Secondo un nuovo studio della University California Irvine l’esposizione ripetuta a immagini violente– dagli attacchi terroristici dell’11 settembre alle fucilazioni della guerra in Iraq- porterebbe a un aumento di disturbi fisici e psicologici in soggetti adulti. Lo studio mette in luce gli effetti rilevantemente negativi dell’esposizione ripetuta a immagini violente di “traumi collettivi” quali calamità naturali, attacchi terroristici e scene di guerra.
Le persone che hanno guardato per più di quattro ore al giorno immagini violente multimediali relative all’evento dell’11 settembre o al conflitto in Iraq nelle settimane successive a tali eventi hanno riportato sintomi sia da disturbo acuto da stress che da disturbo post-traumatico da stress nel corso dei mesi successivi.
Parimenti gli stessi individui hanno presentato significativi malesseri somatici dai due ai tre anni successivi all’esposizione ripetuta di tali immagini traumatiche.
Lo studio ha previsto un assessment della salute fisica e mentale dei soggetti prima degli eventi in questione, del livello di esposizione mediatica a tali immagini, dei sintomi di stress acuto immediatamente seguenti cosi come del disturbo post-traumatico da stress. Una fase di assessment di follow-up si è poi svolta a tre anni da tali eventi.
Quasi il 12 per cento dei 1322 partecipanti ha riferito un alto livello di stress acuto relativamente all’11 settembre, mentre circa il 7 per cento ha riferito elevati livelli di stress acuto legati alla guerra in Iraq. Soprattutto le persone che avevano visto ripetutamente per più di quattro ore cruente immagini violente televisive di tali eventi avevano più probabilità di presentare sintomi di stress acuto rispetto a coloro che ne avevano fruito in misura minore.
Secondo gli studiosi tali risultati suggeriscono che l’esposizione ripetuta a immagini violente multimediali potrebbe essere un importante meccanismo attraverso il quale si diffonde l’impatto dei traumi collettivi. La ricerca finanziata dalla National Science Foundation verrà pubblicata a breve su Psychological Science.
Com’è noto, la caratteristica essenziale del Disturbo di Panico è la presenza di attacchi di panico ricorrenti, inaspettati, seguiti da almeno 1 mese di preoccupazione persistente di avere un altro Attacco di Panico, preoccupazione sulle possibili implicazioni o conseguenze degli Attacchi di Panico o un significativo cambiamento di comportamento correlato agli attacchi.
Ma cosa si intende per panico? Esso indica un periodo preciso di paura o disagio intensi, durante il quale quattro (o più) dei seguenti sintomi si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco nel giro di 10 minuti:
a) palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia; b) sudorazione; c) tremori fini o a grandi scosse; d) dispnea o sensazione di soffocamento, sensazione di asfissia; e) dolore o fastidio al petto; f) nausea o disturbi addominali; g) sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento; h) derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi); i) paura di perdere il controllo o di impazzire; l) paura di morire; parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio); m) brividi o vampate di calore.
I vari disturbi d’ansiamostrano forme differenti del cosiddetto pensiero negativo. Nel disturbo di panico la previsione negativa è collegata a sensazioni corporee di vario tipo, ma tutte in qualche modo collegate a un’esperienza terrorizzante di paura. È, appunto, il cosiddetto panico.
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Il paziente con panico è, tendenzialmente, concentrato sull’esperienza di panico stessa. La connessione con la realtà esterna è scarsa. Non vi sono quindi disgrazie o sciagure esterne temute. Vi possono essere situazioni specifiche esterne temute, ma non perché intrinsecamente catastrofiche, ma perché associate dal soggetto al panico. Si tratta di luoghi dove, secondo il paziente, è più facile improvvisamente provare uno stato di panico per qualche ragione. Ad esempio, perché lì è avvenuta una precedente esperienza di panico. Un altro tipo di luoghi temuti sono i posti dove si è in uno stato di attesa obbligata o di costrizione. Per esempio, le file, le attese nei luoghi pubblici. Lo stato di costrizione rende il paziente vulnerabile, in quanto egli pensa di non avere possibilità di fuga se dovesse avere il panico. Fuga verso luoghi ritenuti più sicuri, come ad esempio casa.
L’individuo in preda al panico percepisce percezioni sgradevoli che egli catastrofizza ritenendole terrorizzanti in varie zone o funzioni del corpo: il cuore (palpitazioni, cardiopalmo, tachicardia, doloreo fastidio al petto), il respiro (dispnea, sensazione di soffocamento, sensazione di asfissia), i visceri addominali (nausea o disturbi addominali), la pelle (sudorazione), le membra (tremori fini o a grandi scosse, le parestesie, cioè le sensazioni di torpore o di formicolio) o l’intero corpo (brividi o vampate di calore) e poi, avvicinandoci a sensazioni sempre più puramente mentali, incontriamo ancora le parestesie, le sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento fino ad arrivare alla derealizzazione (senso di irrealtà) o alla depersonalizzazione (sensazione di essere distaccati da sé stessi). E si conclude con quelle che ormai sono vere e proprie credenze cognitivedi paura: la paura di perdere il controllo o di impazzire e la paura di morire.
In questo ventaglio di possibilità possiamo intuire che l’individuo soggetto al panico è, almeno apparentemente, poco introspettivo. È un individuo che sembra parlare e descriversi più in termini di sensazioni. Non ci sono emozioni in questa lista. Oppure si arriva direttamente a una paura molto semplice e primordiale: il timore di morire oppure quello più sofisticato di impazzire.
Essendosi così focalizzato sugli stati interiori, il disputing del panico si focalizza a sua volta sugli stati interni, ovvero sul panico stesso. Con il paziente panicoso si ingaggia un disputing molto concentrato sulla reale gravità dell’esperienza di panico e sulla sua tollerabilità. Si può effettuare un lavoro anche sulla realtà esterna. Ma non si tratta di valutare quanto sia pericolosa una situazione, quanto piuttosto di ragionare insieme perché una certa situazione debba, in qualche modo, associarsi mentalmente alla possibilità di avere uno stato di panico.
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Il paziente in genere ha la convinzione di non avere alcun controllo deliberato sullo scatenamento del panico. Ma in realtà, facendolo riflettere attentamente sulla sequenza degli eventi mentali che precedono il panico è possibile renderlo consapevole di una finestra di controllo volontario in cui si inserisce una interpretazione catastrofica della situazione scatenante, interpretazione che può essere sottoposta a una ristrutturazione cognitiva.
Il training attentivo si deve applicare anche agli atteggiamenti mentali del paziente che precedono il panico. È noto che il paziente panicoso è in uno stato di perenne ipervigilanza dei suoi stati corporei. Egli monitora continuamente le percezioni corporee, in particolare quelle provenienti dalla zona toracica e/o addominale. Zone che il paziente percepisce come vulnerabili. Ogni affanno del respiro, ogni battito cardiaco, ogni mal di pancia può essere interpretato come segnale di un possibile attacco di panico.
Il congresso è stato ricco di spunti e particolarmente interessante. L’idea dell’organizzatore, Lucio Bizzini, di sottolineare nel tema dominante l’importanza delle neuroscienze nel lavoro psicoterapeutico ha determinato riscontri positivi sia in termini di iscritti al congresso che di contributi scientifici presentati. L’integrazione tra le terapie standard e quelle di terza generazione ancora una volta ha destato notevole interesse, ma al contempo sono state gettate le basi anche per le terapie del futuro.
Ormai da diversi anni l’EABCT sta diventando un luogo di incontro e di confronto sempre più aperto e multiculturale, sia da un punto di vista scientifico che sociale. Arrivano continue richieste di iscrizione e di adesione alla nostra associazione, da diverse parti del mondo, anche extra-europee. Segno evidente di rinnovato interesse che, soprattutto da alcuni anni a questa parte, l’EABCT sta suscitando, sia per i contenuti e le iniziative scientifiche che propone, sia per le sue caratteristiche di accoglienza ed ospitalità.
Le ultime a unirsi all’EABCT, di cui sono entrate a far parte come Full Memberships, sono state le Associazioni di Terapia cognitiva dell’Ucraina e del Montenegro, mentre hanno chiesto e ottenuto di diventare nostre Affiliate Members le associazioni del Canada e del Marocco.
Notevole è lo sforzo che l’EABCT sta producendo sia in termini organizzativi che scientifici, e il piano operativo (Activity Plan) diventa ogni anno sempre più ricco e impegnativo.
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Oltre all’ordinaria gestione della vita societaria e congressuale, il Board in questi ultimi anni ha promosso una serie di iniziative ed attività:
1) grazie al monumentale lavoro svolto da alcuni colleghi, coordinati da Thomas Kalpakogku, sono state portate a termine le linee guida per l’accreditamento dei Training Standard, secondo parametri e linee guida comuni e condivisi;
2) è stata attivata una task force per la diffusione della terapia cognitiva e cognitivo-comportamentale (ovvero la CBT) in Africa. L’idea è quella di aiutare pazienti meno fortunati dei nostri a poter beneficiare degli stessi avanzati ed efficaci trattamenti di cui possono usufruire i nostri pazienti;
3) non solo in Africa, ma anche in altre regioni europee in cui la CBT è meno sviluppata, i membri dell’EABCT si stanno adoperando per aiutarle nell’organizzazione di training e percorsi formativi;
4) sono stati istituiti dei premi per i migliori poster presentati ai congressi;
5) è stata costituita una commissione per la valutazione della richiesta di fondi (di cui l’EABCT dispone grazie all’ottima gestione del passato congresso Mondiale di Barcellona) da destinarsi a progetti e/o iniziative varie provenienti da associazioni e/o gruppi appartenenti all’EABCT;
6) si sta costituendo uno Scientific Advisory Board con lo scopo di contribuire a fornire maggiore spessore scientifico all’Associazione e fornire un supporto ai locali comitati scientifici organizzatori di congressi;
7) sono stati attivati dei gruppi di ricerca scientifici internazionali, i SIG (Specialized Interest Group), per i quali mi sono personalmente adoperato, per cercare di spingere quanto più è possibile i nostri soci alla cooperazione ed al confronto.
Il primo a essere stato attivato è stato quello sull’OCD, che grazie all’ottimo lavoro organizzativo e coordinativo di Barbara Barcaccia, ha già realizzato due meeting regionali ad Assisi (nella prossima primavera si terra’ il terzo), e un simposio a Ginevra che ho avuto il piacere di coordinare e di presiedere; abbiamo da poco lanciato anche il SIG sui BIPOLAR Disorders ed altri sono in fase di costituzione (Low Intensive Therapy, Depression, Psycosis, Trauma , Sex and couple Therapy).
Giovanni Ruggiero è in fase di start up per il SIG sul Worrying and Rumination. Ricordo a tutti che i SIG rappresentano una straordinaria opportunità per entrare a far parte di gruppi di lavoro internazionale all’interno dei quali apportare il proprio contributo e nei quali è possibile arricchirsi e preparare momenti di confronti, ricerca, e future cooperazioni.
Ricordo inoltre che sono previste sessioni di meeting e di incontro in camere virtuali, all’interno di piattaforme telematiche che stiamo cercando di allestire. Invito pertanto tutti i Direttori di Scuole, Didatti, Trainers e affini a dare massima diffusione a questa iniziativa soprattutto tra gli studenti e persone più giovani e desiderose di sviluppare un maggior senso di appartenenza alla nostra associazione e che hanno bisogno di essere adeguatamente stimolati ed incuriositi. Pochi per esempio sanno che se si iscrivono alla SITCC diventano automaticamente membri anche dell’EABCT.
8 ) Gestione di rapporti con altre associazioni;
9) Diffusione delle Newsletter;
10) Organizzazione di congressi che saranno: 2013: Marocco (Marraketch) (organizzato dall’EABCT stessa in mancanza di altri gruppi organizzatori); 2014: Olanda (L’Aia); 2015: Israele (Gerusalemme); 2016: Svezia (Stoccolma); 2019: collaborazione del Congresso Mondiale in Europa (Londra o Berlino).
I due congressi in Marocco ed Israele rappresentano quel tentativo a cui accennavo prima di allargare i nostri confini scientifici e non. Invito pertanto tutti a prenderli in seria considerazione al fine di una vostra partecipazione. Peraltro, soprattutto in Marocco, ci stiamo adoperando per mantenere i costi a livello più basso possibile, cercando di andare incontro alle esigenze dei giovani e dei nostri studenti.
Per ulteriori approfondimenti o chiarimenti non esitate a consultare il sito EABCT o a contattarmi personalmente ([email protected]).
Un nuovo studio di neuroimaging condotto presso l’ università di Wisconsin-Madison dimostra che il cervello delle persone con disturbo d’ansia generalizzato (GAD) presenta connessioni più deboli tra la corteccia cingolata anteriore e prefrontale e l’amigdala, suggerendo anomalie in termini di regolazione emotiva.
Il disturbo d’ansia generalizzato è caratterizzato da eccessiva e incontrollabile preoccupazione estesa a diversi domini della propria vita, e colpisce quasi il 6 per cento della popolazione.
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Nello specifico lo studio, che ha utilizzato tecniche neuroimaging DTI e fMRI, ha coinvolto 49 pazienti con GAD e 39 volontari sani. I risultati hanno mostrato che analizzando la materia bianca cerebrale rispetto ai soggetti sani, nei pazienti con diagnosi di disturbo d’ansia generalizzato l’amigdala (area essenziale del sistema limbico responsabile dei processi di regolazione emotiva) avrebbe connessioni più deboli con la corteccia cingolata anteriore e prefrontale (aree del sistema fronto-limbico): tale circuito definito uncinate fasciculus sarebbe quindi in qualche modo depotenziato, un po’ come fosse un muscolo che non viene allenato nei pazienti con disturbo d’ansia generalizzato, il tutto a sfavore di una sana regolazione emotiva.
Sarebbe oltremodo utile verificare a livello neuroscientifico l’effetto della psicoterapia sulla funzionalità di tale circuito: veramente la psicoterapia agendo sui processi di regolazione emotiva può aiutare alla ricostituzione di tale fascio di connessioni associato a un miglioramento sintomatologico che consiste in una riduzione dei sintomi ansiosi?
The Self Illusion: Siamo davvero solo un Ammasso di Atomi?
Di Elena Lucchetti e Francesca Fiore
Siamo un ammasso di atomi è il riassunto di quanto espresso nell’ultima opera di Bruce Hood, “The Self Illusion”, in cui tutto quelle che ci circonda è caratterizzato da un insieme di atomi, allora, anche noi siamo solo un “ammasso di atomi”? O c’è qualcosa di più?
Se fermiamo una persona per la strada, ponendogli la domanda su come si percepisce, probabilmente risponderebbe che oltre al solo corpo vi è qualcos’altro di intangibile, evanescente, che può essere definito spirito, anima, essenza, identità: Sé.
Anche noi stessi, se dovessimo pensarci come fatti di sola materia, avremmo forse una sorta di rigetto a questa idea. Vi è, quindi, un istinto intrinseco nella natura umana a considerare ciascuno di noi come un’identità unica e di grande valore; provvisti di una dimensione più elevata rispetto all’elemento puramente materiale. Gli esseri viventi sembrano avere un’essenza che è un qualcosa di più della somma delle loro parti. Secondo Hood, questa è un’illusione.
Il problema è che l’immagine di sé è generata dalla mente, e la mente è generata dal cervello, e il cervello è solo un sacchetto di atomi, e gli atomi possono essere scambiati e riordinati, e forse, uno giorno, copiati. Quindi, il sé è solo un illusione dettata dalla forza di una insieme di parti fatte anche esse solo di atomi.
A questo punto mi sovviene alla mente la “teoria dei tre mondi” di Karl Popper che afferma l’esistenza di sottomondi ontologicamente distinti:
Il Mondo fisico;
Il Mondo degli stati mentali e delle esperienze soggettive;
Il mondo delle idee in senso oggettivo, ossia il mondo degli oggetti possibili di pensiero (teorie scientifiche e le loro relazioni logiche).
Senza addentrarci nella teoria e nelle speculazioni filosofiche, è possibile osservare come Popper abbia affiancato ad un mondo prettamente fisico, costituito da materia, ad altre due dimensioni che sono il prodotto della mente umana. Quindi, l’antimaterialismo popperiano si contrappone all’estremo atomismo espresso da Hood nel suo libro. Quindi siamo fatti di solo corpo o anche di altro?
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Attualmente, ciò che più somiglia ad una “copia di cervelli” è rappresentata dai gemelli omozigoti.
Questi gemelli possiedono lo stesso corredo cromosomico, ovvero la stessa materia. Spesso, durante l’infanzia, i gemelli si percepiscono e vengono considerati dalle altre persone, come un’entità unica chiusa al mondo esterno.
Con l’inizio di un momento importante quale l’adolescenza, emerge per essi il fastidio di essere considerati una cosa sola e affiora lo stupore di capire che si ha un valore anche senza il doppio. Inizia, così, il lungo viaggio verso la “degemellizzazione”.
Può capitare che questo percorso personale possa trasformarsi in una competizione e/o conflitto agguerrito, causato dal fatto di avere continuamente uno specchio con il quale paragonarsi.
Con questo esempio dei gemelli omozigoti appare chiaro come, pur avendo un substrato fisico estremamente simile, la necessità di differenziarsi e affermare un proprio Sé emerga in tutta la sua forza.
Tuttavia, immaginando che tali gemelli siano dotati della stessa struttura fisica e ipoteticamente che, fino ad un certo punto della loro vita, possano essere dotati di una uguale identità, è evidente come ciò non possa durare a lungo.
Infatti studi recenti, hanno dimostrato come il cervello umano mantenga una certa plasticità neuronale durante tutto il corso della vita. Questa capacità dei neuroni di modificarsi e riorganizzarsi continuamente è dovuta all’influenza del mondo esterno per rispondere a particolari esigenze motorie, sensoriali ma anche cognitive e affettive. Il Sé quindi comincerebbe, ancora una volta, a distinguersi e a manifestarsi nella sua peculiarità.
Anche se il sé fosse solo un’illusione, come affermato da Bruce Hood, tale illusione sarebbe considerata come realtà individuale e quindi da prendere in considerazione da parte degli studiosi della psiche per poterci lavorare e dare, in alcuni casi, delle basi anatomiche, farmacologiche, per dare significato a quanto di più profondo esista.
La Sindrome di Rebecca e’ la gelosia per il passato sentimentale del partner e deriva il proprio nome dal celebre film di Alfred Hitchcock “Rebecca la prima moglie”, tratto a sua volta dall’omonimo romanzo di Daphne du Maurier.
In questa particolare configurazione emotiva, descritta accuratamente da Posadas (1988), prende forma un’autentica ossessione che si concentra sulle esperienze vissute dal partner nelle relazioniprecedenti.
La persona affetta dalla Sindrome di Rebecca non tollera che vengano menzionati luoghi ed eventi che appartengono ai legami già vissuti e in generale viene travolta da un pensiero ricorrente in merito alla figura di chi l’ha preceduta, alle sue doti più brillanti, agli elementi che potrebbero aver reso speciale e ineguagliabile quel rapporto.
Il quadro peggiora se il partner, non comprendendo o sottovalutando la gravità del fenomeno, parla liberamente delle esperienze vissute in passato senza curarsi di ciò che potrebbe scatenare : il rimuginio dell’altro; d’altro canto la Sindrome di Rebecca agisce anche quando i riferimenti pericolosi vengono ridotti al minimo o sono semplicemente casuali: il pensiero ossessivo trascura i dati di realtà e si fonda su una carente lettura della mente dell’altro, al quale viene attribuita l’intenzione di ricordare il partner precedente in virtù di un legame affettivo che non si e’ mai sciolto.
Quando si verificano queste interazioni l’emozione prevalente e’ una rabbia profonda che gradualmente pregiudica la qualità della relazione, il dialogo fra i partner, la costruzione di un rapporto che sia in grado di collocarsi nel tempo presente integrando le diverse fasi di vita degli individui coinvolti.
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Se una precedente relazione si e’ poi distinta per uno o più aspetti rilevanti, ad esempio la nascita di un figlio, il superamento di difficoltà personali importanti, la condivisione di esperienze intense, la Sindrome di Rebecca si amplifica e diventa difficilmente gestibile; la figura del presunto rivale viene mitizzata e odiata, la sua immagine talmente distorta da diventare attiva nella relazione che si sta vivendo.
La causa principale di questa problematica può essere identificata in una rappresentazione di sé svalutata, che induce chi e’ affetto dalla Sindrome di Rebecca a ritenersi indegno dell’amore del partner, le cui attenzioni non sono mai sufficienti a consolidare un’autostima adeguata.
Il rivale del passato, che in alcuni casi si mostra ancora presente nella vita del partner ma il più delle volte e’ oggettivamente lontano ed escluso dalla prospettiva attuale, viene idealizzato e i suoi pregi messi a confronto con le presunte carenze del soggetto geloso; entrambe le rappresentazioni sono però influenzate dalla percezione di disvalore da cui si origina la Sindrome di Rebecca, che colpisce persone fortemente danneggiate nella capacità di sentirsi amabili.
Queste arrivano addirittura a desiderare il male per colui o colei che odiano, la sua rovina fisica, la sua sparizione, ma il nucleo centrale del problema può risolversi solo in psicoterapia poiché riguarda contenuti mentali ed emotivi che si strutturano anche in assenza dell’oggetto temuto: il sospetto che il partner sia comunque impegnato a ricordare esperienze affettive precedenti, che alcuni legami sentimentali siano ancora significativi nel suo vissuto intimo, non viene placato dalle rassicurazioni e dalle prove di fedeltà. L’autostima si mantiene vacillante e Rebecca, se non viene contrastata da un buon lavoro clinico, fa sentire la propria presenza.
Secondo il Centers for Disease Control and Prevention (CDC), dai primi anni 1980 fino al 2000 i tassi di obesità tra i bambini e gli adolescenti negli Stati Uniti è quasi triplicato. Dal 2000 al 2006 è rimasto invariato.
Nel 2008 circa il 17% di tutti gli americani di età inferiore ai 18 anni erano obesi, mentre il 32% erano obesi o in sovrappeso.
Nel 2011 uno studio ha rivelato che quasi un terzo di tutti i bambini americani di età compresa tra 9-24 mesi erano in sovrappeso o obesi.
A fronte di questi dati la recente ricerca pubblicata dalla rivista Pediatrics appare particolarmente importante. Infatti secondo un team di ricercatori del New York University School of Medicine e del Nathan Kline Institute for Psychiatric Research i bambini obesi e con sindrome metabolica avrebbero maggiori probabilità, rispetto ai loro coetanei normopeso, di rimanere indietro in una serie di abilità cognitive.
La sindrome metabolica, considerata l’anticamera del diabete di tipo 2, è un insieme di condizioni di salute, tra cui la pressione alta (ipertensione), elevati livelli di glucosio nel sangue, obesità centrale (troppo grasso al girovita), i livelli di colesterolo anomali, e l’insulino-resistenza.
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Studi precedenti avevano già dimostrato un legame tra sindrome metabolica negli adulti e nei deficit cognitivi, ma questo studio dimostra che la sindrome metabolica negli adolescenti è associata a problemi cognitivi ancora più gravi.
I ricercatori hanno messo a confronto 49 ragazzi con sindrome metabolica con 62 coetanei senza il disturbo. I risultati indicano chiaramente che i ragazzi con sindrome metabolica hanno riportato punteggi significativamente più bassi dei coetanei normopeso in: Aritmetica, Attenzione, Flessibilità mentale, Ortografia.
Inoltre sono stati riscontrati minori volumi di materia nell’ippocampo e minore integrità della sostanza bianca. L’ippocampo è una zona del cervello implicata nei processi di apprendimento, memoria e nella regolazione delle emozioni.
Sulla base di questi risultati gli autori sostengono che l’obesità associata a disregolazione metabolica, che non ha ancora raggiunto un livello per una diagnosi di diabete di tipo 2, può essere responsabile di complicazioni cerebrali durante l’adolescenza; per questo motivo quando si pianifica il trattamento per l’obesità infantile precoce i medici dovrebbero includere terapie per migliorare la funzionalità cerebrale.
Sono necessari ulteriori studi per verificare le possibilità di ripristino delle funzioni cognitive perse e delle anomalie cerebrali strutturali nel caso in cui avvenga una perdita di peso.
L’arte è un linguaggio universale in grado di veicolare contenuti e, soprattutto,emozioni. Tutto quanto fa parte dell’esperienza umana, compresa la follia, è stato descritto mirabilmente nella narrativa. Libri e film sono uno strumento utilissimo da utilizzare in terapia per guidare il paziente alla ricerca di sè stesso scoprendosi partecipe alle comuni vicende umane e sentendosi dunque meno solo. Anche nella formazione degli psicoterapeuti spesso la pagina di un libro o la sequenza di un film raccontano molto di più del mondo della sofferenza di lunghe lezioni frontali sui criteri del DSM-IV.
Il libro i “Territori dell’incontro“, in uscita in questi giorni per la casa editrice Alpes, scritto da Brunella Coratti, Roberto Lorenzini, Antonio Scarinci, Anna Segre, apre scenari molto interessanti alla terapia cognitiva. La dedica iniziale cita: “A tutti quelli che hanno scritto insieme a noi la sceneggiatura del film che stiamo interpretando”, e il libro parla proprio di questo, di un film o di un libro da leggere, ma in un contesto particolare che è quello terapeutico. Uno dei punti focali della terapia cognitiva, dopo l’iniziale comprensione del problema, consiste nell’assegnazione di homework, in cui è richiesto impegno e lavoro costante da parte del paziente per modificare le idee disfunzionali all’origine del disagio. Gli homework velocizzano il cambiamento incrementando le funzioni meta-cognitive del paziente, offrendo in questo modo una visione oggettiva della propria situazione clinica. Quindi, il lavoro da fare si estende oltre il tempo delle seduta, allo scopo di “esplorare le possibilità di cambiamento delle varie componenti del sistema”. Tra i tradizionali compiti da assegnare al paziente è possibile consigliare la lettura di un libro o la visione di un film. Naturalmente, contenuti e trame variano al variare del tipo di sofferenza presentata dal paziente. L’homework, di conseguenza, diventa parte fondamentale del percorso terapeutico perché stabilisce un continuum tra una seduta e l’altra.
Fornire al paziente libri da leggere e/o film da guardare è utile perché svolge:
1. Una funzione protesica della mente del paziente:
Aumenta la consapevolezza guardando il problema in terza persona;
Fa scoprire alternative di pensiero e di comportamento;
2. Una funzione di simulazione in cui un particolare evento (A) permette:
Di ricostruire sequenze problematiche (“B”=Pensieri, “C”=Emozioni e Comportamenti) (v. tecnica ABC);
Di esporre il paziente ad un livello intermedio tra immaginazione e realtà.
Ebook Consigliato: "Autoterapia del Delirio" di Roberto Lorenzini.
In molti nella pratica clinica consigliano libri da leggere come coadiuvanti o supportivi alla terapia, mentre esiste una minore propensione all’uso di film. Si evidenzia in maniera molto netta la superiorità del film rispetto al libro, poiché le immagini permettono di evocare più facilmente sentimenti e emozioni. Infatti, il cinema, ripropone in modo creativo la realtà, ma utilizza l’immagine per rendere “con immediatezza simbolica la vita reale”. Questa modalità permette al paziente di diventare consapevole dei propri meccanismi patogeni, di intervenire sulle valutazioni e sulle interpretazioni, offrendo visioni alternative attraverso nuovi scenari, ovvero arrivare alla formazione di una realtà nuova e più adattiva.
Come avviene il processo di cambiamento con la lettura di un libro e la visione di un film?
Ovviamente, in tre tappe:
Diventare consapevoli del problema;
Prendere distanza critica da ciò che è necessario modificare;
Costruire un’alternativa.
Lo scopo finale è far diventare il paziente psicologo di se stesso, acquisendo una capacità di mastery tale da poter elaborare strategie di coping funzionali.
Leggi la Rubrica di State of Mind, a cura di Roberto Lorenzini.
Quindi, i film e i libri aiutano e velocizzano questo processo di cambiamento, perché offrono soluzioni immediatamente visibili al problema mostrato, senza doverci lavorare per molto tempo. Quindi, letteratura e cinematografia permettono la consapevolizzazione dei temi problematici e il distanziamento da essi, offrendo la possibilità di esporsi immaginariamente ad una situazione temuta, allargano i limiti individuali e mettendo in discussione bisogni, scopi, credenze, attraverso il campo dell’esperienza. Dunque, i libri e i film sono metafore, ricche di codici comunicativi, utilizzabili come i miti, le favole, i sogni per aiutare a capire meglio se stessi e le proprie esperienze di vita, oltre che per favorire il passaggio dalla situazione attuale a esperienze nuove. La metafora utilizzata è in realtà una struttura di pensiero, essenziale nell’organizzare l’esperienza: consente la costruzione di un linguaggio comune mobilizzando le risorse soggettive per superare le resistenze al cambiamento e la facilitazione dei processi di problem solving con minor carico mentale. Dulcis in fundo, nel libro è trattata a largo spettro la patologia mentale, dove per ogni sintomatologia si consigliano, con tanto di motivazioni in allegato, diversi libri e film.
Naturalmente è necessario identificare pazienti con cui è possibile usare tale tecnica. Per questo, come per ogni tecnica che si rispetti, è necessario discuterla e valutarla anticipatamente con il paziente, previa attivazione di un atteggiamento negativo che potrebbe minare l’alleanza terapeutica.
Non immaginare le cose come le giudica il prepotente o come egli vuole che tu le giudichi,
Questo congresso di Ginevra rappresentava una cartina di tornasole sullo stato delle terapie cognitivo comportamentali in Europa. L’ EABCT è una vecchia società, giunta al suo 42esimo congresso, che da sempre raduna in Europa partecipanti da tutti i continenti, il suo congresso per molto tempo è stato il più importante luogo d’incontro internazionale per i clinici e i ricercatori d’area.
Ha avuto momenti trionfali, quando le terapie cognitivo-comportamentali, con la loro efficacia, sembravano spazzare via gli altri approcci e confrontarsi con forza con gli psichiatri e le ricerche di psicofarmacologia, con la sensazione che il nuovo paradigma fosse ineluttabile.
Poi da Helsinki (2008) fino a Reykjavik (2011) si è vista una grande crisi. Avanzavano approcci diversi con i pazienti difficili, e molti ricercatori e clinici si sentivano sempre più stretti nel confronto con certe rigidità e chiusure dei protagonisti della seconda ondata di Salkovskis, Clark e Fairburn. La reazione di alcuni è stata quella di lasciare e formare una propria società. Così hanno fatto Hayes, Young e Wells. Ma non è detto che abbiano fatto bene. La scelta di trovarsi solo tra adepti dello stesso orientamento non ci sembra creativa in questa fase.
Noi temevamo, andando a Ginevra, di trovare una società sclerotica e poco aggiornata con le nuove ricerche nate dalle riflessioni cliniche di chi approccia pazienti difficili e non riesce a adattare i modelli della seconda ondata ai pazienti complessi. Ma gli organizzatori del congresso sono stati molto bravi. L’esperienza e l’intelligenza di Lucio Bizzini e del suo gruppo ha saputo radunare le nuove correnti e ha portato al congresso esperienze e ricerche nuove e molto, molto interessanti. Certo, mancava un’intera generazione. Non c’erano i “vecchi” protagonisti che hanno contribuito a portare il cognitivismo a essere leader del mondo, mancavano Clark, Hayes, Salkovskis e Wells.
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Ma gli stessi organizzatori (e noi con loro) sono rimasti basiti di fronte alla ricchezza dei contribuiti di tantissimi giovani e poco meno giovani che portano ricerche importanti spesso in aree del tutto innovative.
Cosa sono le cose nuove? L’area di integrazione tra neuroscienze, neuropsicologia, imagery e psicoterapia(il tutto talvolta denominata audacemente neuropsicoterapia); le varie modalità di somministrazione della psicoterapia che affrontano le esigenze della modernità, come le Internet Based Psychotherapy (standard e individualizzata), la CBT a bassa intensità, ovvero adattata alla domanda clinica estensiva e non intensiva dei servizi pubblici, la prevenzione dei disturbi e applicazioni sociali delle tecniche CBT. La CBT insomma si adatta e lavora anche per formalizzare gli interventi con pazienti nuovi, gli anziani, i malati organici, i sex offenders.
Ma ci ha colpito anche la presenza di nazioni che fino a pochi anni fa erano presenti solo come fruitori di formazione dai paesi anglosassoni, e oggi producono ricerca originale su vari temi, dall’attaccamento, alla mindfulness, all’integrazione tra terapia e neuroscienze. Abbiamo assistito a lavori scientifici provenienti dalla Serbia, dalla Lettonia, dalla Tunisia. La sensazione è di una grande vitalità e di un cambiamento in atto che non si può non guardare con interesse. L’Italia ha fatto la sua parte. In futuro forse la crisi della vecchia egemonia di seconda ondata potrà aprire a paesi di seconda linea la possibilità di essere ascoltati e di contribuire con ricerche originali al mainstream del cognitivismo.
Chi è rimasto nelle EABCT ha chiaro che certi trionfalismi che vorrebbero mettere sotto un’unica etichetta tutta la creatività clinica e scientifica hanno (in parte) fallito o perlomeno non hanno potuto rispettare certe promesse eccessive e che ora l’assetto integrativo e curioso verso il nuovo, da qualunque parte esso arrivi, è la posizione scientifica migliore. Meno profeti e più clinici e scienziati. Una grande lezione di maturità della cultura clinica e scientifica europea.
Una nuova ricerca condotta al National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism (NIAAA) e all’UNC’s Bowles Center for Alcohol Studies fa luce sul meccanismo che lega l’alcolismo ai disturbi d’ansia, in particolare il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). L’uso di alcol provocherebbe un “ricablaggio” nei circuiti cerebrali, rendendo più difficile il recupero psicologico a seguito di una esperienza traumatica. Ciò che risulta compromessa è la capacità, normalmente insita in ognuno, di andare incontro a una spontanea desensibilizzazione rispetto all’evento traumatico subito, in modo tale che questo con il tempo non risulti più ansiogeno e temibile. L’esposizione cronica all’alcol infatti rende deficitario il controllo centri cerebrali emozionali da parte dei centri cerebrali cognitivi.
Per un mese, i ricercatori hanno somministrato a un gruppo di topi dosi di alcool equivalenti al doppio del limite legale di guida negli esseri umani. Un secondo gruppo di topi a cui non è stato somministrato alcol è stato usato come controllo. I topi sono poi stati condizionati con lievi scosse elettriche a temere il suono di una nota. Quando la nota è stata suonata più volte senza essere accompagnata dalla scossa elettrica, i topi che non erano stati esposti all’alcool hanno gradualmente smesso di averne paura. I topi con esposizione cronica all’alcool, invece, hanno continuato a immobilizzarsi dalla paura ogni volta che hanno sentito il suono della nota, e questo anche molto tempo dopo che le scosse elettriche non venivano più somministrate.
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Il comportamento è simile a quello osservabile nei pazienti con PTSD, che hanno difficoltà a superare la paura, anche quando non sono più in una situazione pericolosa. Confrontando i cervelli dei topi, i ricercatori hanno notato che le cellule nervose nella corteccia prefrontale dei topi esposti all’alcool avevano una forma diversa rispetto a quelle degli altri topi. Inoltre, l’attività di un recettore chiave, il NMDA (recettore postsinaptico dell’acido glutammico), risulta soppressa nei topi trattati con dosi massicce di alcool.
Andrew Holmes, autore principale dello studio, ritiene che questi risultati siano importanti perché individuano esattamente il luogo in cui l’alcool provoca danni responsabili dell’impossibilità a superare la paura. “Non stiamo solo vedendo che l’alcool ha effetti negativi su un processo emotivo clinicamente importante, ma siamo in grado di offrire una certa comprensione su come l’alcool potrebbe farlo interrompendo il funzionamento di alcuni circuiti cerebrali molto specifici“, ha detto Holmes. “Una storia di abuso di alcool può compromettere un meccanismo fondamentale per il recupero dal trauma, e in tal modo esporre le persone a maggior rischio di PTSD; il prossimo passo sarà quello di verificare se i nostri risultati preclinici possono essere applicati a pazienti affetti da PTSD in comorbidità con l’abuso di alcool“. Comprendere il rapporto tra alcool e l’ansia a livello molecolare potrebbe offrire nuove possibilità per lo sviluppo di farmaci per aiutare i pazienti con disturbi d’ansia che hanno anche una storia di abuso di alcool.
Nella piovosa Ginevra si è tenuta la quarantaduesima edizione dell’EABCT, dal titolo:”Psychotherapy and Neuroscience: Evidence and Challenges for CBT“.
Come è possibile evincere dal titolo, lo scopo di questo congresso era di stabilire un link tra la patologia mentale e neuroscienze, in particolare le tecniche che studiano le attivazioni di determinate aree cerebrali.
Diverse sono state le sessioni in cui si è parlato di questa relazione e di questo futuribile scambio di informazioni da utilizzare anche in psicoterapia.
Fondamentalmente le neuroscienze costituiscono una delle componenti più importanti all’interno del background scientifico contemporaneo. Infatti, risultano essere una commistione di discipline che provano ad indagare e verificare attraverso i correlati neurali i comportamenti osservabili. L’italiano Tullio Scrimali, azzarda l’utilizzo di rilevazioni elettrodermiche e elettroencefalografiche durante degli step di psicoterapia, allo scopo di avanzare nuove ipotesi di intervento, ma attualmente oltre al biofeedback non è possibile capire in che modo queste rilevazioni possano aiutare la psicoterapia se non nella rilevazione di una emotività latente che spesse volte traspare limpida all’occhio del bravo terapeuta.
Durante il congresso molti sono stati gli interventi atti voler indagare cose succede nella mente di una persona che soffre di una patologia in Asse I. Si parte con i correlati neurali dell’ansia sociale; in questi pazienti, rispetto ai controlli sani, si attiva maggiormente l’amigdala, l’insula, la parte mediale del talamo e, l’immancabile, corteccia prefrontale mediana. Dopo una sessione di appraisal è possibile osservare una minore attivazione delle aree in questione rispetto ai controlli. Quindi, l’intervento psicoterapeutico aiuta a far funzionare meno alcune aree. Ma in termini terapeutici questo minor funzionamento come si traduce? A confermarlo sarà un nuovo studio realizzato in Svezia dal gruppo di Stain e collaboratori (2012).
Conclusioni: la psicoterapia, intesa come processo di riapprendimento attraverso costruzione di scenari alternativi, aiuta a far funzionare meno aree e circuiti inerenti all’ansia. Nessuna risposta su come avviene il cambiamento terapeutico e cosa cambia, ma solo quanto cambia.
Prontamente si passa dall’ansia alla depressione in cui si rileva un maggior funzionamento del nucleo accumbens e del circuito talamico-pallido-corticale-striatale-limbico, che risulta essere catecolamine dipendente. Anche in questo caso dopo un percorso terapeutico, non meglio specificato, e una cura farmacologica ad hoc, si rileva una riduzione del funzionamento di queste aree. Altri ancora affermano che sempre con la depressione oltre alla tecnica standard di base terapeutica è possibile usare una strategia basata sulla mindfulness. In questo caso nei pazienti depressi si ha una un aumento dell’attività dell’amigdala e della corteccia prefrontale.
Si passa poi alla schizofrenia dove è possibile riscontare l’attivazione di aree affini a quelle precedenti che dopo task cognitivi proiettati al computer si attivano in maniera sostanzialmente minore.
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Per concludere, in uno studio si esplorano i correlati neurali specifici della terapia cognitiva. Lo scopo era di individuare qual è l’impatto della CBT sui circuiti neuronali e se ci fossero differenze con la farmacoterapia. I risultati dimostrano che alcuni network cognitivi si modificano sostanzialmente con la psicoterapia. Ma di quali circuiti si tratta? Sempre degli stessi, ovvero la corteccia prefrontale l’amigdala, il talamo e alcuni nuclei sottocorticali.
Concludendo la CBT opera cambiamenti a livello della mente e del cervello! Naturalmente senza distinguere tra nessun tipo di disturbo e tra nessuna area in particolare. Quindi, secondo questo studio (Loftus, 2012), le neuroimaging dovrebbero essere un ottimo coadiuvante da inserire nei protocolli terapeutici. In che modo?
Morale della favola ginevrina: ci sono molti studi di neuroimaging e molti altri se ne faranno, ma ad oggi la psicoterapia può utilizzare queste tecniche per affermare se sostanzialmente qualcosa cambia. Le neuroimaging non sono supportive al cambiamento terapeutico, ma rilevano un cambiamento e, il più delle volte, non specifico ma generico.
Immagine: una scena del film Harry ti presento Sally (1989)
“No, no no no no, non l’ho mai detto! … Sì, hai ragione, non possono essere amici. Cioè, se tutti e due stanno con qualcun altro allora sì, è l’unico emendamento alla regola d’oro: Se due persone stanno con altri la possibilità di un coinvolgimento diminuisce. E non funziona lo stesso, perché allora la persona con cui stai non capisce perché devi essere amico della persona di cui sei solo amico, come se mancasse qualcosa al rapporto e dovessi andare a cercartelo fuori. E quando dici -no, no, no, non è vero, non manca niente al rapporto- la persona con cui stai ti accusa di essere segretamente attratto dalla persona di cui sei solo amico, il che probabilmente è vero. Insomma parliamoci chiaro, vale la regola d’oro, si abolisce l’emendamento: uomini e donne non possono essere amici. Vieni a cena con me?”
Così recitava Billy Crystal nel film del 1989 Harry ti presento Sally a proposito della possibilità che un uomo e una donna possano intrattenere un’autentica relazione d’amicizia e la trama del film gli dà ragione: Harry e Sally assisteranno alla metamorfosi del loro rapporto d’amicizia in un’intensa storia d’amore.
Pare proprio che Nora Ephron, sceneggiatrice del film deceduta lo scorso mese, avesse già intuito gran parte dei risultati della ricerca condotta da Bleske-Rechek proprio in merito ai rapporti di amicizia tra maschi e femmine. La professoressa dell’Università del Wisconsin e il suo team hanno intervistato 88 coppie di sesso opposto protagonisti di una relazione d’amicizia della durata di almeno due anni.
I risultati ci dicono che gli uomini provano maggiore attrazione verso le amiche che non viceversa, sovrastimano l’attrazione di quest’ultime nei loro confronti e il loro desiderio di frequentare le amiche, così come l’attrazione verso di loro, non è affatto influenzata dal fatto che stiano vivendo nel contempo una relazione amorosa con altre. Le donne invece dichiarano una riduzione del desiderio di uscire con gli amici maschi se già impegnate in una storia d’amore ed una ridotta attrazione nei loro confronti.
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La psicologia evolutiva spiega tali riscontri nei termini di una maggiore selettività femminile nella scelta dei partner giustificata da un ridotto periodo di fertilità e dai costi della gestazione, mentre gli uomini, implicitamente descritti come eternamente dediti alla diffusione del loro seme, sarebbero molto più disponibili ad incontri amorosi, espandendo il territorio di caccia anche alle relazioni amicali.
Risulta a mio parere più interessante un secondo studio che ha voluto investigare come le persone si confrontano con il desiderio sessuale eventualmente nutrito nei confronti degli amici di sesso opposto.
Il campione questa volta è stato suddiviso per età. Il campione giovane, con età media di 19 anni, presenta una percentuale di soggetti impegnati in relazioni amorose del 38%, mentre il campione adulto, con età media di 37 anni è composto da persone sposate per il 90%.
I giovani mostrano complessivamente molta più attrazione verso il partner amicale di quanto non dichiarato dal campione adulto, fatta eccezione per quella piccola percentuale di single incalliti che manifestano livelli di attrazione pari a quelli dei giovani.
Curioso notare come l’attrazione nei confronti di un amico nell’intero campione sia percepita molto più spesso come un peso che non come un beneficio . Per le giovani donne e per gli uomini e le donne del campione più maturo l’attrazione verso gli amici comporta una minore soddisfazione nel rapporto di coppia. I giovani ometti ancora una volta sembrano invece non essere minimamente disturbati dal loro impulso predatorio, del resto è l’evoluzione che li vuole così!
Tirando le somme pare che l’attrazione sessuale tra amici di sesso opposto sia esperienza comune e percepita come un costo piuttosto che come un beneficio. Chissà che non sia proprio tale giudizio a rendere complicato gestire la relazione d’amicizia piuttosto che il fatto di sentirsi semplicemente attratti dall’altro.
Harry ci aveva comunque avvisati con un paio di decenni d’anticipo : “Insomma parliamoci chiaro, vale la regola d’oro, si abolisce l’emendamento: uomini e donne non possono essere amici”, a meno che non si riesca a contemplare la possibilità che un po’ di attrazione fisica non guasti né al rapporto di amicizia né tantomeno ad eventuali relazioni amorose contemporaneamente coltivate.
E voi, che ne pensate del vostro amico del cuore?!
BIBLIOGRAFIA:
Bleske-Rechek A., Somers, E., Micke, C., Erickson, L., Matteson, L., Stocco, C., Schumacher, B., and Ritchie, L. (2012). Benefit or burden? Attraction in cross-sex friendship. Journal of Social and Personal Relationships. DOI: 10.1177/0265407512443611
Secondo una ricerca condotta all’Università di Iowa la consapevolezza di sé è il prodotto di un mosaico di percorsi nel cervello. La ricerca è in contrasto con la teoria che tre regioni del cervello siano fondamentali nella consapevolezza di sé: la corteccia insulare, la corteccia cingolata anteriore e la corteccia mediale prefrontale.
A queste conclusioni gli scienziati sono giunti dopo avere avuto la rara opportunità di studiare una persona con gravi danni cerebrali in tutte e tre queste regioni cerebrali.
L’uomo in questione, un 57 enne laureato, chiamato convenzionalmente il “paziente R”, ha superato tutti i test standard di auto-consapevolezza e ha dato ripetute prove di riuscire a riconoscersi allo specchio e in fotografie relative a diverse epoche della sua vita; inoltre, nel corso di una lunga intervista, ha dimostrato profonda capacità introspettiva e di riuscire a comprendere chiaramente che ogni azione da lui compiuta è la conseguenza di un intenzione.
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Di sé ha dato questa descrizione “Io sono solo una persona normale con un brutto ricordo”. Cioè che il paziente ha perso, a causa di un danno ai lobi temporali, è la capacità di aggiornare i nuovi ricordi nel suo “sé autobiografico”, provocandogli una grave amnesia anterograda. (LEGGI ANCHE: ARTICOLI SULLA MEMORIA) Al di là di questo deficit, tutte le altre funzioni legate alla consapevolezza di sé sono, secondo i ricercatori, rimaste fondamentalmente intatte.
Secondo David Rudrauf, Ph.D., co-autore dello studio, questa ricerca dimostra chiaramente che la consapevolezza di sé corrisponde a un processo che non può essere localizzato in una singola regione cerebrale; è molto probabile che questa emerga invece da interazioni diffuse e ampiamente distribuite tra le reti delle regioni cerebrali; le aree che giocherebbero un ruolo in tale processo sono il tronco cerebrale, del talamo e corteccia posteromediali.
Abbiamo già parlato del contributo di Liotti al congresso EABCT. La presenza italiana prevedeva altri importanti contributi. I simposi a cui ha partecipato Giancarlo Dimaggio (Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma) erano naturalmente focalizzati sul modello di metacognizione sviluppato dal nostro collega in collaborazione con Antonio Semerari e gli altri membri storici del Terzo Centro di Roma.
La presenza di Dimaggio al congresso EABCT è un evento interessante. Per varie ragioni, finora il modello metacognitivo-interpersonale dei colleghi di Roma si era diffuso soprattutto nell’ambiente più ecumenico della Society for Psychotherapy Research. Questo suggeriva una sorta di vocazione interdisciplinare e una sorta di desiderio di smarcarsi dal modello cognitivo standard. Tuttavia, è pur vero che a sua volta l’EABCT si distacca dal modello cognitivo standard, aprendo le porte alla mindfulness e alle nuove ricerche di terza ondata.
Finora il modello metacognitivo dominante nel campo EABCT è stato quello di Adrian Wells. La presenza di Dimaggio consente di paragonare i due modelli. Si tratta in entrambi i casi di modelli processuali. I processi di Wells, però, sono soprattutto di tipo attentivo e quindi tendenzialmente intrapsichici. I processi descritti da Dimaggio e Semerari sono invece più di tipo interpretativo (identificazione degli stati mentali) e interpersonali (consapevolezza degli stati mentali dell’altro come separati dai propri).
Il modello “romano” mette più l’accento sulle funzioni per così dire positive della metacognizione, quelle che più ci consentono di gestire in maniera produttiva e sana il pensiero. Il modello “manchesteriano” sembra invece insistere sulle possibili conseguenze negative della metacognizione: la produzione di pensieri secondari disfunzionali e dannosi, il cosiddetto meta-rimugino (meta-worry). Sembra quasi una differenza tra razionalismo continentale fiducioso verso la moltiplicazione degli stati mentali ed empirismo anglo-sassone teso alla massima economizzazione dei pensieri. Entrambi i modelli mantengono un interesse verso il disputing dei contenuti cognitivi distorti, ma come una sorta d’intervento preparatorio.
Il simposio presieduto da Dimaggio era molto internazionale. Il nostro collega è riuscito a richiamare l’interesse di gruppi stranieri che hanno adottato il suo modello e lo stanno applicando a vari disturbi, non solo di personalità. In particolare, Matthias Schwannauer dell’Università di Edimburgo, Angus MacBeth dell’Università di Glasgow, Katja Koelkebeck dell’Università di Muenster e Toshiya Murai dell’Università di Kioto stanno applicando il modello metacognitivo-interpersonale ai disturbi psicotici.
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Francesco Aquilar dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Cognitiva e Sociale (AIPCOS) di Napolie Mauro Galluccio dell’European Association for Negotiation and Mediation (EANAM) proseguono il loro lavoro, molto originale e sperabilmente proficuo per il benessere del nostro pianeta, di applicazione dei principi cognitivi ai negoziati politici internazionali. Naturalmente il modello adotta molti principi della cognizione sociale e interpersonale.
Tullio Scrimali dell’Università di Catania continua a sviluppare il suo modello di trattamento cognitivo delle psicosi e partecipando al tentativo, molto presente in questo congresso, di ancorare la psicoterapia alle neuroscienze (Freeston già parla di “fourth wave”, quarta ondata. Ma non è un po’ presto?).
Anche Barbara Basile, collaboratrice di Francesco Mancini all’Associazione di Psicoterapia Cognitiva di Roma ha portato un contributo che mette in relazione variabili cognitive e neurologiche, analizzando le basi cerebrali del senso di colpa nel disturbo ossessivo.
Antonio Pinto del Centro di Psicoterapia cognitivo-comportamentale di Napoli si occupa di terapia cognitiva delle psicosi, ma si aggancia alla mindfulness e ai principi dell’accettazione e pare meno interessato alle neuroscienze. Segnaliamo anche il grande lavoro di coordinamento organizzativo di Antonio Pinto, membro sempre più prestigioso e rispettato del Board direttivo dell’EABCT.
Il gruppo di Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero delle Scuole di specializzazione in terapia cognitiva “Studi Cognitivi” e “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” di Milano ha portato i suoi contributi nelle sue aree di passione e competenza: le basi cognitive dei disturbi alimentari (in collaborazione con Ronald Rapee della Macquarie University di Sydney), dei disturbi d’ansia, dei disturbi dissociativi (area di competenza della nostra sede distaccata di Firenze coordinata da Carmelo La Mela) e nelle dipendenze (area padroneggiata dai ricercatori della nostra sede distaccata di Modena e coordinati da Gabriele Caselli).
Gioia Bottesi dell’Università di Padova ha portato un lavoro sul modello dell’intolleranza dell’incertezza di Michel Dugas. Laura Tieghi del Centro GRUBER di Bologna (diretto da Romana Schumann) ha parlato di assertività nella bulimia. Roberto Cattivelli dell’Università di Parma ha presentato un lavoro sull’acceptance and committment therapy. Fabrizio Didonna della Casa di Cura Villa Margherita di Vicenza ha portato un lavoro dedicato alla mindfulness. Angela Ganci dell’Istituto Beck di Roma (diretto da Antonella Montano) si è occupata di trattamento e neuroscienza delle allucinazioni. Cristina Terribili del Gruppo Accademia di Ricerca e Formazione Clinicopedagogica e Psicosociale di Roma ha trattato l’integrazione di terapia cognitiva e psicofarmaci. Davide Coradeschi e Andrea Pozza dell’Università di Firenze hanno analizzato l’efficacia della terapia comportamentale nel disturbo ossessivo compulsivo mentre nello stesso simposio Annunziata Larosa del Miller Institute, Genova ha validato un interessante strumento di valutazione della confusione inferenziale.
Miles Davis (1926-1991): uno dei massimi esponenti della scena jazz per oltre mezzo secolo. Immagine: Tom Palumbo
Il rapporto tra creatività musicale (ma anche creatività artistica in genere) e psicopatologia è dibattuto da anni. Diversi autori hanno evidenziato una chiara relazione tra creatività e disturbi affettivi (Andreason 1987; Jamison, 1993) e tratti di personalità patologici (Post, 1994).
Le conclusioni di queste ricerche mettono in evidenza come le persone che lavorano in ambito artistico presenterebbero un maggior numero di problematiche psichiatriche e per periodi più prolungati rispetto a coloro che svolgono altre professioni.
E’ stata persino ipotizzata una base genetica comune per la creatività e la psicopatologia, con esclusione delle psicosi (Eysenk, 1995). La relazione ad esempio tra creatività e disturbi affettivi, disturbo bipolare in particolare, è stato evidenziato ripetutamente dalla letteratura (Jamison, 1993). Si è ipotizzato che la psicopatologia possa contribuire al processo catartico o che indirizzi in qualche modo la fase creativa, la quale però solitamente si concretizza quando l’individuo sta sufficientemente bene.
La principale difficoltà nel condurre questi tipi di studi consiste innanzitutto nel reperimento delle informazioni sulla sintomatologia psicopatologica, che vengono desunte dalle biografie ufficiali degli artisti. Una biografia redatta da un giornalista non ha certo la validità di un questionario somministrato da un ricercatore o dall’anamnesi raccolta da un clinico, anche perché i libri vengono scritti per essere venduti e amplificare un po’ le condotte tipiche della vita bohemien, che in psichiatria possono essere considerati “sintomi” (abuso di alcol e sostanze, promiscuità sessuale, acting out da rockstar…) aumenta l’interesse del pubblico per il personaggio.
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Volendo giocare un po’ con la psicoanalisi, si può ipotizzare addirittura che il pubblico medio borghese proietti e identifichi le proprie parti di sé trasgressive e inaccettabili sull’artista e sulla sua arte, che viene quindi sacrificato sull’altare della buona società, in una sorte di circolo vizioso distruttivo ed autodistruttivo.
La musica jazz è considerata a ragione come una delle espressioni musicali più importanti e rappresentative del ventesimo secolo.
Autorevoli studiosi si sono concentrati sull’analisi degli aspetti psicopatologici dei protagonisti del periodo più importante del jazz moderno, la cosiddetta era del Bebop, che va dal dopoguerra agli anni sessanta. Il periodo successivo è stato caratterizzato da un ulteriore evoluzione della musica verso quello che è stato definito Free Jazz, ma nell’immaginario collettivo il jazz classico è identificato con il Bebop.
Wills (2003) ha analizzato le biografie di 40 jazzisti, veri innovatori del proprio strumento (tra questi tromba, trombone, sax, piano, chitarra, batteria e vibrafono) e dalle rivoluzionarie capacità compositive e di improvvisazione, per la maggior parte di origine afro-americana (65%), cercando di trasformare i dati biografici in ipotesi diagnostiche in base ai criteri del DSM-IV (APA, 1994). L’autore evidenzia come circa il 30% del campione abbia sofferto di disturbi dell’umore, il 30% di alcolismo, ben il 52% di dipendenza da eroina e il 7,5% di disturbi psicotici, tutte percentuali molto più alte rispetto alla popolazione generale.
Ad esempio per il pianista Bud Powell, è stata ipotizzata la diagnosi spesso dibattuta di disturbo schizoaffettivo, probabilmente favorito dalle percosse di un poliziotto all’età di 21 anni, causa anche di crisi epilettiche. Il disturbo ha determinato diversi ricoveri in ambito psichiatrico per presenza di aspetti paranoici, accelerazione del pensiero fino alla “fuga delle idee” e probabili allucinazioni uditive (veniva spesso visto a ridere da solo).
Il contrabbassista Charles Mingus soffriva di un disturbo ciclotimico, che ha pure necessitato l’ospedalizzazione, caratterizzato da ipomaniacalità, irascibilità, grandiosità e aspetti paranoidi. Il trombettista Miles Davis, che a differenza di molti altri riuscì a sopravvivere agli eccessi giovanili coronando una lunga carriera di successi, fu colpito da una forma di depressione reattiva alla dolorosissima anemia falciforme di cui soffriva.
Rispetto agli aspetti di personalità Wills si è concentrato sul cosiddetto sensation seeking (Zuckerman, 1994), cioè la tendenza a cercare nuove, variegate e intense sensazioni ed esperienze a costo di mettere in atto condotte rischiose. E’ stato notato come questo tipo di atteggiamento caratterizzi i disturbi di personalità del Cluster B (tipo drammatico) e che sia legato anche alla creatività, nella forma del cosiddetto pensiero divergente, un modo di processare l’esperienza cognitiva meno basato sulla logica, ma più sulle libere associazioni, sulle connessioni improbabili, sul brainstorming e sullo stream of consciousness (McCrae, 1987). E’ molto probabile che questa attitudine sia fortemente funzionale all’improvvisazione che troviamo nel jazz, e che lo distingue da altre tipologie di musica.
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Circa il 12% dei soggetti inclusi nel campione mostravano queste caratteristiche in particolare sotto forma di disinibizione comportamentale (uno dei fattori del sensation seeking) rispetto alle sostanze e al sesso.
Il saxofonista Charlie Parker, morto di polmonite a 34 anni, eccedeva di regola con il cibo, l’eroina, l’alcol (la leggenda narra che riuscisse a bere sedici whisky doppi in due ore…non male) e le donne. Il trombettista Chet Baker era invece appassionato di speedball (mix di eroina e cocaina) Non furono da meno i sassofonisti Art Pepper e Stan Getz.
Nell’analizzare questi dati è d’obbligo considerare il periodo storico e il contesto in cui questi musicisti sono vissuti: l’America del McCartismo e della segregazione razziale, in cui artisti di colore tentavano di proporre una musica spesso clandestina e contraria all’establishment. Questo ha sicuramente influito sullo stile di vita sregolato rappresentando un fattore di rischio in grado di condizionare la salute mentale.
I jazzisti in quell’epoca erano costantemente in tour, spesso sottopagati, lavorando prevalentemente nelle ore notturne in locali dove l’alcol scorreva generoso. Per quanto riguarda il massiccio abuso di eroina caratteristico del dopoguerra, è opportuno considerare l’ignoranza che c’era in quegli anni rispetto alle possibili conseguenze negative della sostanza sull’organismo. Prova di ciò è che le generazioni successive di jazzisti non hanno avuto questa abitudine in modo così massiccio.
Non possiamo però trascurare il fattore di predisposizione individuale al sensation-seeking a cui ho accennato in precedenza, al di là delle influenze ambientali. Si potrebbe speculare che persone creative e dotate di questo aspetto della personalità vengano attratte in modo naturale dal mondo della musica o dell’arte. Questo è risultato ancora più evidente in seguito, analizzando le biografie di tanti musicisti rock, finiti male per i propri eccessi. Ma anche in precedenza, come nella Parigi di fine secolo, era nota la dedizione all’oppio di Picasso e all’alcol di Modiglioni e Toulouse-Lautrec, solo per citare qualche esempio.
Questi studi dimostrano come gli artisti possano soffrire di disturbi psichiatrici anche gravi con percentuali superiori alla media e nonostante questo produrre opere eccezionali.
Molti restano spiazzati da questi risultati in quanto gli stessi disturbi possono avere effetti molto distruttivi su altre funzioni mentali. Ciò che chi tenta di curare dovrebbe ricordare sempre è che l’individuo non viene completamente annullato dal disturbo mentale e che soprattutto non può essere rappresentato completamente da una diagnosi, soprattutto del DSM-IV, V, VI, etc…
Secondo una ricerca internazionale condotta alla Duke University l’uso persistente di marijuana prima dei 18 anni provocherebbe danni cognitivi permanenti alle funzioni intellettive, attentive e mnestiche.
Madeline Meier ha seguito un gruppo di 1.037 bambini nati nel 1972-73 a Dunedin, Nuova Zelanda, dalla nascita ai 38 anni . Circa il 5 per cento di loro sono stati considerati dipendenti dalla sostanza, o ne facevano uso più di una volta la settimana prima dei 18 anni.
Un utente dipendente è colui che continua ad utilizzare la sostanza nonostante significativi danni per la salute, problemi sociali o familiari, ha spiegato Meier. All’età di 38 anni a tutti i partecipanti sono stati somministrati test psicologici per valutare la memoria, la velocità di elaborazione, il ragionamento e l’elaborazione visiva.
I risultati dello studio mostrano che chi ha iniziato a fumare cannabis in adolescenza, e ha continuato negli anni successivi, ha ottenuto punteggi significativamente peggiori nella maggior parte dei test cognitivi e ha mostrato un calo medio del QI di 8 punti; inoltre smettere di farne uso non sembra avere l’effetto di ripristinare le funzioni cognitive. Amici e parenti intervistati nell’ambito dello studio avevano una maggiore probabilità di riferire che i fumatori abituali d’erba avevano problemi di attenzione e memoria.
La variabile chiave è l’età, infatti chi, tra i soggetti di studio, ha iniziato fumare marijuana solo dopo i 18 anni non ha mostrato un uguale calo nelle funzioni cognitive in questione.
Prima dei 18 anni il cervello è ancora in fase di organizzazione e ristrutturazione e quindi maggiormente vulnerabile ai danni derivanti dall’assunzione di farmaci e droghe.
Un QI alto correla con una maggiore istruzione e reddito, una salute migliore e una vita più lunga, “Chi perde 8 punti di QI nell’adolescenza può essere svantaggiato rispetto ai suoi coetanei anche negli anni a venire“, ha detto Meier.