Il trattamento cognitivo dei disturbi d’ ansia avviene adattando il modello generale del disputing cognitivo agli specifici tipi di pensiero negativo di ogni singolo disturbo d’ ansia. Il che vuol dire che le varie diagnosi di ansia che possiamo trovare nel DSM-IV corrispondono ognuna a diverse varietà di timori, di paure, di eventi temuti e di convinzioni su come potrebbero verificarsi gli eventi tenuti e su come fronteggiarli.
L’ ansia, ripetiamolo, è una previsione negativa, la preoccupazione riguardo la possibilità che eventi dolorosi o dannosi possano accadere. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, il terapeuta cognitivo agisce a vari livelli. Egli chiede al paziente cosa esattamente teme e di quali eventi ha paura. Poi si accerta in maniera più dettagliata come e quando potrebbero verificarsi questi eventi.
Chiede poi al paziente di riflettere introno alla reale probabilità che questi eventi si verifichino e alla gravità di questi eventi, ai danni reali che questi eventi potrebbero arrecare. Questa è la parte di disputing più legata alla realtà esterna, a eventi concreti più o meno dannosi. Si tratta di incrementare l’esame di realtà del paziente.
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Lavorando su questi parametri, è possibile sdrammatizzare molte delle disgrazie e delle sciagure temute dal paziente. Si può riflettere, ad esempio, su come un certo evento calamitoso non sia così probabile, o addirittura è molto improbabile. Si può riflettere sul concorso di circostanze che rendono l’evento possibile o pericoloso, e su quanto questo concorso sia probabile.
Il passo successivo è riflettere sul perché, secondo il paziente, questi eventi temuti potrebbero verificarsi e sul perché essi sarebbero così dolorosi o catastrofici. Si tratta di un passo avanti verso l’interiorità, anche se non si può definire ancora un passo definitivo.
Scopriremo, quindi, che per il paziente l’evento è pericoloso non solo in sé, come evento dannoso, ma soprattutto perché egli se ne ritiene responsabile. O perché egli ritiene che dipenda da una sua imperfezione, da un suo errore. O anche perché ritiene che, sebbene la probabilità dell’evento sia bassa, per lui o lei è tuttavia intollerabile la sua semplice possibilità, il fatto che possa avvenire.
Infine, il paziente potrà riferire che, sebbene egli/ella si renda conto che l’evento in sé non è poi così materialmente dannoso tuttavia per lui/lei è comunque soggettivamente troppo sgradevole sopportare quell’evento. Pensiamo per esempio a certe situazioni lievemente imbarazzanti, ma temutissime da alcuni.
Si tratta di valutare e considerare le convinzioni del paziente che fanno sì che un certo evento sia temuto non per il suo valore di danno materiale ma come evento soggettivamente sgradevole.
Valutando queste convinzioni si attraversa una regione intermedia tra mondo esterno e mondo interiore. Eppure anche le reazioni interiori possono essere sottoposte a critica. Anzi, si tratta di un passaggio fondamentale, in un certo senso il vero inizio della terapia. In questo caso non si tratta più di riflettere su quel che potrebbe accadere, ma su come il paziente interpreta quel che potrebbe accadere.
Il tragitto, in genere, si conclude sugli stati interiori del paziente e sulla loro descrizione, con il fine di valutare il reale livello di sofferenza del paziente, la possibilità di ripensare questi stati d’animo in misura meno minacciosa e terrificante.
Insomma si tratta di promuovere la convinzione di poter tollerare gli stati di sofferenza emotiva, oltre a diminuirne la portata ristrutturandoli.
Storie di terapie #12 – La Gelosia della Bella Caterina
STORIE DI TERAPIE
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
Caterina è una di quelle pazienti che si mantengono in pericoloso equilibrio sul filo sospeso tra simpatia e seduzione e che pongono particolari problemi al terapeuta. Consapevole della sua bellezza di ventinovenne, Caterina mostra con fierezza i suoi capelli tendenti al rosso ma ancora nel range del castano scuro e la sua corporatura alta e atletica da prolungata pratica sportiva, da ragazzona sana, robusta e slanciata.
Perfino il fatto che sia quasi specializzata in psicoterapia, sebbene in una parrocchia rivale, rende interessante e culturalmente stimolante (ma a volte seduttivamente interessante) il lavoro con lei. Tutto questo fa scattare un campanello d’allarme. Caterina ha modi naturalmente seduttivi, purtroppo a motivo della sua sofferta vicenda esistenziale.
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La sua seduttività si esprime, in parte, attraverso la sua consapevole gestione del corpo, che viene con pudica malizia esibito e rapidamente nascosto e, in parte molto maggiore, attraverso il linguaggio: pur mantenendosi in un contesto formalmente irreprensibile e consono al lavoro psicoterapeutico, stuzzica il terapeuta.
Nel descrivere minuziosamente le sensazioni orgasmiche o gli indicatori che utilizza per decidere il momento giusto per lasciar entrare il partner nel suo corpo, si compiace evidentemente della reazione che pensa di suscitare nell’interlocutore. Allo stesso modo quando si dilunga nelle fantasiose tecniche autoerotiche che ha messo a punto con sorprendente creatività e nelle fantasie che le accompagnano.
Tutto questo ha un significato ben preciso, e prima di proseguire ci tengo a dire che in questi casi noi terapeuti ci troviamo davanti a un problema tecnico e relazionale. Dobbiamo raccogliere tutte le informazioni necessarie seguendo però solo fino a un certo punto l’invito scopertamente erotico dei pazienti. Laddove i dati raccolti siano sufficienti, è bene segnalare al paziente che il patto terapeutico impone che si lavori cercando il significato psicologico e cognitivo di ogni cosa, senza abbandonarsi a una conversazione ambiguamente piacevole. E questo non è moralismo (o forse lo è, ma di quello che sa di bucato) ma semplice professionalità.
Perché la paziente erotizza il discorso? Non è necessario essere psicoanalisti per intuire che ci sono delle ragioni. E da cognitivista aggiungo: ragioni non inconscie, anzi pienamente coscienti, che dopo un po’ occupano la scena. E infatti il problema di Caterina si rivela essere un problema affettivo ed erotico.
La richiesta d’aiuto di Caterina è relativa ad un’ incontrollabile gelosia che, a tratti, assume aspetto delirante e che la fa soffrire, divenendo per di più causa di autosvalutazione: non ha motivo di credere che Paolo, il suo attuale ragazzo, la tradisca, ma ci pensa costantemente.
Per rassicurarsi ha imposto a Paolo una serie di divieti assoluti, non può uscire neppure con amici maschi perché la possibilità di incontrare una donna è sempre presente e lo chiama per telefono ogni pochi minuti, interrogandolo su cosa stia facendo per cogliere contraddizioni e imbarazzi. Il controllo ha degli aspetti francamente vessatori e quasi sadici. Se, in sua presenza, Paolo guarda qualcun’altra o si allontana con un amico, ne segue una furibonda litigata in cui lei alza violentemente le mani su di lui, procurandogli vere e proprie lesioni. La ragazza dice che, in quei momenti, non ha il controllo di sé.
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Di contro Caterina tradisce Paolo sistematicamente con due “trombamici” di vecchia data, Alfonso e Francesco. Non si lascia sfuggire nessuna occasione con chicchessia che, anche considerato il suo bell’aspetto, hanno una frequenza serrata.
Un ulteriore problema che potrebbe mettere a rischio il lavoro con Caterina è l’attivazione del mio sistema di accudimento che, immancabilmente, si riaffaccia quando mi trovo di fronte a persone con una storia difficile di trascuratezze e maltrattamenti; mi immagino immediatamente nel ruolo di colui che risarcisce. In questi casi invece occorre mantenersi su una posizione di cooperazione rispettosa. La terapia non è accudimento.
Caterina è la secondogenita di una famiglia dell’entroterra pugliese, il padre Nicola, violento e alcolista, la madre Assunta, casalinga e sottomessa. Il clichè sarebbe quasi banale se non fosse che la madre, stanca dei continui maltrattamenti del marito, aveva iniziato a tradirlo, concedendosi a tutti gli uomini che, per un motivo o per un altro, entravano in casa. Caterina l’aveva sorpresa a letto con un cognato molto più giovane e un’altra volta con l’amministratore del condominio, un vecchio ragioniere con un gozzo che lo rendeva, agli occhi della piccola Caterina, mostruoso come gli orchi delle favole. Questo era il segreto che la figlia condivideva con la madre e che escludeva il padre.
La madre, a sua volta, era esclusa dalla vicenda che accadeva sotto i suoi occhi: Nicola, lamentandosi con la figlia delle disattenzioni della moglie, ne richiedeva costantemente l’affetto in forme via via sempre più inappropriate con l’aumentare dell’età di Caterina.
La verginità la perse a dieci anni durante un riposino pomeridiano in un rovente meriggio estivo nel letto matrimoniale dove il padre l’aveva condotta mentre Assunta finiva di lavare i piatti: quando il suo grosso dito da contadino si fece strada oltre l’imene, lei ebbe il suo primo memorabile orgasmo.
Caterina diceva di essere cresciuta nel tradimento e che questo era il motivo della sua assillante gelosia. La madre tradiva il padre, lei tradiva il padre tenendo il gioco della madre, il padre tradiva la madre con altre donne e con lei, la madre tradiva lei fingendo di non accorgersi dell’incesto e, in qualche modo, dandola in offerta al Minotauro per essere lasciata libera.
I rapporti sessuali con il padre proseguirono per cinque anni ed, evitando sempre la penetrazioni, esplorarono tutte le innumerevoli possibilità orgasmiche alternative. Intorno alla questione vorticavano emozioni, diverse ma accomunate dalla forte intensità e, pur imbarazzata nell’ammetterlo, l’emozione più importante era il piacere. Caterina godeva intensamente nei rapporti ravvicinati con il padre e si presentava spontaneamente agli appuntamenti che implicitamente si scambiavano, non c’era mai stata una effettiva violenza fisica. Il piacere era difficilmente distinguibile da un sottile senso di disgusto che accompagnava alcune delle pratiche perverse che avevano messo a punto. Il senso di colpa ricordava con esattezza di averlo perduto dopo i primi rapporti, si era trasformato in un senso di vergogna ed in un rossore al volto che emergeva quando le compagne parlavano delle loro prime esperienze sessuali.
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Con l’adolescenza i rapporti con il padre divennero burrascosi, Nicola giocava il ruolo del padre padrone violento e geloso e Caterina il ruolo della figlia ribelle, contestatrice e rivoluzionaria. Era l’unica a fronteggiarlo nelle violente litigate familiari perché sapeva di averlo in pugno con il possibile ricatto di rivelare la faccenda. In realtà, in cuor suo, sapeva quanto il suo potere fosse fittizio; era certa, infatti, che nessuno, ad iniziare dalla madre, le avrebbe creduto e l’avrebbero fatta passare per una povera matta perversa. In realtà, ognuno credeva di avere in mano un’arma di ricatto nei confronti di un altro componente della famiglia.
Tutto ciò ebbe due conseguenze: da un lato si mantenne, con questo segreto, un’intimità tra i due da cui tutti erano esclusi, dall’altro spostò il terreno di incontro e confronto del padre e della figlia dal sistema sessuale a quello agonistico e, nella mente di Caterina, i due sistemi si saldarono intimamente.
Due le conseguenze disfunzionali.
Caterina non tollerava ruoli di subordinazione che le provocavano una vera e propria angoscia di abuso, ad esempio, non riusciva a mantenere nessun lavoro come dipendente e persino gli appuntamenti che prendeva con me doveva spostarli almeno una volta, perché altrimenti sentiva di essere assoggettata alla mia volontà, sebbene fosse stata lei a stabilirli.
Anche con Paolo il suo controllo, apparente motivato dalla gelosia, appariva piuttosto una continua battaglia per stabilire chi dettasse le regole e, dunque, chi comandasse.
Contemporaneamente, l’interesse sessuale era strettamente associato alla sensazione di essere sottomessa ad un’ autorità più forte di lei. Era dunque dentro una situazione paradossale: per paura di essere sottomessa e violentata doveva sopraffare il partner, ma quando egli era a sua totale disposizione, come capitava molte volte con Paolo, che era di quattro anni più giovane di lei, perdeva ogni interesse sessuale.
Quando lui gli garantiva, a parole e fatti, un affetto sincero, esclusivo e duraturo nel tempo si spaventava, forse per il timore di affidarsi ed essere nuovamente tradita dopo aver abbassato la guardia. Così, smetteva i panni della giovane e raffinata professionista della psiche fidanzata felicemente con il giovane e riservato ingegnere e dava via libera alla seconda Caterina. Tanto mi era difficile dar credito ai suoi racconti che, per convincermi, e forse anche con inconsapevole intento seduttivo, mi mostrò delle foto sul display del telefonino. Tacco dodici, minigonna arancione giro pubica da cui occhieggiava tanga nero aggrappato alle due creste iliache, trucco violaceo da film sui vampiri, così conciata e con l’aiuto di un paio di vodka si lanciava nella movida romana.
Diceva di non ricordarsi quasi nulla quando si risvegliava al mattino in letti sconosciuti, senza memoria per il partner di turno. Talvolta ricordava, a sprazzi, che la sera precedente aveva temuto di essere violentata e uccisa tanto grevi, aggressivi e coatti erano coloro che le giravano intorno. La mattina al risveglio, passata la paura, provava il conosciuto disgusto che si trasformava lentamente in eccitazione e che si placava soltanto masturbandosi ripetutamente con fantasie in cui il padre, con un cenno impercettibile, la invitava o le ordinava di andare, su questo non sapeva decidersi, nella stanza matrimoniale.
Caterina aveva nel cuore un’altra pena: suo fratello Sante, mingherlino e quasi femminile nei modi, di due anni più grande, aveva iniziato a mostrare stranezze all’età di quindici anni.Passava le ore in bagno a lavarsi le mani, sentiva ossessivamentedovunque odore di escrementi e frequentava un solo amico di nome Ricky, robusto e spavaldo al contrario di lui, che aveva però una caratteristica singolare, era invisibile a tutti tranne che a Sante. Facevano tutto insieme, fino al giorno in cui Ricky, durante un’ esplorazione in una cava di tufo abbandonata alla periferia del paese, ebbe un incidente: in un passaggio pericoloso, la mano di Sante non riuscì a sostenerlo, cadde di sotto e morì sul colpo. Ai solenni funerali, il giorno seguente, c’era soltanto Sante perché nessun altro lo aveva mai visto.
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Forse fu per il senso di colpa, sta di fatto che Sante precipitò in un grave esaurimento nervoso e, due mesi dopo, fu ricoverato in un clinica psichiatrica. Da allora sono passati sedici anni e Sante è migrato attraverso cliniche più o meno convenzionate, Centri di Salute Mentale e persino qualche specialista privato pagato da Caterina, per approdare definitivamente al circuito delle Comunità Terapeutiche.
Caterina è sempre stata convinta che il fratello abbia subito ancor prima di lei gli abusi paterni e che la madre ne sia a conoscenza. Ricorda con rabbia l’aria omertosa con cui un giorno Assunta lavava frettolosamente al pozzo le mutande sporche di sangue del fratello.
Anche questo non perdonava alla madre e al padre, che riteneva parimenti colpevoli, se non proprio complici.
Credo che gran parte del successo di questa psicoterapia sia dovuto al superamento dei test di seduttività cui Caterina mi sottopose inizialmente. Per motivi che esulano da questa storia e, dunque, tralascio per non appesantirla non sono affatto sensibile agli approcci delle pazienti, non trovo gratificante il loro innamorarsi di me e dunque non scatta in me il sentimento reciproco.
Certamente rappresentavo ai suoi occhi una figura autorevole, per cui si aspettava da un lato che cedessi alle sue manipolazioni, dall’altro che la dominassi: non accadde né l’una né l’altra cosa. La partita del “chi comanda qui” era regolarmente proposta, io mi limitavo a mostrare il mio disinteresse per la gara, a svelare il suo schema ripetitivo e a riproporre un patto di collaborazione paritario. Lei proponeva un linguaggio di guerra o di sesso o di entrambi contemporaneamente, io rispondevo con solidarietà, parità e accudimento. Fedele all’ammonimento degli anni giovanili “compagni non rispondete alle provocazioni!” non mi ingaggiavo nei suoi vecchi giochi, ma non indietreggiavo di un passo; nonostante tutto rimanevo lì con lei. Mi modellavo sull’immagine interna di un nonno buono e saggio che abbraccia la nipotina picchiata dai genitori, che morde tutti per difendersi.
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Il lavoro terapeutico è consistito sostanzialmente nel renderla consapevole della ridondanza e pervasività con cui usava gli schemi agonistici e seduttivi per gestire i rapporti con gli altri e nel ricostruire gli stessi eventi con significati alternativi quali ad esempio quelli della cooperazione tra pari, dell’accudimento e dell’attaccamento.
Un indicatore del miglioramento raggiunto non fu tanto la scomparsa delle crisi di gelosia che costituivano l’oggetto della richiesta iniziale, quanto piuttosto l’avvio di una convivenza con Paolo e il desiderio espresso di una maternità, fino ad allora tanto temuta poichè percepita come un legame definitivo, dunque costrittivo e intollerabile e un compito per cui si riteneva incapace. Di pari passo concluse il suo itinerario formativo superando la paura di riconoscersi adulta. Fui io ad inviargli i primi pazienti.
Secondo un nuovo studio condotto da un team di scienziati della University of South Florida (USF), del National Institutes of Health (NIH), della Columbia University e del New York State Psychiatric Institute, esisterebbe un gene in parte responsabile della felicità femminile, la cui esistenza spiegherebbe perchè le donne sono spesso più felici degli uomini.
Si tratta del gene che codifica le MAO-A. Data la loro azione fondamentale a livello del sistema nervoso centrale, le alterazioni nei valori delle monoaminossidasi sono associate a vari disturbi psichiatrici, tra cui la depressione; gli inibitori delle monoaminossidasi (I-MAO) infatti sono una categoria di farmaciutilizzati per aumentare la quantità di monoammine (tra questi la serotonina, che ha un effetto antidepressivo).
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I ricercatori hanno analizzato un campione di 345 persone, uomini e donne, e hanno scoperto che le donne con il tipo di gene a bassa espressione di MAO-A erano significativamente più felici delle altre; inoltre avere due copie di questo tipo di gene ha determinato un ulteriore aumento del punteggio nella scala di auto-valutazione della felicità.
Negli uomini, invece, avere o non avere il gene MAO-A a bassa espressione non fa nessuna differenza in termini di felicità.Come spiegare la differenza tra i sessi?
I ricercatori hanno il sospetto che la differenza possa essere in parte spiegata dal testosterone,che si trova in quantità minori nelle donne che negli uomini. Chen e i suoi co-autori suggeriscono che il testosterone può annullare l’effetto positivo del gene MAO-A sulla felicità negli uomini.
“Forse gli uomini sono più felici prima dell’adolescenza perché i loro livelli di testosterone sono più bassi” dice Chen, cioè il beneficio potenziale della MAO-A negli adolescenti potrebbe svanire con la pubertà, quando i livelli di testosterone aumentano.
Sono necessarie ulteriori ricerche per identificare in modo specifico quali geni influenzano fattori come la resilienza e il benessere soggettivo; infatti è probabile che sia un insieme di geni, congiuntamente alle esperienze di vita, a modellare i nostri livelli di felicità individuale.
BIBLIOGRAFIA:
Chen, H., Pine, D.S.,Ernst, M., Gorodetsky, E., Kasen,S., Gordon, K., Goldman, D., Cohen, P. (2012) The MAOA gene predicts happiness in women; Progress in Neuro-Psychopharmacology & Biological Psychiatry, online in advance of print Aug. 4, 2012.
EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti
EABCT 2012 – Meet the Expert – Gianni Liotti: TREATING POST-TRAUMATIC COMPLEX CASES: ATTACHMENT THEORY, CLINICAL AND RESEARCH CONTRIBUTION
Gianni Liotti @ EABCT 2012
Meet the Expert – Giovanni Liotti: “The relevance of attachment theory and research for the understanding and treatment of adult disorders related to childhood cumulative trauma”.
Venerdì a Ginevra si è tenuto un “Meet the Expert” molto importante: Giovanni Liotti discute l’importanza della Teoria dell’Attaccamento per la comprensione e il trattamento di disturbi in età adulta correlati a traumi cumulativi nell’infanzia.
Quando la Room 4 del Centre International de Conférences Genève si riempie, Lucio Bizzini, organizzatore del Congresso introduce l’intervento di Liotti. Dopo una breve presentazione dei lavori di Liotti, inizia il Meet the Expert.
Nonostante i temi da trattare siano tanti e complessi e il tempo a disposizione poco più di un’ora, Liotti mostra in grandi linee i concetti del suo modello dell’Attaccamento Disorganizzato e dei Traumi Complessi.
Il concetto centrale è quello di complex trauma, core del problema clinico. A seguito di traumi complessi e prolungati durante l’infanzia, secondo il modello brillantemente presentato da Liotti, i pazienti sviluppano uno stile interpersonale traumatico e caotico, una incoerenza nel discorso e un caratteristico shift tra diverse rappresentazioni di sé e degli altri.
L’importanza del tema trattato da Liotti è subito chiaro: secondo i dati citati, un paziente con diagnosi psichiatrica su tre proviene da una storia personale traumatica. Pensiamo a pazienti che, a seguito di sviluppi traumatici, sviluppano un Disturbo Borderline di Personalità e/o un Disturbo Dissociativo oltre a presentare memorie traumatiche e dissociate.
Liotti fa notare nel suo intervento come la diagnosi PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder) presente nella nosografia del DSM-IV-TR non sia utile per rilevare né per comprendere i complex trauma. Infatti, le caratteristiche dei pazienti che hanno subito in infanzia continue e ripetute esperienze traumatiche intra-familiari (come ad esempio eventi legati a genitori che “abdicano” al loro ruolo di caregivers) presentano caratteristiche psicopatologiche chiare e ben distinte dal PTSD semplice: impotenza, rappresentazioni di sé legate a impotenza e debolezza.
In particolare, si parla di “loss of confidence of other people”, nato da esperienza gravemente disfunzionali durante l’infanzia. Questo è un altro aspetto centrale del “Meet the Expert” di Liotti: la “loss” di cui si parla rappresenta una costante e profonda paura di relazionarsi con le persone, in particolare con quelle significative e quindi anche il proprio terapeuta (che ha saputo instaurare una buona alleanza terapeutica con il paziente).
Per comprendere meglio la sofferenza portate da questi pazienti, pensiamo al circolo vizioso doloroso che si crea nel momento in cui una persona che ha avuto una storia di sviluppo traumatica si trova in una situazione relazionale in cui prova due emozioni ben distinte e contraddittorie: ha una intensa paura dell’altro, da cui desidera anche cura e protezione.
A seguito di questi concetti chiave, il discorso vira in modo naturale all’importanza della relazione terapeutica con i pazienti con storie di sviluppo traumatiche. Il primo aspetto su cui noi terapeuti dobbiamo porre la nostra attenzione clinica è costruire un’alleanza “sufficientemente buona” con il paziente. Non solo, è di fondamentale importanza trovarsi pronti per gestire in modo adeguato le rotture (anche situazioni e momentanee) dell’alleanza terapeutica, frequenti con questi pazienti.
Considerato il circolo vizioso citato precedentemente (semplificando, “io ho paura della stessa persona da cui desidero cure e protezione”) risulta chiaro (e Liotti di questo discute e chiarifica in modo netto) che il tema della relazione terapeutica assuma un significato centrale. Prima di lavorare con i paziente con traumi complessi, è necessario che il Sistema di Attaccamento sia attivo, ma se il paziente teme ciò che rappresenta il tema centrale del sistema di attaccamento, ovvero la “closeness” (la vicinanza), questo si insinua nella relazione con il paziente e rappresenta un problema primario e fondamentale (“he/she fears his/her own wish of closeness”).
Il tempo dell’intervento di Liotti è poco ma l’importanza e la portata del tema trattato sono evidenti. Il resto del “Meet di Expert” si concentra su una breve introduzione del modello di Liotti (descritto nel recente lavoro dello stesso insieme a Benedetto Farina, “Sviluppi Traumatici, recensito da State of Mind) e per un accenno alle neuroscience.
L’interesse dell’uditorio è evidente e resta solo il tempo per conciliare il discorso e integrarlo con le Neuroscienze, molto presenti in questi giorni di EABCT. Viene infatti presentato un recente lavoro di Farina (2012, in pubblicazione) in cui viene svolto un esperimento con uno strumento di misura della EEG cohenrece, ovvero uno strumento che misura la connettività corticale delle rete neurali. In breve, ai soggetti viene somministrata la AAI (Adult Attachment Interview) e, dopo pochi minuti dalla conclusione, viene misurata la connettività delle reti cerebrali.
Come è noto, la AAI è un’intervista costruita al fine di sollecitare nel paziente memorie e riflessioni legate alla propria storia di attaccamento. Ci si aspetta, quindi, una risposta coerente delle reti neurali coinvolte con le emozioni e i pensieri. I dati mostrati da Liotti sono davvero interessanti: le persone codificate con un attaccamento disorganizzato, a differenza di tutti gli altri pattern di attaccamento mostrano una connettività cerebrale assente, sembra dai dati che le persone con attaccamento disorganizzato non riescano a riflettere sulla propria storia di attaccamento.
Le parole di Liotti sono: “impairment of the higher-order of integrative mental functions during the interview” (“danneggiamento delle funzioni mentali integrative di ordine superiore”).
Questo dato fa riflettere, e apre la strada a nuovi filoni di ricerca e di applicazioni cliniche, in cui psicoterapia e neuroscienze si incontrano. E prima ancora, le riflessioni di Liotti nel suo “Meet the Expert” ci aiutano a mantenere nella nostra mente da clinici un tema centrale:
Quando ci troviamo di fronte a pazienti che provengono da una storia traumatica (se pensiamo che, secondo quanto sottolineato da Liotti, sono uno su tre…) e che hanno sviluppato un attaccamento disorganizzato, è fondamentale tenere a mente che, i pazienti che hanno sviluppano un attaccamento disorganizzato mostrano:
incoherence of discourse, memory and thoughts concerning attachment
difficulties in emotional regulation
poor metacognitive monitoring
Credo che questa frase di Liotti riesca a riassumere brillantemente il senso profondo del suo “Meet the Expert”: “con un paziente con attaccamento disorganizzato, cerchiamo di ragionare con lui, farlo connetterete con le proprie esperienze dolorose. Il problema è che lui/lei non può farlo (…), in quel momento il paziente non riesce a riflettere sulle proprie memorie traumatiche. Bisogna, quindi, privilegiare l’alleanza terapeutica, condividere gli obiettivi e monitorare continuamente l’attivazione dell’attaccamento del paziente nei confronti del terapeuta” (traduzione libera dell’autore, NdA).
Il Meet the Expert si conclude con un lungo applauso dai partecipanti pieno di stima da parte di tanti e di curiosità per i pochi che non conoscevano Giovanni Liotti.
Un piccola nota a margine: per il gruppo di ricerca italiano presente a Ginevra, un “Meet the Expert” tutto italiano, svolto dal nostro Past-President SITCC e decano del cognitivismo made in Italy ci ha riempiti di orgoglio, in un mondo come quello dell’EABCT in cui il “british-american scenario” rimane dominante.
Liotti, G. (2012). TREATING POST-TRAUMATIC COMPLEX CASES: ATTACHMENT THEORY, CLINICAL AND RESEARCH CONTRIBUTION. Meet the Expert 7. EABCT Congress, Genève.
EABCT 2012 – Non solo Mindfulness: la Keynote di Tom Borkovec
EABCT 2012 – KEYNOTE 2: Tom Borkovec – WHAT WILL CBT LOOK LIKE IN THIRTY YEARS?
Dopo la sottile promozione della mindfulness operata da Segal, arriva il discorso più ecumenico di Tom Borkovec nella sua keynote: “What will CBT look like in thirty years?”.
Come sarà la terapia cognitiva e comportamentale tra trent’anni? Tre sono gli elementi nuovi che si svilupperanno cambiando l’aspetto del paradigma del cognitivismo clinico: l’attenzione ai processi cognitivi, il legame con le neuroscienze e la componente interpersonale. Tuttavia, e Borkovec ci tiene a dirlo, rimarrà anche l’elemento più tipicamente cognitivo dei contenuti distorti.
Il tema dei processi cognitivi è ormai dominante da circa un decennio. Probabilmente è il tipo di svolta più naturale per riuscire a rimanere nell’ortodossia cognitiva quando si iniziò a capire che l’esplorazione dei contenuti di pensiero distorti si stava esaurendo.
L’ultima pepita trovata in quella vena fu l’intolleranza dell’incertezza di Dugas. Dopo la quale non sono più saltate fuori nuove credenze cognitive distorte. E allora si è pensato, giustamente, si dare più attenzione ai processi:l’attenzione, la memoria e i processi interpretativi. Non che si trattasse di una totale novità. Già Beck, accanto alla triade cognitiva, aveva individuato una serie di processi disfunzionali: labeling, fortune-telling, overgeneralization, jumping to conclusion, e così via.
La vera novità della maggiore attenzione ai processi piuttosto che ai contenuti è stata un cambiamento di tecnica. Beck conosceva i processi, ma li trattava in terapia come le credenze distorte: accertandoli, un po’ disputandoli e poi ristrutturandoli.
Invece i nuovi teorici dell’importanza dei processi cognitivi hanno perfezionato nuovi protocolli terapeutici in cui il trattamento consisteva in esercizi di addestramento che direttamente andavano a modificare le abitudini mentali dei pazienti: il modo di dirigere l’attenzione sugli stimoli negativi o di trattare i propri ricordi.
E sopra questo nuovo piano terapeutico è andata a piazzarsi la mindfulness, che si propone come l’operazione clinica regina delle nuove tecniche addestrative, la corona che finisce per caratterizzare le nuove terapie.
Articolo consigliato: Segal all’EABCT: è la Mindfulness il nuovo Paradigma Cognitivo? -- Nella foto da sinistra: Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero, Tom Borkovec
Borkovec, però, non è Segal e, pur citando la mindfulness, non le conferisce questo carattere onniesplicativo. Usa anche altri termini e altre parole. Parla di riaddestramento attentivo, di rieducazione mentale e così via. Insomma, Borkovec ridimensiona la mindfulness da nuovo paradigma a strumento tra gli strumenti a disposizione del terapeuta.
Se i processi ricollegano il cognitivismo clinico al comportamentismo, l’aspetto interpersonale lo collega alla terapia psicodinamica. Borkovec sembra quasi indicare un percorso ecumenico in cui le grandi correnti terapeutiche si incontrano.
Qui però Borkovec è più critico e quasi severo. Dice che, a parere del suo collega della Penn State University, Louis Castonguay (un cognitivista che non a caso frequenta anche l’ambiente della Society for Psychotherapy Research, che è il terreno di gioco della migliore terapia psicodinamica che fa ricerca empirica) la terapia cognitiva ha un problema con gli aspetti interpersonali della psicoterapia.
“Non c’è una teoria cognitiva di come la relazione (certo, non magicamente ma attraverso la mediazione di processi cognitivi) agisca sulla terapia”.
E soprattutto non ci sono ancora modelli cognitivi delle interazioni interpersonali più conflittuali, che descrivano come gestire le rotture dell’alleanza terapeutica, le provocazioni di un paziente svalutante e sprezzante non solo con il mondo esterno, ma col terapeuta stesso.
EABCT 2012 - da sinistra: Gianni Liotti, Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero
Abbiamo modelli di interazione col paziente non conflittuali: la collaborazione tra filosofi immaginata da Beck (l’empirismo collaborativo), la sollecitazione motivante e a tratti quasi aggressiva alla Ellis (diamoci una mossa!), il maternage iperaccogliente e consolante alla Young (fin quasi a sedersi e piangere insieme sulle rive di un fiume), le esperienze condivise e cooperative di Liotti e/o Semerari.
Si, lo so: semplifico. Ed è pur vero che Liotti (giustamente) ci tiene a sottolineare che cooperazione non significa accudimento. E fa bene a sottolinearlo.
Ma c’è anche un momento in cui il rapporto terapeutico va in vera tensione e il paziente prova insoddisfazione verso il terapeuta, forse perfino rancore e rabbia quando è messo in faccia alle sue idiosincrasie.
Immaginiamo un narcisista messo di fronte alle sue distorsioni sprezzanti verso gli altri. Pensiamo di poterlo fare serenamente con lui in un’atmosfera di imperturbabile empirismo collaborativo? Di potergli proporre un paio di esercizi attentivi sui suoi rimuginii narcisistici con la stessa flemma con la quale possiamo proporli a un ansioso? Come due filosofi che cercano insieme la verità all’ombra di un platano? Non è così facile.
Infine Borkovec affronta il problema delle neuroscienze. Dice che questo tipo di ricerca sta iniziando a uscire fuori dalla sua infanzia fatta di meraviglie colorate e di scarse ricadute cliniche e che si inizia a capirci qualcosa in più. Che si sta superando il paradigma delle zone cerebrali e ci si sta iniziando ad avvicinare a indici neurocerebrali delle funzioni mentali.
Questo è un argomento delicato. Come si sa, le scienze psicologiche soffrono un po’ la loro evanescenza di discipline che studiano fenomeni che non si riesce a collegare a supporti fisici e organici. Questo Graal di vera materia lo si cerca da decenni. In fondo anche Freud partì con un modello fisico, termodinamico della mente come macchina. Poi fallì traducendo i suoi concetti in termini più psicologici. Speriamo che questa volta vada meglio.
BIBLIOGRAFIA:
Borkovec T. (2012). WHAT WILL CBT LOOK LIKE IN THIRTY YEARS? Keynote 2. EABCT Congress, Genève
EABCT 2012 – Attenzione alle dipendenze: una questione di… Attenzione?
EABCT 2012 – Symposium 2 – Recovery in Addiction: from Conflicted Motivation to Cognitive Control
EABCT 2012 – Attenzione alle dipendenze: una questione di… Attenzione?
Uno dei primi simposi del Congresso Europeo di Terapia Comportamentale e Cognitiva ( EABCT 2012, Ginevra) ci offre la possibilità di esplorare le nuove prospettive scientifiche nel trattamento delle dipendenze patologiche.
Da cultore di disturbi legati al desiderio mi presento curioso in prima fila. Frank Ryan, chairman del simposio introduce in poche parole il razionale ed è subito chiaro che la strada tracciata dai gruppi di ricerca presenti segue il tema principale del congresso.
Ogni intervento ha la stessa base teorica: le dipendenze sono un problema neurocognitivo, cioè una questione relativa al cervello più che alla mente. Anzi l’agito dipendente è considerato esattamente come un’esperienza di ‘mente assente’ (absent-mind behaviour).
Chair: Frank Ryan
La coscienza è dimenticata. I vecchi paradigmi del condizionamento rispondente e operante così come i processi cognitivi automatici sono eletti a promotori del comportamento desiderante e incontrollato. Tutto ciò che è cosciente viene relegato al vecchio mito della forza di volontà, vetusto e superato, quasi deriso.
L’attenzione automatica è un elemento nucleare sia nell’attivazione che nella conclusione delle sequenze comportamentali che conducono all’oggetto del desiderio. Questo è il cuore: attenzione (processi cognitivi), condizionamento (non elaborazione), automatismo (fuori dalla coscienza).
Ergo, l’obiettivo diventa la ristrutturazione della connessione tra stimoli contestuali e cattura dell’attenzione dell’individuo. Certi stimoli condizionati acquistano, attraverso l’esperienza e il rinforzo, la capacità di catturare le risorse attentive automatiche. Per ridurre la dipendenza occorre quindi de-condizionare questo potente collegamento.
La soluzione proposta è interessante (Field & Eastwood, 2005; Field et al., 2007). Si tratta di una versione di training attentivo computerizzato in cui gli individui sono gradualmente allenati a rifiutare rapidamente immagini correlate all’oggetto (es: bottiglie di birra) che vengono presentate velocemente. Allo stesso tempo imparano ad approcciarsi velocemente a stimoli neutrali. In questo modo si allenano a selezionare stimoli neutrali (che hanno perso la capacità di catturare risorse attentive) ed evitare stimoli correlati all’oggetto. Dopo quattro settimane di allenamento quotidiano i risultati sembrano ottimi e anche la ricaduta si riduce di circa il 15% rispetto a un gruppo di controllo a un anno di follow-up.
È una strada nuova, apparentemente efficace ma non priva di buche nascoste in cui è possibile inciampare. Gli stessi autori non hanno soluzioni alle perplessità e messi alle strette sono costretti ad accettare limiti indiscutibili che non sarà facile superare.
Innanzitutto, anche se per un rifiuto, l’esposizione a stimoli legati all’oggetto della dipendenza vengono comunque proposti e questo, anche all’interno del loro razionale scientifico, potrebbe sostenere il legame di condizionamento. Secondariamente, il grosso limite è quello della generalizzazione: come è possibile stabilire che gli individui non diventino semplicemente esperti in un compito computerizzato, ben diverso e lontano dagli stimoli interpersonali del naturale contesto di vita?
Insomma manca ancora l’attenzione al processo di generalizzazione e validità ecologica e quando vi si sono imbattuti i risultati sono stati meno evidenti (Field et al., 2007).
Il rischio è quello di cadere nella vera meccanicizzazione dell’essere umano il quale molto spesso manipola gli oggetti mentali attraverso la troppo dimenticata coscienza.
Dopo la brillante apertura del Convegno da parte di Zindel Segal, in cui la mindfulness e le neuroscience hanno fatto da mattatori (come ha scritto il nostro Direttore Giovanni Ruggiero), è la volta di un simposio sui meccanismi della Mindfulness. Il simposio, intitolato “Mechanisms of Mindfulness: RCTs, Theories and Qualitative Data” viene moderato da Susan Bögels, Professor in Developmental Psychopathology alla University of Amsterdam, Director of the Research Institute Child Development and Education, and Director of the Academic Treatment Centre for Parent and Child, UvA-Virenze.
Il tema affrontato è chiaro: qui si parla di RCT, teorie mindfulness-based e dati di efficacia.
Chair: Susan Bögels
Le relazioni presentano esperienze cliniche e riflessioni teoriche che contribuiscono ad aggiungere dati di efficacia alle terapie mindfulness-based. La prima relazione, ad opera di Nicole Geschwind e colleghi, presenta un RCT che mostra come il Training Mindfulness promuova emozioni positive e esperienze di reward in adulti con depressione. 
La seconda relazione viene svolta da Marieke Wichers, della University of Maastricht. L’autrice e i suoi colleghi hanno svolto uno studio per indagare i mediatori affettivi e cognitivi che potrebbero contribuire a spiegare i meccanismi che rendono la MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy) efficace.
A seguire, Evelin Snippe e colleghi discutono la relazione tra mindfulness, ruminazione e sintomi depressivi. Jenny Van Son e colleghi presentano un progetto molto interessante svolto da loro con pazienti con Diabete. Il Progetto, attivato per ora in Olanda, è stato chiamato DiaMind. A Ginevra viene presentato un RCT. Brevemente, gli autori presentano un intervento mindfulness-based con pazienti diabetici che mostrano un elevato livello di distress emotivo, dovuto alla gestione giornaliera del diabete, problematica e difficile per alcuni di loro.
L’ultimo intervento è ad opera di Hiske van Ravesteijn e colleghi della olandese Radboud University Nijmegen Medical Centre. Il focus della loro relazione si concentra sui pazienti che mostrano sintomi medici “unexplained” che non hanno trovato spiegazione nella nosografia medica. Uno studio longitudinale mostra gli effetti positivi della Psicoterapia basata sulla Mindfulness (MBCT – Mindfulness-Based Cognitive Therapy).
A conclusione dei lavori, Susan Bögels saluta il pubblico con una riflessione degna di interesse. Nonostante ormai in letteratura gli studi di efficacia della Mindfulness siano presenti e in continua crescita, sembra che questo simposio abbia segnato un lieve ma consistente spostamento del focus di attenzione dei ricercatori verso panorami più ampi di efficacia.
Infatti, oltre agli esiti dei trattamenti basasti sulla mindfulness, nel simposio “Mechanisms of Mindfulness: RCTs, Theories and Qualitative Data” l’attenzione è sui processi, sulle misure ripetute, sul tentativo di comprendere in modo sempre più articolato e complesso “come” la mindfulness funziona, e non più se funziona o meno.
EABCT 2012 – Il ruolo delle Tecniche Immaginative in Terapia Cognitiva
EABCT 2012 – (29/08) Pre-Congress Workshop –
An experiential guide to using Imagery in your cognitive therapy practice. James Bennett-Levy
EABCT 2012 – Il ruolo delle tecniche immaginative in terapia cognitiva
Risale a inizio degli anni ’90 la critica al razionalismo della terapia cognitiva standard che sottolineava la distinzione tra cognizioni fredde e cognizioni calde.
Le prime, più intellettuali e distaccate, sono comprese e conosciute dall’individuo al di fuori delle situazioni di attivazione emotiva, o per spiccata capacità autoriflessiva o in seguito a interventi psicoterapeutici. Le cognizioni calde sono il frutto dell’integrazione tra il ‘pensare’ e il ‘sentire’, non una semplice ristrutturazione ma anche una percezione di veridicità e convinzione (‘sento che è così’).
Questa critica ha portato alla proliferazione di ricerche e tecniche tese a favorire il passaggio dalla pura riflessione verso una percezione anche sensoriale dei nuovi punti di vista che si costruiscono in terapia. L’immaginazione è il destriero che molti hanno cavalcato per attraversare il ponte. La psicologia cognitiva di base sosteneva questa scelta iniziale: attraverso l’immaginazione è possibile generare un’attivazione emotiva, seppur virtuale, anche durante una sessione di terapia. Diventava possibile avere un contesto capace di mettere alla prova i nuovi punti di vista on-line e con il supporto diretto del terapeuta.
Prof. James Bennett Levy
Vent’anni dopo è tempo di fare il punto su ciò che è stato prodotto al riguardo. Vi riesce con grande chiarezza e lucidità, James Bennett-Levy nel suo workshop al presente Congresso Europeo di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (EABCT, Ginevra, 2012): An experiential guide to using imagery in your cognitive therapy practice. L’obiettivo dichiarato all’inizio del suo lavoro è quello di tracciare una mappa di quali interventi immaginativi sono stati sviluppati, le loro caratteristiche, a quali pazienti si rivolgono, quando e come applicarli in psicoterapia cognitiva.
Una simile guida era necessaria, dato che il termine ‘imagery’ volava da molto tempo tra molte bocche, ognuna delle quali tendeva a farsene padrona. Si aveva l’impressione che questa imagery fosse per molti ricercatori la nuova base tecnica della terapia cognitiva, più rapida, efficace, e capace di aggirare gli ostacoli relazionali. Poi, nel dettaglio, la si usava in modi tanto variegati da risultare vaga e confusa. La classificazione di Bennett-Levy è una vera organizzazione della conoscenza teorica e tecnica al riguardo, esaustiva e chiara dove non manca una mappa retrospettiva e precisi riferimenti a coloro che si sono occupati in varia misura del tema.
Il workshop descrive ben nove modalità di utilizzo dell’immaginazione delle quali il terapeuta può avvalersi dall’assessment iniziale, alla formulazione del caso, alla ristrutturazione delle esperienze negative alla costruzione di nuovi stili di vita. Esistono esercizi di imagery per comprendere gli episodi emotivi quando il paziente fatica a differenziare i contenuti mentali, per recuperare memorie infantili dolorose e accertarne il significato, per facilitare la manipolazione delle immagini intrusive o favorire il distanziamento da contenuti negativi passati o semplicemente ipotetici futuri.
Così l’imagery si estende fino alle frontiere delle emozioni positive che vengono sostenute e rinforzate, stati mentali come l’autoefficacia o la compassione verso di sé possono essere conosciuti attraverso la visualizzazione immaginativa. In questa visione d’insieme l’imagery si mostra un destriero cresciuto e ben addestrato per solcare questo ponte.
Ne esco soddisfatto, con l’impressione che fortunatamente nei circuiti scientifici non mancano persone con una predisposizione all’integrazione e piuttosto che alla competizione o ancor peggio, all’indifferenza verso altri modi di pensare e di agire. È possibile che per procedere nella conoscenza scientifica e nella pratica terapeutica si abbia bisogno anche di distruttori o di arieti che procedono lungo la loro strada senza guardarsi al fianco.
Ma ho la netta convinzione che i ruoli di attenti revisori siano imprescindibili. E Bennett-Levy, da attento revisore, ha tracciato gli attuali confini delle tecniche immaginative. E ora si può ripartire con più ordine.
Segal all’EABCT: è la Mindfulness il nuovo Paradigma Cognitivo?
Quando un paradigma scientifico è maturo, si va ai congressi per aggiornarsi, ricevere stimoli e chiarirsi le idee. Quando invece si imboccano percorsi di svolta e momenti di crisi le idee si confondono.
E da qualche anno i congressi di terapia cognitiva offrono un quadro appunto più confuso (epperò anche meno monotono) rispetto a quello della golden age della terapia cognitivo-comportamentale standard, che situerei negli ultimi decenni del secolo scorso.
In quell’epoca classica e felice aggiornarsi significava conoscere nuove credenze cognitive distorte, apprendere nuovi bias la cui disputazione e ristrutturazione andava poi ad arricchire il proprio strumentario clinico. Poi l’età dorata è finita ed è iniziato quello che potremmo forse chiamare semplicemente il casino.
Le rotte si sono moltiplicate (troppo!) e sfilacciate (spesso!), nuove ondate di saperi clinici non sempre compatibili tra loro si sono abbattute sui terapeuti lasciandoli spesso più confusi e disorientati dei pazienti che pretendono di curare. In breve, è andato in crisi un modello di sviluppo che prevedeva che, man mano che si scoprivano nuovi contenuti cognitivi patologici aumentasse l’efficacia terapeutica e si moltiplicasse il numero di disturbi emozionali che rispondevano felicemente alla terapia cognitiva.
Con il nuovo secolo l’interesse si è spostato sui processi cognitivi, sulle variabili metacognitive, sulle emozioni, sulle componenti evolutive, sugli interventi neo-comportamentali di riaddestramento dell’attenzione e su tante altre cose. Si è parlato ora di accettazione, ora di compassione, ora di metacognizione, ora di mindfulness. Tutto questo non si è incanalato in un unico nuovo paradigma, ma in molteplici ondate di nuovi saperi clinici che si sono accavallate disordinatamente. Soprattutto a metà degli anni zero del nuovo secolo i congressi sono diventati a volte campi di battaglia tra fautori dei nuovi e vecchi modelli, con scontri personalistici che ci hanno insegnato qualcosa su come veramente si sviluppa la scienza.
Ieri è iniziato il 42esimo congresso annuale della EABCT, la European Society of Behaviour and Cognitive Therapy. Una buona occasione per tentare di farsi un’idea delle linee di sviluppo scientifiche e cliniche che si aprono davanti alle terapie cognitive e comportamentali. Cosa c’è di nuovo?
Di nuovo c’è che, dopo quasi dieci anni di incremento della complessità e della confusività dell’offerta, per la prima volta forse si assiste a una semplificazione. La polvere della battaglia si dirada e sul campo di questo congresso rimangono meno combattenti. Non sono i vincitori della guerra, ma di questa battaglia. Scorrendo il programma del congresso, notiamo che campeggiano la mindfulness (vera dominatrice, almeno secondo le mie impressioni), alleata a qualcosa che inizia a chiamarsi il modello neuropsicoterapeutico.
In seconda linea ma baldanzosa avanza la ricerca sui processi cognitivi (soprattutto sull’attenzione e la memoria di lavoro). C’è poi la vecchia guardia delle credenze cognitive, difesa dall’intolerance of uncertainty e anche dal need of control (pallino del nostro gruppo di ricerca). Meno rappresentate di un tempo le linee della acceptance and committment therapy e della metagnizione alla Wells. Però (e finalmente) si presentano a questo congresso altri modelli metacognitivi diversi da quello di Wells. La schema therapy è difesa dagli olandesi che -a leggere gli abstract- porteranno i loro dati di efficacia sempre più solidi, ma (forse) non troppe novità cliniche e non nuovi sviluppi di questo modello. Intendiamoci: più che sconfitti, questi modelli sono migrati e si sono costruiti dei nidi personali, ovvero proprie società e propri congressi. Il tempo dirà se questa strategia è vincente. Ma di tutto questo parleremo nei prossimi articoli che State of Mind produrrà durante il congresso.
In questo primo articolo da Ginevra commento concisamente il discorso di apertura del congresso EABCT affidato a Segal, intitolato “Psychotherapy and neuroscience: a promising union”.
Segal ha passato in rassegna alcuni risultati della ricerca sugli indici di modificazione neurocerebrale correlati al cambiamento psicoterapeutico ed è riuscito a dare l’impressione che questa strada stia iniziando a dare i primi frutti. Non si tratta più di far vedere zone cerebrali più o meno colorate in pazienti ed ex pazienti (immagini che spesso mi parevano in rapporto con la psicoterapia come una foto della Francia dalla Luna è in rapporto con una passeggiata sul lungosenna a Parigi), ma si sta iniziando a trovare indici neuroscientifici di funzioni mentali che si modificano in psicoterapia. Il livello di informazione mi pare ancora basso, ma almeno non si ha più l’impressione di vedere fotografie scattate dallo spazio vuoto.
Tuttavia il vero interesse di Segal mi è sembrato essere diretto verso qualcosa che non era citato nel titolo della sua presentazione: la mindfulness. Voglio dire, dopo un po’ è diventato chiaro che i dati neuroscientifici scelti di Segal descrivono funzioni mentali di tipo attentivo e processuale che sono tipicamente quelli che si modificano in seguito a trattamenti di mindfulness. Ovvero, un incremento delle capacità di elaborazione non automatizzata e non distorta da bias attenzionali e della memoria di lavoro, ma focalizzata sul presente, sul qui e ora elaborato con il minimo indispensabile di routine cognitive già apprese e con la massima disponibilità a un sorta di innocenza aperta e priva di pregiudizi e preconcetti.
Non basta. Se Segal avesse fatto solo questo, avrebbe fatto molto, ma in fondo si sarebbe limitato a produrre una delle tante increspature che vanno a comporre il dorso ancora (molto) informe della terza ondata. A mio parere l’operazione di Segal è più ambiziosa. Collegando neuroscienze e mindfulness e definendo la mindfulness come il bacino che può comprendere e contenere tutto il coacervo di interventi processuali a cui in fondo si riduce la terza ondata, Segal si propone di riuscire ad essere la nuova mano ordinatrice che davvero stabilisce i confini di un nuovo paradigma.
Ovvero, Segal col termine mindfulness non indica più un singolo intervento specifico, che sia la accettazione o la compassione o la validazione emotiva, ma di una vera categoria onnicomprensiva, così come onnicomprensivo era il concetto di interpretazione e ristrutturazione cognitiva di credenze distorte proposto da Beck. Categoria che si propone di diventare il descrittore dell’unico e vero processo terapeutico che starebbe alla base del cambiamento del paziente. Perché la mindfulness sembra avere non dico più possibilità, ma più fascino della metacognizione -concetto potenzialmente altrettanto onnicomprensivo- è un altro discorso, troppo lungo da affrontare qui (ma una parola si può dire: la metacognizione è ancora legata al vecchio paradigma logico e razionalistico della ristrutturazione cognitiva; la mindfulness no).
Da sinistra: Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero e Tom Borkovec @ EABCT 2012 - Geneva - Opening Ceremony
E inoltre questa categoria, a differenza di altre, ha pure una base neuroscientifica ed elimina così una volta per tutte un vecchio complesso di inferiorità della psicoterapia rispetto alla medicina; finalmente avremo la nostra anatomia patologica al posto delle bislacche sindromi descrittive del DSM!
Quando ho proposto questa mia idea a Tom Borkovec durante il cocktail che seguiva la conclusione della cerimonia d’apertura, lui si è mostrato abbastanza d’accordo, tenendoci però a sottolineare che ci sono tante strade per arrivare a questo stato mentale non patologico.
Vero, però ho l’impressione che Segal stia suggerendo che ci possono essere tante strade, ma che l’esito sia uno solo: la mindfulness.
E in questo modo, pur nel rispetto delle varie possibili varianti, si crea un nuovo ombrello clinico e concettuale: la mindfulness based cognitive therapy.
Le Pussy Riot e le Donne Tunisine: Coraggio e Paura nella Ribellione
Pussy Riot: alcune note a margine.
Immagine: dettaglio di pittura murale. Orgosolo
Il coraggio di tre giovani donne, tre cantanti punk che si scontrano con un potere schiacciante e affrontano le conseguenze delle proprie azioni concrete e reali. Queste ragazze non si sono limitate a schiacciare un semplice tasto “mi piace” su Facebook, ma hanno sfidano il potere di Putin.
Era nelle loro intenzioni andare allo scontro frontale? Probabilmente no, in fondo si è trattato di una bravata in una chiesa. Poi la reazione è arrivata, durissima.
E’ certo che, davanti a conseguenze così devastanti (il carcere!) le tre ragazze mostrano la dignità di chi sa esporsi e pagare concretamente per le scelte che fa. A me vengono in mente Sordi e Gassman nell’ultima scena de La Grande Guerra, mentre si espongono alla morte senza mai proclamarsi eroi.
Allo stesso modo leggo la notizia delle proteste delle donne tunisine che non accettano di essere definite complementari e non giuridicamente eguali. Vanno in piazza, si ribellano, spostano l’opinione del paese.
Cos’è questo coraggio, questa freschezza nella ribellione? Quasi un passaggio di testimone. Ai tempi del femminismo si diceva che sarebbe venuto il momento in cui le donne si sarebbero prese in carico non solo le lotte del proprio personale destino di genere, ma anche la richiesta di giustizia della società tutta intera. Questo è interessante e segna, in tempi non felici, un cambiamento che ci riguarda tutti e che ha a che fare, in modo duro e profondo, con il coraggio di tutti noi.
Che il coraggio implichi una complessa elaborazione cognitiva è confermato dalle due psicologhe Gizela Szagun e Martina Schauble (1997), che hanno analizzato lo sviluppo dell’esperienza del coraggio in bambini e negli adulti. I bambini fino ai sei anni concepisconoil coraggio in termini comportamentali, mentre con l’aumentare dell’età il coraggio inizia ad essere concepito come uno stato mentale interno incentrato sulla paura e sul superamento della paura. Con l’aumentare dell’età, i soggetti credevano sempre più che le strategie psicologiche potessero incrementare il controllo sulla complessa esperienza del coraggio.
Spendiamo con soddisfazione due parole su questo primo anno di vita di State of Mind (SoM), alla vigila della pausa di agosto.
Dopo un anno ci chiediamo se SoM abbia saputo giustificare la sua nascita. Esistevano (ed esistono) i grandi portali come Psychomedia, Opsonline o Pol-it. Esistevano (ed esistono) i blog degli psicologi, delle scuole di psicoterapia, i forum degli studenti e altri luoghi d’incontro online delle Università. Ma State of Mind ancora non esisteva.
Secondo noi si sentiva la mancanza di un webjournal che raccontasse le novità del nostro mondo psicologico-psichiatrico in modo accessibile sia agli esperti che alle persone interessate ai problemi della psicologia, della psicoterapia e della psichiatria. Un luogo che fosse anche aperto a commenti e discussioni.
Non volevamo rappresentare un solo mondo esclusivamente, ma aprirci a molte chiavi di lettura diverse dalla nostra, dare spazio a discussioni. Informare. Sui giornali generalisti l’informazione sulla nostra area di interesse è spesso urlata, spesso falsa, spesso, quando vera, priva del sostegno di un apparato bibliografico.
Abbiamo voluto che sia la rassegna stampa che le novità di area psichiatrica e psicologica fossero sempre sostenute da dati verificabili. E raccontate in modo chiaro e sintetico da persone competenti. Abbiamo anche pensato di riportare aree più creative di punti di vista psicologici sul mondo (cinema, letteratura, politica, il sociale)
All’inizio abbiamo temuto che la risposta potesse essere tiepida. Ma le molte persone che ci leggono, che discutono, commentano e contribuiscono ci ha convinto che SoM è possibile. Che questo bisogno di informazione e apertura al nuovo esisteva ed esiste. Possiamo ancora fare molto e non tutto è facile. Riceviamo ancora contributi troppo scarsi in aree psichiatrica o in aree di psicologia e/o psicoterapia non cognitiviste. Qualche contributo psicodinamico o sistemico, ancora nulla dal fronte umanistico/esperienziale.
Ma questo primo anno ci vede molto contenti. Ci siamo divertiti, abbiamo molto lavorato abbiamo discusso tra di noi e spesso anche duramente ma la rete del journal continua ad allargarsi.
Un grazie al Direttore responsabile Giovanni Maria Ruggiero, al webmaster e caporedattore Flavio Ponzio, alla redazione: Linda Confalonieri e Serena Mancioppi, ai nuovi editor: Andrea Bassanini e Roberta Dalena, a tutti gli autori che collaborano con noi e agli informatici Andrea Deganutti e Luca Colombaro che ci assistono con perizia.
Grazie anche a Studi cognitivi che ha messo le risorse a disposizione per iniziare la nostra avventura.
Sandra Sassaroli.
Mente e Corpo: Credenze ed Effetti sui nostri Comportamenti
Molte persone, che lo sappiano o meno, hanno credenze dualiste in merito alla relazione mente-corpo, credono cioè che il corpo e la mente siano due entità separate. Al di là di innumerevoli pagine filosofiche e scientifiche scritte sulla questione, è ancora poco conosciuto l’impatto di queste credenze individuali sul nostro modo di pensare e di comportarci nella vita quotidiana.
Un nuovo articolo di ricerca che a breve verrà pubblicato su Psychological Science suggerisce che sposare una filosofia dualista può avere importanti conseguenze nella nostra vita quotidiana. Attraverso ben cinque studi, alcuni ricercatori dell’Universität zu Köln (Colonia, Germania) hanno scoperto che le persone sottoposte a un priming di credenze dualiste mostravano atteggiamenti più imprudenti e rischiosi per la propria salute, ad esempio, preferivano una dieta meno sana. Inoltre, è stata dimostrata tale risultato partendo anche da un’altra prospettiva: i soggetti che erano sottoposti a priming di comportamenti non salutari (ad esempio, guardando fotografie di cibi nocivi per la salute) riportavano una più convinta credenza dualista rispetto ai soggetti che vedevano fotografie di cibi salutari.
Nel complesso, i risultati dei cinque studi forniscono prove a favore dell’ipotesi che le credenze di dualismo mente-corpo avrebbero un impatto notevole sulla salute delle persone, in termini di atteggiamenti e comportamenti. In particolare, lo studio dimostra che le credenze dualistiche diminuiscono la probabilità di comportamenti salutari. Quindi le persone che percepiscono mente e corpo come entità distinte, hanno una minore probabilità di assumere atteggiamenti e attuare comportamenti preventivi e protettivi rispetto alla loro salute fisica. Le implicazioni applicative dello studio sono intriganti, pensando ad interventi che riducano le credenze dualistiche – anche attraverso la tecnica del priming- per la promozione del cambiamento di comportamenti verso una logica più salutare nelle popolazioni a rischio.
Workplace Arrogance Scale (WARS): self report che misura l’arroganza del capo.
L’arroganza in un leader in ambito lavorativo può essere profondamente disfunzionale, fondandosi su un minor livello di efficienza e maggior insicurezze mascherate da comportamenti svalutanti e invalidanti nei confronti dei propri subordinati. Ora è possibile misurare l’ arroganza del proprio capo, grazie a uno strumento self-report, sviluppato dai ricercatori della University of Akron e della Michigan State University e che può aiutare le organizzazioni a identificare manager e dirigenti arroganti prima che abbiano un impatto troppo devastante sull’organizzazione. La Workplace Arrogance Scale (WARS), già pubblicata su The Industrial-Organizational Psychologist sarà presentata alla conferenza dell’American Psychological Association a Orlando il 2 agosto dal professor Stanley Silverman.
Secondo l’autore il costrutto dell’arroganza è caratterizzato da un modello di comportamento che umilia gli altri nel tentativo di dimostrare la propria competenza e superiorità.
Articolo consigliato: Il Sessismo dell'Ape Regina. Donne che perpetuano gli stereotipi di genere.
Tale modalità comportamentale è correlata con bassi punteggi di intelligenza e autostima.
Ecco alcuni esempi di domande della scala in questione: • Il capo scredita le idee degli altri e spesso li mette in cattiva luce durante le riunioni? • Il vostro capo è solito rifiutare un feedback costruttivo? • Il vostro capo è solito esagerare con la sua superiorità e si comporta in modo da farvi sentire inferiore?
L’arroganza, consiste di fatto in una serie di atteggiamenti e comportamenti che possono essere modificati – ovviamente solo se il capo arrogante è disposto a impegnarsi in un lavoro su sé stesso nella direzione di tale cambiamento. Una leadership orientata a un autentico mentoring nei confronti dei propri collaboratori e all’’umiltà del leader stesso promuove un clima di lavoro realmente collaborativo, produttivo e positivo in termini relazionali.
Si dice che le vie dell’inferno siano lastricate di buone intenzioni ma sembra che anche quelle dello sviluppo sostenibile non siano da meno. È difficile, infatti, incontrare persone nemiche dell’ ambiente, che sognino un mondo inquinato, senza un filo di verde, saturo di gas di scarico.
In psicologia si tende a distinguere tra la “presa di decisione”, intesa come momento di scelta tra obiettivi ed azioni possibili, e la sua implementazione, ovvero la decisione di mettere in pratica il comportamento desiderato.
Nello specifico, le intenzioni si sviluppano in due fasi: una motivazionale e una volitiva. Durante la prima, gli individui decidono di mettere in atto un certo comportamento, valutandone costi e benefici, mentre, nella seconda, le persone elaborano piani specifici per definire i modi con cui l’intenzione verrà tradotta in atto. Entrambe le fasi possono essere oggetto di revisione ma la prima è il momento più delicato, in quanto gli atteggiamenti, le norme e il grado di controllo percepito sulle nostre azioni possono mettere in crisi le nostre intenzioni.
Articolo consigliato: Comportamenti Ecologici: Impatto e intenzioni a confronto.
Inoltre, è bene ricordare che non è sufficiente avere le migliori intenzioni per ottenere i risultati sperati. Si pensi, per esempio, alla differenza tra coloro che consumano meno per ridurre gli sprechi e coloro che incrementano l’acquisto di prodotti con vere o presunte etichette green. Entrambi hanno un atteggiamento positivo nei confronti dell’ ambiente e sono animati dalle migliori intenzioni, tuttavia, l’impatto sull’ecosistema è diverso.
Soltanto il primo comportamento, infatti, è realmente sostenibile. Eco-chic e altri fenomeni di “greenwashing” (tattiche di marketing studiate per mettere in risalto uno o due aspetti eco-positivi di un prodotto, oscurandone gli altri) fanno appello a quell’immagine un po’ sdolcinata di natura, che noi tutti vorremmo proteggere e conservare ma, in realtà, sono solo strategie che fanno leva sui nostri valori materialisti e consumistici.
L’obiettivo non è salvare il pianeta ma stimolare l’acquisto di un particolare prodotto.
Pertanto, indagare la dimensione valoriale può essere utile se si desidera analizzare la varietà dei comportamenti con cui le persone rispondo agli stimoli a parità di atteggiamenti.
In particolare, studi recenti nell’ambito della sostenibilità, hanno isolato tre tipologie di valori che possono guidare i comportamenti ecologici: gli egoistici, i socio-altruistici e i biosferici. I primi, come suggerisce il nome, calcolano le conseguenze personali delle modifiche ambientali (potrà succedere qualcosa a me?), i secondi valutano gli effetti anche per gli altri (potrebbe accadere ai miei figli?), mentre, i terzi, considerano le ripercussioni dei cambiamenti ambientali su tutti gli esseri viventi (cosa accadrà al pianeta e all’umanità?).
In conclusione, i valori sono le credenze che guidano le decisioni e le azioni degli individui; non sono delle proprietà degli oggetti ma categorie che appartengono ai soggetti e che vengono utilizzate per organizzare la vita quotidiana, per eliminare le ambiguità. Conoscerli a fondo e valutarli correttamente, permette di elaborare campagne comunicative molto più efficaci e mirate, anche in contesti altamente mutevoli, che possono stimolare direttamente le credenze che guidano le decisioni di ciascuno.
Qualche mese fa una ricerca pubblicata su International Journal of Geriatric Psychiatry e citata anche dal Los Angel Times dimostrava che la pratica di una forma di meditazione yogica (Kirtan Kriya Meditation) per 12 minuti al giorno per otto settimane può ridurre i livelli di stress nei caregivers dei pazienti con morbo di Alzheimer. Ora finalmente analisi successive – che hanno utilizzato gli stessi soggetti nell’ambito dello stesso trial- ci spiegano anche il perché, ovvero vanno a indagare il processo responsabile di tale effetto. Sembrerebbe che la pratica di questo tipo di yoga porti alla riduzione dei meccanismi biologici responsabili della risposta infiammatoria del sistema immunitario, che se costantemente attivata ad alti livelli può contribuire a una moltitudine di problemi di salute cronici.
Il lavoro pubblicato da pochi giorni su Psychoneuroendocrinology si è concentrato sui familiari caregivers di persone con demenza. Perché proprio questo target? Va considerato che prendersi cura di un familiare con demenza senile o morbo di Alzheimer può essere un fattore di stress rilevante: i familiari più anziani che si occupano di loro parenti affetti da tale diagnosi riferiscono elevati livelli di stress e depressione, essendo quindi anche più a rischio di patologie somatiche connesse allo stress, quali disturbi cardiovascolari, etc.
Nello studio, i partecipanti sono stati randomizzati in due gruppi. Il gruppo di meditazione è stato guidato nella pratica di almeno 12 minuti meditazione yogica Kirtan Kriya per otto settimane; l’altro gruppo è stato sottoposto a un training di rilassamento guidato da un cd, sempre per 12 minuti al giorno per otto settimane.
Al pre e post-assessment sono stati prelevati i campioni di sangue per ciascun soggetto. L’obiettivo dello studio era di determinare se la meditazione yogica potesse alterare l’attività delle proteine infiammatorie che caratterizzano l’espressione genica delle cellule del sistema immunitario. I dati dello studio dimostrano di fatto che 68 geni presentano un profilo di espressione alterato nei termini di una ridotta attività di proteine (citochine) legate direttamente a un maggiore stato infiammatorio (e correlate anche a un maggiore livello di stress) nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo.
Lo studio, quindi, risulta rilevante perché apre uno spiraglio esplicativo dal punto di vista biologico sul processo che media gli effetti dello yoga sul sistema immunitario e sullo stress.
We met Dr. Behary in Rome, during her Workshop (June 16th) on Schema Therapy with narcissist patients.
1) When working with difficult patients as narcissist ones, we know how hard it is to set a good therapeutic relationship. What kind of methods do you use to keep in therapy your patients with narcissistic personality disorder?
There are two fundamental aspects in creating and maintaining the therapeutic relationship. The first is to keep the leverage high. So the therapist has to maintain the leverage in the relationship, meaning that the consequences have to be kept very clear or the narcissists will forget why they are there, get frustrated and want to leave therapy. The other is to be as honest and real as possible, get rid of the therapy jargon and just know to be a person who understands them, someone who cares about them and not their unique performance or extraordinary achievements.
2) What are the main obstacles for the changing in a narcissist patient?
A strong detached protector is a great obstacle. These patients deny that have any problems and they have a hard time experiencing those emotions. They can sometimes be too critical of the therapist and therefore the therapist’s schema get activated, making it difficult to maintain a connection with them; especially when the therapist becomes overwhelmed and distracted or the leverage is too low. The therapist may feel under attack and provoked by the patient and may end up reacting in ways that are counter-productive to the therapy.
3) May you tell us something about your new book: Disarming the Narcissist? (the Italian translation is going to be published in a few months)
I’m very excited about the book coming out in Italy. The book was written primarily because I had many patients who were living with narcissistic partners who loved them, who wanted it (the relationship) to work and really wanted to know how to reach their partners in more effective ways, how to begin to look at their own personal schema activation in the process of dealing with them. I was treating narcissists so I was looking at both sides of the equation. This is what inspired the book.
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4) What kind of advice would you give to our colleagues dealing with narcissist patients? How can they be able to disarm the narcissist?
Most importantly, to make sure they get good supervision and that they spend some time in self-therapy to identify and heal their own schemas, and learn how to understand and manage their own sensitivity to some of the more difficult issues: aggression, detachment, denial, and resistance. Therapists need to have a solid grip on their own schemas in order to be sturdy, caring, empathic, and persistent with a narcissistic patient. You have to manage your expectations and know that treatment is a process in order to maintain consistency and achieve an adaptive outcome with the narcissist.
5) Do you have any data on the effectiveness of Schema Therapy of Narcissist?
To date, there is no significant data on narcissism. Most of it is anecdotal experiences shared by many therapists over time. Regarding Schema Therapy, there are some studies that are being conducted right now in the Netherlands that include narcissists, and we also have forensic studies being conducted by Dr. David Bernstein and colleagues. We are hopeful that we will be able to see some of our experiences in the affiliated results. Part of the problem with gathering data has to do with your other question which is that a lot of therapists just cannot tolerate being in the treatment room with a narcissist, or they don’t have enough leverage to keep them in treatment. So it is hard to gather the data if you don’t have reliable sample.
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6) What do you think is the current development of Schema Therapy in Italy?
I think it’s growing and it’s exciting given that Alessandro Carmelita has exposed people to the model by learning it, becoming certificated himself , bringing it to the country and expanding its exposure throughout Italy. He is getting colleagues and other clinicians excited about this model, and this is wonderful! Bringing more people into our global ST community is fantastic. I am very pleased with Alessandro’s efforts and very impressed with his work in Schema Therapy.
7) In your opinion, what do you think therapists should do to learn how to work with the narcissists?
To learn specifically how to work with them…Well, I have to say that I am biased because I believe Schema Therapy is the most effective way. We have a very rich conceptualization. I think we have a strong understanding of the personality of narcissism and the elements of narcissism across the spectrum. So of course I believe that the best way is to get involved in the training programs to contact someone in our organization about how to get trained in the Model of Schema Therapy and then how to apply it specifically with populations, like narcissists — which are some of the most challenging to work with.
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It really is the most important element of your training. it’s not just learning the skills and learning how to conceptualize through assessments but also paying close attention to your own schema triggers in the supervision. It’s very important to have a good supervisor who enables you to role play, to practice, to get the feeling of the intense struggle that comes with working with these patients.
9) Would you like to say something about the DSM5?
I wish I could say something about DSM5 except I think it is still unclear what the direction is going to be. I think part of the motivation behind changing the diagnostic code has to do with the complexity of narcissism that it is a spectrum disorder. I am not sure, but I think they’re trying to capture and illustrate the various elements of narcissism and the different ways in which it shows up. I think it could be an unfortunate consequence if in fact it gets eliminated as a disorder, because it has a very distinct and problematic appearance within our industry. It remains a controversial discussion at this point, with many people weighing in; not sure what will happen.
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10) In your opinion, does Schema Therapy follow new discoveries in neurobiology about the functioning of the brain?
I think that Schema Therapy is interested in what is being discovered and shared in the interpersonal neurobiology community. This community supports our basic premise that the implicit activations are occurring through memory channels. They include connections with the amygdala and the limbic centers of the brain, the emotional centers of the brain, that are not just cognitive processes from the prefrontal areas. And this also explains the connection to our survival system which supports our notion of coping modes and the perceived threat to one’s emotional survival — how we flip into a coping mode. So the brain is another way of putting science behind our model, and helping Schema Therapy to become even more elaborated via a scientific (or practical) point of view.
11) May you say something about the changing of the brain functioning using image exercises?
I don’t think we know for sure yet. We’re still speculative about this but there is some data to support changes in firing patterns within the brain after a trauma has been dealt with or a trauma has been healed in the patient. So you see lesser intensity of emotion, you see lesser frequency of activation, and quicker recovery in the overall biologic system for the patient when they are triggered; that is what we say in our model that progress isn’t necessarily rated by schemas going away because they don’t, they’re part of memory. Progress is determined by lesser activation, by less frequency and quicker recovery and that is what some are beginning to see reflected in some of the brain data.
Sono piuttosto contrario ai manuali di auto aiuto e tendo a guardarli con la stessa diffidenza che è l’oggetto di questo lavoro. I motivi di ciò sono in gran parte irrazionali e sintetizzabili così:
• mi sanno di americano e fanno scattare automaticamente un rigurgito di antimperialismo fuori tempo massimo;
• essendo buoni per tutti non sono calzanti per nessuno e vanno contro la personalizzazione massima della terapia in cui credo fermamente;
• tolgono lavoro agli psicoterapeuti e questo, di per sé, già sarebbe sufficiente.
Dopo queste perentorie affermazioni corre l’obbligo, perciò, di giustificare la scelta di scrivere un manualetto per l’autoterapia di uno dei disturbi più gravi e meno accessibili alla cura farmacologica e psicologica : il delirio paranoico. I motivi sono da ricercare proprio nelle caratteristiche stesse della patologia, che provoca tale sospettosità e diffidenza verso gli esseri umani, compreso il possibile terapeuta, da rendere particolarmente difficile il consolidamento di una relazione terapeutica.
Inoltre i paranoici sono spesso intelligenti e interessati alla speculazione. Ho dunque pensato che se un paranoico, nel momento in cui passeggia sulla linea di confine tra la certezza delirante e il dubbio fugace che quanto gli ripetono amici e familiari sia vero e si tratti tutto di una sua fantasia, incontra in una libreria o su Internet qualcosa che parla del suo disturbo, possa giovarsene senza rivolgersi a nessuno, oppure possa iniziare a rinforzare il dubbio che la sua condizione sia patologica e alla fine rivolgersi ad un professionista.
Un motivo più contingente ma non meno importante è che, recentemente, ho visto un simpaticissimo delirante mio coetaneo e, dunque, mi sono messo ad inventare compiti perché potesse lavorare anche durante la pausa estiva.
Indice
1. cosa è un delirio
2. come si arriva a delirare
• Esercizio 1 i tuoi fondamentali e l’evento traumatico
• Esercizio 2 la grande paura
• Esercizio 3 il passo decisivo
3. come si mantiene il delirio
• Errore 1 Il restringimento del campo
• Esercizio 4 L’avvocato
• Errore 2 L’evitamento
• Esercizio 5 Fino a prova contraria
• Errore 3 L’attenzione selettiva
• Esercizio 6 L’esame inverso
• Errore 4 La memoria selettiva
• Esercizio 7 Ricordi scomodi
• Errore 5 Ci sarà pure un motivo
• Esercizio 8 La paura fa novanta
• Errore 6 La spiegazione incontrovertibile ad hoc
• Esercizio 9 Nessuno è davvero innocente
• Errore 7 La sicumera
• Esercizio 10 A mente fresca
• Errore 8 Il pensiero magico
• Esercizio 11 Coincidenze sospettose
• Errore 9 Se c’è fumo deve esserci il fuoco
• Esercizio 12 Quella volta che ero presente
• Errore 10 Se lo immagino è vero.
• Esercizio 13 Delirio sperimentale
4. come se ne può uscire
• Esercizio 14 trovarne il senso
• Esercizio 15 riconoscere i mostri
• Esercizio 16 Riempire un vuoto
• Esercizio 17 Ricomponendo un altro puzzle
Caro lettore,
non so come tu sia entrato in possesso di queste pagine e le ipotesi possibili sono due: una persona vicina a te si è preoccupata del tuo disagio ed ha cercato qualcosa che potesse aiutarti, oppure tu stesso hai il dubbio che l’esperienza che stai vivendo sia strana, al punto che sei incerto se tu stia diventando matto oppure lo sia il resto del mondo.
Quello che è bene precisare è che non ti conosco affatto e quanto scritto deriva solo da una trentennale esperienza con i pazienti gravi e da una mia esperienza personale nel ruolo di delirante.
Naturalmente puoi interrompere la lettura quando vuoi se ritieni sia inutile o addirittura disturbante.
Lo schema generale di questo scritto prevede quattro capitoletti (cosa è un delirio, come si arriva a delirare, come si mantiene il delirio, come se ne può uscire).
Nel testo ci sono una serie di esercizi (scritti in corsivo) che dovrebbero aiutarti a verificare su di te quanto vado argomentando e delineano un percorso di comprensione e guarigione dal delirio. E’ assolutamente possibile che tu non sia affatto delirante e ciò che “ti sembra” sia assolutamente reale. Io non ti conosco e dunque non posso saperlo. In tal caso hai solo perso un po’ di tempo. Non posso restituirti i soldi del biglietto perché non c’é, ma posso sinceramente augurarti di risolvere il tuo malessere che evidentemente è di altro genere.
1. Cos’è un delirio
Innanzitutto un delirio è una convinzione che si impone come qualcosa di assolutamente certo ed evidente. Anche se gli altri ti dicono che le cose non stanno come a te appaiono, per te non ci sono dubbi. Tu non conosci il dubbio e vivi nella terra della certezza assoluta: i dubbi li hai lasciati alla dogana quando hai varcato la frontiera del delirio. La terra da cui provenivi, al contrario, era fitta di dubbi angoscianti, di incertezze, confusioni, eventi inspiegabili, per cui fuggirne è stato un sollievo.
Dunque un delirio è una certezza come tutte le altre che abbiamo in testa, anzi è ancora più indiscutibile, autoevidente.
Pensa alla terra: tutti sappiamo che è sferica ma per ciascuno di noi la sua piattezza è assolutamente evidente. Le persone che hai intorno ti dicono, spesso accorati e spaventati, che ciò che pensi “non è vero”. Allora, se va bene, ti senti ancora più solo e trattato come se fossi matto, se va male incominci a sospettare che anche loro facciano parte del complotto e ti nascondano la verità che tu vedi senza veli.
Ho parlato di complotto perché la gran parte dei deliri hanno carattere persecutorio. Si sente (uso il termine “sente” perché si impone con la stessa pregnanza di un dato sensoriale cui non si può non dar fede) con assoluta certezza che alcune persone facciano di tutto per ostacolarti, danneggiarti o tradirti (ad esempio, il delirio di gelosia). Esistono anche altri deliri più simpatici come quelli di grandezza (“sono il migliore del mondo”), erotomanici (“tutti si innamorano di me e mi desiderano”) che, però, fanno soffrire meno e comunque non sono di ostacolo alla richiesta di terapia.
Si badi bene che il confine tra un normale pensiero e un delirio non è la verità della prima e la falsità del secondo: esistono molte false convinzioni che sono semplicemente false ma niente affatto deliranti, al contrario esistono deliri che sono veri, ad esempio i deliranti di gelosia si comportano in modo così opprimente da avere alta probabilità di essere effettivamente traditi, ma ciò non elimina il delirio, restano paranoici e cornuti.
Dirò di più: quasi sempre alla base di un delirio troviamo un elemento di realtà (un torto subito, un riconoscimento mancato, etc), del resto chi non ne annovera a decine nel corso dell’esistenza? Il guaio è che su quella pietra angolare saldamente piantata nella realtà si è costruita un’enorme cattedrale che si arricchisce ogni giorno di più, assorbendo l’intero tuo mondo.
Perciò, la caratteristica peculiare del delirio è la sua immodificabilità, il fatto che non cambia di fronte alle evidenze ed anzi si rafforza, trovando spiegazioni che ribaltano a proprio favore le argomentazioni contrarie.
Il delirante in fondo è semplicemente un super testardo che non sente ragioni.
La predisposizione alla testardaggine e al delirio è presente in tutti gli esseri umani, tutti cerchiamo attivamente le conferme alle nostre idee ed evitiamo di prendere in considerazione le disconferme. In più, passiamo gran parte del nostro tempo ad autoinngannarci raccontandoci storie sul perché le cose sono andate in un certo modo piuttosto che in un altro, con l’evidente obiettivo di salvaguardare la nostra autostima anche a costo di negare l’evidenza… PER CONTINUARE LA LETTURA, SCARICA L’EBOOK GRATUITO