentavano punteggi elevati sopra-soglia relativamente alla paura del parto.

I dati evidenziano che le donne con questa paura pervasiva legata all’evento del parto presentavano poi al momento effettivo della nascita del figlio un travaglio significativamente più lungo mediamente di circa un’ora rispetto alle donne con minore preoccupazione, pur considerando fattori intervenienti quali analgesia epidurale, e altre procedure  ostetrico-ginecologiche.

L’aspetto psicologico del parto – evento tanto particolare per la donna- è ampiamente riconosciuto; d’altro canto sono auspicabili maggiori studi interdisciplinari e interconnessioni tra le scienze psicologiche e ostetriche, per comprendere al meglio anche i processi emotivo-cognitivi, le differenze individuali e più in generale le variabili in gioco nell’avventura del parto.   

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Schema Therapy: Intervista a Wendy Behary. Come trattare il Narcisismo

Silvia Taddei

Oggi abbiamo il piacere di pubblicare, per i lettori di State of Mind, l’intervista alla Dott.ssa Wendy Behary, esperta a livello internazionale e con numerose certificazioni che si occupa di Schema Therapy con pazienti con Disturbo Narcisistico di Personalitàfondatrice e direttrice del Cognitive Therapy Insitute nel New Jersey, del New Jersey Institute for Schema Therapy e del Schema Therapy Institute di New York.

 

Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità - Relatrice: Wendy Behary (FOTO)
La Dott.ssa Wendy Behary, fondatrice e direttrice del Cognitive Therapy del New Jersey e del The New Jersey Institute for Schema Therapy. Con 25 anni di formazione e numerose certificazioni, lavora dal 1989 con il dott. Jeffrey Young presso la facoltà del Cognitive Therapy Center and Schema Therapy Institute di New York. E’ Presidente del comitato esecutivo della Società Internazionale di Schema Therapy ISST. In qualità di esperta sul narcisismo ha pubblicato e collaborato alla redazione di numerosi testi scientifici sul tema, ed è ritenuta una delle maggiori esperte in campo internazionale per i Disturbi di Personalità gravi e il Disturbo Narcisistico di Personalità.

1) Con un paziente con Disturbo Narcisistico di Personalità sappiamo quanto in psicoterapia sia difficile instaurare una buona relazione terapeutica che permetta quindi al paziente di poter iniziare e continuare la terapia. Quali strategia utilizza nelle sue terapie per raggiungere questo obiettivo?

Gli aspetti fondamentali nel creare una relazione terapeutica con questi pazienti sono sostanzialmente due. Il primo aspetto far leva sulla terapia durante la terapia stessa, e cioè aiutare i pazienti a identificare i loro sentimenti di vuoto o solitudine, perché solitamente non riconoscono le proprie emozioni e  negano di avere un problema. In alternativa; il rischio è che i pazienti narcisisti quasi si dimentichino del perché siano lì con il terapeuta, percepiscano frustrazione e lascino la terapia. Un altro aspetto riguarda la necessità creare una relazione terapeutica calorosa, genuina, schietta, diretta, non distaccata. Il terapeuta deve mostrare empatia e compassione per il paziente cioè deve sentire sinceramente comprensione e dispiacere profondi nei confronti del paziente.

 

2) Quali ostacoli possono  presentarsi in terapia nel cambiamento del paziente narcisista?

Il cosiddetto “Protettore Distaccato” rappresenta un grande ostacolo. Questi pazienti solitamente negano qualsiasi problema esistente  e faticano a stare e a provare le loro emozioni più dolorose. Spesso tendono a essere troppo critici nei confronti del terapeuta; tendono a far sì che vi sia l’attivazione degli schemi del terapeuta e così diventa difficile mantenere quel livello di alleanza terapeutica: se il terapeuta si sente sovraccarico, distratto e se non si fa abbastanza leva sulla terapia. Il terapeuta può sentirsi attaccato e provocato dal paziente, reagendo con comportamenti controproducenti per la terapia.

 

Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità - Relatrice: Wendy Behary.
Articolo consigliato: Schema Therapy e Disturbo Narcisistico: Workshop di Wendy Behary.

3) Tra pochi mesi in Italia uscirà il suo libro “Disarming the Narcissist” definito da molti autori a livello internazionale un manuale pratico in grado di offrire indicazioni su come gestire le sfide emotive che nascono da una relazione con un narcisista. Vuole condividere qualche riflessione in merito?

Sono molto entusiasta del libro in uscita in Italia.  E’ stato scritto soprattutto perché ci sono stati molte dei  miei pazienti che vivono con partner narcisisti, che li amano, che ne volevano sapere di più, e desideravano sapere quali sono gli schemi che si attivavano all’interno della loro coppia e anche conoscere una strada più efficace per stare con loro. Entrambi i termini di questa equazione – il narcisista e il suo partner- hanno ispirato il senso di questo libro.

 

4) Quali indicazioni generali può dare ai nostri colleghi terapeuti per trattare i pazienti narcisisti?

La cosa più importante è che abbiano una  buona supervisione e che facciano un buon lavoro su di sé per capire i propri schemi e la propria sensibilità ad alcuni aspetti specifici – anche aggressivi– che si possono innescare  con i pazienti narcisisti. Questo permette al terapeuta di essere più forte e persistente. Bisogna inoltre essere pazienti per mantenere la continuità del trattamento con un paziente narcisista.

 

 

5) Esistono studi di efficacia riguardo la Schema Therapy applicata a pazienti con Disturbo Narcisistico di Personalità?

Al momento non ci sono evidenze forti in merito, da nessuna delle scuole di pensiero che si occupano di narcisismo.  Per lo più esistono raccolte di esperienze e di casi clinici seguiti nel corso del tempo. Per quanto riguarda la Schema Therapy  sono in corso alcuni studi in Olanda che includono pazienti narcisisti e alcune ricerche in ambito forense che ci auguriamo siano in grado di raccogliere dati in merito. D’altro canto, il problema delle evidenze scientifiche e della raccolta dati ha a che fare con altre questioni come per esempio il fatto che molte terapie non riescano a tollerare il trattamento in sé, oppure il terapeuta non è riuscito a identificare i sentimento di vuoto e solitudine del paziente, il quale non si sente compreso  e quindi non termina la terapia. E così diventa difficile avere un campione rappresentativo che consenta una raccolta dei dati sensata.

 

6) Che cosa pensa dello sviluppo della Schema Therapy in Italia  in questo periodo?

Ritengo che la Schema Therapy nel vostro paese sia in crescita. E’ entusiasmante dato che Alessandro Carmelita ha diffuso il modello nel vostro paese tra diversi professionisti, essendo egli in prima persona certificato in Schema Therapy, e trasmettendo entusiasmo tra i colleghi clinici. Penso che questo sia molto bello perché stiamo spingendo sempre più persone a far parte della nostra comunità di terapeuti afferenti al modello.

 

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#1 Assessment)

7) Che cosa pensa che i terapeuti  dovrebbero  imparare per lavorare con un paziente narcisista?

Mi sento un po’ di parte nel rispondere a questa domanda poiché credo che la Schema Therapy sia una delle metodologie più efficaci per il trattamento di questi pazienti. Ritengo che, in quanto terapisti Schema Therapy, abbiamo a disposizione una concettualizzazione molto ricca, una forte comprensione dello spettro di elementi della personalità del narcisista, quindi sicuramente penso che la via migliore per trattarli sia quella di intraprendere un training in Schema Therapy e di applicare poi il modello alla popolazione dei pazienti narcisisti, una tra le più difficili e impegnative tra trattare.

 

8 ) Vuole dirci qualcosa a riguardo della nuova formulazione del DSM5?

Mi piacerebbe poter dire qualcosa a riguardo, ma in realtà penso che la direzione che si prenderà non è ancora chiara. Ritengo che una parte dei motivi che stanno dietro al cambiamento delle codifiche diagnostiche abbia a che fare con la complessità del narcisismo che è un disordine dello spettro narcisistico; il punto è che si sta cercando di cogliere i diversi elementi del narcisismo e i diversi modi con cui si manifesta.

Ad ogni modo sarebbe una circostanza assolutamente negativa se di fatto dovesse venire eliminato come disturbo perché penso si manifesti in modo chiaro e distinto nelle nostre popolazioni cliniche.

Comunque il tutto è molto controverso a fronte del fatto che vi sono ancora molte discussioni aperte rispetto a ciò che accadrà.

 

 

9) Pensa che la Schema Therapy stia veramente seguendo le nuove evidenze scientifiche nell’ambito della neurobiologia e del funzionamento cerebrale?

Ritengo che la Schema Therapy sia aperta e interessata è ciò che si sta scoprendo nell’ambito della comunità scientifica della neurobiologia interpersonale, poiché sicuramente supporta le nostre premesse di base, e cioè quelle attivazioni implicite delle memorie e che implicano connessioni con l’amigdala e il sistema limbico – i centri emotivi del cervello; inoltre, la neurobiologia spiega la connessione con il nostro sistema di sopravvivenza che supporta la nostra idea di modalità di coping. Quindi quest’area di studi è un altro modo per mettere la scienza alla base della nostra proposta e a far sì che la Schema Therapy abbia un razionale sia da un punto di vista scientifico che pratico-applicativo.

10) Può dirci qualcosa riguardo al cambiamento del funzionamento cerebrale mediante l’utilizzo degli esercizi immaginativi?

Non penso vi siano ancora risposte chiare in merito. Siamo ancora piuttosto speculativi su  questo tema ma ci sono alcuni dati che supportano i cambiamenti nei patterns di attivazioni cerebrali a seguito del trattamento e dell’elaborazione di un aspetto traumatico nel paziente. In questo senso si rilevano emozioni di intensità minore, e parimenti una minore attivazione e un più veloce ritorno allo stato emotivo di base complessivamente nel sistema biologico. Questo è quello che noi diciamo in riferimento al nostro modello: il miglioramento clinico non è necessariamente valutato in relazione alla cancellazione degli schemi, poiché questo non è possibile, gli schemi sono parti della nostra memoria. Il miglioramento clinico è invece determinato da una minore attivazione, una minore frequenza e un recupero più veloce in relazione a queste memorie, e questo è in qualche modo quello che si vede in alcuni studi neuroscientifici.

Schema Therapy: Intervista a Wendy Behary. - Immagine: Proprietà di State of Mind
Da sinistra: La Dott.ssa Silvia Taddei, la Dott.ssa Wendy Behary, il Dott. Alessandro Carmelita e il Dott. Luca Calzolari

“To do” or “do not” list? L’arte delle liste e il bisogno di organizzazione

 

“To do” or “do not” list? Il bisogno di organizzazione e l’arte delle liste - Immagine: © Arman Zhenikeyev - Fotolia.comIn un recente articolo apparso sul blog del Wall Street Journal – e ripreso poi dal Corriere della Sera – il consulente aziendale ed esperto di leadership Peter Bregman propone, al fine di aumentare la produttività, di compilare non solo una lista di cose da fare, ma soprattutto, una lista di cose da non fare.

Secondo Bregman, infatti, il miglior modo per organizzare al meglio la gestione del proprio tempo consiste nello stilare due liste opposte e complementari.

La prima (la lista delle cose da fare) rappresenterà la parte selvaggia, creativa, produttiva e libera della nostra mente, che ci spinge a progredire.

La seconda lista (quella delle cose da non fare), invece, darà voce alla parte più responsabile, coscienziosa di noi e ci aiuterà ad evitare perdite di tempo e a non sprecare energie in attività che sviano dall’obiettivo prefissato.

L’uso delle liste è vecchia come il mondo, ma sembra non passare mai di moda, come dimostra la recente pubblicazione di Dominique Loreau, signora francese da anni ormai residente in Giappone, che nel suo libro (L’arte delle liste, ça và sans dir) cerca di insegnare, a colpi di elenchi da completare, come potersi liberare del superfluo, concentrandosi sull’essenziale e riuscendo così a gestire facilmente la propria vita.

L’esercizio delle liste, oltre che uno strumento per conseguire una vita zen, può rivelarsi anche un’utile strategia psicologica: ci aiuta a focalizzare un obiettivo, costringendoci a pensare ai passi necessari per conseguirlo. Ci aiuta anche a scomporre un problema, riducendo dunque l’ansia, e a compiere i primi passi in direzione di una meta, perché fornisce un binario da seguire, salvandoci dal caos di pensieri che a volte ci paralizza. E’, inoltre, un esercizio che non richiede grandi sforzi, né talenti particolari, ed è qualcosa con cui abbiamo dimestichezza sin da piccoli (prendere appunti, scrivere gli ingredienti di una ricetta, la lista della spesa etc.) Infine, può aiutarci a rivivere mentalmente una situazione e a correggere ciò che è andato male o che avrebbe potuto andare meglio.  (LEGGI ANCHE: ARTICOLI SULLA COSTRUZIONE DI NARRATIVE PERSONALI)

La costruzione di narrative personali in terapia cognitiva #2 - Immagine: © frenta-Fotolia.com_.jpg
Articolo consigliato: La costruzione di narrative personali in terapia cognitiva #2

Una lista ben organizzata e pianificata è alla base anche della strategia di time management di Tony Schwartz, presidente e CEO di The Energy Project, società di consulenza aziendale, e autore del libro “Be excellent at anything”. La sua visione dell’efficienza condivide con le liste la caratteristica del “poco sforzo, massimo risultato” o, per dirla in termini più scientifici, dell’economia mentale. Secondo Schwartz, infatti, la chiave per gestire con successo gli impegni quotidiani risiede nel rendere il processo automatico, così da investire (e sprecare) minor quantità di energia mentale possibile.

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Partendo dall’assunto che le risorse mentali in dotazione all’uomo siano limitate, più un problema / appuntamento / impegno richiede energie, meno ne avremo a disposizione per tutto il resto. Vivendo immersi, sempre di più, in una società che fa del desiderio la chiave del successo (e dell’economia), Schwartz insegna ai propri clienti a resistere alle distrazioni, utilizzando quelli che lui definisce rituali: “Comportamenti altamente specifici, fatti in un momento preciso, così che possano diventare man mano automatici e non richiedano più volontà cosciente o disciplina”. 

Tra le molte liste che Schwartz stila con i suoi clienti, per aiutarli a centrare i propri obiettivi, credo che quella dedicata al cambiamento sia particolarmente interessante.

Per avere garanzia di riuscita, dunque, i passi necessari sono i seguenti:

Stilare un obiettivo preciso e specifico: il classico proposito di inizio anno “Fare più esercizio fisico” sarà destinato a fallire a causa della sua vaghezza. Riformularlo specificando in anticipo i giorni, l’ora e gli esercizi precisi, aumenterà le probabilità di successo (ad esempio scrivendo: “Mi impegno a correre per mezz’ora Lunedì, Mercoledì e Venerdì alle 7 del mattino”. Se un imprevisto farà saltare una delle sedute, ci si sentirà più motivati a recuperarla).

Portare avanti una nuova sfida alla volta: il cervello umano, a differenza dei computer, pur essendo multi-tasking (ossia in grado di compiere diverse azioni contemporaneamente) funziona meglio se si dedica, passo dopo passo, ad un unico compito (o comportamento), soprattutto se nuovo e particolarmente complesso.

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Né troppo, né troppo poco: l’errore più comune che si compie nel momento in cui si tenta di cambiare qualcosa della propria vita è quello di mettere troppa carne al fuoco. Portando avanti l’esempio dell’esercizio fisico, se dopo un anno di inattività ci buttiamo a capo fitto in un programma di corsa intensivo (30 minuti al giorno per cinque giorni a settimana), molto probabilmente getteremo la spugna, trovando il tutto troppo faticoso. E’ altrettanto facile comportarsi nel modo opposto, correndo per 10 minuti due giorni a settimana e continuando così per un anno intero, non ottenendo i risultati sperati e dunque gettando – nuovamente – la spugna. L’unico modo per ottenere un cambiamento consiste in una via di mezzo: impegnarsi quel tanto che basta per ottenere un risultato tangibile (che quindi fornisce soddisfazione) ma, soprattutto, migliorabile.

Tutto quello a cui cerchiamo di resistere, persiste: così come le risorse, anche il livello di resistenza di un essere umano è limitato. Se siamo impegnati in un compito che richiede tutta la nostra attenzione, ma puntualmente riceviamo notifica di una nuova email, è abbastanza scontato che per un periodo di tempo riusciremo ad ignorare la cosa, ma alla fine la nostra concentrazione verrà meno e ci distrarremo. Per portare a termine un compito particolarmente difficile, dunque, sarà più utile lavorare ininterrottamente (evitando qualunque distrazione) per 90 minuti e successivamente prendersi una pausa.

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Conflitto di interesse: anche la più strenua volontà di cambiamento verrà bilanciata da un’eguale, ma inconsapevole, resistenza al cambiamento. Ciò è causato essenzialmente dal senso di benessere e sicurezza che deriva dal fare ciò che abbiamo sempre fatto, anche se tale azione (qualunque essa sia) non è più utile o produttiva. Per combattere tale resistenza, si deve innanzitutto avere chiaro davanti a sé l’obiettivo (ricordate il punto 1 della lista?) e successivamente chiedersi cosa si sta facendo o non facendo per raggiungerlo. La domanda essenziale potrebbe suonare più o meno così: “Che cosa posso fare per ottenere i benefici desiderati, ma anche minimizzare i costi che temo tale cambiamento mi porterà?”.

Tenere duro: il cambiamento è difficile e richiede energie, ma soprattutto diverse sconfitte prima di ottenere il successo sperato. In genere una persona in media fallisce sei volte prima di centrare il proprio bersaglio.

Il segreto, dunque, per una vita di successo, ma soprattutto serena, sembrerebbe risiedere dunque nei decaloghi (di biblica memoria). Sicuramente esistono liste che siamo più abituati a stilare e altre alle quali non avremmo mai pensato.

E voi? Quali sono le liste – se ce ne sono – alle quali non potreste rinunciare?

 

BIBLIOGRAFIA:

Geni a scuola: i marcatori genetici che influenzano il rendimento scolastico

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo uno studio pubblicato su Developmental Psychology (APA), un team di ricercatori è riuscito a identificare dei marcatori genetici in grado di influenzare il livello di istruzione che un individuo riuscirà a raggiungere nel corso della sua vita.

I tre geni identificati nello studio – DAT1, DRD2 e DRD4 – sono collegati a comportamenti quali la regolazione dell’attenzione, la motivazione, la violenza, le capacità cognitive e l’intelligenza. L’autore principale dello studio, Kevin Beaver, PhD, professore al College of Criminology and Criminal Justice at Florida State University, e i suoi colleghi, hanno analizzato i dati del National Longitudinal Study of Adolescent Health (Add Health).

Add Health ha coinvolto un campione rappresentativo di 1.674 giovani americani che sono stati iscritti nella scuola media o superiore nel 1994 e nel 1995; lo studio è proseguito fino al 2008, quando la maggior parte degli intervistati aveva ormai un età compresa tra i 24 e i 32 anni. I partecipanti hanno completato il questionario e fornito un campione di DNA e sono stati intervistati, insieme ai genitori.

Creatività Musicale e Intelligenza. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com
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I geni in grado di influenzare i risultati scolastici di una persona sarebbero il gene trasportatore della dopamina e il gene dei recettori della dopamina, entrambi implicati nella regolazione dei livelli cerebrali di questo neurotrasmettitore, che, secondo altri studi, sembra svolgere un ruolo nella regolazione del comportamento impulsivo, dell’attenzione e dell’intelligenza.

Dato che questi geni si trovano nel DNA di tutti, a fare la differenza sarebbero le variazioni molecolari all’interno dei geni, cioè gli alleli; infatti è chi possiede determinati alleli all’interno di questi geni ad avere raggiunto i più alti livelli di istruzione. La presenza degli alleli però da sola non basta a garantire il successo negli studi, che è influenzato negativamente da un QI basso e da un contesto socio-economico negativo. Piuttosto la presenza o l’assenza degli alleli influenzerebbe in maniera probabilistica i risultati scolastici di chi li possiede, agendo indirettamente, sulla memoria, sulla tendenza alla violenza e all’impulsività, che sono tutti noti fattori predittivi di quanto bene un bambino riuscirà a scuola.

 

BIBLIOGRAFIA:

I serious games come motore per modificare le relazioni umane

Antonio Ascolese.

 

Serious Games: un motore per modificare le relazioni umane. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.comI serious games sono strumenti sempre più utilizzati nel campo della formazione, grazie ai molteplici benefici che si traggono da essi ed, in particolare, dall’uso di realtà simulate e di metodologie fondate sul gioco.

Negli ultimi anni, diversi progetti di ricerca e di dissemination a livello internazionale sono stati finanziati da parte della Comunità Europea. Per esempio il progetto LUDUS– che ha visto coinvolti diversi partners europei tra cui l’Università degli Studi di Milano-Bicocca- è nato con l’obiettivo di favore la diffusione di consapevolezza delle potenzialità dei Serious Games nei diversi amibiti applicativi.

Per Serious Game si intende  un vero e proprio gioco digitale che presenta finalità “serie”, che generalmente assume la forma di una simulazione interattiva virtuale e che trovano applicazioni in diversi ambiti educativi e di sensibilizzazione.

I cambiamenti che si possono ottenere con questi strumenti sono in grado di influenzare direttamente la vita quotidiana delle persone, spesso in stretta connessione con quella degli altri individui o di intere comunità. I serious games, in questo senso, possono essere considerati alla stregua di nuovi media interattivi, che hanno come scopo quello di educare e di intrattenere allo stesso tempo.

Progetto iSpectrum: un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismo
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Tra i tanti effetti sociali generati dall’uso dei serious games, si rivelano singolari quelli esercitati sulle relazioni: in particolare, è di rilevante interesse, constatare come le persone, tramite i giochi seri, comunichino tra di loro e formino relazioni sociali all’interno di mondi virtuali.

Infatti, i giochi digitali, specialmente quelli online, sono in grado di offrire ai giocatori un nuovo contesto sociale e nuove opportunità per la costruzione e la gestione di relazioni, oltre che per una forma di socializzazione informale. Da diversi studi, è inoltre recentemente emerso come, proprio dalle esperienze di gioco multiplayer, siano sorte nuove relazioni personali tra i giocatori, comprese amicizie strette e relazioni amorose.

Tutte queste osservazioni e deduzioni fanno emergere la natura profondamente sociale dei giochi digitali.

Esistono, tuttavia, alcune condizioni in grado di influenzare l’efficacia relazionale di questi giochi.

Tra queste, l’uso di forme di paralinguaggio, come gli emoticons, in grado di aumentare di gran lunga le potenzialità della comunicazione scritta, arricchendo ogni messaggio di una connotazione emotiva, favorendo così l’instaurarsi di relazioni.

Inoltre, dai dati delle ricerche condotte in questo ambito, è emerso che gli effetti di socialità sono strettamente connessi al tempo dedicato ai giochi e alla modalità di scrittura dei messaggi: a questo proposito, l’analisi del contenuto dei testi scritti dai giocatori, in un gioco multiplayer online, ha messo in evidenza, da un lato come, nonostante i contenuti aggressivi del gioco, i giocatori comunicassero soprattutto contenuti positivi, quali saluti, battute, risate, etc. e dall’altro che, a fronte di un tempo maggiore speso giocando, risultavano maggiori le espressioni positive e minori quelle negative, quali insulti o disapprovazioni.

Un altro dato rilevante è che la maggior parte dei giocatori ritiene le proprie relazioni, stabilite nel contesto di gioco, al pari di quelle della loro vita reale.

Time Cover - Monday, Feb. 06, 2012 (US). Immagine: © 2012 Time Inc. All rights reserved
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Queste convinzioni e questi effetti sono stati spiegati in differenti modi, da diversi studi. In particolare, sembrerebbe essere un effetto dei tratti di personalità che influenza lo sviluppo di queste relazioni: ad esempio, chi ritiene che questo tipo di relazioni sia migliore rispetto alle relazioni tradizionali, in genere mostra elevati punteggi nel tratto del nevroticismo e bassi nell’estroversione, lo stesso vale anche per i giocatori che si erano mostrati più scettici rispetto alla possibilità di trovare amici tramite questi giochi.

Esistono però anche degli aspetti situazionali legati agli effetti relazionali che i serious games generano sugli individui, come la struttura stessa del gioco, che può lasciare più o meno spazio alla costruzione di relazioni.

Una spiegazione più completa però, arriva dalla Teoria del processamento dell’informazione sociale (social information processing theory, SIP), secondo la quale le persone sono spinte a ridurre gli elementi di incertezza nelle comunicazioni mediate da computer, dove in genere mancano indizi sociali. Infatti, in queste realtà, sono pochi i riferimenti legati all’identità degli utenti ed è quindi possibile che questa venga completamente mascherata. Così, i partecipanti di questi giochi si adoperano per ricavare dai messaggi scambiati con gli altri giocatori indizi sulla loro personalità per ridurre il più possibile gli elementi di incertezza sociale. Questa ricerca di indizi porta a rendere le relazioni sempre più personali e profonde, fino a raggiungere gli effetti sopra descritti.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Dimmi come cammini e ti dirò quanto sesso fai!

 

 ARTICOLI SULLA SESSUALITA’

Dimmi come cammini e ti dirò quanto sesso fai - Immagine: © olly - Fotolia.comMa starà fingendo? Sarà stato così bello anche per lei? Mi sembrava così distratta, cosa c’è che non va? In aiuto di fidanzati e amanti dubbiosi lo studio belga che va a stabilire una correlazione tra la soddisfazione sessuale e il benessere psicofisiologico nelle donne. “Dimmi come cammini e ti dirò quanto sesso fai!”: sembra infatti che il modo di camminare possa essere un indicatore di quanto una donna sia sessualmente soddisfatta e con quale frequenza raggiunga o meno l’orgasmo. Di nuovo il linguaggio del corpo che torna, e che per certi versi supera il verbale.

I ricercatori dell’Universitè Catholique de Louvain, Institut d’Itudes de la Famille et de la Sexualitè, Louvain-la-Neuve (Belgio), per valutare se gli orgasmi avuti o meno durante un rapporto sessuale avessero una qualche influenza sul modo di camminare hanno deciso di filmare le camminate di un gruppo di giovani donne. Il gruppo era composto sia da donne che dichiaravano di avere una vita sessuale soddisfacente, sia da donne che non riuscivano ad avere orgasmi durante il rapporto stesso.

I ricercatori, per non essere influenzati nel giudicare lo status della vita sessuale delle donne, non sapevano quali erano le ragazze anorgasmiche e quali no.

Disfunzione Sessuale Femminile: la necessità di un cambio di prospettiva. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Disfunzione Sessuale Femminile: la necessità di un cambio di prospettiva.

Dalle osservazioni fatte, i ricercatori hanno dedotto che avere regolari e soddisfacenti rapporti sessuali è una buona chiave per la salute e per il benessere psicofisico; infatti gli orgasmi, soprattutto quelli vaginali, avrebbero la “potenzialità” di sciogliere le tensioni di vari gruppi muscolari. I benefici dell’orgasmo, secondo i ricercatori, sono sia a favore dell’apparato scheletrico, bacino ad esempio, sia della muscolatura, garantendo una posizione più dritta e sinuosa.

Chissà tra quanto tempo impareremo a leggere dal modo di camminare di una persona che tipo di persona è, che tipo di rapporto ha con la propria famiglia, con gli amici, per ora possiamo limitarci a capire quanto, e soprattutto come, fa sesso. La camminata delle donne sessualmente soddisfatte è, infatti, una camminata veloce energica, fluida. Inoltre, per quanto riguarda il livello muscolare, le donne sessualmente appagate mostrano una maggiore tonicità…magari ce ne ricorderemo la prossima volta prima di andare in palestra!

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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