expand_lessAPRI WIDGET

Psicoterapia Cognitiva: Al tuo rimuginio scatena l’inferno!

Il rimuginio è una forma di pensiero ciclico, negativo e ricorrente. Il rimuginio è in azione quando rimaniamo chiusi nei nostri pensieri negativi e immaginiamo continuamente situazioni negative che potrebbero accadere in futuro, soprattutto in condizioni di incertezza.

Il rimuginio è un sintomo centrale soprattutto nei disturbi d’ansia (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero, 2006) ma anche nella depressione e nei disturbi alimentari (Sassaroli & Ruggiero, 2012). La psicoterapia cognitiva studia come imparare a regolare e gestire il proprio pensiero.

Uno dei principali danni del rimuginio è il fatto di essere uno stile di pensiero molto astratto. Abbiamo l’impressione che ci serva a trovare soluzioni. Questa impressione è sostenuta da una riduzione leggera dell’attivazione emotiva. Abbiamo anche la sensazione di fare qualcosa, di aumentare la nostra capacità di prevedere il futuro.

Ma se andiamo a guardare i fatti, siamo fermi: bloccati nel produrre preoccupazione, inattivi. Pensare a cosa di negativo potrebbe accadere in seguito a un problema (es: la macchina è guasta. Ipotesi rimuginante: “farò ritardo al lavoro”) non è la stessa cosa che pianificare COME risolvere la situazione.

 

Come combattere il rimuginio?

Innanzitutto ricordare una regola molto importante: il rimuginio è il segnale che occorre preparare un’azione. E questo deve essere un pensiero chiaro tutte le volte che ci troviamo a rimuginare. Secondo passo: Possiamo preparare un’azione concreta in questo momento per affrontare il problema?

Se non possiamo agire ora, allora non vale la pena pensarci, lasciamo defluire il rimuginio e portiamo l’attenzione su ciò che stiamo facendo. Se possiamo agire ora, allora è il momento di scegliere un “fare” anche a costo di essere un po’ impulsivi, e di metterlo in pratica. Pensiamo a COME risolvere un problema: penso e scrivo un elenco delle possibili azioni e delle alternative, le valuto tenendo conto dei miei bisogni e dei miei scopi, scelgo, agisco e poi vedo come è andata.

Certo conseguenze negative possono sempre capitare, ma immaginarle non aiuta a prevenirle se non accompagniamo un azione concreta o, soprattutto, se non siamo disposti a correre qualche rischio. Per i grandi rimuginatori, nei piccoli dubbi quotidiani, è sempre meglio imparare a rischiare.

Ricordiamoci di pensare al concreto, e di scegliere quando pensare ai problemi. Possiamo impararlo. Ma, se l’ansia e lo stress del rimuginio persistono, forse è il caso di una consulenza professionale. Talvolta alcuni bisogni e paure non ci permettono di lasciare andare il rimuginio o di cambiare prospettiva. Questi sono solo piccoli accorgimenti utili per tutti. Da soli non fanno una cura né una psicoterapia cognitiva.

Interview with John F. Clarkin in New York

 

An interview with John F. Clarkin

Sandra Sassaroli, director of Studi Cognitivi (Post Graduate Specialization School of Cognitive Psychotherapy) interviews John F. Clarkin Ph.D. Clinical Professor of Psychology in Psychiatry, Weill Cornell Medical College and co-director of Personality Disorder Institute

 

 

LEGGI ANCHE: TRANSFERENCE FOCUSED THERAPY – OTTO KERNBERGFRANK YEOMANS – INTERVISTE

THE MIND CHANNEL: IL CANALE YOUTUBE DI STATE OF MIND

Beliefs over control and meta-worry interact with the effect of intolerance of uncertainty on worry.

FLASH NEWS 

LEGGI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU: RIMUGINIO E RUMINAZIONE – WORRY – GAD (Disturbo d’Ansia Generalizzato) – BELIEFS/CREDENZE – METACOGNIZIONE

Beliefs over control and meta-worry interact with the effect of intolerance of uncertainty on worry.

Beliefs over control and meta-worry interact with the effect of intolerance of uncertainty on worry
Article Preview

 

 Abstract: 

Cognitive theory conceptualizes worry as influenced by metacognitive beliefs about worry, intolerance of uncertainty, and perceptions of control over events and reactions. This study tests the hypothesis that the effect of intolerance of uncertainty would interact with meta-cognitive beliefs on worry and perceived control. One hundred eighteen individuals with generalized anxiety disorder and 54 controls completed the Meta-Cognition Questionnaire, the Intolerance of Uncertainty Scale, the Anxiety Control Scale, and the Penn State Worry Questionnaire. Models were tested measuring interactive effects in multiple regression linear analysis. The interaction model was confirmed. The effect of intolerance of uncertainty on worry was increased by its interaction with metacognitive and control beliefs. The finding emphasizes the significant role of metacognitive and control beliefs in the cognitive process that leads to the development of worry. BUY FULL ARTICLE

 LEGGI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU: RIMUGINIO E RUMINAZIONE WORRYGAD (Disturbo d’Ansia Generalizzato)BELIEFS/CREDENZE – METACOGNIZIONE

Beliefs over control and meta-worry interact with the effect of intolerance of uncertainty on worry
Confirmed moderation model. Il rapporto tra intolleranza dell'incertezza è il worry è moderato dal controllo e dal metaworry. La moderazione indica un incremento della forza del legame.

 

REFERENCES: 

Depressione & Facebook: un rischio reale?

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo uno studio condotto alla University of Wisconsin School of Medicine and Public Health la depressione da uso eccessivo di Facebook non rappresenterebbe un rischio reale. Questi risultati sono in contraddizione con quanto suggerito l’anno scorso dalla American Academy of Pediatrics in un rapporto sugli effetti dei social media su bambini e adolescenti.

Un team di ricercatori guidati da Lauren Jelenchick e da Megan Moreno ha esaminato il comportamento sul web in tempo reale di 190 studenti universitari di età compresa tra i 18 e i 23 anni, che sono stati anche testati con una scala per la depressione clinica.

I risultati, pubblicati sul Journal of Adolescent Health, indicano che i partecipanti al sondaggio erano su Facebook per più della metà del tempo totale online, e questo dato non è risultato in alcun modo associato al rischio di depressione clinica.

Secondo i ricercatori questi risultati hanno implicazioni importanti per i medici, che non dovrebbero allarmare inutilmente i genitori con informazioni sul rischio di depressione collegato all’uso eccessivo di social-network; ben più utile, visto che oltre il 70 per cento degli adolescenti naviga abitualmente sui social-network, sarebbe incoraggiare i genitori a porsi come modelli di un corretto ed equilibrato uso della rete.

 – LEGGI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULLA PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA – 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Friday Night Live all’ Albert Ellis Institute – #2

 

Albert Ellis Institute – Parte 2 – Cronache da New York – Friday Night Live

LEGGI IL PRIMO EPISODIO DELLE CRONACHE DA NEW YORK

Friday Night Live all’ Albert Ellis Institute – Day 2
Friday Night Live presso l'Istituto Albert Ellis a New York

Dopo un’intera giornata trascorsa studiando ed esercitandosi con la Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (REBT) di Albert Ellis sembrerebbe da folli impiegare la serata nella stessa maniera. E follemente noi di “States of Mind” lo facciamo, immergendoci nel Friday Night Live del 6 luglio 2012.

L’occasione è (quasi) da non perdere. Il Friday Night Live dell’Istituto Ellis è, a suo modo, un evento semi-leggendario della psicoterapia, paragonabile alle riunioni del mercoledì sera in casa Freud. Si tratta al tempo stesso di un evento, di una dimostrazione e di un servizio di counseling e psicoterapia pubblica offerta dall’Istituto quasi ogni venerdì sera, dalle 7.00 in poi. All’evento si partecipa pagando una quota di 15 dollari che permette di esporre pubblicamente un proprio problema a un terapeuta REBT esperto e discutere con lui, secondo la tecnica REBT, come comprendere razionalmente e gestire concretamente il problema. Albert Ellis in persona, finché la salute glielo permise, conduceva questi eventi spettacolari e istruttivi. Spettacolari perché il grado di istrionismo (però motivante ed efficace, almeno nei casi più felici) impiegato da Ellis non era trascurabile.

Albert Ellis Institute - Day 1 - Cronache da New York. - State of Mind
Articolo consigliato: Albert Ellis Institute - Day 1 - Cronache da New York. - State of Mind

L’evento avviene nella Lecture Hall dell’Istituto. È presente una piccola folla di 30-40 persone, di cui la metà sono miei compagni di corso. Ci accomodiamo tra il pubblico, mentre su quello che doveva essere lo scranno di Ellis, su una pedana e dietro una scrivania, è seduto Windy Dryden, una delle personalità scientifiche dominanti della scena REBT e Direttore dell’importante Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy. Accanto a lui una sedia vuota, dove ben presto si accomoda il primo “client”.

A quanto pare la natura pubblica dell’evento incoraggia l’istrionismo insito nello stile attivo e direttivo della REBT. Dryden di suo ci aggiunge una camicia a fiori degna del Presidente della Regione Lombardia (intendo Roberto Formigoni) nonchè 7-8 anelli aurei riccamente sparsi sulle dita delle sue mani e impreziositi di pietre rosse e azzurre.

 

DIMOSTRAZIONE N.1

Il primo “client” è un grave procrastinatore (anche se personalmente penso che il suo vero problema è che anche lui si sia munito di una camicia a fiori). Un tipo simpatico, fin troppo stereotipicamente uscito da un film di Woody Allen. Un artista niuorchese, un pittore che espone nelle gallerie dei quartieri di Chelsea e di Soho, di Tribeca e del Village. Un tipo di un certo successo, ma anche un procrastinatore capace di lasciare opere inconcluse per mesi fino alla stretta finale, fino a pochi giorni prima della mostra. A quel punto inizia a lavorare come un folle giorno e notte, cavandosela ogni volta per il rotto della cuffia.

L’intervento è classicamente REBT, subito diretto alle doverizzazioni. E qui accade qualcosa di interessante. Salta fuori che queste doverizzazioni di cui occorre liberarsi non sono delle convinzioni che fanno soffrire il paziente. Al contrario, queste doverizzazioni sono convinzioni che il paziente userebbe per evitare la frustrazione, per evitare di soffrire. Nel caso del nostro procrastinatore, egli usa una sua doverizzazione che suona più o meno così (cito a memoria): “per creare devo essere spontaneo, ovvero non devo affaticarmi, concentrarmi e insomma soffrire”. Così finisce per perdere tempo e rimandare. Insomma, emerge sempre di più il fondo stoico e quasi depressivo della REBT: non c’è speranza, solo impegno. E una cosa è ancora più chiara: per il terapeuta REBT il cliente è uno che cerca di evitare di soffrire. Ma il terapeuta non deve cascarci: la vita sempre sofferenza è, niente illusioni ma solo schiaffoni.

Un esito un po’ curioso, a pensarci. La terapia REBT nasce come liberazione dalle doverizzazioni tradizionali che ci rendevano schiavi di pregiudizi e di convinzioni di colpa produttori di sofferenza. Non a caso Ellis è, per chi non lo sapesse, una delle radici storiche della rivoluzione sessuale, del sesso senza paura e senza colpa. Il suo libro “Sex without guilt” vendette tantissimo nell’America dei primi anni ’60 e fornì I proventi per l’acquisto della palazzina dell’Istituto (Ellis, 1958). E invece al fondo riemerge questo fondo quasi calvinista di frustrazione. Si direbbe che nella REBT si rinuncia alla repressione per imparare ad accettare la frustrazione.

Dopo aver disputato le doverizzazioni del cliente, Dryden passa a un vero e proprio intervento motivante, legato anche a esercizi comportamentali di esposizione. Qui Dryden diventa ancora più istrionico, concludendo questo primo incontro con un urlo rivolto al paziente e a tutti noi: “GO!” Ovvero: “precipitati al lavoro e non procrastinare più“.

 

DIMOSTRAZIONE N. 2

Storie di Terapie #5 - Simone l'Ossessivo. - Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
Articolo consigliato: Storie di Terapie #5 - Simone l'Ossessivo.

Il secondo cliente mi pare un caso più grave e complesso dell’artista del Village così facilmente liquidato. Un giovane nero diciottenne alle soglie dell’Università, ma anche un grave ossessivo con dubbi su praticamente tutto: quale College sciegliere, chi sarà il futuro compagno di stanza, qual è il significato della vita, cos’è l’amore, cos’è la spiritualità. Insomma, tutto e il contrario di tutto.

Dryden sfugge alla trappola della vaghezza e privilegia il trattamento di un aspetto molto pratico: I dubbi sul futuro compagno di stanza. Potrebbe essere un tipo sporco, questo è il problema del giovane amico (che si conferma così un ossessivo). Dryden subito propone lo scenario peggiore: il futuro compagno di stanza potrebbe essere davvero qualcuno dall’igiene discutibile. Anzi, lo sarà. Punto.

E in questo caso, che succede? Cosa farai, giovane amico che ti affacci alla vita e devi andare all’Università? Manderai I tuoi studi a monte per un paio di calze e mutande sporche lasciate sul pavimento da un tipo che dorme nella tua stanza? È da notare che Dryden, da buon REBTiano, lascia in secondo piano ogni intervento di sdrammatizzazione o di gestione del problema. Tutto va accettato. Chiudi gli occhi, giovane amico, e immagina: è ormai certo che il tuo compagno di stanza lascerà reperti luridi di se stesso in luoghi a te non graditi. Questa è la vita, e -se vuoi davvero viverla- inoltrati nel fango che lo pervade.

E con questa visione si conclude il Friday Night Live qui all’Albert Ellis Institute. Rimanete connessi, e ricordatevelo: c’è sempre del fango intorno a noi. 

 

 FRIDAY NIGHT LIVE @ ALBERT ELLIS INSTITUTE:

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Vasi comunicanti: il dialogo tra Mente e Corpo

 

“La chiave della salute è vivere pienamente la vita del corpo.

Vivere la vita del corpo significa essere in contatto con i propri sentimenti ed essere capaci di esprimerli.

 Questo richiede che il corpo sia il più possible libero dalle tensioni muscolari che ci affliggono”

(A. Lowen)

 

Vasi comunicanti. il dialogo tra mente e corpo. - Immagine:  © freshidea - Fotolia.comLa ricerca scientifica ha ormai trovato accordo sul fatto che vi sia un forte legame tra benessere fisico e benessere psicologico (tra mente e corpo) e che vanno l’un l’altro influenzandosi sia in senso positivo che in senso negativo. Questo deve essere tenuto bene nella mente del clinico nella presa in carico di pazienti con dolore cronico o fribromialgia: una patologia così invalidante, che ha delle conseguenze spesso molto importanti nella quotidianità delle persone in termini di relazioni, vita sociale e lavorativa. Una patologia che sulla carta spiana il terreno allo svilupparsi di una sintomatologia ansiosa o depressiva.

I dati pubblicati dai ricercatori dell’Università di Pisa su Psychotherapy and Psycosomatic vanno proprio in questa direzione, sottolineando, appunto, il dialogo tra mente e corpo.

I ricercatori della Clinica reumatologica dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa hanno studiato un campione di 48 donne affette da fibromialgia e lo hanno confrontato con un campione omogeneo per età di donne sane.  La fibromialgia è un disturbo che si manifesta con dolori diffusi, stanchezza e difficoltà di concentrazione e porta spesso a un atteggiamento negativo verso il mondo dato l’impoverimento della vita sociale relazionale e lavorativa secondario alla malattia stessa.

Sindrome da Affaticamento Cronico. Immagine: © lassedesignen - Fotolia.com
Articolo consigliato: Sindrome da Affaticamento Cronico

Questo stesso dato porta il soggetto ad una maggiore vulnerabilità nello sviluppare sintomi ansiosi o depressivi andando di conseguenza a peggiorare anche la percezione della “disabilità” causata dalla malattia in una sorta di circolo vizioso al negativo. Obiettivo della ricerca è stato valutare quanto il benessere psicologico potesse andare a incidere sulla disabilità secondaria alla fibromialgia. Per benessere psicologico si intende la sensazione di stare conducendo una vita significativa, l’avere buone relazioni amicali ed affettive, l’avere una buona considerazione di sé, oltre alla percezione di poter “controllare” la propria vita. Attraverso una serie di questionari i ricercatori hanno indagato le variabili oggetto dello studio: benessere psicologico, percezione del dolore e disabilità funzionale. I dati raccolti hanno mostrato che la depressione è un tratto significativamente più comune nel gruppo delle pazienti rispetto ai controlli sani, ma soprattutto  hanno mostrato che il benessere psicologico influenza sia il grado di disabilità percepita che la probabilità di sviluppare un disturbo dell’umore. “Avere una direzione, ovvero, programmi ed obiettivi, assieme a un buon grado di relazione e fiducia negli altri sembra prevenire una riduzione delle capacità funzionali, e questo protegge dalla depressione. Anche essere positivi e avere una buona autostima diminuisce il rischio di ansia e quindi di disturbo dell’umore” concludono gli autori.

Questi dati in un’ottica biopsicosociale di presa in carico suggeriscono che i sintomi della fibromialgia possano essere attenuati da buone relazioni sociali ed interpersonali, da una buona autostima e dall’avere degli obiettivi e propositi di vita da perseguire.

Un altro dato interessante a conferma del dialogo tra mente e corpo ci arriva dal mondo degli atleti “confrontando la percezione del dolore di 550 atleti e 330 persone con livelli normali di attività fisica, sia uomini che donne, non sono emerse differenze significative nella percezione del dolore, ma gli atleti presentavo una maggior tolleranza allo stimolo doloroso, erano, cioè, in grado di sopportare un dolore più intenso. Questo quanto emerge da un articolo pubblicato su Pain.

Sistema immunitario - Immagine: © DPix Center - Fotolia.com
Articolo consigliato: Sistema immunitario: Se il corpo è malato, la mente vigila!

Lo studio ha inoltre rilevato che la tolleranza allo stimolo doloroso dipende anche dal tipo di attività fisica praticata: gli atleti che praticavano i cosidetti game sport (giochi di squadra, tennis…) avevano livelli di tolleranza variegati tra loro, mentre gli atleti che praticavano sport di resistenza avevano una tolleranza del dolore piuttosto omogenea tra di loro. Questo dato oltre ad interessare neurobiologi e fisiologi risulta essere molto interessante sul piano clinico, in quanto ci fa presupporre che un certo tipo di allenamento e certi esercizi fisici possano migliorare la percezione del dolore. Questo va a confermare i dati che ci dicono che il praticare una regolare attività fisica va a migliorare la qualità della vita delle persone che soffrono di dolore cronico, in una specifica direzione non andando a diminuire la percezione, ma aumentandone la tolleranza, rendendo, quindi, la convivenza con il sintomo più accettabile.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Amore online: relazioni reali con match virtuali

Amore online: relazioni reali con match virtuali. - Immagine: © Costanza Prinetti 2012.
Amore online. Immagine: © Costanza Prinetti 2012.

 

Amore online: Stabilire relazioni strette, in particolare quelle amorose, è un bisogno essenziale dell’essere umano che direziona molte delle nostre azioni e delle nostre scelte. Creare e mantenere relazioni solide è di fondamentale importanza per il nostro benessere e contribuisce a dare senso e soddisfazione alla nostra vita.

Un’ analisi approfondita degli studi scientifici in materia di amore online è stata pubblicata recentemente da Finkel  e collaboratori (2012). Gli autori, dopo avere discusso approfonditamente le teorie di psicologia sociale relative alle relazioni, hanno messo a confronto la ricerca del partner su internet con quella tradizionale del tu per tu. Le domande che ne sono emerse non sono di poco conto: gli incontri online hanno le stesse caratteristiche di quelli, per così dire, offline? Sono migliori? Soprattutto, algoritmi matematici creati per supporti informatici possono creare delle coppie compatibili?

La Scelta del Partner: dall'innamoramento alla costruzione di una relazione stabile. Immagine: © Artistan - Fotolia.com -
Articolo consigliato: La Scelta del Partner: dall'innamoramento alla costruzione di una relazione stabile.

Secondo i ricercatori, la ricerca del partner attraverso canali virtuali non è cosa nuova, ma era già presente a partire dagli anni ’60. La svolta decisiva si ha però nel 1995 con il lancio del sito web match.com. Grazie alla tecnologia più avanzata rispetto ai decenni precedenti, infatti, è stato possibile creare programmi semplici su computer veloci. Attraverso questi strumenti migliaia di persone avevano l’opportunità di connettersi, condividere e comunicare attraverso il web. Era nata la prima generazione di ricerca di partner online. La successiva svolta si ha nel 2000 con la nascita di eHarmony che, andando oltre ciò che pubblicizzavano i siti web concorrenti, prometteva di trovare il partner compatibile, utilizzando screening psicologici e strumenti scientifici. Attualmente, ci troviamo addirittura in una terza generazione di rapporti online basati sulle apps dei dispositivi mobili che ci portiamo in giro tutti i giorni. Oggi, se hai voglia di avere un appuntamento con un possibile partner, hai solo bisogno di uno smartphone che attraverso il GPS ti indica persone disponibili nella tua zona.

Ma che cosa offrono in più, rispetto alla relazione tradizionale, gli strumenti informatici?

Prima di tutto l’accesso: non vi è alcun dubbio che con l’avvento di internet le occasioni di “incontrare” nuove persone sono aumentate esponenzialmente. Se si considera che normalmente le persone si conoscono all’interno di ambienti circoscritti – come il lavoro, la scuola, i gruppi sportivi etc. , le nuove tecnologie permettono di entrare in contatto con una quantità di persone che normalmente non potremmo mai incontrare. Secondo i dati di Finkel (2012), il 30% della popolazione mondiale utilizza internet regolarmente. Tradotto in termini di incontri virtuali, significa che tutti noi siamo esposti all’incontro online con quasi 2 milioni di persone. Certo, nessuno di noi ha bisogno di 2 milioni di appuntamenti romantici, ma sicuramente questo dato non ha rivali nel passato. Oramai chattare con persone attraverso la rete, visualizzare profili e proporsi come partner sul web sono diventati fenomeni comuni, socialmente accettati.

Il secondo aspetto legato a internet è sicuramente quello della comunicazione: i siti web di incontri virtuali permettono alle persone di comunicare, parlare, mandarsi messaggi privati o visualizzare foto prima ancora di incontrarsi. La propria pagine web diventa un luogo di presentazione personale e di promozione di sé.

Infedeltà emozionale ai tempi del web 2.0 - Immagine: © Spectral-Design - Fotolia.com
Articolo consigliato: Infedeltà emozionale ai tempi del web 2.0.

Il terzo aspetto che i ricercatori indicano come caratteristico degli strumenti virtuali è il matching: la novità delle nuove generazioni di siti dediti agli incontri online, sta nel fatto che essi non si limitano esclusivamente a offrire la possibilità di connettersi con altre persone, bensì promettono di trovare LA persona giusta. Ad esempio, i programmatori di eHarmony hanno affermato che “Dopo tre anni di ricerca e sviluppo, abbiamo identificato la chiave delle dimensioni di personalità che predicono compatibilità e potenzialmente, il successo di una relazione a lungo termine”.

In siti come questo, le persone compilano dei questionari online con alcune informazioni generali (come il sesso, l’età, il livello di istruzione, l’orientamento religioso ecc..) accompagnate a domande più legate alla personalità: interessi, immagine di sé, preferenze sportive, ecc. Alla fine, il candidato in questione inserisce una foto, paga una piccola tassa di iscrizione e…Il match è fatto!

Il particolare omesso è che questi servizi non forniscono alcune informazioni su come le variabili vengono pesate statisticamente e su come vengano combinate tra loro a computer. Gli algoritmi di tali siti web sono per lo più segreti e non sono mai stati pubblicati studi sulla validità o affidabilità delle scale di misura utilizzare o dei modelli usati per accoppiare le persone.

Certamente, scegliere e rimanere in una relazione a lungo termine con una persona è impresa assai ardua da predire. Le coppie, una volta nate, infatti, agiranno come diadi e il loro successo dipenderà da come i partner sapranno affrontare le crisi che si presenteranno. È l’interazione che conta, ciò che ognuno porta nello spazio comune della coppia, che determinerà l’evoluzione della coppia stessa e che può essere scoperto solamente dopo che la coppia si è formata.

Indubbiamente, internet ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare, di connetterci con gli altri e anche di incontrare nuove persone. Rappresenta uno strumento estremamente utile e con infinite potenzialità. Ciò che a mio parere bisognerebbe tenere a mente è che si tratta di un mezzo, uno strumento che può aiutare e che offre stimoli e possibilità ogni giorni diverse. Chiaramente non può essere vissuto come la soluzione ai problemi o come una via di fuga dalle relazioni reali.

Come diceva già il Dr. Snyder del MIT in un articolo del 1966, internet per lo meno ti permette di vedere chi è disponibile.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Medici & Pazienti: diagnosi, comunicazione e internet

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

“Dottore, mi fido di lei ma onestamente guardo anche su Internet!”

I pazienti navigano su internet alla ricerca di significati e interpretazioni dei propri sintomi. Aspetto che ritroviamo sicuramente in modo patologico nei pazienti ipocondriaci, ma non solo. E soprattutto il fenomeno non riguarda solo la sintomatologia psichiatrica ma anche la sfera somatica in generale. Secondo un nuovo studio della University of California i pazienti dei nostri tempi utilizzano molto Internet per documentarsi, informarsi e arrivare preparati alle visite medico-specialistiche giocando un ruolo più che attivo nel processo diagnostico e terapeutico. Lo studio ha preso in esame circa 500 persone membri di gruppi di supporto on-line e che avevano fissato un appuntamento con un medico specialista. Analizzando le modalità di fruizione di tali gruppi, di altre risorse di Internet e di fonti tradizionali (tra cui anche chiedere pareri ad amici e familiari) la ricerca ha dimostrato che non vi sono evidenze per cui i pazienti che ricercano informazioni su Internet riguardanti la propria patologia non debbano avere fiducia nel medico specialista cui si stanno rivolgendo.

Altri fattori sembrano invece impattare sulla scelta di ricercare attivamente informazioni su Internet riguardo al proprio stato di salute, tra cui, per esempio, una condizione di preoccupazione rilevante oppure la sensazione di poter avere un margine di controllo sul proprio malessere. Ritroviamo anche una maggiore ricerca attiva di informazioni in rete nei casi in cui i pazienti ritengano che sia molto probabile la persistenza nel tempo della loro condizione medica.

Un altro dato interessante riguarda come operativamente vengono poi giocate le informazioni raccolte nelle relazione medico-paziente: circa il 70% dei soggetti dello studio ha riferito che avrebbe chiesto chiarimenti al medico riguardo le informazioni trovate su Internet, e addirittura il 40%  ha espresso l’intenzione di stampare il materiale trovato in rete per condividerlo con lo specialista durante la visita.

Al di là delle osservazioni naives che ciascun professionista (e anche ciascun paziente) raccoglie nell’ambito della pratica clinica, questi dati fanno luce su  nuovi fenomeni in cui gli artefatti digitali degli anni 2000 stanno modificando le relazioni e le interazioni medico-paziente nell’ambito sanitario. Dunque, quali emozioni sono in gioco e che interpretazioni darà il singolo specialista di fronte a questo fenomeno, e soprattutto francamente quali possono essere  i pro e i contro per la pratica clinica, sia essa medico-somatica o psicoterapica? 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Le Psychiatric Band nella Riabilitazione Psichiatrica – Prima Parte


La nostra sofferenza non è mica un problemino da curare con ricette

 scritte in un cioccolatino…

Impariamo a volare, Fermata Fornaci, 2009

 

Le Psychiatric Band nella Riabilitazione Psichiatrica - Prima ParteIl cosiddetto stigma in ambito psichiatrico è un’attitudine negativa nei confronti delle persone affette da disagio psichico, frutto di dannosi pregiudizi (pericolosità sociale, rischio di “contagio”, sottovalutazione delle capacità). Lo stigma non è privo di conseguenze molto negative che possono portare all’esclusione sociale delle persone che soffrono di patologie psichiatriche e all’allontanamento delle stesse dai percorsi di cura.

Nel 2008 è decorso il trentennale della Legge Basaglia (1978), che ha portato alla chiusura dei manicomi e alla nascita di una psichiatria più moderna. Per ricordare tale data storica, in collaborazione con il Comune di Modena ed altri enti socio-assistenziali locali abbiamo organizzato il concorso “Oltre il muro, una canzone a trent’anni dalla legge Basaglia”, in cui abbiamo invitato gruppi musicali e cantautori della zona a scrivere una canzone ispirata ad alcuni pensieri del grande psichiatra veneziano.

Hanno risposto all’appello più di quaranta band ed è lì che per la prima volta ho sentito parlare di psychiatric band. Quattro dei gruppi partecipanti erano nati infatti nell’ambito della riabilitazione psichiatrica e comprendevano utenti, operatori e talvolta musicisti volontari. 

Da tale iniziativa è nato un CD e un libretto con i testi delle canzoni, scaricabile

Musica & Terapia: "La prossima volta porti la chitarra". - Immagine: © RA Studio - Fotolia.com
Articolo consigliato: Musica & Terapia: “La prossima volta porti la chitarra” Un caso Clinico.

La definizione psychiatric band non ha una sua ufficialità scientifica, o per lo meno non ho trovato ancora nulla in letteratura, ma credo sia un termine simpatico ed efficace per definire gruppi musicali formati da utenti (musicisti e non), operatori (musicisti e non) e musicisti volontari che nascono proprio all’interno di percorsi di riabilitazione psichiatrica pubblici, privati convenzionati o nell’ambito del volontariato sociale (Centri diurni, Day Hospital, Associazioni famigliari di pazienti psichiatrici). 

Le psychiatric band si esibiscono pubblicamente ove possibile in contesti “protetti” (feste interne dei centri riabilitativi allargate ai famigliari, settimane della salute mentale) e “non protetti” (rassegne, locali, piazze, etc.). I gruppi possono interpretare covers o scrivere canzoni originali (il cosiddetto songwriting).

La zona modenese, oltre a vantare una nota tradizione musicale cantautorale (Guccini, Bertoli, Caselli, Equipe 84, etc.) ha dato vita già tanti anni fa ad esperienze di questo tipo con il lavoro di Claudio Cavallini, pioniere della musicoterapia che favorì lo sviluppo di gruppi corali  (Corale Arcobaleno) o strumentali di integrazione che avevano finalità di “individuare condizioni favorevoli ad un graduale e progressivo sviluppo della indipendenza e dell’autonomia del soggetto rispetto alle tutele e alle sicurezze rappresentate dal servizio”, e ancora “costruire una esperienza non psichiatrica in un gruppo finalizzato alla espressione e alla produzione culturale, …eventuali esibizioni pubbliche, da valutarsi volta per volta, in accordo tra i responsabili del servizio e il maestro conduttore…all’occorrenza, favorire il passaggio e sostenere lo sforzo in prospettiva professionale o semiprofessionale” (Albano F. et al, 2004).

Dal 2002 si svolge a Viterbo il Festival nazionale delle psychiatric band, promosso dal Centro Diurno “Luna piena” del DSM di Viterbo, coordinato dal Dr. Venanzio Venanzi, psicologo e chitarrista (degno del migliore Dave Gilmur dei Pink Floyd). 

Nel 2009 ho avuto il piacere di partecipare all’edizione del Festival accompagnando una psychiatric band nata in un Centro Diurno di Sassuolo, i Darkiska. Dividere il palco con gruppi provenienti da diverse parti d’Italia e che si sono esibiti in generi così eterogenei (dal rock, al rap, al folk) è stata un’esperienza che ricordo con molto piacere. Oltre alla parte prettamente musicale dell’esperienza, credo che la cosa che mi ha colpito di più siano stati il viaggio e la convivenza per due giorni con i componenti del gruppo.

Per me, giovane psichiatra, è stata la prima volta che trascorrevo del tempo con i pazienti al di fuori dei contesti istituzionali (ambulatori, day hospital, reparti) e mi sono reso conto come tali esperienze ti portino davvero a vedere la malattia da punti di vista nuovi e slegati dai pregiudizi della routine clinica stereotipata. Confrontandomi su questo tema con educatori ed altre figure che frequentemente trascorrono del tempo con gli utenti al di fuori degli spazi di cura istituzionali (dai viaggi, alle vacanze, ma anche semplicemente fare la spesa o trascorrere in vari modi il tempo libero) ho ricevuto le stesse impressioni di come si scoprano aspetti delle persone che difficilmente emergono all’interno dell’istituzione.

Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale. - Immagine: © spiral - Fotolia.com
Articolo consigliato: Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale #1

Sono occasioni preziose, in cui la persona non si identifica con la propria malattia. Mi ricordo ad esempio, mentre prendevamo il treno, la domanda di un utente su come venivano fissati i bulloni alle rotaie. Ti accorgi di come l’attenzione delle persone possa focalizzarsi su aspetti esperienziali a cui tu non avresti mai pensato. E’ questa la ricchezza della diversità. 

Altre volte ti accorgi di nutrire pregiudizi anche come operatore, come quando durante un’esibizione a teatro, un paziente che aveva precedentemente sofferto di una forte depressione con idee autolesive fissò la sua attenzione sul cordame che si trova sospeso sul soffitto dietro al sipario, destando in me il pensiero automatico che quelle corde potessero fargli pensare al suicidio tramite impiccagione. Poco dopo semplicemente mi spiegò che era la prima volta che scopriva i segreti che si celano dietro il teatro e ne era affascinato. A volte con certi pazienti siamo troppo ansiosi o iperprotettivi!    

Quali sono le finalità e gli obiettivi di questi tipi di esperienze?

Secondo la mia esperienza e il confronto con i colleghi che organizzano gruppi musicali simili, le principali funzioni delle psychiatric band possono essere:

 

  • Migliorare la socializzazione
  • Favorire l’espressività e la creatività
  • Combattere lo stigma della malattia mentale
  • Migliorare l’autostima
  • Studiare le dinamiche di gruppo
  • Favorire l’ascolto reciproco
  • Migliorare la concentrazione
  • Migliorare l’autocontrollo

 

L’esperienza dell’esibizione dal vivo, sebbene non debba essere ricercata in modo esasperato, rappresenta spesso un’indispensabile fonte di motivazione per far progredire il gruppo lungo il proprio percorso di crescita. Va tenuto presente a questo riguardo il rischio della iperstimolazione che può talvolta creare scompensi in certe persone particolarmente fragili. L’equipe curante dovrebbe chiaramente tenere in considerazione il potere stimolante della musica e valutare la partecipazione al gruppo di ogni componente a seconda del proprio stato psichico.

Inoltre l’esibizione in luoghi pubblici comporta per molti vissuti di vergogna, in quanto risulta difficile (e ipocrita) nascondere che il gruppo nasca nel contesto della riabilitazione psichiatrica. In tali casi è proprio la partecipazione diretta degli operatori, che “si mettono in gioco” (cantando, suonando, ballando), che può aiutare a superare tali paure. E’ inoltre abbastanza normale per il pubblico durante le esibizioni di gruppi costituiti da operatori, utenti e volontari, non distinguere “chi sia chi”.

Il cercare e selezionare quindi due o tre occasioni per esibirsi durante l’anno diventa indispensabile per dare un senso all’esperienza. 

Psicantria - Copertina disco -
Articolo consigliato: La Psicantria: manuale di psicopatologia cantata.

A Modena ad esempio ogni anno teniamo un concerto in un parco (rassegna Loving Amendola) in cui si esibiscono le psychiatric band e i cantautori che hanno partecipato al concorso Oltre il muro, di cui parlavo prima, in modo tale da fare continuare l’esperienza e monitorare anno dopo anno i progressi delle band, ascoltare i nuovi brani composti e trascorrere del tempo assieme.

Un altro possibile obiettivo del gruppo può essere la registrazione dei brani che può avvenire a vari livelli di professionalità e complessità. 

A prescindere dalla metodologia di registrazione (in studio di registrazione, durante un live, con il computer nella sala prove del Centro Diurno…), la realizzazione di un CD musicale rappresenta un’impronta del passaggio del gruppo, il frutto dell’esperienza che può essere condiviso anche con amici, famigliari, altri operatori e talvolta può essere venduto ai concerti come fonte di autofinanziamento. Tanto ormai, con la crisi del discografica attuale, bisogna essere “matti” per pensare ancora di produrre dei CD…

Nella seconda parte dell’articolo racconterò la mia esperienza con i Fermata Fornaci, psychiatric band nata nel Day Hospital dell’Ospedale Privato Villa Igea di Modena. 

 LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO 

 

BIBLIOGRAFIA:

Vota la vignetta di State of Mind al concorso di Internazionale!

@stateofmindwj

State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche. Twitter: @stateofmindwj - State of Mind's Tweets Cover Image © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

State of Mind partecipa al concorso per vignette di Internazionale.

La vignetta più bella sarà premiata nel corso del festival di Internazionale a Ferrara il 5-6-7 ottobre 2012.

Il concorso è organizzato dalla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea in collaborazione con Internazionale per premiare la migliore vignetta politica pubblicata sulla stampa italiana nel 2012.

 

VOTA PER LA VIGNETTA DI STATE OF MIND! 

 Le Vicissitudini Psicologiche dell'Euro. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti.

Christine Lagarde sorveglia e segnala come un guardalinee, la Merkel imperterrita sentenzia le sorti delle “squadre europee”. Il parallelismo tra gli Europei di calcio 2012 e le dinamiche dell’Europa economica si gioca anche sulla terminologia, sul maggior rigore economico predicato dall’arbitro Merkel(arbitro peraltro molto severo e dal cartellino rosso facile), sull’espulsione dal campo per “comportamento scorretto”. Ma in gioco c’e ben più di una coppa calcistica, e le altre squadre lo sanno bene.

 Leggi l’articolo 

 

 

 

Psicoterapia & Desiderio: Costi e Benefici del Pensiero Desiderante

 

Psicoterapia & Desiderio- Costi e Benefici del Pensiero Desiderante. - Immagine: © dpaint - Fotolia.comIn diversi articoli ho descritto il pensiero desiderante come uno stile cognitivo cosciente che può essere responsabile dell’esperienza di Craving e di una scarsa percezione di controllo sui propri impulsi (Caselli, Soliani & Spada, 2012).

Ricordiamo di cosa si tratta: un modo di pensare focalizzato su un oggetto o un’attività desiderati con due componenti: (1) prefigurazione sensoriale e immaginativa dell’esperienza positiva connessa con l’oggetto del desiderio e (2) pianificazione operativa e concreta delle modalità per ottenerla (Caselli & Spada, 2011). Il pensiero desiderante e le sue conseguenze sono state evidenziate in molteplici disturbi: abuso di alcool, dipendenza da nicotina, gioco d’azzardo patologico, bulimia nervosa (Caselli & Spada, 2010; Caselli, Ferla, Mezzaluna, Rovetto & Spada, 2012; Caselli, Nikcevic, Fiore, Mezzaluna & Spada, 2012).

Ma il pensiero desiderante è una facoltà dell’essere umano anche molto utile. Come per la maggior parte delle funzioni cognitive il problema non sta tanto nel processo stesso ma nel suo uso e nelle regole metacognitive che lo governano. 

Riflettiamo su quali possono essere i vantaggi del pensiero desiderante:

1. è un ottima strategia per automotivarsi e tenersi attivi in un impegno immediato verso un obiettivo specifico

2. permette di pianificare azioni complesse per raggiungere l’obiettivo

Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio

3. garantisce una forma di anticipazione della gratificazione immediata (permette di assaporare già ora un po’ del piacere che verrà)

4. mantiene la concentrazione e rende resistenti alle distrazioni.

Quando diventa un problema? Al momento possiamo lanciare solo qualche plausibile ipotesi. Un primo problema può essere il target, cioè l’oggetto del desiderio. Abbiamo verosimilmente un problema se usiamo il pensiero desiderante per oggetti o attività (1) dannosi e/o pericolosi (es: droghe), (2) che non sono accessibili o non raggiungibili, (3) che non vogliamo realmente raggiungere perché a un’accurata e più astratta osservazione li troviamo in contrasto con altri nostri valori (es: desiderare il ragazzo dell’amica).

In queste condizioni siamo in pericolo e abbiamo bisogno di avere una certa consapevolezza distaccata per cambiare lo stile di pensiero; restare nel pensiero desiderante in queste condizioni ci esporrebbe a pericoli e frustrazioni.

Il secondo problema è l’uso autoregolatorio del pensiero desiderante. Il desiderio può diventare lo strumento per (1) indurre un immediato piacere virtuale o (2) distrarsi da altre preoccupazioni o pensieri negativi.

Certo nell’immediato tiene occupata la mente, la cattura e la dirige verso un obiettivo piacevole, la sostiene con una forma di piacere virtuale molto simile per il nostro cervello a quello reale. Ma per non ricadere nei pensieri negativi l’individuo è costretto a rimanere dentro il desiderio e con il tempo il piacere dell’ipotesi di avere qualcosa di bello diventa il dolore di non averlo davvero. E allora nella percezione individuale, semmai vi fossero stati dei freni, a questo punto non resta che affogare nell’azione concreta, apparentemente impulsiva, un azione di ricerca fisica, controparte della ricerca mentale del pensiero desiderante.

Molte cose ancora restano da scrivere. Tuttavia è sempre più chiaro come la conoscenza del modo in cui pensiamo ai nostri desideri e la capacità di regolare il proprio stile cognitivo-attentivo, rappresentano un’interessante frontiera per la psicoterapia cognitiva di questi disturbi.

 

BIBLIOGRAFIA: 

Dinorfina: l’oppioide endogeno che placa l’Ansia – Neuroscienze

FLASH NEWS   NeuroscienzeFarmacologia

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

 In questi giorni la rivista scientifica Journal of Neuroscience pubblica un interessante articolo in cui si presentano i dati di un programma di ricerca che ha identificato il meccanismo in grado di bloccare il naturale e graduale placarsi dell’ansia a seguito di un evento stressante/traumatico.

Nel momento in cui il cervello rilascia una quantità non sufficiente di dinorfina ecco che l’ansia non se ne va. L’elemento chiave che aiuta a comprendere le differenze individuali nel mantenimento di una condizione ansiogena importante, da un punto di vista neurobiologico sembra essere la scarsa quantità a livello cerebrale di dinorfina, una sostanza naturalmente prodotta dal nostro corpo e che fa parte della famiglia degli oppioidi (tra cui ritroviamo anche le endorfine) e che avrebbe proprio la funzione di attenuare gli intensi stati emotivi negativi.

 LEGGI ARTICOLI SU: ANSIASTRESSTRAUMI

Partendo da un esperimento sui topi di laboratorio i ricercatori hanno dimostrato che nei piccoli animali in cui veniva inibito il gene per la formazione della dinorfina, dopo essere stati esposti a un breve shock elettrico, si presentavano sintomi di ansia lungamente persistenti; viceversa nei topi che rilasciavano normali livelli di dinorfina, seppur presenti all’inizio, i sintomi ansiosi andavano scemando nel tempo.

I risultati sono trasferibili anche sugli esseri umani. Considerando le variazioni naturali individuali nella quantità di dinorfina prodotta, un secondo esperimento ha coinvolto 33 individui divisi in due gruppi: il primo caratterizzato una predisposizione genetica a un maggiore rilascio di dinorfina, mentre il secondo da una minore espressione di tale gene. Ai partecipanti è stato somministrato uno stimolo spiacevole -trigger di uno stato emotivo stressante e negativo- mentre venivano registrate le loro attivazioni cerebrali. I soggetti con una minore attività del gene della dinorfina presentavano reazioni di stress e ansia di durata considerevolmente maggiore rispetto a coloro che erano predisposti al rilascio di maggiori quantità di questa molecola; inoltre, è stata osservata una graduale diminuzione dell’attività dell’amigdala e un aumento dell’associazione tra amigdala e corteccia prefrontale nel gruppo predisposto a un adeguato rilascio di dinorfina rispetto al gruppo “deficitario” in cui invece era presente una maggior attivazione dell’amigdala e una minore associazione tra quest’area e la corteccia prefrontale.

Lo studio si pone chiaramente -e ancora una volta di questi tempi- a livello neurobiologico nella lettura del fenomeno della persistenza di condizioni sintomatologiche ansiose e traumatiche, fornendo nuovi spunti per lo sviluppo di strategie integrate di trattamento per i pazienti traumatizzati.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Andras Bilkei-Gorzo, Susanne Erk, Britta Schürmann, Daniela Mauer, Kerstin Michel, Henning Boecker, Lukas Scheef, Henrik Walter, and Andreas Zimmer. Dynorphins Regulate Fear Memory: from Mice to Men. The Journal of Neuroscience, 4 July 2012, 32(27):9335-9343; DOI: 10.1523/JNEUROSCI.1034-12.2012

Albert Ellis Institute – #1 – Cronache da New York

 

Visita all’Istituto Albert Ellis di New York: primo giorno

Albert Ellis Institute - Day 1 - Cronache da New York. - State of Mind
Albert Ellis, padre della Rational-Emotive Behaviour Therapy

La redazione di State of Mind va in pellegrinaggio in una delle sedi storiche della nascita della terapia cognitiva: l’Istituto Albert Ellis di New York, dove ancora oggi si insegna il modello della terapia razionale emotiva comportamentale (REBT) di Albert Ellis. Cesare de Silvestri (1926-2009) importò in Italia questo modello negli anni ’60 e da allora esso rimane una delle radici storiche della pratica terapeutica cognitiva nel nostro paese. Chi si è formato sulla REBT è particolarmente attento e appassionato alla tecnica, al come si fa terapia cognitiva. Anche per questo, e per bilanciare la grande passione teoretica che ha sempre mostrato il cognitivismo italiano, alcuni di noi hanno deciso di tornare a nutrirsi alla fonte della tecnica di Ellis.

Frequentiamo perciò il “Practicum”, il corso dove si ripercorrono le basi tecniche e teoriche della REBT. Si espone il noto modello dell’ABC. Si conferma che il disputing alla Ellis è focalizzato soprattutto sulle domande “a che ti serve ragionare così?” e “quanto ti conviene davvero ragionare negativamente?”, insomma sull’aspetto pragmatico e tende sempre a sfociare nella critica della convinzione del paziente di non essere in grado di tollerare la frustrazione . Insomma, si conferma quello che sapevamo, e questo è confortante sulla qualità della trasmissione del sapere REBT che si riceve in Italia.

Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis. - Immagine: © zero13 - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis

Apprendiamo però alcune sfumature che sono importanti per comprendere lo spirito della “real thing”. Per esempio la centralità di quelle che noi chiamiamo “doverizzazioni” e loro “demand” (e non più “must”; un’innovazione rispetto a Ellis? L’ho chiesto, ma la risposta è stata evasiva). Le doverizzazioni sono quelle convinzioni rigide e inflessibili di tipo valoriale per le quali, se una data situazione o evento non avvengono in una certa modalità, diventano inaccettabili e quindi catastrofiche.

Si insiste molto sulla domanda. “che cosa ha pensato che glielo rende inaccettabile?” Domanda che è più focalizzata sull’aspetto negativo rispetto alla formulazione più aperta “che cosa non ti piace in questo?” di derivazione costruttivista. Le doverizzazioni sono considerate le credenze irrazionali primarie, mentre le altre tre (terribilizzazione, intolleranza della frustrazione e auto-svalutazioni) sono definite derivate.

Si conferma definitivamente un accorgimento tecnico che non sempre è chiaro nei libri REBT: le conseguenze emotive e comportamentali “C” si accertano prima delle credenze, i “B”. Anzi, si può anche partire dal “C”, poi accertare la situazione attivante ”A” e infine arrivare al “B”. Un modello “CAB”.

Un’altra piccola sfumatura è che il B è ridotto alle 4 categorie di pensiero cosiddetto irrazionale (le elenchiamo ancora: doverizzazione, terribilizzazione, intolleranza della frustrazione e auto-svalutazione). Ogni altro pensiero diventa un “A”. Ad esempio, in un’ansia da esame anche il pensiero “ho paura di non passare l’esame” non è un B ma un A. Il B sono “devo assolutamente passarlo” (doverizzazione), “se non lo passo sarà terribile” (terribilizzazione), “se non lo passo non reggerò” (intolleranza alla frustrazione) e “se non lo passo sarò un/a miserabile” (auto-svalutazione).

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico. - Immagine: © Carsten Reisinger - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico di Beck

Questo significa una cosa ben precisa: il terapeuta REBT fa scarsi tentativi di sdrammatizare alla Beck. Quasi per niente (anche se a precisa domanda si sono un po’ calmati e hanno ammesso che si può fare). Per loro si va sempre allo scenario peggiore, lo si “sdoverizza” e poi si apprende che si può tollerarne l’intrinseca frustrazione. La decatastrofizzazione ellisiana non è quindi una sdrammatizzazione dell’esito concreto (insomma, non stanno tanto a chiedere “perché dovrebbero bocciarti?”), ma solo delle doverizzazioni (“perché è così necessario che tu pensi che questi esame vada superato?”).

Si conferma dunque la natura stoica e pessimista della REBT, in contrasto con quella ottimista di Beck. Questo è confermato anche dal largo uso che fanno della tecnica del “worst scenario”. Qual è lo scenario peggiore? E anche se si avverasse, perché lo ritieni così tremendo? E sei sicuro di non poterlo tollerare?

Anche questo si vede poco nei libri ma diventa chiarissimo nella pratica, nelle simulate che fanno. Questa insistenza sullo scenario peggiore e sulla sua accettazione “sdoverizzata” è anche teorizzato: gli ellisiani pensano che, se ci si limitasse a sdrammatizzare alla Beck, il paziente sarà sempre dipendente dal buon o cattivo esito dei suoi desideri e passioni. Occorre invece prepararlo al peggio.

Insomma, la REBT sembra una terapia per uomini duri. Forse esagerano un po’.

Concluso il primo giorno di training, abbiamo assistito a uno dei famosi “Friday Night Live” dell’Istituto Ellis, incontri aperti al pubblico in cui volontari (spesso ex-pazienti, ho intuito) parlano davanti a tutti dei loro problemi e poi sono ristrutturati in tempo reale dal conduttore. Un tempo li conduceva Ellis in persona.

Nel prossimo articolo descriveremo il “Friday Night Live” a cui abbiamo assistito. Rimanete in linea.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Vademecum per i giovani papà…

 

Vademecum per i neo - papà. Immagine - © drubig-photo - Fotolia.comDiventare genitori, si sa, è un processo molto complesso. Gli adattamenti psicologici richiesti ai neo-genitori verso la nuova condizione di “papà e mamma” richiedono tempo e spesso non seguono percorsi lineari. Se ne è parlato molto qui su State of Mind

Spesso, in questo percorso, il ruolo dei papà è un po’ sottovalutato o viene lasciato in secondo piano. Sicuramente alle neo-mamme sono richiesti i compiti più “ingrati”, emotivamente e concretamente, ma ciò non significa che i papà, non possano svolgere un ruolo molto importante, che faciliti gli adattamenti della compagna e che non sia ridotto a quello del “ma cosa ne vuoi sapere tu, me lo sono portato io in pancia per nove mesi!”. 

Nel marasma di informazioni che ci arrivano dai media, un neo-genitore si trova a fare i conti con esperti che sentenziano sul “cosa fare e cosa no”, media che riportano una visione bucolica, stereotipata e idealizzata dell’essere genitori, altri genitori intorno sempre pronti a dispensare consigli e spiegazioni su “come hanno fatto loro con i figli” etc… Su State of Mind vorrei semplicemente sollecitare, tramite alcuni spunti di riflessione, il coinvolgimento dei padri nelle proprie vicissitudini “post-partum” e una loro maggior partecipazione, che sia di aiuto per la propria compagna e per sè stessi, evitando il rischio di provare i frequenti sentimenti di esclusione dalle vicende della coppia madre-bambino. Per rendere molto concreto il tutto, segue una lista riflessioni che i papà (e anche le mamme) potrebbero prendere in considerazione e leggere con un atteggiamento consapevole, curioso e proattivo. 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Padri Autorevoli vs Padri Autoritari: La perseveranza nei figli

 1. Il passaggio alla genitorialità implica il doversi costantemente adattare a enormi cambiamenti fisici (soprattutto per le mamme), emotivi e sociali (per entrambi). Il mito che “avere un bambino significa che la mia vita sarà sempre e tutta meravigliosa e bellissima”… è un mito! 

2. La maggior parte dei genitori incontra delle difficoltà ad adattarsi al nuovo ruolo, alcune tra queste migliorano con il tempo (e a breve), altre necessitano di un aiuto esterno (si vedano ad esempio le forme di depressione post-partum, che non è un disagio esclusivo delle mamme ma che spesso include anche i papà, che diventano reattivamente depressi “post-partum” a loro volta);

3. Attenzione alle aspettative irrealistiche! È difficile e molto improbabile che le cose vadano tutte bene e che non ci sia nessuno scossone in famiglia (per quanto lieve e gestibile);

4. Il diventare genitori implica almeno due cose: gestire le richieste fisiche e gestire le richieste emotive. Solitamente i papà sono abbastanza bravi nel gestire le richieste fisiche (le famose nottate, impegni, gestire il lavoro e la propria presenza a casa…). È sulle richieste emotive, proprie e della propria compagna che a volte i papà traballano un po’. Anche i papà dovrebbero legittimarsi a provare emozioni, che possono essere sgradevoli e negative e a esprimere tali emozioni condividendole con amici e parenti, al fine di costruire consapevolmente il proprio ruolo di padre, emotivamente sentito e partecipato. 

5. Nel diventare genitori, esistono molte questioni comuni a quasi tutti i papà: mancanza di sonno, non sapere in che modo essere utile, essere criticati, gestire gli impegni di lavoro e i lavori in casa, sentirsi tagliati fuori etc… Sono temi che andrebbero affrontati all’interno della coppia e discussi in modo costruttivo, al fine di negoziare soluzioni funzionali e adeguate. 

6. Molte coppie sentono che la loro relazione, con l’arrivo di un figlio, ha perso intimità. Tutte le energie sono rivolte al/alla nuovo/a arrivato/a e questo può far sentire i partner come “messi da parte” o che l’attenzione sulla coppia in quanto coppia (spogliata del proprio ruolo da genitore…) è venuta meno. Non c’è più tempo per fare niente. Questo aspetto, alla lunga può diventare un problema. Una buona soluzione è quella di trovare del tempo per la coppia, per quanto breve e risicato, per discutere e condividere emotivamente. Questo non vale solo per i padri, ovviamente, ma anche per le neo-mamme che si trovano ad affrontare un notevole cambiamento degli equilibri di coppia, che si vanno a sommare ai propri cambiamenti psicologici, molto potenti in gravidanza e nel post-partum. Un esempio? Organizzare del tempo insieme: dormire, fare una passeggiata con la carrozzina, cercare una baby-sitter… condividere del tempo insieme significa creare le condizioni per comunicare i propri sentimenti, sentirsi meno soli e ravvivare la relazione di coppia, pensando che è proprio la qualità di quella relazione (nella maggior parte dei casi…) che ha portato alla scelta di diventare genitori. 

7. Le richieste del neonato sono continue, e la presenza fisica e emotiva, l’esserci per, con e insieme al bambino fonda le basi relazionali e la qualità del legame di attaccamento con i genitori. Questo non significa distruggere, abbandonare e indebolire la relazione di coppia, bensì, al massimo, “sospenderla”, metterla in “standy-by” per un breve periodo funzionale alle esigenze del bambino. 

8. E giungiamo, infine a qualche “consiglio per la sopravvivenza”, nel caso in cui il processo che porta un uomo a diventare papà subisca rallentamenti o presenti difficoltà. 

Perfezionismo e genitorialità. Immagine: © sonya etchison - Fotolia.com -
Articolo consigliato: “Perfezionismo e Genitorialità, lo stress e l’ansia di essere un genitore perfetto”

a. Mantenere “segrete” le proprie fragilità e difficoltà non aiuta, né voi, né la vostra compagna né la relazione con vostro/a figlio/a

b. Accettare aiuto dagli altri (amici, parenti o specialisti) è un segno di grande forza e maturità psicologica

c. Prendersi qualche spazio per sé, magari concordandolo con la propria compagna, per rilassarsi, con moderazione

d. Trovare (regolarmente) del tempo da spendere con la vostra compagna, insieme e da coppia non da genitori

e. Sforzarsi di non cadere nel circolo vizioso del “mi sento escluso perché la mia compagna mi esclude, quindi io mi escludo ancora di più e poi la mia compagna mi accusa di essere un padre assente e io perdo le forze e divento davvero assente”.

9. L’attacco e l’accusa vicendevole sono spesso in agguato nelle coppie di neo-genitori e a volte sembrano la soluzione “migliore” (a breve termine) per “sfogarsi” e per gestire le proprie frustrazioni.. Attenzione! Le fatiche sono tante, questo è sicuro, tanto quanto le soddisfazioni e la gioia…viverle in due, ognuno con i propri ruoli, capacità e possibilità, non è scontato né dovuto e quando è possibile, diventa un motore molto potente che rende la vita più ricca e più soddisfacente, come coppia e come genitori.      

 

 

BIBLIOGRAFIA:

IED (Intermittent Explosive Disorder ): Il disturbo esplosivo intermittente negli adolescenti

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl Disturbo Esplosivo Intermittente (in inglese Intermittent Explosive Disorder – IED) è una sindrome che rientra nel quadro dei disturbi del controllo degli impulsi, caratterizzata da ricorrenti gravi azioni aggressive (criterio A) plausibilmente esito di una deficitarietà del controllo degli impulsi aggressivi, in cui il grado di aggressività manifestato è spropositato rispetto ai fattori psicosociali stressanti precipitanti (criterio B).

E’ possibile fare diagnosi di IED solo nel momento in cui vengano esclusi altri disturbi che potrebbero includere gli episodi di comportamento aggressivo; similmente i comportamenti aggressivi non sono dovuti all’effetto fisiologico diretto dell’uso di sostanze o di una condizione medica generale (criterio C). La sindrome in ottica DSM-IV TR mette al centro della sintomatologia il discontrollo degli impulsi aggressivi.  Il soggetto solitamente descrive gli episodi aggressivi come attacchi di collera in cui il comportamento esplosivo è preceduto da una sensazione di tensione o eccitazione, cui segue generalmente a breve termine un senso di sollievo. A lungo termine, il soggetto può sperimentare emozioni secondarie di colpa, tristezza e imbarazzo in relazione all’episodio aggressivo attuato.  

LEGGI ANCHE: IMPULSIVITA’ E GIOCO D’AZZARDO: STIMOLI COMPORTAMENTALI PER INIBIRLI

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Stili educativi genitoriali e delinquenza adolescenziale

Uno studio della Harvard Medical School rivela che questi gravi episodi di rabbia incontrollata sarebbero molto frequenti proprio tra gli adolescenti. A partire dalla survey National Comorbidity Survey Replication Adolescent Supplement gli autori affermano anche che 1 adolescente su 12 (circa sei milioni di ragazzi negli USA) soddisfano i criteri per una diagnosi di Disturbo Esplosivo Intermittente (in inglese Intermittent Explosive Disorder – IED). I risultati sono stati pubblicati da pochi giorni su Archives of General Psychiatry.

La ricerca mostra anche che la maggior parte dei casi di IED non riceve un adeguato e specifico trattamento: mediamente il 37.8 % degli adolescenti con diagnosi di IED è in trattamento per generici “problemi emotivi”, mentre solo il 6.5 % riceverebbe trattamenti altamente specifici per la gestione della rabbia. E’ evidente che, con tutte le cautele legate alla possibilità di iper-patologizzazione di determinate situazioni, uno screening attento e altrettanti specifici programmi di terapia sarebbero più che auspicabili anche in contesto italiano.

 

BIBLIOGRAFIA: 

TAPP (Talking About a Personal Problem): la conversazione guidata intorno ad un problema personale #1


La conversazione guidata intorno ad un problema personale - parte prima - Immagine: © freshidea - Fotolia.comLa TAPP, Talking About a Personal Problem (Lenzi, Bercelli, 2010), e’ un’intervista semistrutturata che si dedica all’analisi di un problema personale presentato dal paziente.

Quattro le fonti teoriche:

Il cognitivismo clinico costruttivista, secondo il quale l’individuo da’ senso alla propria esperienza utilizzando schemi di conoscenza personali e significati costruiti soggettivamente.

La tecnica della moviola (Guidano, 1991; Dodet, 1998; Lenzi, 2009), che si concentra su un episodio raccontato dal paziente e collega il livello dell’esperienza immediata, ossia come il soggetto ha percepito l’evento, con la rielaborazione esplicita relativa all’immagine di sé, ossia il significato che il soggetto attribuisce a quell’evento quando lo riconduce all’idea globale che ha di sé.

L’interpretazione dei trascritti di seduta con la metodologia dell’Analisi Conversazionale (Bercelli, Lenzi, 1998; Lenzi, Bercelli, 2010), in cui “la lettura delle risposte fornite dal paziente nei termini di adesione ai formati conversazionali e quindi di mosse linguistiche proprie (che segnalano una sintonizzazione e capacità di attivazione di quel particolare registro narrativo) o improprie…permette di evidenziare il tipo di uso interpersonale che il soggetto fa dei propri racconti (per esempio attività di insubordinazione e/o non pertinenti quali lamentela, accusa, richieste di soccorso, ecc..) e quindi di descrivere quelli che possiamo definire gli aspetti interpersonali di costruzione della conoscenza di sé” (Lenzi, Bercelli, 2010, pp. 206-207).

L’Adult Attachment Interview (Main, Goldwin, 2010; Crittenden, 1999), che suggerisce come la memoria della propria storia personale e la narrazione autobiografica siano legate sia agli eventi specifici sia alle successive modalità di elaborazione che il soggetto pone in atto, nonché ai contesti interpersonali ai quali le rievocazioni si riferiscono.

La costruzione delle narrative personali in terapia cognitiva. - Immagine: Copertina del libro. Proprietà di Eclipsi Editore.
Articolo consigliato: La costruzione della narrative personali in terapia cognitiva #1

Analogamente, la TAPP si propone di indagare i formati conoscitivi che il soggetto utilizza per interpretare gli eventi.

L’intervista si compone di cinque sezioni:

  • descrizione generale del problema;
  • ricostruzione storica e la forma che il problema assume nel presente;
  • narrazione di almeno un episodio significativo;
  • domande del terapeuta riguardanti la memoria per immagini e le valutazioni di pericolo;
  • rielaborazione integrativa o riformulazione del problema. 

La TAPP analizza in primo luogo lo stile conversazionale, nel quale vengono distinti sei diversi elementi:

  • modalità di adesione ai successivi frame dell’intevista ed eventuale presenza di attività comunicative informali;
  • analisi degli aspetti procedurali, che si identificano in particolare col tentativo di distanziare o coinvolgere l’interlocutore;
  • utilizzo efficace della memoria per immagini;
  • livello di integrazione fra memorie episodiche e memoria semantica;
  • capacità di operare una sequenzializzazione cronologica, tematica e causale degli eventi raccontati;
  • capacità di esplicitare e discernere le differenti tipologie di contenuti tematici e vissuti esperienziali soggettivi.

L’intervista esplora inoltre le prospettive di narrazione; in linea con quanto teorizzato da Wiedeman (1986), esse forniscono indicazioni importanti sulle modalità con cui viene organizzata la conoscenza personale e danno forma a tre differenti tipologie di resoconto: la rimessa in scena/trailer, la partecipazione/documentario, la rielaborazione/film.

Gli stili narrativi rispecchiano peculiari stili di organizzazione della conoscenza personale, ad esempio l’eteroregolazione del sé e delle emozioni contrapposta all’autoregolazione (Lenzi, 2005), e definiscono l’assetto relazionale che si sta sviluppando nel corso del dialogo terapeutico.

In altri termini il modo in cui un soggetto si racconta, i tempi e le cadenze con cui egli svela i propri contenuti problematici, indicano come sia abituato a gestire e a definire le emozioni, come sia solito approcciarsi alle relazioni interpersonali e quale significato stia dando all’esperienza della psicoterapia.

Nel primo stile narrativo, la rimessa in scena, il paziente colloca gli eventi nel contesto interpersonale immediato, in riferimento al proprio stato psicologico e agli scopi comunicativi perseguiti.

La partecipazione rappresenta invece una modalità in cui il paziente ricostruisce i fatti con precisione, ponendo attenzione al contesto di svolgimento e alla sequenza temporale e divenendo testimone esplicito di ogni comportamento osservabile del protagonista.

La rielaborazione, infine, racchiude valutazioni, opinioni ed esperienze personali del narratore, che organizza e integra il racconto all’interno di un’immagine di sé coerente e funzionale.

La terapia, fissando come obiettivo la comprensione e l’eventuale ristrutturazione del tema di vita del paziente, si focalizza sul linguaggio utilizzato ma soprattutto sullo sfondo percettivo ed emotivo; negli strumenti comunicativi di cui l’individuo si serve per raccontare un episodio della propria vita possiamo scorgere il ritratto che egli fa di sé stesso, il significato personale che le sue esperienze hanno assunto nel corso del tempo.

 

 

BIBLIOGRAFIA

La paura dell’abbandono

La paura dell'abbandono. - Immagine: © deviantART Fotolia.comLa paura dell’ abbandono è uno dei timori che spesso affligge gran parte dei nostri pazienti. Rappresenta una delle paure più grandi di cui soffrono molte persone e che crea diversi disagi nel momento in cui condiziona la vita affettiva e relazionale della persona.

 

In cosa consiste la paura dell’ abbandono?

Fondamentalmente, nel timore di rimanere soli, senza nessuno che possa prendersi cura dell’altro, Nell’affrontare in solitudine tutte le diverse prove alle quali la vita ci espone. Si manifesta con la costante e incessante paura di poter perdere la persona con cui si condivide la quotidianità, la persona amata e di conseguenza di rimanere privi di qualsiasi legame affettivo.

Queste persone vivono con la costante convinzione che la persona più cara possa lasciarli in qualsiasi momento. Sono talmente ossessionati da questa convinzione che si svegliano in piena notte in preda ad incubi in cui sognano di essere soli, vulnerabili e indifesi, esposti a qualunque rischio, visto che non c’è nessuno pronto a prendersi cura di loro. Il pensiero più profondo è rappresentato dall’estrema convinzione che passeranno la loro vita in totale solitudine. Questa convinzione si traduce e si manifesta nelle relazioni affettive, esasperando le manifestazioni emotive più semplici, mettendo in atto una serie di comportamenti che anziché portare all’avvicinamento della persona amata, inevitabilmente la allontanano. E’ come se si fossero incastrati in una trappola dalla quale non esiste via d’uscita.

 

Da cosa origina la paura dell’abbandono?

E’ necessario considerare i classici due fattori che da sempre determinano patologia: la biologia e l’ambiente relazionale in cui si sviluppa l’individuo. Nel caso in cui l’infanzia fosse stata caratterizzata da relazioni affettive sicure, in particolare con la propria madre, anche chi avesse una predisposizione biologica potrebbe non sviluppare la trappola dell’ abbandono.In caso contrario quando si cresce in ambienti instabili emotivamente e costellati da perdite o abbandoni, persino chi non mostra una predisposizione potrebbe sviluppare  questa paura.

Da cosa deriva la paura dell’abbandono? Da diversi fattori inerenti a perdite reali, come lutti, traslochi, divorzi, o presunti come immaginare l’interesse del proprio partner per un’altra persona, interpretare i comportamenti normali come abbandonici, etc. Qualsiasi situazione in cui si percepisce una reale o presunta interruzione del contatto emotivo potrebbe attivare la paura dell’ abbandono.

 

E’ possibile guarire dalla paura dell’abbandono?

Sicuramente è possibile familiarizzare e rendersi consapevole dell’esistenza di questa vulnerabilità. Considerando questo nucleo la parte di se stessi da salvaguardare e proteggere. Esistono diversi step che portano a prendere dimestichezza con questa paura:

– Fare un salto nel passato: E’ importante indagare quali sono le circostanze infantili che possano aver portato alla nascita della paura dell’ abbandono. Ricordare l’origine del proprio vissuto abbandonico, perdite, lutti, separazioni reali o emotive, aiuta a capire in che modo spiegare le odierne paure.

– Osservate gli attuali sentimenti di abbandono: diventare consapevoli dei sentimenti di abbandono attuali è importante, perché porta a riconoscere in quali situazioni si attiva questa paura per poi imparare a gestirla. Non si deve fugare l’emozione che deriva da questa situazione di paura, ma sforzarsi di conviverci, trascorrendo del  tempo nel modo che fa più paura, in maniera graduale e non immediata: stando soli con se stessi.

Spesso chi vive la paura dell’abbandono rifuggia la solitudine, per questo è prezioso imparare a sopportarla. Solo in un secondo momento si riuscirà anche ad apprezzarla.

– Cercare di evitare partner instabili o poco desiderosi di impegnarsi in una relazione, anche se suscitano attrazione. Solamente quando si ha una relazione equilibrata ci si può conoscere e imparare a mantenere la propria identità all’interno della relazioni. Se ci si concede interamente al proprio partner si rischia di perdere se stessi. Se si dà tutto all’altro, la sola idea di poterlo perdere appare una reale catastrofe. E’ importante imparare a non rinunciare alla propria identità all’interno di una relazione affettiva. Quindi, contrariamente a quello che si può pensare, essere in relazione con qualcuno non significa essere dediti all’altro in maniera totale, ma essere inclini a se stessi.

– Lasciate al vostro partner il proprio spazio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla gelosia, parente stretta della paura dell’abbandono, ma valutare le alternative alla gelosia vivendola come una manifestazione della paura stessa. Se esiste una buona relazione con un partner stabile e interessato alla vostra persona, non è necessario agire in modo esagerato ai piccoli problemi sul fronte affettivo, ma bisogna lasciarli scorrere senza controllarli. Esaminare le proprio risorse e creare delle alternative aiuta la coppia. Ma la cosa fondamentale da fare è imparare a stare bene da soli, con se stessi.

 

Convivere con la paura dell’abbandono

Lo scopo ultimo di tutto questo percorso è diventare consapevoli del proprio disagio facendo emergere emozioni, sentimenti, pensieri e riflessioni rielaborandoli in modo funzionale e visualizzando sempre una alternativa alla situazione temuta. Solo così facendo è possibile iniziare a costruire una parte di sé nascosta, definita dall’altro. Quando si è soli e si impara a convivere con questa paura, senza utilizzare comportamenti che possano evitare di affrontare la paura stessa, si diventa consapevoli di chi si è e di cosa si vuole dalla vita.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO: 

LA GELOSIA: PATOLOGIA O AMORE VERO?

 

BIBLIOGRAFIA

Avere paura del parto rende più duraturo il periodo del travaglio

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLe donne che hanno paura del parto passano più tempo in travaglio rispetto alle donne che non hanno questo timore pervasivo: è quanto suggerisce una nuova ricerca norvegese pubblicata a fine giugno sulla rivista International Journal of Obstetrics and Gynaecology.

Dal 5 al 20 % delle donne in gravidanza presenta una paura specifica del parto e sembrerebbe maggiormente prevalente in particolare nelle donne più giovani e nelle primipare; altri fattori potenzialmente correlati sono la pre-esistenza di disturbi psichici (anche comuni come ansia e depressione), la carenza di supporto sociale e precedenti eventi negativi a livello ostetrico.  

Lo studio ha coinvolto ben 2206 donne di età media di 30 anni, di cui il 50% circa primipare, in stato di gravidanza non gemellare intenzionate a partorire naturalmente. Alla 32° settimana di gestazione alle donne è stato chiesto di compilare il Wijma Delivery Expectancy Questionnaire (W-DEQ), un questionario validato finalizzato alla misurazione della paura di partorire.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Mamma triste in gravidanza e dopo il parto: concordanza vantaggiosa?

Il criterio fissato per identificare una significativa paura del parto è definito da un punteggio maggiore di 85. Sul totale del campione esaminato il 7,5% delle donne presentavano punteggi elevati sopra-soglia relativamente alla paura del parto.

I dati evidenziano che le donne con questa paura pervasiva legata all’evento del parto presentavano poi al momento effettivo della nascita del figlio un travaglio significativamente più lungo mediamente di circa un’ora rispetto alle donne con minore preoccupazione, pur considerando fattori intervenienti quali analgesia epidurale, e altre procedure  ostetrico-ginecologiche.

L’aspetto psicologico del parto – evento tanto particolare per la donna- è ampiamente riconosciuto; d’altro canto sono auspicabili maggiori studi interdisciplinari e interconnessioni tra le scienze psicologiche e ostetriche, per comprendere al meglio anche i processi emotivo-cognitivi, le differenze individuali e più in generale le variabili in gioco nell’avventura del parto.   

 

 

BIBLIOGRAFIA:

cancel