Nel disputing, è bene ripeterlo, mettiamo in discussione tutto ciò che pensiamo o facciamo in automatico. In questo modo possiamo diventare più consapevoli di tutte le valutazioni negative che effettuiamo dandone per garantito il valore di verità: che non sopportiamo l’abbaiare improvviso dei cani celati dietro le siepi, che non siamo capaci di colloquiare anche solo per pochi minuti con persone che non ci piacciono, che non possiamo accettare che i nostri passati amori continuino ad avere una vita propria al di fuori del nostro possesso. E così via.
Come già scritto altrove, per ottenere questo il terapeuta effettua semplici domande, tutte in fondo riconducibili a una sola domanda madre: “cosa non le va in questo?”.
Ma questa domanda va adattata a diversi contesti. Nella sua formulazione originale, la domanda è particolarmente adatta a mettere in discussione l’ansia, la paura e i suoi aspetti cognitivi. In fondo si tratta di chiedere al paziente:
- “Cosa teme?”
- “Cosa c’è in questo che ci genera paura o ansia?”
- “Quale pericolo corriamo?”
E così via. Le cose possono però complicarsi quando per esempio il paziente ha i suoi piani di gestione personali della paura. Piani evidentemente insufficienti se il paziente è venuto in terapia.
In questo caso non si tratta di valutare cosa ci sia di distorto in una valutazione cognitiva di una situazione, ma cosa ci sia di distorto in un piano di gestione patologico. È il caso soprattutto dei controlli compulsivi del disturbo ossessivo, ma anche degli evitamenti. In questo caso, si potrebbe chiedere:
- “Perché fa questo?”
- “A che le serve reagire così?”
- “Qual è il suo obiettivo?”
Questa formulazione in positivo potrebbe essere insufficiente. Il paziente ossessivo (non diversamente in questo dall’ansioso) agisce in vista di un evitamento di un danno e non di un ottenimento di un obiettivo. Conseguentemente, non fa le cose per un “perché” ma per un “affinché non”.
Questo può determinare un ‘impasse, una situazione in cui il paziente risponde:
- “Non so perché lo faccio. È più forte di me”
In realtà non c’è un “perché” bensì un “affinché non” che rimane nascosto a causa della formulazione in positivo. Che fare, allora?
Riformuliamo la domanda in negativo:
- “Cosa potrebbe accadere se lei non facesse questo?”
Possiamo utilizzare l’ABC per facilitare l’operazione terapeutica. Un ABC immaginario o virtuale, in cui la situazione è la non adesione del paziente al suo piano di gestione compulsivo.
Per esempio, un ABC in cui l’A è “mi astengo dal controllare che tutti i rubinetti siano chiusi”. In questo modo l’ABC finisce per generare una guided imagery, integrando stile terapeutico cognitivo ed esperienziale.
- Terapeuta: “Cosa accadrebbe se non controllasse i rubinetti?”
- Paziente: “La pagherei. Potrebbe accadere qualcosa di brutto”
Ribaltando l’ABC riusciamo quindi a tornare alla situazione standard di uno scenario negativo temuto. Arrivati li, possiamo tornare sul binario consueto.
Questa tecnica, sebbene centrata sull’ABC, la si può trovare anche in testi di scuola cognitiva beckiana. La tecnica di valutare lo scenario peggiore (“worst-case scenario”) è analoga a questo ABC rovesciato, e inoltre è più ampia e meno specifica per il caso determinato della rinuncia al controllo (Clark, Beck, 2010, pag. 209). L’applicazione specifica per il controllo ossessivo, molto simile all’intervento descritto qui, si trova nel libro di Clark (2004) sull’ossessività.
BIBLIOGRAFIA:
- Clark, D. A., Beck, A. T. (2010). Cognitive Therapy of Anxiety Disorders. Science and Practice. New York: Guilford Press.
- Clark, D. A. (2004). Cognitive-Behavior Therapy for OCD. New York: Guilford Press.