IL CAMBIAMENTO IN PSICOTERAPIA – Boston Change Process Study Group – RECENSIONE
IL CAMBIAMENTO IN PSICOTERAPIA – Boston Change Process Study Group – Raffaello Cortina Editore
Oggi vi presentiamo in anteprima Il libro Il cambiamento in psicoterapia, edito da Raffaello Cortina. Come si evince dal titolo stesso il tema fondante di questo libro è costituito dai processi di cambiamento che riguardano il contesto terapeutico e non solo.
Si fa riferimento soprattutto ad un insieme di idee e metodi innovativi elaborati dal “The Boston Change Process Study Group” (composto da eminenti clinici e ricercatori, tra cui Louis Sander, Daniel Stern e Karlen Lyons-Ruth).
Questo lavoro è stato svolto all’interno di ambienti psicoanalitici, in cui l’interpretazione è vista tradizionalmente come l’evento nodale che agisce all’interno della relazione transferale, ed è in grado di cambiarla, modificando l’ambiente intrapsichico.
In questo modello, invece, ci si focalizza su un processo reciproco nel quale, nella relazione implicita, il cambiamento avviene nei “momenti di incontro” attraverso modificazioni dei “modi di stare con”, ovvero il cambiamento è dato dalla relazione terapeutica stessa. Nella relazione si crea qualche cosa di nuovo che modifica l’ambiente intersoggettivo. L’esperienza passata viene ricontestualizzata nel presente, cosicché il soggetto arriva a operare con uno scenario mentale diverso, che produce nuovi comportamenti e nuove esperienze nel presente e nel futuro.
Secondo tale approccio l’incontro tra terapeuta e paziente è preceduto da un insieme di “momenti presenti” nei quali ci si muove soggettivamente l’uno verso l’altro. Quando un momento presente assume una forte valenza affettiva diviene rilevante nel processo terapeutico, ed è definito “momento ora”. Nel caso in cui venisse riconosciuto e accolto da entrambi i partner, durante la relazione terapeutica, porterebbe ad una reciproca sintonia, un vero momento di incontro e di intesa emotiva.
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I “momenti di incontro” costituiscono l’evento focale che agisce all’interno della “relazione implicita condivisa” e sono in grado di cambiarla, modificando la conoscenza implicita, sia intrapsichica sia interpersonale.
Il cambiamento di uno stato diadico è ricollegabile all’emergere dei “momento di incontro” tra i due soggetti in interazione. Gran parte dell’ambiente intersoggettivo deriva dalla conoscenza relazionale implicita, che si ricostruisce nel corso della terapia. Il processo di cambiamento avviene durante la riattualizzazione della relazione implicita condivisa durante i “momenti di incontro”, aprendo in questo modo nuove e feconde prospettive al cambiamento terapeutico.
Quindi, il cambiamento terapeutico avviene:
1) in piccoli momenti meno carichi emotivamente o molto pregnanti come i “momenti ora” e “momenti di incontro”;
2) si verifica nel flusso attuale delle mosse relazionali di ciascun partner a livello locale;
3) nella conoscenza relazionale implicita riproponendo modi più coerenti di stare insieme;
4) attraverso un processo di riconoscimento della specificità dell’adattamento delle iniziative dei due partner.
Articolo consigliato: Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa di Liotti G. Farina B. (2011).
In sintesi, quello che il Boston Change Process Study Group propone è di cambiare la cornice concettuale secondo cui il cambiamento terapeutico dipende dalla qualità degli interventi dell’analista. Lavorando da una prospettiva diadica, si rende nota la concezione della qualità all’interno di un modello relazionale che enfatizza le caratteristiche del processo tra due persone. Da questo punto di vista, la qualità della relazione è data dalla ricerca di direzionalità e adattamento, e dai tentativi di ampliare la gamma di esperienze emotivamente cariche che possono essere portate nella relazione terapeutica.
Nella misura in cui questi processi diadici vengono compresi, dovrebbe emergere nella relazione terapeutica un sentimento di fiducia e mutua vitalizzazione. Questi processi dinamici una volta attivati si muovono in direzione di una crescente integrazione, coerenza e scioltezza nella capacità del paziente di rendere il suo equilibrio all’interno di scambi significativi con gli altri.
Concludendo la presentazione de Il Cambiamento in Psicoterapia, il paradigma di cambiamento del Boston Change Process Study Group valorizza le singole sequenze del processo terapeutico come un percorso su cui si inscrivono momenti relazionali rilevanti che ne modificano il contesto intersoggettivo anche sul piano implicito.
Comportamenti Ecologici: Impatto e intenzioni a confronto
Comportamenti ecologici: è importante capire la differenza tra Impatto ecologico ed Intento ecologico, spesso confusa dalle nostre credenze psicologiche (BIAS).
Il termine“comportamento ecologico”è un’etichetta generica che rimanda a tutte quelle condotte che sono rilevanti per l’ambiente e/o significative in senso ambientale. Tuttavia, per la green psychology, significatività e rilevanza non sono sinonimi ma concetti distinti, anche se legati da una relazione reciproca, paragonabili alle facce della stessa medaglia.
Un comportamento, infatti, può essere “ambientalmente significativo”, per coloro che lo mettono in atto, senza essere rilevante nei suoi effetti (o esserlo in modo negativo). Viceversa, un comportamento può non essere “ambientalmente significativo”, per una persona, pur avendo rilevanza da un punto di vista ambientale.
Per esempio, negli Stati Uniti ed in Europa, molte persone preferiscono non acquistare bombolette spray per non danneggiare ulteriormente la barriera dell’ozono, anche se i gas nocivi, un tempo utilizzati nella loro produzione, sono stati ormai banditi dalla legge da anni e non sono più presenti nelle confezioni. E’ quindi evidente che l’intenzione è significativa per l’individuo ma il suo comportamento non ha un reale impatto ecologico.
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Inoltre, esistono situazioni in cui un comportamento, messo in atto per ragioni non strettamente “green”, finisce per essere particolarmente utile al benessere dell’ambiente. Per esempio, si pensi al caso di una persona che, al solo scopo di risparmiare, decida di utilizzare il mezzo pubblico anziché la propria automobile per recarsi al lavoro. Infine, occorre anche ricordare quelle situazioni in cui una persona agisce in maniera anti-ecologica senza esserne consapevole. Uno di questi comportamenti può essere mangiare molta carne senza conoscere gli effetti nefasti che l’allevamento intensivo produce sull’ambiente.
Per questo motivo, per evitare fallimenti e/o sprechi di risorse, prima di dare avvio a campagne per la salvaguardia dell’ambiente sarebbe utile indagare il grado di consapevolezza che gli individui possiedono riguardo alle loro azioni, nonché gli atteggiamenti e i valori che sono alla base.
Neuroscienze & Psicoanalisi: le basi Neurofisiologiche della Rimozione e dell’Inconscio
– FLASH NEWS –Alla ricerca delle basi neurofisiologiche dei concetti freudiani di rimozione e conflitto inconscio
Un esperimento che riguarda lapsicoanalisi freudiana, i conflitti inconsci e il loro legame con i sintomi ansiosi verrà presentato in questi giorni presso il 101st Annual Meeting of the American Psychoanalytic Association. (Link all’evento)
Il protagonista è Howard Shevrin, professore emerito di psicologia presso la University of Michigan Medical School’s Department of Psychiatry, che promette di fornire dati a supporto del legame tra il concetto psicoanalitico di conflitto inconscio e i sintomi esperiti consapevolmente dai pazienti ansiosi.
I dati dimostrerebbero che l’esposizione subliminale alle parole riguardanti i conflitti inconsci seguita da una esposizione sovraliminare a parole riguardanti i sintomi ansiosi porterebbe a specifici patterns di onde cerebrali alfa rispetto ad altre combinazioni di esposizioni sub e sovraliminari.
Data from the experiment showing that subliminal exposure to words related to a person's unconscious conflict, followed by supraliminal exposure to words related to their anxiety symptoms, led to different alpha wave patterns compared with other scenarios. Fonte: University of Michigan, Department of Psychology
Il campione della ricerca è esiguo: 11 individui con diagnosi di disturbo d’ansia che sono stati sottoposti a una serie di sedute diagnostiche ad orientamento psicoanalitico. Da queste sedute diagnostiche lo psicoanalista ha inferito quale conflitto inconscio avrebbe potuto causare il disturbo d’ansia del paziente.
Le parole della seduta legate alla natura di tale conflitto inconscio ipotizzato dall’analista sono state estratte dalla conversazione e utilizzate come stimoli di laboratorio. Similmente, sono state selezionate dai trascritti anche parole riguardanti l’esperienza di ciascun paziente dei propri sintomi ansiosi.
Questi stimoli verbali sono poi stati presentati ai pazienti: per prima cosa venivano mostrate loro in modo subliminale le parole riguardanti il conflitto inconscio; subito dopo venivano presentate a livello sovraliminare le parole descrittive i sintomi ansiosi.
Durante tali esposizioni è stata rilevata la risposta cerebrale elettrica a tali stimoli misurando la frequenza delle onde alfa – che entro specifici range di frequenza avrebbero una funzione inibitoria di diverse funzioni cognitive e considerate quindi dagli autori come indicatori del processo di rimozione. Inoltre i pazienti sono stati esposti sia a livello sovrliminare che subliminare a una serie di parole di controllo che non avevano alcuna relazione con il conflitto inconscio ipotizzato o con i sintomi ansiosi.
La press release della University of Michigan Health System riporta la presenza di specifiche combinazioni di frequenze di onde alpha- che per l’appunto sarebbero indicative del processo di rimozione per dirla in termini di difese psicoanalitiche- in relazione alla seguente presentazione combinata: a livello subliminare le parole riguardanti il conflitto inconscio e a livello sovraliminare gli stimoli riguardanti i sintomi ansiosi.
Solo in questa combinazione di stimoli si manifesterebbe secondo l’autore il processo di rimozione, non nel caso in cui le parole del conflitto inconscio sarebbero presentate a livello sovraliminare, né quando a seguito della presentazione subliminare delle parole del conflitto inconscio seguirebbero parole di controllo non riguardanti i sintomi ansiosi.
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Indubbiamente la presentazione dell’esperimento è intrigante, contorta ed elaborata, anche e soprattutto perché ad oggi non abbiamo disponibile ancora un articolo completo pubblicato su una rivista scientifica. A fronte degli sforzi di Shevrin di documentare a livello empirico le basi neurofisiologiche del concetto freudiano di conflitto inconscio e di rimozione assumendo un’ottica interdisciplinare, in attesa di una vera e propria pubblicazione i punti da chiarire rimangono molti tra cui la modalità di identificare il potenziale conflitto inconscio durante le sedute, la modalità di selezione dei trigger lessicali legati a conflitti inconsci e sintomi ansiosi, la specificità del tipo di indicatore neurofisiologico e l’assunzione di tale misura come indice di processo mentale di rimozione.
Christine Lagarde sorveglia e segnala come un guardalinee, la Merkel imperterrita sentenzia le sorti delle “squadre europee”. Il parallelismo tra gli Europei di calcio 2012 e le dinamiche dell’Europa economica si gioca anche sulla terminologia, sul maggior rigore economico predicato dall’arbitro Merkel(arbitro peraltro molto severo e dal cartellino rosso facile), sull’espulsione dal campo per “comportamento scorretto”. Ma in gioco c’e ben più di una coppa calcistica, e le altre squadre lo sanno bene.
Christine Lagarde sorveglia e segnala come un guardalinee, la Merkel imperterrita sentenzia le sorti delle "squadre europee". Il parallelismo tra gli Europei di calcio 2012 e le dinamiche dell'Europa economica si gioca anche sulla terminologia, sul maggior rigore economico predicato dall'arbitro Merkel (arbitro molto severo e dal cartellino rosso facile), sull'espulsione dal campo per "comportamento scorretto". Ma in gioco c'e ben più di una coppa calcistica, e le altre squadre lo sanno bene.
Il desiderio di essere accettati, che però implica l’imbarazzo, e forse l’umiliazione, di bussare alla porta del club nel quale ci si vuole iscrivere. Mi accetteranno? E quanto brucia il dubbio di non poter essere all’altezza?
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Plausibilmente i greci, o alcuni greci, ritengono che sia umiliante che la loro appartenenza all’Europa sia messa in dubbio per ragioni economiche. Non basta il contributo di civiltà? Omero, Eschilo, Socrate, Platone e Aristotele e il Partenone e tutto quel genere di cose? Oppure no.
Purtroppo la costruzione di uno Stato non è solo un fatto di appartenenza culturale. Si può avere molto o poco in comune e questo può essere un fattore influente o insignificante. E poi, cosa c’è di più labile di una comunanza culturale? La frattura tra Europa mediterranea e settentrionale può essere più profonda di quanto si possa sospettare. Basti leggere questo articolo dello storico americano Victor Davis Hanson per toccare con mano come forse il Reno sia più ampio del Mediterraneo e dell’Atlantico. Cosicché potrebbe esserci più affinità tra un tedesco e un americano che tra un tedesco e un europeo/mediterraneo. E così via, coinvolgendo nella diffidenza nordica non solo i greci, ma anche italiani, spagnoli, portoghesi e perfino i francesi.
Nella modernità succedono strane cose. Il senso di appartenenza si dissolve e al tempo stesso si acuisce.
Dietro un’apparente senso di comunanza universale può nascondersi un ancor più forte senso di esclusione. Il caso di Christine Lagarde è significativo. L’intronizzazione di questa francese al soglio del Fondo Monetario Internazionale avviene perché essa è erede dell’alta tradizione amministrativa della Francia o invece perché la Lagarde è una dei pochissimi non nativi di lingua inglese in grado di parlarlo davvero fluentemente? E davvero fluentemente non vuol dire parlare bene l’inglese. Significa molto di più. Significa parlarlo davvero bene come la tua lingua nativa. Ecco quindi che dietro l’internazionalismo finanziario si cela un etnicismo anglo-sassone efficientissimo proprio in quanto nascosto (Leggi l’articolo di Simon Kuper).
L’appartenere a un gruppo, a una cultura, a un popolo, o a tutte queste vecchie cose di pessimo gusto è uno di quei bisogni umani che sono disconosciuti dalla mentalità dei nostri tempi. Roy F. Baumeister è stato colui che ha dedicato i propri sforzi scientifici a studiare il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto, indipendente da altri bisogni e dotato di funzioni proprie. Certo, come tutti i bisogni può anche produrre danni quando ricercato in maniera pervasiva e distorta. Ma rimane un bisogno umano che va compreso e controllato, ma non può essere eliminato (Baumeister, Leary, 1995).
Negli altri si cercano anche le somiglianze, le conferme, le similitudini di gusto, di sensibilità, di storia personale, cercano perfino le stesse idiosincrasie e le stesse antipatie.
Le persone, scrivono Baumeister e Leary (1995) cercano nel contatto non solo la novità e lo stimolo, ma anche un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi.
Brewer (1991) ha riscontrato il benessere personale e il senso di stabilità del proprio sé dipendono non solo dalla personalità individuale, ma anche dalla possibilità di aderire a norme culturali condivise.
Senza questa possibilità, il disagio e l’angoscia fanno le loro apparizioni.
La terapia cognitiva-comportamentale (TCC) è, appunto, anche comportamentale. Talvolta alcuni terapeuti TCC sembrano trascurare la seconda parte del loro orientamento. Questo è parzialmente comprensibile: nella TCC l’intervento comportamentale è realmente subordinato a quello cognitivo. Infatti il cognitivismo clinico recupera il comportamentismo ma lo sottopone al paradigma dell’elaborazione mentale. Gli esercizi comportamentali, come l’esposizione, hanno valore come esposizione a nuove esperienze da cui imparare nuove informazioni e non come tentativi di instaurare nuovi riflessi comportamentali. Ogni esercizio comportamentale ha valore solo se discusso ed elaborato cognitivamente in seduta. Tuttavia subordinazione non deve diventare trascuratezza.
Gli esercizi comportamentali preferiti dal terapeuta TCC sono soprattutto di esposizione. Si tratta in fondo di ABCin cui il paziente si sottopone volontariamente alla situazione problematica, allo stimolo A. Alcuni tipi di fobie si prestano particolarmente bene a questo tipo di esercizi. Sono quelli in cui l’esposizione alla situazione A è facilmente riproducibile, come in casi di panico o fobia legati all’uso di mezzi di trasporto. Anche alcune fobie sociali sono facilmente riproducibili: il timore di mangiare in pubblico, ad esempio. Tuttavia non è sempre così. Quanto più la situazione sociale è sofisticata, tanto più diventa difficile ricrearla in un esercizio artificiale. Parlare in pubblico è una situazione che non può essere creata artificialmente. Occorre esplorare con il paziente quali saranno le prossime occasioni in cui sarà possibile prescrivere di esporsi. Ancora più difficile è affrontare timori di situazioni intime e confidenziali: timore di confidarsi con amici, timore di corteggiare una persona. Situazioni che vanno prescritte con delicatezza, tenendo conto che un eccesso di prescrizione potrebbe rendere l’esercizio troppo artificiale e perciò inefficace.
Un secondo tipo di esposizione è l’astensione da comportamenti di controllo. In questo caso quindi non ci espone alle situazioni temute, ma si evita di mettere in atto i rituali ossessivi di controllo. Il terzo tipo di intervento comportamentale più usato dai terapeuti TCC è il rilassamento muscolare, che tratteremo a parte.
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La letteratura scientifica ci fornisce alcuni suggerimenti che dovrebbero rendere l’esposizione comportamentale più efficace. Si raccomanda un’esposizione intensa e quotidiana per almeno 30 minuti, e di valutare lo stato emotivo prima e dopo ogni esercizio con un scala da 0 a 100.
Fantasticare sulle conseguenze è una tecnica tra il comportamentale e l’immaginativo. Consiste nell’indurre il paziente ad immaginare le conseguenze di una certa situazione problematica, ed esporre le fantasie e le immagini riguardanti quella situazione. Laddove il paziente esprima delle fantasie realistiche il terapista ha la possibilità di indurre il paziente a ideare migliori strategie di padroneggiamento del pericolo temuto. Laddove invece il paziente produca delle fantasie irrealistiche, il terapeuta potrà utilizzare le tecniche di analisi delle evidenze e delle prove di fatto.
L’autoistruzione è una tecnica altamente direttiva, e richiede una elevata capacità retorica e persuasiva nel terapeuta. Si tratta di far notare al paziente che, solitamente, ciascuno di noi parla con se stesso, e che queste autoistruzioni hanno una influenza sul comportamento. Ognuno di noi ha quindi la naturale dote di dare a se stesso ordini, direttive, istruzioni, o altre informazioni necessarie a risolvere i vari problemi che si presentano. A questo punto si tratta di convincere il nostro paziente a darsi autoistruzioni alternative ai suoi pensieri disfunzionali automatici. Non sarà facile convincerlo della efficacia di questa operazione, che a prima vista potrà essere valutata come bislacca. Si può far provare al paziente direttamente in seduta l’efficacia di autoistruzioni positive, fargliele scrivere su carta, concordare momenti o orari prestabiliti, dei cerimoniali o dei riti che precedano l’autoistruzione. Soprattutto si tratta di far capire al soggetto che, come i pensieri automatici si sono cristallizzati fino ad apparire inamovibili, lo stesso si può fare con le autoistruzioni positive.
Lo stop del pensiero è, come le autoistruzioni, un impiego terapeutico della coscienza volontaria, delle cosiddette funzioni esecutive e deliberative della mente. Difficile da attuare, anche perché senza adeguata distrazione il soggetto tende a ricadere nei suoi pensieri automatici. Anche qui si possono introdurre dei rituali che accompagnino l’atto dello stop del pensiero. Ma soprattutto, occorre istruire il soggetto a riconoscere l’insorgenza dei pensieri disfunzionali. Una volta suonato il campanello di allarme, si deve stimolare nel paziente la consapevolezza che non è condannato a pensare quei pensieri negativi, che non ne è schiavo, e può fare altro. Infatti i pensieri disadattivi e disfunzionalihanno spesso un effetto a cascata per il soggetto. Un pensiero o una riflessione su un dato evento può partire come un qualcosa di inizialmente insignificante ma è in grado, se “lasciato libero”, di acquistare peso e forza. Una volta creati, questi processi disfunzionali hanno un tale impatto sull’individuo che può risultare difficile bloccarli.
Per fare questo il terapeuta può addestrare il soggetto a raffigurarsi in mente la parola “stop”, o assicurarla a un comportamento, un atto, come il rilasciare un elastico teso intorno al braccio, oppure può scriverla su un foglio e indicarla ed utilizzarla all’occorrenza nella seduta, oppure può attribuire il significato di “stop” ad un gesto che all’occorrenza può fungere da segnale per il paziente e un ausilio per lo stesso paziente a rafforzare il comando.
Naturalmente in terapia cognitiva non basta eseguire gli esercizi comportamentali con costanza e impegno. Ciò che è veramente importante è che in seduta essi siano sottoposti alla elaborazione cognitiva. L’obiettivo è che il paziente apprenda nuove informazioni durante l’esercizio, informazioni che facilitano l’intervento di decatastrofizzazione e sdrammatizzazione delle previsioni negative.
Storie di Terapie #9 – Agostino l’eremita. Un caso di Schizofrenia
STORIE DI TERAPIE
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
I matti più gravi e più belli probabilmente non arrivano mai alla nostra osservazione e vivono la loro folle esistenza senza interferenze.
Una piccola schiera di insensati minori bussa alla porta dei Centri di Salute Mentale o degli studi privati, a seconda del censo e non della patologia. Intermedio tra i due gruppi precedenti ce n’è un altro: sono i matti così matti da non sapere di esserlo per cui non fanno alcuna richiesta, ma così fastidiosi, o così insopportabilmente dolenti, che sono gli altri, familiari, conoscenti o semplici vicini a richiedere le cure.
I problemi che subito si presentano sono due: non hanno nessuna intenzione d’incontrarci, siamo noi a dover andare in trasferta nelle loro tane dove si rifugiano da un mondo pericoloso da evitare e non hanno alcuna intenzione di curarsi e di perdere tempo con noi.
Parlando di questi pazienti ho immediatamente adottato il plurale infatti, un terapeuta solo non può sopportare la responsabilità, le frustrazioni e la continuità che il trattamento di pazienti del genere richiedono.
Nella maggior parte dei casi tutto l’intervento avviene in emergenza per lo scatenarsi di una crisi. Allora si arriva con le sirene più o meno spiegate e l’animo rattrappito e si cerca di far ordine in un casino in cui tutti sono spaventati perché non capiscono cosa stia accadendo e si aspettano una magia. L’autorità di intervenire ci viene direttamente dalle forze dell’ordine, il problema è, in genere, più di ordine pubblico che sanitario e lo psichiatra, se non sta attento, viene risucchiato nell’antico ruolo di castigamatti. Come ci si muove, in quel delicato ed esaltante frangente, pregiudicherà tutto il successivo sviluppo della relazione terapeutica.
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Diverso è il caso diquando si è chiamati ad intervenire su una situazione grave ma assolutamente cronicizzata, in cui cronico non è solo il paziente ma anche le relazioni con il suo microcosmo, congelate e identiche per anni. La patologia non è vista dal paziente ma neppure dai familiari, anche le cose più mostruose col tempo diventano normali, ci si abitua.
Poi un giorno passa un estraneo, un occhio nuovo guarda e dice:
“ma è orribile! bisogna fare qualcosa, chiamate qualcuno!”
A noi ci chiamò il sindaco neoeletto di un piccolo paese, che aveva scoperto Agostino nel suo giro postelettorale alle famiglie che presumeva lo avessero votato.
In paese non si sapeva più nulla di Agostino da dieci anni, alcuni lo credevano morto, altri definitivamente ricoverato in qualche residuo manicomio in Italia o all’estero.
Bussammo alla porta di casa un martedì mattina piovoso di fine ottobre. Il primo risultato fu la precipitosa fuga di un gatto dalla buca gattaiola intagliata nel portoncino. Il tempo di raggiungere l’uscio e la madre ci aprì. Entrammo in una grande cucina con un caminetto spento, una scala laterale, una porta sul fondo e nessuna finestra.
Era una donna molto bassa e altrettanto larga, ci scrutò con sospetto da capo a piedi e, sentito che il mandante era il sindaco, decise che eravamo innocui e ci fece entrare. Aveva una età indefinita tra i quaranta e i settant’anni e alle spalle una vita che le aveva incurvato la schiena tanto da rendere impossibile guardarla negli occhi.
Lei era l’avamposto avanzato che difendeva il rifugio estremo di Agostino. Nel chiedergli del figlio, notammo un moto di sospettosità e un movimento quasi difensivo. Ci fece enorme tenerezza. Al contrario di tanti parenti che, stroncati dalla pesantezza di una assistenza impegnativa e difficile non chiedono altro che il congiunto sia ricoverato, la mamma di Agostino si preoccupava che glielo portassimo via e quasi si parò col corpo di fronte alla porta della camera del figlio. Le spiegammo che le leggi erano cambiate e che le cure e l’assistenza sarebbero stati esclusivamente domiciliari.
Iniziò a fidarsi e ci raccontò la storia di Agostino. Era il più piccolo di tre figli maschi che, insieme al padre, erano emigrati in Belgio a fare i minatori quando Agostino aveva solo sedici anni. A suo avviso, la fatica e la lontananza dalle cure materne li aveva stroncati. Erano tornati in Italia quando Agostino aveva diciannove anni e aveva iniziato a fare bizzarrie sul lavoro che ne avevano provocato il licenziamento. In Italia, i due più grandi avevano ripreso a coltivare la terra e si erano sposati, vivevano in condizioni misere ma nessuno gli parlava dietro. Il marito aveva iniziato a bere, a giocare, sciupando così i pochi risparmi accumulati in Belgio. Il suo alcolismo lo aveva reso aggressivo e la povera donna, per non farlo uscire ogni sera, lo chiudeva con una catena ed un lucchetto nella stanza dove attualmente si trovava Agostino. Il padre usci da quella stanza solamente dopo morto nel sonno.
Agostino era stato un ragazzino normale ma somaro a scuola, che aveva interrotto alla terza elementare. La madre ci raccontò con estrema naturalezza che aveva sofferto di enuresi, che era stata curata con il sistema diffusissimo del topo lesso. Assolutamente efficace e consistente, appunto, nel dare un tale alimento al bambino ogni mattina che si svegliava bagnato. Informatoci scoprimmo che si trattava di usanza assolutamente normale e giudicata da tutti insostituibile.
Alle stranezze in Belgio, che lei poco ricordava, era seguito un comportamento preoccupante anche al ritorno in Italia. Agostino metteva le mani addosso alle ragazze, si spogliava di fronte alla gente e gridava oscenità irripetibili, rubava e si allontanava dal paese, a piedi e senza meta, per giorni e giorni, fughe che si concludevano spesso con il ricovero presso qualche manicomio anche in parti lontane di Italia. Dal manicomio venivano chiamati i familiari e i fratelli se lo andavano a riprendere.
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Poi si ricominciava da capo: qualche molestia, qualche furto e poi la fuga e il ricovero. Da ogni ricovero, Agostino tornava peggiorato con i segni di percosse e apparentemente più istupidito, i familiari non volevano più ricoverarlo ma per i paesani rappresentava una minaccia e, più volte, chiesero alle autorità un ricovero definitivo; a volte, in seguito a piccoli incidenti lo massacravano di botte fino a metterlo in pericolo di vita.
A questo punto, la madre e i fratelli decisero di proteggerlo nascondendolo nel rifugio che era stato del padre: la porta con la catena si aprì per Agostino vi scomparve dentro.
In quella tana stava recluso da otto anni senza mai uscire.
Agostino, tuttavia, non era entusiasta della soluzione adottata e iniziò ad essere ostile con la madre, protettrice e secondina. Si rifiutò di andare a mangiare nella adiacente cucina con lei e si infilò a letto senza più uscirne. Smise di parlare, si alzava soltanto per prendere il cibo che la madre gli passava attraverso un foro praticato nella porta della camera e per fare i bisogni in un vaso che transitava dallo stesso buco. La madre non lo vedeva in faccia e non ne udiva più la voce da ormai sei anni, anni che lui aveva trascorso sdraiato o accovacciato su un letto ricoperto di residui alimentari e detriti corporei.
Ritenemmo con Vanni, mio straordinario collega, di procedere con estrema pazienza e lentezza, per non spaventare Agostino che si era rifugiato lì da un mondo che lo spaventava.
Le prime tre visite trascorsero, nella adiacente cucina, a parlare con la madre e poi ad alta voce tra noi perché familiarizzasse con le nostre voci. Spiegammo le nostre intenzioni di offrirgli semplice compagnia, ma non eravamo affatto certi che ci sentisse o ci capisse.
All’inizio del secondo mese togliemmo la catena alla porta e l’aprimmo, senza tuttavia varcare la soglia. Sotto la coperta si vedeva la presenza di un corpo ma il volto era completamente coperto dal lenzuolo che doveva essere stato bianco e appariva marrone scuro. La volontà di non essere invasivi e l’odore che proveniva dalla stanza ci trattenne fuori .
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Il modo di comunicare con Agostino era , per così dire, trasversale: Vanni ed io parlavamo tra noi e, talvolta, con la madre, cercando di mandargli dei messaggi che veicolavano voglia di aiutarlo, curiosità per la sua situazione e la sua storia, disponibilità a fare ciò che lui voleva. Saputo dalla madre che da piccolo adorava dei tipici dolcetti da forno locali, iniziammo a portarglieli ogni volta e con la scusa di lasciarglieli a portata di mano, ci avvicinammo fino al comodino. Scoprimmo con piacere la settimana successiva che li aveva mangiati e aveva conservato la carta piegata accanto al cuscino. Aveva accettato il dono e ci parve un grande successo. Dopo altri due mesi di dolcetti settimanali ci fu chiaro che gradiva la nostra presenza e addirittura aspettava il nostro arrivo, unico evento che interrompeva il fluire sempre uguale del tempo.
Ci sembrò il momento di fare un passo avanti e di guardarci in faccia. scoprimmo lentamente il viso sotto il lenzuolo. La madre, da lontano, scoppiò a piangere rivedendo il figlio dopo sei anni. Barba e capelli non erano stati mai tagliati, l’igiene dentale non era quella raccomandata dai migliori dentisti, ma gli occhi di Agostino brillavano vispi, pur se attenti ad evitare lo sguardo altrui.
Un contatto fisico ci parve una violazione intollerabile e andammo avanti con la comunicazione trasversale ma in sua presenza, trattenendo gli infermieri zelanti che volevano lavarlo e verificare le condizioni del corpo, a letto da sei anni. Lui non ci rivolse mai né parola nè sguardo, ormai senza speranza ci limitavamo a fargli compagnia, dopo i saluti iniziali parlavamo tra noi delle nostre cose e prima di andarcene lo sollecitavamo con la solita stereotipata frase “e dai Ago… perché non ci accompagni al bar una volta?!”
Era una bellissima giornata di primavera inoltrata quando, sulla porta, ci raggiunse alle spalle una voce sconosciuta e un po’ fessa che disse senza esitazioni “No, grazie, un’altra volta”. Per poco non inciampammo l’uno sull’altro. Tornati indietro, lo trovammo impegnato in un severo rimprovero di se stesso, si diceva “te sei distratto” “maledizione alla tua distrazione” “ormai sei fregato”. Continuò a lungo con questo tono di rimprovero, che a noi piacque interpretare come il segno che Agostino si fosse dato il compito preciso di non parlare con nessuno, ma che le sue capacità cognitive fossero rimaste intatte. Era l’ottimismo che assiste e deve assistere i curanti e li porta a sopravvalutare i segni positivi, per continuare a curare.
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Comunque, da quella mattina di primavera, Agostino tornò a parlare, usando un linguaggio particolare che chiamammo “agostinese” e, poiché anche noi lo usavamo per parlare con lui, divenne una abitudine, simpatica all’interno del Centro di Salute Mentale, ma sgradita in famiglia.
Le regole fondamentali dell’agostinese erano che: il soggetto si esprimeva sempre in terza persona per cui io vado via diventa “se ne va via”, Agostino definiva se stesso come “il più piccolo”, qualsiasi interazione con il mondo era considerata “una critica”, il concetto che alla fine andava sempre riaffermato con forza era che “vali uguale”, la sintesi della filosofia agostiniana era condensabile in un discorsetto del tipo “tra una critica e un’altra critica t’hanno offeso, e ridai sa, t’hanno offeso un’altra volta, ma il più piccolo lo sa che vale uguale”.
E noi di rimando: “ma Agostino, il più piccolo, non si deve offendere, un consiglio non è una critica e lo sappiamo che vali uguale”
Con il passare dei mesi avevamo l’impressione di conoscere l’animo di Agostino e che lui conoscesse il nostro, tant’è che a volte interveniva nei nostri discorsi con suggerimenti colmi di frasi fatte.
Il nostro obiettivo non era che si iscrivesse all’università ma solo di migliorare la sua qualità di vita. Iniziò ad alzarsi dal letto e a sedersi al tavolo di cucina per consumare i pasti. A quel punto fu possibile, senza forzarlo, tagliargli le unghie di mani e piedi che gli impedivano, dopo sei anni di abbandono, di camminare e usare le posate. Ormai l’ora che trascorrevamo settimanalmente insieme passava cucinando salsicce sul focolare della cucina, sfogliando e commentando le riviste che gli portavamo con sporadici suoi interventi sulle critiche e sul valore personale.
Durante l’estate raggiungemmo il massimo della soddisfazione: uscimmo in piazza con Agostino vestito a festa, ci facemmo delle foto insieme e andammo a prendere un caffè al bar.
Il mese dopo la madre morì per un carcinoma al retto.
Rimasto solo, Agostino sembrava destinato ad un ricovero, ma i fratelli si accordarono per continuare a portargli tutti i giorni il pranzo e la cena.
Un giorno ci chiamarono perché Agostino era strano e si lamentava vistosamente. Giunti al suo capezzale ci rendemmo conto che trattavasi di un addome acuto. Con fermezza lo invitammo a venire con noi in macchina all’ospedale. Al Pronto Soccorso ci lasciò di nuovo di stucco. Va considerato che non ci aveva mai chiamato per nome e mai si era rivolto a sé in prima persona. Al medico che lo interrogava disse testualmente: “ Sono Agostino…”, declinò le sue complete generalità, “loro sono come parenti e mi hanno accompagnato in macchina di corsa perché sto tanto male”.
Il medico deve essersi lungamente chiesto perché, due apparentemente garbati operatori della ASL, sibilassero all’unisono sottovoce “Agostino, ma vaff…..!!”
L’infarto intestinale gli concesse altri tre giorni di vita. Al funerale eravamo in mezzo ai fratelli e pensai che il padreterno sapeva che, nonostante tutte le critiche, il più piccolo valeva uguale.
Padri Autorevoli vs Padri Autoritari: la Perseveranza nei figli.
– FLASH NEWS – Lo stile autorevole dei padri e la perseveranza dei figli adolescenti
Una nuova ricerca della Brigham Young University porta delle evidenze in favore della tesi secondo la quale i padri sarebbero in una posizione preferenziale per favorire la perseveranza rispetto a un obiettivo da raggiungere e l’impegno scolastico nei figli pre-adolescenti. I ricercatori sono giunti a tale risultato dopo aver seguito all’interno di uno studio longitudinale 325 famiglie – coinvolte nel Flourishing Families Project – con figli dagli 11 ai 14 anni per circa due anni e pubblicato pochi giorni fa su Journal of Early Adolescence.
Lo studio ha esaminato il ruolo della perseveranza come mediatore tra lo stile educativo autorevole dei genitori e i comportamenti prosociali, l’impegno scolastico e comportamenti delinquenziali nei figli adolescenti.
Dalle analisi dei dati emerge che specificamente lo stile educativo autorevole del padre (e non tanto della madre) correla positivamente con la perseveranza nel raggiungere un obiettivo, e che a sua volta tale perseveranza correla positivamente con il livello di impegno scolastico e negativamente con la presenza di comportamenti delinquenziali.
Sarebbe quindi lo stile autorevole- e non autoritario– del padre a favorire maggiori livelli di perseveranza che a loro volta impattano sul coinvolgimento scolastico e i comportamenti delinquenziali.
Gli autori sottolineano in modo sintetico tre caratteristiche chiave dello stile autorevole paterno:
Il figlio si sente emotivamente e affettivamente vicino al padre.
Vengono esplicitate le ragioni su cui si fondano le regole date.
Ai figli viene garantito un appropriato livello di autonomia.
Trascorsi un intero pomeriggio con John Bowlby, nel suo ufficio sobriamente arredato presso il Dipartimento della Famiglia e del Bambino del Centro Tavistock di Londra, in una giornata umida e fredda, poco prima della sua morte nel 1990. Il luogo aveva una vecchia scrivania in legno, due sedie, molti libri e una finestra che dava su un cortile.
L’intervista si concluse verso sera nel momento in cui la luce rossa intensa del sole al tramonto riempiva la stanza. Al ritorno pensai che alcuni grandi uomini mostrano un certo grado di modestia sentendosi sicuri di sé. Credo che questa sia l’ultima intervista concessa dal Dott. Bowlby. In essa, oltre al ruolo fondamentale della separazione precoce e della perdita nello sviluppo della personalità futura, egli sottolinea: l’importanza della ricerca come base per l’avanzamento della conoscenza e il valore dell’informazione prospettica piuttosto che retrospettiva per tutti gli approcci psicologici in Psichiatria infantile. Inoltre, Bowlby raccomanda l’estrema utilità di valutare il comportamento passato e presente, le somiglianze (importanza dello sviluppo psicologico) e le differenze (osservazione piuttosto che speculazione filosofica) tra la sua teoria dell’attaccamento, la psicoanalisi e la terapia cognitiva, e il suo “condividere la critica” dei vecchi colleghi psicoanalitici. Infine, fornisce indicazioni essenziali circa lo sviluppo dei bambini disadattati, la loro diagnosi, la valutazione clinica e il trattamento, la loro gestione in ospedale e come aiutarli ad affrontare la separazione dai loro genitori.
Dell’intera intervista, le due affermazioni da me preferite sono quelle riferite al paragone dello psicoterapeuta come un compagno che può aiutare il paziente a scendere in un passaggio buio a prendere una palla, e quella che i terapeuti cognitivi dovrebbero imparare l’importanza delle emozioni, mentre gli psicoanalisti quella dei pensieri, oltre che degli eventi di vita.
Londra, 11 Gennaio, 1990
Leonardo Tondo: Posso chiederle quando e come ha iniziato a occuparsi di attaccamento e perdita?
John Bowlby: Tutto è iniziato negli anni ‘30, tra il 1936 e il 1940. Lavoravo come psichiatra dell’infanzia a Londra mentre completavo il mio training in psicanalisi. Uno dei concetti a cui mi interessai molto presto fu l’importanza delle prime relazioni genitore-figlio e la misura in cui esperienze avverse, all’interno della famiglia, avrebbero potuto avere un effetto negativo sulla salute fisica e mentale del bambino. A quel tempo molti colleghi psicoanalisti erano poco inclini a dare importanza agli eventi di vita avversi come fattore importante per lo sviluppo del bambino. Freud nei suoi primi lavori, intorno al 1895, attribuì i problemi di isteria all’abuso sessuale nell’infanzia e solo più tardi stabilì che questi eventi non erano accaduti realmente ma invece erano immaginari. Egli credeva che la paziente stesse descrivendo eventi immaginari dell’infanzia. Quello fu il periodo in cui la parola fantasia iniziò ad essere usata in psicoanalisi. E negli anni ‘30, a Londra, c’era un forte atteggiamento per cui non si sarebbe dovuto mai credere alle storie dei pazienti inerenti abuso sessuale o ogni altra esperienza avversa causata dai genitori, e che non bisognava fidarsi della validità del resoconto del paziente. Invece, io pensavo che gli eventi avversi fossero di grande importanza e, da giovane psicoanalista e giovane psichiatra dell’infanzia, tentai di dimostrare che gli eventi di vita reale della prima infanzia giocavano un ruolo preminente nel determinare la salute mentale. Ed è così che cominciò lo studio al quale fin da allora mi sono poi dedicato. A quel tempo sarebbe stato molto difficile fare qualsiasi ricerca sistematica sul maltrattamento dei bambini da parte dei loro genitori. Innanzitutto l’opinione diffusa era molto contraria a questa ipotesi e, in secondo luogo, senza registrazioni o videoregistrazioni non avevamo nessun mezzo per registrare in modo valido atteggiamenti, dichiarazioni o comportamenti avversi da parte dei genitori verso i figli; cosicché l’idea era irrealizzabile. Questa circostanza mi portò a concentrarmi sulla separazione e perdita, perché le separazioni e le perdite potevano essere registrate con validità – che si siano manifestate oppure no. Il motivo, quindi, perché io mi focalizzai su separazione e perdita fu, in parte, perché essa poteva essere oggetto di ricerca. Inoltre avevo osservato, alla Child Guidance Clinic, un numero di casi dove la personalità del bambino, diventato poi delinquente e ingestibile, mi sembrava essere stata precocemente preceduta da relazioni molto distruttive tra il bambino e la madre. Una volta considerati degli eventi antecedenti precoci si sarebbe potuta dimostrare una loro presenza in modo statisticamente significativo per studiare se fosse probabile una connessione importante. Esistevano molte evidenze cliniche interne che suggerivano che le prime esperienze avverse avevano portato a risultati che comprendevano bambini con scarse relazioni emotive o con un disinteresse per esse, che non sembravano essere influenzati dalla lode o dalla punizione, o che andavano per la propria strada. Essi marinavano la scuola, scappavano via, facevano piccoli furti e così via. Sebbene essi sembrassero abbastanza sereni, erano bloccati emozionalmente. Tutto è iniziato così; non mi stavo occupando di depressione, ma stavo partendo da una condizione che io credo rappresenti, in realtà, le fasi precoci di una personalità psicopatica.
Leonardo Tondo: Il passaggio della sua ricerca dalla psicoanalisi alla teoria dell’attaccamento ha cambiato il suo atteggiamento nei confronti della psicoanalisi?
John Bowlby: Non proprio. Ci sono due ragioni perché io penso che la psicanalisi sia stata un importante passo avanti. La prima è questa: che non c’è nessun altro gruppo professionale che nel passato, e certamente non dagli anni ‘30 ai ‘50, abbia posto attenzione alle relazioni intime personali ed emozionali familiari: gelosia, rabbia, colpa, vergogna, amore, dolore e così via. La psicoanalisi vedeva tali relazioni emozionali precoci come un problema da studiare a pieno titolo e nessun altro gruppo lo faceva. Gli psichiatri e gli psicologi non lo facevano come, d’altronde, nessun altro. L’unico gruppo professionale che si può dire si interessava di quest’area erano, naturalmente, i professionisti della religione. Preti e pastori della religione da sempre si occupano di questi problemi, benché non scientificamente. Freud e i primi psicoanalisti fecero un tentativo di studiare questi problemi. Un altro aspetto che mi ha interessato era che la teoria riguardava una forma di sviluppo mentale di psichiatria e psicologia che vedeva i problemi attuali di una persona nei termini della sua storia, a differenza della maggiore enfasi posta sulla fantasia dalla maggior parte degli altri analisti, in contrasto con i pochi che pensavano che gli eventi di vita reale fossero di grande importanza. Diverse persone davano agli eventi di vita gradi diversi di importanza. Io ho dato loro un peso notevole. Non avrei potuto trovare nessun altro gruppo che avesse tanto in comune con me, quanto con la società psicoanalitica in quel tempo, infatti rimasi membro attivo della società e divenni segretario del training e vice presidente. Ho avuto un ruolo importante nella società psicoanalitica britannica tra il 1944 e il 1962.
Leonardo Tondo:Ha avuto occasione di incontrare Freud?
John Bowlby: No, venne nel nostro paese nel 1938. Era molto vecchio e stava poco bene e vide solo pochi vecchi amici. Io ero uno psicanalista molto giovane a quel tempo.
Leonardo Tondo:Il suo primo studio sulla separazione e perdita ha avuto ulteriori sviluppi a partire dallo stadio iniziale?
John Bowlby: Il primo passo fu mettere insieme un gruppo di casi in cui pensavo che questo tipo di problema fosse presente. Quindi ciò che feci alla London Child Guidance Clinic di Londra dove lavoravo, fu confrontare due gruppi di pazienti: 44 bambini che erano stati indirizzati alla clinica per furto e 44 che erano stati indirizzati per ragioni diverse dal furto. Quelli che erano stati indirizzati per furto mostrarono un’incidenza statisticamente più significativa di relazioni precoci interrotte rispetto agli altri partecipanti. Questo studio fu pubblicato nel 1944 (Bowlby, 1944). Si trattava di studio retrospettivo, e cominciai la fase successiva dopo la guerra, quando prestai servizio come psichiatra dell’esercito dal 1940 al 1945. (nota al testo: Freud, Sigmund (1856-1939) e la sua famiglia fuggirono dalla persecuzione nazista il 4 giugno 1938 e si trasferirono da Vienna a Londra dove vissero al Gardens Marensfield 20 (ora museo). Fumatore cronico di sigaro egli soffrì di cancro alla bocca dal 1923 e morì di overdose di morfina da assistenza medica il 23 settembre 1939.).
Leonardo Tondo:Qui in Inghilterra?
John Bowlby: Ero in Inghilterra sì, e sono stato in un gruppo di ricerca molto tempo. Ci interessavamo di selezionare persone adatte, secondo la commissione, a diventare ufficiali. Io fui assegnato a questo lavoro dal 1942 in poi dopo aver ottenuto un training di ricerca sotto le armi che fu molto utile. Questa fu un’esperienza per me molto importante perché lavoravo con due o tre psicologi clinici. Quando ripresi la psichiatria infantile, dopo la guerra, all’inizio del 1946, mi fu offerto un posto alla Tavistock Clinic come responsabile di un dipartimento per bambini e genitori. E così il mio primo compito, naturalmente, fu di riorganizzare i servizi clinici, poi il training e poi iniziare il progetto di ricerca. Il mio piano, dall’inizio, fu riavviare la ricerca nella direzione degli effetti avversi delle rotture precoci nelle relazioni familiari.
Leonardo Tondo:Che tipo di prove di relazioni precoci distruttive rilevava?
John Bowlby: Un bambino poteva rimanere in un ospedale per un lungo periodo – 12 mesi o 2 anni. A quel tempo mi interessavo di rotture che duravano non meno di sei mesi, verificatesi prima del quinto compleanno e la rottura poteva essere dovuta al ricovero in un ospedale o l’essere in un istituto. In alternativa poteva essere dovuta a una madre che affidava un bambino a un’altra donna con un ritorno, in seguito, alla madre naturale; oppure poteva essere un figlio illegittimo che prima era qui, poi lì e poi altrove. C’erano molte condizioni sociali che portavano a queste rotture, ma le rotture erano il reale criterio per il mio studio.
Leonardo Tondo:Lo sviluppo della sua teoria è stato considerato in qualche modo legato alla psicoanalisi?
John Bowlby: Questa è una storia importante. La psicoanalisi è uno sviluppo della psichiatria, quindi modelli di sviluppo relativi alla prima infanzia sono rilevanti per la psicoanalisi. Cosi, studiavo gli ‘atomi’ di sviluppo nei primi anni. Certo Freud non l’ha mai fatto. La sua teoria dello sviluppo era concepita interamente in maniera retrospettiva. In Inghilterra ci fu sempre interesse per l’analisi infantile, che era più vicina al problema dello sviluppo. Voglio dire, durante gli anni 30, questo interesse era rappresentato da Melanie Klein, che esercitò un’influenza sostanziale a Londra. Poi, Anna Freud arrivò nel 1938 con suo padre ed ebbe un’altra influenza, di genere piuttosto diverso. Un’altra persona che divenne influente e ragionevolmente famoso fu Donald Winnicott, un pediatra che aveva punti di vista non differenti dai miei. Egli attribuì importanza agli eventi di vita reali. Quindi io ero uno di quegli analisti focalizzati sugli sviluppi primari e sugli effetti degli eventi di vita, ma ero il solo a fare una ricerca sistematica. Gli altri si occupavano di lavoro clinico e di fare osservazioni naturali, non programmate e incidentali. Io tentavo di porre il lavoro su basi più scientifiche. (note al testo: Klein, Melanie (1882-1960). Psicologa dell’infanzia, nata in Austria si trasferì a Londra nel 1926, dove
morì nel 1960 – Freud, Anna (1895-1982). Psicoanalista dell’infanzia, nata in Austria, figlia di Sigmund, si trasferì con il padre e il resto della sua famiglia a Londra nel 1938 – Winnicott, Donald (1896-1971). Pediatra inglese apportò importanti contributi alle teorie psicoanalitiche, specialmente alla teoria delle relazioni oggettuali focalizzata sulla relazione col genitore influente).
Leonardo Tondo:Quanto era differente la sua ricerca da quella di Piaget?
John Bowlby: Beh, veda Jean Piaget era completamente interessato allo sviluppo della cognizione ed era disinteressato agli aspetti emotivi. D’altro canto, quella era la sua prospettiva ma non la mia. Ciò nonostante, in effetti, eravamo entrambi degli psicologi dello sviluppo.
Leonardo Tondo:Lei e Piaget avete avuto occasione di condividere i vostri risultati dal momento che entrambi stavate lavorando allo sviluppo infantile?
John Bowlby: Ci siamo incontrati un numero di volte tra il 1953 e il 1956. Per quattro anni questi incontri sono avvenuti con un gruppo, riunito a Ginevra dalla Organizzazione Mondiale della Salute, per discutere degli sviluppi psicobiologici dell’infanzia.
Leonardo Tondo:Chi erano i partecipanti?
John Bowlby: Includevano l’etologo Kornad Lorenz, l’antropologa Margaret Mead e Jean Piaget. Complessivamente eravamo circa una ventina. Altri di cui probabilmente conosce i nomi, erano Eric Erickson, che venne una volta o due, e Ludwig von Bertalanffy, l’importante teorico della teoria dei sistemi. Queste erano tutte persone di primaria importanza nei loro campi. Io ero un gradino sotto queste luminari. C’era un impegno a trovare principi comuni in questi approcci diversi. Ovviamente non ci siamo riusciti, ma le discussioni sono state molto proficue. Sono state anche pubblicate e hanno avuto abbastanza influenza (note al testo: Piaget, Jean (1896-1980). Psicologo svizzero dello sviluppo. Lavorò sullo sviluppo cognitivo del bambino – Lorenz, Kornad (1903-1989). Zoologo australiano e psicologo animalista, fondatore dell’etologia moderna. Studiò i processi di apprendimento associati all’imprinting – Mead, Margaret (1901-1978). Antropologa culturale statunitense che confrontò il passaggio dall’adolescenza all’età adulta tra società semplici e complesse – Erikson, Eric (1902-1994). Psicologo e psicoanalista tedesco che studiò lo sviluppo sociale e coniò l’espressione crisi di identità e descrisse gli otto stadi dello sviluppo psicologico – von Bertalanffy, Ludwing (1901-1972). Biologo austriaco che si occupò della teoria dei sistemi e propose un modello matematico di crescita dell’individuo.).
Leonardo Tondo:Qual era lo scopo del workshop?
John Bowlby: Lo scopo era di cercare di integrare il modo di guardare ai problemi dello sviluppo infantile, per trovare cosa ognuna delle differenti discipline avesse da offrire che avrebbe potuto portare a una scienza unificata. Questo era lo scopo.
Leonardo Tondo: Tornando alla sua ricerca, c’è stata qualche differenza tra l’inizio del suo lavoro e 10 o 20 anni più tardi?
John Bowlby: Non proprio, voglio dire, il mio interesse è stato porre la psicoanalisi su apposite basi scientifiche. Che è sempre stata la mia aspirazione. Io sentivo che essa studiava i giusti problemi ma era diventata molto poco scientifica nella sua metodologia. Il mio credo era che la psicoanalisi potesse fare progressi solo mediante lo sviluppo di una base scientifica migliore.
Leonardo Tondo: Molti psicoanalisti possono contestare sulla necessità della psicoanalisi di essere scientifica, perché essi trattano gli individui con risultati che non possono essere riproducibili.
John Bowlby: Non condivido questa parere, perché l’approccio scientifico va tenuto in considerazione. La scienza biologica certamente si occupa delle questioni generali che colpiscono una popolazione. Voglio dire, la fisiologia umana non si è interessata della fisiologia di una persona in particolare, si interessa del funzionamento di corpi umani, e, allo scopo di ottenere risultati validi, ha bisogno di una popolazione, di un campione, di una misura del battito cardiaco e così via, e per questo si usano strumenti statistici. La scienza non si occupa dei casi individuali ma delle generalità. La medicina è una scienza applicata. Certo, in una scienza applicata, noi ci occupiamo di operazioni particolari di processi fisiologici e patologici in un individuo, e questa è l’applicazione della scienza. Bene, la psicoanalisi è la stessa cosa. Quando si tratta un paziente non ci si comporta da scienziato, uno sfrutta il più possibile la conoscenza per il beneficio del paziente e sebbene, come con qualsiasi altra condizione, puoi trovare indizi molto utili per quello che ti serve, non si può arrivare ad una conclusione generale valida, a meno che non si confronti mediante altri metodi. Pertanto, non ho mai accettato la regola che la psicanalisi fosse differente da qualsiasi altra branca della medicina per quanto riguarda la sua rapporto con la scienza. La pratica clinica, l’arte della medicina, è un’abilità applicata. Essa richiede la presa in esame di tutte le circostanze di un paziente particolare, delle sue particolari condizioni, mentre la scienza si occupa di generalità, ritenute valide in maniera indiscriminata. In quanto ricercatori ci si occupa di un campione di pazienti che soffrono situazioni avverse e gli effetti di queste situazioni sui bambini. Nel lavoro clinico si è interessati a un approccio individuale, variabile e sintetico.
Leonardo Tondo: Le stesse persone che sostengono la teoria non scientifica della psicoanalisi, dicono che il cervello, che tratta le emozioni e lo sviluppo cognitivo, è molto diverso da altri organi del corpo.
John Bowlby: È una questione d’opinione, non penso di essere d’accordo.
Leonardo Tondo: Come si è trasferito il suo metodo dalla ricerca al trattamento?
John Bowlby: Penso che si è sostanzialmente d’accordo sul fatto che queste rotture nelle relazioni nei primi anni possono avere effetti molto nocivi; perciò devono essere evitate. Se possono essere evitate, dovrebbero esserlo a tutti i costi e molti passi pratici sono stati fatti in quella direzione. In secondo luogo se, per qualsiasi ragione, le prime rotture non sono impedite, noi possiamo capire le conseguenze su un bambino molto meglio e possiamo procedere in un ruolo terapeutico per aiutarlo e, forse, aiutare i genitori ad affrontare i problemi che sono sorti dalle separazioni nei primi anni di vita. Nel caso di un genitore che abbandona un figlio o muore, proviamo ad aiutare quelli che ora stanno accudendo il bambino nei suoi sforzi nell’affrontare il trauma della separazione o della morte. Queste sono pratiche di solito accettate in Gran Bretagna o in America e vengono generalmente utilizzate nel campo della psichiatria infantile.
Leonardo Tondo:Quindi c’è un primo passo che è la prevenzione. Se il trauma può essere evitato, dovrebbe essere evitato, ma se un trauma psicologico non è evitabile come la morte di uno o entrambi i genitori, consiglierebbe sempre un trattamento psicoterapeutico?
John Bowlby: Non necessariamente. Prendiamo un caso alquanto semplice, di un bambino che ha una malattia sufficientemente grave e deve rimanere in ospedale per due o tre settimane. Ciò di cui sto parlando vale particolarmente per i bambini più piccoli, ma anche per quelli più grandi. Per prima cosa, il bambino deve stare in ospedale, non si può evitare questo, ma sua madre può stare con lui in ospedale? Se fosse possibile allora molti problemi possono essere evitati e questo è il primo passo per evitare una separazione. Comunque, supponiamo, per esempio, che avendo altri figli non può stare in ospedale con questo bambino. Noi possiamo aiutare la madre in diversi modi. Parliamo, ad esempio, di un bambino di tre anni che ha avuto la febbre. Prima di tutto possiamo avvertirla che, quando va a prendere il suo bambino per portarlo a casa, il bambino può essere in una condizione di distacco emotivo in cui non riesce a riconoscerla o è oltremodo distaccato. Questo stato d’animo è molto stressante per una madre. Noi possiamo avvertirla che questa è il genere di reazioni che potrebbe accadere, così che lei non si sorprenda. Poi il bambino può cambiare e diventare intensamente attaccato a lei e molto apprensivo, per paura di soffrire un’altra separazione. Questa modalità di “attaccamento” è un fatto normale. La cosa da fare è rispondere ad esso in maniera affettuosa e rassicurante e non ignorarlo o scoraggiarlo. Se nel tempo la madre lo tratta in modo più tollerante egli gradualmente smetterà di farlo. Questo è molto importante perché, se la madre diviene severa e punisce il bambino quando si comporta in questo modo, allora il problema peggiorerà. Si tratta di una misura preventiva, se preferisce, una misura immediata che può aiutare in modo significativo. Io sono principalmente interessato a ciò che accade a un bambino quando egli è fuori dalla sua casa e senza i genitori. Ciò può essere molto più traumatico di quando le stesse cose accadono con i genitori presenti. Per cui la presenza dei genitori è la variabile importante. Soltanto quando la situazione degenera, la psicoterapia è richiesta, sebbene sia un intervento poco comune e difficile da fornire in questi casi.
Leonardo Tondo:Lei vuol dire che non può facilmente essere somministrata a tutti?
John Bowlby: Esattamente. Per cui deve essere dosata molto rigorosamente. Se, per esempio, un bambino ha avuto una serie di separazioni ed è diventato emozionalmente molto distante e distaccato, allora la psicoterapia è certamente auspicabile per aiutarlo ad aver di nuovo fiducia nelle persone.
Leonardo Tondo:In un paziente che ha avuto una relazione interrotta ed è ora un adolescente, che tipo di psicoterapia lei consiglierebbe? Un trattamento psicoanalitico o il suo tipo di psicoterapia?
John Bowlby: Ritengo che la terapia rivolta alla famiglia dovrebbe essere la prima scelta quando possibile. Posso dire che ho sviluppato la terapia familiare negli anni ‘70, e sono sempre stato molto favorevole a essa per molte ragioni. Sfortunatamente, non è sempre possibile; alcuni genitori possono essere morti o la famiglia può essere divisa. Ci sono molte ragioni del perché la terapia rivolta alla famiglia non può essere praticabile. Così se essa non è praticabile ci si deve proporre qualcosa di diverso. In questo caso io credo che la psicoterapia individuale che usa l’insight analitico sia l’alternativa. Quello che cercherei di fare con tali pazienti è aiutarli a esplorare le loro esperienze attuali. Esplorare, considerare, soffermarsi e riflettere sulle esperienze in corso e considerare come potrebbero essere legate a quelle del passato. A volte il paziente riesce a ricordare queste esperienze, altre volte no. Se riesce a ricordare, allora ci si deve preoccupare di aiutarlo a studiarle, prendere in considerazione tutti i dettagli e come si sentiva nel momento in cui si sono verificate così da capire il motivo per cui ora ha tanta paura di camici bianchi; perché quando era in ospedale, anni fa, i medici avevano camici bianchi e lui era terrorizzato di quello che stavano per fare. Così la sua fobia dei camici bianchi è naturalmente comprensibile. Non è stupida, irrilevante, o illogica, ma invece è collegata con una propria esperienza reale. Il bambino è allora in grado di considerare che forse la sua paura della gente in camice bianco potrebbe essere stata ragionevole una volta, ma forse ora comprende la situazione un po’ meglio e può non aver bisogno di sentire che i camici bianchi sono così minacciosi. In altre parole, usa un processo cognitivo per riflettere su questa associazione tra camici bianchi e il passato e tra camici bianchi e il presente e si rende conto che lui non è in trappola e non è un prigioniero. In poche parole, questo è quello che cerco di fare. Cerco di aiutare il paziente a scoprire perché il suo passato è così importante e, per quanto può, a liberarsene e guardare le cose in un modo nuovo. Certo, è un processo lento. Se non riesce a ricordare e si ha una sorta di amnesia, allora il compito è quello di aiutarlo a recuperare ciò che è passato. Aiutandolo a recuperare il passato, egli può fidarsi del terapeuta e diventare più coraggioso. Se una palla è caduta giù in un passaggio oscuro, un bambino forse ha paura di andare lì e prendere la palla, ma se io dico: “Guarda, verrò con te”, può essere contento. In psicoterapia, ci comportiamo come un amico verso un paziente che ha troppa paura di affrontare quello che gli è accaduto in passato. Così, noi lo accompagniamo nell’esplorazione per quanto possiamo e può essere utile in termini di psicoanalisi dire:
“Sai che potrebbe essere questo o forse quest’altro ciò che è successo”,
cioè, si possono dare i suggerimenti che possono o non possono innescare una sorta di memoria. Naturalmente, in termini di ricerca o di scienza questo sarebbe del tutto inammissibile, ma non stiamo facendo gli scienziati, stiamo cercando di aiutare qualcuno (note al testo: John Bowlby si riferisce probabilmente all’introduzione ufficiale della terapia familiare in Inghilterra. In verità la terapia familiare era iniziato 20-30 anni prima dal lavoro combinato di diversi terapeuti in Europa e Stati Uniti.
Leonardo Tondo:I bambini adottati sono spesso affetti da disturbi del comportamento?
John Bowlby: Dipende a quale età sono stati adottati. Per quanto ne sappiamo, il bambino non costruisce una relazione di attaccamento fino al sesto mese di vita. L’attaccamento è a un livello molto prototipico in precedenza, e tutta l’evidenza dice che se un bambino passa da una figura materna all’altra prima dei sei mesi di età non mostra una reazione rilevante. Solo tra i 6 e i 12 mesi mostra una maggiore reazione; da 12 mesi in poi, la reazione è molto più intensa. Anche in questo caso, ovviamente, siamo in grado di aiutare la madre adottiva nel gestire il disagio avvertendola di ciò che potrebbe accadere e consigliandole il modo migliore per gestirlo. Così, in molti casi, il passaggio è abbastanza semplice e di discreto successo. Tuttavia, più grande è il bambino al momento dell’adozione, tanto più è difficoltosa la sua reazione, soprattutto se ha avuto alcune esperienze di vita disturbanti prima dell’adozione. Quindi tutto dipende da quando, dove e come.
Leonardo Tondo: C’è qualche sindrome particolare in soggetti che sono stati adottati dopo il primo anno di vita? Una sindrome che può apparire durante l’adolescenza?
John Bowlby: Penso che sia una questione di fiducia. Prendiamo l’esempio di un adolescente che è stato adottato all’età di cinque anni, dopo aver avuto diverse relazioni insoddisfacenti prima dell’adozione. Se ha avuto rapporti in cui le cose sono andate male ed è stato respinto, egli si aspetta unicamente che i suoi nuovi genitori lo rifiutino. La madre adottiva deve passare attraverso un periodo in cui lui non si fida di lei, ma col passare del tempo lui confiderà in lei sempre più. Molto dipende da quanto è perspicace la madre adottiva e anche il padre, naturalmente. Entrambi dovrebbero essere consapevoli che un bambino che è stato adottato non avrà fiducia in loro così come avrebbe fatto un loro figlio naturale. Il bambino potrebbe interpretare la loro partenza per tre settimane come un rifiuto. Questo è qualcosa di cui essi dovrebbero essere consapevoli. Alcuni genitori adottivi sono straordinariamente comprensivi e percettivi, e si rendono conto di tutto ciò. Altri, naturalmente, possono essere aiutati a capire che queste cose possono accadere. Alcuni non possono essere aiutati semplicemente perché non lo vogliono. Così, la forza del legame, il grado di fiducia nel legame tra genitori e figli è sempre più fragile in questi casi. Di conseguenza, un bambino può temere di essere respinto o abbandonato quando, in realtà, non è quello che sta succedendo. Naturalmente, il problema è che la mancanza di fiducia genera ulteriore mancanza di fiducia che può portare a uno scivolamento verso delinquenza o assunzione di droga. Questo è vero per ogni bambino non solo per i bambini adottati.
Leonardo Tondo:Problemi comportamentali dopo un’interruzione di una relazione genitoriale durante l’infanzia possono durare fino all’età adulta?
John Bowlby: Oh, sì.
Leonardo Tondo:Oltre al comportamento psicopatico, quali altri disturbi potrebbero apparire in età adulta, a seguito di precoci relazioni disturbate in famiglia?
John Bowlby: Il comportamento psicopatico è il più comune e può condurre all’uso di droga e furto. Un’altra possibilità sono i legami interrotti con il sesso opposto.
Leonardo Tondo: I problemi comportamentali, mostrati dagli adolescenti al giorno d’oggi, possano derivare dai loro primi rapporti con i genitori, non essendo stati così intimi come quando la famiglia era un’unità più importante?
John Bowlby: Credo di sì, ma prima dobbiamo dimostrare che esiste una maggiore incidenza di tali associazioni, anche se non mi occupo dell’ambito epidemiologico. Penso che possiamo essere abbastanza fiduciosi, in ogni singolo caso o in un gruppo di casi, che i problemi di consumo di droga, o di comportamento psicopatico e disturbato, sono un effetto di malfunzionamento della famiglia che, di solito, inizia presto e continua. Una famiglia, che è abbastanza stabile e fornisce una buona potestà genitoriale nei primi anni, tende comunemente a continuare, anche se non sempre è così. Molti pericoli si possono verificare e può essere che un genitore muoia o abbandoni la famiglia. Voglio dire, ci sono prove abbondanti che questi pericoli, in forma di relazioni disturbate sono la causa di qualche tipo di problema. Credo che, statisticamente, questa conclusione sia abbastanza evidente.
Leonardo Tondo: Un’altra questione è se una coppia con figli decide di separarsi o stare insieme. Qual è la cosa migliore per i bambini: litigi continui o rimanere insieme per i bambini?
John Bowlby: Penso che sia molto difficile generalizzare. Si potrebbe dire che la mia deformazione sarebbe sempre quella di aiutare i genitori a cercare di continuare a vivere insieme. Se non possono o non vogliono, certamente io lo favorirei in ogni caso sulla base del fatto che la loro, forse, è una difficoltà temporanea che può essere superata. Dopo tutto, quando un matrimonio fallisce, la coppia potrebbe non funzionare bene in altri matrimoni. Se il matrimonio si scioglie, ci sarà molta sofferenza. Il coniuge che non vuole dividersi soffrirà così come i bambini. Se si vuole diminuirla si fa il possibile per scoraggiare la rottura e aiutare la coppia ad affrontare il problema. Questo è il ruolo dell’aiuto coniugale.
Leonardo Tondo:E per i bambini, pensa sia peggio vivere con genitori che non vanno d’accordo, ma rimangono ancora insieme?
John Bowlby: È quasi una domanda impossibile. Fino a che punto sono in disaccordo? È il genere di cosa su cui non si può generalizzare. Si deve semplicemente studiare il singolo caso e cercare di aiutare i genitori a trovare la soluzione migliore.
Leonardo Tondo:Durante l’infanzia, quale dovrebbe essere il ruolo del padre e della madre? È d’accordo con la visione piuttosto semplicistica che la madre può essere più importante del padre?
John Bowlby: Tale opinione, credo, sia ben dimostrata dalle informazioni che abbiamo. Perché dopo tutto, in ogni società, e non solo in quelle occidentali, studiate dagli antropologi, un bambino entra molto di più in contatto con la madre che con il padre, specialmente nei primi anni. Qualunque bambino vede più di tutti la madre nei primi cinque anni, ha molta più interazione sociale con lei che con il padre. Anche il tempo è un aspetto importante. Infatti, anche nel secondo quinquennio, la maggior parte dei bambini è ancora in contatto di più con la madre che con il padre in tutte le società. Non è così all’avvicinamento della pubertà, dove c’è una tendenza per i ragazzi ad essere più orientati verso il padre, in una sorta di apprendistato, si potrebbe dire, di una società maschile, e per le ragazze diventare sempre più orientate verso la madre, apprendiste di una società femminile. Questo è il modo in cui tutte le società operano. La mia preoccupazione è sempre per il rispetto della natura umana piuttosto che limitarmi alla cultura occidentale. Quando insegno ai miei studenti, dico:
“Guardate, la prima cosa da ricordare è che la società occidentale non è una regola umana”.
Ci comportiamo in un modo in cui le società umane non si sono mai comportate in passato. Se le si considerano negli ultimi centomila anni per quanto ne sappiamo e in tutto il mondo, quelle occidentali sono del tutto particolari. Le nostre attività forse vanno bene, forse no, ma non si pensi che siano normali. Esse non sono il modo normale in cui gli esseri umani dovrebbero comportarsi.
Leonardo Tondo: A che cosa si riferisce?
John Bowlby: Per fare un esempio molto semplice, mi riferisco al mettere i bambini nelle carrozzine o culle; bambini che dormono in stanza diversa da quella dei genitori è totalmente atipico per gli esseri umani. Voglio dire, se si parla con qualcuno che cresce in Asia, essi considerano l’idea che il bambino debba essere in una culla in un’altra stanza, come folle, assolutamente folle; non si sognerebbero mai di farlo. Ed è solo un esempio. Voglio dire, i figli lasciati fuori da casa per un paio d’ore in una carrozzina? Impensabile. Diamo per buone cose che non sono mai state tali.
Leonardo Tondo: Prima si è riferito all’idea di bambini che dormono nella stessa camera con i genitori. Freud si preoccupava che loro fossero esposti alla vita sessuale dei loro genitori.
John Bowlby: Penso sia una totale assurdità. In tutta l’Asia e in Africa, queste cose accadono, così come accadono nella nostra cultura.
Leonardo Tondo: È facile essere d’accordo con lei, ma la nostra società si basa su molti tabù che sono probabilmente del tutto ignorati nelle altre.
John Bowlby: Direi di no. Per esempio, se un genitore dice: “Mio figlio di 15 mesi viene costantemente nel mio letto di notte e questa è una brutta cosa”, io dico: “Sciocchezze! La cosa più semplice è quella di portarlo nella vostra camera da letto durante la notte in modo che tutti possiate avere una notte tranquilla”. I genitori possono accettare questo consiglio.
Leonardo Tondo: Questo appare sicuramente più naturale.
John Bowlby: E più semplice, suppongo. O si segue la natura umana o la si combatte. Se la si combatte si hanno problemi. Se non la si combatte la vita è molto più confortevole.
Leonardo Tondo: La sua opinione che i bambini possano dormire con i genitori è generalmente accettata? Per esempio in questo paese?
John Bowlby: Ci sono così tante convenzioni in un paese, così come tante culture. Sono sicuro che ci sono alcune culture in questo paese dove ci si aspetta che i bambini rimangano nella stanza con i genitori durante la notte, e, naturalmente, per molte persone con una piccola casa non c’è nessuna scelta. Tante di queste idee di bambini risalgono al secolo scorso, ma non vanno molto indietro nel tempo. C’era un famoso pediatra tedesco, di cui mi sfugge il nome, che era completamente pazzo e che, tra il 1850 e il 1880, aveva stabilito alcune regole rigide su come i bambini dovessero essere trattati, con la motivazione che queste si basavano su conoscenze mediche dei bambini. Naturalmente, non vi era alcuna base per tali regole molto severe che includevano il dar da mangiare ai bambini alle sette di sera, la convinzione che la masturbazione fosse dannosa e molte altre cose. Queste idee erano molto diffuse a cavallo del secolo ma fortunatamente non influenzeranno più del trenta percento dell’opinione pubblica.
Leonardo Tondo: La sua ricerca può portare a una migliore comprensione della depressione negli adolescenti?
John Bowlby: La cosa migliore è far riferimento al lavoro di George Brown, un sociologo ed epidemiologo, e Tirril Harris che hanno lavorato sulle origini sociali della depressione. Hanno scritto un libro intitolato “Le origini sociali della depressione” (Brown e Harris, 1978) che ora è uno studio standard. Loro lavorano agli stessi problemi, come me, da 20 anni. Ho sempre assistito a esperienze traumatiche durante l’infanzia e come esse influenzino lo sviluppo. Non ho mai fatto studi longitudinali, perché sono molto costosi e hanno bisogno di grandi équipe, quindi non so come i bambini che ho studiato io o quelli studiati dai miei colleghi sono diventati nel corso degli anni. Brown e Harris hanno guardato le persone adulte, cadute o meno in depressione, e hanno cercato una certa misura di eventi antecedenti. Tra gli altri risultati, hanno dimostrato che i bambini che hanno perso la madre durante l’infanzia sono due o tre volte più inclini alla depressione rispetto ai bambini che non l’hanno subita. È qui che entra in gioco il mio interesse. Hanno studiato tutte le donne tra i 18 e i 65 anni in uno dei quartieri di Londra, prendendo un campione completo di popolazione di 450 persone o giù di lì. In primo luogo hanno studiato le donne in termini del loro stato attuale. Hanno trovato un’incidenza spaventosa di depressione, la maggior parte della quale non si era manifestata all’attenzione psichiatrica, perché ciò che entra in un reparto di psichiatria è la piccola punta di un iceberg. Quelle che erano depresse erano paragonabili a pazienti che si sarebbero potuti trovare in un reparto psichiatrico. Dopodiché hanno fatto uno studio molto accurato delle singole situazioni di vita attuale e di eventuali eventi di vita gravi nei 12 mesi precedenti. Hanno anche ottenuto alcune informazioni elementari sulle perdite d’infanzia, includendo morti di padri o madri e a quale età. Le partecipanti con infanzia generalmente insoddisfacente che, in particolare, comportavano la perdita della madre prima dell’età di 11 anni, avevano una maggiore probabilità di sviluppare una depressione, soprattutto dopo un evento tanto grave da sconvolgere chiunque, come un’altra perdita. Così il quadro generale era che alcuni eventi avversi durante l’infanzia creano vulnerabilità a successivi disagi. Questo modello di depressione basato su eventi dell’infanzia che creano vulnerabilità e su successivi eventi maggiormente avversi che innescano una depressione, è un modello che, io credo, sia molto ben fondato. Brown e Harris hanno lavorato molto su questo modello e allora si può vedere dove i miei interessi coincidono con i loro.
Leonardo Tondo: Sono stati ispirati dalla sua ricerca?
John Bowlby: Penso che la perdita di una madre o un padre durante l’infanzia come variabile sia stata per la prima volta avanzata in questo paese e, per quanto ne so in nessun’altra parte, da uno psichiatra infantile chiamato Felix Brown, non parente di George Brown. Nel 1960 pubblicò alcuni risultati epidemiologici piuttosto sorprendenti in cui gli adulti che erano depressi mostravano una maggiore incidenza di perdita durante l’infanzia (Brown, 1966). Tale constatazione portò a un lungo periodo di polemica, riguardante la dimostrabilità statistica. Quando Felix Brown iniziò quel lavoro, lo conoscevo abbastanza bene e fui d’accordo con le sue opinioni. Malgrado la prolungata controversia sul provare la teoria per un periodo piuttosto lungo, il lavoro di George Brown e il suo gruppo effettivamente ha dimostrato che è vero, che non c’è più alcun dubbio che la perdita è un antecedente, ma solo quando è accoppiata con un grave evento di vita attuale.
Leonardo Tondo: Il modello di separazione della depressione è stato osservato anche nelle scimmie. Cosa ne pensa di questi studi?
John Bowlby: Lavoro sulla separazione e sulla perdita da prima della seconda guerra mondiale. Un altro psicoanalista, Rene Spitz che lavorò in America dalla metà degli anni ‘30 entrò in questo campo in tempo di guerra e attirò l’attenzione sulla condizione dei bambini negli istituti. Il suo lavoro stimolò alcune attività di ricerca negli Stati Uniti. Uno psicologo che iniziò il lavoro sulle scimmie è stato Harry Harlow alla fine degli anni ‘50 nel Wisconsin che venne influenzato dal lavoro di Spitz e dal mio. Quando Harlow e io ci incontrammo nel 1958 ci rendemmo conto che entrambi stavamo studiando fenomeni comparabili. Robert Hinde è stato un altro psicologo che ha lavorato sulle scimmie in Gran Bretagna, in gran parte stimolato dal mio lavoro. L’aspetto principale del lavoro sulle scimmie è stato che, con disegni e metodi sperimentali rigorosi, si sono dimostrati gli effetti nocivi della separazione e le sue ovvie conseguenze (Hinde 1966). Si tratta di un grande patrimonio letterario con cui avevo abbastanza familiarità negli anni ‘60 perché era molto drammatico, ma non l’ho seguito perché non si può essere al passo con tutto. Comunque ho familiarità con il genere di cose che sono in corso, o che a mio avviso sono molto importanti (note al testo: Spitz, René Arpàd (1887-1974). Psicanalista ungherese studiò la relazione madre-figlio e sviluppò alcune teorie sull’ospedalizzazione. Dimostrò nel 1945 che i bambini lasciati in ospedale non toccati presentavano problemi di sviluppo – Harrolw, Harry (1905-1981). Psicologo americano. Studiò gli effetti dell’isolamento sociale nelle scimmie. Nel 1959 trovò che i cuccioli di scimmie rhesus spesso preferivano abbracciare una “mamma” di stoffa confortevole che bere una bottiglia da una mamma di filo di metallo. Nello stesso anno Bowlby pubblicò Cura del bambino e crescita dell’amore materno, dimostrando che quando bambini piccoli sono separati dalle loro madri per un lungo periodo di tempo, provano dolore e depressione.).
Leonardo Tondo:Se, sia la depressione e i comportamenti psicopatici sono associati con la separazione precoce e la perdita, non pensa che queste due sindromi possano avere molto in comune?
John Bowlby: Non vi è alcun dubbio. Individui psicopatici sono cronicamente infelici e, naturalmente, tendono a suicidarsi. Vi è un’alta incidenza di suicidio tra di loro.
Leonardo Tondo:Questo è vero anche per i tossicodipendenti che il più delle volte iniziano il comportamento di abuso di sostanze a seguito di qualche tipo di depressione.
John Bowlby: Quindi è una sorta di depressione cronica, una depressione sub-acuta che cova.
Leonardo Tondo:Per cui forse potremmo dire che il suo contributo allo studio della depressione sia emerso dallo studio del comportamento psicopatico.
John Bowlby: Penso di sì, eccetto che George Brown ha usato gli stessi concetti nel suo lavoro con i pazienti che sono depressi nel senso ordinario del termine.
Leonardo Tondo:Che tipo di rapporto c’è tra i suoi studi e la terapia cognitiva?
John Bowlby: I terapeuti cognitivi, a partire da Aaron Beck, si sono interessati alle percezioni di una persona adulta su se stessa, la propria vita e il mondo in cui vive. Questa preoccupazione, naturalmente, può rendere depressa una persona per un giudizio negativo su di sé, sul proprio futuro e sul mondo in generale. Qualcosa del genere è il modo caratteristico di pensare di una persona depressa. Aaron Beck non si è interessato allo sviluppo di queste preoccupazioni, su come e perché queste idee si sviluppano. Egli le considera inadeguate e cerca di correggere il modo di pensare del paziente. Un approccio alternativo allo stesso problema è quello di chiedere come e da dove il paziente ha ricavato queste idee, come egli le ha sviluppate. Ora, una volta che fai questa domanda stai esaminando lo sviluppo e l’infanzia. I genitori possono parlare e intervenire con i figli in diversi modi. Alcuni genitori lodano un bambino, lo incoraggiano, sono sempre dalla sua parte. Altri sono costantemente alla ricerca di colpa, dicendo: “Non sei nulla di buono, nessuno ti amerà mai, non farai mai strada nella vita”. Alcuni genitori fanno molto per un figlio, lo aiutano e lo incoraggiano ad andare avanti, altri non si interessano a lui o dicono: “Non essere di fastidio; non sopporto di essere disturbato da te”. Penso che tutti questi comportamenti non gratificanti possano avere un effetto molto negativo sul bambino e dargli l’impressione che: “Io non sono bravo, non farò mai niente nella vita, nessuno avrà mai affetto per me, non c’è nulla nella vita per cui vale la pena di vivere”. Dopo tutto, un bambino rischia di vivere con un genitore giorno dopo giorno, anno dopo anno dopo anno, ascoltando lo stesso messaggio. Non c’è da meravigliarsi che cresca credendo di non essere bravo. E l’evidenza è che, quando ognuno di noi ha sviluppato un’idea, tendiamo a conservarla stabilmente nella nostra mente. Sappiamo che la Terra è piatta o la Terra è rotonda. E non importa come sia in realtà. Una volta che l’idea è ben incisa non cambia. Va bene, si è sempre saputo che la Terra è rotonda, ma se alcune prove speciali si fanno avanti per dire che è piatta, in un primo momento si contesta: “Non può essere vero, sono sicuro che non è vero”. Poi, se si accetta con riluttanza che è possibile che la terra è piatta, è sempre una convinzione più fragile di quello che si è sempre detto e saputo. Quindi le persone che hanno avuto un’infanzia difficile e molto denigrata possono lavorare molto duramente e possono anche avere un grande successo. Essi cercano sempre di dimostrare che il loro genitore si sbagliava e per lungo tempo. Possono avere successo per diversi anni, vincere premi e continuare molto bene nella loro carriera, ma rimangono sempre vulnerabili a un fallimento. Proprio quando pensavano che stavano per ottenere un lavoro importante, diventano terribilmente delusi e tornano all’inizio, cioè: “Non valgo niente!”. Questo è un quadro comune, per cui questo è il modo in cui io lo vedrei. Articoli di Giovanni Liotti rivelano che egli pensa evolutivamente ed è interessato all’origine di tali idee esattamente come lo sono stato io. Lo conobbi a Roma nel 1982 circa. Era molto preso dalle prospettive di sviluppo che avevo presentato e lui le adottò. Per cui egli è uno dei pochi terapeuti cognitivi che prende in considerazione lo sviluppo. Ma una volta che un terapeuta cognitivo pensa evolutivamente e in termini di processi inconsci e coscienti, egli è in sintonia con uno psicoanalista come me. Lui ed io abbiamo molto in comune e lo trovo molto incoraggiante (note al testo: Beck, Aaron (nato nel 1921). Psichiatra e psicologo americano che ha ideato la Terapia Cognitiva, un tipo di psicoterapia che inizialmente è stata studiata e praticata per trattare la depressione – Liotti, Giovanni (nato nel 1946). Psichiatra e psicoterapeuta italiano che ha studiato i sistemi motivazionali nell’attaccamento come altri comportamenti umani (accudimento, competizione, cooperazione, sessualità)).
Leonardo Tondo:È possibile affermare che la terapia cognitiva può essere vista come la parte operativa delle teorie dello sviluppo?
John Bowlby: Credo che queste etichette diventino piuttosto fuorvianti perché la terapia cognitiva che rappresenta Liotti e la terapia psicoanalitica che rappresento io convergono. Come chiamarla, non so. Dobbiamo sempre tenere a mente che, mentre i pensieri sono importanti, lo è anche l’emozione e che i due processi sono paralleli. Credo, infatti, che questo sia il modo corretto di guardare all’emozione. L’emozione è comunicativa, anche se questo punto spesso viene trascurato. Se si è arrabbiati, ci si comporta in modi che sia chiaro ad altre persone che si è arrabbiati. L’emozione è una comunicazione non verbale di base, un atteggiamento mentale e un’azione potenziale molto forte, e quindi bisogna considerare sia la comunicazione verbale che non verbale. I terapeuti cognitivi probabilmente sono stati troppo interessati alla comunicazione verbale, mentre gli psicoanalisti probabilmente non lo sono stati abbastanza. I terapeuti cognitivi devono imparare che l’emozione è comunicativa e gli psicoanalisti devono imparare che i pensieri sono importanti.
Leonardo Tondo:È interessante che, dopo tutto, la terapia cognitiva discenda dalla psicanalisi.
John Bowlby: È vero.
Leonardo Tondo:Posso chiederle come ha avuto inizio il suo interesse per la psichiatria?
John Bowlby: È iniziato a Cambridge, dove sono stato uno studente del triennio in medicina dal 1925 al 1928. Ho studiato le scienze mediche di base: zoologia, fisiologia, anatomia comparata, e così via, come mie discipline mediche precliniche. Mi sono interessato a quello che oggi si chiamerebbe psichiatria dello sviluppo, come alcune persone si sviluppano in un modo o nell’altro. Dopo aver lasciato Cambridge nel 1928, invece di completare gli studi per diventare medico ho trascorso un anno nelle scuole per i bambini disturbati. In una di queste, ho conosciuto quello che si potrebbe chiamare un punto di vista psicoanalitico dello sviluppo per quanto riguarda i bambini con problemi. Mi è stato poi consigliato di completare la mia formazione medica e diventare uno psichiatra infantile e iniziare una formazione come psicoanalista, che ho fatto negli anni ‘30. Ecco come è iniziato tutto.
Leonardo Tondo: Si ricorda qualche episodio particolare che è stato importante nella sua scelta?
John Bowlby: È difficile da dire, ma racconterò di un’importante esperienza che ho avuto in queste scuole per bambini disturbati. Era un posto molto piccolo con bambini di ogni età e diversi gradi di disturbo. Un bambino di otto anni mi seguiva tutto il giorno tutti i giorni, cosicché gli sono diventato familiare e si è sviluppato un attaccamento con lui. Un’esperienza opposta che si è verificata riguardava un ragazzo di 15 o 16 anni che era stato espulso da una nota scuola. Era molto chiuso sul piano emozionale anche se era molto socievole e non antisociale, ma era emotivamente introverso e aveva avuto una prima infanzia molto disturbata; era illegittimo e il parere della gente che gestiva la scuola era che un’esperienza nella sua prima infanzia aveva causato la sua condizione attuale. Questa è stata l’origine di ciò che seguo da allora.
Leonardo Tondo:Ha ricevuto delle critiche nei primi anni del suo lavoro da altri colleghi?
John Bowlby: I miei rapporti con il gruppo psicoanalitico di Londra sono stati sempre in termini personali molto buoni, ma essi consideravano errate le mie idee. Non sto dicendo su tutto, e le cose sono cambiate nel corso degli anni, ma ho ricevuto moltissime critiche quando ho iniziato a porre l’attenzione sull’importanza di eventi di vita reale e delle esperienze negative. La prima volta presentai un articolo su questo argomento prima della guerra nel 1939, continuai a presentare queste idee negli anni ‘40 e ‘50 e sviluppai una teoria dell’attaccamento alla fine degli anni ‘50. Questa fu duramente criticata quando la presentai alle società psicoanalitiche in America e altrove. Ci fu una strana tendenza a pensare che queste idee potessero essere importanti ma non avevano nulla a che fare con la psicoanalisi – un parere che io considero assurdo. Comunque ho ricevuto una buona quantità di critica.
Leonardo Tondo: Quando le sue idee sono state inizialmente accettate?
John Bowlby: Dipende dal gruppo. Assistenti sociali che si occupano di problemi di affidamento e sanno tutto di bambini senza genitori soddisfacenti, sono sempre stati entusiasti del mio lavoro. Psicologi moderni negli anni ‘50, che erano interessati alle teorie dell’apprendimento, odiavano le mie idee, e le consideravano sciocchezze. Gli operatori della psichiatria infantile, nel complesso, conoscevano i problemi e pensavano che avessi fatto la cosa giusta. Gli operatori del campo della psichiatria dell’adulto erano o totalmente disinteressati o consideravano il tutto come di nessuna importanza. È stata semplicemente una questione relativa a diverse discipline. Ogni volta che mi recavo da operatori sociali sapevo che sarebbero stati dei miei sostenitori, un gruppo di psicologi sarebbe stato critico o un gruppo di psichiatri avrebbe ignorato totalmente l’argomento e così via.
Leonardo Tondo: Possiamo dire che la sua teoria ha un aspetto anche ecologico?
John Bowlby: La storia è abbastanza semplice. Prima della guerra, avevo fatto uno studio retrospettivo pubblicato nel 1944 sui ladri minorenni. Dopo la guerra, decisi che quello che dovevamo studiare le conseguenze di un bambino che perde la sua figura genitoriale: le sue risposte nell’essere in un posto sconosciuto con gente sconosciuta, una situazione che un bambino piccolo trova estremamente spaventosa. Fu allora che i miei colleghi e io facemmo queste osservazioni, che il lavoro sulle scimmie confermò. La domanda successiva fu: se la rottura di un legame aveva effetti emotivi così potenti, qual è la natura del legame che viene interrotto? Tale questione fu in cima ai miei pensieri nel 1951 e in quel tempo, un conoscente psicologo diresse la mia attenzione al lavoro di Lorenz sull’imprinting. Egli disse: “Conosci il lavoro di Konrad Lorenz sull’imprinting? Credo che potrebbe interessarti”. Fu un’osservazione casuale che fece al termine di una riunione del comitato. Trovai una traduzione in inglese di alcuni lavori di Lorenz e li considerai molto emozionanti. Li trovai molto interessanti perché mi ero sempre interessato di scienza naturale. Poi ebbi l’opportunità di parlare con Julian Huxley che era stato uno dei primi ecologisti e un biologo noto in Gran Bretagna. Disse che era tutto molto interessante e importante dal punto di vista medico. Mi mise sulla strada giusta per i libri di Lorenz, nonché per lo studio dell’istinto di Nikolaas (“Niko”) Tinbergen. Passai tutto l’inverno del 1952-1953 a studiare etologia ed è così che è iniziato tutto. Quanto più la studiavo, tanto più ero impressionato dall’elevata qualità scientifica del loro lavoro e dalla misura in cui essi studiavano in altre specie problemi simili ai nostri in campo clinico. Così diventai un grande appassionato dell’approccio etologico, che portò alla mia teoria dell’attaccamento che riguarda un solo aspetto delle relazioni bambino-genitore e cioè che un bambino conserva i legami con un genitore se questo lo rassicura. Nei soggetti più grandi, le domande possono essere: “Perché si diventa esigenti? Perché si diventa dipendenti?” e così via. Fu interessante osservare che un comportamento molto simile si verifica in un gran numero di specie diverse. In secondo luogo, ci si può porre le domande: “Perché si manifesta? Qual è la sua funzione? Perché dovrebbe esistere?”. In passato questo ciclo di dipendenza era considerato solo come un fastidio, è semplicemente un qualcosa che accade, dovuto al fatto che una madre nutre il bambino che così si abitua. Il cibo è la cosa più importante e crea dipendenza. Non è una buona cosa e prima si diventa indipendenti, meglio è. Ora, io vedevo il tutto in modo completamente diverso. Non ho mai pensato che il cibo fosse così importante e nel 1958 dimostrai che non lo era. Poi, secondariamente, il punto che ho sempre sostenuto sull’attaccamento è che è una buona polizza assicurativa. Promuove la sicurezza, è emotivamente protettivo e ha una funzione importante nella natura umana. È da studiare come parte della natura umana e nel suo sviluppo maturo, e io attribuisco grande importanza a esso. Invece di considerarlo come un aspetto sconveniente di cui sbarazzarsi, qualcosa da evitare, esso è una semplice parte della natura umana e qualcosa da studiare (note al testo: Huxley, Julian Sorrel , Sir (1887-1972). Biologo evolutivo inglese. Studiò come i tratti culturali possono rimanere in una società e persistere attraverso le generazioni – Timbergen, Nikolaas (1907-1988). Etologo e biologo olandese che vinse il Premio Nobel in Fisiologia (con Konrad Lorenz e Karl von Frisch) nel 1973 per i suoi studi sui modelli sociali di comportamento.).
Leonardo Tondo: Nella sua tecnica psicoterapeutica c’è qualcosa di speciale quando ha a che fare con un bambino o con un adolescente?
John Bowlby: Non penso che ci sia nulla di speciale. Penso di aver sempre preso sul serio i bambini, perché considero gli adulti semplicemente come bambini cresciuti e i bambini mi hanno sempre interessato. Credo che sia necessario trattarli il più possibile come dei pari e prestare attenzione a ciò che sentono, a quello che dicono, e prenderli sul serio, questo è tutto. Io non mi considero un terapeuta geniale. Faccio terapia, ma non è mai stata la maggiore delle mie specialità. Ho imparato molto praticandola e ho trattato persone di ogni età, compresi i bambini, adolescenti e adulti.
Leonardo Tondo: Tende verso l’approccio psicoanalitico, essendo non direttivo, o nella sua terapia lei è più supportivo e direttivo?
John Bowlby: Sono piuttosto non direttivo, anche se probabilmente sono diventato un po’ più direttivo col passare del tempo. Una questione importante nel mio lavoro terapeutico è che io sono un compagno di un paziente indifeso e ho intenzione di restare con lui per quanto posso e risolvere il suo problema.
Leonardo Tondo: Questo comporterebbe un profondo rapporto emotivo tra lei e il paziente?
John Bowlby: Sì, se arrivano a fidarsi di me. In realtà, ciò che succede è questo: un paziente per definizione, ai miei occhi, è qualcuno che ha avuto una relazione di attaccamento infelice e difficile durante l’infanzia e ha disabilità nelle sue relazioni di attaccamento nella vita adulta. Così, quando viene a trovarmi, io lo vedo come qualcuno che ha una difficoltà nello stabilire legami di attaccamenti di fiducia. Ora, se le cose vanno bene, egli crea un legame di attaccamento con me. La parola transfert è talvolta usata in questo contesto. Egli crea una relazione di attaccamento con me e io divento importante per lui ed egli sente che ho un certo valore nella sua vita. I disturbi nello schema di attaccamento che ha sviluppato da bambino inizieranno a manifestarsi anche nel suo attaccamento verso di me, perché quel modello è stata la sua difficoltà tutta la vita. Ciò sembra molto comune, tranne per la terminologia che uso. Quindi, se un paziente diventa molto arrabbiato con me se mi assento, considero ciò abbastanza naturale, qualcosa che le persone sentono. Se pensa che io abbia intenzione di abbandonarlo ed egli ha un’idea sbagliata di ciò, allora mi chiedo: “Bene, da dove ha ricavato quell’idea o come ha fatto a sviluppare il sospetto che io ho intenzione di abbandonarlo?” Così, ad ogni modo, io uso molti concetti psicoanalitici, ma a modo mio.
Leonardo Tondo: I normali strumenti psicoanalitici come libere associazioni?
John Bowlby: Sì, ma la libera associazione è un’arma a doppio taglio. Un paziente può usare la libera associazione perdendo tempo a parlare di tutto ciò che non ha importanza, e poi si deve intervenire e dire: ”Guarda, stai sprecando tempo”, e parlare di qualcosa che conta. Ci sono occasioni in cui io sono deciso e direttivo, ma sono momenti rari. La mia preoccupazione principale è di aiutare il paziente a rivedere la propria vita, a guardare i suoi problemi a modo suo, ed esaminare come le sue esperienze, nell’arco dei primi anni della sua vita, hanno creato i problemi che sta affrontando ora.
L’esperienza di clinici, ma prima ancora di esseri umani, ci mostra che “la narrazione di storie e in particolare il racconto di aspetti ed episodi della propria vita, e’ parte essenziale dell’esistenza di ogni persona ed e’ un processo che presenta una connotazione squisitamente sociale. Lo studio delle modalità narrative e interattive implicate nel racconto di storie e nelle conversazioni autobiografiche può contribuire a far luce sulle modalità con cui gli individui organizzano le attività della propria mente e creano coerenza all’interno di essa” (Lenzi, Bercelli, 2010, p. 119).
Bruner (1964) sostiene che la formazione della mente affonda le proprie radici nell’atto di inventare narrativamente l’io: la narrazione genera e chiarisce le relazioni esplicative tra pensieri, emozioni e comportamenti. Poiché le narrative rispettano convenzioni stilistiche e regole di genere, gli elementi fondanti di un’esperienza raccontata sono rappresentati sia dalle caratteristiche di genere e stile che la esprimono – la modalità con cui viene strutturata la narrazione, gli interlocutori cui e’ rivolta, le reazioni di questi ultimi – sia dai contenuti specifici dell’intreccio. Bruner afferma che i passaggi più importanti di un’esistenza non coincidono con accadimenti esterni al soggetto, bensì con le revisioni delle storie utilizzate per raccontare la propria esperienza.
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In un’ottica cognitivista la narrazione degli eventi di vita consente di tradurli in rappresentazioni coerenti con il pensiero, l’intenzionalità e la progettualità coscienti; una delle operazioni fondamentali con cui attiviamo questo processo e’ la ricostruzione della memoria, attraverso cui miglioriamo il nostro sistema predittivo, costruiamo una modalità identitaria e ben riconoscibile di adattamento all’ambiente, modifichiamo gli automatismi di risposta agli stati emotivi e generiamo una migliore capacità di orientare evolutivamente le nostre azioni.
Le neuroscienze suggeriscono che l’elaborazione di narrative sulla propria vita favorisce molteplici processi di integrazione conoscitiva, dalla capacità di riunire le differenti categorie percettive in un ordine e in una sequenza spazio-temporale (Edelman, 1992), all’integrazione sensomotoria del sé in un continuum non frammentato tra passato, presente e futuro identificabile con quella che Wheeler e collaboratori (1997) chiamano coscienza autonoetica, fino ai meccanismi che regolano le funzioni specializzate dei due emisferi cerebrali. Le narrative assumono la funzione di modificatori della memoria (Siegel, 1999) ristrutturando i diversi sistemi nei quali si articolano le facoltà mnestiche e concentrandosi in particolare sulle memorie episodiche, che dalla riformulazione di storie traggono una maggiore armonia semantica; in questa direzione si muovono anche gli approcci cognitivisti, che pongono al centro della propria analisi il peculiare significato che il soggetto attribuisce alla propria esperienza.
Assunto di base della terapia cognitiva e’ infatti che il pensiero influenza il comportamento e può essere modificato e monitorato (Dobson, 2009); lo stile di conoscenza del paziente viene indagato dal clinico allo scopo di individuare i margini entro i quali sia possibile generare un cambiamento, e la costruzione di narrative e’ uno strumento fondamentale per rendere visibile al paziente lo stile con cui egli elabora i propri schemi, le proprie opinioni sull’ambiente. Il cognitivismo clinico si e’ sviluppato spostando l’attenzione dall’oggetto dell’elaborazione conoscitiva al suo soggetto, conferendo centralità alla conoscenza emozionale (Liotti, 2001), alle organizzazioni di significato personali (Guidano, 1987; Reda, 1984), agli aspetti metacognitivi(Semerari, 2000; Dimaggio, Semerari, 2003), alla dimensione evolutiva della conoscenza individuale (Guidano, Liotti, 1983). Il metodo della terapia cognitiva si e’ anch’esso modificato, da un lato conservando l’eredità culturale di Beck ed Ellis che introdussero un approccio più focalizzato sull’esperienza del paziente – in opposizione ai tradizionali modelli psicoanalitici che l’avevano trascurata a vantaggio delle interpretazioni oggettivanti del terapeuta (Stanghellini, 2004) – e dall’altro estendendo il concetto di attività cognitiva ad altri elementi della conoscenza personale. L’organizzazione narrativa dell’esperienza rientra a pieno titolo fra queste acquisizioni.
La metodologia di intervento cognitivista si dedica alla ricerca e all’analisi di elementi specifici dell’attività cognitiva che vengono poi rielaborati; si tratta di una scomposizione dell’esperienza in componenti di base che sono in seguito ricollocati all’interno di uno schema più generale in grado di spiegare il funzionamento del paziente. La costruzione di narrative può avvalersi di tecniche codificate, ad esempio la moviola, oppure svolgersi mediante una ristrutturazione di significato alla quale il terapeuta collabora con interventi che propongono una ridefinizione dell’esperienza del paziente; l’elemento comune e’ però il continuo rimbalzare tra il senso dell’esperienza immediata e la narrazione cosciente di sé. Ogni evento della vita del soggetto rientra infatti in entrambe le modalità di conoscenza; vi e’ una prima reazione comportamentale, cognitiva ed emotiva nella quale vengono applicati schemi di conoscenza del mondo, convinzioni irrazionali, ricordi di esperienze precedenti in apparenza simili, e questo livello può essere affrontato in terapia accrescendo nel paziente le capacità di auto-osservazione, collaborando con lui nell’individuazione degli aspetti disfunzionali per poi strutturare in termini razionali una o più strategie alternative di adattamento all’ambiente; la costruzione di narrative aggiunge a questo passaggio una dimensione dal contenuto più globale, che si riferisce al rapporto fra il dialogo interno e l’immagine di sé (Lenzi, 2009).
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Il paziente viene condotto ad integrare lo stato emotivo dell’esperienza immediata, la spiegazione degli eventi che egli produce monitorando introspettivamente il proprio vissuto e il significato che questo assume per lui in termini di immagine personale, identità, tema di vita. Si attivano vissuti sensoriali, motori, cenestesici, viscerali, neurovegetativi (Lenzi, Bercelli, 2010) che contribuiscono a definire il valore narrativo di un evento, il significato profondo di un’esperienza all’interno della storia peculiare con cui l’individuo rende conto del proprio esistere, del proprio mondo e del tema di vita che lo caratterizza.
Estraendo un episodio dalla vita del paziente per ristrutturarne i contenutie ricollocarlo nel flusso narrativo globale, il lavoro clinico persegue l’integrazione di memoria semantica ed episodica; il paziente, contestualizzando un evento e cogliendo di esso alcuni aspetti che aveva trascurato a causa dell’attivazione di schemi automatici, ridefinisce la qualità emotiva di quell’episodio e l’impatto sull’immagine di sé. Il contesto relazionale e’ fondamentale nel determinare contenuti e modi del racconto (Wiedemann, 1986); le modalità narrative non solo influenzano la percezione che il soggetto ha di sé, ma anche le reazioni degli altri e da esse vengono a loro volta condizionate. Come dire, raccontiamo noi stessi anche attraverso l’effetto che abbiamo suscitato nell’altro e quell’effetto e’ dovuto in parte a come ci siamo raccontati.
Lenzi, S. (2009). La sostenibile densità dell’esperienza. L’approccio di Vittorio Guidano alla conoscenza di sé tra pratiche e modelli. Quaderni di Psicoterapia Cognitiva, vol. 14, n. 2.
La Meditazione migliora l’umore e la plasticità cerebrale
– FLASH NEWS –
Meditazione: In un recente articolo apparso online su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) gli scienziati Yi-Yuan Tang del Texas Tech e Michael Posner della University of Oregon hanno rilevato un miglioramento del tono dell’umore e livelli di neuroplasticità in individui che praticavano una particolare forma di meditazione –definita dagli autori “integrative body-mind training” (IBMT), una pratica meditativa derivata dalla medicina tradizionale cinese- per un mese per un minimo di undici ore totali.
Al di là di precedenti risultati che dimostravano cambiamenti nella connettività cerebrale a seguito della pratica meditativa, questo studio ha ulteriormente coinvolto 68 studenti universitari cinesi della Dalian University of Technology definendo in modo più specifico la natura di tali alterazioni.
A seguito della pratica, nel gruppo sperimentale sono stati rilevati un aumento della mielinizzazione e della densità assonale in particolare in relazione alla corteccia cingolata anteriore rispetto al gruppo di controllo sottoposto per pari tempo a un più generico training di rilassamento. Parimenti lo studio ha rilevato cambiamenti nel tono dell’umore attraverso questionari self-report a seguito del periodo di pratica meditativa.
Questo pattern dinamico di neuroplasticità della materia bianca localizzato in relazione alla corteccia cingolata anteriore – area importante nell’autoregolazione e i cui deficit di attivazione sono presenti in alcuni disturbi quali ADHD, depressione e schizofrenia– può considerarsi un contributo a livello neurobiologico per comprendere i meccanismi che sottendono gli effetti della peculiare pratica meditativa indagata. Resta comunque da verificare con cautela la generalizzabilità di tali esiti ad altre tipologie di tecniche di mindfulness, gli effetti a lungo termine anche di una pratica più intensa e duratura e una correlazione dei cambiamenti neuroplastici a outcome emotivo-cognitivo e comportamentali più specifici.
Malattia di Huntington: Abuso di sostanze e insorgenza precoce
Elisabetta Caletti, psicologa e volontaria AICH MILANO Onlus
L’abuso di sostanze è un fattore di rischio per l’insorgenza precoce della Malattia di Huntington?
Immagine: Property of National Institute of Neurological Disorders and Stroke
QUESTO ARTICOLO E’ UNA VERSIONE RIVISTA E AGGIORNATA DI QUELLO GIA’ PUBBLICATO SUL SITO DELL’AICS (ASSOCIAZIONE ITALIANA CORE DI HUNTINGTON SEZIONE DI MILANO)
Come ampiamente descritto in letteratura, la Malattia di Huntington (HD) è una malattia neurodegenerativa ereditaria, causata da una espansione del numero di triplette CAG ripetute nel gene che codifica per la proteina huntingtina. Il numero di triplette rappresenta da metà fino a tre quarti la varianza esistente nell’età di insorgenza: in generale maggiore è l’espansione minore è l’età di insorgenza. Tuttavia vi sono altri fattori che contribuiscono a determinarla; i fattori ambientali possono contribuire fino a un terzo della varianza nell’età di insorgenza e tuttavia non sono noti quali (Wexler et al., 2004).
Lo studio di Byars et al. (2012) ha appurato e tenuto conto della lunghezza dell’espansione CAG in 136 soggetti con Huntigton, per considerare la possibilità che il numero delle ripetizioni abbia un effetto mediatore sul comportamento di abuso di sostanze. È il primo lavoro che mostra un’associazione tra l’abuso di sostanze e l’età di insorgenza Huntigton verificando il numero di ripetizioni CAG.
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Fumo e abuso alcolico sono associati ad aumentato rischio di malattie neurodegenerative anche diverse da Huntigton; il fumo è legato ad un maggiore e precoce rischio d’insorgenza della Malattia di Alzheimer (AD), a un aumento del rischio di demenza in generale, e un maggior rischio e una più grave progressione della Sclerosi Multipla (Ascherio et al., 2007; Sabia et al., 2008). Secondo numerose ricerche l’alcolismo è associato a un esordio più precoce dell’AD e all’aumentato rischio di demenze non-AD (Harwood et al., 2007; Thomas & Rockwood, 2001). L’abuso di altre droghe, in particolare di amfetamine e cocaina, è associato ad alterazioni strutturali cerebrali e a deficit cognitivi, anche se la loro relazione con le malattie neurodegenerative è meno studiata (Robbins et al., 2008).
Byars e colleghi (2012) puntualizzano che è cruciale controllare la lunghezza nell’espansione CAG nel valutare la relazione tra abuso di sostanze ed età di insorgenza; questa non soltanto eserciterebbe una forte influenza sull’età di esordio ma le discrepanze nel numero di triplette CAG ripetute nei tossicodipendenti e nei non abusatori potrebbe tradursi in un effetto mediatore della lunghezza dell’espansione sul comportamento di abuso di sostanze. Per esempio, gli individui con numero molto elevato di triplette CAG ripetute potrebbero diventare sintomatici prima ancora di avere l’opportunità di utilizzare sostanze d’abuso. Al contrario, persone con una storia familiare di un’insorgenza precoce della malattia dovuta a più alte ripetizioni CAG potrebbero avere atteggiamenti fatalistici verso il futuro e pertanto non preoccuparsi delle conseguenze negative determinate dall’uso di sostanze come il cancro, la cirrosi, e l’HIV.
Le maggiori espansioni porterebbero a sintomi psichiatrici prodromici in un’età più giovane, risultando in un tentativo di auto-medicazione proprio con le sostanze d’abuso; la giovanile introduzione di sostanze incrementa poi il rischio di un successivo passaggio all’abuso.
La descrizione di un caso di gemelli monozigoti di sesso femminile che aveva lo stesso numero di ripetizioni CAG ha messo in luce una discrepanza di oltre 7 anni nell’età di esordio di Huntigton: la gemella con esordio più precoce fumava pesantemente, a differenza dell’altra sorella (Friedman et al., 2005).
Per quanto riguarda le differenze di genere, le donne progrediscono più velocemente degli uomini dall’uso iniziale alla dipendenza di sostanze, a indicare forse una maggiore vulnerabilità cerebrale (p. es. Hernandez-Avila et al., 2004). Le donne che abusano di alcol soffrono di più degli uomini di complicazioni epatiche e cardiache e mostrano maggiore suscettibilità all’atrofia cerebrale alcol-correlata rispetto ai maschi. Per il fumo vale lo stesso: le donne che fumano hanno più malattie fumo-correlate rispetto ai fumatori di sesso maschile.
Anche il corso della Malattia di Huntington può variare tra uomini e donne. Anche se il sesso non influisce sull’età di insorgenza di Huntigton, alcuni studi hanno trovato una più lenta progressione della malattia nelle donne (p.es. Pekmezovic et al., 2007) . I dati sugli animali indicano che gli estrogeni possono proteggere contro le modificazioni dell’Huntigton ai danni del cervello, e che roditori di sesso femminile possono mostrare un’insorgenza più tarda e una progressione più lenta.
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Gli autori hanno ipotizzato che gli individui con abuso di sostanze avevano un esordio più precoce della malattia e che questo effetto era maggiore nelle donne. Alla ricerca hanno partecipato 136 persone di cui si conosceva età di insorgenza, numero di triplette CAG ripetute sull’allele espanso Huntigton, e una storia di abuso di sostanze, reclutate tra 320 pazienti ambulatoriali afferenti al Centro di Eccellenza presso l’University of Iowa Huntington Disease Society of America (HDSA) tra il 1997 e il 2009. Solo i partecipanti per i quali erano conosciute età di insorgenza (definita in funzione della presenza dei sintomi Huntington motori, cognitivi, o psichiatrici), numero di triplette CAG e storia d’abuso di sostanze, sono state incluse nello studio, classificate in gruppi e successivamente confrontate tra loro con test statistici. La lunghezza di ripetizione CAG è stata usata come covarianza in tutte le analisi, in quanto rappresenta il determinante più significativo dell’età di insorgenza Huntington. Sono stati esaminati il rapporto tra abuso di sostanze, l’età di insorgenza Huntington e il sesso, in quanto le donne possono avvertire un maggiore danno alla salute dall’abuso di sostanze. L’abuso lifetime di alcool e l’abuso di lifetime di droghe sono stati associati a precoce esordio Huntington; un andamento simile è stato osservato per l’abuso corrente di tabacco. L’associazione tra abuso di sostanze e precoce esordio Huntington è stata evidenziata soprattutto nelle donne. Infatti per loro l’abuso lifetime di alcool è associato a più precoce esordio di Huntington, con un andamento analogo per l’abuso lifetime di droghe. Tuttavia, l’abuso di alcool, droghe e tabacco non erano significativamente associate con l’età di esordio negli uomini. Ciò è coerente con altri studi che indicano che l’abuso di sostanze è più pericoloso nelle donne.
Gli autori concludono che anche se lo studio non ha potuto valutare la causalità – ossia una vera e propria interazione tra gene, ambiente e sesso per abuso di sostanze ed età di insorgenza Huntington – ha comunque importanti implicazioni cliniche e teoriche. Se si dimostra che l’abuso di sostanze provoca un esordio più precoce della malattia, tutti i soggetti a rischio, qualora sia noto lo stato del gene, potrebbero trarre vantaggio dall’evitare abuso di sostanze: gli individui che si rivelano gene positivi possono ritardare l’insorgenza della malattia per diversi anni, e gli individui gene negativi che vivono una vita normale possono evitare le note conseguenze mediche determinate dagli abusi di queste sostanze. Se l’abuso di sostanze è realmente un fattore di rischio causale per un esordio più precoce di Huntington, un numero considerevole di persone potrebbe beneficiare di più anni di vita priva della malattia, addirittura fino a 8 anni come si è visto nelle donne, un effetto clinicamente rilevante.
Inoltre, se l’abuso di sostanze influenza veramente l’età di insorgenza di Huntington, scoprire i meccanismi attraverso cui questo si verifica potrebbe illuminare anche il processo di patogenesi della malattia. I percorsi plausibili attraverso cui gli effetti diretti delle sostanze tossiche di abuso potrebbero causare un esordio più precoce includono effetti sul fattore neutrofico derivato dal cervello e sul segnale del calcio poiché è dimostrato che questi fattori sono influenzati dall’abuso di sostanze, e che sono implicati nel processo neurodegenerativo di Huntington.
L’abuso di sostanze potrebbe causare un’anticipata insorgenza di Huntington a causa di un diretto effetto tossico sul cervello, o rappresentare una variabile proxy a causa di una ridotta coscienza o per cattive abitudini di salute generale condotte dall’individuo; la prematura comparsa dei sintomi prodromici Huntington potrebbe anche portare a un’auto-medicazione fatta con alcol, droghe o tabacco in età giovanile, quando c’è la tendenza ad avere una maggiore vulnerabilità allo sviluppo del comportamento di abuso. È altresì possibile che comuni fattori genetici influenzino sia la propensione all’abuso di sostanze che l’età di insorgenza Huntington. Studi futuri dovrebbero analizzare il rapporto esistente tra età di insorgenza Huntington ed età d’esordio e cessazione di abuso di sostanze e le quantità specificatamente utilizzate.
Nel presente lavoro si cercherà di rispondere a tutte queste domande raccogliendo dati interessanti da recenti revisioni della letteratura che trattano il tema della relazione tra DCA, impulsività, comorbilità clinica e rischio suicidario.
Sanna Passino e Perugi (2005) si interessano della correlazione tra DCA e spettro bipolare, riscontrando che alla base delle sindromi sono presenti molti fattori di sovrapposizione tra DCA e DB: alterazioni del peso, impulsività, alterazioni del quadro emotivo (labilità, ciclicità, atipicità), compresenza di stati mentali opposti (disforia-euforia, compulsività-impulsività, etc.), possibili cadute. La revisione della letteratura attuata dagli autori dimostra una comorbilità accentuata tra forme bipolari II attenuate, ciclotimia e DCA; nello specifico il quadro ipomaniacale sembra essere quello maggiormente presente nei DCA in cui si presentano abbuffate alimentari (Binge Eating Disorder –BED– e Bulimia Nervosa –BN-). Inoltre le sovrapposizioni tra Ipomania e Anoressia Nervosa (AN) sono significative: ridotta alimentazione, perdita di peso, ottimismo eccessivo, iperattività, vitalità eccessiva, rifiuto-negazione della malattia, etc. Le correlazioni tra BED e DB sono altrettanto rilevanti: depressione prevalente ed atipica, appetito e senso di sazietà, iperfagia, aumento del peso, bassa autostima, senso di colpa, etc.
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Una specifica disamina è stata compiuta sul peso dell’impulsività in queste patologie. Essa comporterebbe il rischio di condotte suicidarie, aggressività autoindotta, disturbi del controllo degli impulsi con varie manifestazioni cliniche. Nei DB l’impulsività è considerata un correlato dell’instabilità timica (dell’umore). Il rapporto tra impulsività e DB è studiato anche da Swann e colleghi (2001) che hanno compiuto uno studio sull’impulsività in pazienti con episodi bipolari non attivi al momento della valutazione, riscontrando che l’impulsività è un tratto stabile nei soggetti con diagnosi di DB.
Anche nei Disturbi del Comportamento Alimentare è marcata la presenza di impulsività e aggrava il quadro patologico: una marcata comorbilità è riscontrata tra DB e Obesità, patologia in cui si presentano comportamenti impulsivi di binge eating e abbuffate.
Disturbi del Comportamento Alimentare e Tossicodipendenza (TD)
Da una revisione di studi metanalitici di Pozzi e colleghi (2010) emerge una comorbilità tra DCA e Tossicodipendenza che si aggira tra il 17 e 46%. La base comune dei due disturbi sarebbe un deficit del controllo dell’impulsività e della capacità di gestione emotiva. Nello specifico l’Anoressia Nervosa (AN) con condotte di eliminazione e l’AN con abbuffate presentano quadri di discontrollo emotivo e marcata impulsività che correlano maggiormente con i disturbi da uso di sostanze. La co-presenza di queste due sindromi viene spiegata da modelli diversi: teoria dell’eziologia comune; teoria di una relazione causale tra i disturbi. L’aspetto importante di questa doppia diagnosi è, secondo gli autori, l’aumento del rischio suicidario quando si ha co-presenza dei due disturbi che hanno loro stessi un altissimo tasso di mortalità.
Siracusano e colleghi (2003) riscontrano fattori comuni tra BED e Dipendenza d’uso di sostanza proprio nella perdita di controllo e nel craving, due meccanismi che sono caratterizzati da risposte impulsive e discontrollo emotivo e comportamentale.
Disturbi del Comportamento Alimentare, tratti di personalità e Disturbi di Personalità
Da una ricerca di Tridente e colleghi (2005) è stata provata l’esistenza di specifici tratti nei soggetti con DCA. La Bulimia Nervosa (BN) purgativa presenta maggiore frequenza di tratti evitanti, borderline e paranoidi (83%); i Disturbi Alimentari Non altrimenti specificati (DANAS) di tipo Restrittivo hanno maggiore frequenza di tratti di evitamento (63%) e borderline (59%). Nei pazienti con AN Restrittiva i tratti maggiormente correlati sono quelli di evitamento (83%), ossessivo compulsivo (70%) e depressivo (65%), tratti non caratterizzati da discontrollo e impulsività bensì da controllo e perfezionismo. Nei disturbi DANAS di tipo BED emergono invece parimenti elevati (71%) di tratti borderline ed evitanti. In ultimo i DANAS di tipo bulimico hanno una maggiore correlazione con i tratti ossessivo-compulsivi. Questa ricerca conferma solo in parte una correlazione tra DCA e impulsività. L’impulsività fa parte solo di una specifica fascia del campione ed è prevalentemente collegata ad instabilità emotiva, relazionale e dell’immagine di sé. Dal punto di vista comportamentale l’impulsività e maggiormente presente nei soggetti con condotte bulimiche o BED. Siracusano e colleghi (2003) sostengono che non esiste uno specifico quadro di personalità alla base delle sindromi di DCA, ma che vi sono tratti tra loro molto diversi anche nello stesso soggetto che rendono difficile confermare una correlazione tra un specifico DCA e uno specifico DP.
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Il rapporto tra impulsività e DP è stato studiato da molti autori. Dowson e colleghi (2004) hanno studiato la presenza di impulsività nel disturbo borderline di personalità in linea a specifiche caratteristiche neurocognitive. Dallo studio emergono deficit in capacità correlate al lobo frontale dorsolaterale, come disorganizzazione e mancanza di perseveranza nello svolgimento di compiti; deficit nella presa di decisione, correlata alle aree orbitofrontali; e deficit nei compiti di coordinazione. Tutti questi comportamenti confermano il quadro dell’impulsività costituzionale del soggetto BPD.
Disturbi del Comportamento Alimentare e Tentato Suicidio (TS)
Nei pazienti con DCA la percentuale di morte a causa di suicidio è particolarmente elevata, nonostante si pensi comunemente che la causa primaria di morte siano le complicanze mediche associate alla malattia. Secondo Pompili e colleghi (2003) la presenza di tendenze suicidarie è una caratteristica specifica dei disturbi indipendentemente dalla presenza di una comorbilità in asse I con i Disturbi dell’Umore. Sembra inoltre che gli atti suicidari siano maggiormente presenti in soggetti con AN che con BN; inoltre lo stato depressivo incide di più sui soggetti con BN rispetto al rischio di agiti suicidari. Nell’AN le percentuali di suicidio oscillano tra 1,8%- 7,3%, e soprattutto la manifestazione suicidaria si presenterebbe in soggetti anoressici con stile purgativo o con pratiche di vomito auto-indotto, soggetti in cui l’impulsività è di certo maggiore che negli anoressici restrittivi. Altro dato rilevante riportato dagli autori è che i soggetti con AN tendono a manifestare comportamenti suicidari associati ad Abuso di Alcol. Vi sarebbero alcuni indici di maggiore rischio suicidario: la non efficacia di trattamenti precedentemente svolti, l’età tardiva dei soggetti, la cronicità della patologia, una maggiore frequenza di comportamenti ossessivi, abuso di alcol e/o droghe e BMI inferiore. Anche la presenza di una doppia diagnosi di Depressione o precedente Episodio Depressivo aumenta il rischio suicidario.
Nel quadro bulimico i soggetti a maggior rischio sono quelli con BN purgativa, in comorbilità con quadri depressivi e Disturbo Borderline di Personalità. In questi pazienti i comportamenti di tentato suicidio non sono però collegati a gravità della patologia o condotte di eliminazione. La presenza in anamnesi di un precedente tentato suicidio è invece un fattore di rischio per la ripetizione dell’atto. Nella BN è da considerare la tendenza all’autolesionismo che può determinare acting suicidari.
Conclusioni
Alla luce dei dati riportati in queste ricerche è di certo confermata una correlazione tra alcune manifestazioni di DCA e impulsività. Nello specifico: BED, Obesità, AN con condotte di eliminazione e BN sembrano essere i quadri più caratterizzati da impulsività. Questo tratto può anche spiegare alcune comorbilità tra DCA e sindromi di asse I: Bipolarità, Ipomania, Tossicodipendenza, Abuso di alcol; e di asse II: Disturbi della Personalità del cluster C (caratterizzato da condotte ansiose e/o inibite).
Sembra inoltre interessante cogliere il rapporto tra tutti questi dati clinici e il rischio suicidario, particolarmente elevato nell’AN, con condotte che presentano impulsività più che restrizione, e in BN con comorbilità con Disturbi dell’Umore e Borderline di personalità.
Pompili, M., Mancinelli, I., Girardi, P., et all. (2003). Suicidio e Tentato suicidio nell’Anoressia Nervosa e nella Bulimia Nervosa. Ann. Ist. Super. Sanità, 39 (2), pp. 275-281. (DOWNLOAD)
Pozzi, M., Luxardi, G.L., Sabbion, R. (2010). Disturbi del comportamento alimentare e disturbi da uso di sostanze: una revisione della recente letteratura. Dip. Pat., 2, pp.59-66. (DOWNLOAD)
Sanna Passino, C., Perugi, G. (2005). Rapporti tra spettro bipolare, disturbi della condotta alimentare e obesità. Giornale Italiano di Psicopatologia, 11, pp. 326-346. (DOWNLOAD)
Siracusano, A., Troisi, A., Marino, V., Tozzi, F. (2003). Comorbilità nei disturbi della condotta alimentare: revisione critica della letteratura. Noos, 1, pp.7-26. (DOWNLOAD)
Tridente A., Palmieri, S., Cecchi, G., et all. (2005). La diagnosi di personalità per una terapia integrata dei disturbi del comportamento alimentare. Giornale Italiano di Psicopatologia, 11, pp.170-178. (DOWNLOAD)
Sindrome di Asperger (AS) e Differenze di Genere
– FLASH NEWS –
I disturbi dello spettro autistico sono presenti in misura maggiore nel genere maschile rispetto al femminile. Alcuni scienziati tra cui Simon Baron-Cohen -uno dei più autorevoli studiosi di autismo -hanno deciso di indagare il ruolo delle differenze di genere nella funzionalità neurocognitiva in soggetti affetti da autismo. Utilizzando la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI) 15 maschi e 14 femmine con diagnosi di sindrome di Asperger (AS), insieme a un gruppo di controllo di 16 maschi e 16 femmine con un profilo di sviluppo non patologico – senza alcuna diagnosi di disturbo dello sviluppo- sono stati sottoposti alla rilevazione delle attivazioni cerebrali durante compiti di rotazione mentale e di fluenza verbale.
Dai risultati emerge che a partità di simili prestazioni nei due diversi compiti nei quattro gruppi coinvolti, nel compito di fluenza verbale gli individui – sia maschi che femmine- con sindrome di Asperger hanno mostrato maggiori attivazioni della corteccia occipitoparietale e prefrontale rispetto ai soggetti di controllo.
Durante il compito di rotazione mentale inoltre si è riscontrato un effetto di interazione diagnosi per genere: i maschi con diagnosi di sindrome di Asperger e le femmine del gruppo di controllo hanno mostrato una maggiore attivazione delle regioni occipitali, temporali, parietali e frontali mediane rispetto alle femmine con diagnosi di Asperger e ai maschi del gruppo di controllo.
Questi risultati suggeriscono quindi una complessa relazione tra autismo e differenze di genere nel dominio verbale e in quello visuospaziale.
Ansia da Studio e Problemi di rendimento all’università: superare i pregiudizi per un aiuto concreto agli studenti.
L’esperienza maturata supportando studenti universitari in crisi con le diverse fasi del ciclo di studi suggerisce che i problemi di rendimento non sempre sono causati dalla poca predisposizione o dall’assenza di voglia e motivazione, ma in molti casi si originano da veri e propri problemi psicologici, da affrontare in modo adeguato assieme ad un esperto.
Di sicuro ci sono casi in cui gli studenti semplicemente non hanno voglia o interesse: magari vogliono fare qualche anno di “dolce vita” a spese dei genitori oppure, al contrario, non hanno nessun desiderio di frequentare l’università e si sono iscritti solo per le pressioni ricevute dalla famiglia. Anche se nel senso comune queste spiegazioni sembrano spesso le più plausibili, molti studenti dallo scarso rendimento sono invece fortemente motivati. Sarebbero disposti a studiare duramente in cambio di voti anche modesti, ma fanno fatica a ottenere risultati e, progressivamente, iniziano ad evitare lo studio fino alla completa paralisi.
Articolo consigliato: Non imparo perché… sono pigro e incapace. O per dire qualcosa a mamma e papà?
Spesso questi studenti hanno reali problemi e andrebbero aiutati adeguatamente. Molto, troppo spesso, però questo non accade. La mia esperienza di psicologo scolastico e assistente universitario mi ha infatti permesso di osservare una curiosa caratteristica del nostro sistema scolastico: se uno studente delle scuole elementari o medie ha problemi di studio, molto spesso viene interpellato lo psicologo, dato che si sospetta la presenza di qualche problema psicologico alla base dello scarso rendimento. Al contrario, se uno studente universitario non riesce a rendere come dovrebbe, nella maggior parte dei casi viene subito “marchiato” come svogliato o troppo limitato per laurearsi. Questa è una visione miope che condanna molti studenti motivati al fallimento.
Quando qualcuno riesce ad andare oltre a questi giudizi semplicistici, la spiegazione più comune è che lo studente “studia male”, che non possiede un metodo adeguato ad affrontare i complessi studi universitari. Anche se questo a volte può essere vero, voglio mettere in guardia dai possibili problemi insiti nel ricercare soluzioni ai problemi di rendimento all’università solo nei famosi “decaloghi”, nelle liste di consigli che è possibile trovare in Internet.
Alcuni sono semplici articoli civetta, creati per catturare i lettori e indirizzarli verso i centri per il recupero scolastico. Altri sono seri tentativi di dare buoni consigli agli studenti. In ogni caso, il limite di questi lavori è sempre lo stesso: considerare i problemi metodologici la causa principale di tutti i problemi. In alcuni casi, in verità, è possibile trovare anche riferimenti a una generica ansia da studio e alcuni buoni consigli per superarla.
In effetti nelle crisi di rendimento universitario l’ansia c’è, praticamente sempre, ma in molti casi subentra in un secondo momento, come conseguenza di difficoltà originate da fattori molto diversi. Spesso i problemi che hanno causato le prime difficoltà sono infatti cosa molto diversa dalle complicazioni intervenute in seguito, creando situazioni complesse che gli studenti raramente riescono a razionalizzare e contrastare efficacemente.
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Il più delle volte i decaloghi contengono interessanti proposte di riflessione, come per esempio: chi soffre d’ansia da studio (o “da esame”) fa dipendere la sua autostima da un riconoscimento esteriore; ridimensionate l’importanza dell’esame; fatevi un programma di studio; studiate con altre persone… Per uno studente in cerca semplicemente di buoni consigli per migliorare l’efficienza forse queste liste possono essere fonte di ispirazione, ma immaginate che frustrazione possono provocare in uno studente che cerca di seguire da tempo queste buone pratiche senza ottenere risultati. Dopo aver provato e riprovato senza successo può arrivare ad una sola conclusione: “l’università non fa per me!”. La situazione non è molto diversa da un malato che prende continuamente aspirine, ma la febbre non cala mai: è logico che pensi di essere un malato cronico, quando il problema è invece l’infezione a monte e la cura sarebbe un antibiotico specifico. In questi casi, quindi, provare ad applicare le liste di buoni consigli può diventare decisamente controproducente.
Proviamo ora a fare un esempio pratico su un caso da me realmente trattato, per capire in che modo i problemi psicologici possono a volte compromettere il rendimento di studenti motivati:
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Un paziente si rivolge in consultazione e riferisce problemi di scarso rendimento all’università. Racconta di Iniziare a studiare gli esami con fiducia in momenti di particolare motivazione, ma dopo alcuni “periodi buoni” si stanca, non riesce più ad andare avanti. Tentativo dopo tentativo crescono i dubbi e le paure sull’avere le capacità necessarie a completare un percorso universitario. Iniziano a strutturarsi forme di evitamento, ansia in sede di esame (le poche volte che arriva a provarci) e molti altri fenomeni a base ansiosa.
La tentazione poteva essere quella di iniziare ad aiutarlo a vincere l’ansia da studio attraverso strategie comportamentali, le stesse contenute a volte nei vademecum di buoni consigli. L’analisi della storia di vita del paziente segnalava però che l’incostanza, l’oscillazione di voglia e motivazione, era presente da tempo e non riguardava solo lo studio. Inviato allo psichiatra di riferimento è stato rilevato un problema di instabilità dell’umore (a volte anche da un giorno con l’altro) oltre a periodi di lieve depressione. Il medico ha quindi prescritto farmaci adeguati, al fine di rendere il ragazzo meno soggetto alle oscillazioni e ai picchi negativi. A questo punto è risultato chiaro che azioni intraprendere a livello terapeutico: lo studente è stato reso consapevole del suo problema ed aiutato a gestire la residua variabilità di umore, comunque diminuita grazie dall’assunzione dei farmaci. Assieme a lui è stato ricostruito il percorso che, progressivamente, ha strutturato in lui l’ansia, al fine di eliminare la convinzione (ormai radicata) che i suoi problemi derivassero da insufficienti capacità. Solo in seguito, una volta chiariti questi aspetti, lo studente è stato aiutato con strategie comportamentali adeguate a superare i problemi causati dai suoi stati ansiosi nello studio e durante gli esami.
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Al fine di evitare riduzionismi opposti a quelli contenuti dei decaloghi, bisogna anche dire che a volte i problemi all’università sono davvero originati in primo luogo da dinamiche di tipo ansioso. Anche in questi casi però è molto pericoloso provare a risolverli con la sola forza di volontà, o cercando di applicare le liste di buoni consigli. Non tutti capiscono davvero che l’ansia, oltre una certa soglia, è una vera e propria psicopatologia e come tale va affrontata assieme ad un esperto. Anche se non raggiunge livelli patologici, inoltre, non è sempre facile capire in che modo agisce e questo rende comunque consigliabile rivolgersi ad una persona competente.
Facciamo un’altro esempio pratico:
Una studentessa bloccata ai primi esami di giurisprudenza riferisce molta ansia da studio. Cerca di seguire il più possibile tutti i consigli che gli offrono e studia molto, ma in sede d’esame non riesce a ricordare ciò che ha studiato. Ad un’attenta analisi del suo metodo di studio emerge che la studentessa non ripete mai. Sa che le altre compagne ripetono a mente o addirittura ad alta voce, ma lei non riesce. Di sicuro è consapevole di non applicare una tecnica ritenuta da tutti valida, ma quando legge gli elenchi di buoni consigli questa pratica è solo una delle tante consigliate. Non sarà proprio tutta lì l’origine del problema? E invece sì. La studentessa provava forte ansia nel ripetere, perché al primo elemento non ricordato si attivavano forti pensieri negativi. Gli insuccessi derivanti da questa lacuna metodologica avevano poi generato una serie di errate convinzioni sulle sue capacità, strutturando progressivamente una complessa dinamica di evitamenti. Aiutata a comprendere la sua difficoltà iniziale e le varie conseguenze sulla sue “percezione di efficacia”, la sua resa universitaria è progressivamente migliorata.
In conclusione voglio semplicemente ribadire il concetto centrale di questo articolo: dietro ai problemi universitari ci sono spesso veri e propri problemi psicologici: prima di “marchiare” uno studente in difficoltà come demotivato, svogliato o troppo limitato per il compito che ha davanti, è consigliabile verificare che siano davvero queste le cause dell’insuccesso.
Mindfulness e Psicoterapia Cognitiva: una riflessione critica #1
Inizio questo articolo ringraziando l’amico e collega Gabriele Caselli per avermi indirizzato la sua interessante e stimolante serie di riflessioni sulla Mindfulness noti come il “lato opaco dei cimbali”. Cerco pertanto, di integrare con alcune considerazioni sulla mindfulness che potrebbero contribuire a sollecitare il dibattito che si è attivato su State of Mind, e ancor prima durante i lunghi e sempre stimolanti scambi con Caselli.
– 1 – “Mindfulness fascists”? Per prima cosa, credo sia importante evitare di diventare “mindfulness fascists”, per usare un’espressione coniata da Russ Harris (2009). Rendere tutto mindfulness-based o intravedere nella mindfulness la soluzione di tutte le problematiche è davvero molto pericoloso. Uno dei rischi principali è che, a parere di chi scrive, il percorso terapeutico venga confuso con un percorso iniziatico in cui l’allievo deve imparare un “modus vivendi”.
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– 2 – Anti-Mindfulness tout cour? È anche vero il contrario… mi riferisco in particolare all’atteggiamento scettico di alcuni colleghi che vedono nella mindfulness il pericolo di una nuova fase new age anni ’70 che potrebbe far perdere di vista la scientificità e la legittimità della mindfulness all’interno di protocolli di intervento terapeutici, e sottolineo “terapeutici” e non di supporto/sostegno a persone che sostanzialmente stanno già bene. Alcuni dati di efficacia sono già stati citati nella brillante serie di Caselli qui su State of Mind. In sintesi, la mindfulness sembra migliorare le capacità di decentramento, la regolazione delle emozioni (Baer et al., 2006; Brown & Ryan, 2003), ha un effetto sulle capacità di spostamento volontario del focus attentivo, rappresenta un modalità con potenziali anti-rimuginio ansioso e/o anti-ruminazione depressiva…LEGGI QUIe promuove un atteggiamento di accettazione.
Purtroppo il concetto di mindfulness per sua natura non si presta in modo lineare alle regole ferree dell’evidence based, ciononostante la letteratura scientifica sta andando verso questa direzione e questo riflette un aspetto fondamentale per non confondere la mindfulness con altro, per certi versi prezioso, stimolante e utile, che però non è psicoterapia.
-3- Ma come viene concettualizzata la mindfulness? Costrutto molto complesso da comprendere se non coadiuvato da una pratica (anche breve e esplorativa) personale, sembra esserci un certo accordo nel considerare la mindfulness come un modello bi-componenziale (Bishop et al., 2004) che include:
Una componetente di autoregolazione dell’attenzione – l’allenamento a mantenere l’attenzione su ciò che avviene nel qui ed ora permetterebbe di accrescere il riconoscimento e il distacco critico dai pensieri disfunzionali nel momento presente;
Una seconda componente di curiosità e apertura – tale competenza permetterebbe di sperimentare un atteggiamento funzionale verso l’esperienza del momento presente.
Inoltre, la mindfulness si pone come concetto alquanto transteorico, integrabile e utilizzabile in diverse forme di psicoterapia, tra cui (oltre alla terapia cognitiva) approcci, costruttivisti (più o meno radicali), psicodinamici, umanistici, gestaltici, etc… e, forse, in un periodo in cui si avverte un bisogno di integrazione nella teoria, di consenso e sinergia nella clinica e di “grandi modelli” che spieghino il funzionamento del paziente nel più ampio raggio possibile (vedi Schema Therapy eACT ad esempio… ) un concetto come questo, se studiato e validato secondo i principi dell’evidence-based, potrebbe aprire scenari futuri: di ricerca e soprattutto di applicazioni cliniche.
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– 4 – Fare, fare e fare… Un concetto caro alla mindfulness e che credo sia utile in questo dibattito è quello chiamato del doing mode, la modalità del fare, che rappresenta l’atteggiamento anti-mindfulness per eccellenza. Espressione utilizzata in ambiente mindfulness per indicare il rimanere incastrati nella modalità del fare e non concentrarsi mai su osservare quel che si sta facendo in modo decentrante e mentalizzante, cioè consapevole.
Proviamo a pensarci, quando viviamo esperienze per noi negative proviamo emozioni negative, il provare emozioni negative ci fa desiderare che le cose siano in modo diverso da quello che sono (o che noi crediamo che siano…) e cosa facciamo? Iniziamo a rimuginare sul futuro, o a ruminare nel passato, ci giudichiamo, giudichiamo gli obiettivi che ci eravamo prefissati, desideriamo allontanarci a tutti i costi da quella situazione che noi non vogliamo assolutamente tra i piedi…
In queste situazioni si attiva ciò che viene chiamato il doing mode, concetto molto vicino al sé concettualizzato di cui ho parlato su State of Mind. Tra le caratteristiche principali di tale modalità troviamo l’utilizzo quasi esclusivo della parte verbale (il linguaggio della nostra mente), che considera i nostri pensieri come l’unica realtà possibile, che viaggia nel tempo (avanti o indietro in base alle “preferenze” personali), che si pone come obiettivo principale l’allontanare e il non voler avere a che fare con ciò che ci fa soffrire, un evitamento in sostanza e che, dopo anni e anni di cattiva abitudine, diventa automatico, scontato e per molte persone l’unica modalità possibile (perché “sono fatto così”…).
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Il doing mode sembra di fatto un atteggiamento molto diverso dall’esperienza di flow, citata da Caselli. Scrive:
“È possibile che una persona scelga consapevolmente di godersi una modalità del fare ‘sana’ dove non è presente a sé stesso momento dopo momento? Penso all’esperienza che viene descritta con il concetto di ‘flow’ che è ‘ottimale’, ‘soddisfacente’ e che è caratterizzata tra le altre cose da assenza di percezione del tempo e da scarsa autoconsapevolezza.”
A mio parere la risposta è sì. Nel flow, però, manca totalmente (o quasi…) l’aspetto della disfunzionalità e della automaticità, tanto che il flow viene considerato come un’esperienza ottimale in cui ottimizzo il tempo e massimizzo la prestazione. Il doing mode, però, non ha tali vantaggi, bensì porta a micro-episodi di alienazione disfunzionale non coerente e utile allo scopo prefissato (cosa che invece avviene nell’esperienza di flow…).