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L’ ombra dello Tsunami: Recensione di Lingiardi e De Bei

In anteprima per i lettori di State of Mind, la recensione del nuovo libro di Philip Bromberg L' ombra dello Tsunami di R. Cortina Editore.

Di Redazione

Pubblicato il 03 Lug. 2012

Aggiornato il 18 Feb. 2016 15:26

di Vittorio Lingiardi e Francesco De Bei

Recensione dell’ultimo libro di Philip M. Bromberg L’ ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale, edizione italiana e introduzione curate da Vittorio Lingiardi e Francesco De Bei. 

IL LIBRO USCIRA’ IN LIBRERIA IL 18 LUGLIO 2012

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L'ombra dello Tsunami: Recensione del Prof. Vittorio Lingiardi. - Immagine: copertina libro. Proprietà di Raffaello Cortina Editore.
Bromberg, P.M. (2012). L’ ombra dello Tsunami. La crescita della mente relazionale. Raffaello Cortina Editore.

L’ ombra dello tsunami non è solo il titolo dell’ultimo libro di Philip Bromberg. È anche una metafora clinica che, con Standing in the spaces e Destare il sognatore (Bromberg, 1998, 2006), descrive la visione del funzionamento mentale e del processo clinico che lo psicoanalista americano è andato delineando nel corso di questa trilogia.

Alla formulazione classica che vedeva la mente come composta da organizzazioni di relazioni oggettuali interiorizzate e in conflitto tra loro, Bromberg ha sostituito l’idea di un funzionamento psichico centrato su stati del Sé multipli, mossi da processi dissociativi di diversa intensità, in interazione dinamica tra loro grazie a un uso salutare della dissociazione. È la disconferma traumatica di questi aspetti del Sé, che non hanno trovato un posto nella relazione con altri significativi, a trasformare la convivenza con gli altri stati del Sé in un pericolo. Proteggersi dal trauma diventa allora per l’individuo la necessità di trasformare la normale molteplicità in una rigida struttura in cui gli aspetti del Sé “illegittimi” possono continuare a vivere, ma di una vita fatta di clandestinità e isolamento. Inevitabilmente, la dissociazione diventa l’unico modo per l’individuo di gestire lo spazio della relazione al servizio di una falsa coerenza e di un senso illusorio di sicurezza.

Compito del clinico è dunque aiutare il paziente a ristabilire la normale fluidità, e quindi molteplicità, del Sé, ristabilendo i collegamenti tra i suoi stati, così da restituirgli la sensazione di “chi egli sia”. Destare il sognatore in questo caso sta a indicare la necessità di “svegliare” il paziente dai processi ipnoidi che dominano il suo funzionamento mentale, aiutandolo a portare in seduta non il sogno (stato del Sé) dissociato, ma il sognatore nella sua interezza.

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Il valore aggiunto di queste metafore cliniche è dato dalla capacità dell’autore di stabilire un dialogo tra questa nuova “metapsicologia relazionale” (Harris, 2011) e campi di ricerca limitrofi. La lunga e esaustiva prefazione di Allan Schore presente nel volume ne è una testimonianza diretta che, oltre a rappresentare una sintesi affascinante e stimolante delle ricerche neuroscientifiche, conferma la compatibilità tra le ipotesi cliniche di stampo relazionale e la ricerca sulla neurobiologia dell’esperienza interpersonale.

Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
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Sul piano clinico, quello che Bromberg ci dice in questo volume è che la dissociazione è un fenomeno intrinsecamente relazionale. L’elaborazione “di un trauma precoce”, scrive, “è fondamentalmente relazionale: non libera il paziente da quello che gli è stato fatto nel passato, ma da quello che deve fare a se stesso e agli altri al fine di convivere con quello che gli è stato fatto nel passato” (pp. 125-126). È questo che fa della relazione il luogo elettivo dove la dissociazione tra stati del Sé viene mantenuta.

Anche in questo caso possiamo rintracciare un’importante compatibilità tra l’impostazione clinica relazionale descritta da Bromberg e una solida tradizione di ricerca in psicoterapia che ci ha abituati non solo all’importanza di una dimensione collaborativa tra paziente e terapeuta, ma anche alla centralità della relazione con il clinico come mezzo per ottenere un cambiamento terapeutico (per es., Norcross, 2011; vedi anche Colli, Lingiardi, 2009; Lingiardi, De Bei, 2011). Ciò che ci dice Bromberg ha implicazioni cliniche ancora più profonde: “la fonte primaria dell’azione terapeutica è la relazione, non qualcosa creato attraverso di essa” (p. 109). Che cosa intende dire? Ecco di nuovo l’autore che parla:

“Quello che sostengo è che, con tutti i pazienti […] la crescita duratura della personalità nel trattamento analitico si intreccia con la capacità della relazione paziente/terapeuta di aumentare la soglia di tolleranza del paziente all’iperattivazione affettiva. Questo uso della relazione paziente/analista avviene attraverso l’elaborazione congiunta e non lineare di un canale di comunicazione agito (dissociato) in cui la paura del paziente della disregolazione affettiva (l’ ombra dello tsunami) viene “fatta ritirare” dalla capacità sempre più ampia di distinguere in maniera sicura la probabilità di uno shock mentale che può essere effettivamente soverchiante da quel tipo di esperienze eccitanti in cui la “tensione” si trova inevitabilmente mischiata al rischio della spontaneità. La paura del paziente della disregolazione, per come viene rivissuta nel presente agito, diventa sempre più contenibile come evento cognitivo, rendendo così in grado la mente/cervello di diminuire il suo affidamento automatico sulla dissociazione come un “rilevatore di fumo” affettivo” (pp. 33-34).

Lavorare all’interno di questa cornice non implica un abbandono della prospettiva classica, quanto piuttosto una “ristrutturazione gestaltica” del modo di osservare i fenomeni clinici. Compito del clinico psicoanalitico continua a essere quello di “ascoltare e interpretare” (Spezzano, 1998). Ma al tempo stesso, e prima di tutto, deve prestare attenzione ai cambiamenti negli stati del Sé utilizzando il proprio senso d’identità come un vero e proprio organo di percezione (Searles, 1979) –, nel paziente e in se stesso, come lo sfondo che organizza tutto quello che viene detto o fatto in seduta. In altre parole, mentre analista e paziente interagiscono sul piano dei contenuti verbali, l’analista deve continuare a tenere a mente che, per riprendere la felice espressione di Bion (Grotstein, 2007), “at the same time and on another level” (“nel momento stesso e su un altro livello”, NdR) gli stati del Sé, di paziente e analista, stanno interagendo in quel momento. Quando si affaccia l’ombra di una disregolazione, il paziente farà automaticamente ricorso alla dissociazione, interrompendo silenziosamente l’interazione con lo stato del Sé del clinico, determinando un cambiamento simmetrico anche nello stato del Sé del terapeuta. Si apre così la via che conduce all’enactment – e “ascoltare e interpretare” cessa di essere l’obiettivo clinico.

Il Disturbo Narcisistico di Personalità, Intervista al Prof. Vittorio Lingiardi. - Immagine: Narcissus by Caravaggio (Galleria Nazionale d'Arte Antica, Rome)
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Lavorare nella relazione, tra i confini degli stati del Sé dissociati, comporta un “qualcosa in più dell’interpretazione” (BCPSG, 2011). Quando l’interazione silenziosa tra stati del Sé di paziente e analista prosegue per troppo tempo senza che l’analista vi presti attenzione, è probabile che presto o tardi si verifichi un vero e proprio stallo terapeutico, in cui l’analista si sente disorientato e spiazzato, e il paziente continua a sentirsi angosciato o arrabbiato a prescindere da quello che il terapeuta tenta di comunicargli.

“In tali momenti […] tentiamo le nostre “migliori” interpretazioni. Borbottiamo qualcosa sulla possibile ripetizione di un trauma precoce. Facciamo riferimento alla trascuratezza da parte dei genitori, forse persino ad abusi da parte dei genitori, troppo precoci per essere ricordati. E, naturalmente, c’è sempre la possibilità della depressione dei genitori! Chi non ha mai avuto almeno un genitore depresso? Tutto invano: il grido silenzioso del paziente continua e si fa sempre più forte” (Bromberg, 2006, p. 93).

È in momenti simili che la lezione clinica di Bromberg si fa preziosa. Quando a predominare è l’enactment, è il livello della relazione nel qui-e-ora che deve avere la precedenza. L’analista può sentire di essere nel giusto, di aver colto “il problema del paziente” – e forse è vero. Ma qualsiasi intervento posto su questo livello in quel momento coglie nel segno di un bersaglio sbagliato, e ha come risultato quello di amplificare ulteriormente la vergogna e la rabbia (l’ ombra dello tsunami) del Sé dissociato.

Una volta caduti nello spazio della relazione, i concetti classici smettono di essere di aiuto. Tentare di comprendere quello che sta accadendo pensando che il paziente stia resistendo, stia cercando di spingere il terapeuta a sentire degli affetti che lui non riesce a tollerare, o che lo stia vivendo come un “oggetto cattivo”, non coglie il vero nocciolo del problema: non è il paziente che si sta difendendo, ma l’analista. È l’analista che si sta rifiutando di riconoscere o condividere un suo vissuto personale (aspetto del Sé) che sente come problematico o di cui si vergogna e, così facendo, sta disconfermando la legittimità di quello stato del Sé del paziente che sta urlando, e continuerà a urlare, perché sta rivivendo la situazione traumatica originaria (vedi Bromberg, 1998, pp. 253-257; Bollas, 1987, pp. 166-175): sta, cioè, chiedendo al terapeuta di aiutarlo a sentirsi una persona più intera.

È la possibilità di sopravvivere in momenti simili, condividendo la propria esperienza, che consente al paziente di elaborare le emozioni dolorose e regolare gli affetti traumatici – “il ritiro dello tsunami” –, creando uno spazio diadico capace di includere la soggettività di entrambi. Con le parole di Jessica Benjamin (1998):

“Riconoscere l’‘altro interno’ indebolisce la minaccia costituita dall’‘altro esterno’, così che lo straniero che sta fuori non è più identico allo straniero che sta dentro di noi: non è la nostra ombra, un’ombra sopra di noi, ma un ‘altro separato’ la cui ombra, nella luce diventa distinguibile” (p. 141).

Fare “ritirare lo tsunami” è un processo trasformativo che non si riferisce a un semplice “cambiamento” nel paziente, ma a una vera e propria crescita della sua mente. Una volta che viene meno il pericolo di un’inondazione di affetti traumatici, l’individuo può fare di nuovo sue risorse e capacità prima tenute in ostaggio dalla struttura mentale dissociativa. Gli aspetti del Sé precedentemente sequestrati possono ora prender parte e contribuire al discorso umano; possono influenzare e farsi influenzare dagli altri. Possono, cioè, crescere.

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