Ricordiamo che una relazione di questo tipo può influenzare il nostro benessere fisico e mentale sia che si tratti di quella con il partner, che quella con i genitori, fino ai rapporti con colleghi in ufficio. Ovviamente tanto più la relazione compromessa è importante e intima per noi, tanto più ne sentiremo gli effetti. Come si fa, dunque, a riconoscere queste relazioni, dato che nessun rapporto è sempre completamente roseo e privo di conflitti?
La psicologa americana Bourg Carter, esperta di relazioni traumatiche e burn out, ci descrive nel suo libro High Octane Women: How Superachievers Can Avoid Burnout, come riconoscere i segnali di una relazione non sana.
Proviamo a rispondere alle seguenti domande:
1) Quando sei con quella persona, ti senti generalmente bene, persino rinvigorito? Oppure ti senti spesso insoddisfatto ed emotivamente esausto?
2) Dopo aver passato del tempo con questa persona, le sensazioni riguardo te stesso sono migliori o peggiori?
3) Ti senti fisicamente e/o emotivamente al sicuro con questa persona, oppure ti senti minacciato o in pericolo?
4) Vi è una sorta di equilibrio tra ciò che si dà e ciò che si riceve nella relazione? Oppure hai le sensazione che tu sei sempre quello che dà e l’altro chi riceve?
5) La relazione è caratterizzata da sentimenti di sicurezza e soddisfazione, oppure da criticità e angoscia?
6) Senti che l’altra persona è contenta con chi sei tu? Oppure hai la sensazione di dovere cambiare qualcosa di te per rendere l’altro felice?
Articolo consigliato: 6 Segnali che predicono il Divorzio. 5 Regole per salvare il Matrimonio
Dopo avere risposto a queste domande, proviamo a confrontare le nostre risposte con le definizioni che dà la Carter:
Le relazioni sane sono caratterizzate da comprensione, senso di sicurezza, libertà di pensiero, condivisione, ascolto, reciproco amore/prendersi cura, confronti di idee o disaccordi e rispetto, soprattutto quando ci sono divergenze di opinioni.
Le relazioni tossiche, invece, sono caratterizzate da insicurezza, abuso di potere o controllo sull’altro, richieste eccessive e pressioni, egoismo e centratura su se stessi, criticismo, negatività, disonestà, mancanza di fiducia, commenti denigranti sull’altro e/o gelosia.
In poche parole, una relazione sana ci lascia una sensazione di felicità e ci stimola, mentre relazioni tossiche ci fanno sentire depressi ed esausti.
Che fare allora? Il primo passo è sicuramente quello di riconoscere che ci troviamo in una relazione di questo tipo. Può sembrare una banalità, ma molte persone negano gli aspetti negativi dei loro rapporti più intimi, anche di fronte a familiari e amici che continuamente lo fanno presente.
Il passo successivo, non meno importante, è quello di credere che meritiamo di meglio per noi stessi. Anche se suona come una frase fatta, ci sono innumerevoli ragioni per cui le persone rimangono invischiate in questo tipo di relazioni dannose e non riescono a distaccarsene; uno di questi motivi risiede in una autostima talmente bassa da portarci a credere di non potere sperare in meglio. Questo tipo di pensiero non è chiaramente facile da fare emergere e richiede il supporto di uno psicologo o di un terapeuta.
Una volta capito che possiamo essere trattati diversamente, possiamo iniziare ad agire nella relazione quando la sentiamo tossica “in vivo”: potremmo, così, fare notare al nostro partner o al nostro capo che in questa specifica situazione ci siamo sentiti messi da parte o non rispettati e così via. Chiaramente questo terzo step può essere fatto esclusivamente se si è al sicuro. Se la vostra è una relazione abusante fisicamente, violenta o caratterizzata da importanti scoppi di ira, questo atteggiamento potrebbe solo peggiorare le cose, per cui è opportuno rivolgersi a specialisti o centri anti-violenza.
Alla fine, se tutto ciò che è stato fatto non ci aiuta a cambiare la natura della relazione, saremo giunti al punto in cui considerare la possibilità di distanziarci dalla persona fonte di malessere. Anche in questo caso è bene chiedere supporto psicologico sia nel momento della decisione che durante la separazione (soprattutto per relazioni coniugali o parentali). Andare incontro a una separazione relazionale è senza dubbio un passo difficile da compiere, ma ricordiamoci che il non agire ci lascerà solamente esposti costantemente a stress fisico e mentale che si perpetueranno costantemente. Costruire relazioni sane è ingrediente fondamentale della nostra vita, per cui non tralasciamo ciò che meritiamo per il nostro benessere.
Cibi Grassi, Dopamina & Depressione. Se il cibo funziona come Droga
– Rassegna Stampa –
Secondo un gruppo di ricercatori della University of Montreal Hospital Research Centre (CR-CHUM) gli alimenti particolarmente calorici, oltre a causare obesità, possono scatenare reazioni chimiche nel cervello in modo simile a come accade con l’assunzione di droghe, e condurre addirittura alla depressione.
Fulton, ricercatore a capo dello studio, e il suo team fanno parte di una rete di ricerca che sta lavorando per scoprire le ragioni biologiche dell’obesità e le malattie a questa correlate, come le malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2, alcuni tumori, e la depressione.
I dati – dice Fulton – mostrano che l’obesità è associata ad aumentato rischio di sviluppare depressione, ma abbiamo pochissima comprensione dei meccanismi neurali e dei modelli di ricompensa del cervello che collegano i due fenomeni. Stiamo dimostrando per la prima volta che il consumo cronico di grassi ha effetti pro-depressivi.
Il cervello infatti, rilasciando dopamina, ci ricompensa con il buon umore e questo ci incoraggia ad imparare certi tipi di comportamento, associati a questo senso di benessere. Proprio come nella tossicodipendenza, si creerebbe un circolo vizioso in cui alimenti molto ricchi di grassi vengono assunti come antidepressivi.
I topi, che nel corso della ricerca, sono stati alimentati con una più alta percentuale di grassi mostravano segni di ansietà e depressione, evitamento degli spazi aperti e minori tentativi di fuga se intrappolati. Inoltre i loro cervelli apparivano fisicamente alterati dalle loro esperienze. Ad esempio, CREB è una molecola che controlla l’attivazione di geni coinvolti nel funzionamento del cervello ed è ben nota per il suo contributo alla formazione della memoria. CREB è molto più attiva nel cervello dei topi che hanno seguito una dieta ricca di grassi. Infine, questi topi avevano livelli più elevati di corticosterone, un ormone associato allo stress.
Meditazione e Wandering: un’alternanza che ci rende più consapevoli.
Numerosi studi suggeriscono che il Default Mode Network sia attivo durante il wandering e solo occasionalmente presente anche durante compiti a più alto carico cognitivo.
Al contrario sembra ci sia un circuito neurale complementare, implicato in compiti cognitivi che richiedono un’attenzione sostenuta e focalizzata (Task-positive Network), in grado di regolare diverse forme di attenzione necessarie per raggiungere delle performance ottimali.
In un recente studio pubblicato nel 2012, Hasenkamp e collaboratori si sono proposti di studiare attraverso un protocollo il più possibile ecologico le fluttuazioni dell’attività neurale, rispetto ai due network sopra citati, tra stati mentali di wandering e attenzione focalizzata, attraverso l’utilizzo di esercizi di meditazione. Il modello prevedeva l’alternanza di 4 diversi stati mentali durante l’esperimento:
Mind wandering (MW),
Consapevolezza di essere in uno stato di wandering (AWARE),
Spostamento dell’attenzione rispetto al focus indicato nel compito (SHIFT),
Attenzione sostenuta (FOCUS).
Articolo consigliato: Neuroscienze: Mind Wandering. Perchè la nostra mente vagabonda?
La scelta di soggetti allenati a fare esercizi di meditazione focalizzata, deriva dal fatto che queste persone sviluppano nel tempo una spiccata abilità nel monitorare i propri stati interni (per i cognitivisti si tratta di metacognizione!), che li rende quindi più capaci di altri nell’identificare i diversi “eventi” e stati mentali oggetto dell’esperimento.
Ai soggetti era dunque richiesto di fare meditazione focalizzata sul proprio respiro, mentre si sottoponevano allo scanning in fMRI (Risonanza magnetica funzionale), ed era richiesto loro di segnalare attraverso la pressione di un pulsante l’incorrere di episodi di wandering, in cui invece l’attenzione veniva completamente distolta dalla respirazione (e dunque dal focus del compito richiesto). L’ipotesi dei ricercatori era che durante gli episodi di wandering i soggetti mostrassero un’intensa attività del DMN, mentre nelle altre tre condizioni (metawareness, shifting dell’attenzione e attenzione sostenuta) fosse più attiva la rete neurale legata alle funzioni esecutive e ai processi attentivi più consapevoli (Task-positive Network).
I risultati ottenuti dai ricercatori hanno evidenziato, in linea con l’ipotesi sperimentale, una maggiore attività del Task-positive Attention Network durante le condizioni AWARE, SHIFT e FOCUS, e una maggiore attivazione del Default Mode Network invece durante gli episodi di MW segnalati dai soggetti. In particolare le aree corticali corrispondenti ai processi mentali “attivi” si sono accese rispettivamente nelle tre condizioni: consapevolezza del wandering e quindi capacità di identificare evento target (insula anteriore bilaterale e corteccia cingolata anteriore), re-orientamento dell’attenzione sul compito chiesto, regolata dalle funzioni esecutive (corteccia prefrontale laterale e corteccia parietale inferiore) e mantenimento della concentrazione sul compito, mediata dai processi di attenzione sostenuta (corteccia prefrontale dorso laterale). Al contrario le aree funzionali risultate accese nel wandering sono state la corteccia cingolata posteriore, corteccia prefrontale mediale, le cortecce parietali e temporali posteriori e gli ippocampi, aree notoriamente legate ai processi di mentalizzazione e all’elaborazione delle informazioni emotive e personali.
Articolo consigliato: Spegnere il Cervello. La Meditazione per contrastare il Rimuginio.
Il dato forse più interessante e di utilità clinica, è infine che la corrispondenza tra le aree attivate e gli episodi di MW è risultata significativamente maggiore nel sottogruppo di soggetti con un numero di anni più elevato di esperienza di meditazione focalizzata, rispetto ai soggetti con meno esperienza: allenarsi alla meditazione focalizzata migliora le nostre capacità di fluttuare tra stati mentali differenti, di mentalizzare e riconoscere gli stati interni. Inoltre la durata della fase di SHIFT sembra inversamente proporzionale agli anni di training in meditazione focalizzata: l’ipotesi avanzata dai ricercatori è quindi che i processi di attivazione/disattivazione delle risorse attentive vengano velocizzati e resi più mirati dalla pratica della meditazione focalizzata, rendendo il passaggio tra i diversi stati mentali più fluido e più consapevole.
La capacità di passare rapidamente tra stati di wandering e stati di attenzione focalizzata, sembrerebbe garantire una più efficacie connessione tra le diverse reti neurali distribuite nella corteccia e dunque potrebbe essere alla base dell’inesplorata e sempre affascinante questione della coscienza..…ma per questo temo saranno necessari ulteriori approfondimenti!
La prossima settimana la seconda parte dell’articolo
Terremoto: le catastrofi sono sempre inaspettate. Stress & Traumi
Le catastrofi sono spesso inaspettate, improvvise e travolgenti. Di regola la catastrofe non è mai preannunciabile e prevedibile, per questo crea maggiori scompensi emotivi.
È comune tra le persone che hanno vissuto situazioni traumatiche avere reazioni emotive molto forti. Esistono reazioni normali, o meglio non esagerate, a degli episodi così incontrollabili? Capire come poter rispondere al meglio a questi eventi anomali può essere d’aiuto ad affrontare in modo efficace i sentimenti, i pensieri e i comportamenti.
Cosa succede alle persone dopo un disastro o un evento traumatico?
Le reazioni tipiche agli eventi traumatici e alle calamità naturali sono quelle di shock e di negazione, incredulità, dell’accaduto. In particolare, subito dopo l’evento imprevisto, queste reazioni fungono da comportamenti protettivi per l’individuo.
Se reiterati nel tempo, per contro, provocano una cristallizzazione della sofferenza e problemi a largo spettro.
Articolo consigliato: Dinamiche e Stili Comunicativi nelle Vittime di Disastri Ambientali.
Lo shock, in particolare, si presenta come un’alterazione, improvvisa e spesso intensa, dello stato emotivo che può lasciare storditi o frastornati. Il negare l’accaduto porta al non riconoscimento dell’evento, o al non vivere pienamente l’intensità dello stesso. Fondamentalmente si rimane increduli e basiti di fronte a un evento inaspettato. Spesse volte, si è portati a provare temporaneamente torpore odissociazione, che portano, come nel caso del terremoto, a non essere subito pronti a fuggire. In questo caso la risposta emotiva mette a repentaglio la vita.
Quindi, bisognerebbe essere pronti ad affrontare la propria emotività concentrandosi sull’ How, ovvero: come faccio per salvarmi? Una sorta di problem solving, perchè l’eccessiva emotività del momento non è pronta a cedere alla ragione.
Le reazioni provate, quando lo stato di shock iniziale si attenua, variano da persona a persona. Di seguito alcune reazioni che si possono riscontrare in risposta ad un evento traumatico:
I sentimenti diventano intensi e a volte imprevedibili. Si può diventare più irritabili del solito e l’umore può cambiare, anche in modo drammatico. Si potrebbe essere particolarmente ansiosi o nervosi, o addirittura sperimentare un episodio depressivo.
I pensieri e i comportamenti sono influenzati dal trauma. L’evento traumatico potrebbe essere rivissuto e ricordato in modo vivido. Questi flashback possono verificarsi senza un’apparente motivo e possono portare a reazioni fisiche quali, per esempio, sudorazione e battito cardiaco accelerato, difficoltà a concentrarsi, a prendere decisioni o diventare più facilmente confusi. Il sonno e l’alimentazione possono modificarsi.
Ricorrenti reazioni emotive comuni. Gli anniversari dell’evento traumatico, come a un mese o un anno dallo stesso, possono innescare ricordi sconvolgenti dell’esperienza dolorosa. Questi trigger possono essere accompagnati dal timore che l’evento stressante si possa ripetere.
Le relazioni interpersonali spesso diventano tese. È comune tra chi ha subito un trauma sperimentare un maggiore conflitto interpersonale, come per esempio discussioni più frequenti con i familiari e colleghi. D’altra parte è possibile manifestare comportamenti di ritiro, di isolamento ed evitare le attività consuete.
I sintomi fisici possono accompagnare lo stress estremo. Ad esempio, possono essere presenti mal di testa, nausea e dolore al torace fino al punto di dover richiedere cure mediche. Condizioni mediche pre-esistenti possono peggiorare a causa dello stress.
Come reagiscono le persone a distanza di tempo dall’evento traumatico?
Articolo consigliato: Memorie Traumatiche e Ruminazione.
È importante sapere che non esiste una modalità standard con cui si reagisce a una esperienza traumatica. Alcune persone reagiscono immediatamente, altre con una reazione ritardata, a volte mesi o anche anni più tardi. Un parte di coloro che ha sofferto a causa del trauma inizialmente potrebbero essere stimolati dall’evento, diventando solo successivamente scoraggiati o depressi.
Un certo numero di fattori influenza il tempo necessario per il recupero, tra cui:
Il grado di intensità e di perdita. Spesso si risolvono in più tempo gli eventi con le seguenti caratteristiche: durata maggiore, minaccia più grave, decessi, perdita di proprietà.
La capacità generale di una persona di affrontare situazioni emotivamente difficili. Gli individui che in passato hanno gestito altre circostanze difficili, stressanti, possono trovare più facilmente modalità per far fronte al trauma.
Altri eventi stressanti che precedono l’esperienza traumatica. Gli individui che hanno dovuto far fronte ad altre situazioni emotivamente difficili, come gravi problemi di salute o difficoltà familiari, possono avere reazioni più intense al nuovo evento stressante e avere bisogno di più tempo per recuperare.
Come aiutare se stessi e la propria famiglia.
Esistono diversi modi per affrontare un evento simile, sia da punto di vista emozionale sia comportamentale, allo scopo di poter riprendere il controllo di se stessi. Di seguito una lista di step da seguire:
1-Darsi del tempo per adeguarsi all’evento. Bisogna cercare di concedersi del tempo per poter elaborare e far sedimentare quanto accaduto. La reazione ad una perdita materiale (cose o persone) va affrontata con estrema calma, senza avere fretta di superare o dimenticare, ma bisogna concedersi del tempo.
Articolo consigliato: Trauma e dissociazione: riflessioni teoriche e cliniche verso il DSM-V
2-Chiedere sostegno a persone in grado di relazionarsi empaticamente con la sofferenza, in grado di ascoltare e sostenere. Cercare aiuto e conforto in persone che possano contenere la sofferenza, quali gli operatori del settore, i parenti e gli amici che in qualche modo non abbiano subito in prima persona perdite, perché altrimenti non sarebbero in grado di sostenere la loro sofferenza e quella altrui.
3-Scoprire i gruppi di supporto locali. Questi possono essere particolarmente utili per le persone con limitati sistemi di supporto personale.
4-Partecipare a gruppi guidati da professionisti qualificati ed esperti. La discussione di gruppo può aiutare le persone a rendersi conto che nella stessa situazione si possono avere reazioni ed emozioni simili, quindi condividere la sofferenza.
5-Impegnarsi in comportamenti sani per migliorare la capacità di far fronte allo stress eccessivo. Mangiare bene e in modo equilibrato e riposare molto. Se si verificano problemi con il sonno, si può trovare qualche sollievo attraverso tecniche di rilassamento. Evitare alcol e droghe.
6-Stabilire o ristabilire la routine come mangiare a orari regolari. Prendersi un po’ di tempo dedicandosi a hobby o altre attività di svago.
7-Evitare, se possibile, di prendere decisioni importanti. Queste attività tendono ad essere altamente stressanti, e unite allo stress dell’evento diventano un boomerang emotivo.
Quando cercare un aiuto professionale?
Articolo consigliato: Traumi nei bambini: l’approccio Trauma-Focused (TF-CBT).
Alcune persone sono in grado di far fronte efficacemente alle esigenze fisiche ed emotive provocate dagli eventi traumatici, utilizzando le loro risorse cognitive. Non è raro, tuttavia, scoprire che problemi gravi persistono interferendo con la vita quotidiana. Ad esempio, alcuni possono provare nervosismo persistente o tristezza schiacciante che influiscono negativamente sulle attività lavorative e le relazioni interpersonali. Gli individui con reazioni prolungate che interrompono il loro funzionamento quotidiano, dovrebbero consultare un professionista della salute mentale che li aiuti a comprendere quali siano le risposte che normalmente vengono utilizzate quando esposti a sollecitazioni di stress estremo. Questi professionisti lavorano con gli individui traumatizzati per aiutarli a trovare modalità costruttive nell’affrontare l’impatto emotivo.
Per quanto riguarda i bambini, i segnali che manifestano la necessità di assistenza professionale sono i seguenti: esplosioni emotive continue e aggressive, gravi problemi a scuola, la preoccupazione dell’evento traumatico, il ritiro costante ed estremo, e altri segni di intensa ansia o difficoltà emotive. Un professionista qualificato di salute mentale può aiutare questi bambini e i loro genitori a comprendere e trattare i pensieri, i sentimenti e i comportamenti che derivano dal trauma.
Psicoterapia Cognitiva e Mindfulness: il lato opaco dei cimbali
In anni recenti la scienza psicoterapeutica a matrice cognitiva e comportamentale è stata invasa dalla cosiddetta ‘terza ondata’, una corrente che pur riconoscendosi nel paradigma cognitivo ha come scopo principale non tanto il cambiamento delle convinzioni, ma il cambiamento del rapporto con i propri pensieri.
Portabandiera di quest’ondata sono le psicoterapie basate su mindfulness (mindfulness based cognitive therapies, da cui MBCT), che vedono in questa forma di meditazione e della consapevolezza che ne deriva il perno del benessere psicologico.
Di mindfulness se ne è parlato molto anche su State of Mind e ne ha parlato molto il Prof. Andrea Bassanini, collega e amico a cui indirizzo questa breve disanima con l’intento di proseguire un interessante dibattito e condividerlo con un pubblico più ampio.
Articolo consigliato: Mindfulness
1.Sulla lassità di costrutto: uno dei principali punti opachi della letteratura basata su mindfulness è la descrizione del costrutto nucleare cui si riferisce. Spesso la definizione che coglie diverse funzioni cognitive (consapevolezza, attenzione, pensiero) è multisfaccettata e generica, senza un corposo fondamento teorico che possa unirle in un unico costrutto. Il rischio diviene quello di usare il concetto di mindfulness in modo lasso, come metafora, etichetta, prospettiva generale o tratto di personalità. Una sorta di cocktail di funzioni non ben connesse, da un punto di vista teorico e di ricerca, al ricco e complesso mondo dei processi patologici.
Articolo consigliato: EABCT 2011: Melanie Fennell sulla Mindfulness
2.Sulle differenze tra prevenzione alla ricaduta e psicoterapia: le terapie basate sulla mindfulness (mindfulness based cogntive therapies, da qui MBCT) nascono principalmente da due programmi focalizzati sulla riduzione dello stress e sulla prevenzione delle ricadute in episodi depressivi. Il fenomeno della ricaduta costituisce senza dubbio un aspetto rilevante nella depressione, però la ‘prevenzione delle ricadute’ non esaurisce la ‘psicoterapia’. Piuttosto si tratta di una componente della psicoterapia, per la precisione la fase finale, che ha lo scopo di stabilizzare i risultati ottenuti nel tempo. L’area di intervento su schemi, scopi, significati personali o temi di vita ma anche su mediatori precipitanti, non sono il fuoco dalla MBCT. Da qui un primo rischio: trasformare un ottimo percorso di prevenzione delle ricadute in un’inadeguata psicoterapia.
Articolo consigliato: Prevenire le ricadute con la mindfulness
3.Sull’efficacia delle MBCT: ci sono molteplici studi di efficacia a sostegno degli approcci MBCT. Dopo un intervento sul disturbo depressivo (psicofarmacologico o psicoterapeutico) un percorso di MBCT riduce il rischio di ricadute nel tempo (Teasdale et al, 2000; Ma & Teasdale, 2004). Un recente studio ha mostrato che questa forza preventiva è decisamente superiore a quella offerta dal mantenimento del farmaco antidepressivo (Bieling et al., 2012). Pazienti che, dopo 6-8 mesi di farmacoterapia e psicoterapia, hanno partecipato a un gruppo MBCT con sospensione del farmaco avevano meno ricadute di chi continuava a usare l’antidepressivo. Quali sono ancora i limiti da esplorare? (1) i risultati appaiono validi solo per pazienti con tre o più ricadute pregresse, cioè persone con depressione cronica e ricorrente, (2) quando il confronto non è con antidepressivo o con TAU (treatment as usual) ma con la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) non si evidenziano rilevanti differenze (Manicavasagar et al., 2012; Koszycki et al., 2007).
4.Radicalismo e Integrazionismo: un punto caldo di discussione riguarda la linea di rottura che accompagna gli approcci che adottano tecniche di mindfulness. Da un lato i radicalisti che sottolineano la necessità di aderire completamente alla prospettiva mindfulness, come esperienza di vita e che proprio questa completa adesione rappresenti la chiave del cambiamento. Altri approcci (es: la terapia dialettico-comportamentale) considerano la mindfulness come un’abilità importante, ma né unica né totalizzante. Al momento non esistono studi specifici che confrontano queste due modalità (integrata o radicale) di usare le tecniche di mindfulness e questo rappresenta di certo una sfida teorica interessante.
5.Carico di lavoro: uno dei limiti degli interventi MBCT è l’impegno che viene richiesto al paziente, un costante allenamento mentale, che occupa all’incirca un’ora di lavoro quotidiano a tempo indeterminato che si estende anche ai terapeuti. La continuità nella pratica è considerata uno degli elementi chiave del successo dell’MBCT. Occorre esercizio per sostenere la nuova prospettiva. Certo, a fronte del benessere psicologico è un costo che si può essere disposti a pagare. Tuttavia restano in campo un paio di domande: (1) è davvero necessario pagarlo con questa costanza? (2) non ci sono vie più parsimoniose che sostengano un medesimo grado di stabilità?
Il Disturbo Disforico Premestruale (PMDD): Proposta per il DSM-5
– Rassegna Stampa –
Il Disturbo Disforico Premestruale (PMDD) è stato proposto per l’inclusione come una nuova categoria nel DSM-5, piuttosto che rimanere come un insieme di criteri in appendice al DSM. L’inserimento di PMDD come una categoria distinta fornirà maggiore legittimità per la diagnosi del disturbo e favorirà la crescita della ricerca evidence-based, portando in definitiva a nuovi trattamenti, hanno dichiarato Neill Epperson e altri membri del sotto-gruppo di lavoro che hanno lavorato per definire i criteri del PMDD. La loro relazione su questo argomento è già stata pubblicata online in AJP in Advance.
Un “esplosione” della ricerca negli ultimi 20 anni ha convalidato l’esistenza di gravi e distinti sintomi, il più rilevante caratterizzato da instabilità emotiva, irritabilità e rabbia, durante la fase luteale del ciclo mestruale, ovvero la fase che inizia a seguito dell’ovulazione . Secondo Epperson probabilmente solo il 2-5 % delle donne si qualificherebbe per la diagnosi.
Le modifiche effettive dei criteri che sono attualmente nel DSM-IV sono modeste; più rilevante, invece, è stato un riordino dei sintomi, dando priorità ai sintomi di instabilità emotiva, irritabilità e rabbia piuttosto che l’umore depresso.
Antonio Semerari: Intervista sulla metacognizione e risposte a Giancarlo Dimaggio
La comunità dei terapeuti cognitivi italiani è un gruppo di dimensioni ancora umane, se ancora mi consente di incontrare Antonio Semerari a Roma e sorprendermi ad ascoltarlo mentre al bar, prendendo un caffè con me, riflette ad alta voce e criticamente sull’intervista che Giancarlo Dimaggio ha rilasciato a State of Mind sul modello metacognitivo e interpersonale, modello che è stato sviluppato dagli anni ’90 in poi dal gruppo di clinici/ricercatori del Terzo Centro di Terapia Cognitiva di Roma. Gli propongo immediatamente di trasformare queste sue considerazioni vaganti in un’amichevole intervista, dandogli la possibilità di comunicare i suoi pensieri a tutti noi. Terminiamo il caffè e ci avviamo lungo la via degli Apuli a Roma, davanti alla Facoltà di Psicologia dell’Università.
Ruggiero: Cosa non ti ha convinto nell’intervista a Dimaggio?
Articolo consigliato: Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitivo-Interpersonale
Semerari: Mi sembra che Giancarlo confonda tre concetti diversi: uscita dal ciclo interpersonale, utilizzo del ciclo in diverse fasi della terapia e generalizzazione del ciclo per spiegare al paziente che se la và a cercare e a tutto questo contrappone l’interpretazione basata sullo schema interpersonale. Vediamo di capirci. Ciclo interpersonale si riferisce ad un concetto relazionale mentre lo schema è, come ovvio, un concetto intrapsichico. Fin qui tutto è chiaro. Dalle parole di Giancarlo, però, sembra che per uscire dal ciclo e per utilizzarlo precocemente in terapia bisogna dire al paziente: “Vede quello che è successo tra noi? Questo è quello che le capita con altri“. Siccome naturalmente non è così allora forse bisogna lasciar perdere di lavorare sul superamento dei cicli in fase precoce e concentrarsi sull’intrapsichico, ovvero lo schema.
Ruggiero: Però comunicare al paziente un suo ciclo interpersonale disfunzionale potrebbe realmente colpevolizzarlo.
Semerari: Per questo sto dicendo che si fa confusione. Un ciclo interpersonale è un processo relazionale in cui i due partecipanti sono spinti ad agire in modo da rinforzare la patologia di uno dei due. In quanto processo relazionale, quindi, cessa quando uno dei due non ha più questa tendenza d’azione. Non c’entra niente con quello che si dice al paziente. Il terapeuta esce dal ciclo con operazioni di disciplina interiore e passa da una posizione relazionale problematica ad una empatica. Si esce dal ciclo pensando, prima di aver detto qualcosa al paziente. Cosa dire è il problema che viene dopo. Ma uscire dal ciclo nel senso delle operazioni di disciplina interiore è un passaggio cruciale e prioritario che permette al terapeuta di ragionare in modo costruttivo sul caso.
Ruggiero: Facciamo un esempio.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Semerari: Prima dell’esempio affrontiamo il problema dell’utilizzo precoce dei cicli. I cicli non sono solo un guaio, sono una grande occasione terapeutica, direi un’occasione per la mente del terapeuta. Per spiegarlo introduciamo un concetto semplice semplice, caro a Weiss e a Ryle, quello di reverse. Che cosa fa un paziente con scarse capacità relazionali che si aspetta che l’altro faccia qualcosa di negativo al sé? La soluzione più semplice è quella di rovesciare i ruoli. Avendo una rappresentazione di ruolo rigida, se non vede alternative è meglio che sia l’altro a stare nella posizione più scomoda. Ma provando a metterci nella posizione scomoda, agendo il reverse, ci fa sentire, ci fa provare un assaggio di come si sente, o teme di sentirsi, nella relazione. In questo modo, però ci permette di andare oltre la semplice comprensione cognitiva. Ci fa esperire un assaggio di qual è la sua esperienza delle relazioni. Capisci il paradosso? Un ciclo interpersonale all’inizio ci pone in posizione negativa, ma se sappiamo sfruttarlo ci fa toccare il massimo di empatia: ci sentiamo in modo simile al paziente. E’ questo il principale vantaggio del ciclo. Metti il borderline che ti attacca accusandoti di essere una persona sbagliata. Tu provi un insieme confuso di emozioni e pensieri. Un po’ ti senti in colpa e indegno, in più sei furioso col paziente. Pensi che sia un paziente sbagliato che pone ostacoli e accusa ingiustamente il terapeuta. Ma se uno dei due è sbagliato la relazione non va e ti senti quasi trascinato a distruggerla mentre, contemporaneamente senti che ti dispiace. Stai vivendo una relazione come la vivono i pazienti borderline. Puoi leggere molti libri, ma difficilmente capisci di più i borderline come in quel momento.
Ruggiero: Cosa diresti al paziente?
Articolo consigliato: Psicoterapia: Il DSM 5, i clinici di campagna e i Disturbi di Personalita’
Semerari: Ma non si tratta di dire, ma di pensare e capire, di monitorare. Una volta raggiunta la posizione empatica è possibile parlarne con tranquillità con il paziente da un punto di vista terapeuticamente vantaggioso. Certo, occorre misurare le parole. Il processo di ragionamento è semplice. A parità di condizioni, il focus dell’intervento è sul problema attivo in quel momento, di cos’altro vuoi parlare? Se c’è un ciclo vuol dire che è attivo un tema relazionale problematico. Pensa ad un paranoico che, in prima seduta, ti scruta, ti osserva e ti da quella sensazione Kafkiana di accusa inespressa e di controllo oppressivo. Quanto tempo metterai a far porre al paziente tutto questo in termini di discorso? Eppure ti ha fatto capire subito come si sente. Cosa vuoi dirgli? Lei ha uno schema di sospettosità? Lei sospetta di me e io di lei? O piuttosto partire da ciò che hai provato, l’angoscia delle relazioni e il desiderio di relazioni chiare e trasparenti e muovere in questa direzione il colloquio.
Ruggiero: Insomma, cosa rimproveri a Dimaggio?
Semerari: Direi un eccesso di platonismo. Tutto si muove nel mondo delle idee, in questo caso degli schemi. Ma un disturbo di personalità si mantiene non perché ci sono idee radicate, ma perché queste idee creano un ambiente favorevole al loro mantenimento, relazioni confermanti i loro presupposti.
Così si conclude la conversazione con Antonio Semerari. Il buon vecchio cognitivismo italiano ha ancora questa passione per la riflessione peripatetica, a passeggio tra clinica e teoria per le strade di Roma.
Il trauma nei bambini: l’approccio Trauma-Focused TF-CBT
La terapia cognitivo-comportamentale specifica per il trauma Trauma-Focused Cognitive Behavioural Therapy(TF-CBT) è stata sviluppata negli ultimi 10 anni da ricercatori e clinici americani come Judith Cohen, Anthony Mannarino e Esther Deblinger.
Si tratta di una terapia che prende come modello un trattamento psicosociale, in cui, oltre a utilizzare le tradizionali tecniche cognitivo-comportamentali, vengono integrati approcci legati all’attaccamento, all’umanistica, all’empowerment e alla terapia familiare. Inizialmente nato come trattamento per bambini vittime di abusi sessuali, attualmente è stato adattato per poter lavorare con una più vasta gamma di esperienze traumatiche nell’infanzia, inclusi i traumi multipli (ovvero ripetutesi per lungo tempo o accorsi più volte nella vita di un individuo).
L’importanza di intervenire per tempo in questi casi drammatici si rivela cruciale, trattandosi di una fascia di popolazione estremamente debole i cui traumi possono facilmente portare all’insorgenza di una psicopatologia nell’età adulta o a serio, cronico stress. I dati relativi ai traumi infantili sono allarmanti: secondo l’International Society for Traumatic Stress Studies, se si considera l’intera popolazione mondiale, un numero di bambini compreso che sfiora il 43% ha vissuto almeno un evento traumatico nella propria vita (ISTSS, 2000). Da uno studio condotto su un campione di 1.420 bambini e adolescenti del North Carolina (Costello et al, 2002) è emerso che nei tre mesi precedenti, un quarto dei giovani in esame aveva vissuto almeno un evento fortemente traumatico, mentre un terzo era stato vittima di almeno un evento potenzialmente traumatico.
Articolo consigliato: Memorie Traumatiche e Ruminazione.
Anche in situazioni familiari serene, è bene tenere presente che un trauma può portare all’insorgenza di un disturbo psichico cronico e talvolta anche molto grave con l’avanzare dell’età. Chiaramente il modo in cui ciascun bambino reagirà all’evento dipenderà da diversi fattori, prima di tutto dal livello di esposizione all’evento traumatico stesso (minaccia per la vita, lutti…) e dalle caratteristiche preesistenti (temperamento del bambino, variabili psicologiche e familiari…); diventa poi importante come vengono gestite le conseguenze del trauma a livello familiare e sociale (se ne parla, vi è supporto/rete sociale, presenza di eventuali disturbi nei genitori ecc…) e che cosa mette in atto il bambino per fare fronte allo stress. Mai sottovalutare o ignorare, quindi, un evento traumatico, proprio perché studi scientifici hanno evidenziato che le reazioni dei bambini a eventi stressanti possono essere tutt’altro che transitorie e avere esiti altamente invalidanti, anche nei soggetti in età prescolare (Yule, 2001) e possono inoltre persistere a fronte di un funzionamento sociale apparentemente nella norma (Laor et al., 1997).
Il punto di forza di questo modello sta prima di tutto nella sua validità scientifica: numerosi studi randomizzati sono stati condotti, infatti, confrontando la TF-CBT con le terapie comunemente usate con minori vittime di traumi, come la play therapy, il supporto psicologico, la terapia centrata sul bambino o interventi più ampi di comunità; i dati mostrano che in tutti i casi la TF-CBT si è mostrata più efficace, ovvero bambini e famiglie riuscivano a riprendersi meglio dalle conseguenze negative del trauma, compresa una riduzione significativa dei sintomi da PTSD, sintomi ansiosi e depressivi. Inoltre, studi di follow-up che hanno seguito gli stessi bambini fino a due anni dopo la fine del trattamento, hanno dimostrato che i cambiamenti erano duraturi. Sembra quindi che la TF-CBT possa potenzialmente prevenire gli effetti negativi a lungo termine dovuti a traumi nell’infanzia.
Il secondo vantaggio importante di questa terapia sta nel fatto che, integrando modelli diversi, può essere applicata in setting e background culturali diversi (scuole, ospedali, casa ecc…), così come può essere utilizzata efficacemente con bambini e le loro famiglie insieme oppure con bambini allontanati dalla famiglia stessa o che una famiglia, purtroppo, non l’hanno più. Il protocollo standard ha una durata di circa 12 sedute, anche se i tempi possono essere allungati a seconda dei casi e delle esigenze dei singoli.
Nella parte successiva vedremo più nel dettaglio in che cosa consiste questa terapia centrata sul trauma.
National Child Traumatic Stress Network: www.nctsn.org
Recensione di “La pelle che abito” di Pedro Almodovar
ATTENZIONE! IN QUESTO ARTICOLO VIENE SVELATA UNA CONSISTENTE PARTE DELLA TRAMA DEL FILM
Riguardo all’infanzia del chirurgo plastico Robert Ledgard (interpretato da Antonio Banderas), si intuisce che sia stata segnata da violenze e distacchi sufficienti a determinare un cospicuo attaccamento disorganizzato. Il protagonista ha anche un fratellastro, che emerge a metà film reduce da una rapina, in tempo per violentare la compagna di Banderas ed essere poi da quest’ultimo assassinato. Si capisce che non si tratta di una famiglia modello, ma questa è solo la vulnerabilità storica.
Nell’immediato, due eventi traumatici danno il via alla follia del protagonista. In un incidente stradale la moglie resta completamente ustionata, sopravvive, ma quando intravede la sua immagine riflessa nel vetro della finestra, si suicida buttandosi di sotto. Da quel momento Banderas, chirurgo plastico, inizia esperimenti transgenici per creare in laboratorio una pelle resistente al fuoco.
La figlia diciassettenne, Norma, entra ed esce da una clinica psichiatrica e non si sa come potrebbe essere diversamente, data la famigliola che ha alle spalle. Durante una festa viene quasi violentata da un ragazzo, Vicente, che poi si dà alla fuga. Norma rifiuta ogni contatto con il padre convinta in modo delirante, ma forse assolutamente vero nella sostanza, che il violentatore sia lui, e si suicida anche lei come la madre. Robert decide dunque di vendicarsi.
Il clima del film diventa quello de “Un borghese piccolo piccolo” di Alberto Sordi, anche lui privato del figlio e della moglie da un cattivo di passaggio. Le tinte tuttavia sono quelle forti e sessuali di Almodovar che, dopo aver celebrato per tanti film l’erotismo del corpo ne celebra, come in alcuni altri, la manipolazione medica (“Tutto su mia madre”, “Parla con lei”).
Articolo consigliato: DIAZ - Don't Clean Up This Blood. (2012). Di Daniele Vicari. Recensione.
Robert sequestra Vicente, lo anestetizza e lo trasforma in donna con una vaginoplastica di cui sarà l’unico beneficiario fino all’irruzione del fratellastro. Vicente, trasformato in Vera, è modellato sul ricordo della moglie morta carbonizzata e diventa una donna bellissima, che ci aspettiamo di vedere ancora in altri Almodovar più gaudenti.
Banderas partecipa al funerale della figlia, che non lo ha più voluto vedere, e si prepara per il gran finale. La segregazione di Vicente/Vera diviene sempre meno coercitiva perché Robert vuole essere amato da chi ha reso schiavo. Appena il guinzaglio si allunga Vera riscatta Vicente, uccide Robert e torna dalla madre, che ancora lo aspettava e che, ovviamente, stenta a riconoscerlo.
Nei film di Almodovar c’è spesso una madre che aspetta quando tutti hanno smesso di farlo e che riconosce l’essenza del figlio seppure incrostato da tutte le brutture della vita. E’ una ricorrente parabola del figliol prodigo che torna in una casa senza padri, nè vitelli grassi, ma con una madre.
A contrasto della drammatica disorganizzazione della famiglia benestante e potente di Robert, che produce solo mostri e suicidi, si staglia rassicurante la figura dimessa della sartina madre di Vicente, che il tempo non stanca e l’apparenza non confonde e che può, lei sola, restituire l’identità al figlio riconoscendone l’anima.
Due osservazioni da psicoterapeuta.
La prima è che anche nel nostrolavoro una parte importante è fare da specchio, rimandando al paziente quell’immagine di sé che può lui stesso aver smarrito nei vicoli tortuosi dell’esistenza.
La seconda è che paradigma comune ai disturbi antisociali di personalità e alle psicopatie in genere, di cui il personaggio interpretato da Banderas rappresenta un prototipo grottesco, è l’utilizzo dell’altro come strumento dei propri bisogni: oggetto-manichino modellato sui propri desideri. L’essenza della perversione è proprio il disconoscimento degli affetti, delle emozioni e dei pensieri che costituiscono l’umanità di una persona. Ma l’altro, reso oggetto, condanna ad un’ insuperabile solitudine, rimanendo unico vivente in un mondo di strumenti e oggetti inanimati.
Neuroscienze: gli effetti delle emozioni intense nei gruppi di persone.
– Rassegna Stampa –
Le emozioni umane sono così contagiose, che il provare forti emozioni avrebbe l’effetto di sincronizzare l’attività cerebrale tra le persone. È quanto scoperto in una ricerca condotta in Finlandia alla Aalto University e al Turku PET Centre.
Osservare le emozioni nelle espressioni facciali degli altri, per esempio il sorriso, determina in noi la risposta emozionale corrispondente. Questa sincronizzazione degli stati emotivi tra gli individui supporta l’interazione sociale: infatti quando tutti i membri del gruppo condividono uno stato emotivo comune, il loro cervello elabora le informazioni provenienti dall’ambiente in un modo simile.
Nella ricerca in questione mentre i partecipanti allo studio vedevano brevi filmati piacevoli, neutri o sgradevoli la loro attività cerebrale è stata analizzata con la risonanza magnetica funzionale.
I risultati hanno rivelato che sono sopratutto le emozioni spiacevoli e intense a sincronizzare le reti di elaborazione nelle regioni frontali e mediane; mentre vivere situazioni molto eccitanti provocherebbe la sincronizzazione dell’attività nelle reti che supportano la visione, l’attenzione e il senso del tatto.
Secondo Lauri Nummenmaa, principale autore dello studio e professore alla Aalto University, la condivisione degli altri stati emotivi offre agli osservatori un quadro somatosensoriale e neurale che facilita la comprensione delle intenzioni e delle azioni dell’altro e permette di sintonizzarsi con lui. Tale sintonizzazione automatica facilita l’interazione sociale e i processi di gruppo.
Questi risultati hanno importanti implicazioni per gli attuali modelli neurali delle emozioni umane e dei comportamenti di gruppo, ma anche nella comprensione più approfondita di disturbi mentali che comportano un’anomala elaborazione delle informazioni socio-emotive.
“Cosa potrebbe accadere se lei non facesse questo?” Il Disputing Capovolto.
Nel disputing, è bene ripeterlo, mettiamo in discussione tutto ciò che pensiamo o facciamo in automatico. In questo modo possiamo diventare più consapevoli di tutte le valutazioni negative che effettuiamo dandone per garantito il valore di verità: che non sopportiamo l’abbaiare improvviso dei cani celati dietro le siepi, che non siamo capaci di colloquiare anche solo per pochi minuti con persone che non ci piacciono, che non possiamo accettare che i nostri passati amori continuino ad avere una vita propria al di fuori del nostro possesso. E così via.
Come già scritto altrove, per ottenere questo il terapeuta effettua semplici domande, tutte in fondo riconducibili a una sola domanda madre: “cosa non le va in questo?”.
Ma questa domanda va adattata a diversi contesti. Nella sua formulazione originale, la domanda è particolarmente adatta a mettere in discussione l’ansia, la paura e i suoi aspetti cognitivi. In fondo si tratta di chiedere al paziente:
“Cosa teme?”
“Cosa c’è in questo che ci genera paura o ansia?”
“Quale pericolo corriamo?”
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia
E così via. Le cose possono però complicarsi quando per esempio il paziente ha i suoi piani di gestione personali della paura. Piani evidentemente insufficienti se il paziente è venuto in terapia.
In questo caso non si tratta di valutare cosa ci sia di distorto in una valutazione cognitiva di una situazione, ma cosa ci sia di distorto in un piano di gestione patologico. È il caso soprattutto dei controlli compulsivi del disturbo ossessivo, ma anche degli evitamenti. In questo caso, si potrebbe chiedere:
“Perché fa questo?”
“A che le serve reagire così?”
“Qual è il suo obiettivo?”
Questa formulazione in positivo potrebbe essere insufficiente. Il paziente ossessivo (non diversamente in questo dall’ansioso) agisce in vista di un evitamento di un danno e non di un ottenimento di un obiettivo. Conseguentemente, non fa le cose per un “perché” ma per un “affinché non”.
Questo può determinare un ‘impasse, una situazione in cui il paziente risponde:
“Non so perché lo faccio. È più forte di me”
In realtà non c’è un “perché” bensì un “affinché non” che rimane nascosto a causa della formulazione in positivo. Che fare, allora?
Riformuliamo la domanda in negativo:
“Cosa potrebbe accadere se lei non facesse questo?”
Possiamo utilizzare l’ABC per facilitare l’operazione terapeutica. Un ABC immaginario o virtuale, in cui la situazione è la non adesione del paziente al suo piano di gestione compulsivo.
Per esempio, un ABC in cui l’A è “mi astengo dal controllare che tutti i rubinetti siano chiusi”. In questo modo l’ABC finisce per generare una guided imagery, integrando stile terapeutico cognitivo ed esperienziale.
Terapeuta: “Cosa accadrebbe se non controllasse i rubinetti?”
Paziente: “La pagherei. Potrebbe accadere qualcosa di brutto”
Ribaltando l’ABC riusciamo quindi a tornare alla situazione standard di uno scenario negativo temuto. Arrivati li, possiamo tornare sul binario consueto.
Questa tecnica, sebbene centrata sull’ABC, la si può trovare anche in testi di scuola cognitiva beckiana. La tecnica di valutare lo scenario peggiore (“worst-case scenario”) è analoga a questo ABC rovesciato, e inoltre è più ampia e meno specifica per il caso determinato della rinuncia al controllo (Clark, Beck, 2010, pag. 209). L’applicazione specifica per il controllo ossessivo, molto simile all’intervento descritto qui, si trova nel libro di Clark (2004) sull’ossessività.
BIBLIOGRAFIA:
Clark, D. A., Beck, A. T. (2010). Cognitive Therapy of Anxiety Disorders. Science and Practice. New York: Guilford Press.
Clark, D. A. (2004). Cognitive-Behavior Therapy for OCD. New York: Guilford Press.
Stile e Sovversione nella Psicoanalisi Postmoderna
Al MART di Rovereto, fino al 3 giugno si può vedere la mostra Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970-1990 proveniente dalla Royal Albert Hall di Londra. Dalla visita abbiamo ricavato impressioni miste. La straordinaria importanza culturale del postmoderno come esibizione dell’artificialità, ibridazione, bricolage, anti-autoritarismo, citazionismo non trova sempre una conferma emotiva negli oggetti esposti. Tra tutti forse l’ambito più convincente, quanto a risultati, è quello dell’architettura.
Sorge spontanea l’idea che sia a causa dei limiti intrinseci, di ordine pratico, che le sono propri e che fungono da vincoli tecnici che la pongono al riparo dalle astruserie postmoderne che vediamo invece quando si tratta di altre forme d’arte.
Non altrettanto persuasivi sono infatti le ricadute nel cinema, nella letteratura, nella pittura ecc. Ma forse per dare un giudizio sul postmoderno bisognerebbe ampliare il panorama. Forse la nostra prospettiva è ancora troppo ristretta.
Vediamo allora il disegno del grattacielo dell’AT&T di New York, del 1978, e ci sembra genialmente postmoderno; così come lo sono, senza saperlo Borges, o Queneau o Sterne. Come lo è Kuhn. Kuhn non dice che c’è una progressione lineare nel sapere, di tipo cumulativo, bensì che cambiano le metafore che guidano la ricerca. Si pongono nuove domande, si guarda in nuove direzioni, fino al punto in cui anche il paradigma scientifico attuale inizia a mostrare la corda e si pongono le premesse per un nuovo cambiamento.
Per postmoderno possiamo intendere dunque due cose: se usiamo la parola come aggettivo, ne possiamo fare un uso estensivo, e dire per esempio che Freud era un pre-postmoderno o addirittura un proto-postmoderno e che il postmoderno è iniziato con Nietzsche o con le origini della psicoanalisi ecc.; se lo usiamo in senso più specifico come il nome di una precisa corrente di pensiero, allora esso nasce convenzionalmente con il libro di Lyotard La condizione postmoderna, del 1979, dura un ventennio circa, ed è qualcosa che sta finendo come sembra certificare la mostra che si è tenuta a Londra sulla morte del postmoderno o altri eventi relativi al cosiddetto nuovo realismo.
Articolo consigliato: L’estetica della crudeltà in Out di Roee Rosen
Quindi se consideriamo il postmoderno una dimensione dello spirito è una cosa, se lo vediamo come una corrente culturale, peraltro dai confini piuttosto confusi, è un’altra. Non bisognerebbe fare questa confusione. Finiremmo altrimenti in ogni genere di difficoltà logica: tipo, far coincidere le fortune e il declino del postmoderno-corrente con lo spirito anti-metafisico che pervade l’epistemologia del ‘900, che a nostro avviso è ben vivo. Una cosa sono dunque i principi del postmoderno, ad esempio un’idea laica di verità, altra è la riuscita concreta in vari ambiti dell’applicazione di questi medesimi principi.
Per uno psicoterapeuta la visita alla mostra può essere l’occasione anche per chiedersi cosa ne è del postmoderno nelle discipline psicologiche, come queste sono state lambite da questo movimento e da quelli affini: dalla decostruzione, dalla metanarrativa, alla cosiddetta svolta linguistica.
Più in particolare: cosa è successo all’interno della psicoanalisi? che statuto hanno in psicoanalisi i concetti di verità e di realtà? si è affermata una corrente postmoderna? che caratteristiche ha avuto? esiste qualcosa in psicoanalisi che possiamo definire come uno sviluppo postmoderno?
Freud pensa entro la cornice epistemologica del moderno. L’idea è che si possa arrivare a conoscere la verità obiettivamente, lì fuori, per quella che è e che esista uno strato roccioso della realtà che può essere conosciuto.
Noi viviamo in un’altra cornice epistemologica, che si può definire come post-positivistica o post-moderna. Prevale un concetto relativistico di realtà e un sentimento di maggiore scetticismo rispetto alle nostre possibilità di conoscere la realtà per come è veramente. Freud parte da una posizione ancora piuttosto forte del soggetto. Noi siamo arrivati a vedere la verità non come sganciata dalla realtà e dai cosiddetti fatti, ma anche inevitabilmente frutto di un accordo intersoggettivo o consensuale. Siamo arrivati a capire che il linguaggio è un sistema chiuso di segni che hanno valore non perché siano in contatto diretto con la cosa ma perché assumono un senso nel gioco differenziale interno. Tant’è che abbiamo più nomi per le stesse cose.
Questo significa che la realtà scompare? Assolutamente no. Vuol dire bensì che il modo in cui accordiamo le nostre parole con i fatti passa per canali che non riusciamo a esplicitare interamente con i nostri concetti e con la nostra logica. È evidente a tutti che Freud ha posto le basi per l’affermarsi del pensiero post-positivistico quando ha spodestato l’Io dalla sua casa. Da questo punto di vista sarebbe un postmoderno radicale. Difatti non è per caso che la nozione stessa di inconscio è stata rifiutata a lungo (per esempio fino alla metà degli anni ottanta anche dalla psicologia cognitiva)(Westen, 1999).
Oggi però assistiamo a un secondo choc. Non solo l’Io non è padrone in casa propria ma neppure l’inconscio, per così dire, lo è, perché dipende dall’altro, dalla socialità in una maniera ben più profonda di quanto fossimo abituati a pensare.
Moderno e postmoderno si possono così far coincidere grossomodo con una epistemologia del soggetto e con una epistemologia dell’intermedietà o intersoggettiva (Civitarese, 2008, 2012). Possiamo rinunciare all’una o all’altra? A nostro avviso no, perché finiremmo per assolutizzare una prospettiva e per tornare a postulare un unico punto di vista, che sarebbe il punto di vista di Dio. L’essenziale è pensare che entrambi i punti di vista sono convenzionali, utili finzioni, decisioni che prendiamo per aprire una certa finestra sulla realtà. Quante descrizioni ci sono di una sedia? La sedia vera è quella che vedo a occhio nudo, al microscopio elettronico, al microscopio ottico, una frazione di secondo dopo è la stessa sedia o una sedia già diversa? E se due cose uguali in natura non esistono, che senso hanno le operazioni dell’algebra in cui si pretendo di dire che 1+1 = 2? E se tutte queste prospettive sono vere a modo loro, chi mi impedisce di pensare che ce ne possano essere infinite? Infatti possiamo facilmente pensare che le prospettive possano essere infinite, e continuare a non essere arbitrarie. Quel che conta è mantenere la dialettica e la simultaneità dei punti di vista. Altrimenti ricadiamo in una psicologia della mente isolata oppure dissolviamo del tutto l’idea stessa di mente.
Articolo consigliato: Di che cosa discutiamo quando discutiamo di cinema?
Alcuni rimproverano invece al postmoderno la perdita di valori, principi sia di tipo morale che dei principi di realtà e di verità. È legittimo chiedersi se questa critica punti a costruire un bersaglio ad hoc, fittizio, uno straw man, oppure descriva qualcosa che esiste da qualche parte. Perché se non esistesse, perché occuparsene? Perché perdere tempo con un fantasma? Tra l’altro, che dire delle correnti scettiche che hanno sempre attraversato il pensiero filosofico oppure dell’idealismo? Le definiremmo per questo postmoderne? Francamente facciamo fatica a trovare un filosofo oppure un analista autorevole del nostro tempo – intendiamo internazionalmente riconosciuto, che abbia scritto su riviste prestigiose e peer review – che sostenga tesi così estreme da negare i concetti di verità e di realtà. Non sapremmo semplicemente a chi rispondere. Diremmo, please, fatemi avere uno straccio di articolo e poi vediamo. Qualcuno potrebbe ammettere che in effetti non c’è nessuno che sostiene cose del genere, e che valga la pena di prendere in considerazione, ma che comunque nella società si è affermata un’idea del genere. Noi siamo tuttavia contrari a trasformare la psicoanalisi, con il rigore dei suoi concetti e la stretta aderenza al suo campo empirico, in sociologia spicciola. È vero, a volte si trovano espresse posizioni del genere, ma sono interpretazioni viziate del pensiero altrui. Dire che Derrida avrebbe affermato che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, oppure che non c’è nulla fuori del testo, sarebbe a nostro avviso una grossolano fraintendimento del pensiero rispettivamente di Nietzsche e di Derrida. Se fossimo al Liceo useremmo la matita blu, quella degli errori gravi.
Su che cosa sia la psicoanalisi postmoderna, o sull’influenza del pensiero postmoderno sulla psicoanalisi la letteratura psicoanalitica ha iniziato ad interrogarsi seriamente già alla metà degli anni ’90, soprattutto in ambito americano (Leary 1994; Shaver 1996, 1998; Chessick 1996). Molti autori però, in questi scritti, non parlano ancora di una psicoanalisi postmoderna. Shaver per esempio, in due saggi di grande interesse teorico e speculativo (e forse meno clinico), si cimenta nell’impresa di “postmodernizzare l’inconscio”, ritenendo che ciò che è più rivoluzionario del pensiero di Freud sia proprio l’elemento postmoderno delle sue teorie: la sua capacità di sfuggire al potere seduttivo del pensiero filosofico occidentale dominante e l’accento che la psicoanalisi – come il postmodernismo – mette sul fatto che il linguaggio non funzioni solo per comunicare ma anche per distorcere.
LEGGI LA RECENSIONE: Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese - A cura di GIovanni M. Ruggiero
Nel luglio del 2001, al 42esimo congresso IPA, a Nizza, è stato presentato un panel dal titolo Postmodern Psychoanalysis. A presentare era Arnold Goldberg e Irma Brenman Pick faceva da discussant. Quello di Goldberg è un lavoro eminentemente clinico, forse meno sofisticato di alcuni scritti successivi sul tema, ma che ha il merito di mettere in luce alcuni aspetti fondamentali del dibattito in chiave clinica e non ideologica. Il punto di partenza del suo lavoro è pratico, esperienziale, fa riferimento al problema della correttezza e alla preoccupazione degli analisti per le regole. Cita naturalmente Bion, che nei Seminari Brasiliani dice di non sapere quali siano le regole della psicoanalisi, e lo mette in relazione con Lyotard che ha descritto la condizione dell’uomo postmoderno in termini di “incredulità verso le metanarrazioni”, considerate come un insieme di regole a cui tutte le scienze fanno riferimento. Un approccio postmoderno dovrebbe lasciare spazio, secondo Goldberg, ad una molteplicità di approcci che non possono essere necessariamente racchiusi in un’unica teoria che li comprenda tutti. E’ evidente che questa posizione si espone ad una facile critica, quella dell’anything goes, l’idea cioè che tutto vada bene, che si vada verso una psicoanalisi selvaggia (vedi anche Chessick 1995 – “Poststructural Psychoanalysis or Wild Analysis?”). Goldberg mette in guardia da una lettura tanto ingenua della teoria postmoderna riprendendo ancora una volta Lyotard e la sua idea che ogni soggetto sia inserito in una tela di relazioni che si fa via via più complessa. Il problema non è dunque accettare tutto, ma sostituire ad una interpretazione pre-organizzata, a priori, l’apertura ad una molteplicità di soluzioni finali. Non siamo nel campo dell’anything goes, osserva ancora Goldberg, ma in quello dell’everything matters. Ogni cosa è importante, altamente significativa, sempre passibile di nuove letture e c’è bisogno di una continua attività di incorniciatura (framing), nulla può essere dato per scontato.
Il modello di campo, in particolare per come lo hanno interpretato Ferro, i Baranger e Ogden, è stato preso anche da Susann Heenen-Wolf (2007) come esempio di un radicale cambiamento di paradigma che, all’interno della rivoluzione del pensiero postmoderno, è in corso nella psicoanalisi contemporanea: quello “dalla legge simbolica alla capacità narrativa”.
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.
Possiamo considerare le caratteristiche principali del postmoderno come: la fine delle metanarrative emancipatorie e degli orizzonti utopici del moderno, il rifiuto di ogni genere di concezione universale della verità per cui le grandi ideologie (religiose, mitologiche, politiche, filosofiche o morali) vengono sostituite, o integrate, dai concetti di comunicazione e negoziazione. L’accento dunque, nel pensiero postmoderno, si è spostato dalle prospettive orientate al contenuto ad un’attenzione alla comunicazione nel qui ed ora, al processo, al contenitore. Questo – osserva la Heenen-Wolf, come già aveva fatto Goldberg– è avvenuto anche nella psicoanalisi contemporanea con il pensiero di Bion e i suoi sviluppi. L’attenzione alla costruzione di un apparato per pensare i pensieri, all’importanza del contenitore, alla “fede” nel processo e ad una concezione di verità considerata strutturalmente inconoscibile sono solo alcuni esempi di come la teoria bioniana abbia favorito, nella storia della psicoanalisi, il passaggio da un modello epistemologico della ricostruzione ad uno della costruzione.
I teorici del modello di campo, poi, hanno messo l’accento sull’esperienza emotiva creata da entrambi i membri della coppia analitica all’interno della seduta sostenendo che la comunicazione del paziente sia da leggere sempre come un’espressione del campo analitico intersoggettivo – o del terzo analitico – che nel qui ed ora si crea. Questo punto di vista cambia anche la concezione del setting – sottolinea ancora la Heenen-Wolf – che non è più l’espressione del confronto con una legge simbolica e una colpa originaria, ma uno spazio in cui si sviluppano le capacità mentali della coppia analitica e nuove esperienze emotive possono nascere. La condizione di vita dell’uomo postmoderno e il conseguente cambiamento di paradigma, secondo la Heenen-Wolf, ci fanno vedere come, retrospettivamente, Freud (o una certa lettura del pensiero freudiano) possa essere considerato un moralista: nella sua opera descrive come il soggetto dovrebbe funzionare idealmente e come dovrebbe rinunciare ai propri desideri e pulsioni più potenti e assumersene la colpa. La Heenen-Wolf sottolinea come l’incontrovertibile cambio di paradigma a cui abbiamo accennato, che porta a dare sempre meno peso alla metapsicologia – che Freud stesso chiamava “la Strega” –, si accompagna con la possibilità di liberare la psicoanalisi dalla pretesa di avere uno statuto speciale di scienza umana restituendola al metodo scientifico. Ci sembra una precisazione estremamente importante perché ci permette di mostrare, ancora una volta, l’infondatezza delle accuse dell’anything goes e della negazione assoluta della verità e della realtà. Non soltanto, come si diceva, dire che Derrida ha sostenuto che non esistono fatti nella realtà al di fuori del testo è un grossolano errore, ma attribuire a questi autori posizioni dogmatiche e ideologiche è un completo stravolgimento dello spirito del pensiero postmoderno: non è in discussione l’assenza della verità, ma l’assenza di una verità assoluta, l’assenza dell’assolutezza.
Articolo consigliato: Superare la colpa di due terapeuti italiani: Davide Lopez e Francesco Mancini
È quello che Shachaf Bitan, in un articolo recentemente apparso nell’International Journal of Psychoanalysis (2012) chiama la “logica del gioco”, riconoscendola come una caratteristica comune al pensiero di Winnicott e Derrida: una logica che considera fecondamente indeterminata la dialettica tra gli opposti ed invita a superare la “violenta gerarchia” che li organizza nel pensiero corrente in favore di una pacifica coesistenza, una logica che considera il paradosso e l’ambiguità come elementi centrali dell’esperienza.
Come dice Matar (2005, citato da Bitan 2012) Derrida ci ha rivelato che, anche se stiamo giocando ad un gioco completamente diverso, stiamo ancora giocando nello stesso parco! Naturalmente questo vale anche per le teorie, e per le teorie psicoanalitiche: la logica del gioco non esclude la logica tradizionale ma invita a ripensare le dicotomie che hanno caratterizzato il pensiero psicoanalitico – quella tra interno ed esterno, presenza e assenza, conscio e inconscio, soggettività e oggettività, soggetto e altro, analista e analizzato – considerandole come non mutualmente esclusive, ma coesistenti pacificamente (Bitan 2012, p. 48). E’ la stessa cosa che fa Bion nel famoso scritto del 1977, quando ci invita a smettere di occuparci delle diadi di opposti che costituiscono il nostro mondo, e di investigare invece “la cesura, il legame, la sinapsi, il (contro-trans-) fert, l’umore transitivo-intransitivo”.
Bitan, infine, osserva come Winnicott trasformi l’uso del concetto di “concreto”, rendendo concreto il gioco e “il concreto” giocoso; è la stessa cosa che fa Bion con “i fatti”, che per lui corrispondono all’esperienza emotiva, cioè ad una realtà che è già stata sognata, cioè trasformata soggettivamente, potremmo dire esteticamente. Ecco, di questa giocosità la mostra al MART testimonia spendidamente. Lo raccontano i versi di Pessoa, quando il poeta si domanda:
Tra l’albero e vedere l’albero
Dov’è il sogno?
(Braccio senza corpo che brandisce una spada, 1916)
BIBLIOGRAFIA:
Bion W. R. (1977). Caesura. In Il cambiamento catastrofico. Loescher, Torino, 1981.
Bion W. R. (1987). Seminari clinici. Brasilia e San Paolo. Cortina, Milano, 1989.
Chessick RD (1995). Poststructural Psychoanalysis or Wild Analysis?. J Am Acad Psychoanal Dyn Psychiatr., 23:47-62
Civitarese G (2008). Più affetti… più occhi. Temi del postmoderno e de/costruzioni in analisi. In L’intima stanza. Teoria e tecnica del campo analitico, Borla, Roma.
Goldberg A. (2001) Postmodern Psychoanalysis. Int J Psychoanal 82:123-128
Heenen-Wolf S. (2007). From simboli law to narrative capacity. A paradigm shift in psychoanalysis?. Int J Psychoanal 88: 75-90
Kuhn TS (1962). La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Einaudi, Torino 2009.
Lyotard JF (1979). La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. Feltrinelli, Milano 2002.
Leary K (1994). Psychoanalytic “Problems” and Postmodern “Solutions”. Psychoanal Q, 63:433-465.
Matar A. (2005). Modernism and the language of philosophy. London: Routledge ⁄ Taylor & Francis.
Pessoa F. (2012). Nei giorni di luce perfetta. RCS Quotidiani, Milano
Shawver, L. (1996). What Postmodernism Can Do for Psychoanalysis: A Guide to the Postmodern Vision. The American Journal of Psychoanalysis. 56(4):371-394.
Shawver, L. (1998). Postmodernizing the Unconscious with the help of Derrida and Lyotard. The American Journal of Psychoanalysis.58(4): 329-336.
Westen D (1999). The Scientific Status of Unconscious Processes. J. Amer. Psychoanal. Assn., 47:1061-1106
l’Effetto Lingua Straniera: decisioni più razionali e meno rischiose.
– Rassegna Stampa –
Le persone che riflettono su problemi in una lingua straniera (non importa quale) prenderebbero decisioni più razionali e meno rischiose soprattutto in ambito economico, secondo un recente studio pubblicato su Psychological Science.
In uno degli esperimenti 54 studenti di madrelingua inglese e parlanti spagnolo come seconda lingua, sono stati sottoposti a diversi task di decision-making di tipo economico in entrambe le lingue. Gli studenti madrelingua inglesi cui era richiesto di pensare in spagnolo fornivano risposte più razionali, vantaggiose e meno rischiose rispetto agli stessi studenti che utilizzavano la loro lingua madre e cioè l’inglese.
Secondo lo studioso Boaz Keysar, ricercatore della University of Chicago che ha condotto lo studio pensare in una lingua straniera ci distanzierebbe emotivamente dai contenuti, in qualche modo ci impegnerebbe maggiormente in processi logici razionali più lenti meno automatici rispetto al pensare nella propria lingua madre. Questo esiterebbe in una minore tendenza all’assunzione del rischio e di vantaggi immediati.
Anche nei bilingui fluenti vi sarebbe una maggiore salienza e reattività emotiva alle parole della propria lingua madre, cioè la prima lingua che hanno imparato stando in braccio al caregiver. L’effetto lingua straniera porterebbe quindi a forme di ragionamento più logico razionale e meno intuitivo e in qualche modo euristico.
Overall, early inhibited temperament occurs in about 15% of Caucasian children and is characterized by shyness in novel social or non-social situations. Retrospective reports and longitudinal studies have shown that it is persistent from infancy through childhood and into adolescence.
BI has also been found to predict the development of anxiety disorders, including social phobia. Although an association appears to exist between BI and anxiety disorders, psychosocial factors which are commonly related to anxiety disorder, do not appear to be related to BI. BI therefore appears to represent a constitutional vulnerability in the development of social anxiety.
Recommended: Parents' words and Anxiety Disorders.
The mother-child relationship is thought to be of particular importance in the intergenerational anxiety. Like behavioral inhibition, that has been extensively invested for its importance in the development of anxiety disorders, the attachment style between a mother and child has been examined. Attachment is the emotional bond which forms between two people (typically an infant and their mother). Infant attachment style develops based on mothers’ ability to respond to their infants’ needs in situations where their infant may feel vulnerable or threatened.
Additionally, mothers’ general ability to provide a secure base, whereby the infant feels secure in their own ability to be independent and that their mother will be available if needed, plays an important role in the development of attachment (Bowlby, 1973). Over the next several weeks I will divulge the importance of attachment and its possible link to the development of anxiety in children.
BIBLIOGRAFIA:
Bowlby, J. (1973). Attachment and loss: Volume II. Separation. New York: Basic Books.
Scienze Cognitive: L’illusione di Sapere. Bias & Euristiche
La luce in fondo al tunnel della mente?
È solo il treno dell’irrazionalità che ti sta venendo addosso
“L’ILLUSIONE DI SAPERE” di Massimo Piattelli Palmarini. - Immagine: Original Book Cover
È opinione comune che decisioni importanti non debbano essere prese sull’onda dell’emotività, bensì ponderate ed effettuate razionalmente. Peccato che la nostra mente “razionale” ci giochi spesso brutti scherzi. Infatti senza accorgercene imbocchiamo quelli che Piattelli-Palmarini definisce tunnel della mente, cioè mettiamo in atto delle strategie mentali (euristiche) fallaci oppure commettiamo degli errori cognitivi (bias) con risultati a dir poco disastrosi!
L’ illusione di sapere è una sconcertante rassegna degli errori madornali che compiamo quando prendiamo delle decisioni. Questi tunnel sono universali, sistematici, indipendenti dallo stato emotivo del momento, del tutto inconsapevoli e influenzano le nostre scelte nei più svariati campi.Vediamone alcuni.
1 EURISTICA DELLA DISPONIBILITA’
Per sopravvivere dobbiamo essere in grado di fare previsioni rispetto a ciò che potrà accadere per programmare le nostre azioni. A quanto pare, però, siamo dei pessimi calcolatori di probabilità, indipendentemente dalle nostre conoscenze in fatto di matematica e statistica. Eccovi un esempio. È più probabile essere uccisi da uno squalo o da un pezzo di aeroplano che ci cade in testa? La maggior parte di noi non esita a rispondere: “dall’attacco di uno squalo!”. Invece è molto più probabile essere colpiti da un rottame vagante (Ruscio, 2002). Indubbiamente un turista azzannato mentre sguazza tra le onde fa più notizia e ci colpisce. Questa appena illustrata è conosciuta come l’euristica della disponibilità: giudichiamo un evento tanto più frequente quanto più ci è facile immaginarlo mentalmente (perché più disponibile), e quanto più ci impressiona emotivamente. Così facendo stimiamo la probabilità in maniera errata e prendiamo una bella cantonata. È superfluo sottolineare come questo fenomeno giochi un ruolo, per esempio, nella possibilità di influenzare l’opinione pubblica su argomenti per i quali si è particolarmente sensibili (es. la percezione di sicurezza nelle città).
Articolo consigliato: La strada per l’inferno è lastricata di dopamina. Recensione de “I sette peccati capitali del cervello”
2 ILLUSIONI PROBABILISTICHE
Come se non bastasse, siamo anche preda di quelle che vengono definite illusioni probabilistiche. Tra le tante, cito la più nota. Siete al casinò e state giocando alla roulette. È uscito il nero 20 volte di fila. Su cosa puntate? Pur sapendo che la probabilità è del 50%, la tendenza è quella di scommettere sul rosso. Questa illusione si chiama Illusione del giocatore d’azzardo: applichiamo la legge dei grandi numeri (valida per serie di lunghezza prossima all’infinito) a serie di piccoli numeri, con l’illusione che rosso e nero debbano equilibrarsi anche in questo caso. E alla fine il banco vince sempre…
3 THE FRAMING OF CHOICES
La situazione si fa invece più drammatica se si prendono in considerazione altri tunnel della mente: uno dei più inquietanti è “the framing of choices”, il cui nome è già di per sé emblematico: in inglese significa sia “l’incorniciamento delle scelte” che “la fregatura delle scelte”. Vediamo dove sta la fregatura. Immaginate di essere un medico e di dover decidere la terapia per aggredire un tumore. Se di un determinato intervento chirurgico vi viene detto che comporta una mortalità media del 7% entro i cinque anni successivi all’operazione, sarete più restii a raccomandarlo al vostro paziente che non se vi avessero detto che comporta una sopravvivenza media del 93%. Eppure le due versioni sono statisticamente equivalenti! Questo fenomeno è noto come effetto frame (McNeill et Al, 1982; Tversky & Kahneman, 1986): l’inquadramento in termini positivi o negativi di una stessa informazione determina nelle persone risposte differenti se non addirittura opposte; ne consegue che è possibile “pilotare” la scelta di chi ci sta di fronte presentando il problema in una data forma piuttosto che un’altra, il che è preoccupante.
Articolo consigliato: Ottimismo sì, ma in piccole dosi! (Optimism Bias e Neuroscienze)
Il libro di Piattelli Palmarini, scritto nel 1993, è dedicato a Kanheman e Tversky, due psicologi che 9 anni dopo vinsero il Premio Nobel per l’Economia proprio grazie ai loro studi di psicologia cognitiva applicata ai processi decisionali economici. Entrambi ebbero il merito di mostrare come l’uomo, nel prendere decisioni, fosse tutto fuorché razionale. L’ illusione di sapere ci accompagna proprio attraverso l’irrazionalità delle nostre scelte, alternando tunnel della mente decisamente allarmanti a bias curiosi (es. se da Napoli vi muovete verso Nord, da che parte si trova Trieste? Dopo aver risposto andate a controllare: rimarrete a bocca aperta. La nostra mente, infatti, raddrizza l’Italia). Una volta scoperte le nostre “pecche cognitive”, però, con un po’ di esercizio diventa possibile imparare ad essere più razionali, per poter finalmente esclamare: sono fuori dal tunnel!
Ruscio, J. (2002). Clear thinking with psychology: Separating sense from nonsense. Pacific Grove, CA: Wadsworth.
McNeil B.J., Pauker S.G., Sox H.C. & Tversky A. (1982) On the elicitation of preferences for alternative therapies. New England Journal of Medicine 306, 1259–1262.
Tversky, A., & Kahneman, D. (1986). Rational choice and the framing of decisions. Journal of Business, 59, S251-0S278.
L’esercizio fisico influenza memoria e cognizione: il ruolo della genetica
– Rassegna Stampa –
L’attività fisica ossigena la mente? David Bucci, professore presso il Department of Psychological and Brain Sciences Dartmouth College (Hanover, NH, USA), tirando le somme degli studi da lui condotti, sottolinea che gli effetti dell’esercizio fisico sulla memoria e sul cervello sono differenti in funzione di uno specifico gene che medierebbe il grado con cui l’esercizio fisico può avere effetti benefici in termini mnestici e cognitivi.
Partendo da osservazioni puramente qualitative – senza finora alcun riscontro empirico- secondo cui tra i bambini con diagnosi di ADHD quelli più sportivi risultavano più responsivi ai trattamenti comportamentali rispetto a bambini sedantari, i ricercatori guidati da Bucci hanno formulato un progetto di ricerca con lo scopo di identificare la potenziale connessione tra esercizio fisico e funzioni cognitive. I risultati di una serie di studi che hanno costituito il progetto sono pubblicati da poco su Neuroscience.
Approfondendo i risultati secondo cui nei topi di laboratorio l’esercizio fisico riduceva i comportamenti legati a ADHD, il gruppo di ricerca ha identificato il meccanismo traverso cui l’attività fisica sembrerebbe avere un effetto benefico su apprendimento e memoria, e cioè un fattore genetico chiamato “brain derived neurotrophic factor” (BDNF) implicato anche nello sviluppo neurale: il grado di espressione di questo fattore correla positivamente con un miglioramento mnestico nei topi sottoposti a movimento fisico.
Negli esseri umani , il gruppo di ricercatori ha confermato simili risultati: in funzione del genotipo individuale per il fattore BDNF i soggetti beneficiano in modo differenziale degli effetti positivi dell’esercizio fisico sulla memoria e sull’apprendimento in un task di riconoscimento di un nuovo oggetto. E questo può significare che un diverso genotipo per lo specifico fattore in questione potrebbe essere responsabile di una diversa responsività dei bambini con ADHD ai trattamenti basati anche sull’esercizio fisico.
Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea #1.
Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi:
Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea
Si dice che la psicoanalisi sia ormai vecchia. Il suo peso sociale è andato lentamente declinando negli ultimi decenni. L’istituzione che abbiamo amato tanto profondamente viene ora socialmente svalutata. Ogni bizzarra teoria pseudo-biologica della mente e della psicopatologia ottiene un’immediata ed acritica attenzione dei media mentre il lento ma fruttuoso lavoro della psicoanalisi è relegato nell’ombra.
Ognuno di noi (psicoanalisti) ha sentito almeno una volta il desiderio di proiettare sull’ostilità degli avversari la responsabilità di tale declino sociale, di accusare la sete di profitto delle multinazionali del farmaco, l’ideologia consumistica di una società materialista, la mancanza di scrupoli dei leader della psichiatria biologica, l’opportunismo degli accademici.
La critica dei vizi sociali ha impegnato gli intellettuali per secoli, anzi per millenni. Fin dalle reprimende di Solone ad Atene e di Catone a Roma, tale stile intellettuale si è dimostrato privo di qualsiasi impatto sulla concretezza del reale.
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.
Gesù Cristo ha detto: “Nulla di ciò ch’è fuori dall’uomo può renderlo impuro entrando in lui. E’ invece ciò che è nell’uomo che uscendo da lui lo rende impuro” (Marco 7.15). Una peculiarità del lavoro psicoanalitico è quella di ritenere che la consapevolezza di sé – in termini di bisogni, desideri, paure e struttura della propria identità – sia un potente strumento di cambiamento: possiamo capire la crisi della psicoanalisi solo puntando la nostra lente d’ingrandimento verso l’interno.
Proponiamo pertanto ai lettori di questo web journal una serie di brevi contributi sulla psicoanalisi – sia come istituzione sociale che come teoria della mente su cui tale istituzione si fonda – e cercheremo di chiarire le regioni della sua attuale debolezza.
In particole, presenteremo ed esamineremo 5 ferite che abbiamo potuto scoprire nel suo corpo sofferente. Speriamo che questa procedura forse un po’aggressiva, chirurgica, possa contribuire a salvare il corpo sofferente della nostra madre formativa ed intellettuale dal pericolo della dissoluzione finale, dell’irrilevanza sociale.
FURTHER READINGS
Nell’attesa dei prossimi capitoli l’autore vi suggerisce le seguenti letture sul tema:
The American Academy of Psychoanalysis is undergoing an identity crisis at this time, which is at least to a large extent a function of the whole current identity crisis in the field of psychoanalysis itself. In order to better understand this crisis, in this article I have first reviewed a similar situation which occurred in the history of classical Greece. Plato’s famous Academy underwent a progressive deterioration and disintegration and fragmentation, until it ended up merely the handmaiden of another discipline, Christian theology, for a thousand years. I then propose that the identity crisis in psychoanalysis today has to do with our failure of nerve in the teeth of the abusive behavior of insurance companies regarding the payment for psychoanalysis and the current cultural ambience demanding “fast-fast-fast” relief…LEGGI L’ABSTRACT
In this paper the author argues that the so-called crisis in psychoanalysis, often blamed on various external factors, is in fact an internal crisis brought about by intrinsic incongruities between the explicit intention of its educational model, which aspires to educate and train in a professional and scientific discipline, and its organisational structure, locally and internationally inextricable. Its isolated basic units of ecumenical control–its traditional ‘societies/institutes of psychoanalysis’–implicitly and explicitly co-impose the monastic transmission of a preponderantly doctrinaire education and clinical practice…LEGGI L’ABSTRACT
L’autore dell’articolo: Dr. Paolo Azzone
Relazioni Tossiche: un Rischio per la Salute come il Junk Food
“Mi fa del male, non mi dà quello che voglio, eppure non riesco a lasciarlo”, oppure “Ci ricasco sempre, mi cerco sempre relazioni in cui alla fine chi sta male sono io”, “I miei genitori mi hanno sempre lasciato da solo, però alla fine non era colpa loro, loro hanno sempre fatto tutto quello che potevano, in fondo erano sempre molto impegnati con il lavoro”.
Quante volte abbiamo sentito queste frasi pronunciate dai nostri pazienti, dai nostri amici e spesso anche dalle persone a noi care e quante volte noi stessi abbiamo sofferto a causa di relazioni andate male o in cui non ci sentivamo del tutto a nostro agio? Proviamo un attimo a fermarci qui e a pensare alla nostra esperienza. Come ci siamo sentiti in quella relazione che ci faceva così male ma dalla quale sembrava ancora più doloroso separarsi? Come stavamo quando da bambini avevamo paura e mamma e papà non c’erano? Come ci batteva il cuore in quelle situazioni e che cosa succedeva alla nostra testa?
Lettura consigliata: La Relazione di Coppia. Monografia a cura di Serena Mancioppi
Certamente la maggior parte di noi non costruisce costantemente relazioni patologiche, per cui queste situazioni, per quanto spiacevoli, vengono poi integrate come parte della propria vita e superate grazie alla costruzione di legami più solidi e funzionali. Proviamo però a pensare a chi, invece, continuamente vive circondato da relazioni tossiche. In una società dove la ricerca del cibo biologico alternativo, la cura del sé e l’attenzione meticolosa all’etichetta di ciò che compriamo al supermercato giocano un ruolo di primo piano per tutti coloro che tengono alla propria salute, molte persone non pensano che la qualità delle loro relazioni può essere tanto dannosa quanto i tanto proibiti fast food e l’ambiente inquinato.
Una ricerca longitudinale che ha seguito un campione di 10.000 uomini e donne per più di 12 anni, ha evidenziato che persone costantemente ingaggiate in relazioni negative presentavano un rischio maggiore di sviluppare problemi cardiaci rispetto a chi, invece, aveva stabilito relazioni nel complesso positive (De Vogli et al., 2007).
Durante tutta la durata dello studio, ai partecipanti è stato chiesto di completare alcuni questionari relativi agli aspetti negativi delle loro relazioni più importanti. Nell’analisi dei dati è stata poi utilizzata solo la relazione che i soggetti hanno messo al primo posto come la più intima. Le risposte sono così state suddivise in chi ha identificato la persona più vicina come il partner vs non-partner; successivamente, sono stati considerati vari aspetti della qualità della relazione descritta: confidenziale/supporto emotivo/supporto pratico. Accanto a questi dati sono state raccolte informazioni per misurare il rischio di malattia cardiaca: pressione arteriosa, diabete, obesità e livello di colesterolo, così come alcune variabili socio-economiche e di stile di vita dei partecipanti.
L’obiettivo dello studio è stato quello di valutare quanto una relazione intima negativa fosse correlata allo sviluppo di una patologia cardiaca. I risultati hanno confermato quanto ipotizzato dai ricercatori: le persone la cui relazione più intima veniva connotata negativamente presentavano fattori di rischio nettamente maggiori rispetto a chi, invece, aveva una relazione significativa positiva.
Sembra quindi che le relazioni, soprattutto se sono quelle più importanti per noi a essere valutate negativamente, possono essere altrettanto dannose per la nostra salute quanto il cibo o i fattori ambientali.
Certamente molti studi vanno ancora fatti in questa direzione, dato che le variabili in gioco sono molte le ipotesi difficili da dimostrare; non è infatti nuova, però, l’idea che un mondo interno caratterizzato da costante ansia, depressione o forte stress abbia delle conseguenze sul nostro organismo, fino allo sviluppo di vere e proprie patologie mediche.
La prossima settimana vedremo come riconoscere una relazione tossica e che cosa possiamo fare.