Psychology of Social Networks – Infographics
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Fonte: http://www.psychologydegree.net/
– FLASH NEWS –
Workplace Arrogance Scale (WARS): self report che misura l’arroganza del capo.
L’arroganza in un leader in ambito lavorativo può essere profondamente disfunzionale, fondandosi su un minor livello di efficienza e maggior insicurezze mascherate da comportamenti svalutanti e invalidanti nei confronti dei propri subordinati. Ora è possibile misurare l’ arroganza del proprio capo, grazie a uno strumento self-report, sviluppato dai ricercatori della University of Akron e della Michigan State University e che può aiutare le organizzazioni a identificare manager e dirigenti arroganti prima che abbiano un impatto troppo devastante sull’organizzazione. La Workplace Arrogance Scale (WARS), già pubblicata su The Industrial-Organizational Psychologist sarà presentata alla conferenza dell’American Psychological Association a Orlando il 2 agosto dal professor Stanley Silverman.
Secondo l’autore il costrutto dell’arroganza è caratterizzato da un modello di comportamento che umilia gli altri nel tentativo di dimostrare la propria competenza e superiorità.
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Tale modalità comportamentale è correlata con bassi punteggi di intelligenza e autostima.
Ecco alcuni esempi di domande della scala in questione:
• Il capo scredita le idee degli altri e spesso li mette in cattiva luce durante le riunioni?
• Il vostro capo è solito rifiutare un feedback costruttivo?
• Il vostro capo è solito esagerare con la sua superiorità e si comporta in modo da farvi sentire inferiore?
L’arroganza, consiste di fatto in una serie di atteggiamenti e comportamenti che possono essere modificati – ovviamente solo se il capo arrogante è disposto a impegnarsi in un lavoro su sé stesso nella direzione di tale cambiamento. Una leadership orientata a un autentico mentoring nei confronti dei propri collaboratori e all’’umiltà del leader stesso promuove un clima di lavoro realmente collaborativo, produttivo e positivo in termini relazionali.
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BIBLIOGRAFIA:
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Si dice che le vie dell’inferno siano lastricate di buone intenzioni ma sembra che anche quelle dello sviluppo sostenibile non siano da meno. È difficile, infatti, incontrare persone nemiche dell’ ambiente, che sognino un mondo inquinato, senza un filo di verde, saturo di gas di scarico.
In psicologia si tende a distinguere tra la “presa di decisione”, intesa come momento di scelta tra obiettivi ed azioni possibili, e la sua implementazione, ovvero la decisione di mettere in pratica il comportamento desiderato.
Nello specifico, le intenzioni si sviluppano in due fasi: una motivazionale e una volitiva. Durante la prima, gli individui decidono di mettere in atto un certo comportamento, valutandone costi e benefici, mentre, nella seconda, le persone elaborano piani specifici per definire i modi con cui l’intenzione verrà tradotta in atto. Entrambe le fasi possono essere oggetto di revisione ma la prima è il momento più delicato, in quanto gli atteggiamenti, le norme e il grado di controllo percepito sulle nostre azioni possono mettere in crisi le nostre intenzioni.
Inoltre, è bene ricordare che non è sufficiente avere le migliori intenzioni per ottenere i risultati sperati. Si pensi, per esempio, alla differenza tra coloro che consumano meno per ridurre gli sprechi e coloro che incrementano l’acquisto di prodotti con vere o presunte etichette green. Entrambi hanno un atteggiamento positivo nei confronti dell’ ambiente e sono animati dalle migliori intenzioni, tuttavia, l’impatto sull’ecosistema è diverso.
Soltanto il primo comportamento, infatti, è realmente sostenibile. Eco-chic e altri fenomeni di “greenwashing” (tattiche di marketing studiate per mettere in risalto uno o due aspetti eco-positivi di un prodotto, oscurandone gli altri) fanno appello a quell’immagine un po’ sdolcinata di natura, che noi tutti vorremmo proteggere e conservare ma, in realtà, sono solo strategie che fanno leva sui nostri valori materialisti e consumistici.
L’obiettivo non è salvare il pianeta ma stimolare l’acquisto di un particolare prodotto.
Pertanto, indagare la dimensione valoriale può essere utile se si desidera analizzare la varietà dei comportamenti con cui le persone rispondo agli stimoli a parità di atteggiamenti.
In particolare, studi recenti nell’ambito della sostenibilità, hanno isolato tre tipologie di valori che possono guidare i comportamenti ecologici: gli egoistici, i socio-altruistici e i biosferici. I primi, come suggerisce il nome, calcolano le conseguenze personali delle modifiche ambientali (potrà succedere qualcosa a me?), i secondi valutano gli effetti anche per gli altri (potrebbe accadere ai miei figli?), mentre, i terzi, considerano le ripercussioni dei cambiamenti ambientali su tutti gli esseri viventi (cosa accadrà al pianeta e all’umanità?).
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In conclusione, i valori sono le credenze che guidano le decisioni e le azioni degli individui; non sono delle proprietà degli oggetti ma categorie che appartengono ai soggetti e che vengono utilizzate per organizzare la vita quotidiana, per eliminare le ambiguità. Conoscerli a fondo e valutarli correttamente, permette di elaborare campagne comunicative molto più efficaci e mirate, anche in contesti altamente mutevoli, che possono stimolare direttamente le credenze che guidano le decisioni di ciascuno.
BIBLIOGRAFIA:
– FLASH NEWS –
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Qualche mese fa una ricerca pubblicata su International Journal of Geriatric Psychiatry e citata anche dal Los Angel Times dimostrava che la pratica di una forma di meditazione yogica (Kirtan Kriya Meditation) per 12 minuti al giorno per otto settimane può ridurre i livelli di stress nei caregivers dei pazienti con morbo di Alzheimer. Ora finalmente analisi successive – che hanno utilizzato gli stessi soggetti nell’ambito dello stesso trial- ci spiegano anche il perché, ovvero vanno a indagare il processo responsabile di tale effetto. Sembrerebbe che la pratica di questo tipo di yoga porti alla riduzione dei meccanismi biologici responsabili della risposta infiammatoria del sistema immunitario, che se costantemente attivata ad alti livelli può contribuire a una moltitudine di problemi di salute cronici.
Il lavoro pubblicato da pochi giorni su Psychoneuroendocrinology si è concentrato sui familiari caregivers di persone con demenza. Perché proprio questo target? Va considerato che prendersi cura di un familiare con demenza senile o morbo di Alzheimer può essere un fattore di stress rilevante: i familiari più anziani che si occupano di loro parenti affetti da tale diagnosi riferiscono elevati livelli di stress e depressione, essendo quindi anche più a rischio di patologie somatiche connesse allo stress, quali disturbi cardiovascolari, etc.
Nello studio, i partecipanti sono stati randomizzati in due gruppi. Il gruppo di meditazione è stato guidato nella pratica di almeno 12 minuti meditazione yogica Kirtan Kriya per otto settimane; l’altro gruppo è stato sottoposto a un training di rilassamento guidato da un cd, sempre per 12 minuti al giorno per otto settimane.
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Al pre e post-assessment sono stati prelevati i campioni di sangue per ciascun soggetto. L’obiettivo dello studio era di determinare se la meditazione yogica potesse alterare l’attività delle proteine infiammatorie che caratterizzano l’espressione genica delle cellule del sistema immunitario. I dati dello studio dimostrano di fatto che 68 geni presentano un profilo di espressione alterato nei termini di una ridotta attività di proteine (citochine) legate direttamente a un maggiore stato infiammatorio (e correlate anche a un maggiore livello di stress) nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo.
Lo studio, quindi, risulta rilevante perché apre uno spiraglio esplicativo dal punto di vista biologico sul processo che media gli effetti dello yoga sul sistema immunitario e sullo stress.
BIBLIOGRAFIA:
State of Mind interviews Dr. Wendy Behary
Founder and director of Cognitive Therapy Institute of New Jersey, The New Jersey Institute for Schema Therapy, Schema Therapy Institute di New York.
We met Dr. Behary in Rome, during her Workshop (June 16th) on Schema Therapy with narcissist patients.
1) When working with difficult patients as narcissist ones, we know how hard it is to set a good therapeutic relationship. What kind of methods do you use to keep in therapy your patients with narcissistic personality disorder?
There are two fundamental aspects in creating and maintaining the therapeutic relationship. The first is to keep the leverage high. So the therapist has to maintain the leverage in the relationship, meaning that the consequences have to be kept very clear or the narcissists will forget why they are there, get frustrated and want to leave therapy. The other is to be as honest and real as possible, get rid of the therapy jargon and just know to be a person who understands them, someone who cares about them and not their unique performance or extraordinary achievements.
2) What are the main obstacles for the changing in a narcissist patient?
A strong detached protector is a great obstacle. These patients deny that have any problems and they have a hard time experiencing those emotions. They can sometimes be too critical of the therapist and therefore the therapist’s schema get activated, making it difficult to maintain a connection with them; especially when the therapist becomes overwhelmed and distracted or the leverage is too low. The therapist may feel under attack and provoked by the patient and may end up reacting in ways that are counter-productive to the therapy.
3) May you tell us something about your new book: Disarming the Narcissist? (the Italian translation is going to be published in a few months)
I’m very excited about the book coming out in Italy. The book was written primarily because I had many patients who were living with narcissistic partners who loved them, who wanted it (the relationship) to work and really wanted to know how to reach their partners in more effective ways, how to begin to look at their own personal schema activation in the process of dealing with them. I was treating narcissists so I was looking at both sides of the equation. This is what inspired the book.
4) What kind of advice would you give to our colleagues dealing with narcissist patients? How can they be able to disarm the narcissist?
Most importantly, to make sure they get good supervision and that they spend some time in self-therapy to identify and heal their own schemas, and learn how to understand and manage their own sensitivity to some of the more difficult issues: aggression, detachment, denial, and resistance. Therapists need to have a solid grip on their own schemas in order to be sturdy, caring, empathic, and persistent with a narcissistic patient. You have to manage your expectations and know that treatment is a process in order to maintain consistency and achieve an adaptive outcome with the narcissist.
5) Do you have any data on the effectiveness of Schema Therapy of Narcissist?
To date, there is no significant data on narcissism. Most of it is anecdotal experiences shared by many therapists over time. Regarding Schema Therapy, there are some studies that are being conducted right now in the Netherlands that include narcissists, and we also have forensic studies being conducted by Dr. David Bernstein and colleagues. We are hopeful that we will be able to see some of our experiences in the affiliated results. Part of the problem with gathering data has to do with your other question which is that a lot of therapists just cannot tolerate being in the treatment room with a narcissist, or they don’t have enough leverage to keep them in treatment. So it is hard to gather the data if you don’t have reliable sample.
6) What do you think is the current development of Schema Therapy in Italy?
I think it’s growing and it’s exciting given that Alessandro Carmelita has exposed people to the model by learning it, becoming certificated himself , bringing it to the country and expanding its exposure throughout Italy. He is getting colleagues and other clinicians excited about this model, and this is wonderful! Bringing more people into our global ST community is fantastic. I am very pleased with Alessandro’s efforts and very impressed with his work in Schema Therapy.
7) In your opinion, what do you think therapists should do to learn how to work with the narcissists?
To learn specifically how to work with them…Well, I have to say that I am biased because I believe Schema Therapy is the most effective way. We have a very rich conceptualization. I think we have a strong understanding of the personality of narcissism and the elements of narcissism across the spectrum. So of course I believe that the best way is to get involved in the training programs to contact someone in our organization about how to get trained in the Model of Schema Therapy and then how to apply it specifically with populations, like narcissists — which are some of the most challenging to work with.
It really is the most important element of your training. it’s not just learning the skills and learning how to conceptualize through assessments but also paying close attention to your own schema triggers in the supervision. It’s very important to have a good supervisor who enables you to role play, to practice, to get the feeling of the intense struggle that comes with working with these patients.
9) Would you like to say something about the DSM5?
I wish I could say something about DSM5 except I think it is still unclear what the direction is going to be. I think part of the motivation behind changing the diagnostic code has to do with the complexity of narcissism that it is a spectrum disorder. I am not sure, but I think they’re trying to capture and illustrate the various elements of narcissism and the different ways in which it shows up. I think it could be an unfortunate consequence if in fact it gets eliminated as a disorder, because it has a very distinct and problematic appearance within our industry. It remains a controversial discussion at this point, with many people weighing in; not sure what will happen.
10) In your opinion, does Schema Therapy follow new discoveries in neurobiology about the functioning of the brain?
I think that Schema Therapy is interested in what is being discovered and shared in the interpersonal neurobiology community. This community supports our basic premise that the implicit activations are occurring through memory channels. They include connections with the amygdala and the limbic centers of the brain, the emotional centers of the brain, that are not just cognitive processes from the prefrontal areas. And this also explains the connection to our survival system which supports our notion of coping modes and the perceived threat to one’s emotional survival — how we flip into a coping mode. So the brain is another way of putting science behind our model, and helping Schema Therapy to become even more elaborated via a scientific (or practical) point of view.
11) May you say something about the changing of the brain functioning using image exercises?
I don’t think we know for sure yet. We’re still speculative about this but there is some data to support changes in firing patterns within the brain after a trauma has been dealt with or a trauma has been healed in the patient. So you see lesser intensity of emotion, you see lesser frequency of activation, and quicker recovery in the overall biologic system for the patient when they are triggered; that is what we say in our model that progress isn’t necessarily rated by schemas going away because they don’t, they’re part of memory. Progress is determined by lesser activation, by less frequency and quicker recovery and that is what some are beginning to see reflected in some of the brain data.
12) Thank you very much Dr. Behary.
Psichiatra, Capo Dipartimento ASL Viterbo 5, Psicoterapeuta, Didatta SITCC, Didatta Studi Cognitivi.
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Premessa
Sono piuttosto contrario ai manuali di auto aiuto e tendo a guardarli con la stessa diffidenza che è l’oggetto di questo lavoro. I motivi di ciò sono in gran parte irrazionali e sintetizzabili così:
• mi sanno di americano e fanno scattare automaticamente un rigurgito di antimperialismo fuori tempo massimo;
• essendo buoni per tutti non sono calzanti per nessuno e vanno contro la personalizzazione massima della terapia in cui credo fermamente;
• tolgono lavoro agli psicoterapeuti e questo, di per sé, già sarebbe sufficiente.
Dopo queste perentorie affermazioni corre l’obbligo, perciò, di giustificare la scelta di scrivere un manualetto per l’autoterapia di uno dei disturbi più gravi e meno accessibili alla cura farmacologica e psicologica : il delirio paranoico. I motivi sono da ricercare proprio nelle caratteristiche stesse della patologia, che provoca tale sospettosità e diffidenza verso gli esseri umani, compreso il possibile terapeuta, da rendere particolarmente difficile il consolidamento di una relazione terapeutica.
Inoltre i paranoici sono spesso intelligenti e interessati alla speculazione. Ho dunque pensato che se un paranoico, nel momento in cui passeggia sulla linea di confine tra la certezza delirante e il dubbio fugace che quanto gli ripetono amici e familiari sia vero e si tratti tutto di una sua fantasia, incontra in una libreria o su Internet qualcosa che parla del suo disturbo, possa giovarsene senza rivolgersi a nessuno, oppure possa iniziare a rinforzare il dubbio che la sua condizione sia patologica e alla fine rivolgersi ad un professionista.
Un motivo più contingente ma non meno importante è che, recentemente, ho visto un simpaticissimo delirante mio coetaneo e, dunque, mi sono messo ad inventare compiti perché potesse lavorare anche durante la pausa estiva.
Indice
1. cosa è un delirio
2. come si arriva a delirare
• Esercizio 1 i tuoi fondamentali e l’evento traumatico
• Esercizio 2 la grande paura
• Esercizio 3 il passo decisivo
3. come si mantiene il delirio
• Errore 1 Il restringimento del campo
• Esercizio 4 L’avvocato
• Errore 2 L’evitamento
• Esercizio 5 Fino a prova contraria
• Errore 3 L’attenzione selettiva
• Esercizio 6 L’esame inverso
• Errore 4 La memoria selettiva
• Esercizio 7 Ricordi scomodi
• Errore 5 Ci sarà pure un motivo
• Esercizio 8 La paura fa novanta
• Errore 6 La spiegazione incontrovertibile ad hoc
• Esercizio 9 Nessuno è davvero innocente
• Errore 7 La sicumera
• Esercizio 10 A mente fresca
• Errore 8 Il pensiero magico
• Esercizio 11 Coincidenze sospettose
• Errore 9 Se c’è fumo deve esserci il fuoco
• Esercizio 12 Quella volta che ero presente
• Errore 10 Se lo immagino è vero.
• Esercizio 13 Delirio sperimentale
4. come se ne può uscire
• Esercizio 14 trovarne il senso
• Esercizio 15 riconoscere i mostri
• Esercizio 16 Riempire un vuoto
• Esercizio 17 Ricomponendo un altro puzzle
Caro lettore,
non so come tu sia entrato in possesso di queste pagine e le ipotesi possibili sono due: una persona vicina a te si è preoccupata del tuo disagio ed ha cercato qualcosa che potesse aiutarti, oppure tu stesso hai il dubbio che l’esperienza che stai vivendo sia strana, al punto che sei incerto se tu stia diventando matto oppure lo sia il resto del mondo.
Quello che è bene precisare è che non ti conosco affatto e quanto scritto deriva solo da una trentennale esperienza con i pazienti gravi e da una mia esperienza personale nel ruolo di delirante.
Naturalmente puoi interrompere la lettura quando vuoi se ritieni sia inutile o addirittura disturbante.
Lo schema generale di questo scritto prevede quattro capitoletti (cosa è un delirio, come si arriva a delirare, come si mantiene il delirio, come se ne può uscire).
Nel testo ci sono una serie di esercizi (scritti in corsivo) che dovrebbero aiutarti a verificare su di te quanto vado argomentando e delineano un percorso di comprensione e guarigione dal delirio. E’ assolutamente possibile che tu non sia affatto delirante e ciò che “ti sembra” sia assolutamente reale. Io non ti conosco e dunque non posso saperlo. In tal caso hai solo perso un po’ di tempo. Non posso restituirti i soldi del biglietto perché non c’é, ma posso sinceramente augurarti di risolvere il tuo malessere che evidentemente è di altro genere.
1. Cos’è un delirio
Innanzitutto un delirio è una convinzione che si impone come qualcosa di assolutamente certo ed evidente. Anche se gli altri ti dicono che le cose non stanno come a te appaiono, per te non ci sono dubbi. Tu non conosci il dubbio e vivi nella terra della certezza assoluta: i dubbi li hai lasciati alla dogana quando hai varcato la frontiera del delirio. La terra da cui provenivi, al contrario, era fitta di dubbi angoscianti, di incertezze, confusioni, eventi inspiegabili, per cui fuggirne è stato un sollievo.
Dunque un delirio è una certezza come tutte le altre che abbiamo in testa, anzi è ancora più indiscutibile, autoevidente.
Pensa alla terra: tutti sappiamo che è sferica ma per ciascuno di noi la sua piattezza è assolutamente evidente. Le persone che hai intorno ti dicono, spesso accorati e spaventati, che ciò che pensi “non è vero”. Allora, se va bene, ti senti ancora più solo e trattato come se fossi matto, se va male incominci a sospettare che anche loro facciano parte del complotto e ti nascondano la verità che tu vedi senza veli.
Ho parlato di complotto perché la gran parte dei deliri hanno carattere persecutorio. Si sente (uso il termine “sente” perché si impone con la stessa pregnanza di un dato sensoriale cui non si può non dar fede) con assoluta certezza che alcune persone facciano di tutto per ostacolarti, danneggiarti o tradirti (ad esempio, il delirio di gelosia). Esistono anche altri deliri più simpatici come quelli di grandezza (“sono il migliore del mondo”), erotomanici (“tutti si innamorano di me e mi desiderano”) che, però, fanno soffrire meno e comunque non sono di ostacolo alla richiesta di terapia.
Si badi bene che il confine tra un normale pensiero e un delirio non è la verità della prima e la falsità del secondo: esistono molte false convinzioni che sono semplicemente false ma niente affatto deliranti, al contrario esistono deliri che sono veri, ad esempio i deliranti di gelosia si comportano in modo così opprimente da avere alta probabilità di essere effettivamente traditi, ma ciò non elimina il delirio, restano paranoici e cornuti.
Dirò di più: quasi sempre alla base di un delirio troviamo un elemento di realtà (un torto subito, un riconoscimento mancato, etc), del resto chi non ne annovera a decine nel corso dell’esistenza? Il guaio è che su quella pietra angolare saldamente piantata nella realtà si è costruita un’enorme cattedrale che si arricchisce ogni giorno di più, assorbendo l’intero tuo mondo.
Perciò, la caratteristica peculiare del delirio è la sua immodificabilità, il fatto che non cambia di fronte alle evidenze ed anzi si rafforza, trovando spiegazioni che ribaltano a proprio favore le argomentazioni contrarie.
Il delirante in fondo è semplicemente un super testardo che non sente ragioni.
La predisposizione alla testardaggine e al delirio è presente in tutti gli esseri umani, tutti cerchiamo attivamente le conferme alle nostre idee ed evitiamo di prendere in considerazione le disconferme. In più, passiamo gran parte del nostro tempo ad autoinngannarci raccontandoci storie sul perché le cose sono andate in un certo modo piuttosto che in un altro, con l’evidente obiettivo di salvaguardare la nostra autostima anche a costo di negare l’evidenza… PER CONTINUARE LA LETTURA, SCARICA L’EBOOK GRATUITO
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PROFILO DELL’AUTORE: ROBERTO LORENZINI
– LEGGI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU RIMUGINIO E RUMINAZIONE –
A volte capita di svegliarsi alle due del mattino e incominciare a rimuginare su impegni e problemi del giorno successivo, non riuscendo così più a riaddormentarsi. I pensieri passano nella mente e chiedono di trovare risposte e soluzioni immediatamente. Più tardi durante la giornata, stanchi per la notte insonne, rimuginiamo sulla prossima notte, la prossima settimana e tutte le possibili difficoltà che sembrano comparire all’orizzonte. A questo punto, in qualsiasi momento della giornata, indipendentemente dalle attività che svolgiamo, ci troviamo con la testa dentro al rimuginio.
Il rimuginio è una forma di pensiero ciclico, negativo e ricorrente. Il rimuginio è in azione quando rimaniamo chiusi nei nostri pensieri negativi e immaginiamo continuamente situazioni negative che potrebbero accadere in futuro, soprattutto in condizioni di incertezza. Il rimuginio è un sintomo centrale soprattutto nei disturbi d’ansia (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero, 2006) ma anche nella depressione e nei disturbi alimentari (Sassaroli & Ruggiero, 2012). La psicoterapia cognitiva studia come imparare a regolare e gestire il proprio pensiero. Ecco una delle tante piccole indicazioni che la psicoterapia cognitiva suggerisce per regolare il proprio rimuginio:
Prendi un appuntamento con il tuo rimuginio (Wells, 2009; Lehay, 2007).
Cosa si può fare?
Innanzitutto è possibile prendere un appuntamento con il proprio rimuginio. Per esempio, puoi stabilire che alle 16 del pomeriggio dedichi un’ora di tempo a passare in rassegna tutte le tue preoccupazioni. Questo è il tempo del rimuginio, segnalo sulla tua agenda e rinvia il rimuginio a quel momento della giornata o della settimana.
Scrivilo sull’agenda.
Scegli un momento in cui sei certo di essere libero di dedicarti al rimuginio.
Quando durante la giornata ti accorgi di essere caduto nel rimuginio, fermati e posticipa ogni previsione negative al tuo appuntamento con il rimuginio. Hai la possibilità di occupartene e tempo a sufficienza ma non in questo momento.
Quando arriva il tempo del rimuginio concediti di preoccuparti in libertà sui temi della giornata ma solo se lo consideri effettivamente ancora utile. Altrimenti hai sempre il tuo appuntamento domani alla stessa ora.
Infine ricordati di annotare sull’agenda o su un tuo diario se hai rimuginato, su cosa e a cosa ti è servito. Così almeno, se ti devi preoccupare puoi portare a casa qualche insegnamento.
A cosa serve questo esercizio?
Questo esercizio ha diversi scopi in psicoterapia cognitiva. Primo, aiuta a vedere che il rimuginio è qualcosa di assolutamente controllabile. Secondo, si può vivere molto meglio la maggior parte della giornata. Terzo, quando il rimuginio arriva si può lasciare andare e scoprire che non esiste una vera EMERGENZA, non c’è l’obbligo di una risposta immediata. La soluzione può aspettare. Infine, quando ci si dedica al rimuginio è possibile scoprire che le preoccupazioni sono molto meno paurose o probabili di quanto sembrassero nel momento in cui era scattato l’allarme.
Quindi, mani alle agende. Ma, se l’ansia e lo stress del rimuginio persistono, forse è il caso di una consulenza professionale. Questi sono solo piccoli accorgimenti utili per tutti. Da soli non fanno una cura né una psicoterapia cognitiva.
BIBLIOGRAFIA:
– FLASH NEWS –
Una questione scottante ma spesso lasciata implicita e taciuta ancora di questi tempi riguarda le disparità di reddito all’interno della coppia eterosessuale, insieme alla disparità di scolarità tra partners. Secondo un nuovo studio condotto da Patrick Coughlin e Jay Wade dalla Fordham University (Stati Uniti), l’uomo macho la cui partner ha un reddito maggiore percepirebbe una peggiore qualità della propria relazione sentimentale con la compagna, considerando la differenza di reddito di fatto una fonte di tensione relazionale.
LEGGI ARTICOLI SU: GENDER STUDIES
Lo studio è stato pubblicato online sulla rivista scientifica Sex Roles. I ricercatori hanno voluto analizzare la correlazione tra questa sempre più crescente tendenza (di equità o superiorità di reddito delle donne) e la qualità percepita da parte dell’uomo della relazione sentimentale. Un totale di 47 uomini, coinvolti in una relazione romantica con una partner che aveva un reddito più elevato del loro, hanno preso parte allo studio. Attraverso una survey online, i ricercatori hanno valutato le loro convinzioni sulla mascolinità, la qualità percepita del loro rapporto sentimentale, e l’importanza attribuita alla disparità di reddito tra loro e le loro partner femminili.
I risultati dimostrano, da un lato, che più l’uomo si identifica in una ideologia tradizionale di mascolinità- secondo cui l’uomo sarebbe il capofamiglia dotato di maggiore autorità– più è probabile che percepisca una minore qualità della relazione sentimentale con la compagna, attribuendo gran peso alla differenza di reddito. Viceversa, gli uomini che presentano minori punteggi di tradizionalismo machista, riportano una migliore qualità della relazione sentimentale, con una buona quota di indifferenza rispetto alle questioni di reddito all’interno della coppia.
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BIBLIOGRAFIA:
Quando capita in terapia di parlare della paura della morte molti mi dicono che trattasi in realtà della paura non tanto della condizione della morte, quanto piuttosto del processo che vi conduce, ovvero del morire. Tenendo distinti i due domini vorrei argomentare perché entrambi siano da considerare senza soverchie preoccupazioni. Queste riflessioni si basano su quanto mi hanno riferito persone che sono state in punto di morte e sulla mia personale esperienza. Né l’una né l’altra fonte sono invece disponibili sul tema della condizione di morte e quindi dovrò affidarmi alla speculazione.
Circa il morire dobbiamo distinguere due diversi domini di possibile dolore che per quanto parzialmente sovrapponibili sono logicamente differenti: il dolore fisico e il dolore psicologico o morale.
Il dolore fisico è innegabilmente presente in alcune fasi precedenti la fine, a seconda della malattia, da cui si è colpiti. Ci tengo a sottolineare che tale dolore non inerisce propriamente il momento del morire ma le fasi di malattia. E’ vero purtroppo che nonostante gli enormi passi avanti della terapia del dolore esistano ancora frange di sofferenza non debellate ad oggi. Rimanendo invece più strettamente sul morire possiamo collocarne l’attimo nel momento in cui il cervello nelle sue componenti più corticali smette di funzionare e perdiamo completamente e definitivamente la nostra autocoscienza, l’identità svanisce e il gioco è fatto. La cessazione del funzionamento avviene sempre per un mancato apporto di ossigeno ai neuroni, quale che ne sia la causa. Ora non vedo il motivo per cui tale stato di anossia dovrebbe essere connotato dal dolore. Per sostenere che non sia affatto così (e cioè che non via sia dolore nel morire) ho un argomento evoluzionistico ed uno empirico.
L’argomentazione evoluzionistica mi porta a dire che mentre il dolore rappresenta un vantaggio evolutivo, in quanto protegge il corpo dal danno di accidenti e malattie ed è per questo che è stato selezionato il complesso apparato nervoso grazie al quale sentiamo dolore, non darebbe alcun vantaggio provare dolore nel momento del trapasso: cui prodest?
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L’argomentazione empirica mi porta a concentrarmi sulle esperienze di premorte che i soggetti che possono raccontarle riferiscono addirittura piacevoli, e su un esperienza comune quale lo svenimento (che avviene appunto per una transitoria anossia celebrale) che non comporta nessun dolore anzi semmai una vissuto di dolce languidezza.
Ad ulteriore sostegno della tesi e senza sperare tanto, ricordo anche le esperienze orgasmiche prodotte dal soffocamento nei condannati all’impiccagione e nei praticanti di sesso estremo. Mi sembra dunque ragionevole immaginare che un neurone che smetta di funzionare non produca dolore ma semmai un vissuto consolatorio di rilassamento.
Ma occupiamoci adesso del cosiddetto dolore morale quello cioè connesso con la consapevolezza della propria imminente cessazione nella qualità di soggetti.
Innanzitutto escludiamo i molteplici casi in cui questa situazione non è data, che sono tutti i casi di morte improvvisa per incidente o per accidente, in cui manca concretamente il tempo per accorgersene.
Escludiamo anche i casi di demenza, in cui la mente muore prima del corpo e quindi non c’è più un soggetto che si vede morire.
Restano senza dubbio quei casi di malattie brevi ma non fulminee in cui si avrebbe il tempo di rendersene conto. Questa situazione può sembrare particolarmente dolorosa se non insopportabile ma faccio notare che, seppur in tempi più ravvicinati, è esattamente la condizione in cui ci troviamo fin dal momento della nascita. Infatti sappiamo da sempre di dover morire ed anzi che ciò costituisce l’unica certezza che abbiamo. Tale condizione, effetto collaterale della coscienza di sé, è la caratteristica che ci distingue come unici tra tutti gli altri viventi (almeno fino a che studi su alcuni animali non dimostreranno il contrario accomunandoli al nostro destino). Sono convinto che se scoprissimo ciò saremmo più disposti a riconoscere loro dei diritti morali, forse per solidarietà nella comune disgrazia.
Ad ogni modo, questo non ci impedisce di vivere, gioire , fare progetti sul futuro.
Ciò avviene grazie a meccanismi di distrazione ed autoinganno che fanno in modo che non pensiamo quasi mai alla nostra personale morte come un evento realizzabile.
Ora voglio sostenere che nell’imminenza dell’evento, tali meccanismi difensivi non vengano affatto intaccati dalla pressione dei dati di fatto oggettivi ma, al contrario, rafforzati dall’urgenza temporale e dalle evidenze negative, possono assumere carattere francamente delirante. La propria esistenza come soggetto è un a priori di qualsiasi affermazione che non viene mai messo in discussione: qualsiasi cosa sia affermata presuppone un soggetto che lo faccia. Siamo talmente impossibilitati a pensare un mondo in cui non ci siamo che le fantasie circa il dopo ci vedono in genere osservatori più o meno dispiaciuti della nostra nuova condizione di trapassati. Se penso che non ci sono in realtà ci sono. L’assenza della soggettività è imperscrutabile.
Non ci possiamo immaginare inesistenti e dunque ci immaginiamo morti da un lato e dall’altro lato vigili e consapevoli della nostra morte.
Lasciamoci alle spalle il morire e occupiamoci ora brevemente delle paure inerenti proprio la condizione di morte.
Uno degli argomenti tradizionali vuole che non dobbiamo temere la morte perché semplicemente non esiste e non la incontreremo mai: infatti finché ci siamo noi non c’è lei e viceversa quando c’è lei non ci saremo noi.
Poi ci sono una serie di consolazioni fideistiche che la negano sostenendo che trattasi solo di apparenza e l’essenza della soggettività continua ad esistere in un altro mondo i cui problemi di sovraffollamento dovrebbero essere drammatici.
La condizione di morte è immaginata negativa a confronto con quella opposta di vita definita convenzionalmente positiva, al punto che chi la pensa diversamente è considerato malato e anche curato contro la sua volontà.
Le obiezioni che pongo a questa visione sono diverse.
Al di là di situazioni di sofferenza che possono rendere la condizione di vita intollerabile può anche accadere che in vecchiaia dopo aver visto e rivisto ripetersi identiche a sé stesse le vicende umane si provi un’emozione come la noia, che secondo i greci predisponeva appunto alla morte e non si abbia più voglia di rivedere sempre lo stesso film, per quanto ritenuto discreto. Al contrario verso il nuovo stato sconosciuto potrebbe esserci una vitale curiosità. E’ la morte come uovo di Pasqua.
Ancora, chi vive la vita come un compito sotto l’egida del dovere, e l’esistenza gli appare come una serie di cose da fare e più che da vivere, spunta gli impegni portati a termine: grande soddisfazione deve esserci nello spuntare l’ultimo impegno e sentirsi finalmente liberi. E’ la morte come vacanza.
Un’ultima considerazione consiste nel ricordare come non fosse affatto dolorosa la condizione del “prima di nascere”, pur senza idealizzarla, che è quella che più possiamo immaginare avvicinarsi alla condizione di morte. E’ la morte come ritorno.
Su quest’ultimo punto Woody Allen mi sembra illuminante e straordinario:
“La vita dovrebbe essere vissuta al contrario.
Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così tricchete
tracchete il trauma è bello che superato.
Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai
migliorando giorno dopo giorno.
Poi ti dimettono perché stai bene e la prima cosa che fai è andare
in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio. Col passare
del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe
scompaiono.
Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d’oro.
Lavori quarant’anni finché non sei così giovane da sfruttare
adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa.
Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari
per iniziare a studiare. Poi inizi la scuola, giochi con gli amici,
senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finché non sei bebè.
Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in un posto che
ormai dovresti conoscere molto bene. Gli ultimi nove mesi te li
passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con
room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i
coglioni. E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo”.
– FLASH NEWS –
Un nuovo studio dimostra che la partecipazione a un programma di gestione dello stress può aiutare le persone con sclerosi multipla a prevenire una rapida progressione e attività della malattia, anche se sembrerebbe solo a breve termine.
Lo studio è stato pubblicato pochi giorni fa su Neurology, la rivista scientifica dell’American Academy of Neurology.
Lo ricerca ha incluso 121 persone con sclerosi multipla, la metà delle quali ha partecipato a un programma di gestione dello stress (16 sedute individuali con un terapeuta nell’arco di cinque o sei mesi) focalizzato su alcuni aspetti specifici tra cui riduzione dell’ansia, problem-solving, rilassamento, gestione della fatica e del dolore. Nella fase di post-assessment, il 77% dei pazienti inclusi nel gruppo sperimentale (e quindi sottoposti al trattamento di gestione dello stress) presentavano una situazione stabile in termini di nuove lesioni e danni cerebrali rispetto al gruppo di controllo (che presentava invece tale mantenimento solo nel 55% dei casi). Inoltre, dai questionari è emerso i pazienti del gruppo sperimentale presentavano maggiori riduzioni dei livelli di stress rispetto al gruppo di controllo.
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“L’effect size è simile ad altri recenti trials clinici di fase II che hanno testato nuove terapie farmacologiche per la sclerosi multipla“, ha sottolineato l’autore dello studio David Mohr della Northwestern University Feinberg School of Medicine di Chicago.
Tuttavia, purtroppo e inaspettatamente, gli effetti positivi del trattamento non sono mantenuti alla rilevazione di follow-up a sei mesi. Secondo gli autori questo potrebbe essere legato al fatto che i pazienti necessitassero della continuazione del programma di trattamento. Ad ogni modo, anche le spiegazioni legate ai processi e ai meccanismi secondo cui il trattamento psicologico dello stress riduca la progressione di malattia rimangono ancora poco chiari e oggetto di futuri studi.
BIBLIOGRAFIA:
– LEGGI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU RIMUGINIO E RUMINAZIONE –
Il rimuginio è una forma di pensiero ciclico, negativo e ricorrente. Il rimuginio è in azione quando rimaniamo chiusi nei nostri pensieri negativi e immaginiamo continuamente situazioni negative che potrebbero accadere in futuro, soprattutto in condizioni di incertezza. Il rimuginio è un sintomo centrale soprattutto nei disturbi d’ansia (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero, 2006) ma anche nella depressione e nei disturbi alimentari (Sassaroli & Ruggiero, 2012). La psicoterapia cognitiva studia come imparare a regolare e gestire il proprio pensiero.
A volte possiamo avere l’impressione di non essere capaci di controllare il rimuginio. Ci investe e parte prima che ce ne rendiamo conto e a quel punto proviamo a non pensarci, a distrarci, ma al massimo ci abbandona per un po’ e poi ci svegliamo nuovamente che già stiamo ancora ragionando su temi negativi. Ma il rimuginio non avviene involontariamente, certo è un’abitudine, una pessima abitudine, ma è sotto il nostro controllo.
Proviamo a pensare a tutte le volte in cui il rimuginio si è interrotto da una telefonata, da qualche evento che ci ha distratto, o un urgenza improvvisa. Anche una forma di profonda ansia dovuta alle nostre preoccupazioni può essere interrotta se qualcos’altro succede intorno, se magari un nostro amico cade, si fa male e ha bisogno di soccorso.
In quel momento controlliamo il rimuginio, anche se non ce ne accorgiamo. Si tratta di accorgersi e abituarsi a mettere in atto un altro comportamento mentale, allenarlo finché non sarà una nuova abitudine.
Prova a rimuginare su un tuo problema. Adesso.
Non sto scherzando, scegli un tuo problema e prova a pensare a tutto ciò che di negativo potrebbe capitarti. Guarda l’orologio e fallo per almeno 2 minuti, lascialo partire e seguilo.
Adesso lascialo correre ma guardati intorno, cerca gli oggetti rettangolari che riesci a vedere.
Il rimuginio può continuare a scorrere come una radio nella tua testa, lascialo andare, ma cerca i rettangoli nella stanza o nell’ambiente, osservali, prova a trovare quelli che non ti capitano sotto gli occhi a prima vista.
Stai lì e osserva il mondo.
Mentre osservi il mondo, metti il rimuginio da parte. Il mondo non crolla.
Il rimuginio è un po’ come un aquilone, che può volare via ma al quale tu ti tieni ancora aggrappato. Puoi mollare la presa e guardare altrove.
Così tutte le volte che ti trovi legato al rimuginio, prova a guardare il mondo e concentrati su ciò che vedi, senti, tocchi. Molla la presa e guarda altrove.
Questo è il SAR (Situational Attention Refocusing), un accorgimento molto utile per allenarsi a non tenere il rimuginio in primo piano (Wells, 2009). Ma, se l’ansia e lo stress del rimuginio persistono, forse è il caso di una consulenza professionale. Questi sono solo piccoli accorgimenti utili per tutti. Da soli non fanno una cura né una psicoterapia cognitiva.
BIBLIOGRAFIA:
Tredicesimo e ultimo film di Robert Bresson, L’Argent (1983) non fu ben accolto né dalla critica né nelle sale, ma merita di essere visto non solo per la statura dell’autore, ma anche perché si presta in modo singolare a riflettere sul suo stile e in generale sul significato della rappresentazione artistica.
Il film racconta la storia di Yvon, un operaio che subisce un’ingiustizia; da vittima diventa prima un ladro e poi un crudele assassino. All’inizio di tutto è l’odiosa insensibilità di due genitori nei confronti del figlio adolescente cui rifiutano di dare del denaro in più per ripagare un piccolo debito contratto con un compagno di scuola (in una scena velocissima, ma in cui Bresson riesce a descrivere complesse dinamiche relazionali). Il ragazzo allora chiede aiuto a un amico. Questi lo induce a spacciare assieme a lui una banconota falsa da 500 franchi. Il negoziante che la riceve la rifila a Yvon con l’aggiunta di altre due. Quando Yvon prova innocentemente a pagare un conto al ristorante con le banconote, viene denunciato e poi condannato. Invece di scagionarlo, infatti, l’impiegato del negozio testimonia il falso e conferma l’accusa. Passando di mano in mano, in chi lo riceve a turno il biglietto è dunque ogni volta l’occasione di un’amara scoperta. Si generano così le tensioni che imprimono alla storia i suoi primi scatti narrativi.
Il denaro mette a nudo le pulsioni più inconfessabili. Mogli e mariti che si dilaniano in tribunale per spartirsi i beni, fratelli che si odiano per l’eredità, amicizie che naufragano su litigi da pochi spiccioli: questo lo vediamo tutti i giorni. Attribuiamo al denaro un potere diabolico. Tuttavia, enfatizzarne il ruolo nel film sarebbe fuorviante. Come nei romanzi di Balzac il denaro qui è solo il reagente che l’autore usa per indagare la natura più intima dei rapporti umani. Visti nelle loro sfumature più tenui, essi svelano una trama meccanica, arida, automatica. Nel suo laboratorio di visioni Bresson scopre che ognuno è irrimediabilmente solo e al tempo stesso intrappolato in una rete simbolica (sociale). La chiave del film, ammesso che ce ne sia una, non è tanto nel racconto di Tolstoj, Denaro falso, cui si ispira direttamente, quanto piuttosto in un altro racconto dello scrittore russo La morte di Ivan Il’ič.
La solitudine, l’odio e la violenza, sembra dirci Bresson, sono alimentati da una generale mancanza di empatia, comprensione e accettazione dell’altro. È ineluttabile che le relazioni umane siano così? Sono tutte così? Sì e no. Forse è solo questione di soglie critiche. L’unica cosa che può fare da freno all’odio è ovviamente l’amore. Sull’amore primario dei genitori per i figli e viceversa si basa secondo Freud (1895) il fondamento dell’etica. Siccome per diventare adulto il bambino dipende così a lungo dai genitori e all’inizio si trova in uno stato di assoluta impotenza (Hilflosigkeit), ecco che questo vincolo, quando le cose vanno bene, si trasforma nella legge interiore che gli permetterà di essere a sua volta capace di amore, compassione e giustizia. Bisogna capire però il significato psicologico dell’odio e il perché della sua necessità.
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L’oggetto nasce nell’odio, scrive Freud. L’odio è il primo e anche l’ultimo dei sentimenti: “Avevo poco calore in me. Poca carne mi era rimasta attaccata alle ossa. Questa carne bastava solo per provare rabbia, l’ultimo dei sentimenti umani. Non era l’indifferenza, ma la rabbia l’ultimo sentimento umano, quello più vicino alle ossa”: è la voce dell’io narrante de I racconti della Kolyma, di Varlam Salamov (1991, p. 285), lo scrittore che Solgenitzin ha eletto a suo maestro, e splendido autore della memorialistica sui lager di Stato in Russia. Che la rabbia sia l’ultimo e il più tenace dei sentimenti umani, quello che rimane quando tutti gli altri si sono spenti, si potrebbe dire anche per Yvon. Alla fine la sua non è che cieca rabbia. Ma se è l’ultimo sentimento a restare, vuol dire che la rabbia è l’estremo baluardo psicologico per tenersi in vita. Come la sete segnala il bisogno d’acqua, così la rabbia segnala il bisogno di riconoscimento e insieme cerca di ottenerlo. Purtroppo, a volte ciò avviene in modo sbagliato o addirittura tragico.
Così ho inteso una brillante intuizione di Peter Fonagy (2001), secondo cui certi gesti estremi di violenza hanno il fine di far superare un senso di vergogna intollerabile ridando per un attimo alla persona la capacità di agire e di farsi vedere da tutti. Così accade alla fine del film. In quest’ottica, tre momenti sono particolarmente significativi. In tutti i casi Yvon è sotto gli occhi di tutti e si vergogna: quando viene giudicato in tribunale; alla mensa del carcere, quando, dopo essere stato abbandonato dalla moglie, si chiede “Perché tutti mi guardano?”; e poi al bar dove si consegna alla polizia (significativamente, in questa scena Yvon si vede anche riflesso in uno specchio; vd. Civitarese 2012). L’ultima situazione però è la sola in cui non subisce passivamente l’azione ma ne è l’agente. Alla fine si capisce che il movente dei suoi delitti, e di quelli degli altri, non è il denaro. Neppure sarebbe primario il desiderio “privato” di vendicare l’ingiustizia subita, ma il bisogno di riequilibrare la bilancia del proprio narcisismo; di riguadagnare la stima degli altri, fosse pure commettendo un crimine. Sappiamo per esempio che a volte chi ha sofferto un’offesa non vorrebbe affatto vendicarsi, ma lo fa perché glielo impone il sistema socio-culturale in cui vive.
Veniamo ora allo stile. Risalta nel film il ricorrere di alcune figure retoriche: metonimia, iperbole ed ellissi. Passiamole in rassegna rapidamente nell’ordine.
Le inquadrature non riguardano mai primi piani, ma spezzano lo spazio e frammentano il corpo, restituendoci visioni di oggetti e gambe, o mani. Esse segnalano così che tra le persone c’è una prossimità che è “metonimica” in quanto materiale/fisica, ma che esprime invece una distanza affettiva/psicologica. Poi, il biglietto che passa di mano in mano, per contatto, e che in tal modo metaforizza il contagio psichico (che intenderei sia come partecipazione di ciascuno alla mente del gruppo sia, in senso negativo, come trasmissione di una malattia, in questo caso della falsità morale). Ancora, il sangue sulle mani di Yvon è l’unico indizio che ci racconta l’uccisione degli albergatori. Infine, quando il padre della vedova che lo accoglie in casa suona al pianoforte la Fantasia cromatica di Bach, il bicchiere che si infrange a terra prefigura l’esplosione finale di violenza e la definitiva crisi psichica del protagonista.
L’iperbole si presenta invece nella vertiginosa intensificazione drammatica che caratterizza la serie delle azioni criminali: lo spaccio della banconota falsa, poi di tre banconote false, la falsa testimonianza, la rapina, l’omicidio, il massacro (che è già di persé un’iperbole). Il denaro in questione, poi, già per definizione simbolo del negativo, essendo anche concretamente falso, lo è due volte, è iper-falso.
Lo stile sobrio, giansenista, di Bresson, che tanto apprezziamo in Quattro notti di un sognatore, o nel Processo di Giovanna D’Arco, qui si fa ancora più scarno, austero, freddo. Lo sguardo che egli porta sugli uomini e sulle cose è quanto mai concentrato, preciso, realistico, severo, nudo, secco, gelido. Bresson tende ad astrarre, a semplificare per formulare dei concetti generali. Per esempio, in trasparenza possiamo leggere che il suicidio è una forma di omicidio, che ubbidisce cioè allo stesso bisogno di farsi “vedere”; poi, che sotto il sottile strato di civiltà c’è la natura e le sue pulsioni primitive: l’epilogo si svolge infatti in campagna; infine un’altra generalizzazione sta forse nel fatto che in L’argent non ci sono tanto singoli personaggi o un vero protagonista ma l’umanità in se stessa. Infatti nella prima parte il film è apertamente corale, perché intreccia più storie, ma resta tale anche quando viene in primo piano la storia di Yvon. Per così dire “così fanno o sono tutti”.
È il cinema, come è stato definito, del dépouillement, dell’ascesi. Ma qui, in L’argent, lo stile svolge una funzione più centrale che negli altri film perché serve ad attirare l’attenzione sull’impoverimento emotivo e psicologico di tutti i personaggi.
È impossibile empatizzare con questi personaggi. Per quanto buona volontà ci si voglia mettere, non ci riusciamo. Io non ci riesco. Il film mette in scena emozioni, ma non le fa provare o, meglio, fa provare fastidiosamente la loro assenza. I personaggi sono “stilizzati”, dei manichini, non hanno vero spessore, mancano di una vera interiorità. Neppure la terribile storia di Yvon riesce a coinvolgere. È insensata, non perché non abbia un senso ma perché questo senso è tutto cerebrale e nello spettatore non è mediato da una vera identificazione.
Questo però è interessante. Mai come in questo film la poetica di Bresson è un poetica dell’ellisse, di ciò che viene tolto, che manca, che non si vede. Una poetica che qui si fa essa stessa iperbolica perché non è più solo un modo dell’espressione, tra i tanti possibili, improntato a rigore, essenzialità e intensità, cosa presente in tutti i suoi film. La mancanza di una colonna sonora rende lo sguardo più acuto. È chiaro, come ho già detto, che lo stile scarno, geometrico, purista implica una ricerca di astrazione e di verità (per definizione la verità è essenziale), ma il fatto è che qui alla fine resta solo la verità dello stile. Che idea farcene? Moravia, che come sappiamo, amava enormemente il cinema, ha scritto in proposito un commento affilato: “Bresson vede ‘il bene’ nel sostrato Attico della civiltà francese, cioè nella tradizionale mescolanza di rigore, moderazione e razionalismo, il segno distintivo del genio nazionale. In altre parole, ‘il bene’ sarebbe lo ‘stile’. Ciò porta alla curiosa conclusione che il male esiste nella vita, e il bene nel modo in cui è rappresentata. La vera ascia, macchiata di sangue, con cui l’assassino fa fuori le sue vittime è un oggetto funesto; ma l’immagine dell’ascia è in qualche modo benefica. In breve, lo stile esorcizza il male” (1998, p. 408, trad. dell’autore).
È vero: se pensiamo alla letteratura francese in generale e specialmente a quella del ‘700, alle Le relazioni pericolose di Chorldelos de Laclos, oppure a La principessa di Clèves di Madame de La Fayette, cioè a come questi autori scavano impietosamente nei sentimenti umani, non facciamo fatica a trovare un’aria di famiglia con i personaggi del film, che si muovono come delle pedine sulla scacchiera di un gioco dalle regole inesorabili.
Bresson procede per via di levare. Riduce a un terzo i personaggi di Tolstoj. Poi, soprattutto, elimina la parte del racconto dove si descrive la redenzione del protagonista e imbastisce una storia cupa, disperata (e disperante). Ma non smette di credere nello stile. Al solito, però, stile è sostanza dell’espressione. Questa “sostanza” si può formulare in questi termini: non si dà nessuna redenzione se non nell’arte. Ma che cos’è l’arte? Rispetto a Moravia, da analisti, possiamo fare un passo in più. Scrive Bion (1992, p. 152): Il “leader intellettuale [e intende: l’artista] è un individuo che è in grado di digerire i fatti, cioè i dati sensoriali e poi di presentare i fatti indigeriti in un modo che renda possibile a quelli che sono più deboli nell’assimilare di andare avanti da quel punto. Quindi l’artista aiuta il non-artista a digerire, per esempio, la Viuzza di Delfi [Vermeer] facendo del lavoro sulle proprie impressioni sensoriali e poi ‘pubblicando’ il risultato, cosicché altri, che non erano in grado di ‘sognare’ la Viuzza stessa, possono ora digerire il lavoro pubblicato di qualcuno che era in grado di digerirla”.
Non è lo stile in sé come estetismo che redime, ma lo stile in quanto espressione della partecipazione autentica dell’autore a una certa esperienza emotiva universale e della sua capacità, attraverso la sua opera, di diventare – come si dice nell’Iliade – il “seno che fa scordare le angosce”, cioè che trasforma il male (la traumaticità del reale) in significato e in questo modo lo trascende. Si capisce che il diavolo (il denaro), come racconta l’etimologia (διαβάλλω: «gettare attraverso»), è il contrario della capacità di costruire simboli. Iperbole ed ellissi sono così i corrispettivi di un’oscillazione tra pieno e vuoto o, meglio, tra un troppo pieno e un troppo vuoto della presenza emotiva dell’Altro. La metonimia esprime una prossimità fisica ma non necessariamente psicologica. Che cosa se non la descrizione di come una relazione affettiva può fallire e condurre invece alla violenza? Un seno c’è ma è svuotato. Un genitore c’è ma è emotivamente assente; chiude la porta, come succede nella prima scena e poi a ripetizione nel seguito del film. Oppure c’è ma è troppo preso dal bisogno di coltivare un’immagine idealizzata di sé nel proprio ruolo di genitore, e allora è come se non ci fosse.
In conclusione, L’argent è un film che fa riflettere sulle distorsioni nei legami d’amore che portano alla dissociazione tra corpo e mente, tra emozione e ragione. Ci fa vedere come si producono e ci dà un’idea di come si possono curare. La soluzione che indica nella sua stessa natura di opera d’arte – e non è detto che ci riesca! questo attiene al giudizio degli spettatori – è nel ricomporre questa dissociazione nello stile della narrazione, nell’esperienza estetica cui tende sempre il sognare se lo intendiamo come una specie di funzione poetica della mente.
BIBLIOGRAFIA:
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Windy Dryden finds a “fun and memorable” way to talk about ABC…
Non sempre i fatti contano più delle parole, almeno quando si tratta di perdono. Le persone sarebbero più propense ad attuare concretamente un comportamento indulgente se destinatarie di un’azione riparatoria concreta, ma sarebbero anche più inclini a perdonare sinceramente se ricevono anche delle scuse verbali, secondo la ricerca della Baylor University pubblicata sul Journal of Positive Psychology.
La ricerca ha coinvolto 155 studenti universitari di psicologia. Ai partecipanti veniva detto che sarebbero stati consegnati loro, per tre volte, dei biglietti della lotteria per un valore totale di 50 dollari: ogni volta avrebbero ricevuto dieci biglietti da dividere con un compagno che non conoscevano (in realtà un collaboratore dei ricercatori). I partecipanti venivano informati del fatto che la suddivisione dei biglietti sarebbe stata gestita dal loro compagno. Di fatto la prima volta i soggetti ricevevano solo due biglietti. In un caso alcuni partecipanti in occasione della seconda distribuzione ricevevano un biglietto di scuse da parte del loro compagno che più o meno recitava: “Mi dispiace per quanto successo l’altra volta. Mi son portato via quasi tutti i biglietti e ora mi sento veramente male per quello che ho fatto” oltre che il numero di biglietti mancanti; in un altro caso invece i soggetti ricevevano un numero maggiore di biglietti, destinatari di una azione riparatoria rispetto al precedente danno subito ma senza alcun accenno di scusa verbale. Arrivati al terzo turno di distribuzione dei biglietti, le parti si invertono: è ora il soggetto esaminato che si deve occupare di distribuire e dividere i biglietti tra sé stesso e il compagno.
I ricercatori hanno analizzato l’associazione tra scuse verbali, comportamenti riparatori di restituzione dei biglietti, e il perdono, misurato sia attraverso indici comportamentali (quanti biglietti della lotteria il soggetto ha dato al compagno al terzo turno di distribuzione) e indici self-report in cui i partecipanti autovalutano la propria motivazione autentica al perdono.
I risultati mostrano che i soggetti che avevano ricevuto nel secondo turno delle scuse verbali dimostravano maggiori motivazioni a un perdono autentico del trasgressore, mentre i soggetti che avevano ricevuto da parte del compagno soltanto una riparazione materiale presentavano un comportamento equo distribuendo in egual misura i biglietti, ma con una bassa motivazione al reale perdono del compagno colpevole. Dunque, rimediare mediante delle azioni può sicuramente facilitare il perdono, ma ciò a volte può non bastare per compensare totalmente il danno che è stato arrecato.
Le scuse verbali sembrano essere altrettanto indispensabili, proprio perché il comportamento riparatorio in sé (ad esempio, la restituzione concreta di ciò che è stato sottratto) senza riconoscimenti verbali può parimenti portare la parte offesa a settarsi su un livello puramente comportamentale, a un “falso perdono” in cui il trasgressore viene in qualche modo solo “comportamentalmente” ma non autenticamente perdonato.
CRONACHE DA NEW YORK: PARTE 5 – OSPITI DI OTTO KERNBERG & SUPERVISIONE
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Trovandoci a New York per il training della REBT (rational emotional behaviour therapy) di Ellis, noi di State of Mind ne approfittiamo anche per partecipare a una supervisione condotta da Otto Kernberg nel suo studio su Madison Avenue con il suo gruppo clinico.
Ci arrampichiamo in ascensore oltre il 40esimo piano di un grattacielo ed entriamo nella sala d’aspetto dello studio. A occhio valuto la presenza di non più di sette o otto stanze. Non uno studio gigantesco. Compare un vecchietto in giacca e cravatta (la prima cravatta che vedo a New York da giorni). È Otto Kernberg in persona, che ci chiede di aiutarlo a sistemare le sedie. La supervisione si fa nel suo studio. Dopo un po’ compaiono un affabile Michael Stone e John Clarkin con il suo sorriso scintillante, anche loro in giacca e cravatta. Arriva poi l’altissimo Frank Yeomans, ed è il primo senza cravatta. Infine si presentano alcuni colleghi più giovani, tutti senza cravatta e sempre più sbracati man mano che l’età diminuiva.
Inizia la supervisione e subito si parla di transfert. Devo dire che questa assoluta e immediata focalizzazione sul transfert mi colpisce molto. Una cosa è leggere dei libri sul transfert, altro è assistere a una vera supervisione in cui da subito si parla quasi solo di transfert. L’obiezione che mi viene in mente è se non sia troppo riduttivo concentrare la discussione del caso solo su questo, ma scaccio l’idea. Sono qui per imparare qualcosa e non per perdermi dietro le mie perplessità.
Il transfert, in linguaggio cognitivo, si potrebbe chiamare un’analisi dettagliata di quelle che mi sembrano essere le credenze cognitive sulla relazione tra paziente e terapeuta, ed è vero che si tratta di un modo interessante di concettualizzare il caso. I pazienti che tratta Kernberg sono affetti da disturbo borderline o narcisistico di personalità, e il loro problema principale è l’incapacità di gestire la relazione con gli altri. Naturale quindi che la relazione terapeutica diventi una sorta di laboratorio in vivo di analisi dello stile relazionale del paziente e perfino uno strumento di cura e di apprendimento di modelli relazionali nuovi.
Uno dei giovani allievi di Kernberg parla esplicitamente del transfert come di un esperimento comportamentale in vivo dei problemi relazionali del paziente, e Yeomans da il suo assenso, anche se ci tiene a chiarire che lui userebbe una terminologia diversa. Ma non si tratta solo di terminologia.
Ridurre il transfert a un’esposizione in vivo di un’esperienza relazionale problematica significa anche trasformarlo in uno strumento “laico” e pragmatico di terapia e privarlo dell’aura sacra di accesso privilegiato e unico all’inconscio. E infatti i modelli relazionali esaminati nel transfert durante questa supervisione mi paiono molto interessanti, ma non propriamente inconsci e tantomeno pulsionali. Semmai emotivi e cognitivi.
A un certo punto Yeomans parla anche di invidia, un po’ alla Klein. Ma noto che se ne parla come di un’ipotesi da vagliare in base ai dati empirici riferiti dal paziente e non di una struttura profonda inconscia la cui esistenza è rivelata da un sapere analitico iniziatico. E l’ipotesi, noto, è respinta. Lo stato borderline del paziente non è spiegabile in termini d’invidia.
Espongo a mia volta il caso di una paziente depressa, e assisto allo stesso tipo di concettualizzazione. La conclusione in qualche modo mi fa capire come funziona la terapia di Kernberg. Otto in persona mi invita, dopo che abbiamo costruito insieme un’ipotesi sul funzionamento relazionale della paziente in base al modo in cui essa si comporta con me in seduta, a raccontare tutto questo alla paziente incoraggiandola a riflettere se questo modello si riproduca anche nella vita quotidiana al di fuori della seduta. L’intervento finale mi pare un’ottima esemplificazione del transfert come modello operativo riprodotto artificialmente in seduta per comprendere e trattare i problemi relazionali dei pazienti con disturbo di personalità borderline.
Si conclude così la supervisione e ci salutiamo, disperdendoci nella folla di New York.
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Attualmente un numero sempre maggiore di studi ha analizzato l’impatto che un divorzio ha sui figli della coppia, durante e dopo la separazione. L’esposizione e il coinvolgimento dei figli nei conflitti parentali è stato identificato come il principale predittore dell’esito psicologico del bambino dopo il divorzio dei genitori. I figli di genitori che sono perennemente in conflitto tra di loro tendono a sviluppare un doloroso conflitto di fedeltà, che tende a creare in loro sensi di colpa, tristezza e una minore autostima.
L’ alienazione parentale è il risultato estremo del coinvolgimento dei figli nel conflitto parentale; generalmente con questo termine si fa riferimento ad una dinamica che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli: un genitore (detto “alienatore”) attiva una vera e propria campagna di denigrazione immotivata contro l’altro genitore (genitore detto “alienato”), al punto tale che il figlio si allea con il genitore alienatore evitando di frequentare e allontanandosi dall’altro genitore (nei casi più gravi il figlio si oppone drasticamente alla frequentazione dell’altro genitore). Tutto ciò in assenza di validi motivi, come maltrattamenti, trascuratezza o abusi del genitore alienato nei confronti del figlio.
Gardner, psichiatra statunitense e teorico della Sindrome di Alienazione Parentale ha identificato otto criteri fondamentali per poter fare diagnosi di effettiva alienazione parentale. Questi bambini tendono a sentirsi responsabili della felicità dei genitori e tutto ciò interferisce con lo sviluppo del bambino stesso e la capacità di instaurare buone relazioni sociali con i propri coetanei. Per questi motivi è importante identificare queste dinamiche il prima possibile e mettere in atto le dovute strategie per cercare di porvi rimedio.
Uno studio italiano di Lavadera et al. (2012) dell’Università La Sapienza di Roma, ha cercato di evidenziare quali sono le caratteristiche dei genitori e dei bambini in cui si sviluppano fenomeni di alienazione parentale. Lo studio si caratterizza di un gruppo sperimentale di 20 bambini di età media di 11 anni, figli di genitori separati, nei quali è stato osservato un marcato fenomeno di alienazione parentale (diagnosticato in base agli otto criteri di Gardner) e da un gruppo di controllo di 23 bambini della medesima età, anch’essi figli di coppie separate nei quali però non si è osservata alienazione.
Le caratteristiche dei bambini che sono state indagate sono le seguenti:
Il numero di genitori “alienatori” era equamente diviso tra padri e madri; la maggior parte di questi genitori aveva la custodia del figlio al momento della valutazione psicologica forense e ha vissuto con il bambino sin dai primi tempi del divorzio. Quello che emerge sono differenze psicologiche tra il gruppo di genitori con figli aventi sindrome di alienazione parentale (che comprende sia il genitore alienato sia quello alienatore) e il gruppo di controllo (genitori separati i cui figli non avevano alcuna alienazione parentale). In particolare, le madri appartenenti al gruppo con alienazione parentale tenderebbero ad essere più insicure di quelle del gruppo di controllo (indipendentemente dal fatto che esse siano genitore alienato o alienatore). La maggior parte dei padri del gruppo con alienazione parentale presentano marcati tratti di rigidità comportamentale, atteggiamenti eccessivamente restrittivi nei confronti dei figli ed hanno difficoltà nell’esprimere gli affetti. Queste caratteristiche sembrano presenti sia nei padri alienatori sia in quelli alienati, anche se la difficoltà nel manifestare gli stati d’animo e di entrare in empatia con i figli sembra più frequente nei padri alienati.
Per quanto riguarda invece i figli appartenenti al gruppo con alienazione parentale sono state identificate alcune caratteristiche psicologiche, che li differenziano dai bambini del gruppo di controllo (ovvero bambini figli di genitori separati che non presentano alienazione parentale). I ragazzini coinvolti in fenomeni di alienazione parentale tendono a sviluppare un falso sé molto più frequentemente del gruppo di controllo; tendono inoltre a sminuire più frequentemente l’autorità genitoriale; manifestano più frequentemente atteggiamenti manipolatori e hanno una visione della realtà familiare maggiormente distorta rispetto al gruppo di controllo. Questi bambini non si sentono liberi di esprimere emozioni e affetti nei confronti dei propri familiari, generalmente nei confronti del genitore alienato, proprio per un patto di fedeltà che hanno sviluppato nei confronti dell’altro genitore; in questi casi, l’alienazione parentale e quindi l’allontanamento di quel genitore da parte del bambino, sarebbe la soluzione che esso si crea per evitare di affrontare questo intollerabile conflitto di fedeltà.
L’alienazione parentale sembra avere effetti anche a lungo termine sull’equilibrio psicologico dei figli; crescendo questi bambini tendono a sviluppare un forte senso di perdita nei confronti del genitore che hanno allontanato, tutto ciò associato ad una minore autostima, senso di colpa e difficoltà nello sviluppo dell’identità personale.
Per tutti questi motivi è molto importante che lo psicologo forense, quando viene convocato dal giudice per valutare le capacità genitoriali di partners in fase di separazione giudiziale, abbia presente quali sono le caratteristiche dell’alienazione parentale e agisca cercando di ridurre il conflitto. Indubbiamente l’affido condiviso, se applicato sin dall’inizio della separazione, e una maggiore attenzione al legame genitore-figlio riducono il rischio di sviluppo di alienazione parentale.
BIBLIOGRAFIA
– FLASH NEWS –
Se generalmente gli studi si focalizzano sull’interazione madre-neonato, in realtà sembrerebbe che i bambini i cui padri sono più positivamente coinvolti nelle interazioni con loro, a soli tre mesi di vita, mostrino meno problemi comportamentali all’età di dodici mesi, secondo una nuova ricerca finanziata dal Wellcome Trust.
In uno studio pubblicato pochi giorni fa sul Journal of Child Psychology and Psychiatry, i ricercatori dell’Università di Oxford hanno studiato 192 famiglie reclutate da due unità di maternità nel Regno Unito per verificare l’associazione tra le modalità interattive del padre nel primo periodo post-natale e il comportamento del bambino.
Le interazioni tra padre e neonato sono state valutate attraverso codifiche di osservazioni ecologiche in casa. I successivi out come comportamentali dei bambini a un anno invece sono stati indagati attraverso osservazioni riportate dalla madre circa 7 mesi dopo.
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Dalla ricerca è emerso che i bambini i cui padri erano più coinvolti nelle interazioni con loro mostrano minori problemi comportamentali a un anno di età; viceversa i bambini i cui padri erano più distanzianti e meno interattivi tendevano ad avere maggiori problemi comportamentali.
Questa associazione è risultata essere più significativa per i piccoli bimbi maschi che per le femmine, suggerendo che probabilmente i maschi sarebbero più sensibili alle modalità interattive del padre già a partire da pochi mesi di vita.
In relazione a tali risultati i ricercatori fanno riferimento a diverse possibili spiegazioni: può trattarsi di una generale mancanza di attenzione e cura del bambino, con un conseguente aumento dei disturbi del comportamento; un’altra possibilità è che il comportamento problematico del bambino rappresenti il tentativo di generare una reazione genitoriale in risposta ad una precedente mancanza di coinvolgimento del padre nell’interazione con il piccolo.
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