“To do” or “do not” list? L’arte delle liste e il bisogno di organizzazione
In un recente articolo apparso sul blog del Wall Street Journal – e ripreso poi dal Corriere della Sera – il consulente aziendale ed esperto di leadership Peter Bregman propone, al fine di aumentare la produttività, di compilare non solo una lista di cose da fare, ma soprattutto, una lista di cose da non fare.
Secondo Bregman, infatti, il miglior modo per organizzare al meglio la gestione del proprio tempo consiste nello stilare due liste opposte e complementari.
La prima (la lista delle cose da fare) rappresenterà la parte selvaggia, creativa, produttiva e libera della nostra mente, che ci spinge a progredire.
La seconda lista (quella delle cose da non fare), invece, darà voce alla parte più responsabile, coscienziosa di noi e ci aiuterà ad evitare perdite di tempo e a non sprecare energie in attività che sviano dall’obiettivo prefissato.
L’uso delle liste è vecchia come il mondo, ma sembra non passare mai di moda, come dimostra la recente pubblicazione di Dominique Loreau, signora francese da anni ormai residente in Giappone, che nel suo libro (L’arte delle liste, ça và sans dir) cerca di insegnare, a colpi di elenchi da completare, come potersi liberare del superfluo, concentrandosi sull’essenziale e riuscendo così a gestire facilmente la propria vita.
L’esercizio delle liste, oltre che uno strumento per conseguire una vita zen, può rivelarsi anche un’utile strategia psicologica: ci aiuta a focalizzare un obiettivo, costringendoci a pensare ai passi necessari per conseguirlo. Ci aiuta anche a scomporre un problema, riducendo dunque l’ansia, e a compiere i primi passi in direzione di una meta, perché fornisce un binario da seguire, salvandoci dal caos di pensieri che a volte ci paralizza. E’, inoltre, un esercizio che non richiede grandi sforzi, né talenti particolari, ed è qualcosa con cui abbiamo dimestichezza sin da piccoli (prendere appunti, scrivere gli ingredienti di una ricetta, la lista della spesa etc.) Infine, può aiutarci a rivivere mentalmente una situazione e a correggere ciò che è andato male o che avrebbe potuto andare meglio. (LEGGI ANCHE: ARTICOLI SULLA COSTRUZIONE DI NARRATIVE PERSONALI)
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Una lista ben organizzata e pianificata è alla base anche della strategia di time management di Tony Schwartz, presidente e CEO di The Energy Project, società di consulenza aziendale, e autore del libro “Be excellent at anything”. La sua visione dell’efficienza condivide con le liste la caratteristica del “poco sforzo, massimo risultato” o, per dirla in termini più scientifici, dell’economia mentale. Secondo Schwartz, infatti, la chiave per gestire con successo gli impegni quotidiani risiede nel rendere il processo automatico, così da investire (e sprecare) minor quantità di energia mentale possibile.
Partendo dall’assunto che le risorse mentali in dotazione all’uomo siano limitate, più un problema / appuntamento / impegno richiede energie, meno ne avremo a disposizione per tutto il resto. Vivendo immersi, sempre di più, in una società che fa del desiderio la chiave del successo (e dell’economia), Schwartz insegna ai propri clienti a resistere alle distrazioni, utilizzando quelli che lui definisce rituali: “Comportamenti altamente specifici, fatti in un momento preciso, così che possano diventare man mano automatici e non richiedano più volontà cosciente o disciplina”.
Tra le molte liste che Schwartz stila con i suoi clienti, per aiutarli a centrare i propri obiettivi, credo che quella dedicata al cambiamento sia particolarmente interessante.
Per avere garanzia di riuscita, dunque, i passi necessari sono i seguenti:
Stilare un obiettivo preciso e specifico: il classico proposito di inizio anno “Fare più esercizio fisico” sarà destinato a fallire a causa della sua vaghezza. Riformularlo specificando in anticipo i giorni, l’ora e gli esercizi precisi, aumenterà le probabilità di successo (ad esempio scrivendo: “Mi impegno a correre per mezz’ora Lunedì, Mercoledì e Venerdì alle 7 del mattino”. Se un imprevisto farà saltare una delle sedute, ci si sentirà più motivati a recuperarla).
Portare avanti una nuova sfida alla volta: il cervello umano, a differenza dei computer, pur essendo multi-tasking(ossia in grado di compiere diverse azioni contemporaneamente) funziona meglio se si dedica, passo dopo passo, ad un unico compito (o comportamento), soprattutto se nuovo e particolarmente complesso.
Né troppo, né troppo poco: l’errorepiù comune che si compie nel momento in cui si tenta di cambiare qualcosa della propria vita è quello di mettere troppa carne al fuoco. Portando avanti l’esempio dell’esercizio fisico, se dopo un anno di inattività ci buttiamo a capo fitto in un programma di corsa intensivo (30 minuti al giorno per cinque giorni a settimana), molto probabilmente getteremo la spugna, trovando il tutto troppo faticoso. E’ altrettanto facile comportarsi nel modo opposto, correndo per 10 minuti due giorni a settimana e continuando così per un anno intero, non ottenendo i risultati sperati e dunque gettando – nuovamente – la spugna. L’unico modo per ottenere un cambiamento consiste in una via di mezzo: impegnarsi quel tanto che basta per ottenere un risultato tangibile (che quindi fornisce soddisfazione) ma, soprattutto, migliorabile.
Tutto quello a cui cerchiamo di resistere, persiste: così come le risorse, anche il livello di resistenza di un essere umano è limitato. Se siamo impegnati in un compito che richiede tutta la nostra attenzione, ma puntualmente riceviamo notifica di una nuova email, è abbastanza scontato che per un periodo di tempo riusciremo ad ignorare la cosa, ma alla fine la nostra concentrazione verrà meno e ci distrarremo. Per portare a termine un compito particolarmente difficile, dunque, sarà più utile lavorare ininterrottamente (evitando qualunque distrazione) per 90 minuti e successivamente prendersi una pausa.
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Conflitto di interesse: anche la più strenua volontà di cambiamento verrà bilanciata da un’eguale, ma inconsapevole, resistenza al cambiamento. Ciò è causato essenzialmente dal senso di benessere e sicurezza che deriva dal fare ciò che abbiamo sempre fatto, anche se tale azione (qualunque essa sia) non è più utile o produttiva. Per combattere tale resistenza, si deve innanzitutto avere chiaro davanti a sé l’obiettivo (ricordate il punto 1 della lista?) e successivamente chiedersi cosa si sta facendo o non facendo per raggiungerlo. La domanda essenziale potrebbe suonare più o meno così: “Che cosa posso fare per ottenere i benefici desiderati, ma anche minimizzare i costi che temo tale cambiamento mi porterà?”.
Tenere duro: il cambiamento è difficile e richiede energie, ma soprattutto diverse sconfitte prima di ottenere il successo sperato. In genere una persona in media fallisce sei volte prima di centrare il proprio bersaglio.
Il segreto, dunque, per una vita di successo, ma soprattutto serena, sembrerebbe risiedere dunque nei decaloghi (di biblica memoria). Sicuramente esistono liste che siamo più abituati a stilare e altre alle quali non avremmo mai pensato.
E voi? Quali sono le liste – se ce ne sono – alle quali non potreste rinunciare?
Secondo uno studio pubblicato su Developmental Psychology (APA), un team di ricercatori è riuscito a identificare dei marcatori genetici in grado di influenzare il livello di istruzione che un individuo riuscirà a raggiungere nel corso della sua vita.
I tre geni identificati nello studio – DAT1, DRD2 e DRD4 – sono collegati a comportamenti quali la regolazione dell’attenzione, la motivazione, la violenza, le capacità cognitive e l’intelligenza. L’autore principale dello studio, Kevin Beaver, PhD, professore al College of Criminology and Criminal Justice at Florida State University, e i suoi colleghi, hanno analizzato i dati del National Longitudinal Study of Adolescent Health (Add Health).
Add Health ha coinvolto un campione rappresentativo di 1.674 giovani americani che sono stati iscritti nella scuola media o superiore nel 1994 e nel 1995; lo studio è proseguito fino al 2008, quando la maggior parte degli intervistati aveva ormai un età compresa tra i 24 e i 32 anni. I partecipanti hanno completato il questionario e fornito un campione di DNA e sono stati intervistati, insieme ai genitori.
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I geni in grado di influenzare i risultati scolastici di una persona sarebbero il gene trasportatore della dopamina e il gene dei recettori della dopamina, entrambi implicati nella regolazione dei livelli cerebrali di questo neurotrasmettitore, che, secondo altri studi, sembra svolgere un ruolo nella regolazione del comportamento impulsivo, dell’attenzione e dell’intelligenza.
Dato che questi geni si trovano nel DNA di tutti, a fare la differenza sarebbero le variazioni molecolari all’interno dei geni, cioè gli alleli; infatti è chi possiede determinati alleli all’interno di questi geni ad avere raggiunto i più alti livelli di istruzione. La presenza degli alleli però da sola non basta a garantire il successo negli studi, che è influenzato negativamente da un QI basso e da un contesto socio-economico negativo. Piuttosto la presenza o l’assenza degli alleli influenzerebbe in maniera probabilistica i risultati scolastici di chi li possiede, agendo indirettamente, sulla memoria, sulla tendenza alla violenza e all’impulsività, che sono tutti noti fattori predittivi di quanto bene un bambino riuscirà a scuola.
I serious games come motore per modificare le relazioni umane
Antonio Ascolese.
I serious games sono strumenti sempre più utilizzati nel campo della formazione, grazie ai molteplici benefici che si traggono da essi ed, in particolare, dall’uso di realtà simulate e di metodologie fondate sul gioco.
Negli ultimi anni, diversi progetti di ricerca e di dissemination a livello internazionale sono stati finanziati da parte della Comunità Europea. Per esempio il progetto LUDUS– che ha visto coinvolti diversi partners europei tra cui l’Università degli Studi di Milano-Bicocca- è nato con l’obiettivo di favore la diffusione di consapevolezza delle potenzialità dei Serious Games nei diversi amibiti applicativi.
Per Serious Game si intende un vero e proprio gioco digitale che presenta finalità “serie”, che generalmente assume la forma di una simulazione interattiva virtuale e che trovano applicazioni in diversi ambiti educativi e di sensibilizzazione.
I cambiamenti che si possono ottenere con questi strumenti sono in grado di influenzare direttamente la vita quotidiana delle persone, spesso in stretta connessione con quella degli altri individui o di intere comunità. I serious games, in questo senso, possono essere considerati alla stregua di nuovi media interattivi, che hanno come scopo quello di educare e di intrattenere allo stesso tempo.
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Tra i tanti effetti sociali generati dall’uso dei serious games, si rivelano singolari quelli esercitati sulle relazioni: in particolare, è di rilevante interesse, constatare come le persone, tramite i giochi seri, comunichino tra di loro e formino relazioni sociali all’interno di mondi virtuali.
Infatti, i giochi digitali, specialmente quelli online, sono in grado di offrire ai giocatori un nuovo contesto sociale e nuove opportunità per la costruzione e la gestione di relazioni, oltre che per una forma di socializzazione informale. Da diversi studi, è inoltre recentemente emerso come, proprio dalle esperienze di gioco multiplayer, siano sorte nuove relazioni personali tra i giocatori, comprese amicizie strette e relazioni amorose.
Tutte queste osservazioni e deduzioni fanno emergere la natura profondamente sociale dei giochi digitali.
Esistono, tuttavia, alcune condizioni in grado di influenzare l’efficacia relazionale di questi giochi.
Tra queste, l’uso di forme di paralinguaggio, come gli emoticons, in grado di aumentare di gran lunga le potenzialità della comunicazione scritta, arricchendo ogni messaggio di una connotazione emotiva, favorendo così l’instaurarsi di relazioni.
Inoltre, dai dati delle ricerche condotte in questo ambito, è emerso che gli effetti di socialità sono strettamente connessi al tempo dedicato ai giochi e alla modalità di scrittura dei messaggi: a questo proposito, l’analisi del contenuto dei testi scritti dai giocatori, in un gioco multiplayer online, ha messo in evidenza, da un lato come, nonostante i contenuti aggressivi del gioco, i giocatori comunicassero soprattutto contenuti positivi, quali saluti, battute, risate, etc. e dall’altro che, a fronte di un tempo maggiore speso giocando, risultavano maggiori le espressioni positive e minori quelle negative, quali insulti o disapprovazioni.
Un altro dato rilevante è che la maggior parte dei giocatori ritiene le proprie relazioni, stabilite nel contesto di gioco, al pari di quelle della loro vita reale.
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Queste convinzioni e questi effetti sono stati spiegati in differenti modi, da diversi studi. In particolare, sembrerebbe essere un effetto dei tratti di personalità che influenza lo sviluppo di queste relazioni: ad esempio, chi ritiene che questo tipo di relazioni sia migliore rispetto alle relazioni tradizionali, in genere mostra elevati punteggi nel tratto del nevroticismo e bassi nell’estroversione, lo stesso vale anche per i giocatori che si erano mostrati più scettici rispetto alla possibilità di trovare amici tramite questi giochi.
Esistono però anche degli aspetti situazionali legati agli effetti relazionali che i serious games generano sugli individui, come la struttura stessa del gioco, che può lasciare più o meno spazio alla costruzione di relazioni.
Una spiegazione più completa però, arriva dalla Teoria del processamento dell’informazione sociale (social information processing theory, SIP), secondo la quale le persone sono spinte a ridurre gli elementi di incertezza nelle comunicazioni mediate da computer, dove in genere mancano indizi sociali. Infatti, in queste realtà, sono pochi i riferimenti legati all’identità degli utenti ed è quindi possibile che questa venga completamente mascherata. Così, i partecipanti di questi giochi si adoperano per ricavare dai messaggi scambiati con gli altri giocatori indizi sulla loro personalità per ridurre il più possibile gli elementi di incertezza sociale. Questa ricerca di indizi porta a rendere le relazioni sempre più personali e profonde, fino a raggiungere gli effetti sopra descritti.
Steinkuehler, C., and Williams, D. (2006). Where everybody knows your (screen) name: Online games as “third places”. Journal of Computer-Mediated Communication, 11(4), article 1. (FULL ARTICLE)
Utz, S. (2000). Social information processing in MUDs: The development of friendships in virtual worlds. Journal of Online Behavior, 1 (1). (FULL ARTICLE)
Ma starà fingendo? Sarà stato così bello anche per lei? Mi sembrava così distratta, cosa c’è che non va? In aiuto di fidanzati e amanti dubbiosi lo studio belga che va a stabilire una correlazione tra la soddisfazione sessuale e il benessere psicofisiologico nelle donne. “Dimmi come cammini e ti dirò quanto sesso fai!”: sembra infatti che il modo di camminare possa essere un indicatore di quanto una donna sia sessualmente soddisfatta e con quale frequenza raggiunga o meno l’orgasmo. Di nuovo il linguaggio del corpo che torna, e che per certi versi supera il verbale.
I ricercatori dell’Universitè Catholique de Louvain, Institut d’Itudes de la Famille et de la Sexualitè, Louvain-la-Neuve (Belgio), per valutare se gli orgasmi avuti o meno durante un rapporto sessuale avessero una qualche influenza sul modo di camminare hanno deciso di filmare le camminate di un gruppo di giovani donne. Il gruppo era composto sia da donne che dichiaravano di avere una vita sessuale soddisfacente, sia da donne che non riuscivano ad avere orgasmi durante il rapporto stesso.
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Dalle osservazioni fatte, i ricercatori hanno dedotto che avere regolari e soddisfacenti rapporti sessuali è una buona chiave per la salute e per il benessere psicofisico; infatti gli orgasmi, soprattutto quelli vaginali, avrebbero la “potenzialità” di sciogliere le tensioni di vari gruppi muscolari. I benefici dell’orgasmo, secondo i ricercatori, sono sia a favore dell’apparato scheletrico, bacino ad esempio, sia della muscolatura, garantendo una posizione più dritta e sinuosa.
Chissà tra quanto tempo impareremo a leggere dal modo di camminare di una persona che tipo di persona è, che tipo di rapporto ha con la propria famiglia, con gli amici, per ora possiamo limitarci a capire quanto, e soprattutto come, fa sesso. La camminata delle donne sessualmente soddisfatte è, infatti, una camminata veloce energica, fluida. Inoltre, per quanto riguarda il livello muscolare, le donne sessualmente appagate mostrano una maggiore tonicità…magari ce ne ricorderemo la prossima volta prima di andare in palestra!
Secondo una ricerca durata dieci anni e i risultati di quattro studi clinici indipendenti, il trattamento elettivo per i disturbi d’ansia, sarebbe la CBT in combinazione ad “un approccio transdiagnostico”, un modello che prevede l’applicazione di una serie di principi trasversalmente validi per tutti i disturbi d’ansia. Questo modello di trattamento è stato messo a punto da Peter Norton, professore associato di psicologia clinica e direttore della Anxiety DisorderClinic at the University of Houston (UH).
Secondo Norton i trattamenti mirati a ogni singolo disturbo d’ansia sarebbero per la maggior parte molto simili tra loro, e differirebbero realmente solo in alcuni specifici punti.
Nella sua esperienza clinica in Nebraska, Norton, non avendo abbastanza pazienti per creare gruppi di pazienti omogenei per ciascun disturbo d’ansia, ha incominciato a lavorare con gruppi eterogenei di pazienti, cercando di andare al nucleo del disturbo d’ansia, superando le artificiali distinzioni tra le diverse sottocategorie del disturbo.
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La svolta è arrivata usando CBT in collaborazione con l’approccio transdiagnostico. La combinazione era più efficace è risultata essere CBT in combinazione con altri tipi di trattamenti per i disturbi d’ansia, come training di rilassamento. I pazienti che ricevono il trattamento transdiagnostico hanno mostrato un miglioramento notevole, in particolare con il trattamento in diagnosi di comorbilità.
“Quello che ho imparato sul campo è che se si tratta la diagnosi principale, come la fobia sociale e l’avversione a parlare in pubblico, si avrà un miglioramento solo su alcuni aspetti della diagnosi secondaria. Con un approccio transdiagnostico, invece, si può avere un impatto molto maggiore sulla diagnosi secondaria“, sostiene Norton. Nel suo studio di ricerca, oltre i due terzi dei pazienti con di diagnosi di comorbilità è andato incontro alla remissione dei sintomi; quando il trattamento invece è specifico per un disturbo, ad esempio un disturbo di panico, solo il 40% dei pazienti mostra un miglioramento nel disturbo in comorbilità. L’approccio transdiagnostico si pone quindi come un trattamento efficace della persona nella sua interezza.
Questi risultati forniscono importanti linee guida per il trattamento efficace dei disturbi d’ansia da parte di psicologi e psicoterapeuti.
Bromberg, P.M. (2012). L’ ombra dello Tsunami. La crescita della mente relazionale. Raffaello Cortina Editore.
L’ ombra dello tsunami non è solo il titolo dell’ultimo libro di Philip Bromberg. È anche una metafora clinica che, con Standing in the spaces e Destare il sognatore (Bromberg, 1998, 2006), descrive la visione del funzionamento mentale e del processo clinico che lo psicoanalista americano è andato delineando nel corso di questa trilogia.
Alla formulazione classica che vedeva la mente come composta da organizzazioni di relazioni oggettuali interiorizzate e in conflitto tra loro, Bromberg ha sostituito l’idea di un funzionamento psichico centrato su stati del Sé multipli, mossi da processi dissociativi di diversa intensità, in interazione dinamica tra loro grazie a un uso salutare della dissociazione. È la disconferma traumatica di questi aspetti del Sé, che non hanno trovato un posto nella relazione con altri significativi, a trasformare la convivenza con gli altri stati del Sé in un pericolo. Proteggersi dal trauma diventa allora per l’individuo la necessità di trasformare la normale molteplicità in una rigida struttura in cui gli aspetti del Sé “illegittimi” possono continuare a vivere, ma di una vita fatta di clandestinità e isolamento. Inevitabilmente, la dissociazione diventa l’unico modo per l’individuo di gestire lo spazio dellarelazione al servizio di una falsa coerenza e di un senso illusorio di sicurezza.
Compito del clinico è dunque aiutare il paziente a ristabilire la normale fluidità, e quindi molteplicità, del Sé, ristabilendo i collegamenti tra i suoi stati, così da restituirgli la sensazione di “chi egli sia”. Destare il sognatore in questo caso sta a indicare la necessità di “svegliare” il paziente dai processi ipnoidi che dominano il suo funzionamento mentale, aiutandolo a portare in seduta non il sogno (stato del Sé) dissociato, ma il sognatore nella sua interezza.
Il valore aggiunto di queste metafore cliniche è dato dalla capacità dell’autore di stabilire un dialogo tra questa nuova “metapsicologia relazionale” (Harris, 2011) e campi di ricerca limitrofi. La lunga e esaustiva prefazione di Allan Schore presente nel volume ne è una testimonianza diretta che, oltre a rappresentare una sintesi affascinante e stimolante delle ricerche neuroscientifiche, conferma la compatibilità tra le ipotesi cliniche di stampo relazionale e la ricerca sulla neurobiologia dell’esperienza interpersonale.
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Sul piano clinico, quello che Bromberg ci dice in questo volume è che la dissociazione è un fenomeno intrinsecamente relazionale. L’elaborazione “di un trauma precoce”, scrive, “è fondamentalmente relazionale: non libera il paziente da quello che gli è stato fatto nel passato, ma da quello che deve fare a se stesso e agli altri al fine di convivere con quello che gli è stato fatto nel passato” (pp. 125-126). È questo che fa della relazione il luogo elettivo dove la dissociazione tra stati del Sé viene mantenuta.
Anche in questo caso possiamo rintracciare un’importante compatibilità tra l’impostazione clinica relazionale descritta da Bromberg e una solida tradizione di ricerca in psicoterapia che ci ha abituati non solo all’importanza di una dimensione collaborativa tra paziente e terapeuta, ma anche alla centralità della relazione con il clinico come mezzo per ottenere un cambiamento terapeutico (per es., Norcross, 2011; vedi anche Colli, Lingiardi, 2009; Lingiardi, De Bei, 2011). Ciò che ci dice Bromberg ha implicazioni cliniche ancora più profonde: “la fonte primaria dell’azione terapeutica è la relazione, non qualcosa creato attraverso di essa” (p. 109). Che cosa intende dire? Ecco di nuovo l’autore che parla:
“Quello che sostengo è che, con tutti i pazienti […] la crescita duratura della personalità nel trattamento analitico si intreccia con la capacità della relazione paziente/terapeuta di aumentare la soglia di tolleranza del paziente all’iperattivazione affettiva. Questo uso della relazione paziente/analista avviene attraverso l’elaborazione congiunta e non lineare di un canale di comunicazione agito (dissociato) in cui la paura del paziente della disregolazione affettiva (l’ ombra dello tsunami) viene “fatta ritirare” dalla capacità sempre più ampia di distinguere in maniera sicura la probabilità di uno shock mentale che può essere effettivamente soverchiante da quel tipo di esperienze eccitanti in cui la “tensione” si trova inevitabilmente mischiata al rischio della spontaneità. La paura del paziente della disregolazione, per come viene rivissuta nel presente agito, diventa sempre più contenibile come evento cognitivo, rendendo così in grado la mente/cervello di diminuire il suo affidamento automatico sulla dissociazione come un “rilevatore di fumo” affettivo” (pp. 33-34).
Lavorare all’interno di questa cornice non implica un abbandono della prospettiva classica, quanto piuttosto una “ristrutturazione gestaltica” del modo di osservare i fenomeni clinici. Compito del clinico psicoanalitico continua a essere quello di “ascoltare e interpretare” (Spezzano, 1998). Ma al tempo stesso, e prima di tutto, deve prestare attenzione ai cambiamenti negli stati del Sé – utilizzando il proprio senso d’identità come un vero e proprio organo di percezione (Searles, 1979) –, nel paziente e in se stesso, come lo sfondo che organizza tutto quello che viene detto o fatto in seduta. In altre parole, mentre analista e paziente interagiscono sul piano dei contenuti verbali, l’analista deve continuare a tenere a mente che, per riprendere la felice espressione di Bion (Grotstein, 2007), “at the same time and on another level” (“nel momento stesso e su un altro livello”, NdR) gli stati del Sé, di paziente e analista, stanno interagendo in quel momento. Quando si affaccia l’ombra di una disregolazione, il paziente farà automaticamente ricorso alla dissociazione, interrompendo silenziosamente l’interazione con lo stato del Sé del clinico, determinando un cambiamento simmetrico anche nello stato del Sé del terapeuta. Si apre così la via che conduce all’enactment – e “ascoltare e interpretare” cessa di essere l’obiettivo clinico.
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Lavorare nella relazione, tra i confini degli stati del Sé dissociati, comporta un “qualcosa in più dell’interpretazione” (BCPSG, 2011). Quando l’interazione silenziosa tra stati del Sé di paziente e analista prosegue per troppo tempo senza che l’analista vi presti attenzione, è probabile che presto o tardi si verifichi un vero e proprio stallo terapeutico, in cui l’analista si sente disorientato e spiazzato, e il paziente continua a sentirsi angosciato o arrabbiato a prescindere da quello che il terapeuta tenta di comunicargli.
“In tali momenti […] tentiamo le nostre “migliori” interpretazioni. Borbottiamo qualcosa sulla possibile ripetizione di un trauma precoce. Facciamo riferimento alla trascuratezza da parte dei genitori, forse persino ad abusi da parte dei genitori, troppo precoci per essere ricordati. E, naturalmente, c’è sempre la possibilità della depressione dei genitori! Chi non ha mai avuto almeno un genitore depresso? Tutto invano: il grido silenzioso del paziente continua e si fa sempre più forte” (Bromberg, 2006, p. 93).
È in momenti simili che la lezione clinica di Bromberg si fa preziosa. Quando a predominare è l’enactment, è il livello della relazione nel qui-e-ora che deve avere la precedenza. L’analista può sentire di essere nel giusto, di aver colto “il problema del paziente” – e forse è vero. Ma qualsiasi intervento posto su questo livello in quel momento coglie nel segno di un bersaglio sbagliato, e ha come risultato quello di amplificare ulteriormente la vergogna e la rabbia (l’ ombra dello tsunami) del Sé dissociato.
Una volta caduti nello spazio della relazione, i concetti classici smettono di essere di aiuto. Tentare di comprendere quello che sta accadendo pensando che il paziente stia resistendo, stia cercando di spingere il terapeuta a sentire degli affetti che lui non riesce a tollerare, o che lo stia vivendo come un “oggetto cattivo”, non coglie il vero nocciolo del problema: non è il paziente che si sta difendendo, ma l’analista. È l’analista che si sta rifiutando di riconoscere o condividere un suo vissuto personale (aspetto del Sé) che sente come problematico o di cui si vergogna e, così facendo, sta disconfermando la legittimità di quello stato del Sé del paziente che sta urlando, e continuerà a urlare, perché sta rivivendo la situazione traumatica originaria (vedi Bromberg, 1998, pp. 253-257; Bollas, 1987, pp. 166-175): sta, cioè, chiedendo al terapeuta di aiutarlo a sentirsi una persona più intera.
È la possibilità di sopravvivere in momenti simili, condividendo la propria esperienza, che consente al paziente di elaborare le emozioni dolorose e regolare gli affetti traumatici – “il ritiro dello tsunami” –, creando uno spazio diadico capace di includere la soggettività di entrambi. Con le parole di Jessica Benjamin (1998):
“Riconoscere l’‘altro interno’ indebolisce la minaccia costituita dall’‘altro esterno’, così che lo straniero che sta fuori non è più identico allo straniero che sta dentro di noi: non è la nostra ombra, un’ombra sopra di noi, ma un ‘altro separato’ la cui ombra, nella luce diventa distinguibile” (p. 141).
Fare “ritirare lo tsunami” è un processo trasformativo che non si riferisce a un semplice “cambiamento” nel paziente, ma a una vera e propria crescita della sua mente. Una volta che viene meno il pericolo di un’inondazione di affetti traumatici, l’individuo può fare di nuovo sue risorse e capacità prima tenute in ostaggio dalla struttura mentale dissociativa. Gli aspetti del Sé precedentemente sequestrati possono ora prender parte e contribuire al discorso umano; possono influenzare e farsi influenzare dagli altri. Possono, cioè, crescere.
Lingiardi, V., De Bei, F. (2011), “La svolta relazionale nella ricerca in psicoterapia”. In Lingiardi, V., Amadei, G., Caviglia, G., De Bei, F. (a cura di), La svolta relazionale. Itinerari italiani. Raffaello Cortina, Milano, pp. 99-122.
Searles, H. (1979), “Uso della controtraslazione per comprendere e aiutare il paziente”. Tr. it. in Il paziente borderline. Bollati Boringhieri, Torino 1988, pp. 123-145.
Un trauma, uno “tsunami”, che colpisce una mente immatura lascia un’ombra di paura che indebolisce la futura capacità dell’adulto di costruire relazioni interpersonali, riducendo la possibilità di avere fi ducia in un rapporto umano autentico. Philip Bromberg approfondisce la sua indagine sulla natura della relazione terapeutica: il processo psicoanalitico prosciuga la vulnerabilità del paziente e libera la sua capacità di avere fi ducia negli altri, implicando una crescita della mente relazionale.
L’autore
Philip M. Bromberg è analista supervisore con funzioni di training al William Alanson White Institute. Nella collana di Psicologia clinica ha pubblicato Clinica del trauma e della dissociazione (2007) e Destare il sognatore (2009).
A che cosa serve la musica? Come mai ne associamo tipi diversi ai vari momenti della giornata? Come facciamo a scegliere il brano più adatto?
Queste domande sono diventate lo sfondo di ogni incontro del laboratorio di musica e didattica metacognitiva, svolto con i bambini tra i 5 e i 7 anni. Sembra strano che proprio loro si ponessero il problema di affrontare la questione. Eppure è bastato poco. È stato sufficiente cominciare a ragionare sulle proprietà del suono perché nascessero nuove domande.
Nel corso dei laboratori di didattica metacognitiva ho avuto modo di vedere che i bambini, anche se molto piccoli, hanno già un’esperienza sonora e musicale molto vasta e radicata. Ricordano se il volume della musica del supermercato è troppo alto, sanno riconoscere i brani ascoltati dai genitori e dai fratelli più grandi. Alcuni di loro sanno addirittura distinguere il campanello di una bicicletta da quello che segnala la fermata del tram.
Articolo consigliato: Musica e Didattica Metacognitiva #1.
Spesso diamo per scontato che ai bambini bisogni insegnare tutto, e che tutto deve essere insegnato in modo semplice, proporzionato alle loro capacità cognitive. Al contrario, spesso dimostrano di saper assimilare informazioni complesse ancora più velocemente degli adulti, e le sfoderano quando più gli fa comodo.
I bambini fino ai 5 anni soprattutto, fanno molto affidamento sulle loro orecchie. Spesso imparano parole straniere senza conoscerne il significato, ma ne sanno riprodurre la fonetica senza troppo sforzo. D’altronde l’udito è il più primordiale dei loro sensi, e già dal quarto/quinto mese di gravidanza il feto comincia a sviluppare l’apparato uditivo. Infatti nei primissimi mesi di vita sono in grado di riconoscere la madre dalla voce, non dall’aspetto.
I risultati più sorprendenti si sono visti nell’atteggiamento con cui hanno affrontato il lavoro. Sembra strano ma quando si parla di musica, si accantona la competitività, a favore della collaborazione. In questo modo i risultati non sono solo migliori ma anche più evidenti. Non parlo di una collaborazione musicale, non si suona insieme, ma insieme si scopre il modo per ottenere un determinato suono o per riconoscerne uno ascoltato. Non c’è bisogno di chiedere di collaborare perché lo fanno istintivamente, ma solo con la musica. Così facendo, sono andati incontro ad esperienze sensoriali ed emotive, personali e collettive.
Ricordo una bambina che, a sentire un compagno che insisteva nel convincere il gruppo che quello che sentiva lui fosse la versione giusta delle cose, gli disse:
“Non puoi arrabbiarti se non siamo come te. A me piace quello che hai sentito ma io ho sentito un’altra cosa“.
Questo è stato uno dei momenti più alti del mio laboratorio. La bambina non aveva solo capito che ciascuno di noi vive l’esperienza sonora (e sensoriale in genere) in modo diverso, ma era anche riuscita a spiegarlo al resto della classe con poche parole, le più azzeccate.
A conti fatti ho avuto a che fare con piccoli adulti. Più capaci del previsto di elaborare sensazioni ed emozioni, ma ancora poco capaci di raccontarle. Nella musica abbiamo riconosciuto un potenziale enorme, in grado di entrare in profondità, e da lì far uscire pensieri e riflessioni forti, inaspettate. Se certi adulti non avessero perso l’abitudine a lasciarsi trasportare così lontano, chissà dove saremmo potuti arrivare.
BIBLIOGRAFIA
Per approfondimenti su approcci metodologici di tipo metacognitivo alla didattica:
C.I.R.D.A., Università di Torino, Centro Interstrutture per la Ricerca Didattica e l’Aggiornamento degli insegnanti, ‘IMPARARE AD IMPARARE’, L’educazione cognitiva nella scuola dell’infanzia e in quella elementare, Libreria Stampatori, Torino, 2007;
Per approfondimenti sulla valenza formativa della musica nel contesto educativo:
Pagannone, G., Le funzioni formative della musica, in Musica, Ricerca e Didattica, a c. di A. Nuzzaci e G. Pagannone, Lecce, Pensa Multimedia, 2008, pp. 113-156
Bianconi, L., La forma musicale come scuola dei sentimenti, in Educazione musicale e Formazione, a cura di G. La Face Bianconi e F. Frabboni, Milano, FrancoAngeli, 2008, pp. 85-120
Un nuovo studio, condotto alla McGill University in Canada, offre nuovi indizi per la diagnosi precoce di autismo (Disturbi dello Spettro Autistico); secondo quanto scoperto dai ricercatori, infatti, è possibile rilevare uno sviluppo cerebrale anomalo già a 6 mesi di età, cioè molto prima che i bambini comincino a manifestare sintomi autistici. Attualmente la diagnosi di autismo viene fatta intorno ai di 2 o 3 anni di età del bambino.
Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sull’American Journal of Psychiatry, ha seguito 92 bambini dai 6 mesi ai 2 anni che avevano fratelli maggiori con il disturbo dello sviluppo e per questo sono stati considerati ad alto rischio di autismo. Ogni bambino effettuava a 6 mesi un tipo particolare di imaging da risonanza magnetica (Diffusion Tensor Imaging DTI) e a 24 mesi una valutazione comportamentale.
La diffusion RM è un importante strumento diagnostico produce immagini che dipendono dai movimenti microscopici delle molecole di acqua tra i tessuti, e permette di descriverne la struttura su scala microscopica; l’Anisotropia Frazionaria (FA) è un Indice di tale diffusione anisotropa.
A 24 mesi, il 30 per cento dei bambini nello studio sono stati diagnosticati autistici. 12 delle 15 aree di sviluppo della materia bianca esaminate, differivano significativamente nei bambini che hanno sviluppato la patologia autistica rispetto a quelli che invece non hanno ricevuto questa diagnosi. L’anisotropia frazionaria (FA),, aveva all’inizio dello studio valori elevati, per poi decrescere progressivamente nei bambini che ricevevano diagnosi di autismo, fino a raggiungere, entro i 24 mesi di età del bambino, valori inferiori a quelli riscontrati in bambini che non venivano diagnosticati autistici.
“Per la prima volta, abbiamo un risultato incoraggiante che consente di sviluppare biomarcatori del rischio di autismo prima della comparsa dei sintomi, anticipando di molto le possibilità di diagnosi” ha detto Alan Evans.
Questo studio ha permesso di individuare le modificazioni cerebrali e comportamentali in relazione all’età che sottendono la patologia autistica e per questo è di vitale importanza per lo sviluppo di strumenti in grado di aiutare i bambini autistici e le loro famiglie.
Nel caso dell’intolleranza dell’incertezza, va ristrutturata criticamente l’assunzione, il collegamento logico “se… allora”. L’assunzione per lo più assume la forma: “se il mondo è incerto, allora esso è pericoloso”. Questa assunzione va dapprima accertata, obbligando il soggetto a ragionare sull’incertezza (“In che senso l’incertezza è da temersi? Perché l’incertezza delle cose la preoccupa?”) e poi criticato il collegamento logico con il pensiero catastrofico (“Perché l’incertezza porterebbe alla catastrofe?”). Dovrebbe essere abbastanza facile riuscire a rassicurare alcuni soggetti facendoli ragionare sul fatto che incertezza non significa inevitabilità dell’esito negativo.
Purtroppo altri pazienti non saranno affatto rassicurati da questa ristrutturazione. Per questo secondo gruppo di soggetti, l’ansia è legata proprio alla non prevedibilità dell’esito, allo stato precario che precede il verdetto della realtà. Ciò che è insopportabile è la possibilità, sia pure minima, che l’esito sia negativo. In questo caso si può puntare su tre strade differenti, che sono: la riconsiderazione critica della appropriatezza della credenza centrale, della rimediabilità, oppure della sopportabilità. Nel primo caso, si tratta di riconsiderare se davvero la valutazione di incertezza sia corretta, se davvero la situazione sia così incerta: “È giusto dire che l’esito della situazione sia così incerto? O forse no?”.
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Nel secondo caso, si tratta di far comprendere al soggetto che un eventuale esito negativo non significa la fine della storia della vita del soggetto. L’esito negativo viene quindi accettato, ma anche decatastrofizzato, puntando sulle capacità di reazione del paziente. Nel caso della sopportabilità, l’attenzione viene spostata dal mondo esterno a quello emotivo interiore. L’incertezza viene ridefinita non più come un connotato immodificabile del mondo esterno (cosa che è del resto vera, il mondo è effettivamente incerto e incontrollabile), ma come uno stato interiore di nervosismo, definito come insopportabile. In realtà, bisogna far capire al soggetto sia che quello stato d’animo non è forse così negativo, riducendo e sdrammatizzando l’ansia da stato sommergente e insopportabile a stato negativo fastidioso con il quale si può convivere, sia facendo notare al soggetto che è però possibile manipolare questo stato d’animo negativo, raffreddarlo e renderlo innocuo mediante semplici tecniche di distrazione e spostamento dell’attenzione.
Questa quaterna di interventi – critica dell’assunzione catastrofica “se accade questo, allora tutto andrà male”, critica della appropriatezza della valutazione legata alla credenza centrale, valorizzazione della rimediabilità pratica dell’evento negativo e della sopportabilità emozionale dello stato di ansia – è applicabile anche alle successive credenze del timore dell’errore e del bisogno di controllo.
Nel caso del timore dell’errore, la tecnica consiste quindi nella ridefinizione del collegamento tra errore e catastrofe irrimediabile, nella rivalutazione della appropriatezza della valutazione di errore (“Ma siamo sicuri che lei abbia sbagliato?”), nella rivalutazione della rimediabilità dell’errore, e della sopportabilità dello stato d’animo legato all’errore. È da notare che, nel caso del timore dell’errore, lo stato d’animo negativo può comprendere vissuti non solo di ansia, ma anche di colpa.
Anche nel caso del controllo le strade possibili sono quattro. Da una parte, analogamente a quanto fatto per il timore dell’errore, tagliare la connessione rigida tra perdita di controllo e catastrofe. Dall’altra, riconsiderare criticamente se davvero la situazione si può definire così priva di controllo, come ritenuto inizialmente dal soggetto sofferente. Infine, si può riconsiderare criticamente la rimediabilità della perdita di controllo, e la sopportabilità dello stato d’animo corrispondente alla perdita di controllo, in maniera poco dissimile a quanto visto nelle altre credenze.
3 – L’autovalutazione negativa
Nel caso della autovalutazione negativa si può lavorare in due modi.
Il primo obbedisce al principio di Ellis di sostituire i giudizi catastrofici con giudizi negativi sopportabili o neutri. Nel caso della bassa autostima, si tratta di sostituirla con un atteggiamento non giudicante e neutrale e non con una buona autostima. L’autostima è sempre una trappola per Ellis che inevitabilmente porta a stati di sofferenza. Valutarsi significa comunque mettersi alla prova su un terreno astratto e sfuggente. Per Ellis occorre sfuggire alla tentazione di giudicarsi e valutarsi, tentazione generata dall’illusione che valutarsi e giudicarsi portino a una più estesa conoscenza di sé e a un maggiore capacità di controllo della realtà: se so quanto valgo, conosco i miei difetti e posso migliorarmi. Ma questo è un errore.
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Le valutazioni tendono a essere globali e generiche, e inoltre in una auto-valutazione un aspetto, un tratto negativo sarà sufficiente per colorare di nero l’intero giudizio di sé. Al posto dell’autostima, Ellis esorta e perseguire l’accettazione incondizionata di sé. Se proprio necessario, se cioè in alcune situazioni è possibile che esista un vantaggio pratico nel giudicarsi, la valutazione andrà riferita non globalmente all’intera persona, ma a determinati comportamenti ed episodi. Quindi autovalutazioni non globali e generalizzate, ma limitate e contestualizzate.
La seconda tecnica, più beckiana, raccomanda di criticare l’appropriatezza di questa autovalutazione negativa. In che senso e perché il nostro paziente si valuta negativamente? Secondo quali parametri, e in quali ambiti? Una volta effettuata questa operazione di accertamento, si deve tentare la ridefinizione in termini positivi della personalità del nostro paziente, sottolineando i punti positivi, mostrando il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto. Anche l’intervento sulla rimediabilità può essere efficace, una volta accettata almeno in certi ambiti una determinata valutazione negativa delle qualità del nostro paziente. In altre parole, il soggetto va convinto che le sue supposte qualità negative sono modificabili e migliorabili.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
Disturbo dipendente di personalità
L’arrivo di Filippo è stato preannunciato dalla telefonata allarmata di una sua amica e mia collega. Sembra trattarsi di un’ emergenza relazionale: la moglie Francesca ha scoperto una tresca con una certa Simona e ha deciso di piantarlo. Lui è disperato perché anche Simona ha fatto un passo indietro e non ne vuole più sapere.
Filippo è un quarantenne spaventato, bisognoso di affetto e riconoscimento come un bambino prescolare, talmente goffo e sbadato da combinare sempre guai. Minacciato dalla calvizie, ha una conversazione amabile anche se, per darsi un’aria da pensatore, tiene a lungo in sospeso le vocali che si trasformano in un lamento che suscita la voglia di dargli un colpo per disincantarlo. La richiesta è semplice quanto irricevibile: mi chiede di convocare Francesca e calmarla, spiegandole che sono cose di poco conto che succedono in tutti i matrimoni. Il loro va avanti da undici anni ed hanno due figli, Luca e Marianna.
Personalmente comprendo perfettamente lo stato d’animo di imbarazzo devastante tipo “maperchèilBigOnenonavvieneadessosottoimieipiedienonsprofondofinoallanuovazelanda”, tuttavia quello che mi intriga è la manifesta goffaggine di Filippo. Da quando è stato scoperto dalla moglie con il cosiddetto ”sorcio in bocca”, dopo le negazioni e le smentite rituali fatte seguire da promesse di rinnovato, l’imperituro amore è stato colto in flagranza altre tre volte: sms con acrobatico sesso virtuale, mail con allegate le foto del possibile prossimo week end e telefonata da film porno con il cordless di casa da sotto un accappatoio in bagno, diffusa in contemporanea sugli altri apparecchi di casa dove si era rapidamente appostata tutta la famiglia “per sentire le porcate di papà”.
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Francesca, che sento soltanto una volta per telefono per consigliarle un collega al quale rivolgersi, è una milanese con una voce affascinante, trasferitasi a Roma in esilio per seguire il suo amore incontrato in vacanza in costa Smeralda.
Ha parole poco lusinghiere per il marito, che dice di voler cancellare dalla sua vita. Per la verità dice di non ucciderlo solo per non privare i figli di una fonte di reddito. Lei si tormenta, rimuginando sul tradimento ed andando alla ricerca di prove retroattive attraverso il dispiegamento di una campagna spionistica e di controllo degna del Grande Fratello (quello di Orwell).
Compito non difficile, perché Filippo continua a disseminare prove a suo carico e documenti compromettenti come in preda ad una parafilia che raggiunge il suo climax nell’essere svergognato, una sorta di esibizionismo senza trench e occhiali scuri. Il messaggino “lo so che stai con quella t?!*a” la signora deve averlo salvato tra le bozze, perché la frequenza con cui arriva durante l’ora della seduta non è altrimenti giustificabile. Filippo finge di risponderle in mia presenza, ma dopo mi confesserà che scriveva a Simona. Ci accordiamo sullo spegnimento dei cellulari, lo fa ma con evidente sofferenza, ho l’impressione di stare per cacciarmi in un guaio e sento, però, la stessa adrenalinica attrazione per i guai di cui deve essere preda Filippo. E’ un simpatico pasticcione. Si parte per la psicoterapia!
Per avere una idea della goffaggine di Filippo necessitano due aneddoti .
La vecchia sorella della madre gli chiede di regolarizzare i contributi per la badante che l’assiste, essendogli arrivato un avviso dalla sede INPS . Poiché la zia è nata a Perugia, Filippo parte insieme alla badante ma, giunto lì, si accorge che non c’è alcuna sede INPS. Solo allora si avvede che l’ufficio dove recarsi è quello di Roma. Considerato che ormai è arrivato a Perugia a vuoto, ricicla il viaggio di lavoro in una gita, pranzo in un localino del centro e motel con la quarantacinquenne badante che, il giorno successivo, lascia sulla segreteria telefonica di casa appassionati ringraziamenti.
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Ancora. Durante il periodo più burrascoso della separazione, mentre si stava decidendo per l’assegnazione dei figli, trascorre con loro un week end in campagna. Facendo giocare i bambini a guidare il trattore, finiscono tutti dentro la piscina. Soddisfatto delle sue gesta, Filippo immortala le immagini con il telefonino e le spedisce a Francesca. Si può immaginare cosa rappresentino tali immagini in mano all’avvocato di Francesca per dimostrare l’affidabilità di Filippo.
Filippo è nato due anni dopo suo fratello Roberto che è sempre stato bello, intelligente, bravissimo a scuola e desiderato dalle donne, avute sempre in abbondanza. Il confronto con lui è costante e Filippo risulta sempre perdente, ha dei ricordi tristissimi dell’ infanzia. I genitori adoravano Stefania, la primogenita e Roberto mentre non nascondevano che lui fosse giunto indesiderato, lo lasciavano sempre con una tata e non lo portavano neppure in vacanza con loro. Le uniche vacanze estive che ricorda sono avvenute in un paesino interno della Sardegna, a casa della tata. Quando parla della sua infanzia e dell’adolescenza piange regolarmente e giura che, per i suoi figli, non sarà così. Il padre ha voluto che studiasse Economia e Commercio per affidargli la gestione della sua azienda di import-export che però è fallita quando faceva il terzo anno dell’università. Si è riciclato con successo come promotore finanziario.
Se non somigliasse decisamente al fratello ci sarebbero tutti i motivi per pensare che sia un figlio illegittimo. La sua partecipazione alla vita familiare è sempre avvenuta nel ruolo di servitore, senza diritti e senza appartenenza, dei bisogni degli altri. Filippo non sa dire mai no a nessuna richiesta e si presta a qualsiasi vessazione gli altri gli impongano.
Ad esempio, la trattativa sulla separazione è disastrosa, cede su tutto e addirittura sopravanza le già esose richieste della controparte. Il senso di colpa, inoltre, potenzia enormemente questo suo meccanismo fino a farlo diventare grottesco: a Francesca lascia la casa, la macchina, il motorino e tremila euro mensili per gli alimenti. Tutte le mattine passa a portare a spasso i tre cani di Francesca e cura tutti gli aspetti amministrativi della vita di lei.
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Si comporta così praticamente con tutti e, in special modo, con le persone che ama, è l’unico modo che conosce per farsi amare. Ma non funziona, gli si abituano facilmente e chiedono sempre di più, non basta mai e lui è sempre in difetto.
Poi, però, di nascosto ruba la marmellata. Ho l’impressione che sia la sua vendetta, nel caso in specie la marmellata è il sesso trasgressivo con altre donne. Nell’anno della separazione dichiarava che l’unico suo scopo esistenziale fosse recuperare il rapporto con Francesca che invece era rifiutante e punitiva. Poi, ogni qual volta le tensioni si attenuavano, combinava un guaio, faceva sesso con la migliore amica di Francesca che dimenticava il collant in macchina, riesumava vecchissime passioni con contatti per mail o per sms che venivano regolarmente intercettati, e così via.
Un altro aspetto psicopatologico interessante è la tendenza a mentire per coprirsi da eventuali colpe anche quando non ce ne sarebbe motivo: mente preventivamente e in modo indiscriminato, nasconde ogni amante alle altre e a tutte i suoi rapporti con Francesca. La colpa, per lui, è di default.
Mi sembra che il comportamento del tradimento compulsivo abbia vari scopi: in primo luogo ogni conquista è una conferma della sua amabilità sempre incerta, in secondo luogo è un modo di punire l’altro che non lo riconosce a sufficienza nonostante i suoi sforzi per accontentarlo, infine è una specie di test sull’amore del tipo “vediamo se mi perdona nonostante le mie birichinate”.
Per questo è diventato un bugiardo patologico ma di tipo 1 o finalistico. A mio avviso i bugiardi infatti si dividono in due grandi categorie: di tipo 1 o finalistici e di tipo 2 o kamikaze. Quelli di tipo 1 mentono per raggiungere uno scopo: esercitare una professione desiderata senza averne la laurea, appropriarsi di denaro, fare sesso aggiuntivo a quello di ordinanza, rimandare scadenze onerose etc. Il bugiardo 1, se bravo e fortunato, può non essere scoperto ed ottenere il suo scopo. Tutti siamo stati più volte dei bugiardi di tipo 1.
Il bugiardo di tipo 2 sembra invece motivato, al di là dello scopo apparente, dal brivido stesso del mentire, non ha alcuna possibilità di non essere scoperto.
Un’altra mia paziente, appartenente a questa categoria, aveva inventato un fidanzamento per far contenta la madre, impaziente di vederla sistemata. Ad ulteriori richieste della madre aveva comunicato la data del matrimonio e, ogni volta che si riprometteva di rivelarle tutto, la vedeva così contenta e temeva così tanto di deluderla che inventava un altro pezzo. Nell’ordine: aveva frequentato un corso per la cresima, prenotato la chiesa, comprato l’abito bianco, acquistate le bomboniere e fissato il ristorante. Le bugie del bugiardo di tipo 2 non hanno alcuna possibilità di non essere scoperte, il giorno del matrimonio prima o poi arriverà e tutto salterà fuori, ma questa è un’altra drammatica storia.
Al contrario le bugie di Filippo erano di tipo 1 e, se non fosse stato così goffo e sbadato, non sarebbe mai stato un mio paziente, ma solo uno dei tanti mariti fedifraghi. Tutto il caos generato dalla scoperta della relazione con Simona giunse inaspettato dopo sette anni di matrimonio, che erano stati punteggiati da numerosi tradimenti. Tra i due coniugi c’era un accordo implicito che solo allora fu trasgredito. Filippo e Francesca avevano bisogni sessuali diversissimi: lei apprezzava una sessualità tranquilla, routinaria, conosciuta e senza sorprese, lui era sempre alla ricerca del nuovo, il sesso era un pensiero fisso che sovrastava tutti gli altri scopi della sua esistenza.
In verità forse anche questa compulsiva ricerca era strumentale a qualcosa di ancor più importante: sentirsi amabile e amato. Lui aveva da Francesca il permesso, implicito, di fare sesso con tutte le colleghe che desiderava e aveva anche un consistente budget da investire in prostitute e transessuali per le acrobazie che anche le colleghe gli negavano. Poteva uscire la sera a suo piacimento e senza controlli, doveva solo inventare bugie plausibili per salvare la faccia in modo che lei potesse dire a se stessa di non sapere, solo di sospettare.
Doveva però lavarsi accuratamente al ritorno per non portare a casa malattie e non doveva innamorarsi, il monopolio dell’innamoramento doveva rimanere di Francesca che in maniera totale, assoluta ed esclusiva era stata amata dall’adorato padre e che, con il proprio genitore, intratteneva un rapporto al cui confronto Edipo era un figlio disamorato.
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Il guaio, perciò, fu rappresentato dal fatto che, di Simona, Filippo si innamorò come un sedicenne e, come tale, girava per casa con gli special lampeggianti, sentiva costantemente la colonna sonora di “Love story” e si muoveva a passo di danza. L’immagine di Simona era in ogni supporto cartaceo o informatico cui avesse accesso. Luca, il primogenito, preoccupato dall’aria sognante del padre, un giorno lo ammonì circa un eccessivo consumo di cannabis di cui era a conoscenza in nome di una educazione democratica e senza segreti.
Quello che Filippo avvertiva come particolarmente problematico era la sua incapacità di far valere i propri diritti e di porre un limite alle richieste altrui.
Iniziammo dunque un training di assertività. L’affermazione di sé come detentore di diritti fu graduale e, con un certo senso dell’umorismo, cominciammo dai cani.
Può sembrare incredibile, ma persino rifiutare le promozioni telefoniche, soprattutto se provenienti da voci femminili, o gli acquisti ai semafori, costituì un passo programmato verso la riconquista della posizione eretta e la verticalizzazione della spina dorsale.
In ambito lavorativo fu più facile perché aveva, in tal senso, una maggiore autostima.
Gli divenne chiaro quanto i suoi comportamenti accondiscendenti fossero direttamente proporzionali alla sua idea di non valere e non meritare nulla, un meccanismo di compenso per farsi accettare.
La sua famiglia d’origine fu un laboratorio eccellente, la mancanza di considerazione e rispetto nei suoi confronti erano talmente grossolani da risultare immediatamente evidenti e persino caricaturalmente ridicoli, era come passare da una osservazione dei meccanismi ad occhio nudo ad uno studio con il microscopio elettronico a scansione. Tutto risultava chiaro.
Si aggiunga che, rinunciare ai comportamenti compiacenti con madre, fratello e sorella era reso più facile dalla loro assoluta inutilità: che si facesse in quattro o no non cambiava praticamente nulla, per loro sembrava non esistere.
Due esempi. Quando il figlio Luca vinse un premio di pittura a scuola, il commento della nonna fu che aveva preso tutto da zia Stefania, nonostante Filippo fosse un pittore dilettante molto appassionato.
Al momento di scegliere se acquistare dei buoni ordinari del tesoro o piuttosto fondi di investimento, la madre comunicò a Filippo l’intenzione di raggiungere Roberto a Milano per sentire il suo parere, ignorando che Filippo è consulente, su questo specifico tema, di banche internazionali.
Partita più impegnativa è stata quella con l’attuale famiglia. I figli erano subissati di regali e attenzioni e, per accontentarli, si dedicava a loro con impegno costante anche quando era stanco, provato o non ne aveva voglia. Ad un accenno di Luca per la vita degli indiani aveva comprato una tenda e organizzato un campeggio di cinque giorni. Filippo non aveva mai montato una tenda e non vi aveva mai dormito. Alla terza notte insonne, una colica renale lo aveva condotto al ricovero salvandogli forse la vita. Quando andai a trovarlo in ospedale, la deprivazione di sonno gli aveva attivato dispercezioni a contenuto sessuale ed un delirio erotomanico nei confronti della caposala, una robusta matrioska di Budapest.
Di contro, se i figli non gli manifestavano il dovuto riconoscimento di padre migliore del mondo diventava aggressivo con loro in modo preoccupante, li accusava di ingratitudine e che sarebbe morto per colpa loro, insomma erano i figli a doversi prendere cura del suo benessere psicologico.
Dove, soprattutto, il vecchio modo di funzionare continuava a regnare indisturbato come il Re Sole, era nel rapporto con Francesca.
Lei era preda di una furia pantoclastica nei suoi confronti, il “furor punendi” era giustificato, agli occhi di entrambi, dalle di lui colpe che venivano puntualmente elencate in una litania che, all’inizio, sembrava essere come quei giochi di memoria dei bambini in cui si nomina un elenco di cose a cui ad ogni ripetizione se ne aggiunge una nuova, poi aveva acquisito un carattere di rimuginio interiore francamente ossessivo. Le nefandezze di Filippo venivano enumerate con sempre maggiori dettagli, soprattutto erotici, che venivano messi a fuoco e ricercati attraverso minuziose indagini.
Avendo sentito una volta una di queste litanie dal telefono in viva voce di Filippo, mi feci una idea: Francesca utilizzava tali resoconti proibiti per eccitarsi sessualmente e, contemporaneamente, riaffermava la sua intransigente morale, condannandole.
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Quando l’affidamento dei figli fu definito a vantaggio di Francesca, lei si trasferì a Milano dove poteva contare sull’appoggio della sua accogliente famiglia, con somma gioia del padre che recuperò così la figliola perduta in meridione.
Filippo iniziò sei mesi dopo una convivenza con Luisa, una vecchia fiamma dei tempi del liceo, separata, con due figli adolescenti e bisognosa di integrare gli alimenti che il marito le riconosceva.
Filippo raggiungeva i figli a Milano, unendovi impegni lavorativi almeno una volta al mese. Con il passare del tempo, l’aumentare del servilismo di Filippo nei confronti di Luisa e dei suoi due teppisti adolescenti mi insospettì, doveva aver ripreso la pratica del tradimento seriale.
Aveva riesumato la faccia da “ vifregoenonmiprenderetemai”. Confesso che anch’io restai stupito, quando fu costretto a confessarmi tutto con un imbarazzo che ero ormai convinto gli procurasse comunque un perverso godimento. Tutto era successo perché non era stato in grado di dire di no a Francesca e, durante una serata di fine estate in un motel che affaccia sulla tangenziale, lei gli aveva chiesto di farlo senza preservativo. Forse per riconoscenza per il fatto di essersi vestita, su sua richiesta, come una professionista del settore, aveva acconsentito al termine di una notte memorabile.
La relazione segreta con Francesca andò avanti fino a quando Silvia non compì sette mesi e Filippo fu certo di essersi scampato la parte più gravosa delle notti insonni.
L’arroganza dei due brufolosi adolescenti e l’assestarsi di Luisa su un ruolo di moglie stabilizzata a tutti gli effetti fecero inclinare nettamente il piatto della bilancia dalla parte di Milano. Nel capoluogo lombardo ho affidato Filippo ad una collega che, spero, sia più brava di me.
Fecondazione in vitro: ansia e depressione ne influenzano l’esito?
– FLASH NEWS –
Secondo una nuova ricerca l’ansia prima di una fecondazione in vitro (IVF) non influenzerebbe le probabilità di concepimento della donna che vi si sottopone; l’insuccesso del trattamento può però influenzare negativamente la sua salute mentale.
Due studi separati, nei quali venivano osservate sia donne all’interno del percorso IVF che donne che tentavano di concepire naturalmente, sono stati pubblicati sulla rivista Fertility and Sterility. Prima della procedura IVF a tutte le 202 donne del campione in esame venivano somministrati questionari standard sulla depressione e l’ansia.
Complessivamente, i ricercatori hanno scoperto che le donne che fallivano nel trattamento IVF erano maggiormente a rischio di sviluppare ansia o depressione nei mesi successivi.
Di 103 donne con un IVF fallito, il 60 per cento ha sviluppato i sintomi di un disturbo d’ansia clinico (che era un 57 % prima del trattamento), e il 44 per cento ha avuto la depressione clinica (che era un 26% prima del trattamento).
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Non sorprende che molte donne con un tentativo fallito di fecondazione in vitro mostrino questi sintomi, ma nonostante questo è ancora poca la ricerca che si è occupata degli effetti degli esiti della IVF sulla salute mentale delle donne.
Inoltre, anche se le donne che avevano fallito il trattamento IVF erano a più alto rischio di sviluppare depressione o ansia, anche le donne rimaste incinte avevano tassi considerevoli di depressione e ansia. Durante la gravidanzainfatti, il 30 per cento di queste donne ha sviluppato una depressione clinica, mentre la metà ha mostrato livelli clinici di ansia; inoltre queste percentuali erano simili a quelle precedenti la IVF.
Per quanto riguarda le 339 donne che hanno tentato di concepire naturalmente, il 61 per cento di loro è rimasta incinta nell’arco di sei mesi; anche in questo campione la salute mentale delle donne non è risultata correlata con le probabilità di concepimento.
Secondo i ricercatori, durante il percorso di procreazione assistita (PMA) si dovrebbe fare di più per aiutare le donne dal punto di vista della salute mentale, ma non nell’ottica di migliorare le loro probabilità di successo IVF; infatti questi dati suggeriscono che la pressione fatta dal personale medico perchè il trattamento venga affrontato senza ansia e stress è immotivata, e può essere addirittura controproducente, per il benessere psicologico della donna che vi sottopone, considerare l’ansia una concausa nel fallimento nel trattamento.
Insomma, secondo i ricercatori, non ha senso che una donna incolpi sé stessa se ha affrontato il trattamento con ansia e il tentativo di IVF non è riuscito.
Soddisfazione matrimoniale: chi trova un marito, trova un tesoro!
Sposarsi fa bene, al corpo e alla mente. Uno studio promosso dalle Università Cornell e Stony Brook di New York, ha esplorato, attraverso la Risonanza Magnetica Funzionale(fMRI), i correlati neurali della soddisfazione matrimoniale rispetto al benessere psicofisico dell’individuo. Il campione dello studio era composto da 17 individui, 10 femmine e 7 maschi, stabilmente sposati in media da 21 anni, già testati in un precedente studio della dr.ssa Acevedo riguardante l’amore romantico (Acevedo et al, 2011). Ai partecipanti è stato somministrato un test per valutare il “benessere matrimoniale” (il “Relationship Assessment Scale”, Hendrick 1988) correlando i punteggi del questionario con l’attività cerebrale dei soggetti mentre guardavano delle immagini dei loro coniugi.
Gli obiettivi della ricerca riguardavano diverse ipotesi da verificare. Per prima cosa è stata ipotizzata un’associazione significativa tra soddisfazione matrimoniale (con un focus sull’amore passionale) e l’attivazione del sistema dopaminergico (area ventrale tegmentale), noto anche come il sistema della facilitazione comportamentale (Hare et al. 2008).
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In secondo luogo è stato ipotizzato un legame tra la qualità percepita della relazione matrimoniale e l’attivazione cerebrale di aree deputate al decision-making e ai meccanismi di ricompensa(corteccia orbitofrontale), fondamentali per l’Homo Sapiens, nella scelta di un partner in grado di intrattenere una relazione di interdipendenza che dia benessere e favorisca la possibilità di sopravvivenza e riproduzione della specie (Fisher 2000).
La terza ipotesi prevedeva che tale soddisfazione nel rapporto tra due coniugi fosse associata all’attivazione di regioni come l’insula, implicate nei processi emotivi e nella capacità empatica al fine di mantenere una relazione stabile e sicura(Bowlby 1969, Eisenberg et al. 1987, Gable et al. 2004, Sullivan et al. 2010, Waldinger et al. 2004).
Infine la quarta ipotesi considera la correlazione tra il decremento di stati di stress e depressione e alti livelli di soddisfazione matrimoniale (per una meta-analisi si veda Whisman 2001) con attivazione dell’area del cingolato sottocalloso (Lozano et al. 2008, Mayberg et al. 2005).
La conferma delle ipotesi suggerisce che una relazione stabile e duratura abbia delle ricadute positive non solo sulla qualità di vita e il benessere, ma costituisca un fattore protettivo rispetto allo sviluppo di disturbi depressivi.
Questa ricerca ha il merito di associare la soddisfazione matrimoniale ad aree ben precise del cervello e di supportare le teorie che ipotizzano il ruolo delsistema diattaccamentonel sistema di regolazione psicobiologica e comportamentale (Sbarra & Hazan 2008). I risultati suggeriscono inoltre l’associazione tra la soddisfazione relazionale con l’attività neurale di sistemi implicati nell’empatia e nei comportamenti imitativi, alla base della capacità di rispondere ai bisogni del partner. Inoltre suggeriscono come, uno dei segreti per un’unione felice e duratura, possa essere quello di mettere in atto comportamenti volti a migliorare la relazione con l’altro.
Fisher, H.E., (2000). Lust, attraction, attachment: Biology and evolution of the three primary emotion systems for mating, reproduction, and parenting. Journal of Sex Education & Therapy 25, 96-104. (DOWNLOAD)
As stated in the previous installment in this attachment series, it is theorized that insecure attachment can develop as a result of mixed or negative parenting signals during mother-child interactions (e.g. unreliable, rejecting). These parenting styles have also been associated with maternal psychopathology of various types of maternal psychopathology have been investigated as possible predictors of insecure infant attachment style.
Maternal depression has been linked to unresponsive and rejecting parenting. Therefore, maternal depression has been examined as a possible predictor of insecure infant attachment (Belsky & Jaffee, 2006). Two meta-analyses were conducted examining this relationship. Meta-analysis is method that focuses on combining and contrasting the results of multiple studies. The main goal of a meta-analysis is to identify patterns and disagreements in results. These types of studies can provide statistically powerful insight, especially when a large number of studies are examined.
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Martins and Gaffan (2000) compared the attachment styles of infants of healthy mothers to those of clinically depressed mothers in seven studies. The results, excluding one outlier, showed that there were higher levels of insecure attachment in infants of depressed mothers compared to those of healthy control mothers. Within the depressed samples, disorganized and avoidant attachment was more common than resistant attachment.
Atkinson et al. (2000) conducted a larger meta-analysis of 15 studies examining the attachment outcomes of infants of clinically depressed and healthy control mothers. Again, the infants of the clinically depressed sample had higher levels of insecure attachment compared to the infants of healthy controls.
Based on these meta-analyses, which combined to examine 22 studies, there appears to be an association between maternal depression and infant insecure attachment. Specifically, disorganized and avoidant attachment styles appear to be the most common among infants of depressed mothers. In the next installment I will shift my focus to mother-child attachment in the context of maternal anxiety.
Vi sarebbe una differenza fondamentale tra il modo con cui uomini e donne utilizzano Internet.
Da un nuovo studio condotto presso la University of Bath (UK) emerge come gli uomini sarebbero più propensi a navigare su siti web di intrattenimento, news quotidiane, giochi e musica, mentre le donne sarebbero più attratte da siti di social networking. Tale differenza sarebbe ancora più saliente oggi rispetto a dieci anni fa, probabilmente a seguito del boom dei network sociali quali Facebook, Twitter, etc.
Circa 500 studenti universitari sono stati coinvolti come campione della ricerca con un’età media di 20 anni. Di fatto il team di psicologi ha replicato uno studio condotto dieci anni prima finalizzato ad analizzare i cambiamenti nell’utilizzo di Internet dal 2002 al 2012 in funzione delle differenze di genere. I risultati evidenziano che la la differenza tra le modalità di uso di Internet tra maschi e femmine è più rilevante rispetto all’analisi svolta dieci anni prima dell’avvento dei social networks.
Quindi le donne userebbero maggiormente Internet per scopi squisitamente comunicativi e sociali rispetto agli uomini. Secondo Joiner, autore principale dello studio, il filone di ricerca va sviluppato ulteriormente soprattutto in ottica di una maggiore attenzione alla tematica di user-profiling.
Allenarsi ad utilizzare immaginazione e pensiero visivo può aiutare a tenere sotto controllo gli effetti nocivi del rimuginio.
RIMUGINIO E RUMINAZIONE
Il rimuginio è un fenomeno mentale che indica la tendenza a “pensare alle cose negative che potrebbero accadere in futuro“, soprattutto in condizioni generali di incertezza. Il rimuginio si accompagna all’ansia e, qualora eccessivo, rappresenta una pessima abitudine per la salute delle persone perché sostiene una condizione di ansia e stress duratura nel tempo (Borkovec, 1994).
Una delle conseguenze negative del rimuginio è la cattura di tutte le capacità mentali dell’individuo. Esiste un limite alle cose che possiamo fare contemporaneamente con la mente e il rimuginio tende a consumare tutte le risorse.
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Per questa ragione quando rimuginiamo non riusciamo a concentrarci con efficacia su altri compiti, a studiare, a ottenere prestazioni cognitive buone. Rimuginare diminuisce sensibilmente lo spazio disponibile nella working memory e le nostre capacità di attenzione.
Una recente ricerca ha mostrato come questo danno del rimuginio sia principalmente dovuto all’imponente carica verbale che lo contraddistingue (Leigh & Hirsch, 2011). I grandi rimuginatori parlano molto con sé stessi mentre non sono abituati a usare l’immaginazione, il pensiero visivo o sensoriale.
Questi risultati suggeriscono che per ridurre la tendenza al rimuginio e aumentare le proprie capacità di concentrazione occorre allenarsi con una buona frequenza a stimolare le proprie capacità immaginative. In sintesi imparare a usare l’immaginazione può ridurre il rimuginio e fornirci più risorse mentali.
BIBLIOGRAFIA:
Borkovec, T.D. (1994). The nature, functions, and origins of worry. In G. Davey e F. Tallis (Eds.), Worrying: Perspectives on theory, assessment and treatment (pp. 5-33). Chichester, England: Wiley.
Mauro Grimoldi, Presidente dell’Ordine degli Psicologi Lombardia, scrive un interessante articolo che fotografa il panorama dell’abuso di professione nel campo psicologia / psicoterapia:
Le scuse dell’abusivo che compie esercizio di attività riservate allo psicologo senza averne titolo, formazione e abilitazione sono varie, ma alcune ricorrono più di altre. Il 37% dichiara di essere counselor. Il 19% sono pedagogisti delusi che sconfinano verso la psicologia. Vengono poi, a distanza naturopati e operatori newage seguaci di dottrine olistiche… LEGGI L’ARTICOLO
Alcoldipendenza: una review sul trattamento
– FLASH NEWS –
Dal Centre for Addiction and Mental Health (CAMH) arriva una interessante review sui trattamenti più efficacy pre il trattamento dell’ alcoldipendenza, uno tra i disturbi più diffusi, ma anche sottostimati nella popolazione. L’ acoldipendenza risulta essere spesso in comorbilità con disturbi d’ansia e dell’umore, disturbi di personalità e schizofrenia. Pubblicata sull’ultima edizione di Canadian Journal of Psychiatry, la review esplora i modelli di intervento e i trattamenti scientificamente più efficaci per il problema legato all’abuso alcolico.
Dopo una prima parte in cui viene affrontato il tema dell’intervento farmacologico per il trattamento della alcoldipendenza, viene preso in considerazione il trattamento psicologico-psicoterapico in questo ambito.
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In particolare gli autori rilevano che sono proprio le terapie cognitive-comportamentali ad avere la più salda base empirica e la maggior evidenza di efficacia. Tuttavia, le diverse modalità categorizzate come terapie cognitive-comportamentali risultano comparabili in termini di efficacia clinica – da un punto di vista meta analitico- anche se scarseggiano trials che confrontano in uno stesso studio diverse modalità di trattamento facenti parte della grande famiglia della CBT (cognitive-behavioral therapy).
Altro limite non banale si riscontra in una maggiore attenzione da porre alla verifica dell’aderenza del lavoro terapeutico di fatto attuato con i pazienti.