Quanto riescono a condividere paziente e terapeuta in psicoterapia?Quanti dei contenuti che si scambiano entrano a far parte di un patrimonio comunicativo comune?
Secondo Clark e Schaefer (1989) i criteri che stabiliscono se il messaggio elaborato dal soggetto che parla viene effettivamente condiviso dall’interlocutore sono cinque:
– attenzione continua, quando l’ascoltatore continua a partecipare alla conversazione mostrando interesse per i contenuti esposti dall’altro;
– inizio attinente alla sequenza successiva, se l’ascoltatore avvia una sequenza comunicativa che appare rilevante nella stessa misura di quella precedente;
– dimostrazione, quando l’ascoltatore dimostra di aver compreso ciò che l’altro intendeva comunicargli;
– esposizione, quando l’ascoltatore espone il contenuto che l’interlocutore gli ha presentato in precedenza.
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L’interazione comunicativa che avviene tra paziente e terapeuta durante la psicoterapia si compone di due flussi comunicativi distinti (Bara, 2007): un flusso di superficie, rappresentato dai contenuti che il paziente mette a disposizione del terapeuta, e un flusso profondo, costituito da quella parte di informazioni, esplicite o implicite, che il clinico riceve dal paziente all’interno del flusso di superficie ma che ritiene più rilevanti delle altre, decidendo perciò di rimandargliele.
I due flussi si alternano in modo ciclico e continuo; in alcuni momenti della psicoterapia, il paziente esplicita di condividere col terapeuta uno specifico contenuto, ed e’ allora che possiamo parlare di conoscenza condivisa terapeutica (Bara, 2007). Il tema della condivisione in terapia e’ stato indagato sia da analisti della conversazione (Galimberti, 1992) sia da psicoterapeuti (Bercelli e Lenzi, 2005; Wynn e Wynn, 2006); alcuni studi in ambito cognitivista (Bara e Bosco, 2000; Bara e Ardito, 2003) hanno messo a punto uno strumento capace di misurare il livello di condivisione fra terapeuta e paziente, assumendo che un elevato grado di condivisione implichi una buona relazione terapeutica, a sua volta fondamentale per generare progressi terapeutici significativi. L’indice di condivisione si declina attraverso sette item, nei quali il paziente:
– interrompe il terapeuta per terminare una frase iniziata da quest’ultimo (conclusione);
– rielabora la proposta di condivisione del terapeuta modificandola e correggendola (correzione);
– utilizza una metafora o un neologismo introdotto da lui stesso o dal terapeuta (linguaggio figurato);
– si avvale di un concetto emerso nel corso della terapia (riferimento);
– interpreta un evento specifico verificatosi in terapia (rilettura);
– fornisce una spiegazione in merito al suggerimento del terapeuta, dimostrando di fatto di accettare la sua proposta (spiegazione);
– non accetta la proposta di condivisione del terapeuta, introducendo un frame terapeutico nel quale viene condiviso il mancato accordo sul significato da attribuire ad un contenuto della comunicazione (non-accordo).
L’indice di condivisione e’ volto a definire, mediante l’analisi delle sedute, la porzione di informazioni che il paziente e il clinico non si sono solo scambiati esplicitamente, ma sono anche giunti a condividere ad un livello più profondo, quello dei significati soggettivi. Si tratta di una negoziazione spesso parziale e sempre graduale, che passa sia attraverso l’accordo sia attraverso il non accordo, e che nel corso di un cammino clinico può variare di intensità a seconda dei temi trattati e delle fasi terapeutiche attraversate.
Bara, B. G., Bosco, F. (2000). L’indice di condivisione: uno strumento di analisi delle sedute psicoterapeutiche. Psicoterapia, vol. 19-20, 38-49.
Bara, B. G., Ardito, R. (2003). Indice di condivisione: uno strumento per l’analisi del processo psicoterapeutico. Psicoterapia, vol. 26, 59-68.
Bercelli, F., Lenzi, S. (2005). La conversazione nella terapia cognitiva a orientamento costruttivista. In Bara, B. G. (a cura di), Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva, vol. 2, Clinica. Bollati Boringhieri, Torino.
Clark, H. H., Schaefer, E. F. (1989). Contributing to discourse. Cognitive Science, vol. 13, N. 2, 259-294.
Siamo abituati a vivere la rete non solo come un insieme di informazioni, ma anche – e soprattutto – come un agglomerato di relazioniche possono nascere, ritrovarsi o crescere grazie ai molteplici canali che il World Wide Web mette a disposizione di ciascuno di noi.
Parafrasando una citazione cult del celebre psicologo Watzlawick: “non si può non comunicare”. A maggior ragione nel mondo d’oggi, dove ogni strumento (telefono, tablet, pc che sia) consente di condividere tutto, dallo spostamento più recente (il famoso “check in” di FourSquares), all’ultimo pensiero (lo status di Facebook), o all’aforisma più celebre (i 160 caratteri di Twitter).
La rete, dunque, nasce per condividere informazioni e può rappresentare una finestra sul mondo, ci consente di conoscere ciò che altrimenti mai avremmo scoperto, o, comunque, avremmo raggiunto con maggiore fatica.
Questa visione della rete come “finestra sul mondo” sembrerebbe particolarmente sentita da un gruppo ben specifico di adolescenti giapponesi.
Hikikomori. Una parola strana, esotica, che significa “ritiro” e che da una decina di anni a questa parte caratterizza un fenomeno sociale tristemente noto in Giappone e che sembrerebbe non avere eguali (per ora) nella società Occidentale.
Il termine, coniato dallo psichiatra Tamaki Saito, definisce uno specifico gruppo di adolescenti e giovani adulti (14-20 anni circa) maschi che per un periodo superiore ai sei mesi sceglie di non uscire di casa, isolandosi completamente, anche dai propri familiari.
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A livello di pressione sociale, potremmo rintracciare tre cause principali:
Le aspettattive culturali che spingerebbero l’adolescente a immaginare come unico strumento per una vita di successo un’educazione prestigiosa, appannaggio però di pochi.
Lo stretto rapporto madre-figlioche sembrerebbe caratterizzare la famiglia giapponese, in grado –apparentemente- di mantenere economicamente il figlio sino oltre ai 40 anni.
La pressione scolastica che spingerebbe i ragazzi a ritmi e a carichi di lavoro piuttosto duri. L’intero ciclo di studio giapponese sembra inoltre caratterizzato dall’adesione a norme, regole e codici partecipativi che impongono al singolo di conformarsi al gruppo, tanto da renderlo l’elemento fondante dell’identità.
In un contesto simile, in cui il bisogno e la volontà del gruppo risultano primarie rispetto al singolo, è abbastanza semplice capire che cosa accade agli elementi che non vi si conformano. Nella società giapponese, infatti, il fenomeno del bullismoscolastico (ijime) appare molto più radicato rispetto al contesto occidentale.
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La vittima di ijime è considerata non solo un outsider dal gruppo dei pari per via della sua non conformità, ma potrebbe considerarsi egli stesso una persona inadeguata, decidendo così di isolarsi non solo dal gruppo (nel quale non è in grado di “entrare” o rimanere), ma anche dalla società stessa, per la quale la cooperazione e l’adesione a norme condivise rimane un valore aggiunto.
La reclusione appare, così, l’unico strumento per manifestare il proprio dissenso o il proprio disagio rispetto ad un gruppo e alle sue norme.
Tale interpretazione sembrerebbe confermata dalle testimonianze di tanti giovani ex Hikikomori che, in genere dichiarano di essere nauseati da tutto, soprattutto dal fatto che il loro modo di vedere le cose e la società non corrisponde alle attese, tanto da non avere altra scelta che “rinchiudersi” (Secher, 2002).
Seguendo questa linea di pensiero, potremmo capire come mai “la patologia” Hikikomori sia definita “ego sintonica” e spesso mantenuta dalla persona per un lungo periodo di tempo (oltre i sei mesi, a volte anche per anni interi). L’identità dell’adolescente si struttura grazie a diversi elementi: l’adesione o la critica di norme sociali e regole dettate dalla famiglia e dalla società; il rispecchiamento e l’identificazione nel gruppo dei pari. Gli adolescenti Hikikomori, interrompendo questo legame con la società e con il gruppo, è come se si chiamassero fuori dal percorso adolescenziale, ma in qualche modo riuscissero a strutturare un’identità proprio attorno alla definizione che la società ne da e grazie all’etichetta che viene fornita.
Un altro elemento importante da prendere in considerazione è la struttura del nucleo familiare giapponese.
Lo psichiatra Saito afferma che – a partire dalla Seconda Guerra Mondiale – la figura maschile rappresenta il “grande assente” all’interno delle famiglie, nelle quali le donne si suppone siano preposte all’educazione dei figli (spesso dell’unico figlio) e gli uomini al lavoro.
Un sistema familiare di questo tipo porta inevitabilmente alla creazione di uno stretto legame tra madre e figlio. E’ anche molto interessante vedere come nel momento in cui il figlio entra nell’istituzione scolastica le madri abdichino il proprio ruolo, delegando alla scuola e al gruppo dei pari il compito di inserire il ragazzo all’interno della società, fornendogli un’identità (Rohlen, 1989).
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La conseguenza più diretta di un simile “cambio della guardia” è il fatto che il giovane Hikikomori non riconoscerà come autorevoli i propri genitori, cominciando forse a considerarli più che altro dei coinquilini e non delle figure dalle quali apprendere norme e regole.
Potremmo tratteggiare con il seguente schema la “nascita di un Hikikomori” [Dziesinski, 2003]:
Spinta al conformismo da parte delle istituzioni e dal gruppo dei pari (che include anche dinamiche di bullismo).
Progressivo ritiro sociale come unica forma di protesta.
Collusione del sistema familiare.
Mancanza di risposta da parte delle istituzioni.
Anni di isolamento.
Il fenomeno hikikomori, inoltre, si inserisce in un contesto sociale e culturale tecnologicamente avanzato, che fa largo uso delle nuove tecnologie e che sembrerebbe quasi agevolare la nascita di questa patologia.
L’unico strumento di comunicazione utilizzato da questi ragazzi sembrerebbe essere la rete internet.
Dopo essersi creato un’identità virtuale, infatti, il giovane hikikomori inizia a chattare e a crearsi una rete di amicizie online.
Pensiamo ai konbini, piccoli supermercati aperti 24 ore su 24, nei quali gli Hikikomori sembrerebbero acquistare cibi pronti o precotti così da non dover nemmeno più interagire durante il rito dei pasti con la famiglia (in genere, nell’iconografia condivisa, all’hikikomori vengono lasciati davanti alla porta della stanza che ha scelto come habitat dei pasti, preparati dai genitori).
E’ importante, come diversi autori suggeriscono (Secher, 2003), non confondere il fenomeno Hikkimori, caratterizzato solo da contatti virtuali, con la dipendenza da internet. Nonostante, infatti, l’elemento comune tra i due fenomeni sia un uso eccessivo del PC e delle nuove tecnologie, il profilo degli hikikomori può essere definito quasi come un peculiare “stile di vita”, una sorta di “anoressia sociale”. I giovani adolescenti, infatti, decidono deliberatamente per una vita di reclusione. La realtà virtuale sembrerebbe diventare il sostituto a 360° del mondo reale.
La rete diviene dunque la modalità comunicativa per eccellenza utilizzata dagli adolescenti hikikomori che forse, attraverso il web, possono crearsi un’identità specifica e formata, seppur fittizia.
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Le chat, i social network e i giochi di ruolo sembrerebbero favorire la comunicazione rispetto ad un incontro vis-a-vis per diverse ragioni: dietro uno schermo ci sentiamo protetti e possiamo anche agire parti di noi che nella nostra società (o contesto) forse non sarebbero accettate (Suler, 2009). La comunicazione virtuale, che comunque smuove emozioni e sentimenti, inoltre non risente di gerarchie o status: siamo tutti democraticamente uguali. Nelle interazioni di questo tipo, infatti, non esistono classi sociali e, quello che è più importante, siamo valutati per le nostre competenze e non per i nostri ruoli: pensiamo, infatti, ai giochi di interazione online (ad esempio, Second Life oppure ExtremeLot) nei quali i personaggi con maggior punteggio (e maggiori abilità, dunque) sono i più ricercati, soprattutto dai neofiti.
Gli adolescenti Hikikomori, dunque, rimangono – nonostante il contesto e il disagio manifestato – degli adolescenti alla ricerca di sé stessi, di un’identità che non può, come detto, strutturarsi in assenza di relazioni e di interazioni.
Possiamo dunque immaginare, e pensare, che in mancanza di un rapporto diretto con i pari o con il nucleo famigliare, l’adolescente giapponese sofferente provi a ricercare legami di altro tipo con figure esterne al proprio contesto o che condividono lo stesso problema: non è utopico pensare a comunità virtuali di Hikikomori.
BIBLIOGRAFIA:
Dziesinski M., (2003), Hikikomori – Investigations into the phenomenon of acute social withdrawal in contemporary Japan. Research Paper. (DOWNLOAD)
È questa la soluzione suggerita dalla psicologa ricercatrice Cassie Mogilner della Wharton School of the University of Pennsylvania per aumentare la sensazione soggettiva di avere tempo libero a disposizione, bene sempre più raro e prezioso in una società frenetica come quella in cui viviamo.
Se non possiamo aumentare il numero di ore giornaliere a nostra disposizione, possiamo invece impegnarci in attività di volontariato; questo sembra restituire alla maggior parte delle persone la sensazione di poter godere del proprio tempo libero più comodamente e senza fretta.
Con quattro diversi esperimenti, la ricercatrice e i suoi collaboratori hanno infatti scoperto che, in modo apparentemente paradossale, è proprio la possibilità di concentrarsi sui sentimenti e bisogni altrui, invece che su se stessi, ad avere questo effetto benefico sul tempo percepito.
Sembra che questo sia dovuto al fatto che il volontariato aumenta il senso di competenza personale e di efficienza, e questo a sua volta, espande la dimensione temporale avvertita nelle nostre menti: il tempo lineare altro non è che una proiezione di come percepiamo il cambiamento. In definitiva, donare il proprio tempo aumenta il coinvolgimento delle persone in nuovi impegni, anche se sono molto indaffarate.
La parte migliore sono le intense esercitazioni sul modello ABC. Il corso Advanced è un’occasione per iniziare a padroneggiare e automatizzare quanto appreso nel Primary. In gruppi di otto ci si sottopone a rotazione all’accertamento degli ABC. Due aspiranti supervisori (che a loro volta stanno affrontando il corso per diventare supervisori) ci sorvegliano e ci correggono, mentre un supervisore esperto controlla il tutto. È l’occasione giusta soprattutto per esercitarsi sul disputing delle credenze irrazionali, mentre nel Primary ci si era dedicati di più a imparare ad accertare gli “A” e i “C”, le situazioni problematiche e le emozioni.
L’esercitazione ci chiarisce qualche altra idea sulla tecnica REBT. Anche questa volta sono cose non così chiare dai libri. Da segnalare almeno due accorgimenti tecnici. Il primo è che, dopo il C e prima del B vanno accertati i cosiddetti “F”, ovvero gli obiettivi terapeutici. Occorre incoraggiare il paziente a individuare obiettivi di tipo emotivo e quindi adatti al lavoro terapeutico. E si tratta, ancora una volta, di porsi come obiettivi arrivare a provare emozioni negative ma funzionali e tollerabili.
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Questa aggiunta degli obiettivi da accertare dopo le emozioni e prima delle credenze disfunzionali mi ricorda un po’ il contratto terapeutico alla Otto Kernberg.
È il segnale che le terapie non possono più proporsi un modello astratto di benessere, ma che occorre concordare e negoziare con il paziente cosa si intende fare. L’individuazione degli obiettivi non è solo un fatto pratico. Essa concorre a definire in che senso e in che grado il paziente è disfunzionale e disturbato.
Un paziente che richiede di provare meno ansia di fronte a situazioni problematiche è un paziente già in grado di effettuare un atto terapeutico, di rendersi conto che il suo problema è psicologico.
Un paziente che, invece, sostiene che il suo problema dipende da sua moglie o dai suoi colleghi è qualcosa di diverso. È vero, potrebbe aver almeno parzialmente ragione. Rimane il fatto che, avendo scelto di rivolgersi a un terapeuta e non a un avvocato, il paziente comunque in qualche modo ha ritenuto che il suo problema fosse anche psicologico e quindi suo. E tuttavia, iniziata la terapia, tende a mettere da parte tutto questo e a prendersela, magari anche correttamente, con gli altri. Potrebbe essere giusto, ma allora perché andare dal terapeuta?
Gli obiettivi ideali, per Albert Ellis, sono sempre totalmente psicologici ed emotivi, ovvero “eleganti” e non pratici, ovvero “non eleganti”.
Obiettivi “eleganti” sono obiettivi in cui il paziente si propone di provare emozioni più funzionali e tollerabili di quel che prova, senza modificare la situazione esterna.
Obiettivi “non eleganti” sono invece obiettivi che modificano la situazione esterna, come ad esempio imparare a gestire la relazione con gli altri o diventare più assertivi, sono per Ellis obiettivi spuri, non del tutto terapeutici, ma più adatti a un lavoro di counseling o di life-coaching.
Questo concentrazione sugli obiettivi puramente interiori ed “eleganti” si collega a un secondo aspetto che diventa più chiaro durante l’Advanced. Questo aspetto è l’accertamento delle credenze irrazionali e la conduzione del disputing, ovvero della messa in discussione di queste credenze.
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Nella tecnica REBT si privilegia, come ho già scritto negli articoli precedenti, l’esplorazione dello scenario peggiore. Questa tecnica fa si che si vada dritto a scavare nelle peggiori paure soggettive del paziente, senza alcuna rassicurazione preventiva. Questo aspetto spiega come la REBT sia più compatibile della CBT alla Aaron Beck con una formazione costruttivista. Inoltre questo aspetto fornisce alla REBT un sapore emozionale e introspettivo inatteso per una terapia che si presenta come pragmatica e razionalistica.
Il terapeuta REBT continua a chiedere, per ogni spiegazione fornita dal paziente per la sua sofferenza “e che cosa hai pensato che ti ha fatto star male?”La conseguenza quasi inevitabile è che il paziente, messo alle strette, finisca per confessare pensieri dolorosamente auto-denigratori, secondo un percorso che finisce stranamente per somigliare allo smantellamento delle difese di un analista di formazione annafreudiana. Con in più il fatto che il terapeuta REBT ci arriva molto più rapidamente.
E così anche noi siamo arrivato in fondo a questo primo segmento della formazione REBT.
La nostra impressione finale è che la REBT possegga ancora la migliore formalizzazione disponibile del disputing cognitivo e quindi della tecnica terapeutica. La CBT di derivazione beckiana è stata più capace di formulare modelli specifici per le diagnosi dei disturbi del DSM e di fornire dati di efficacia più rigorosi.
Ma la nostra impressione è che la REBT sia in realtà più usata nella pratica terapeutica privata per la sua flessibilità e amichevolezza d’uso.
Dislessia e Perceptual Crowding: un App per facilitare la lettura
La dislessia è una disabilità che riguarda la capacità di leggere: pur in assenza di deficit cognitivi o sensoriali, si fatica a riconoscere lettere, sillabe e parole.
Affligge in media un bambino per ogni classe scolastica (in media di 20 alunni) e, su scala mondiale, il 5% della popolazione. Vista anche la fondamentale importanza della lettura, molto spesso i genitori chiedono aiuti e soluzioni che possano renderla meno difficile.
Una ricerca recentissima, pubblicata il 4 giugno 2012 sul Proceedings of the National Academy of Science (PNAS) apre un’interessante prospettiva sulle tecniche per trattare la dislessia e fornisce un prezioso suggerimento.
Il team di ricercatori francesi e italiani guidato da Johannes Ziegler del Laboratorio di Psicologia Cognitiva (CNRS/Aix-Marseille Université) ha scoperto che aumentare lo spazio tra i caratteri e le parole di un testo può aiutare non solo la velocità, ma anche la qualità della lettura nei bambini con dislessia.
Lo studio si è basato su un campione di 94 bambini con dislessia, 54 italiani e 40 francesi, di età compresa tra gli 8 e i 14 anni. Essi dovevano leggere un testo composto da 24 frasi, in cui lo spazio tra le lettere era in alcuni casi standard e in altri più largo del normale. I risultati hanno mostrato che, quando lo spazio era più ampio, i bambini miglioravano la loro lettura sia in termini di velocità, sia in termini di errori: in media hanno letto il 20% più velocemente e fanno la metà degli errori.
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La possibile spiegazione è che i bambini affetti da dislessia siano influenzati dal cosiddetto “perceptual crowding” (affollamento percettivo), cioè dal fatto che, per loro, la visione di ogni singola lettera è disturbata da quelle che la circondano. Aumentando invece lo spazio tra le lettere, si riduce questo “affollamento” e si consente al bambino di non farsi distrarre dalle altre lettere.
L’importanza di questo aiuto si riflette non solo sulla qualità della lettura, ma anche sulla quantità. Sappiamo infatti che un bambino dislessico impiega in media un anno per leggere ciò che i lettori “normali” leggono in due giorni, sia per la difficoltà oggettiva, sia perché quest’ultima fa perdere la motivazione nel bambino che finisce per allontanarsi dai libri. Questo “trucco” suggerito dai ricercatori potrebbe quindi portare notevoli benefici al bambino.
In parallelo alla ricerca è stata sviluppata da Stéphane Dufau, un ingegnere ricercatore del Laboratorio di Psicologia Cognitiva, anche un’applicazione per iPad e iPhone, chiamata DYS, per ora disponibile in inglese e francese. È scaricabile gratuitamente dall’apple store , e permette a bambini e genitori di aggiustare a proprio piacimento lo spazio tra le lettere per testare immediatamente gli effetti positivi nella lettura.
Anche grazie a questa applicazione, i ricercatori sperano di raccogliere dei dati su larga scala che permettano loro di quantificare e analizzare quale sia lo spazio ottimale da utilizzare a seconda dell’età e del livello di lettura.
La letteratura internazionale attraverso una ricerca longitudinale evidenzia una percentuale media di diagnosi di disturbi di personalità pari al 10,6% sulla popolazione generale, dato peraltro coerente con quelli espressi in sei studi condotti in tre nazioni differenti (Lenzenweger, 1997, 2007, Torgersen, 2001, Samuels 2002, Crawford 2005, Coid 2006).
Al contrario, la letteratura scientifica italiana risulta carente in materia di dati epidemiologici relativi alla diffusione di tali disturbi; infatti non risultano studi specifici a livello nazionale. La frequenza nella popolazione generale adulta è stimata intorno al 10-15% e aumenta notevolmente negli ambiti clinici, ospedalieri e ambulatoriali(Lingiardi, 2001).
Per tale motivo, è stata effettuata una ricerca volta a comprendere l’evoluzione dell’incidenza dei Disturbi di Personalità sulla popolazione milanese.
Quattro Centri Psico Sociali (C.P.S.), afferenti ad una delle più importanti Aziende Ospedaliere del Comune di Milano, hanno fornito i dati relativi ai Disturbi di Personalità diagnosticati nel corso degli anni 2009, 2010 e 2011 utili ai fini della ricerca.
Inizialmente è stata analizzata l’evoluzione dell’incidenza dei Disturbi di Personalità e successivamente si sono evidenziate quali tipologie del disturbo risultavano maggiormente diagnosticate, nel corso del triennio oggetto di studio.
Come risulta dai dati riportati in tabella 1, l’incidenza percentuale registrata nel corso del triennio è rimasta pressoché invariata.
Tab. 1: Incidenza dei disturbi di personalità e tipologie maggiormente diagnosticate, nel corso del triennio 2009-2011.
Per quanto riguarda la differenza di genere, i risultati dell’analisi hanno evidenziato una maggiore incidenza di diagnosi di Disturbo di Personalità nel gruppo dei maschi rispetto a quello delle femmine.
I dati in tabella 2 mostrano che il numero di femmine richiedenti un consulto è stato maggiore rispetto a quello dei maschi ma, nonostante ciò, la diagnosi di Disturbo di Personalità è risultata maggiore nel gruppo dei maschi.
Di particolare importanza risulta il dato relativo all’anno 2011 in cui la diagnosi di Disturbo di Personalità nei maschi è aumentata in modo considerevole raggiungendo la percentuale del 12,72%, rispetto alle femmine che invece hanno registrato un lieve decremento.
Tab. 2: Incidenza percentuale DDP Maschi vs Femmine.
Considerando come parametro di riferimento l’età, risultano di particolarmente interessanti le evidenze emerse nelle seguenti fasce d’età.
Fascia di età < 24: progressivo aumento dell’incidenza dei Disturbi di Personalità nei soggetti di età inferiore a 24 anni; la percentuale relativa all’anno 2010 (13,60%) è risultata pari a quasi il doppio rispetto a quella registrata nel 2009 (7,63%), mentre la percentuale del 2011 ha presentato un incremento rispetto all’anno precedente nella misura di circa 2 punti percentuali (17,44%); complessivamente la percentuale di incidenza dei disturbi ha mostrato un incremento, dal 2009 al 2011, di circa dieci punti percentuale.
Fascia 24/34: decremento nelle diagnosi di Disturbo di Personalità nei soggetti di età compresa tra i 24 e i 34 anni; la percentuale di 9,76%, relativa all’anno 2009, si è di fatto ridotta di più della metà, facendo registrare una percentuale pari a 4,03% nell’anno 2011.
Per ogni anno oggetto di analisi, come mostrato in tabella 3, sono state analizzate le tipologie di Disturbo di Personalità diagnosticate dai clinici dei C.P.S. . I risultati hanno mostrato una costanza nelle diagnosi verso tre tipologie specifiche: Disturbo di Personalità Non Altrimenti Specificato (NAS), Disturbo Paranoide di Personalità e Disturbo Borderline di Personalità.
Tab. 3: Incidenza dei Disturbi di Personalità (per tipologie) nei Centri Psico Sociali.
Per quanto concerne le differenze di genere, negli anni 2009 e 2010 si è registrato un andamento pressoché costante delle tipologie di disturbo, valutando anche separatamente il gruppo dei maschi da quello delle femmine.
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Si è riscontrata invece una differenza tra i due gruppi nel corso dell’anno 2011, infatti nei maschi il Disturbo Borderline di Personalità ha avuto un peso minore mentre sono stati maggiormente diagnosticati il Disturbo di Personalità NAS e il Disturbo Paranoide di personalità; nelle femmine è diminuita l’incidenza percentuale del Disturbo di Personalità NAS mentre sono aumentate quelle dei Disturbi Borderline e Paranoide.
Rispetto alla fascia d’età, non è stato possibile individuare una distribuzione delle percentuali di incidenza con caratteristiche costanti. Infatti, tali percentuali si sono differenziate, di volta in volta, a seconda sia del gruppo di soggetti considerati sia dell’anno oggetto di analisi.
Le evidenze fin qui riportate consentono la formulazione di alcune considerazioni.
Innanzitutto, i risultati della ricerca forniscono spunti importanti per orientare la ricerca scientifica futura nell’ambito dei Disturbi di Personalità; in particolare sarebbe interessante indagare le ragioni alla base delle differenze di genere e fascia d’età, riscontrate nella popolazione milanese.
Inoltre, le tre tipologie di disturbo maggiormente diagnosticate lasciano piuttosto perplessi se rapportate alle più recenti impostazioni teoriche, sviluppate dal gruppo di lavoro dell’American Psychiatric Association, alla base del nuovo DSM-5, in pubblicazione il prossimo mese di maggio 2013. Infatti, il Disturbo di Personalità NAS e il Disturbo Paranoide di Personalità saranno esclusi dalla nomenclatura internazionale e, ad oggi, l’American Psychiatric Association non ha ancora chiarito quali siano le motivazioni di tale eliminazione.
Skodol, A. E., Bender, D. S., Morey, L. C., Clark, L. A., Oldham, J. M., Alarcon, R. D., Krueger, R. F., et al. (2011). Personality disorder types proposed for DSM-5. Journal of Personality Disorders, 25: 136-169.
Alla University of California, San Diego School of Medicine un team di ricercatori ha identificato un set di biomarcatori che possono essere utili per la comprensione delle anomalie cerebrali della schizofrenia. Questa è tra le condizioni psichiatriche più gravi e invalidanti e colpisce circa l’1 per cento della popolazione.
Gli endofenotipi (biomarcatori invisibili ma misurabili) sono in grado di rivelare le basi biologiche di un disturbo molto meglio di quanto possano fare i sintomi comportamentali.
“Uno dei problemi principali in psichiatria è che attualmente non esistono test di laboratorio che aiutino nella diagnosi, nell’orientare il trattamento e nel prevederne la risposta e gli esiti“, ha detto Gregory A. Light, professore associato di psichiatria e primo autore dello studio, “le diagnosi sono attualmente basata sulla capacità di un medico di fare inferenze e deduzioni sulle esperienze interiori dei pazienti e quindi sulla capacità che questi hanno di descrivere ciò che sta loro accadendo. La sfida del clinico è resa ancor più difficile dal fatto che molti pazienti schizofrenici soffrono di deficit cognitivi e funzionali, perciò non possono essere ragionevolmente in grado di spiegare come e cosa pensano”.
Lo scopo di Light e dei suoi collaboratori era di verificare se una batteria selezionata di biomarcatori neurofisiologici e neurocognitivi potessero essere indicatori affidabili e a lungo termine di disfunzione cerebrale, anche quando i sintomi della malattia non erano evidenti. I ricercatori hanno misurato i biomarcatori in 550 pazienti con diagnosi di schizofrenia, e poi ri-testato 200 di loro un anno dopo. I risultati indicano che la maggior parte dei marcatori erano significativamente anormali nei pazienti schizofrenici, che rimanevano stabili tra le due valutazioni e che non sono stati influenzati da fluttuazioni modeste dello stato clinico del paziente.
Nonostante la necessità di ulteriori ricerche, gli endofenotipi sembrano in grado di cogliere le differenze tra i disturbi psichiatrici, e potrebbero essere utilizzati per prevedere la risposta del paziente a diversi tipi di farmaci o a interventi non farmacologici, o essere usati per predire quali soggetti abbiano un alto rischio di sviluppare una psicosi.
Fornaci è la fermata più vicina del trenino nei pressi dell’Ospedale Privato Villa Igea, dove lavoro da quasi dieci anni. Nel 2009, in occasione del concorso Oltre il muro, di cui ho accennato nell’articolo precedente, si è formato all’interno del Day Hospital il gruppo musicale Fermata Fornaci, che ha partecipato con la canzone Impariamo a volare. La nascita del gruppo è stata favorita inizialmente dalla presenza al Day Hospital di un utente diplomato al conservatorio e polistrumentista. Il testo del primo brano scritto è nato da una poesia di un altro utente riadattata su una base musicale ed elaborata in gruppo, insieme agli operatori.
L’esperienza positiva del concorso ci ha spinti a strutturare l’attività di songwriting in modo continuativo, coinvolgendo nella conduzione del gruppo una cantautrice modenese senza esperienze pregresse in ambito psichiatrico. La scelta di coinvolgere come guida del gruppo una persona che non aveva mai avuto contatti con lo psicomondo è stata dettata dall’idea di favorire un atteggiamento il più possibile non mediato da “interferenze” psichiatriche.
La conduttrice del gruppo, che potremmo anche chiamare maestra d’arte (cioè esperta nella sua arte), viene comunque affiancata dagli operatori del centro, preparati e formati dal punto di vista psichiatrico. Abbiamo pensato che per i nostri utenti fosse utile avere la possibilità di instaurare con la maestra d’arte un rapporto libero da intenzionalità terapeutiche, anche se in presenza di persone specializzate che potessero mediare e facilitare la conduzione e la partecipazione al gruppo.
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Come accennavo anche nella prima parte dell’articolo, spesso in maniera inconscia, il nostro atteggiamento e la nostra attenzione nei confronti degli utenti viene inevitabilmente condizionato da anni di esperienza come operatori all’interno dell’istituzione. Mi sono reso conto in prima persona di questo fenomeno quando mi è capitato di esibirmi come musicista all’interno di contesti terapeutici come residenze psichiatriche o centri diurni. Smettere i panni dello psichiatra mi ha fatto vedere gli utenti da punti di vista diversi, notando ad esempio con maggiore attenzione il grado di sedazione di alcuni, come se il mio occhio si fosse “abituato” a guardare senza osservare la realtà clinica dove lavoro quotidianamente.
Nei Fermata Fornaci affianco la conduttrice insieme agli altri operatori (due infermiere, due tecniche della riabilitazione psichiatrica, un assistente sociale che partecipano a turno), cercando comunque di lasciare la massima libertà espressiva e svolgo il ruolo di chitarrista di accompagnamento, soprattutto durante i live.
Il gruppo si svolge settimanalmente al lunedì e ha una durata di un’ora e mezzo. Vi partecipano mediamente circa venti persone, metà delle quali sono affette da psicosi o schizofrenia, il resto da disturbi affettivi, della personalità, alcuni con pregresso abuso di alcol e sostanze.
Il nostro modo di fare songwriting si ispira al modello della Musicoterapia Musico Centrata, dove il “fare musica” è il mezzo ma soprattutto l’obiettivo principale della terapia musicale (Caneva, 2007). Gli utenti in grado di suonare strumenti musicali vengono invitati a partecipare come musicisti, mentre quelli che non sanno suonare cantano come coro e possono accompagnare il tempo con semplici strumenti a percussione (maracas, tamburelli, triangolo…) e comunque partecipano alla composizione dei brani.
Nei brani ci sono alcune brevi parti soliste affidate a chi è più intonato e a chi se la sente e lunghe parti corali, che assicurano un maggior coinvolgimento di tutti nel progetto. Oltre al musicista polistrumentista che fa ancora parte del gruppo in questi tre anni abbiamo avuto un batterista, un bassista e un chitarrista, che poi hanno lasciato la band perché avevano terminato il percorso terapeutico. Una delle principali difficoltà a portare avanti una psychiatric band in un Day Hospital o in un Centro Diurno, è proprio quella del “turnover” degli utenti, che comporta ripetuti e camaleontici cambiamenti di formazione e il dover insegnare da capo ogni volta il repertorio ai nuovi arrivati.
Questi cambiamenti possono rappresentare una difficoltà, ma anche uno stimolo in quanto il gruppo è sempre in divenire, e le canzoni (che non cambiano nella musica e nel testo) possono subire delle evoluzioni nell’arrangiamento, a seconda di chi ci sia a interpretarle. Questo consente alla parte del gruppo che rimane invece fissa di sforzarsi a trovare soluzioni interpretative nuove e protegge dalla possibile noia e monotonia di eseguire per mesi o anni gli stessi brani. Ad esempio, nella prima fase del progetto avevamo un utente batterista e quindi il repertorio aveva assunto una veste sicuramente più rock, anche con l’introduzione di un bassista volontario che ci accompagnava nelle uscite, precedute comunque da vere prove in una saletta attrezzata concessa gratuitamente dal Comune di Modena. Con la dimissione del batterista abbiamo dovuto riarrangiare il repertorio per una versione unplugged , solo con chitarre e basso.
Per ovviare in parte a questo problema del turnover, abbiamo comunque trovato la possibilità, attraverso l’Associazione Escomarte di consentire la copertura assicurativa anche a quei pazienti dimessi, che intendono continuare a frequentare il gruppo.
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Gli incontri iniziano con esercizi di riscaldamento della voce e di respirazione proposti dalla conduttrice. Questi esercizi aiutano sia ad acquisire una maggiore consapevolezza vocale a persone che non hanno conoscenze canore, sia a indurre uno stato di rilassamento. Vengono impartite alcune semplici nozioni di tecnica vocale, in particolare rispetto all’apertura della bocca e all’uso del diaframma. Altri esercizi proposti in apertura di incontro sono quelli sul ritmo, in cui si invitano i partecipanti a seguire con le mani semplici ritmiche accompagnati da un piccolo djembè. Per un periodo abbiamo avuto anche uno studente di infermieristica e percussionista che ci ha accompagnato. La questione ritmica è sicuramente fondamentale e per alcune persone molto complicata, anche per i brani più semplici. In questo senso le terapie farmacologiche sedative non aiutano di certo…
Ognuno può proporre un argomento per i testi. I partecipanti vengono invitati a portare nel gruppo le proprie riflessioni, i propri pensieri e talvolta le proprie poesie che vengono scritte per lo più a casa tra un incontro e l’altro.
Si parte solitamente da questi scritti per sviluppare la tematica all’interno del gruppo e iniziare a mettere insieme qualche rima. Gli argomenti dei testi sono assolutamente variegati. Alcuni brani trattano temi sociali come nella ballad Universi paralleli in cui vengono messe a confronto la vita di un barbone e la vita di uno yuppie con una conclusione saggia “ma dov’è dov’è questa diversità, la questione è la mentalità”. Oppure nel blues La fibra si affronta la questione della tecnologia e del mondo virtuale, con i rischi annessi “non sento più il vento, non vedo più il sole, è ora di uscire da questo torpore”.
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Alcune canzoni descrivono il percorso di cure in modo serio e toccante come nella ballad Impariamo a volare, il cui ritornello recita: “tanta strada abbiamo ancora da fare, a volte siamo pacchi da dimenticare, ci sono persone che ci vogliono aiutare, fidiamoci di loro e lasciamoci un po’ andare”. Lo stesso argomento viene affrontato in modo decisamente più leggero in Radio DH che recita “Qui radio DH, ci serve della vitamina K, in questo gruppo si parla davvero, dall’Efexor ad Omero”. Altri brani sono ancora più ironici e leggeri come Perché, un tango che racconta le pene d’amore in modo insolito “Perché? Perché? il telefono non squilla e penso a te. Perché? Perché? Piango anche quando sono sul bidet”.
Altre volte ancora si parte da momenti intimistici come in Una paglia e un cappuccino, nata da alcune frasi poetiche di un’utente scritte alle cinque del mattino, con di fronte appunto una sigaretta e un cappuccino, che vengono integrati magicamente all’interno del gruppo. L’esperienza individuale e certe parti di sé possono acquistare un senso nuovo grazie alla condivisione gruppale fornita dal songwriting.
Le idee melodiche iniziali per le musiche vengono proposte dalla conduttrice o dall’utente polistrumentista, mentre è il gruppo stesso, in modo democratico (spesso per alzata di mano) che sceglie tra le diverse idee e gli arrangiamenti.
Il gruppo ha sfornato fino adesso otto brani e si è esibito circa 2 volte all’anno a partire dal 2009.
E’ quasi inutile dire che il prossimo passo sarà la registrazione di un CD. Stay tuned…
Wansink e il suo gruppo di ricerca sono giunti alla conclusione che il contrasto fra il colore del cibo e il piatto in cui è servito influenzi la quantità di cibo ingerita.
Per dimostrarlo i ricercatori hanno sottoposto un campione di sessanta soggetti a un esperimento, proponendo loro due buffet, in entrambi veniva servita della pasta ma in un buffet era condita con salsa di pomodoro e nel secondo con della panna. La differenza sostanziale tra le due tavole, non era nel tipo di cibo proposto, ma nel servizio di piatti o più esattamente nel suo colore e nella scelta di quale pietanza disporvi: piatti bianchi per la pasta al pomodoro e rossi per la pasta con la panna nella prima tavola e viceversa per la seconda.
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Il risultato emerso evidenziava che chi sceglieva il cibo dalla seconda tavola, quindi prendendo il piatto dello stesso colore della pietanza tendeva ad abbondare, arrivando a superare la dose del 17-22 % rispetto a chi utilizzava piatti di colore differente.
Il gruppo di ricerca sostiene, quindi, che se il colore degli alimenti e quello del piatto nel quale vengono serviti sono simili, le porzioni ingerite saranno più abbondanti di circa il 20% . Ancora più importante della somiglianza del piatto e del cibo è essenziale che emerga un forte contrasto tra i due elementi che, così facendo, a livello percettivo lancerebbero un segnale di stop, ricordando alle persone di fare attenzione alle quantità di alimenti che si stanno servendo.
La spiegazione di questo fenomeno risiede proprio nel nostro sistema percettivo, ed ha anche un nome “Illusione di Delboeuf” ovvero: “se due cerchi di identiche dimensioni vengono posti l’uno vicino all’altro e uno dei due cerchi viene posto all’interno di un anello, il cerchio all’interno dell’anello appare più grande del cerchio non circondato se l’anello è vicino pur avendo la stessa dimensione”.
L'Illusione di Delboeuf.
Quindi, quando il cibo viene servito in un piatto dello stesso colore o simile porta il nostro cervello ad elaborare i due come un insieme più omogeneo senza una chiara definizione dei limiti ed in sostanza porta ad abbondare, sostituendo invece il piatto con uno con maggior contrasto risultano invece più netti i contorni facendo emergere chiaramente le quantità.
Quindi, “illudiamoci” che un servizio di piatti neri potrebbe far la differenza!
Secondo i dati raccolti dalla University of Illinois l’incidenza della depressione tende ad essere ai livelli più bassi intorno ai 45 anni e ai più alti verso gli 80 anni; la solitudine, isolamento sociale e la mancanza di sostegno emotivo sono i fattori che hanno maggiore influenza nel determinarla.
Un team di ricercatori della University of Alabama ha esaminato quasi 8.000 uomini e donne con più di 50 anni e ha scoperto che chi tra questi frequentava regolarmente siti di social networking aveva un terzo in meno di probabilità di ricevere una diagnosi di depressione. Sembra infatti che l’uso di Internet aiuti gli anziani, molti dei quali ha una ridotta mobilità, tenersi in contatto con amici e parenti, e ad ampliare le loro reti sociali. Secondo il Pew Research Centre un terzo delle persone con più di 65 anni frequenta social network, contro il 6% di tre anni fa.
Un altro studio condotto alla University of California ha rilevato cambiamenti nel cervello di uomini e donne una settimana dopo l’uso di Internet per la prima volta: navigare in internet infatti stimola l’attività delle cellule nervose e potrebbe aumentare il funzionamento del cervello negli adulti più anziani.
A fronte di questi risultati sembra che internet rappresenti, per la popolazione anziana in rapida crescita, un valido aiuto nel condurre una vita indipendente, nel facilitare i contatti con amici e familiari e nel fornire informazioni utili a prendere decisioni su molte questioni, dalla salute ai viaggi.
Nichola Adams, la cui ricerca presso l’University of Surrey ha studiato le problematiche dell’accesso a Internet tra gli anziani, tra le principali ragioni che ostacolano l’uso di Internet individua la mancanza di conoscenza e di accesso, inoltre una volta le questioni pratiche iniziali sono stati superate, rimangono ancora le barriere psicologiche; in questo senso è importante che gli anziani vengano accompagnati alla familiarizzazione con lo strumento, così che diffidenza iniziale venga a poco a poco superata.
Il desiderio è il segnale che manca qualcosa. Il pensiero desiderante è invece una tipica risposta mentale a questa mancanza. Si tratta di orientare pensiero e attenzione verso tutto ciò che potrebbe essere collegato all’oggetto del desiderio sia nella realtà circostante che nella nostra immaginazione.
Il pensiero desiderante è una forma di pensiero concreto(Caselli & Spada, 2011) tipico degli agiti compulsivi e apparentemente incontrollati (Watkins, 2011). Ha una natura sensoriale e dettagliata.
Il pensiero desiderante permette di immaginare in anticipo, prefigurare le sensazioni percettivo-motorie che accompagnano un atto in qualche modo piacevole.
Questa anticipazione sostiene la motivazione ad agire e l’attenzione orientata verso l’obiettivo. Ma il pensiero desiderante è anche una facoltà di pianificazione a breve termine, definisce in modo chiaro ciò che l’organismo può fare per raggiungere il suo obiettivo, quali ostacoli deve superare, come può muoversi per cercare il target (es: ripercorrere le mappe conosciute per individuare la tabaccheria più vicina quando abbiamo finito le sigarette).
Il pensiero desiderante è quindi un pensiero concreto (how). Spesso anche su questo giornale si sono evidenziati i limiti di uno stile di pensiero troppo astratto(es: rimuginio e ruminazione ). Ma anche il pensiero concreto può avere i suoi limiti poiché sostiene un attivazione fisiologica intensa (craving), aumenta il senso di deprivazione, impedisce una pianificazione accurata che contempli il rinvio della gratificazione e soprattutto un’organizzazione astratta di priorità nella gerarchia dei propri scopi personali.
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Il processo del pensiero desiderante in psicoterapia cognitiva mostra punti in comune e significative differenze con i concetti di ossessione, pensieri automatici, rimuginio e ruminazione.
Le ossessioni sono pensieri, dubbi, immagini o impulsi ricorrenti o persistenti e vissute come invasive e inappropriate e che provocano una marcata sofferenza emotiva. Le ossessioni sono intrusioni mentali giudicate negativamente mentre il pensiero desiderante è un’elaborazione mentale prolungata e volontaria.
Allo stesso modo, i pensieri automatici sono eventi mentali che sorgono nella coscienza indipendentemente dalla volontà dell’individuo. Possono avere la forma di una frase o di un immagine che le persone colgono improvvisamente nel proprio spazio mentale. Possono essere l’origine attivante del pensiero desiderante ma non sono pensiero desiderante.
Rimuginio e ruminazione sono stili di pensiero volontari e perseveranti.
In questo senso sono simili al pensiero desiderante. Tuttavia quest’ultimo pare distinguersi per:
(1) una natura concreta (Watkins, 2011)
(2) maggior presenza di immagini
(3) una valenza che non si limita alle emozioni negative
(4) un fuoco attentivo che si sposta dall’interno all’esterno ma rimane ristretto a stimoli connessi con il target del desiderio.
Il pensiero desiderante si differenzia dal grandiose fantasizing che rappresenta la tendenza a indugiare su fantasie grandiose piacevoli. Il pensiero desiderante non guarda alla vetta grandiosa ma ai prossimi passi necessari per ottenere rapidamente la soddisfazione della mancanza.
Infine, il pensiero desiderante è diverso dal mind wandering, dove la mente viene catturata da stimoli interni, scollegati dal contesto percepito nel presente e che non richiedono uno sforzo cognitivo volontario.
La distinzione tra pensiero desiderante e altri processi cognitivi è ancora all’inizio ma può segnare delle prospettive interessanti nel comprendere la poliedrica e ambigua natura del desiderio umano.
I problemi emotivi nell’infanzia sono comuni, una percentuale tra l’ 8 e il 22 % dei bambini soffre di ansia, spesso in combinazione con altre patologie come la depressione.
Due psicologi ricercatori della University of Miami (UM) hanno analizzato l’efficacia di un intervento chiamato Emotion Detectives Treatment Protocol (EDTP) nel trattare sintomi ansiosi e depressivi in bambini e adolescenti.
L’ EDTP risulta dall’adattamento di due protocolli di trattamento sviluppati per adulti e adolescenti, noti come Unified Protocols. Il programma prevede:
• l’applicazione di tecniche, appropriate a ciascuna età, che educhino alle emozionie alla loro gestione,
• lo sviluppo di strategie per la valutazione delle situazioni,
• lo sviluppo di abilità di problem solving,
• l’attivazione comportamentale (una tecnica per ridurre la depressione)
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Nello studio in questione, 22 bambini dai 7 ai 12 anni con una diagnosi principale di disturbo d’ansia e problemi secondari di depressione, hanno partecipato ad un ciclo di 15 incontri di terapia di gruppo a cadenza settimanale di EDTP. I risultati preliminari, come riportato dai bambini e dai loro genitori, mostrano una significativa riduzione della gravità di ansia e depressione a seguito del trattamento. Infatti, a fine trattamento, 14 dei 18 partecipanti che hanno completato il protocollo, non soddisfacevano più i criteri per il disturbo d’ansia. Inoltre, tra coloro che hanno ricevuto una diagnosi di disturbo depressivo prima del trattamento, (5 su 22), uno solo ha continuato a soddisfarne i criteri anche dopo il trattamento.
I risultati fanno sperare che l’EDTP possa essere una risposta adeguata nel trattamento combinato di sintomi ansiosi e depressivi nei bambini; questo è un dato importante considerando che ricerche precedenti hanno dimostrato che i sintomi depressivi tendono a indebolire la risposta al trattamento per i disturbi d’ansia.
Il passo successivo sarà condurre uno studio randomizzato controllato che metta a confronto l’EDTP con un altro protocollo di trattamento di gruppo per il disturbo d’ansia.
L’accertamento può avvenire in maniera del tutto naturale, laddove il paziente esprima spontaneamente una delle cosiddette credenze centrali durante la seduta, mentre si discute un problema specifico.
Durante una seduta F. P. stava descrivendo i suoi problemi con la sua fidanzata. Egli era tormentato dal dubbio che la sua storia d’amore potesse concludersi, che la sua fidanzata potesse disamorarsi di lui, o perfino che lui potesse disamorarsi, per tutte le svariate ragioni che possono emergere durante una relazione. Discutendo il problema, a un certo punto il paziente esclamò, come se avesse avuto una improvvisa illuminazione: “Ma allora nella vita non c’è certezza!”.
Questo paziente arrivò ad esprimere, quindi, una delle credenze centrali, che è l’intolleranza dell’incertezza. Nel prosieguo della seduta, il terapeuta colse al volo la frase del paziente, e lo invitò a svilupparla. Perché era un problema l’incertezza? Cosa c’era da temere nell’incertezza del mondo?I timori vennero da lui spiegati in termini d’intollerabilità della incertezza del mondo, degli eventi, delle relazioni. Un evento incerto, un evento di cui non si conosce l’esito, di cui non si sa come vada a finire, è per definizione un evento minaccioso. Oppure, in termini meno generici e simbolici: “non conoscere in anticipo l’esito di una catena di eventi significa convivere con l’intollerabile dubbio che le cose possano andare male“.
Ma quali sono queste credenze centrali?
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1. Timore sproporzionato di un danno e tendenza a previsioni negative o pensiero catastrofico, definibile come la tendenza da parte del soggetto ansioso a prevedere una più larga gamma di conseguenze negative rispetto ai soggetti non ansiosi a partire dalle situazioni quotidiane e a concepire il pericolo insito in queste possibilità negative come sostanzialmente inevitabile, irresistibile e irreparabile.
2. Timore dell’errore o perfezionismo patologico, definibile come la tendenza a sottolineare piuttosto gli errori e le imperfezioni presenti nei compiti eseguiti che i risultati positivi, e a temere e prevedere che queste imperfezioni conducano inevitabilmente a conseguenze negative e catastrofiche.
3. Intolleranza dell’incertezza, definibile come la tendenza a pensare di non poter sopportare emozionalmente il fatto di non conoscere perfettamente tutti i possibili scenari ed eventi futuri, di non poter sopportare il dubbio che tra i possibili avvenimenti futuri ve ne possano essere alcuni negativi, anche nel caso che tale possibilità sia molto bassa, oppure a temere che, qualora vi siano delle possibilità negative in un certo scenario, saranno queste che inevitabilmente o tendenzialmente si realizzeranno.
4. Autovalutazione negativa, definibile come la tendenza a prevedere scenari catastrofici derivanti direttamente da una valutazione negativa sia delle proprie capacità pratiche (autovalutazione negativa prestazionale) che delle proprie capacità di autocontrollo emotivo e di recupero nelle situazioni di difficoltà e di stress (autovalutazione negativa di debolezza, fragilità).
5. Bisogno di controllo, definibile come lo strenuo perseguimento e ricerca da parte del soggetto ansioso della illusione di certezza assoluta che egli possa impedire che si avverino tutte le possibilità negative da lui stesso costantemente temute e previste nel rimuginio attraverso il monitoraggio e la manipolazione continui di alcuni aspetti e parametri della realtà esterna e/o interna (ad esempio il peso, il cibo e/o l’indice di grasso corporeo nei disturbi alimentari; i pensieri intrusivi o l’ordine esterno nel disturbo ossessivo compulsivo, ecc.).
6. Intolleranza delle emozioni, definibile come la tendenza a interpretare ogni stato emotivo intenso, perfino positivo (gioia, felicità, soddisfazione) come disagevole e negativo, o perché ritenuto prova del vicino incombere di eventi dannosi o catastrofici, o per una convinzione di debolezza, fragilità interiore, di incapacità di sopportare questi stati d’animo.
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7. Un senso eccessivo di responsabilità (inflated responsibility), definibile come la tendenza ad aggiungere alla interpretazione della realtà e degli eventi in termini negativi la valutazione di se stessi come primi responsabili dello scenario negativo.
Una volta accertate, le credenze centrali vanno anch’esse ristrutturate. Per fare questo l’equazione dell’ansia di Salkovskis, ridefinita in termini più generali, può essere ancora una volta utilizzata. Ogni credenza ha una tecnica di ristrutturazione preferibile.
Il pensiero catastrofico, cioè la valutazione negativa dell’intera realtà, va ristrutturata sostanzialmente ridefinendo i criteri utilizzati dal paziente per le sue aspettative negative. Il soggetto deve essere indotto a soppesare criticamente l’evidenza, le prove di fatto che sosterrebbero le sue aspettative negative.
In che senso il mondo è pericoloso? Rifacendo il percorso in senso inverso, dalla credenza generale agli eventi temuti particolari, quali pericoli teme davvero il soggetto? E, una volta individuati questi eventi, quanto sono davvero pericolosi, nei termini sopracitati della gravità, probabilità, sopportabilità e rimediabilità? Questo intervento è stato definito come operazione di valutazione, soppesamento delle prove di fatto (weighing the evidence) che sostengono la credenza della pericolosità del mondo.
Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori del Brigham and Women Hospital (BWH)una comune forma di ansia, nota come ansia fobica, sarebbe un possibile fattore di rischio per l’invecchiamento precoce; i ricercatori ne hanno infatti scoperto l’associazione a telomeri più corti del normale, nelle donne di mezza età e anziane.
Itelomeri sono composti da sequenze ripetute di DNA che si associano a diverse proteine, si trovano alle estremità dei cromosomi e hanno un ruolo determinante nell’evitare la perdita di informazioni durante la duplicazione dei cromosomi; se non ci fossero i telomeri ogni replicazione del DNA comporterebbe una significativa perdita di informazione genetica. Diversi studi hanno dimostrato che il progressivo accorciamento dei telomeri ad ogni ciclo replicativo è associato all’invecchiamento cellulare. Telomeri più corti sono stati inoltre associati ad un aumentato rischio di tumori, malattie cardiache, demenza e mortalità.
In questo ampio studio trasversale i ricercatori hanno prelevato campioni di sangue da 5.243 donne, di età compresa tra i 42 e i 69 anni, per analizzare la lunghezza dei telomeri; tutte le partecipanti hanno anche compilato questionari self-report per rilevare la presenza di sintomi fobici.
Secondo i risultati, alti livelli di ansia fobica risultano significativamente associati a telomeri più corti; inoltre la differenza di lunghezza dei telomeri nelle donne altamente fobiche rispetto a quelle non fobiche era simile a quella osservata in donne in donne con 6 anni di più.
Olivia Okereke, autrice dello studio, sottolinea come i risultati mostrino chiaramente una connessione tra una comune forma di stress psicologico, l’ansia fobica e un meccanismo plausibile per l’invecchiamento precoce, ma anche come non sia ancora possibile dimostrare quale dei due problemi preceda l’altro, l’ansia o telomeri più corti? I risultati aprono la strada ad ulteriori studi prospettici.
Concluso il Primary training nella Rational Emotive and Behavior Therapy (REBT) all’Istituto Albert Ellis di New York ci prendiamo 3 giorni di riposo prima di iniziare l’Advanced training. Durante la pausa ripensiamo a ciò che abbiamo imparato e ci concediamo un intermezzo psicodinamico, assistendo a una supervisione di Otto Kernberg nel suo studio privato al 23esimo piano di un grattacielo sulla Madison Avenue. Ma di questo parleremo in un altro articolo.
Per ora cerchiamo di riassumere quel che abbiamo imparato all’Ellis Institute. Il Primary training nella REBT ha chiarito alcuni aspetti che dai libri non sono sempre chiari. Ripetiamoli rapidamente.
1) È importante definire con esattezza le situazioni problematiche in cui si manifesta la sofferenza, i cosiddetti “critical A” degli ABC. Un “critical A” è una situazione ben definita, un episodio definito nello spazio e nel tempo, preferibilmente l’episodio di maggiore sofferenza o quello meglio ricordato o l’ultimo avvenuto. Non è solo un evento, ma è già anche uno stato mentale pieno di pensieri di tipo descrittivo e valutativo che non sono ancora i B, i pensieri irrazionali per eccellenza, che sono solo le 4 classi descritte da Ellis.
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2) Le emozioni negative, ovvero i “C” non sono intrinsecamente disfunzionali, anzi. Semmai esistono formulazioni disfunzionali delle emozioni negative. Depressione invece che tristezza. Ansia invece che preoccupazione (concern). Stati disfunzionali paralizzanti invece che stati negativi ma in grado di promuovere l’azione. L’obiettivo è proprio arrivare a provare emozioni negative funzionali e tollerabili.
3) Tra le 4 categorie di pensiero irrazionale la doverizzazione (ovvero la convizione che le cose devono, “must”, avvenire solo in una certa maniera o si devono fare solo in una certa maniera) genera le altre 3: la terribilizzazione (ovvero la convizione che le cose andranno in maniera disastrosa), l’intolleranza della frustrazione e l’auto-svalutazione. La domanda chiave con la quale un terapeuta REBT inizia l’accertamemto delle convinzioni irrazionali è “qual è la cosa che pensi assolutamente di dover fare in questa situazione di cui discutiamo?” oppure “qual è la cosa che pensi dovrebbe assolutamente avvenire o qual è il modo in cui pensi che dovrebbe assolutamente svolgersi questa situazione di cui discutiamo?”
4) L’esito funzionale è preferibilmente quello della tolleranza della frustrazione (elegant solution) piuttosto che quello della sdrammatizzazzione dei terribili esiti temuti dal paziente (inelegant solution). Il terapeuta REBT in un certo senso dice al paziente “sai una cosa? Queste cose che ti preoccupano tanto potrebbero avvenire davvero. Piuttosto che rimuginare su come evitarle, vediamo come possiamo tollerare questa possibilità”.
TAPP (Talking About a Personal Problem): la conversazione guidata intorno ad un problema personale #2
La TAPP, Talking About a Personal Problem (Lenzi, Bercelli, 2010), si compone di cinque sezioni, che definiscono le strategie seguite dal terapeuta per raccogliere informazioni e aiutare il paziente a trasformare il problema presentato in una narrativa personale evolutivamente orientata, in grado cioè di attivare nell’individuo le risorse necessarie a conseguire uno stato di maggior benessere.
La descrizione del problema comprende la richiesta di informazioni biografiche, una domanda tematica di apertura con cui individuare il tema della conservazione e introdurre una prima ipotesi valutativa del terapeuta in merito al tema stesso, alcune domande di precisazione semantica utili per chiarire il significato attribuito dal paziente ad alcune parole usate comunemente, domande di precisazione sui fatti e una domanda di elaborazione integrativa il cui scopo e’ stimolare il paziente a formulare una versione sintetica del problema.
Nella fase di ricostruzione storica e di indagine sul repertorio attuale del problema, il terapeuta si focalizza su alcuni contenuti fondamentali della narrativa personale: l’esordio della problematica, il contesto di vita contemporaneo alla sua insorgenza, la sua evoluzione fino al momento attuale e i passaggi significativi che hanno contraddistinto tale sviluppo, il racconto del profilo attuale del problema nei diversi contesti in cui e’ osservabile, l’approfondimento dei processi tipici con cui si innescano e si delineano le vicende oggetto di indagine, la descrizione dei loro antefatti e delle loro conseguenze, la ricerca e il riconoscimento dei fattori interni ed esterni.
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Quando, invece, il paziente procede alla rievocazione degli episodi caratteristici, il terapeuta lo aiuta a demarcare meglio il formato e la sequenza degli eventi, a recuperare le circostanze contestuali necessarie per definire in modo più preciso l’ambiente nel quale si e’ verificata l’azione, a generare una sequenza dei fatti più attenta agli aspetti realmente significativi – non di rado il paziente ha elaborato nel corso della propria vita una narrazione degli episodi problematici nella quale vengono dimenticati o tralasciati i contenuti che potevano consentirgli di interpretare diversamente l’esperienza – e infine ad elaborare un resoconto sulla natura e sulle caratteristiche del vissuto soggettivo sperimentato durante gli episodi problematici.
Le ultime due sezioni dell’intervista, la formulazione di domande aggiuntive da parte del clinico e la rielaborazione integrativa, mirano a completare il quadro che sta emergendo. Il paziente viene stimolato a servirsi della memoria per immagini al fine di generare una rappresentazione integrata del problema, che unisca ai contenuti più razionali un riconoscimento dei diversi processi sensorialicoinvolti; il resoconto degli elementi minacciosi e di pericolo viene sollecitato con domande specifiche del terapeuta, che accompagna il soggetto in un percorso di ristrutturazione e contestualizzazione della minaccia percepita; vengono analizzate le modalità di rimessa in scena interpersonale del problema, ossia la funzione e l’effetto delle comunicazioni che il paziente utilizza per affrontare il problema nei contesti relazionali di riferimento.
Obiettivo finale della TAPP e’ giungere ad una rielaborazione generale della tematica presentata dal paziente; la costruzione di una narrativa personale integrata, capace di ridefinire i significati soggettivi dell’esperienza attraverso l’intreccio fra contenuti semantici ed episodici, permette di agire sul tema di vita del soggetto inserendo una maggiore flessibilità, affinché sia possibile elaborare una o più interpretazioni alternative della propria storia e pensare a scopi evolutivamente più funzionali.
Modificando la rigidità delle proprie rappresentazioni e integrando un’immagine di sé dolente con elementi innovativi tratti da una ridefinizione degli eventi problematici, il paziente riduce la propria percezione di vulnerabilità e modifica lo stile narrativo, conoscitivo e di gestione emotiva con cui aveva fino a quel momento organizzato la propria esperienza.
Il nuovo manuale diagnostico dei disturbi psicologici (DSM) è attualmente in corso di revisione e aggiornamento. Tra le proposte in discussione vi è l’introduzione di un nuovo disturbo psicologico: Internet Addiction Disorder (o dipendenza da internet).
Negli ultimi dieci anni l’ Internet Addiction è stata oggetto di un crescente numero di ricerche, ciò nonostante le definizione del disturbo non è ancora chiara (Weinstein & Lejoyeux, 2010). Da un lato l’eccessivo tempo trascorso online rappresenta un fattore di rischio, ma non rappresenta l’elemento principale o causante la dipendenza. Molte persone che trascorrono una grande quantità di tempo online non soffrono di alcun disturbo.
Gli elementi caratteristici della dipendenza da internet riguardano il modo in cui si trascorre tempo online. In particolare gli elementi chiave sono:
(1) Eccessiva preoccupazione verso il bisogno di accedere a internet
(2) Ripetuti e fallimentari tentativi di ridurre l’uso di internet
(3) Problemi di umore (ansia, irritabilità, depressione) connessi al tentativo di ridurre dell’uso di internet.
(4) Desiderio intenso, urgente e incontrollabile di navigare (Christakis, 2010).
Nel tempo queste caratteristiche portano l’individuo a porre in secondo piano altri aspetti della propria vita (es: famiglia, lavoro, ecc…) che vengono gradualmente trascurati.
Una recente ricerca ha inoltre mostrato che a parità di tempo trascorso online chi soffre di dipendenza da internet tende a ricercare maggiormente attività sociali, distrazione da preoccupazioni e la ricerca di una forte esperienza emotiva virtuale (Kesici & Sahin, 2009).
Secondo alcuni studi presentati all’Annual Meeting of the Society for the Study of Ingestive Behavior (SSIB) le abitudini del sonno, influenzando il consumo calorico e dispendio il energetico, inciderebbero sul controllo del peso corporeo. Più precisamente questi studi mirano a chiarire la relazione tra la quantità di sonno e lo sviluppo di obesità e diabete di tipo 2.
I ricercatori hanno studiato l’effetto della privazione del sonno a breve termine, sulla fame, sull’attività fisica e sulla quantità di energia utilizzata dal corpo. I risultati indicano che la privazione di sonno aumenta la sensazione di fame e il livello dell’ “ormone della fame”, la grelina, rilevato nel sangue. Dopo appena una notte di sonno disturbato i volontari mostravano, coerentemente con la stanchezza indotta dalla deprivazione di sonno, una riduzione dell’attività fisica; inoltre stare svegli per una notte riduce la quantità di energia utilizzata dal corpo durante il riposo. Questi dati nel complesso possono spiegare l’aumento di peso legato alla deprivazione di sonno prolungata nel tempo. Attualmente la ricerca sta cercando di stabilire se l’aumento del periodo di sonno possa essere una risorsa nello sforzo del controllo del peso.
Anche se c’è molto è ancora da imparare sulla giusta dose di sonno in relazione ad obesità e diabete, i risultati delle ricerche condotte fino ad ora indicano chiaramente che il sonno è coinvolto nel processo di bilanciamento delle calorie assunte con il cibo e consumate attraverso l’attività fisica e i processi metabolici.