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Instabilità Emotiva e la Percezione che abbiamo del nostro reddito

– FLASH NEWS –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheL’economista Eugenio Proto, del Centre for Competitive Advantage in the Global Economy (CAGE), insieme ad Aldo Rustichini della University of Minnesota, hanno studiato come i tratti della personalità possano influenzare, in termini di soddisfazione di vita, il modo in cui percepiamo il nostro reddito.

Sembra infatti che chi possiede un particolare tratto della personalità, l’instabilità emotiva, possa addirittura vivere un aumento di stipendio o di reddito come un fallimento, se questo non è in linea con ciò che si attende.

L’instabilità emotiva è considerata un tratto fondamentale della personalità (vedi Big Five Personality Traits) e si riferisce alla tendenza a sperimentare emozioni negative, come rabbia, ansia o depressione e ad essere particolarmente vulnerabili allo stress. Chi riceve un punteggio alto in relazione a questo tratto della personalità è più propenso a interpretare le situazioni ordinarie come una minaccia e le piccole frustrazioni come situazioni di grande difficoltà; inoltre le reazioni emotive negative tendono a persistere a lungo nel tempo, il che significa che si tratta di persone che sono spesso di cattivo umore. Questi problemi di regolazione emotiva possono diminuire la capacità di una persona di pensare con chiarezza, di prendere decisioni e affrontare efficacemente lo stress, oltre che contribuire alla mancanza di soddisfazione nelle proprie conquiste di vita e aumentare le probabilità di sviluppare una depressione clinica.

Secondo i ricercatori chi ha alti livelli di instabilità emotiva ha buone probabilità di vedere un aumento di stipendio come un fallimento se il suo reddito è già alto; infatti mentre un aumento di stipendio con un reddito basso è più facilmente vissuto come un successo, un aumento di stipendio con un reddito alto potrebbe non corrispondere alle aspettative, ed essere interpretato come un obiettivo mancato, piuttosto che come un traguardo raggiunto, andando così ad incidere negativamente sul livello di soddisfazione esistenziale di chi lo riceve. Questi risultati suggeriscono che in alcuni casi usiamo un aumento di denaro come sistema per misurare il nostro valore personale in termini di successi e fallimenti piuttosto che come un mezzo per ottenere un maggiore comfort.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Parlare da soli: follia? No, stimolo cognitivo

 

“Le chiavi.. dove saranno le chiavi della macchina?”

Poi finiscono con il parlare da soli.
Non c’è mica niente di male però non cominciare a risponderti figliolo. 

Jack Keruoak

 

Parlare da soli: follia? No, Stimolo Cognitivo. - Immagine: © Petr Vaclavek - Fotolia.comParlare da soli: Quante volte ci capita di osservare il nostro compagno, la nostra amica, nostra madre a “parlottare” tra sé e sé? Quante volte non ne capiamo il senso e ci chiediamo se dobbiamo preoccuparci e se questi sono i primi segni di un giorno di ordinaria follia, di “qualche rotella fuori posto”?

In uno studio pubblicato sul Quarterly Journal of Experimental Psychology, ci vengono dati gli elementi per arrivare a dire che parlare da soli non solo non è segno di follia, ma al contrario è uno strumento efficace e regala importanti benefici cognitivi. Infatti, questo bizzarro uso del linguaggio per fini apparentemente non comunicativi, sembra avere un preciso ruolo di stimolo per alcune funzioni cognitive.

Gli autori, gli psicologi Gary Lupyan (Università del Wisconsin) e Daniel Swingley (Università della Pennsylvania), hanno condotto una serie di esperimenti per scoprire se parlare da soli sia d’aiuto nella ricerca di oggetti particolari. Questa ricerca trova spunto nell’immaginario comune, per cui spesso, quando perdiamo qualcosa o quando stiamo cercando, ad esempio, le chiavi della macchina prima di uscire, siamo soliti parlare da soli, quasi a richiamare l’oggetto stesso: “Il cellulare, dove avrò messo il cellulare?”.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Pronunciare il nome dell’oggetto cercato oltre ad esprimere una richiesta d’aiuto per le persone che abbiamo vicino, ci aiuta anche a focalizzare l’attenzione sull’oggetto stesso.

In un primo esperimento, i partecipanti sono stati divisi in due gruppi: dopo che era stata mostrata ad entrambi una serie di immagini di oggetti, ad un gruppo era stata data la consegna di cercare un oggetto target (cercate la teiera), mentre al secondo gruppo era stata data la consegna di nominare a voce alta gli oggetti mentre li cercavano. Dai risultati è emerso che gli appartenenti al secondo gruppo trovavano gli oggetti molto più rapidamente. In un secondo esperimento, è stata invece simulata la spesa al supermercato, ed anche in questo caso le persone a cui era stato chiesto di nominare a voce altra l’oggetto sono risultate essere più veloci ed efficaci nella ricerca degli alimenti.

Dai risultati della ricerca si evince che: “Ripetendo il nome dell’oggetto cercato, è come se stimolassimo il cervello a focalizzarsi meglio sulla ricerca”; “Troviamo le cose più rapidamente, parlando. Soprattutto quando c’è una forte e diretta associazione tra il nome e l’obiettivo”. Questo studio va nella direzione del non considerare il linguaggio soltanto come uno strumento per comunicare con i propri simili, ma anche come un modo per influenzare i propri processi cognitivi:

«Questo nostro lavoro è il primo che esamina gli effetti del parlare da soli rispetto a un compito visuale relativamente semplice, e si aggiunge alla letteratura esistente che mostra come il linguaggio abbia una serie di funzioni extracomunicative e, in certe condizioni, possa arrivare a modulare i processi visivi».

Un altro studio sull’abitudine di parlare da soli condotto dagli Psicologi della Toronto University, al termine di una serie di test su volontari, ora pubblicati sulla rivista online Acta Psychologics, sono giunti alla conclusione che parlare da soli non solo non è da “matti”, ma al contrario fa bene, aiuta nei processi decisionali, aumenta l’autocontrollo e diminuisce i comportamenti impulsivi. In alcuni compiti sperimentali, ad alcuni soggetti veniva impedito di parlare con sé stessi; coloro che potevano parlare con sé stessi a voce alta hanno regolarmente ottenuto risultati migliori ai test.

Mind Wandering. - Immagine: © auremar - Fotolia.com
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«Ci siamo resi conto che la gente agisce in modo più impulsivo quando non può usare la propria voce interiore e dunque, in sostanza, parlare con sé stessa, mentre fa qualcosa»,afferma il professor Michael Inzlicht, che ha diretto la ricerca. «Senza la possibilità di verbalizzare messaggi a sé stessi, i volontari esaminati nei nostri test non erano in grado di esercitare lo stesso ammontare di autocontrollo». Di fatto, giorno dopo giorno mandiamo continuamente dei messaggi a noi stessi con l’intenzione di aiutarci – accudirci, esaminarci, motivarci. «Parlando con noi stessi ci diciamo, per esempio, che dobbiamo continuare a correre anche se siamo stanchi mentre facciamo jogging, oppure di smettere di mangiare anche se avremmo voglia di un’altra fetta di torta, o di trattenerci dal perdere le staffe nel pieno di una discussione. Talvolta questi messaggi esistono solo a livello di pensieri, restando silenziosi, altre volte vengono esplicitati, in una sorta di conversazione ad alta voce con noi stessi. Il nostro esperimento dimostra che questo dialogo interiore è comunque utile e molto diffuso, anche se non sempre la gente si rende conto di farlo.» Sicché, la prossima volta che vediamo qualcuno parlare da solo, non diciamo che è un po’ matto. Anche perché la volta dopo potremmo essere noi a parlare da soli, senza accorgercene. 

“E ‘ bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla.”

(Cesare Pavese, 4 maggio 1946)

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Sister (2012) Recensione. Regia: Ursula Meier, Orso d’argento a Berlino

 

Sister: Il bambino abbandonato e la sua ferocia dolente. – Recensione – 

Sister (2012) Recensione. Regia: Ursula Meier, Orso d’argento a Berlino. - Immagine: Sister 2012. Cinema Movie Cover.
Sister (2012). Regia: Ursula Meier, Orso d’argento al festival di Berlino. Immagine: Locandina Cinematografica

Il bambino abbandonato è Simon. Sister è un film intelligente e doloroso. Abbiamo un bambino che fatica, fatica per vendere scarponi, guanti e sci sottratti ai ricchi, lassù sulla montagna, ai meno ricchi che vorrebbero gli oggetti del desiderio e non possono permetterseli. Simon vive con una “sorella”, Louise, che si fa maltrattare dagli uomini e non riesce a tenere un lavoro.

Louise è più grande di lui, ma si comporta come se fosse sua figlia, discontinua, dalla presenza vaga e a volte crudele e ricattatoria. Simon ha solo rapporti mercenari e si scontra con il mondo con la durezza di chi ha visto già tutto. Come se fosse già anziano. Sa che è l’unico responsabile e garante della propria sopravvivenza e il mondo è un ring in cui deve faticare ed essere più rapido e intelligente degli altri. Se perde (e sa prendere, senza una parola di recriminazione, botte e umiliazioni) subito ricomincia a fare il suo lavoro di piccolo ladro. Simon non ha molto interesse per il mondo là fuori e come molti bambini abbandonati e soli vede il mondo come qualcosa di estraneo e da usare in modo cinico e duro. L’unica cosa che conta è la determinazione con cui trascina la sua pesante slitta di sci rubati e la durezza con cui contratta con gente che ha 10, 20 anni più di lui. Ma lui è più disperato degli altri e così a volte è più duro e lucido. E li corrompe, oppure estrae dagli altri l’aspetto meschino e volgare che immagina e che conosce per sfruttarlo a suo vantaggio.

Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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Simon ama solo una persona, Louise, piena dei lividi della vita. Anche l’amore per questa sorella è un amore duro. Può capitare di raccoglierla ubriaca per strada e di cacciare gli uomini che le ronzano intorno e che lui non vuole avere tra i piedi.

Anche con la sorella Simon non ha scrupoli, la vuole vicina, la vuole viva, ma la vuole come vuole lui, tutta per se. E caccia via come può tutti gli uomini che si avvicinano. Le offre soldi se lei è arrabbiata con lui e non vuole averlo vicino e consolarlo. Simon e Louise sono due personaggi tragici che vivono un mondo ai confini della strada, desolato e solitario, dove non c’è speranza di riscatto. E poi litigano e Simon per un momento si lascia andare a lacrime di bambino, da solo, nella stazione sciistica chiusa per fine stagione: è solo nella notte della montagna e piange. Ma poi arriva il mattino: forse quel mattino porta la fine della vecchia vita e la speranza che l’amore reciproco diventi maturo e porti la salvezza.

Questo film, Sister, ci parla in modo poetico della durezza dei bambini abbandonati e soli.

Al di là di ogni pietismo, Sister indica con forza, indica agli adulti che avranno a che fare con ragazzi come Simon le difficoltà che incontreranno quando dovranno scontrarsi con una forza umana e di sopravvivenza così allenata a regole che gli altri -gli umani privilegiati- neanche immaginano.

 

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 Sister. (2012). Regia: Ursula Meier. Orso d’argento al festival di Berlino. TRAILER IN ITALIANO:

Cool! ma non più come una volta… Evoluzione del concetto di Coolness

– FLASH NEWS – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl concetto di cool si è sviluppato dopo la Seconda Guerra Mondiale ed è stato incarnato da personaggi come James Dean e Miles Davis.

L’essere cool è stato tradizionalmente associato a freddezza, ribellione, controllo emotivo, durezza, ricerca di emozioni forti e più in generale al comportarsi secondo i propri desideri e inclinazioni, preferendo l’individualismo al conformismo delle norme imposte dalla società.

Cool! ma non più come una volta… Evoluzione del concetto di Coolness. - Immagine: Licenza Creative Commons 2.0 - Autore: Eliza Peyton
James Dean: un'icona culturale che ha brillato per 60 anni.

Secondo un originale studio condotto alla University of Rochester Medical Center, però, il concetto di cool è radicalmente cambiato nel corso degli anni, perdendo gran parte delle sue origini storiche e connotazione di individualismo contro-corrente. Infatti, sembra proprio che James Dean non sia più sinonimo di cool, o meglio, la versione più cupa del cool è ancora lì, ma non è più l’aspetto principale; ciò che i ragazzi oggi si chiedono è piuttosto: “mi piace questa persona? è gentile con gli altri? È attraente? Sicura? di successo?”

Nello studio Dar-Nimrod e i suoi colleghi hanno reclutato quasi 1.000 persone perchè rispondessero a un ampio questionario su quali aggettivi, comportamenti e personaggi fossero, secondo loro, associati alla parola cool.

La felpa di Mark Zuckerberg a Wall Street. - Immagine: Facebook. https://www.facebook.com/photo.php?fbid=409670752382205
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I ricercatori hanno condotto tre studi separati. Nello primo studio, i partecipanti hanno identificato le caratteristiche che definiscono l’essere cool. Nel secondo studio, due campioni di partecipanti hanno valutato decine di queste caratteristiche su due dimensioni: freddezza e la desiderabilità sociale. Nel terzo studio infine, i partecipanti hanno valutato i loro amici sia rispetto alla loro freddezza e che rispetto a una serie di descrittori di personalità che sono stati identificati come rilevanti negli altri studi.

I risultati indicano che un numero significativo di partecipanti ha usato aggettivi che esprimevano aspetti positivi e socialmente desiderabili della personalità, come l’essere amichevole, competente, trendy ed attraente.
Per certi versi, i partecipanti allo studio hanno apprezzato gli elementi tradizionali del concetto di cool, come la ribellione e il distacco, ma non tanto quanto l’amicizia, il calore e la passionalità.

Abbiamo una sorta di concetto di coolness schizofrenico nella nostra mente”, ha detto Dar-Nimrod.

“Come si può coniugare l’idea di cool – emotivamente controllato e distante – con passione? Suggeriamo che stia avvenendo il passaggio da una versione tradizionale del cool contro-culturale a una versione “it’s good and I like it” più generica di esso. Ma questa transizione non è in alcun modo compiuta”.

Le modificazioni del concetto di cool, concludono i ricercatori, possono avere un impatto significativo sulla scelta di comportamenti salutari e orientare ricerche future sull’uso di droghe, comportamenti alimentari e sessuali.

 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Dar-Nimrod, I., Hansen, I.G., Proulx,T., Lehman, D.R., Chapman, B.P., &  Duberstein, P.R. (2012). Coolness: An Empirical Investigation. Journal of Individual Differences. 33(3): 175-185.  

Disputing alla Beck #3: individuare gli Errori Logici – Psicoterapia –

 

Disputing: Leggi la monografia. 

Ancora Disputing alla Beck. Individuare gli errori logici. -  Immagine: © Albachiaraa - Fotolia.comLo stile terapeutico di Aaron T. Beck si può riassumere in una sola domanda: in base a cosa dici questo? Che prove puoi portarmi?

Naturalmente in una seduta reale il terapeuta si esprime in termini non sfidanti e aggressivi, ma coinvolgenti e concilianti, usando il noi terapeutico, ovvero: “Tutti noi siamo soggetti a errori logici. Per esempio, per me parlare in pubblico significa essere soggetto all’erronea conclusione che il discorso non sia gradito perché mi focalizzo troppo sulle mie imperfezioni. Occorre imparare a riconoscere gli errori e non saltare immediatamente alle conclusioni” (Clark e Beck, 2010, pag. 209).

Nella sua terapia, Beck dà importanza centrale al concetto di verità empirica e logica e alla scoperta degli errori. Le sue liste di errori sono differenti nelle varie edizioni della sua opera. Nel libro del 2010 di Clark e Beck troviamo 6 possibili errori:

 

Catastrofizzare: i possibili eventi negativi sono percepiti come intollerabili catastrofi piuttosto che essere valutati in una prospettiva più moderata. Ad esempio, una brutta figura vissuta come una catastrofe terribile e non come una situazione semplicemente imbarazzante e spiacevole. (“è terribile se…).

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico. - Immagine: © Carsten Reisinger - Fotolia.com
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Saltare alle conclusioni: passare dalla formulazione di un possibile problema al suo esito negativo senza esplorare i passaggi intermedi e quindi tutti i possibili esiti, non solo quello peggiore.

Visione tunnel sulla minaccia: un unico aspetto di una situazione complessa è il focus dell’attenzione, a altri aspetti rilevanti della situazione sono ignorati. Ad esempio, focalizzare un commento negativo in un giudizio sul proprio lavoro trascurando altri commenti positivi.

Imminenza percepita della minaccia: la minaccia è percepita con esattezza, ma l’errore riguarda l’imminenza della minaccia, sentita come ravvicinatissima, a portata di mano.

Ragionamento emotivo: considerare le reazioni emotive come prove attendibili della minacciosità di una situazione. Ad esempio, concludere che, dato che ci si sente sfiduciati, la situazione è senza speranza. (“se mi sento male allora andrà male“).

Pensiero dicotomico: le cose sono viste in termini di categorie mutualmente escludentisi senza gradi intermedi. Ad esempio, una situazione o è un successo oppure è un fallimento; se una situazione non è proprio perfetta allora è un completo fallimento.

 

Beck presenta questa lista di errori al paziente scritta su un foglio con le descrizioni di ogni singola distorsione cognitiva. Il paziente deve poi segnare i processi che riconosce come suoi e descrivere situazioni in cui ha usato quei processi distorti. Insomma, è un addestramento cognitivo al pensiero logico.

L’uso di fogli scritti facilita un intervento che, per il suo elevato grado di formalizzazione, non è facile da eseguire in maniera puramente colloquiale. Occorre facilitare il compito al paziente aiutandolo con una lista scritta.

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico alla Beck – Parte 2. - Immagine: © Itaca55 - Fotolia.com
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In altri testi di Beck si trovano anche altri possibili errori, come ad esempio:

 

Ipergeneralizzazione: un singolo evento è visto come capace di connotare negativamente un’intera vita o un’intero ambiente piuttosto che come essere un evento tra tanti. Squalificare il lato positivo: le esperienze positive che sono in contrasto con la visione negativa sono trascurate e svalutate. Ad esempio, non credere ai commenti positivi di amici e colleghi, ritenendo che facciano commenti positivi solo per gentilezza.

Lettura del pensiero: un soggetto può sostenere che altri individui stiano formulando giudizi negativi non in base a giudizi espliciti o altre prove evidenti ma per una sua percezione emotiva che gli fa credere di essere in grado di comprendere il giudizio altrui, quasi leggendo nella loro mente.

Riferimento al destino: l’individuo pensa e agisce come se le proprie aspettative negative sugli eventi futuri siano fatti inevitabili stabiliti dal destino. Ad esempio, il pensare che qualcuno lo abbandonerà, e che lo sa già, e agisce come se ciò fosse vero.

Minimizzazione: il valore e il significato delle esperienze e le situazioni positive sono minimizzati.

Doverizzazioni: l’uso di “dovrei”, “devo”, “bisogna”, si deve”, segnala la presenza di un atteggiamento rigido in diretta connessione con regole personali.

Etichettamento: identificare qualcuno tramite una etichetta globale piuttosto che riferirsi a specifici ambiti, eventi o azioni. Ad esempio, il pensare di essere un fallimento piuttosto che si è inadatti a fare una determinata cosa.

Personalizzazione: assumere che noi stessi si è causa di un particolare evento negativo quando, nei fatti, sono responsabili altri fattori. Ad esempio, considerare che una momentanea assenza di amicizie è il riflesso della propria inadeguatezza piuttosto che un caso.

 

Il disputing alla Beck è una tra le più neutrali e spersonalizzate delle tecniche cognitive, quella più lontana dai cosiddetti significati personali. È vero che un termine come “significati personali” rischia di essere generico e vago. Le differenze tra credenze e significati personali non sono chiarissime. Eppure, riflettendo sulla tecnica di Beck, una differenza la troviamo tra credenze e significati personali.

I significati personali sono credenze che assumono un particolare colore soggettivo e culturale, essendo esperienze personali di apprendimento che associamo a certi stati d’animo e che utilizziamo per giudicare le situazioni, per decidere cosa ci piace e per capire cosa desideriamo. Hanno quindi a che fare con i valori personali, le preferenze e i desideri. A differenza quindi degli errori logici di Beck, non hanno molto a che fare con il concetto di verità assoluta.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Infant Night Waking: quando sono le madri a svegliare i figli

 

Infant Night Waking

Infant Night Waking. - Immagine: © WavebreakMediaMicro - Fotolia.com“Quindi, per farla breve, se ne starà sveglia tutta notte

e se per caso le capiterà d’appisolarsi,

io sbraiterò e mi agiterò e con gran chiasso la terrò in allarme.

È l’unico modo, questo,

per annientare una moglie con la gentilezza.”

 

William Shakespeare, La Bisbetica Domata

  

 

 

All’inizio del film “Voglia di tenerezza” di James Brooks vediamo la madre della protagonista che non si dà pace perché teme che il sonno (beato e regolare) della figlia neonata nasconda in realtà una minaccia di morte, e prova sollievo solo svegliandola e sentendola piangere; e la scena si ripete anche qualche anno più tardi quando la madre, turbata dalla recente morte del marito, insiste a distogliere la figlia dal sonno, solo per assicurarsi che stia bene.

Una situazione che appare abbastanza anomala e invertita, se si pensa che solitamente una delle più classiche ansie anticipatorie delle donne in dolce attesa è proprio espressa nel ritornello “mi auguro solo che di notte dorma”.

Psicopatologia Post-Partum e Perinatale. Notizie dai Convegni.
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Considerazione scontata ma del tutto condivisibile, se pensiamo a quanto una marcata deprivazione di sonno possa interferire drammaticamente con il proprio equilibrio mentale.

Nello specifico, diversi studi in ambito pediatrico hanno dimostrato la stretta correlazione tra un sonno disturbato in bambini tra i 6 e i 12 mesi e una peggiore percezione della qualità di vita delle madri, che può arrivare fino a configurarsi come una vera e propria depressione post-parto (Hiscock et coll, 2006).

Fin qui nulla di nuovo, se si pensa che la prevalenza stimata delle madri che lamentano tribolazioni notturne legate alla presenza molesta di un neonato urlante oscilla intorno al 46% (Halbower & Marcus, 2003; Lozoff, Wolf, & Davis, 1985).

Esiste però un altro fenomeno, più inconsueto e meno esplorato, che rovescia la medaglia e ribalta i ruoli, e che consiste nel comportamento delle madri (in particolare madri depresse)  che tendono a svegliare e disturbare il sonno dei propri bambini, senza che ce ne sia un effettivo bisogno; in un recente studio si è voluto proprio verificare un’idea audace in questa direzione, nel tentativo di confermare l’ipotesi che sindromi depressive associate a credenze disfunzionali sul sonno infantile porterebbero le madri a svegliare inutilmente e con troppa frequenza i neonati durante la notte.

Le partecipanti allo studio sono state 45 madri con bambini di età compresa tra 1 e 24 mesi; dopo aver raccolto dati circa le loro convinzioni inerenti il comportamento notturno infantile e la presenza di una sintomatologia depressiva, il comportamento materno è stato videoregistrato per una notte intera, e infine dettagliatamente codificato.

I risultati ottenuti confermano l’ipotesi, ossia individuano una correlazione tra depressione, convinzioni disfunzionali materne e la tendenza delle madri stesse ad interrompere inutilmente il sonno del bambino.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Benché gli autori siano giustamente cauti nel sostenere che esista una vera e propria relazione di causa-effetto tra i due fattori, emerge comunque il dato che madri depresse o esageratamente preoccupate dei possibili bisogni notturni dei propri figli tendono ad essere più intrusive e disturbanti, a reagire con troppa solerzia anche a vocalizzazioni neutre (come ad esempio i balbettii, che non segnalano alcuna richiesta di assistenza da parte dei piccoli), a toglierli dai loro letti per portali senza motivo nel letto dei genitori (svegliandoli, nel frattempo) e a cullarli senza che ce ne sia bisogno.

L’idea sottesa è quindi che le madri troppo preoccupate per il benessere notturno dei figli tendano ad intervenire, incuranti del fatto che il loro intervento sia richiesto o meno, e che tale atteggiamento risponda in realtà al bisogno di  placare le proprie ansie e il proprio disagio emotivo connessi al timore che i figli possano essere affamati, assetati, scomodi, sconsolati e così via.

Malgrado gli ovvi limiti di un simile esperimento, soprattutto in termini di generalizzabilità dei risultati ottenuti,  una delle idee suggerite dagli autori è che, in specifici casi potenzialmente identificabili, potrebbero risultare utili interventi di psicoeducazione, affinché le madri imparino a capire meglio il significato del pianto o dei vocalizzi notturni dei propri bambini.

Simili interventi potrebbero aiutarle a regolare più efficacemente le emozioni negative che il pianto notturno infantile può evocare, a rispondere al meglio alle esigenze notturne dei figli e a promuovere la loro capacità di calmarsi anche da soli, il tutto a vantaggio di una più distesa relazione madre-bambino.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Il potere di Suggestione & Aspettative sul Comportamento

– FLASH NEWS – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheDue scienziati, Maryanne Garry e Robert Michael, della Victoria University di Wellington, insieme a Irving Kirsch della Harvard Medical School e Plymouth University, hanno studiato il fenomeno della suggestione approfondendo il rapporto tra suggestione, cognizione e comportamento.

Durante la loro carriera di ricerca, Garry e Kirsch hanno entrambi studiato gli effetti della suggestione sulla conoscenza e sul comportamento; nel corso di molti studi sperimentali hanno dimostrato che la suggestione intenzionale può influenzare la performance durante compiti di apprendimento e memoria e la risposta a integratori e farmaci, come avviene nell’ormai noto effetto placebo.

Ma cosa può spiegare l’effetto potente e pervasivo che la suggestione ha nella nostra vita? La risposta sta nelle nostre ‘aspettative di risposta’, cioè nel modo in cui anticipiamo le nostre risposte in varie situazioni. Le nostre aspettative infatti ci spingono verso risposte automatiche che influenzano il modo in cui raggiungeremo il risultato che ci aspettiamo. Se ci aspettiamo un certo risultato, i nostri pensieri e comportamenti successivi saranno indirizzati a portare a compimento questo risultato.

Per esempio, se una persona normalmente timida si aspetta che un bicchiere di vino la aiuterà a rilassarsi a un cocktail party, probabilmente si sentirà meno inibita, avvicinerà più gente, e si farà coinvolgere in diverse conversazioni nel corso della festa. Anche se il vino fa la sua parte, è chiaro che le sue aspettative su come questo la fa sentire svolgono un ruolo importante. Ma non è solo la suggestione deliberata a influenzare i nostri pensieri e comportamenti, infatti anche la suggestione non intenzionale può avere gli stessi effetti, come nell’effetto Hawthorne, per il quale la sola presenza di osservatori può provocare momentanee variazioni di un fenomeno o di un comportamento.

Secondo Garry questo è l’aspetto più preoccupante del fenomeno della suggestione, perchè sottovalutandolo si correrebbe addirittura il rischio di approvare l’uso di un farmaco o di un trattamento, perdendo di vista il fatto che siamo noi a reagire alla malattia.
Secondo i ricercatori il fenomeno della suggestione involontaria spiegherebbe addirittura i recenti fallimenti nel replicare i risultati di alcune ricerche. Mentre la ricerca ha fornito evidenze e spiegazioni per il fenomeno della suggestione, c’è ancora molto da imparare sul rapporto sottostante tra suggestione, la cognizione e il comportamento.

Come sottolineano gli autori, i ricercatori non conoscono ancora i confini e i limiti di questi effetti; concludono affermando che la comprensione di questi temi ha importanti implicazioni nel mondo reale: “Se siamo in grado di sfruttare la potenza della suggestione, possiamo addirittura migliorare la vita delle persone”.

 

 

BIBLIOGRAFIA

La costruzione di narrative personali in terapia cognitiva.

 

Parte 1


La costruzione delle narrative personali in terapia cognitiva.
Parlare di sé con un esperto dei sé. di Silvio Lenzi e Fabrizio Bercelli. Eclipsi Editore

 Leggendo il volume di Lenzi e Bercelli “Parlar di sé con un esperto dei sé – L’elaborazione delle narrative personali: strategie avanzate di terapia cognitiva” (2010), e’ possibile comprendere meglio cosa si intenda per narrativa personale nel contesto terapeutico e quale sia la modalità adottata dalla terapia cognitiva per aiutare il paziente a ricostruire un tema di vita personale soddisfacente.

Il libro analizza dapprima le tecniche utilizzate in seduta da terapeuti diversi, allo scopo di tracciare un quadro esaustivo delle interazioni che si vengono a creare fra il clinico e il paziente; se da un lato infatti si tratta di conversazioni il cui sviluppo e’ talvolta simile a quello di un normale scambio dialettico che potrebbe avvenire anche al di fuori del setting, dall’altro e’ molto più frequente notare come sia il terapeuta stesso, attraverso interventi verbali e non verbali, ad indirizzare la seduta verso temi e aspetti che egli si propone di approfondire.

Il libro di Lenzi e Bercelli analizza le sedute utilizzando strumenti della pragmatica linguistica, tra cui la teoria degli atti linguistici di Austin (1967) e la logica conversazionale di Grice (1975, 1989), nonché teorie dell’interazione sociale come la frame analysis di Goffman (1974). Accanto a questi approcci emerge però il riferimento costante all’Analisi Conversazionale (Leonardi, Viaro, 1990; Bercelli, Leonardi, Viaro, 1999; Galatolo, Pallotti, 1999; Hutchby, Wooffitt, 1998), che servendosi della trascrizione fine degli scambi linguistici, e inserendo in essa elementi paralinguistici (pause, sovrapposizioni di parola) e non verbali (mimica, postura, gesti, sguardi), ricostruisce la negoziazione locale dei significati fra i partecipanti.

Terapia. Immagine: © Lisa F. Young - Fotolia.com
Articolo consigliato: Le esperienze di rottura nel terapeuta e nel paziente.

L’Analisi Conversazionale si dedica esclusivamente allo studio dei significati che i partecipanti all’atto dialettico condividono, evitando di addentrarsi nelle interpretazioni ipotetiche che fanno riferimento ad interventi dall’alto del terapeuta, come ad esempio accade nei setting di impostazione psicodinamica. E’ il gioco interattivo fra clinico e paziente a definire il senso complessivo della conversazione e i significati locali che si esprimono con le singole mosse verbali e non verbali dei partecipanti. Il terapeuta conduce la seduta utilizzando un repertorio di interventi tecnici:

  • domande tematiche, con le quali non viene esternata alcuna ipotesi sul funzionamento del paziente ma semplicemente viene stabilito o proposto un ambito di pertinenza di eventuali domande successive; 
  • domande informative, con cui il clinico fa capire al paziente di aver formulato una tesi sugli accadimenti del suo mondo interno e la condivide con lui; 
  • domande di precisazione, utili per raccogliere maggiori informazioni sul tema che si sta trattando e per farsi descrivere dal paziente un quadro più approfondito delle sue esperienze; riassunti, mediante i quali il terapeuta riformula con parole proprie il racconto del paziente e si assicura di averlo compreso correttamente.

Ogni intervento terapeutico può naturalmente racchiudere più tipologie di domanda, ogni mossa può cioè avere una natura mista, oppure possiamo incontrare un contenuto ambiguo che verrà chiarito nei successivi scambi linguistici. La qualità e la funzione degli interventi terapeutici sono date anche dalla reazione del paziente, e allo stesso modo le affermazioni di quest’ultimo si collocano in un’area di significato che viene sempre negoziata col clinico; abbiamo perciò momenti informali o di ironia che alleggeriscono il peso emotivo dei contenuti precedenti, racconti molto lunghi del paziente che il terapeuta ascolta senza interrompere perseguendo l’obiettivo di favorire nell’interlocutore un distanziamento emotivo dai fatti narrati –il racconto e’ una forma narrativa che consente a chi la elabora di divenire in parte spettatore del proprio intreccio, con un conseguente aumento di risorse emotive e metacognitive fruibili per ristrutturare i significati – oppure conversazioni in cui si riflette su un tema di vita strutturante per il paziente.

In tutti questi scambi avviene una condivisione dello sfondo e delle finalità; in altri termini, terapeuta e paziente si accordano con modalità verbali e non verbali su quale sia lo scopo comunicativo di quella fase della seduta, e lo condividono. In altri casi invece il frame terapeutico, la cornice relazionale che secondo Goffman può essere colta rispondendo alla domanda “che cosa sa succedendo qui?” viene scelto e impostato dal clinico.

  • Possiamo individuare il frame “indovina il tuo segreto” nel quale il terapeuta si avvale della propria competenza su come e’ generalmente organizzata l’esperienza e cerca di guidare il paziente, che invece e’ competente sui contenuti dell’esperienza propria, verso la presa di consapevolezza di un meccanismo di funzionamento che il clinico già conosce o ipotizza.
  • Nel frame “verifica la mia ipotesi su di te” le prerogative di terapeuta e paziente appaiono più sfumate; il primo chiede al secondo una descrizione dei suoi stati interni, invitandolo a confrontarla con una tesi elaborata dal terapeuta sulla base della propria competenza, ma l’approccio e’ più dubitativo rispetto al precedente e il dialogo assume quasi il carattere di un confronto alla pari. 
  • Un terzo frame e’ quello dell’ “ornitorinco”, in cui da un lato sono rintracciabili, in momenti diversi, i due approcci appena enucleati, dall’altro vengono introdotti due elementi ulteriori, l’esercitazione terapeutica e l’inserto pedagogico. 
Quando la relazione terapeutica non cura: i Cicli Interpersonali. - Immagine: © Betacam-SP - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Quando la relazione terapeutica non cura: i cicli interpersonali.

Col primo strumento il terapeuta gestisce direttamente il comportamento del paziente, fornisce istruzioni e direttive precise – la cui funzione può essere spiegata – per modificare in seduta alcuni pattern emotivi e cognitivi problematici attraverso il ricorso ad esercizi concreti, verificabili nell’immediato; col secondo, il dialogo terapeutico si arricchisce di consigli, istruzioni e informazioni che il clinico trasmette al paziente utilizzando marcatori verbali, non verbali e paralinguistici, e nel corso di tale scambio il terapeuta assume una ben riconoscibile posizione di esperto, peraltro non dissimile dal ruolo carismatico che egli svolge allorché guida il paziente nell’esercitazione terapeutica. Appare chiaro come una delle tematiche di fondo della pratica clinica sia la capacità del terapeuta di curare le due dimensioni che Leonardi e Viaro (1990) hanno chiamato Principio di Normalità e Principio di Reticenza. Il primo afferma che il paziente porta all’attenzione del clinico esperienze comprensibili, orientate da scopi ed emozioni relazionali riconducibili all’universo della normalità umana; il secondo sottolinea l’opportunità di lasciare che la seduta si sviluppi intorno ai resoconti del paziente e alla conoscenza che egli ha di sé, mentre l’intervento del terapeuta e il suo parere di esperto possono rimanere marginali e manifestarsi a chiusura del dialogo. Quest’ultimo aspetto e’ centrale e la misura in cui viene applicato caratterizza sia lo stile del singolo terapeuta sia i tratti peculiari di una singola seduta.

 

La prossima settimana la SECONDA PARTE dell’articolo

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Recensione di “La confusione è precisa in amore” di Vittorio Lingiardi

 

Poesie Lingiardi. - Immagine: Copertina del libro. Proprietà di Gransasso Nottetempo EditoreIl collega psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi si cimenta con la poesia e “State of Mind” lo recensisce. Diciamo subito che, per fortuna, il Lingiardi poeta dimentica di essere psicologo e terapeuta e si lascia andare alla musica del verso senza fare uso delle sue conoscenza scientifiche dell’anima. Il risultato sarebbe stato pedante. Questo ci risparmia la noiosa necessità di cercare nelle poesie di Lingiardi l’insegnamento psicologico. La buona poesia non insegna nulla, per fortuna.

State of Mind, a sua volta, non possiede alcuna competenza letteraria, e quindi ci si abbandona al gusto della lettura senza la pedante maschera della competenza.

Le poesie di Lingiardi che più mi sono piaciute sono quelle del frammento e del pensiero rapido e bruciante. Il ritmo e le immagini mi ricordano Sandro Penna, anche lui rapido come un aiku giapponese.

 

Per esempio:

 

“Dove credi di andare?

Io sono quello

che ti ha spezzato il cuore”.

 

Oppure: 

“Con te rimango

prima della soglia.

Come nel tango

accordo legge e voglia”.

 

O infine: 

“Ti penso come lo potrebbe fare il vento,

con rabbia, foglie in cielo, accanimento”.

 

Altre volte il respiro si allunga e il verso sfiora il mondo più disteso di Montale. Ma poi,  mi pare, si torna al morso improvviso del ritmo di Penna.  Nella seconda metà del libretto, Lingiardi tenta anche l’esperimento pasoliniano. Probabilmente le mie limitate conoscenze letterarie m’impediscono di cogliere consonanze con altri poeti. Lingiardi ci lancia i suoi indizi, e cita Robert Frost, Elsa Morante, Pierpaolo Pasolini e Rainer Maria Rilke. Ma è inutile tentare un’analisi di cui, mi mancano gli strumenti.

Mi basta avere incuriosito il lettore.

Vittorio Lingiardi ha pubblicato “La confusione è precisa in amore” per i tipi Gransasso Nottetempo. Un libretto maneggevole e tascabile da leggere in solitudine.

Elenco delle recensioni del libro.

 

– Leggi l’intervista di State of Mind al Prof. Lingiardi –  

Il Disturbo Narcisistico di Personalità, Intervista al Prof. Vittorio Lingiardi. - Immagine: Narcissus by Caravaggio (Galleria Nazionale d'Arte Antica, Rome)
Articolo consigliato: Il Disturbo Narcisistico di Personalità, Intervista al Prof. Vittorio Lingiardi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

– Leggi la recensione di State of Mind di La Svolta Relazionale di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei – 

 

Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

The measuring and styles of mother-child attachment

 – Attachment Series by Jeffrey Pella –

The measuring and styles of mother-child attachment. - Immagine: © Alena Yakusheva Fotolia.com.Attachment is typically assessed by observing child behavior in response to a standardized situation termed ‘the Strange Situation Procedure’ (SSP) (Ainsworth, Blehar, Waters & Wall 1978). It is theorized that, within the SSP, the children’s behavior is a measure of the parent’s ability to provide emotional security and stability, and also to meet the physical needs of their child.

The SSP is the standardized procedure for observing, coding and classifying attachment security in infancy. The procedure is separated into eight standardized individual episodes which are organized from least to most stressful. During the SSP, an infant is placed in an unfamiliar room with their mother and is encouraged to explore various toys. A stranger then enters the room and makes a gradual approach to the child. The mother then leaves the child alone with the stranger. The mother subsequently re-enters the room, the stranger leaves, and the mother remains with the child for a further period. The mother then leaves and the child is alone for the next episode, then the stranger re-enters the room. Finally the mother re-enters and the stranger leaves (Ainsworth, 1978). The SSP is videotaped, child behavior is coded and then the attachment style is determined

Ainsworth, Bell and Stayton described the three principal categories of attachment, these include: 1) secure; 2) anxious/resistant; 3) anxious/avoidant. Subsequently, Main and Weston, (1981) studied behavior characteristics of infants who were judged unclassifiable within the Ainsworth system. The behaviors of these infants were allocated to the fourth attachment category, disorganized.

Parents' words and anxiety disorders
Recommended: Parents’ words and Anxiety Disorders.

This section will provide a brief description of the characteristic behaviors of infants with secure, anxious/resistant, anxious/avoidant and disorganized attachment styles, and the parental behavior which is theorized to promote each attachment style.

Securely attached infants display confidence in their mothers’ ability to be available and helpful in uncertain or stressful situations. This attachment style is theorized to develop through maternal displays of prompt, sensitive and consistent parenting and their ability to provide protection for their infant.

An infant who displays an anxious/resistant style is characterized by showing a lack of confidence in their parent’s ability to be available or responsive to them. This is theorized to develop through unreliable and inconsistent parental care. The lack of consistent care generates uneasiness and strains the dyads’ relationship.

An anxious/avoidant attachment style is characterized by an infant who expects to be rejected when they seek attention and care from their parents and therefore learns to avoid displaying their needs. This attachment is theorized to be promoted by parents who constantly reject their infant’s approaches for security and comfort.

Lastly, a disorganized attachment style is characterized by the infants’ appearing to be disorientated and dazed. This attachment style is theorized to be displayed by infants of mothers who act in a withdrawn or intrusive style or who display behavior that is fearful or unexpected for the infant. Therefore, the infants are fearful of the figure they also depend on. Commonly, many studies form a composite binary variable which combines the attachment classifications into secure (secure only) versus insecure attachment (anxious/resistant, anxious/avoidant, and disorganized). 

In my next installment I will begin discussing attachment development in the context of maternal psychopathology.

 

 

REFERENCES 

Depressione

DEPRESSIONE: definizione & descrizione

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataLa Depressione è un Disturbo dell’Umore. Generalmente chi ne soffre mostra e prova frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza e tende a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di depressione vivono in una condizione di costante malumore e con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi e il proprio futuro.

Spesso la depressione nasce dall’incapacità di accettare una perdita o il non raggiungimento di un proprio scopo (che viene vissuto come un fallimento insuperabile). Si tratta per esempio di tutte le forme depressive che nascono da lutti personali piuttosto che dalla perdita del lavoro o dalla rottura di un’importante relazione affettiva.

La sintomatologia tipicamente è più intensa al mattino e migliora nel corso della giornata, ma vi sono delle eccezioni. La depressione può manifestarsi con diversi livelli di gravità.

Alcune persone presentano sintomi di bassa intensità, legati ad alcuni momenti di vita, mentre altre si sentono cosi depresse da non riuscire a svolgere le normali attività quotidiane.

Si può soffrire di depressione in modo acuto (con fasi depressive molto intense ed improvvise) oppure soffrirne in modo cronico e continuo, anche se in forma leggera, con alcuni improvvisi momenti di peggioramento.

Spesso i parenti spronano chi ne soffre a reagire. Questo avviene naturalmente in buona fede, ma può generare sentimenti di colpa nella persona con disturbo depressivo. In circa il 15% dei casi la depressione diventa un disturbo cronico con una durata di oltre 3 anni. Si hanno ricadute nel 50% dei casi. Dopo una prima ricaduta la probabilità di ricadere aumenta fino al 75%.

Quanto è diffusa la depressione?

Molte persone sperimentano emozioni e sensazioni fortemente negative nell’arco della propria vita. Nel mondo si stima che circa 340 milioni di persone soffrano di depressione. La fascia di età più colpita è quella compresa tra 30 e 49 anni. Il disturbo è circa due volte più frequente tra le donne. Nel corso degli ultimi anni la prevalenza della depressione è aumentata costantemente e allo stesso tempo l’età di insorgenza è diminuita. Attualmente la depressione è considerata  dall’Organizzazione Mondiale della Sanità la seconda causa di disabilità nel panorama delle malattie fisiche e psicologiche, seconda solo all’infarto.

Come si manifesta la depressione?

Sentirsi depressi significa vedere il mondo attraverso degli occhiali con le lenti scure: tutto sembra più opaco e difficile da affrontare, anche alzarsi dal letto al mattino o fare una doccia. Molte persone depresse hanno la sensazione che gli altri non possano comprendere il proprio stato d’animo e che siano inutilmente ottimisti.

I sintomi più comuni sono la perdita di energie, senso di fatica, difficoltà nella concentrazione e memoria, agitazione motoria e nervosismo, perdita o aumento di peso, disturbi del sonno (insonnia o ipersonnia),  mancanza di desiderio sessuale e dolori fisici. Le emozioni tipiche sperimentate da chi è depresso sono la tristezza, l’angoscia, disperazione, insoddisfazione, senso di impotenza, perdita della speranza, senso di vuoto.

I sintomi cognitivi sono la difficoltà nel prendere decisioni e nel risolvere i problemi, la ruminazione mentale (restare a pensare al proprio malessere e alle possibili ragioni), autocriticismo e autosvalutazione, pensiero catastrofico e pessimista. I comportamenti che contraddistinguono la persona depressa sono l’evitamento delle persone e l’isolamento sociale, i comportamenti passivi, frequenti lamentele, la riduzione dell’attività sessuale e i tentativi di suicidio.

Quali sono le cause della depressione?

La depressione può colpire chiunque. E’ dovuta a cause molteplici e diverse da persona a persona (ereditarietà, ambiente sociale, lutti familiari, problemi di lavoro,…). Le ricerche mostrano tuttavia la presenza di due fattori di rischio principali:

  • il fattore biologico: alcune persone nascono con una maggiore predisposizione genetica verso la malattia;

  • il fattore psicologico: le esperienze e i comportamenti appresi nel corso della propria storia di vita (es: la ruminazione mentale) possono rendere vulnerabili alla depressione.

Quali sono le conseguenze della depressione?

La depressione può avere importanti ripecussioni sulla vita di tutti i giorni. L’attività scolastica o lavorativa della persona può diminuire in quantità e qualità soprattutto a causa dei problemi di concentrazione e di memoria che tipicamente presentano le persone depresse. Questo disturbo, inoltre, porta al ritiro sociale e con il tempo danneggia le relazioni con il/la partner, figli, amici e colleghi. L’umore del depresso condiziona anche il rapporto con sé stessi e il proprio corpo. Tipicamente, infatti, chi è depresso ha difficoltà a curare il proprio aspetto, mangiare e dormire in modo regolare.

 

Rimuginio: il cervello delle ragazze in ansia funziona a pieni giri!

– Rassegna Stampa – 

NOTIZIE RELATIVE A RIMUGINIO E RUMINAZIONE – ANSIA – DIFFERENZE DI GENERE

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo un team di scienziati della Michigan State University i cervelli delle ragazze in ansia e impegnate nel rimuginio lavorerebbero molto di più rispetto a quelli dei ragazzi, che presentano gli stessi livello di ansia. La scoperta nasce da un esperimento in cui un campione di studenti universitari ha svolto un compito relativamente semplice, mentre veniva misurata la loro attività cerebrale. Solo nelle ragazze che si sono definite “particolarmente ansiose e preoccupate” si è registrata un elevata attività cerebrale quando queste hanno commesso errori durante il compito.

Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Psychophysiology, è il primo a misurare la correlazione tra worry e la risposta cerebrale agli errori nei due sessi utilizzando un campione statisticamente omogeneo e significativo (79 studentesse, 70 maschi).

Nonostante le ragazze abbiano registrato prestazioni simili a quelle dei ragazzi in compiti semplici, la loro attività cerebrale è risultata più intensa e, quando il compito è diventato più impegnativo, le ragazze ansiose hanno avuto prestazioni peggiori dei maschi ansiosi; questo suggerisce che i cervelli delle ragazze ansiose debbano lavorare di più per eseguire il compito, perché sono distratte da pensieri e preoccupazioni. Questo “iperpensare” induce a una sorta di burn-out, che le predispone alle difficoltà scolastiche. Jason Moser, ricercatore responsabile del progetto, sostiene che i risultati possono aiutare i professionisti della salute mentale a riconoscere quali studentesse possono essere soggette a problemi di ansia, come il disturbo ossessivo compulsivo e il disturbo d’ansia generalizzato: “E ‘un altro pezzo del puzzle che ci permette di capire perché le donne in generale hanno più disturbi d’ansia degli uomini”.

Attualmente Moser e il suo team stanno studiando se gli estrogeni, gli ormoni più comuni nelle donne, possano essere responsabili di questa maggiore risposta cerebrale. Infatti è noto come il rilascio di dopamina sia mediato dagli estrogeni e come questo neurotrasmettitore svolga un ruolo chiave nell’apprendimento e nel processamento degli errori nella parte anteriore del cervello; questo spiegherebbe le differenze di genere mese in evidenza dallo studio.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Ruminazione & Depressione: La via Metacognitiva di Wells e Papageorgiou

 

REPORTAGE DAL CONGRESSO: “La terapia metacognitiva per la depressione: un nuovo trattamento per la ruminazione” Roma, 2-3 Giugno 2012. Il Workshop è stato organizzato dall’Istituto Beck di Roma

Ruminazione & Depressione: La via Metacognitiva di Wells e colleghi- Congresso Terapia Metacognitiva per la depressione. Conduce il Dott. Costas Papageorgiou. - Immagine: © 2012 Alessandro Boldrini
Il Dott. Costas Papageorgiou al Congresso di Terapia Metacognitiva per la Depressione - Roma 2-3 Giugno 2012. Immagine: © 2012 Alessandro Boldrini

Uno dei primi esempi clinici portati dal Dott. Papageorgiou al Workshop sulla Terapia Metacognitiva sono di quelli che rimangono in testa per molto tempo:

“Se due studenti vengono bocciati ad un esame ed uno prova solo tristezza mentre l’altro avrà un episodio depressivo è per come hanno reagito al primo pensiero negativo”.

Silenzio in sala, il disorientamento ha invaso la mia mente e i dubbi si sono moltiplicati per dieci, tutta la mia formazione incentrata sull’importanza dell’intervento sulle credenze che regolano le emozioni in fumo. Dal cosa pensiamo al come pensiamo, un cambiamento di prospettiva non da poco. Poi però è successo qualcosa; è successo che procedendo nella spiegazione del modello il disorientamento ha lasciato il posto alla scoperta/riscoperta di contenuti estremamente chiari ed utili da integrare all’interno del proprio modello clinico con lo scopo di aumentare i propri strumenti nell’analisi degli stili di pensiero.

 

La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.

Questa è una delle sensazioni che ho provato nel fine settimana sulla terapia metacognitiva (MCT) per la depressione condotta dal Dott. Papageorgiou in cui è stato presentato il modello per la ruminazione. Un modello che all’apparenza si pone in parallelo alla visione classica della terapia cognitiva standard spostando il focus su come noi rispondiamo al pensiero negativo iniziale, per dirla con Wells:

Le persone restano intrappolate nel disturbo emotivo poiché le loro metacognizioni causano un particolare pattern di risposta a esperienze interne che mantengono l’emozione negativa e rafforzano le credenze/idee negative” (Wells,2009, p.1).

Questo pattern di risposta è chiamato Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS) ed è composto da credenze metacognitive positive e negative che mantengono la tristezza ed i pensieri negativi. Nella depressione questo pattern consiste nella ruminazione, rimuginio, monitoraggio della minaccia e strategie di coping disadattive. Tutti questi aspetti fanno parte del focus del trattamento che ha come scopo non la modifica del pensiero negativo, viene infatti più volte ripetuto come anche i soggetti non clinici abbiano questi pensieri, ma della risposta a questi pensieri:  

l’obiettivo finale è consolidare e rafforzare processi metacognitivi alternativi da utilizzare per controllare le risposte ai futuri stimoli scatenanti depressogeni”. 

Il modello metacognitivo della depressione parte dall’identificazione del trigger, un pensiero negativo: “Sono un fallimento” magari in seguito alla bocciatura in un esame. Quel pensiero negativo attiva credenze metacognitive positive sulla ruminazione come “pensare al fallimento mi aiuterà ad uscire da questa situazione”. A questo può far seguito una ruminazione del tipo: “perché capita sempre a me?”, “rimarrò così per sempre”, ”non riuscirò mai a fare nulla nella vita”, determinando un aumento della tristezza e portando all’attivazione di credenze metacognitive negativenon riesco a controllare la ruminazione”. A questo stile di pensiero potranno seguire quindi  reazioni comportamentali quali “ho deciso di rimanere a casa”, il peggioramento dell’umore “mi sono sempre sentito più depresso mentre ruminavo”, e il mantenimento di pensieri quali “sono uno che non vale” che di fatto mantengono e rinforzano il problema depressivo.

 

Wells: Terapia Metacognitiva dei disturbi d'Ansia e della Depressione. Recensione a cura di Gabriele Caselli. - Immagine: Eclipsi Editore
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)

La struttura dell’intervento avrà come punto iniziale la concettualizzazione del caso, inserire cioè l’episodio ruminativo all’interno dello schema e aiutare il paziente a familiarizzare con esso anche attraverso l’uso di metafore che hanno la funzione di aumentare la meta-consapevolezza sulla ruminazione. A questo punto entrano in gioco le due tecniche principali della terapia metacognitiva, l’una propedeutica per l’altra.

Il Training Attentivo (ATT) viene usato per sviluppare la consapevolezza ed il controllo sul pensiero ruminativo e consiste nel prestare un’attenzione flessibile su una varietà di stimoli uditivi. Il razionale di questa tecnica è quello di mantenere la consapevolezza dei pensieri senza lasciare che l’attenzione sia connessa alla ruminazione.

Detached Mindfulness
Articolo consigliato: Mindfulness o Detached Mindfulness? Questo è il problema.

Una volta fatto esperienza dell’ATT il terapeuta introduce la Detached Mindfulness (DM) con lo scopo di rispondere ai trigger della ruminazione. Questa tecnica propone al paziente il core della Terapia Metacognitiva, e qui forse c’è la maggior differenza rispetto alla CBT standard andando invece nella direzione dei modelli della terza ondata, in cui lo scopo non è modificare i pensieri ma lasciare che ci siano osservandoli da spettatore passivo. Solo dopo l’intervento verterà sulla modificazione delle credenze negative e positive che sostengono la ruminazione. Di fatto viene attuato un disputing metacognitivo chiedendo al soggetto domande tipo:  “Se la ruminazione ti aiuta come mai sei ancora depresso?”.

La sensazione alla fine del workshop è stata di aver appreso uno strumento estremamente utile da integrare all’interno di un modello clinico che possa così dare il giusto spazio sia all’analisi delle credenze sia a come esse vengono gestite dal soggetto.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Altre letture consigliate: 

Come i ricordi influenzano le emozioni

Il ruolo centrale della memoria autobiografica nella modulazione delle emozioni negative nel presente.

Come i ricordi influenzano le emozioni. - Immagine: © adimas - Fotolia.com

Anche se memoria ed emozione hanno da tempo suscitato grande interesse nella ricerca in psicoterapia, la stragrande maggioranza di questa ricerca si è concentrata sulla relazione tra questi due sistemi e soprattutto su come le emozioni possano influenzare i ricordi. Ad esempio, la ricerca ha esaminato come lo stato d’animo dell’individuo influisca sul richiamo di ricordi congruenti con l’umore attuale, per un processo denominato Mood Congruity Effect (Bower, 1981).

È interessante notare che il rapporto inverso, come cioè la memoria influenzi le emozioni attuali dell’individuo, abbia ricevuto molta meno attenzione.

Solo recentemente i ricercatori hanno cominciato a esaminare il modo in cui la memoria per gli eventi delle propria vita possa avere una importante funzione per diversi esiti adattivi, tra cui l’esperienza emotiva attuale (Pillemer, 2003). La funzione direttiva della memoria autobiografica si riferisce proprio al ruolo delle esperienze passate nel guidare pensieri, emozioni e comportamenti attuali e futuri delle persone (Bluck, Alea, Habermas e Rubin, 2005). Un processo attraverso il quale la memoria può influenzare l’esperienza emotiva è l’uso deliberato delle memorie autobiografiche attraverso il ricordo, ad esempio attraverso l’uso di un diario o l’avvio di un percorso di psicoterapia.

Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo. - Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo.

Pillemer (2003) suggerisce che la funzione direttiva della memoria autobiografica possa verificarsi in maniera automatica sulla base delle somiglianze tra gli stimoli ambientali e le memorie acquisite. Le memorie autobiografiche attivate da determinati stimoli vengono poi elaborate da strutture cognitive di ordine superiore (Smith & Kirby, 2000).

Andersen e Baum (1994) hanno illustrato questo processo in uno studio che dimostra come le persone sperimentino emozioni negative nel momento in cui sta per verificarsi un incontro con uno sconosciuto che può sembrare simile a un’altra persona (altro significativo) incontrata nel passato e con il quale si erano avute esperienze negative.

Le esperienze codificate nella memoria relative al passato condiviso con l’altra persona, sembrano influenzare la valutazione attuale delle persone che ci circondano poiché le esperienze emozionali nuove e passate condividono alcune caratteristiche simili. Questo processo è simile al processo associativo nella cognizione sociale studiato nella formazione degli atteggiamenti impliciti (Gawronski e Bodenhausen, 2006). Una spiegazione diretta di questo processo di stimolo/attivazione automatico è data in gran parte da un meccanismo insito nella mente e dai processi di apprendimento attivati per facilitare una risposta rapida e generica all’interno del nostro contesto di vita, per un meccanismo di semplificazione e generalizzazione (Philippe, Lecours, e Beaulieu-Pelletier, 2009).

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicologia del Lutto: Accettazione & Elaborazione

Una risposta meno rapida e più ragionata, ma che sarebbe in realtà più funzionale al nostro benessere, impegnerebbe un tempo eccessivo e ci costringerebbe a soffermarci di volta in volta su ogni nuovo stimolo che si presenta nel nostro campo visivo, emotivo e cognitivo. Una spiegazione per questi meccanismi di semplificazione mentale lo troviamo nel modello esplicativo dell’uomo come economizzatore di risorse cognitive di Taylor (1981). Di conseguenza, ricordi attivati da un tema specifico (ad esempio, la perdita e il lutto) o situazioni particolari (ad esempio, l’aver subìto un’ingiustizia) fanno scattare in maniera automatica dei ricordi legati al tema, che a loro volta dovrebbero far prevedere degli esiti correlati al tema o situazione specifica (ad esempio, l’attivazione dell’esperienza emotiva negativa associata all’evento passato o il comportamento disfunzionale messo in atto all’epoca della prima esperienza con lo stimolo attivante).

Un’altra caratteristica importante di questo sistema è che quando il ricordo è attivo possono attivarsi anche altre memorie collegate al tema, dato che il ricordo si diffonde come un’onda attraverso un complesso network neurale associativo di attivazione (Christianson e Engelberg, 1999).

 

Spesso durante la nostra vita incontriamo stimoli associati alla perdita di un “altro significativo”, alla perdita di un oggetto importante, alla perdita della salute o alla perdita di un ruolo. Secondo queste spiegazioni, vivendo una situazione di perdita o incontrando stimoli correlati alla perdita, si possono attivare specifici ricordi autobiografici associati in una rete. Vale la pena ricordare che la perdita è stata associata sia a livello teorico che empirico all’esperienza delle emozioni depressive (Monroe, Rohde, Seeley, e Lewinsohn, 1999). Pertanto, se una nuova perdita nella nostra vita viene valutata sulla base delle informazioni contenute nella rete di memoria attivata e sul proprio passato, si sperimenteranno emozioni depressive già vissute.

Secondo questi studi però, è meno probabile che le persone cerchino di sfruttare volontariamente la funzione direttiva delle proprie memorie autobiografiche quando necessario (Pillemer, 2003). È molto più probabile che tale funzione direttiva si verifichi in maniera automatica e in gran parte al di fuori della nostra consapevolezza o volontà (Conway & Pleydell-Pearce, 2000).

 Il lavoro della psicoterapia, al contrario, starebbe proprio nello sfruttare le potenzialità della funzione direttiva dei ricordi per modulare le emozioni negative nel presente, attraverso un processo di rivalutazione e ricostruzione del proprio passato. Questo processo attivo durante la psicoterapia è stato denominato dalla letteratura con la nozione generica di Ristrutturazione Cognitiva. Attraverso l’apprendimento di nuove modalità di valutazione dell’esperienza attuale e futura, e sulla base dell’acquisizione di un approccio critico e di sintesi tra emotività e razionalità, l’individuo diventa capace di gestire i propri stati emotivi dolorosi (Sassaroli e Lorenzini, 2000).

Ma come mai la natura non ci ha fatto dono di una spontanea capacità di ristrutturarci cognitivamente in maniera autonoma? Come mai il cambiamento e il nostro benessere sono collegati e dipendenti dall’esclusiva possibilità di raccontare noi stessi  nell’intimità della relazione con un altro significativo? Come mai abbiamo, per far questo, necessità di condividere ed amare?

 

 

BIBLIOGRAFIA

Senzazioni tattili? Sempre mediate dalle nostre Credenze -Neuroscienze-

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI neuroscienziati del California Institute of Technology (Caltech), hanno scoperto che l’associazione tra l’elaborazione delle sensazioni tattili e le emozioni inizia nella regione cerebrale della corteccia somatosensoriale primaria, regione generalmente riconosciuta come deputata all’elaborazione delle caratteristiche fisiche degli stimoli tattili e non tanto della loro qualità emotiva.

I loro risultati sono pubblicati sul numero di questa settimana del journal Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).

Il gruppo di ricercatori ha coinvolto individui di genere maschile che si autodefinivano eterosessuali e li ha sottoposti a risonanza magnetica funzionale per rilevare le loro attivazioni cerebrali mentre ricevevano una carezza su una gamba, ma attenzione, a due condizioni diverse: in un primo caso venivano indotti a credere che a toccare la loro gamba fosse una donna (guardando il video di una donna attraente che si chinava per accarezzarli all’esterno della risonanza magnetica); in un secondo caso  guardavano il video di ragazzo mascolino fare la stessa cosa sviluppando quindi la credenza che chi li stesse toccando fosse un uomo. 

I soggetti erano di fatto all’oscuro che la carezza che di fatto ricevevano sulla gamba era la medesima in entrambe le condizioni, della stessa intensità e soprattutto sempre effettuata da una donna!

Ciò che quindi poteva creare una differenza in termini emotivi e di attivazione cerebrale era quindi la credenza di essere toccati da un uomo o da una donna.

Omofobia - Immagine: © jjayo - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Omofobia: paura del diverso o paura di se stessi?

Gli uomini che hanno partecipato allo studio hanno riferito come piacevole l’esperienza in cui credevano di essere stati toccati da una donna; viceversa hanno riportato uno stato emotivo negativo avversativo nel momento in cui credevano che fosse un uomo a toccarli.

Questa differenza in termini di valenza edonica dell’esperienza emotiva ha trovato un simmetrico aspetto differenziale nelle attivazioni cerebrali della corteccia somatosensoriale primaria.

Nello specifico la corteccia somatosensoriale primaria risultava maggiormente attiva se i soggetti credevano di essere toccati da una donna rispetto a quando ritenevano di essere accarezzati da un uomo.

Questa attivazione differente della corteccia somatosensoriale primaria segnala come tale area non sia solo responsabile dell’elaborazione di aspetti sensoriali fisici di base di uno stimolo ma è anche implicata in una elaborazione edonica emotiva delle esperienze tattili.

In altre parole, nemmeno le sensazioni tattili possono essere un esempio di elaborazione oggettiva di uno stimolo, ma la nostra percezione è  costantemente e pervasivamente modulata dalle nostre credenze.

Prossimi passi in termini di ricerca dovrebbero muoversi nella direzione di indagare lo stesso fenomeno anche nelle donne e in generale in individui omosessuali.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Mind Wandering: come si misurano i processi cognitivi?

 

MIND WANDERING: LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI SU STATE OF MIND

Come si misurano i processi cognitivi legati al wandering?. - Immagine: © auremar - Fotolia.comLa maggior parte degli studi volti ad approfondire i processi attentivi, si sono occupati di approfondire come e perché la mente si diriga verso stimoli esterni percepiti come “interessanti” per qualsivoglia motivo, mentre poche sono le ricerche che si sono occupate di come l’attenzione venga rapita e trascinata verso stimoli interni (“train of thoughts”) e scollegati dal contesto percepito in quel momento (mind wandering). Le neuroscienze negli ultimi 10 anni hanno cercato di scoprire cosa succede nella mente durante i periodi di riposo, o meglio di assenza di un preciso compito cognitivo, e dalla registrazione dell’attività del Default Mode Network sono emersi due dati principali:

  • più del 50% dei nostri pensieri coscienti sono indipendenti dagli stimoli esterni (noti anche come Stimulus Indipendent Thoughts, SIT); 
  • sia i pensieri generati dal “dialogo interiore” che l’attività neurale ad essi associata non sembra correlata agli stimoli esterni percepiti in quel dato momento.

Secondo le principali ricerche condotte sull’argomento, il mind wandering rifletterebbe l’attività di due processi cognitivi centrali:

  • la capacità di estraniarsi dagli stimoli esterni (perceptual decoupling) e 
  • l’abilità di essere consapevoli  dei propri pensieri  in corso (“meta-awareness”).

Un dato interessante emerso dagli studi sul perceptual decoupling è che gli eventi mentali (pensieri, immagini,..) che si innescano indipendentemente dagli stimoli esterni sembrano interferire con il processo di analisi delle informazioni sensoriali provenienti dal contesto in cui siamo, mentre la consapevolezza di essere estraniati dalla realtà (meta-awareness) e di vagabondare senza meta tra i nostri pensieri rimane apparentemente intatta, il più delle volte.

Ma quali sono i parametri più frequentemente utilizzati per misurare il mind wandering?

Meditazione e wandering: un’alternanza che ci rende più consapevoli. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com
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 “Mente distratta”: alcuni esperimenti (Smallwood, 2007) hanno dimostrato che durante l’attività di mind wandering, l’elaborazione degli stimoli esterni risulta deficitaria e carente, sia nei soggetti con una tendenza di base ad essere “assorti nei propri pensieri”, sia nei casi in cui il mind wandering viene indotto sperimentalmente. Il riconoscimento, l’identificazione e la memoria delle informazioni percettive cui vengono esposti i soggetti sperimentali durante il mind wandering, risultano significativamente deficitarie durante episodi di mind wandering.

Lettura e comprensione del testo: se è vero che l’attenzione appare dissociata dalle capacità percettive in presenza di SIT, allora la lettura e la comprensione di un testo potrebbero essere compromesse dalla presenza di questi pensieri; questa ipotesi è supportata dall’osservazione di una correlazione negativa tra episodi di mind wandering durante la lettura e accuratezza nella comprensione dei contenuti del testo. In particolare, sembra che la deficitaria comprensione sia legata al fatto che i SIT interferiscono con la capacità di immaginare un scenario della situazione raccontata, che sia sufficientemente dettagliato da permettere di fare deduzioni corrette rispetto alla narrazione che si sta leggendo. Insomma, si perde il filo durante la lettura di un racconto perché le incursioni improvvise dei nostri pensieri, non attinenti all’attività in corso, ci impediscono di creare e mantenere una cornice generale della storia che stiamo leggendo!

 

Self-report: nella maggior parte degli esperimenti, parallelamente ai compiti cognitivi e alle misure neuro cognitive, viene chiesto ai soggetti di segnalare la presenza di episodi di mind wandering ogni volta che accadono. E’ una misura soggettiva, ma utile da affiancare ad altri strumenti e interessante per verificare la consapevolezza o meno degli episodi di mind wandering.

 

MISURE NEUROCOGNITIVE:

Event Related Potentials (ERP): l’attenzione rivolta a stimoli esterni, aumenta in genere l’ampiezza delle risposte neurali evocate durante i compiti cognitivi somministrati, quindi la presenza di SIT dovrebbe ridurre l’ampiezza di questo potenziale. In un recente esperimento (Smallwood, 2008) ai partecipanti era richiesto di svolgere un semplice Go/No-go task  (basso carico cognitivo e maggiore capacità di generare SIT) durante il quale veniva loro chiesto, in modo intermittente, di svolgere compiti  cognitivi più complessi, in cui era invece necessario mantenere attenzione sostenuta nel tempo:  le ERP hanno mostrato un’ampiezza ridotta durante l’insorgenza di pensieri intrusivi provenienti dall’interno (SIT) rispetto ai momenti del compito in cui i soggetti erano concentrati sulle richieste a più alto carico cognitivo. Studi successivi, hanno evidenziato inoltre come la presenza di SIT sembra ridurre sia le risposte corticali (EPR) legate agli stimoli target che quelle legate ai distrattori utilizzati durante gli esperimenti, evidenziando come le deficitarie capacità attentive prodotte dal mind wandering siano legate allo spostamento dell’attenzione al servizio di un focus “interno” e consapevolmente orientato, ad esempio a  “mantenere il filo” dei propri pensieri, piuttosto che ad un mero processo di distrazione.

 

Spegnere il Cervello. La Meditazione per contrastare il Rimuginio. - Immagine: © hollymolly - Fotolia.com
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Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI):  l’area identificata come Default Mode Network (DMN), mostra una ridotta attività durante lo svolgimento di compiti a medio/alto carico cognitivo, mentre al contrario una maggiore attivazione del DMN sembra significativamente correlata ad una bassa performance in compiti che richiedono un’attenzione focalizzata sugli stimoli provenienti dall’esterno (Kim, 2011). Ulteriori prove del legame tra DMN e SIT vengono dagli studi che correlano l’attività rilevata durante l’fMRI con le misure di self-report richieste ai soggetti rispetto all’insorgenza di episodi di mind wandering, quando consapevole, durante la risonanza.

 

Movimenti oculari: recenti studi si sono occupati di quantificare il processo del mind wandering confrontando la registrazione dei movimenti oculari durante compiti di lettura e comprensione del testo, e durante episodi di mind wandering; questo metodo ha permesso di utilizzare una misura oggettiva e impossibile da controllare in modo volontario, dando la possibilità di osservare come cambiano i movimenti oculari in base al tipo di processo cognitivo in corso. In particolare vengono utilizzati il tempo di fissazione e il numero e l’ampiezza delle saccadi (Uzzaman, 2011) come indici su cui basare il confronto tra episodi di lettura normali e attività di mind wandering concomitante.

 

 

Nonostante il crescente numero di strumenti utilizzati dai ricercatori per intercettare e definire il vagabondare della mente, il mind wandering resta un’attività che sfugge il più delle volte al controllo consapevole, così come sfugge il suo ruolo nel funzionamento globale della nostra mente!

 

La frequenza e la diffusione di questa esperienza tuttavia, fa ipotizzare un legame importante tra questa attività di pensiero (apparentemente inutile e anzi dannosa per le nostre performance!) e la generale capacità dell’uomo di mantenere un stato di coscienza, un senso unitario di sé e un contatto con i propri pensieri…anche quando intorno regna il caos!

 

 

BIBLIOGRAFIA

                  

Mindfulness e Psicoterapia Cognitiva: il lato opaco dei cimbali #2.

 

– Leggi la prima parte dell’articolo – 

MINDFULNESS E PSICOTERAPIA COGNITIVA: IL LATO OPACO DEI CIMBALI #2. - Immagine: © EpicStockMedia - Fotolia.com

Prosegue oggi la disanima critica della Mindfulness a cura di Gabriele Caselli.  

6. Applicabilità ecologica: a causa del carico di lavoro richiesto negli approcci MBCT può risultare arduo applicarle con continuità se non in presenza di un forte coinvolgimento e convincimento nella pratica meditativa, a cui non sempre gli individui coinvolti possono essere attivamente interessati. E allora? L’unica alternativa è accontentarsi e far slittare gli obiettivi del percorso terapeutico o meglio optare per altri interventi? E soprattutto, quante persone applicano nella loro quotidianità gli esercizi previsti dall’intervento MBCT così come vengono richiesti?

 

7. Coping o non Coping: la mindfulness non è una strategia di gestione delle emozioni negative, né si tratta di un farmaco da usare al bisogno, ma un esperienza complessa che costituisce il substrato entro il quale far crescere quelle abilità di autoconsapevolezza che poi si proiettano sul miglioramento globale dell’individuo. Questo è chiaro nella teoria. Nella pratica emergono due aspetti delicati e controversi. Innanzitutto, come essere sicuri che non venga usata come strategia di coping e che i suoi effetti benefici non dipendano da questo eventuale utilizzo (che metterebbe in discussione alcune componenti dell’impianto teorico)? Secondariamente, questo principio di base appare in sé discordante con alcune pratiche interne all’MBCT (es: i tre minuti sul respiro) che vengono proprio consigliate come risposta a momenti di attivazione stressante e quindi come strategie di gestione del malessere emotivo.

 

Respirazione Mindfulness - © laurent hamels - Fotolia.com
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8. Una fine tecnica di distrazione: l’uso del respiro o di altri elementi corporei come ancoraggio (elemento da cui tornare gentilmente una volta notato ove ci conduce la mente) potrebbe anche diventare una forma raffinata della più semplice strategia di distrazione. Se così non è, allora occorre definire con maggior dettaglio in cosa si differenzia, non tanto a livello teorico-filosofico ma effettivamente a livello cognitivo e pragmatico. Se si tratta, come in effetti vorrebbe essere, di una strategia in grado di aumentare (1) consapevolezza e (2) flessibilità cognitiva, potrebbe aver senso insegnare varie modalità di rifocalizzazione attentiva e non solo quella che si orienta dal pensiero al corpo. In ogni caso occorre tracciare un disegno di ricerca che permetta di verificare il meccanismo di effetto.

 

9. Mettere i pensieri sulle foglie che cadono: il rapporto con i pensieri automatici descritto dagli approcci MBCT mostra altri punti delicati. Da un lato si sostiene la posizione contemplativa rispetto alla propria vita mentale. Dall’altro si mettono i pensieri su foglie che cadono. Certo questa è una metafora molto affascinante per rendere l’idea, ma quante persone pensano in parole scritte? Esistono ricerche in tal direzione? In effetti, il pensiero risulta più simile a immagini, a una piccola voce interiore oppure a un testo scritto? Ma se non pensiamo per testo scritto, allora prendere il pensiero, rileggerlo in parole, metterlo sulle foglie e farlo scorrere non è un’azione concreta e attiva sulla propria vita mentale? Allo stesso modo, quanto del ‘notare i pensieri, riconoscerli e tornare sul corpo’ può indurre una forma raffinata di controllo? Quanto invece potrebbe essere utile solcare consapevolmente il flusso di pensieri tipici dell’attività di mind wandering? Insomma, se siamo al telefono in casa, con la televisione accesa (nella metafora la nostra ruminazione), possiamo liberamente lasciarla andare nello sfondo della nostra percezione piuttosto che mettere l’apparecchio su una foglia e lasciarla scorrere fuori dalla finestra.

 

Mind Wandering. - Immagine: © auremar - Fotolia.com
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10. La mancanza di una concettualizzazione: un altro punto critico che accompagna approcci radicalisti è l’assenza di una concettualizzazione individualizzata (tutti i depressi sono uguali?) che invece caratterizza i percorsi cognitivi e cognitivo-comportamentali. Certo che esperti clinici possano integrare capacità di concettualizzazione con le tecniche MBCT, nasce un problema per i giovani terapeuti in formazione che potrebbero acquisire un protocollo in cui manca la capacità di accertare, concettualizzare e restituire (prima di tutto a sé stessi) un’adeguata e idiosincratica formulazione del caso e del percorso terapeutico.

 

11. La panacea e l’evitamento: ne consegue un altro rischio professionale, quello di considerare la mindfulness come una panacea o ancor peggio come una tecnica da replicare in modo uguale a prescindere dalle condizioni psicopatologiche. Sicuramente è più facile applicare una tecnica che ‘sporcarsi la testa’ con una concettualizzazione complessa o ‘sporcarsi il cuore’ con la molteplicità del dolore emotivo che certi pazienti ci portano. E quindi, volenti o nolenti, può essere accattivante per tutti l’ipotesi di risolverla sempre in mindfulness. Qualcuno potrebbe obiettare che entriamo nel campo delle responsabilità personali. Vero, ma in parte. E se la perplessità ha un senso logico, la ricerca in formazione dell’MBCT dovrebbe valutare l’impatto di un simile rischio e approntare adeguati interventi formativi per fronteggiarla, per quanto ciò forse implichi uscire forse dal radicalismo.

 

12. Tutti Zen?:  Infine, ultimo punto che vale la pena toccare. Un rischio implicito del radicalismo mindfulness sta nel condire il ‘saper essere’ con una filosofia di approccio alla vita che implica anche scelte personali che alcuni individui potrebbero anche non sentire proprie. È possibile che una persona scelga consapevolmente di godersi una modalità del fare ‘sana’ dove non è presente a sé stesso momento dopo momento? Penso all’esperienza che viene descritta con il concetto di ‘flow’ che è ‘ottimale’, ‘soddisfacente’ e che è caratterizzata tra le altre cose da assenza di percezione del tempo e da scarsa autoconsapevolezza. Insomma, bene la riscoperta dei valori orientali, ma che si confronti con l’idea di una psicoterapia come percorso verso il libero arbitrio, o perlomeno un condizionato arbitrio dipendente oltre che dal saper essere anche dal sapere (risorse, doti, limiti, scopi) e dal piacere di saper fare.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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