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Riconoscimento della Voce e del Volto: esiste una Connessione Strutturale Diretta

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Esiste una connessione strutturale diretta tra le aree deputate al riconoscimento della voce e quelle responsabili del riconoscimento del volto. 

Come avviene il processo di riconoscimento della voce e del volto nel cervello umano? In base base al modello classico le informazioni sensoriali relative alla voce e al volto di una persona sono elaborate ad un livello corticale superiore.

Tuttavia i ricercatori del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Leipzig hanno dimostrato che esiste una connessione strutturale diretta tra le aree deputate al riconoscimento della voce e quelle responsabili del riconoscimento del volto. 

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Lo studio è stato condotto su 19 soggetti volontari sani (10 donne e 9 uomini) di età compresa tra i 23 e i 34 anni, i quali sono stati sottoposti in un primo momento ad una fase di addestramento, che consisteva nella presentazione di file audio-visivi, attraverso i quali i soggetti imparavano ad associare delle voci ai rispettivi volti e, nella condizione di controllo, dei suoni di tasti ai rispettivi cellulari.

Neuroscienze e Psicoanalisi. Il contributo di Mauro Mancia. - Immagine: © robodread - Fotolia.com
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Nella sessione sperimentale ai soggetti si faceva ascoltare una frase pronunciata da uno speaker target, tra quelli mostrati nella fase di addestramento, e successivamente due frasi di 2 parole. Dovevano decidere se si trattasse della voce dello speaker target o meno (riconoscimento della voce), mentre nella condizione di controllo si chiedeva di decidere se si trattasse della frase target o meno, indipendentemente dalla voce dello speaker (riconoscimento della frase). In un secondo momento, ai partecipanti si faceva ascoltare una voce attraverso un file audio (o il suono dei tasti di un cellulare) e subito dopo si mostrava un volto (o un cellulare) attraverso un file solo visivo e veniva loro chiesto di indicare se il volto (o il cellulare) e la voce (o il suono dei tasti) appartenessero alla stessa persona (o cellulare).

Le registrazioni sono avvenute attraverso due scansioni di fRMI, hanno permesso di localizzare le aree deputate al riconoscimento della voce nelle regioni anteriori, mediane e posteriori del solco temporale superiore, mentre il giro fusiforme, area responsabile del riconoscimento del volto, si attiva in risposta sia agli stimoli visivi, che a quelli uditivi nei compiti di riconoscimento dello speaker.

Questo significa che nel cervello umano avviene un’integrazione dinamica di informazioni visive e uditive nei processi di riconoscimento delle persone, grazie alla presenza di una connessione strutturale diretta tra il solco temporale superiore e il giro fusiforme, senza la mediazione di strutture corticali sopramodali.

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In particolar modo, sono emerse delle connessioni più significative tra il giro fusiforme e le regioni anteriori e mediane del solco temporale superiore, rispetto alla regione posteriore, in quanto quest’ultima è responsabile soprattutto dell’identificazione dei parametri acustici delle voci.

Dallo studio risulta inoltre una connettività strutturale tra le regioni deputate al riconoscimento della voce all’interno dello stesso solco temporale. 

Dunque, le informazioni visive di un volto, acquisite attraverso una precedente esperienza sensoriale, possono contribuire anche al riconoscimento della voce  e questo consente di ottimizzare il processo di riconoscimento delle persone. 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia: Il Disputing del Panico – II Parte

 

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LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

Psicoterapia: Il disputing del panico parte 2. - Immagine: © Stuart Miles - Fotolia.com

È importante comprendere come per il paziente il panico è un problema in sé. Il paziente non teme il panico solo in rapporto alle sue conseguenze (il panico come segnale di pazzia o di infarto) ma anche come evento in sé terrificante.

La ristrutturazione dell’evento del panico va fatta quindi in due direzioni. Una volta stabilito che il paziente teme il panico occorre ragionare su quanti episodi reali di panico sono avvenuti nella vita del paziente, quanto fossero realmente gravi e quanto realisticamente è davvero probabile che avvengano nuovi attacchi. Anzi per la precisione quanto è probabile che un malessere addominale (un mal di pancia) o un’oppressione al petto possano poi davvero portare a un episodio di panico –non hanno da subito ben chiaro che temono il panico.

LEGGI LA MONOGRAFIA DI STATE OF MIND SUL DISPUTING

Il paziente spesso sopravvaluta sia la gravità che la frequenza degli attacchi passati.

In realtà, più che panico si tratta di agorafobia, timore continuo e ansia anticipatoria di poter avere nuovi attacchi. In molti casi solo i primi episodi erano stati davvero di panico, gli altri erano più timori di poter andare incontro a un episodio di panico.

Secondo il DSM, per agorafobia si intende l’ansia relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali può essere difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nei quali può non essere disponibile aiuto in caso di attacco di panico o sintomi tipo panico (per es., paura di avere un attacco improvviso di vertigini o di diarrea).

Non si tratta proprio esattamente di ansia anticipatoria di un attacco di panico, ma è molto simile. Questo stato ansioso agorafobico determina tipicamente l’evitamento pervasivo di una varietà di situazioni che possono includere stare fuori casa da soli o stare a casa da soli; essere in mezzo alla folla; viaggiare in automobile, autobus, metropolitana, treno o aereoplano; oppure essere su un ponte o in ascensore.

Salkovskis- l’equazione dell’ansia nel disputing - Immagine: © lassedesignen - Fotolia.com
Articolo consigliato: Salkovskis- l’equazione dell’ansia nel disputing.

È vero che alcuni individui sono in grado di esporsi alle situazioni temute, ma le sopportano con considerevole paura e fatica.

Tuttavia spesso l’individuo è più capace di confrontarsi con una situazione temuta quando si trova con un accompagnatore.

 

Le domande raccomandate quindi sono:

Mi racconti la storia del suo disturbo

Parliamo del primo, primissimo episodio. Mi può raccontare in che circostanze avvenne? Dov’era? Era solo o in compagnia?Cosa stava facendo? Cosa provò? Quali furono le prime sensazioni? E che cosa pensò/le venne da pensare? E quando pensò che si trattava di qualcosa di grave? Quanto tempo passò tra le prime sensazioni sgradevoli e lo scatenamento pieno del panico? E cosa pensò tra le prime sensazioni e l’attacco completo?

Raccogliere in maniera dettagliata tutte le manifestazioni del panico è importante per poter stabilire davvero il livello di gravità dell’attacco. Usare la lista del DSM che elenca i vari aspetti fisiologici del panico è importante per poter stabilire se siamo davanti a un attacco di panico pieno o solo parziale.

Inoltre, accertare i pensieri è importante. In che momento avvenne la catastrofizzazione? È possibile che il paziente non avesse pensato davvero nulla e si sia trovato davanti a un panico non preceduto da alcun pensiero negativo? Ovviamente dal punto di vista del terapeuta, la risposta è no.

 Nel caso in cui siano presenti pensieri catastrofizzanti che presumibilmente hanno favorito l’interpretazione terribilizzante delle sensazioni corporee (“se ho mal di pancia avrò il panico” oppure “se ho oppressione al petto significa che sta arrivando un infarto”) è possibile lavorare su questi elementi alla Beck, cioè incoraggiando il paziente a ragionare in maniera più critica ed empiricamente fondata sulle sue interpretazioni terribilizzanti della realtà.

Siamo sicuri che un malessere di varia provenienza, toracica o addominale che sia, porti a un episodio di panico?

 

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LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

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BIBLIOGRAFIA:

Seminario di Pat Ogden: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria

 di Roberto Framba 

 

 Workshop: “IL TRAUMA E IL CORPO: LA TERAPIA SENSOMOTORIA”, MILANO, 16 -17 settembre 2012

Seminario di Pat Ogden: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria
Locandina del Workshop.

Sto partecipando a un workshop di due giorni di introduzione alla Terapia Sensomotoria organizzato dall’ Istituto di Scienze Cognitive in una sala gremita di colleghi che mi sembrano provenienti da differenti formazioni ma che hanno in comune l’esplorazione di approcci capaci di operare velocemente ed efficacemente sulle disregolazioni emotive più severe dei pazienti.

La Sensorimotor Therapy si propone come uno degli approcci più promettenti e capaci di integrare gli approcci cognitivi up-down con tecniche e modelli bottom-up in particolar modo per la psicoterapia del trauma, procurato da eventi ambientali oppure connesso all’attaccamento.

I più famosi modelli di ricerca neuro psicologici (Schore) e gli approcci interpersonali (Stern), trovano una convergenza e un’applicazione psicoterapeutica molto attenta ai pattern corporei nel qui ed ora della seduta al fine di conseguire una veloce stabilizzazione delle risposte emotive iper/ipo-attivate dei pazienti che abbiano subito traumi non elaborati.

Riprendendo l’insegnamento di Janet, viene enfatizzato il corpo come sede della memoria degli eventi vissuti della persona ma anche come strumento di elaborazione e ristrutturazione di apprendimenti altamente problematici e attualmente disfunzionali.

La proposta forte parte da un annunciato cambiamento di paradigma che, come ricorda lo stesso Schore, “privilegia sistemi di sviluppo emotivi rispetto a quelli cognitivi privilegiando concentrandosi sul sé implicito piuttosto che sul sé esplicito”.

Il modello della Terapia Sensomotoria prevede tre fasi di intervento:

  1. Stabilizzazione emotiva e la riduzione del sintomo;
  2. Trattamento della memoria traumatica;
  3. Integrazione della personalità.
Psicoterapia Sensomotoria: il Ruolo del Corpo nelle Esperienze Traumatiche. - Immagine: © Guido Vrola - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia Sensomotoria: il Ruolo del Corpo nelle Esperienze Traumatiche.

La scelta d’intervento iniziale è chiara: quando il paziente esorbita i limiti della cosiddetta finestra di tolleranza emotiva sia per eccesso (iperattività fisica e verbale fino al congelamento) che per difetto (ipoattivazione fisica ed emotiva fino al vuoto e al distacco emotivo) il terapeuta interrompe il lavoro sulla narrazione dei contenuti concentrandosi sulla narrativa somatica.

Dato che la maggior parte del comportamento umano è guidato dalla memoria procedurale che si riflette in risposte automatiche e pattern d’azione appresi (movimenti, posture, gesti, ecc.), il terapeuta osserva attentamente tali aspetti e via via interviene attraverso l’attivazione di risorse spontanee di riconoscimento e modulazione emotiva del paziente.

A completamento, il terapeuta può anche proporre tecniche di stabilizzazione emotiva sempre accedendo attraverso il riconoscimento e il maneggiamento degli aspetti corporei con l’obiettivo di restituire consapevolezza cognitiva e maggiore padronanza emotiva.

Il terapeuta alterna due azioni. Da un lato, una sintonizzazione forte con gli stati corporei ed emotivi del paziente condividendo l’attenzione ad azioni, gesti e postura in una sorta di rispecchiamento reciproco che rende disponibile alla coscienza del paziente attraverso l’esperienza di un corpo che avverte qualcosa di non sempre accessibile ma comunque disturbante e problematico. Esso può avvenire compiendo una microanalisi del comportamento non verbale e paralinguistico ma anche attraverso l’urlare insieme un vaffa’… che talvolta ricorda gli spettacoli di un Beppe Grillo di annata. Dall’altro, un continuo sforzo di integrazione cognitiva, chiedendo al paziente come ti fa sentire e cosa dice di te il comportamento che attraverso l’azione viene riattivato e reso esplicito.

La Ogden, in risposta ad una mia specifica domanda, chiarisce che l’aspetto relazionale condiviso è di gran lunga ciò che rende più efficace la costruzione di nuovi percorsi anche a livello neurofisiologico oltre che di significato, utilizzando il corpo come strumento potente di “incontro” e cooperazione.

La risonanza del lavoro e della proposta del nostro Gianni Liotti mi risulta evidente e sento immediatamente che mi pervade un sottile moto di orgoglio. Un divertente equivoco marca la ragione di tale stato d’animo. La Ogden scambia un canuto presente per lo stesso Liotti dicendosi onorata della sua presenza, accorgendosi solo dopo molti minuti che si trattava di altra persona, scusandosi per la sua scarsa capacità fisiognomica attribuita anche al fatto che aveva conosciuto Gianni ormai parecchi anni or sono.

Sarà stato un rendere presente alla sua coscienza una sorta di dialogo implicito con l’esponente italiano più autorevole del settore?

Ma proseguiamo sui contenuti di questa prima giornata. In tutti i modi, sia attraverso il canale verbale che con l’uso di interessanti video ed esercitazioni in aula, la Ogden esprime la convinzione che il corpo in tutte le sue componenti è assolutamente potente nel favorire la collaborazione nella ricerca di un superamento delle esperienze traumatiche. Il lavoro di integrazione si avvia con il porre attenzione sull’esperienza di percezione interna del corpo da parte del paziente, per proseguire nel focalizzare l’attenzione ai movimenti del suo corpo, sia grande che fino motorio, attraversando le percezioni veicolate dai cinque sensi e giungendo, prima agli stati emotivi e, per ultimo, al pensiero e alle interpretazioni.

 Attraverso questo percorso condiviso, paziente e terapeuta conquistano una progressiva sintonizzazione che permette una più efficace elaborazione di aspetti problematici che sono portati dal paziente sia a livello esplicito, ma anche e, specialmente, attraverso l’implicito depositato nell’esperienza corporea.

La Ogden, come altri autori del panorama cognitivista internazionale, fa grande utilizzo delle tecniche di Mindfulness con un approccio “directed”, cioè focalizzato su un aspetto o un problema interno al paziente piuttosto che aperto all’esperienza ampia di consapevolezza di sé.

L’obiettivo finale è quello di rimettere il paziente in grado di ripristinare una serena relazionalità in un clima di sicurezza in sé, attraverso il cambiamento delle tendenze procedurali del corpo, che si erano fissate a neuropercezioni “difettose” a causa dei sistemi difensivi del trauma per ripristinare una neuroplasticità ridotta o perduta. Il cambiamento del corpo, anche dopo poche ore di trattamento, rappresenta un indicatore assolutamente saliente del mondo interno e un terreno di lavoro terapeutico volto al cambiamento.

Il trattamento pone una particolare attenzione per i pazienti con traumi cumulativi e spesso hanno avuto un’esperienza “pericolosa” nello stare in contatto con il proprio corpo. La Terapia Sensomotoria propone al paziente di accostarsi al proprio corpo in modo differente ma non attraverso il parlare e l’argomentare circa l’esperienza vissuta e i suoi risvolti emotivi e di pensiero.

Anche una semplice indicazione data al paziente di tenere una mano sul torace e una sull’addome con la immediata consegna di stare ad ascoltare, consente di sentire il proprio corpo e guidarlo senza fatica ad una spontanea rimodulazione dell’esperienza emotiva.

Dopo la fase di riduzione del sintomo e stabilizzazione emotiva, la Terapia Sensomotoria apre la fase del trattamento delle memorie traumatiche. Basandosi sulle ricerche e conoscenze neurofisiologiche che riconoscono una gerarchia di sistemi atti a gestire gli aspetti traumatici che vanno dall’attivazione del sistema nervoso simpatico fino ad una immobilizzazione da “morte apparente” governata dal complesso ventrale vagale, la terapeuta americana, riprendendo una felice e produttiva intuizione di Bromberg, propone di lavorare sul delicato confine tra la finestra di tolleranza emotiva e l’iperattivazione provocata dal materiale traumatico.

EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi. Meet the expert: Giovanni Liotti
Articolo consigliato: EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti

Muoversi terapeuticamente sui confini regolatori dell’esperienza emotiva traumatica, significa attivare l’esposizione a memorie drammatiche dopo aver concertato con il paziente un set di interventi regolatori della risposta emotiva, sviluppati nella fase di stabilizzazione per evitare al paziente ad entrare in dissociazione davanti a tale materiale.

La narrativa s’interrompe tutte le volte che si rischia di uscire dalla finestra di tolleranza emotiva con un attento e fine lavoro di rimodulazione emotiva che ha come centro la regolazione del corpo fino a quando il paziente raggiunge un senso di sufficiente sicurezza.

A quel punto si riprende la narrazione dell’esperienza traumatica appena il paziente ha recuperato una sufficiente stabilità emotiva. In tal modo, la coppia paziente/terapeuta si muove a zig zag tra la memoria e il qui ed ora dell’esperienza sensomotoria, entrando ed uscendo più e più volte dalla narrazione, mantenendo una grande focalizzazione sulla condivisione della ricadute in termini di esperienza del corpo e miglior padroneggiamento del disconfort emotivo. Via via il paziente esperisce una confidenza con il proprio vissuto problematico. A partire da un’attenzione chiara e forte alla propria esperienza sensomotoria e riconnettendosi in modo consapevole alle sensazioni prodotte dal proprio corpo il paziente può ritornare in contatto con il materiale che era stato dissociato per effetto del trauma.

Il terapeuta ha un ruolo importante anche nel far notare al paziente movimenti o reazioni del corpo che il paziente non riconosce consapevolmente perchè legate al proprio vissuto traumatico, scegliendo di utilizzare forme di compenso emotivo in grado di risolvere l’esperienza traumatica. Questo avviene attraverso un vero e proprio accompagnamento che permette di sperimentare in seduta un’esperienza capace di completare l’azione protettiva e rassicurante spontanea del paziente bloccata precedentemente dal trauma. In seguito, il paziente sarà gradualmente in grado di utilizzare fuori dal setting terapeutico l’esperienza condivisa in seduta.

Va notato che la Terapia Sensomotoria vuole andare oltre la semplice consapevolezza del proprio corpo ma anche senza una partecipazione pienamente consapevole, crea un significato, processa informazioni ed esegue azioni al fine di ripristinare un migliore adattamento all’ambiente e di migliorare l’efficacia e il benessere nelle relazioni.

Memorie Traumatiche e Ruminazione. - Immagine: © PZDesigns - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Memorie Traumatiche e Ruminazione.

La terza fase della Terapia Sensomotoria si rifà al contributo di Van der Hart e procede attraverso un percorso che porti il paziente ad un incremento progressivo della mentalizzazione delle parti dissociate e delle loro alternanze che vengono riconosciute come a loro modo funzionali a scopi anche differenti o opposti, poi messe in relazione a differenti stati in modo sempre più consapevoli, modulati e strategicamente orientati ad un migliore adattamento.

Il corpo è il primo territorio e al tempo stesso lo strumento concreto attraverso queste parti vengono riconosciute e integrate. Attraverso esso il paziente esprime anche il bisogno di completare attraverso il movimento o differenti posture le azioni protettive che il trauma ha precocemente bloccato e conduce il terapeuta a riconoscere parti inconsapevoli che possono emergere e trovare quell’accoglienza probabilmente negata o non riuscita da parte delle figure che potevano avere un ruolo protettivo e, in ultima analisi restituendo comprensione e senso.

Una particolare attenzione viene posta sulla possibilità che il paziente sia molto concentrato sul transfert, che all’interno della Terapia Sensomotoria è riletto in una cornice più generale, cioè come una relazione sociale perturbata dall’esperienza traumatica pregressa del paziente. In tal caso il terapeuta cerca contemporaneamente di spostare l’attenzione della relazione al vissuto del corpo del paziente cercando di dare un nome a ciò che sta avvenendo e attribuendo quell’esperienza ad una parte talvolta dissociata della personalità. Al tempo stesso, il terapeuta agisce modulando il proprio corpo in modo tale di risultare meno “minaccioso” per il paziente.

Per esempio chiudendo gli occhi quando il paziente si attiva emotivamente troppo quando è al cospetto di un altro essere oppure modificando la propria postura, in modo di allontanarsi quando il paziente mostra di sentirsi a rischio di essere intruso.

In ogni caso, per il terapeuta vale sempre la regola aurea di non forzare la tecnica in modo di aumentare la paura piuttosto che la sicurezza e di muoversi in un orizzonte temporale ampio. L’esperienza di sintonizzazione non soddisfacente tra il paziente e il terapeuta non va vista come un insuccesso, quanto come un’area di lavoro per riparare tale frattura e ritrovare un piano condiviso sempre più in modo collaborativo esplorando assieme quell’area non consapevole inizialmente ad entrambi che va oltre ogni tecnica e oltre ogni parola.

In conclusione il percorso della Terapia Sensomotoria è duplice: sul piano esplicito, il porre un’attenzione condivisa al corpo, alle sue percezioni ed espressioni, alla ricerca di modalità più integrate e utili di vivere l’esperienza problematica o traumatica, rende possibile la costruzione di un percorso di sintonizzazione implicita che permette il ripristino di una relazione di condivisione e sicurezza.

 Una riflessione conclusiva. Per chi, come me e probabilmente come altri tra i presenti, viene da una tradizione cognitivista standard, la terapia sensomotoria fornisce due importanti contribuiti. In primo luogo l’originalità di questa terapia sta nell’offrire un’attrezzatura capace di creare un ponte percorribile quando l’attivazione emotiva è incongrua e problematica, quando il linguaggio verbale più astratto rende più faticosa, lungo e spesso inefficace il lavoro terapeutico . Questo diminuisce notevolmente il rischio che il paziente possa essere esposto ad un’esperienza iatrogena di non comprensione e non comunicazione con il terapeuta di quel momento difficile.

In secondo luogo, essa rivaluta paradossalmente il lavoro del terapeuta cognitivo sia nel senso di una ricerca di percorsi integrati in cui superare la contraddizione tra razionale ed emotivo in una visione pienamente cognitiva. Il corpo è un luogo di incontro più immediato per un’esperienza relazionale davvero correttiva per il paziente che è stato perturbato o traumatizzato. Nella Terapia Sensomotoria la parte narrativa diventa chiaramente lo strumento e non il fine della terapia che rimane, invece, quello di operare continue e progressive integrazioni in un clima di sicurezza e di padronanza. Analogamente anche il terapeuta cognitivo standard utilizza la narrativa come luogo d’incontro con il paziente a partire dal pensiero e dalla esplorazione delle rappresentazione delle emozioni e anch’esso non esaurisce il suo intervento in una ristrutturazione del contenuto semantico del pensiero ma opera per una riattribuzione di senso alle situazioni di vita nel contesto di una relazione sicura e cooperativa.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Relazioni Interpersonali? Meglio dimenticarsi del Telefono Cellulare

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La prossima volta che sostenete una conversazione faccia a faccia con qualcuno, lasciate il telefono in borsa o in tasca!”. Questa è la raccomandazione di Andrew Przybylski e Netta Weinstein, autori di due studi particolarmente interessanti sul modo in cui i telefoni cellulari possono interferire con le relazioni interpersonali. 

Miliardi di persone ogni giorno comunicano a grande distanza utilizzando il telefono cellulare, e non solo a voce, ma anche scambiandosi SMS, email, “twittando” o anche semplicemente aggiornando il profilo di Facebook.

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Niente di male, direte voi. In effetti, l’utilizzo del cellulare sembra promuovere in noi un senso di interconnessione col nostro “mondo sociale”, spostando l’attenzione – o le preoccupazioni – su  persone, luoghi o eventi al di fuori dal contesto in cui concretamente ci troviamo (Srivastava, 2005).

Telephone - © Tomasz Wojnarowicz - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Telefoniamoci… e la nostra autostima cresce

Ma in che modo le relazioni interpersonali ne risentono? Prendiamo come esempio la seguente situazione. Stiamo parlando faccia a faccia con una persona, magari anche di un argomento “mediamente” intimo. Il nostro cellulare è di fianco a noi, in bella vista, e il nostro interlocutore lo nota. Domanda: può anche solo la presenza dell’oggetto influenzare il tipo di relazione che si creerà tra noi e l’altra persona? Sì, e negativamente. 

In un primo esperimento, i due autori hanno esaminato l’effetto della sola presenza (vs l’assenza) di un cellulare lasciato su un tavolo sul tipo di relazione e di conversazione tra due interlocutori seduti uno affianco all’altro. Ai due soggetti (sconosciuti l’uno all’altro) è stato chiesto di parlare per dieci minuti di un evento saliente a loro accaduto nel mese precedente; dopodiché sono state valutate la qualità della relazione, il senso di vicinanza al partner e la presenza/assenza di emozioni positive. Come previsto, la sola presenza del cellulare aveva effetti negativi su ciascuna di queste variabili.

C’è di più. In un secondo studio, l’effetto della presenza/assenza del cellulare è stato valutato sia quando i due interlocutori discutevano di argomenti casuali, sia quando parlavano invece di questioni personali, intime e significative. Oltre alle variabili qui sopra elencate, sono state poi misurati il livello di fiducia verso l’altro e l’empatia percepita nell’altro. I risultati? La presenza del cellulare inibiva lo sviluppo di una vicinanza emotiva e riduceva l’empatia percepita dal partner. In particolare, le differenze tra presenza e assenza del cellulare erano significative nei casi di conversazione su argomenti intimi e personali.

I meccanismi secondo i quali la presenza di un cellulare ostacolerebbe la formazione di relazioni interpersonali sono ancora sconosciuti. È possibile, sostengono gli autori, che questo “colpevole tecnologico” attivi rappresentazioni mentali implicite (non consapevoli) della nostra “rete sociale”, in grado di distrarci dalle interazioni nel qui ed ora. Attendiamo future ricerche: nel frattempo, almeno durante le conversazioni faccia a faccia, meglio dimenticarsi del cellulare.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Dipendenza in amore: Donne che non lasciano il partner violento

 

Donne che non lasciano il partner violento. - Immagine: © Warren Goldswain - Fotolia.comQualche tempo fa, sul quotidiano “La Repubblica”, mi è capitato di leggere un articolo dedicato alle donne che non riescono a lasciare il marito/compagno violento.

Come mai si è incapaci di abbandonare un partner aggressivo?

Forse come correttamente citato nell’articolo, questa modalità è dovuta all’incapacità di prospettarsi scenari alternativi, riconoscendo in quello attuale uno schema familiare simile ad un loro vissuto. Spesse volte si tratta discorgere nell’uomo l’unica alternativa di vita, oltre alla quale non è possibile visualizzare scenari diversi, ma alla resa dei conti si tratta solo della loro gabbia. Tutto questo in nome dell’amore, inteso secondo una visione distorta e atavica, come una forma di sottomissione, di devozione, di sofferenza. Di dipendenza in amore. 

La paura dell'abbandono. - Immagine: © deviantART Fotolia.com
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Mi sovviene un passo della Sacra Bibbia, la lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini: “Le mogli siano sottomesse ai mariti…  il marito infatti è capo della moglie…”. Quindi, donne, sopportate tutto e non ribellatevi mai, il vostro partner è il vostro capo, quindi, subite senza apporre giudizio quanto vi viene inferto. Oppure, il recente libro, “Sposati e sii sottomessa” di Costanza Miriano in cui si afferma che ci sono ruoli familiari non degni di essere sottoposti a discussione, pena l’infelicità familiare e l’insoddisfazione personale.

Quindi, la donna deve abbandonare l’immagine avanguardista e ribelle per vestire i panni della donna di casa e di famiglia. Deve, dunque, riprendere il ruolo che da sempre le è stato concesso: obbedire alle regole dettate dal pater familias e che importa se spesse volte deve sottostare ai dettami dei maltrattamenti e delle angherie varie? Quindi, lo scenario prospettato è amore dimesso e sofferto in situazioni maltrattanti. Ma se l’amore equivale a soffrire allora si tratta di una forma di non affetto, quindi non è si ha un rapporto paritetico basato sullo scambio reciproco, ma sull’essere l’uno carnefice e l’altro la vittima, l’uno dominate  el’altro dominato. A questo punto si entra in una sfera relazionale non classificabile come amore. Si attiva, dunque, una spirale senza via d’uscita, dove gran parte delle volte si finisce con il soccombere di una dei due membri della coppia, sempre la donna, la cronaca docet.

Cosa porta una donna a rimanere con il compagno violento? Una possibile spiegazione è il pensare di non valere nulla senza l’aiuto dell’altro, di non avere alternative percorribili, di non essere capace di andare avanti senza una persona che in qualche modo possa  supportarla e amarla. Di non valere nulla, di essere il nulla.

I dati dicono che una donna maltrattata su due lascia il proprio compagno, quindi solo una donna su due è in grado di riprendere in mano la propria vita e di voltare pagina.

Alcuni affermano e sostengono sia la cultura d’appartenenza o la regione di provenienza, intrisa da mentalità gretta e stereotipata a portare ad accettare passivamente quello che accade tra le mura domestiche, ovvero a giustificare il partner fino al punto di riconoscere come amorevole una sberla.

Secondo le testimonianze portate da coloro che hanno subito i maltrattamenti, ciò che induce una donna a non lasciare il partner è la paura delle conseguenze del ribellarsi, paura che ci possano essere delle ripercussioni, paura chele vengano negati figli, paura di rimanere sole.

Ecco che subentra la patologia: la love addiction. La dipendenza in amore. Si intende una forma di affezione  intesa come “droga”. E’ uno stato patologico che in una coppia normale è destinato a portare alla distruzione della relazione.

Nella Love Addiction (Dipendenza in amore) si sceglie e si insegue una persona sfuggente, non disponibile, impegnata in qualcosa di più importante, idealizzata a prototipo del marito perfetto, ma che maltratta e camuffa la sua paura di perdere l’altro disprezzando e bistrattando. Si genera in questo modo una relazione nata sulla scia di una serie di paure che portano i due coniugi a autoinfliggersi sofferenza, fisica e psicologica. La donna affetta da “dipendenza in amore”, o Love Addiction, cerca nell’altro delle conferme essendo incapace di individuarle e riconoscerle in se stessa, per questo, l’altro diventa lo specchio ed il nutrimento da cui si finisce col dipendere. La differenza sostanziale con le altre forme di dipendenze, è che quella affettiva si sviluppa nei confronti di una persona e non di un oggetto, come la droga o l’alcool, e questo rende la dipendenza in amore più difficile da riconoscere e da contrastare.

L’amore dipendente:

  • è ossessivo, con la tendenza a esercitare un controllo assoluto sull’oggetto d’amore;
  • è parassitario, basato su continue richieste di assoluta devozione e di rinuncia da parte dell’amato;
  • è caratterizzato dalla stagnazione e dall’evitamento del sociale, ossia la tendenza a chiudersi alle esperienze esterne per paura del cambiamento, soffocando qualsiasi desiderio o interesse personale in nome di un amore che occupa il primo posto nella propria vita;
  • è contrassegnato da dedizione totale ai voleri dell’altro, determinando una mancanza di riconoscimento delle proprie necessità.

Una forma più severa di dipendenza in amore è costituita dalla co-dipendenza. Il co-dipendente rinuncia ai propri bisogni e desideri, disconoscendoli e negandoli, per abbracciare in toto la volontà dell’altro violento. I co-dipendenti hanno sempre la tendenza a coinvolgersi in relazioni con persone con gravi disturbi di personalità, con disturbi del controllo degli impulsi o co-dipendenti. I partner del co-dipendente è una persona maltrattante che, nella maggior parte dei casi, perpetua comportamenti già vissuti nell’infanzia un ambiente familiare intriso di violenza e per questo non considerato un problema da parte della compagna. Quindi, la donna che subisce giustifica il maltrattamento perché avendolo subito lo trova una forma di riconoscimento affettivo.

Quindi, concludendo, per quanto doloroso e sofferto possa essere lasciare un compagno maltrattante, è importante diventare consapevoli di avere una relazione fallimentare, e tornare a vivere accettando di essere sole, ma al sicuro.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Neuroscienze: Il filtro Neuronale degli stimoli nervosi per la Memoria

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Un sistema a filtro nei neuroni per selezionare gli stimoli nervosi più importanti e inibire gli altri: avvviene nei dendriti. 

Ogni attività nel cervello comporta il passaggio di segnali tra i neuroni; si stima che anche 1.000 segnali possano piovere su un singolo neurone contemporaneamente. Per garantire che specifici segnali raggiungano la destinazione, il cervello possiede un sofisticato sistema inibitorio. Stefan Remy ei suoi colleghi del German Center for Neurodegenerative Diseases e della Bonn University hanno fatto luce su come funziona questo meccanismo.

Il sistema si comporta come un filtro, lasciando passare solo gli impulsi più importanti, spiega Remy. “Questo produce degli schemi neuronali specifici che sono indispensabili per la conservazione a lungo termine nella memoria.

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Malattia di Parkinson e Memoria Prospettica: l’Efficacia Farmacologica sul Deficit Cognitivo© V. Yakobchuk - Fotolia.com
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I ricercatori si sono chiesti come funzioni questo raffinato sistema di controllo e come i segnali inibitori siano in grado di produrre specifici segnali di uscita. Da tempo si sa che questo sistema inibitorio è fondamentale per il processo di apprendimento e ci sono evidenze del fatto che questo si inceppi nei pazienti con Alzheimer. Remy e il suo team hanno studiato le cellule nervose dell’ippocampo, una regione del cervello che svolge un ruolo cruciale nella formazione della memoria.

Le informazioni che impariamo o ricordiamo vengono elaborate nel cervello attraverso impulsi nervosi. I segnali in ingresso entrano nella cellula come segnali eccitatori, dove vengono trasformati da strutture ramificate, i dendriti, e vengono inviati selettivamente ai neuroni vicini. I dendriti in questa regione del cervello servono come amplificatori per segnali sincroni.

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Siamo stati in grado di dimostrare che in specifici dendriti, i dendriti “forti”, i segnali cluster vengono amplificati molto bene. I dendriti “deboli” invece trasmettono segnali solo in alcune fasi“, spiegano i ricercatori. I dendriti sono eccitabili in misura diversa: quelli “forti” trasmettono segnali eccitatori sincroni in modo molto preciso e affidabile, e possono resistere a qualsiasi inibizione. Questo assicura che alcuni segnali, presumibilmente quelli più rilevanti per l’apprendimento e la memoria, vengano trasmessi in modo affidabile.

Ciò si traduce in schemi di attivazione che si ripetono periodicamente, creando una co-attivazione di gruppi di cellule specifiche (assembly). Per cui per l’immagazzinamento nella memoria a lungo termine alcuni gruppi neuronali devono essere ripetutamente attivati nello stesso ordine. Questi modelli di attività sono abilitati dal sistema inibitorio. Ciò spiega perché la mancanza di questo sistema in pazienti affetti da Alzheimer abbia conseguenze così drammatiche. Senza di esso, infatti, l’archiviazione delle associazioni in memoria a lungo termine non può avere luogo.

I segnali che vengono ricevuti dai dendriti “deboli” possono essere trasmessi soltanto durante le fasi di inibizione debole; grazie alla “plasticità intrinseca” alcuni dendriti possono tuttavia essere trasformati in “forti” durante questo processo. Solo se la trasformazione avviene i dendriti saranno in grado di trasmettere un segnale specifico. Questo meccanismo di apprendimento del tutto nuovo, che avviene per lo più durante le fasi di attività intensa, come quando sperimentiamo qualcosa di nuovo, si verifica a livello dei dendriti e non a livello sinaptico, come già era stato osservato in precedenza

I risultati di Remy e dei suoi colleghi rappresentano un passo importante verso una migliore comprensione dei meccanismi di apprendimento e memoria.

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BIBLIOGRAFIA: 

Insecure attachment and externalizing behavior problems

 

– Attachment Series – 

Insecure attachment and internalizing behavior problems. - Immagine: © lithian - Fotolia.comInsecure attachment style has been linked to the development of child psychopathology since the beginnings of attachment theory (Bowlby, 1973). More recent work has investigated insecure attachment as a predictor of externalizing and internalizing behavior problems in children.

While the link is sound in theory, empirical evidence is difficult to come by. This is largely because of costly methodological necessities which include the need for large scale, longitudinal studies. Here I will discuss findings related to insecure attachment as a predictor of externalizing problems in children. In the future I will discuss insecure attachment but as a predictor of internalizing behavior.

Erickson, Sroufe and Egeland (1985) used longitudinal methodology to examine 96 children from a high risk group of mothers starting from birth until preschool. Attachment measures were taken using the Strange Situation Procedure at 12 and 18 months.

At the preschool period, teacher questionnaires were completed and school observations were taken. The results demonstrated that, in comparison to securely attached children, anxious/avoidant children were more prone to outbursts and expressing negative emotion. In a meta-analysis of 69 studies (Fearon et al., 2010) found a significant association between insecure attachment and externalizing behavior problems.

The measuring and styles of mother-child attachment. - Immagine: © Alena Yakusheva Fotolia.com.
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Interestingly, larger effects were found in boys and in clinical samples. Children with a disorganized attachment were at the largest risk for developing externalizing behavior problems, followed by children with avoidant and then resistant attachment styles.

It is difficult to draw conclusion about the relationship between insecure attachment and the later development of externalizing disorders based on two studies. However, it is important to examine the methodologies of the studies. The Erickson et al. (1985) study was longitudinal, had a large sample, the industry gold standard for measuring attachment and included school observations and questionnaires. Thus the results of the study were more profound. In the same vein, Fearon et al. (2010) was a meta-analysis that examined the results of 69 separate studies.

Therefore the combination of the findings from these powerful studies forms strong conclusions about the relationship between insecure attachment and the development of externalizing disorders in children.

 

 

REFERENCES:

La Compassione da cosa è determinata?

 di Francesca Fiore, Naomi Aceto, Lucchetti Elena, Milko Prati.

 

La compassione da cosa è determinata?. - Immagine: © DAN - Fotolia.com

La compassione è uno stato mentale che invoca l’altruismo e lo fa agire. Si contrappone al desiderio di punizione e di vendetta.

Nell’immaginario collettivo il termine compassione è spesso affiancato a quello di saggezza, infatti se ci soffermassimo su questi due  concetti, per certi versi, sarebbe difficile scinderli.

Entrambi sussumono il significato di vivere in armonia con l’ambiente e il contribuire attivamente al benessere degli altri.

Ma la compassione comprende aspetti emotivi come l’amore e la pietà, mentre la saggezza è guidata da una forte componente intellettuale. La conoscenza, dunque, intesa come cammino verso il sapere, è indispensabile per raggiungere la saggezza e per esercitare la compassione.

La compassione mostra aspetti affini al concetto di empatia, ovvero sentire e soffrire con il nostro prossimo, immedesimandosi nel suo dolore, vivere la stessa emozione dell’altro.

Secondo Price (2007) la compassione è uno stato mentale che invoca l’altruismo e lo fa agire.

Partendo da questo concetto, si è dimostrato come gli individui percepiti come simili a se stessi, non solo evochino più compassione ma, a parità di situazione, inducano i soggetti a mettere in atto comportamenti altruistici rispetto a quelli agiti nei confronti di persone diverse (Valdesolo e De Steno, 2011). Sembrerebbe che la sincronia, indotta da una valutazione di somiglianza, rafforzi una risposta compassionevole nei confronti delle vittime morali favorendo un aumento di comportamenti caritatevoli, concordi con una serie di regole morali. 

Quindi, la compassione potrebbe essere definita come una forza morale?

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La risposta, secondo molti leader spirituali, è affermativa. L’essere compassionevole ha un effetto radiante poiché porta ad estendere la gentilezza e il perdono agli altri, anche nei confronti di coloro che hanno trasgredito intenzionalmente (Dalai Lama & Ekman, 2008). Come tale, la compassione si contrappone al desiderio di punizione e di vendetta: funziona come un sentimento morale in grado di inibire le azioni che di solito comportano una escalation di violenza (Davidson e Harrington, 2002).

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Valutare questo aspetto è molto difficile vista l’impossibilità di separare la compassione da altri fattori sociali, etici, morali e religiosi come l’essere tolleranti (Berry, Worthington, O’Connor, Parrott, e Wade, 2005), oppure perdonare l’altro (McCullough, Worthington, e Rachal, 1997). 

I sentimenti di compassione provati nei confronti di qualcuno sembrano essere in grado di ridurre la pena anche verso quegli individui che hanno chiaramente trasgredito in maniera irrimediabile e non hanno cercato il perdono per le loro azioni. Il meccanismo presente alla base di questo effetto, tuttavia, è ancora da esplorare, l’essere compassionevole può portare alla riduzione del desiderio di punizione, migliorando il controllo cognitivo circa la punizione da infliggere al trasgressore (Oveis, Horberg, e Keltner, 2010).

E’ possibile che alti livelli di compassione possano essere compensati dal desiderio di punire chi genera un disagio (Meyers, Lynn, &Arbuthnot, 2002). Infatti, esistono casi in cui questi aspetti altruistici vengono meno per cedere il posto all’obbedienza. 

La violazione dei propri principi morali e altruistici spesse volte è determinata dal grado di obbedienza mostrato nei confronti dell’autorità. Il sottostare a delle regole indurrebbe uno stato eteronomico, in cui la persona diventa strumento per eseguire degli ordini. Quindi, la compassione viene meno quando non è possibile accedere per causa di forza maggiore alla moralità (Milgram, 1964)

A tutt’oggi, la natura esatta delle forze che influenzano i meccanismi alla base della compassione è ancora difficile da comprendere, tuttavia aiutare gli altri è comunque un processo costoso, sia in termini di risorse fisiche sia psichiche. Concludo citando Aristotele: “L’uomo saggio non persegue la felicità, ma l’assenza di dolore“, quindi che sia caritatevole o meno l’importante è compiere azioni che possano non farci star male.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Religione: Credenti e Non Credenti di fronte alla Guerra

 

Religione- Credenti e Non Credenti di fronte alla Guerra. - Immagine: © vladischern - Fotolia.comComunità religiose ed individualismo programmatico: credenti e non credenti di fronte alla guerra. La religione è una forza generatrice di pace? O piuttosto l’humus che alimenta ed alimenterà le guerre?

Sono nato negli anni ’70. Durante la mia adolescenza la cultura laica ha acquisito quella prevalenza assoluta che caratterizza indubbiamente la modernità in Occidente.

Nell’infanzia ho imparato che il Vangelo di Cristo insegna la pace e l’amore.

Nella mia adolescenza mi sorprendevo perché il cristianesimo veniva persistentemente associato alla guerra, nelle opere degli intellettuali più creativi, così come negli interventi dei miei coetanei durante le assemblee degli studenti.

Certo la storia forniva alcuni esempi eclatanti: dalle crociate alle guerre di religione nell’Europa del ‘500, fino al conflitto arabo israeliano, gli schieramenti opposti erano frequentemente identificati anche da differenti appartenenze religiose.

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Percepivo, però, nella cultura che mi circondava, un’accusa implicita e assai più inquietante. Nella prospettiva della cultura laica l’esperienza religiosa non costituirebbe solamente un elemento di coesione e un vessillo identitario per i combattenti. La guerra troverebbe nutrimento proprio nello stato di emozionalità indifferenziata e di apertura percettiva che caratterizza l’uomo a contatto con il Sacro.

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Ricordo, a questo proposito, un tema proposto credo per un esame di maturità di quegli anni. Ai candidati si chiedeva di commentare il titolo di un’opera di Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”. Come a dire, solo la freddezza, l’intelletto che misura e classifica, la concretezza del presente, affrancherebbero l’uomo dal suo radicale istintuale, dall’annebbiamento prodotto dagli impulsi e dalla rabbia. Solo la fredda ragione salverebbe l’uomo dalla guerra.

In questo breve intervento cercherò di rispondere dunque a questa domanda semplice e diretta: la religione è una forza generatrice di pace? O piuttosto l’humus che alimenta ed alimenterà le guerre?

La mia riflessione si baserà sulle mie esperienze, nella mia vita di uomo e di cristiano e nel mio lavoro di professionista a contatto con la malattia mentale, con l’uomo nella sofferenza e nella disperazione. Sotto questo profilo il mio riferimento è la teoria psicoanalitica introdotta da Sigmund Freud e continuamente arricchita e sviluppata fino ai giorni nostri.

Quando il sole della primavera torna ad illuminare i cieli Lombardi dopo il grigio inverno, amo salire lungo la ripida mulattiera che da Civate – presso Lecco – conduce ai 630 metri dell’abazia di san Pietro. L’ingresso è insolitamente rivolto ad Oriente. I monaci che abitavano questi luoghi nell’XI secolo sentirono il bisogno di ringraziare Dio per le gioie della sacra liturgia aprendo il cuore e lo sguardo verso i lago di Pusiano e di Annone e la sconfinata pianura che si apre ai piedi del Cornizzolo.

Invertirono perciò la direzione della chiesa. Oggi noi entriamo nel tempio attraversando le antiche absidiole. Sulla parete in alto la donna vestita di luna sfugge alle insidie del maligno, e più in basso, quattro colonne sostengono i 4 fiumi del giardino dell’Eden. Una spirale destrorsa le attraversa tutte e conduce il nostro sguardo verso il cielo.

Non tutte in verità, la quarta colonna ruota al contrario, in senso antiorario. Allontana da noi e scarica in un immaginario sottosuolo le minacce delle forze del male.

Anche la Cattolica di Stilo, gioiello di architettura greco – bizantina in Italia, ha volto il suo ingresso verso l’infinito, la fiumara, la pianura, il mare. E anche qui ho scoperto una colonna anomala. Un secondo capitello, rivolto verso il pavimento, la distingue dalla altre e si sforza di proteggere l’amore ed il sacro dalla violenza e dal male.

Il male, ecco il male. Vorrei oggi parlarvi della realtà del male. Il cristianesimo è iscritto nella storia di questa collettività italiana. I suoi precetti sono filtrati così profondamente nelle nostre aspettative che a volte fatichiamo a riconoscerli. Non-violenza e amicizia tra i popoli sono forse la componente del messaggio cristiano più universalmente condivisa in Europa occidentale.

Non così la consapevolezza del male. La realtà del male, la minaccia che ha insidiato Cristo, la Chiesa, noi singoli credenti, di fatto tutti gli umani, è oggi rimossa, dimenticata. Vorrei oggi parlarvene perché è qui, temo, che la guerra trova le sue ragioni ed il suo nutrimento.

Il potere politico sociale ed economico usa ed alimenta la guerra, non c’è dubbio. Ma evidentemente non è in grado di crearla. Comportamenti aggressivi organizzati e sistematici nei confronti di altri gruppi sono già osservabili nei primati. Lo studio paleoantropologico delle comunità mesolitiche ha riscontrato ampie tracce di massacri violenti e sistematici. L’antropologia culturale ha incontrato la guerra dovunque.

Sigmund Freud era del tutto convinto che alla radice della guerra vi fosse una precisa base istintuale. Con Al di là del principio di piacere (1920) il padre della psicoanalisi aveva introdotto un’importante riformulazione della sua teoria degli istinti. Lo studio della clinica psicoanalitica e l’osservazione della vita sociale lo avevano indotto ad ipotizzare l’esistenza di un desiderio antitetico alla pulsione libidica, orientato alla sessualità e difesa della vita individuale, ora riformulato come istinto di vita.

Freud si era convinto che nell’uomo era presente, accanto all’istinto di vita, un desiderio distruttivo, orientato a ricondurre ogni forma di vita allo stato di materia inanimata.

In questo istinto di morte egli riconosceva la fonte di vari quadri psicopatologici, della resistenza ai trattamenti psicoanalitici e più in generale di ogni forma di odio tra umani.

La cocaina, Freud e la lezione dei maestri. - Immagine: licenza Creative Commons, Autore: http://www.flickr.com/photos/ajourneyroundmyskull/
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Più specificamente, nella sua nota lettera ad Albert Einstein – Perché la guerra (1932) –egli affermava che la guerra ha una precisa base istintuale in quanto la struttura della mente umana includerebbe un innato istinto distruttivo. Nell’istinto di morte risiederebbe dunque il motore motivazionale dell’uccisione sistematica di altri uomini.

Uno dei grandi maestri del cattolicesimo contemporaneo, don Luigi Giussani (1966), ci invita ad un atteggiamento di realismo nella riflessione sulle natura dell’uomo e del creato. Qui occorre davvero uno sforzo per accettare fino in fondo la complessità della natura umana. L’aggressività umana non esprime semplicemente una competizione per risorse limitate, per l’amore materno o genitale, per il denaro o per posizioni di potere. Include una componente specificamente distruttiva e sadica.

La clinica psicoanalitica così come la cronaca nera ci mostrano quotidianamente relazioni o interazioni, finalizzate al controllo, alla sottomissione, all’umiliazione dell’oggetto. Finalizzate ad indurre e mantenere situazioni di sofferenza, disperazione, impotenza.

Non occorre studiare i campi di concentramento variamente diffusi nel mondo, i massacri gratuiti di civili. La semplice esperienza della vita familiare o degli ambienti di lavoro offre abbondante materiale a testimoniare forme più larvate ma altrettanto maligne di tali meccanismi interpersonali.

Nel dopoguerra l’istinto di morte ha cerato un certo disagio tra gli psicoanalisti. E’ stato difficile ammettere l’esistenza di una radicale malvagità nell’uomo. Si è sottolineata la natura relativa dell’aggressività umana, il suo rapporto con condizioni sfavorevoli e stati di frustrazione. La posizione di Erich Fromm (Anatomia della distruttività umana, 1973) è forse quella più rappresentativa di questo punto di vista.

La meditazione sulla figura e sulla biografia del Cristo può illuminare la nostra riflessione. Cristo ci viene incontro dalla croce. Perseguitato, deriso, abbandonato. Il dolore è il codice della sua condizione esistenziale.

 E proprio questa è la ragione sensibile dell’universalità del suo messaggio. Cristo ci può parlare dalla croce perché il dolore è la realtà più comune dell’esperienza emotiva degli umani. Dolore della frustrazione, dolore della separazione, dolore dell’impotenza, dolore dell’umiliazione. Dolore manifesto, gridato, dolore celato, dolore negato, dolore talvolta inconscio ed accessibile solo all’osservazione psicoanalitica.

Il dolore fisico ha notoriamente riflessi comportamentali. Negli animali è in grado di scatenare risposte di fight or flight, risposte aggressive, che hanno un evidente valore adattativo. Il dolore fisico genera rabbia e aggressività. La psicoanalisi insegna che anche il dolore emotivo – il dolore mentale – ha riflessi comportamentali.

La via di fuga più immediata, se vogliamo più primitiva, al dolore mentale è l’evacuazione. Il modo più semplice di liberarsi del dolore mentale è inserirlo, travasarlo in un altro essere umano. Il sadico, l’aguzzino, agente della gestapo o capoufficio autoritario, feriscono perché specchiandosi nella vittima trovano una pacificazione al proprio dolore personale.

Abbiamo discusso finora l’aggressività individuale. Ma la guerra? Per comprendere la guerra dobbiamo spostare il nostro obiettivo dagli individui, dalle coppie vittima-carnefice, ai gruppi, piccoli e grandi. L’aggressività individuale si rivolge agli individui. Ma è una forza che destabilizza i gruppi, i gruppi istituzionali, ma anche le famiglie, le coppie. L’odio ed il sadomasochismo coniugale sono alla base della attuale crisi dell’istituzione coniugale. Avvelenano cronicamente il clima familiare. Rendono i legami di coppia fragili. Ancora oggi, in un’epoca descritta come non violenta o meno violenta di quelle che l’hanno preceduta, la famiglia è lo scenario della maggior parte degli omicidi.

Più in generale, l’aggressività reciproca rappresenta una costante minaccia alla sopravvivenza di tutti i gruppi umani. Periodicamente le comunità umane sono turbate da conflitti interni. Nel corpo sociale più ampio si vanno differenziando gruppi più piccoli. La loro identità può essere variamente definita. I membri di ciascuna fazione possono essere accomunati dall’appartenenza ad una determinata etnia, area geografica, classe sociale, partito politico, e naturalmente confessione religiosa.

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Per limitarci alla sola storia europea possiamo pensare alle lotte di fazione dei comuni medioevali. Alla più ampia prospettica dei guelfi e dei ghibellini, alle persecuzioni e guerre civili tra cattolici, luterani e calvinisti, alla guerra rivoluzionaria di Russia, alla carneficina che insanguinò la Spagna nella prima metà del secolo scorso. Le ultime attenuate tracce di questi processi di frammentazione della società umana sono state riconoscibili nelle disciplinate lotte sociali che hanno caratterizzato gli anni sessanta del secolo scorso.

La sopravvivenza del corpo sociale è messa in costante pericolo dall’aggressività circolante nel gruppo. La formazione e la persistenza dei gruppi umani sono possibili solo nella misura in cui l’organizzazione ed il funzionamento del gruppo consentono di processare e moderare l’aggressività interna.

Dobbiamo a Melanie Klein la comprensione dei processi con cui la mente umana è in grado di tutelare le relazioni oggettuali più vitali dell’individuo. La Klein osservò come l’aggressività e l’odio che inevitabilmente infiltrano la relazione madre bambino fin dalle prime fasi dello sviluppo umano possono essere sottratte alla coscienza tramite meccanismi di scissione e proiezione. Nelle relazioni d’amore l’aggressività può cioè essere reindirizzata, proiettata verso oggetti esterni. La loro realtà viene ad essere alterata, la loro rappresentazione assume caratteri distorti, negativi. Ecco nascere il sordido ebreo, il prete perverso, il comunista violento, l’africano feroce e selvaggio.

Mi piace pensare ai gruppi umani come a degli organismi unicellulari. All’interno, finché il sistema è stabile, regna la concordia reciproca, forse l’amore. La interazioni tra gli individui possono essere profonde, ma l’odio e l’ostilità non sono percepite. Sono rivolte all’esterno, agli esseri che popolano l’ambiente extracellulare. Oltre la membrana plasmatica sono in agguato micidiali predatori.

Le società umane si formano e si organizzano attraverso processi lunghi e complessi. Esse acquisiscono così una identità coerente ed una sufficiente armonia interna. L’armonia persiste però solo fino al confine, geografico e culturale. Tra forze politico sociali vicine si crea così una soglia di faglia di frattura. Come le zolle della crosta terrestre, i gruppi umani, le nazioni, le razze (io metterei le culture, il concetto di razza è oggi molto in discussione), le religioni sono in perenne movimento di collisione le une rispetto alle altre. Quando la tensione nella crosta terrestre supera un valore soglia sperimentiamo gli effetti devastanti di un terremoto. Quando la conflittualità tra gruppi umani supera una soglia si scatena la violenza: l’omicidio, la faida, la guerriglia, la guerra.

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La storia dimostra ampiamente come la guerra possa rappresentare un eccezionale strumento per mantenere la coesione sociale. Le gazzette del biennio precedente alla I Guerra Mondiale sono piene di scioperi, manifestazioni represse nel sangue, insurrezioni, rivoluzioni. L’odio verso un nemico regalò senza dubbio qualche ultimo e insperato anno di stabilità alle monarchie delle belle époque. Già nel 1095 Papa Urbano II, chiamando a raccolta cavalieri e popolani per la Prima Crociata sottolineava gli effetti di coesione civile offerti da una guerra combattuta all’esterno dell’orizzonte geografico della cristianità latina:

vi uccidete l’un l’altro, vi fate guerra, e frequentemente morite per le reciproche ferite. Allontanate da voi l’odio reciproco, finiscano le contese, cessino le guerre, si acquietino tutti i dissensi e le controversie. Avviatevi sulla strada del Santo Sepolcro, strappate quella terra dalla razza malvagia e sottomettetela a voi. … per la remissione dei vostri peccati e con la certezza di acquisire la gloria eterna del Regno dei Cieli.

Ora abbiamo – mi sembra gli elementi per rispondere alla domanda che abbiamo formulato all’inizio di questa conversazione: le religioni sono una forza che promuove la pace, o piuttosto contribuiscono a generare e mantenere le guerre tra popoli? L’esperienza religiosa non è ovviamente solo un fatto cognitivo, è una prassi, è uno stile di vita, specificamente è uno stile di vita comunitaria.

Le religioni, sicuramente il Cristianesimo e l’Islam promuovono un’esperienza di vita sociale più intensa. Incoraggiano l’apertura ad esperienze comunitaria di tipo fusionale, ad una condivisione delle emozioni più profonde in un contesto più ampio della famiglia nucleare.

Per l’uomo religioso l’esperienza dell’amore, della malattia, della morte sono sperimentate in una dimensione comunitaria in una misura ignota agli stili della società materialista ed individualista. La preghiera comune, l’esperienza liturgica e rituale del lutto, la condivisione in contesti di gruppo dei propri vissuti emotivi, come avviene nei vari movimenti ecclesiali, creano tra i membri delle confessioni religiosi legami più intensi rispetto a quelli usuali nell’occidente laico.

Quale può essere l’impatto sociale di questa coesione più intensa? Come è possibile realizzare un’armonia così profonda? Qual è il destino dell’aggressività che viene così ad essere scissa ed allontanata? Il legame tra i membri di una confessione religiosa può forse essere mantenuto solo grazie alla crescente ostilità verso i gruppi umani situati al di fuori dell’orizzonte di appartenenza?

Freud stesso era convinto che la minaccia della guerra potesse essere allontanata solo da una umanità nuova, in cui ogni individuo fosse in grado di subordinare la propria vita istintuale ai dettami della ragione, realizzando così una libertà di pensiero ostacolata a suo parare dal controllo della Chiesa.

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Temo proprio che questa prospettiva sia del tutto illusoria. E’ vero, le società cronologicamente mature, le società caratterizzate da elevati livelli di individualismo e materialismo sono poco combattive. L’Europa moderna schiera aerei sofisticati su vari fronti, ma sembra del tutto incapace di sostenere una vera guerra. Anzi, sembra incapace di qualsiasi significativa lotta per la difesa dei diritti sociali ed umani.

L’occidente materialista non rinuncia intenzionalmente alla guerra. Senza una forte identità sociale, nazionale, politica, ma anche religiosa, una guerra è sostanzialmente impossibile. La non belligeranza dei pacifisti europei è in qualche misura inautentica. E’ possibile solo nel contesto di un grande impero nucleare, che allontana e proviene le minacce che giungono dall’esterno.

Tuttavia l’aggressività non è affatto assente dalla società moderna, si piega verso l’interno. Disgrega le forze sociali, e le famiglie. Si rivolge all’interno dell’individuo, trova apparente sollievo nel crescente uso di sostanze, e verosimilmente è un fattore nella diffusione di alcune gravi malattie, come il cancro.

Abbiamo detto che il destino dell’uomo è segnato dal dolore. Il fardello di Adamo e di Eva è pesante. Le condanne loro rivolte dal creatore, lavoro e morte, riassumono una realtà di dolore ben più vasta.

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com
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L’aggressività e l’odio non sono però le uniche soluzioni, sono semplicemente le più semplici. Sentimenti di lutto, umiliazione, invidia, gelosia, rabbia possono essere proiettati. Ma possono anche essere pensati, compresi e tollerati. Possono essere digeriti e controllati ogniqualvolta trovino accoglienza autentica nel contesto di una relazione di amore.

L’orecchio di un uomo che ascolta è il farmaco più efficace per attenuare il dolore emotivo. Proiezione e sadismo diffondono il dolore. Amore e condivisione lo trasformano. E promuovono la maturazione e lo sviluppo, la creazione di realtà sociali più creative e meno paranoidi.

Il contributo più prezioso delle religioni allo stabilimento della pace non risiede solo nei santi precetti morali che esse offrono all’uomo. In un mondo sempre più individualista e frammentario l’esperienza religiosa crea il luogo e lo spazio per una vita comunitaria più intensa.

E’ proprio in questo spazio che l’uomo può condividere il proprio dolore in una dimensione di amore reciproco. A parere di chi scrive solo la pratica e l’esperienza della comunione fanno crescere le comunità umane e possono prosciugare le sorgenti dell’odio.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

Apprendimento del Linguaggio: i Bambini già a 3 mesi riconoscono Regole Complesse

FLASH NEWS 

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La velocità e l’apparente facilità con cui i bambini piccoli imparano le basi di una lingua stupisce da sempre genitori scienziati, infatti comunemente si pensa che l’apprendimento del linguaggio complesso sia prerogativa degli adulti.

Tuttavia, un gruppo di ricercatrici del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Leipzig hanno scoperto che i neonati con meno di tre mesi di vita sono in grado di estrarre e apprendere automaticamente regole complesse dalla lingua parlata; compito che agli adulti riuscirebbe solo grazie a un processo di ricerca e riconoscimento attivo.

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Jutta Mueller, Angela D. Friederici and Claudia Maennel hanno fatto ascoltare a dei neonati per 20 minuti un flusso di sillabe mentre misuravano le risposte cerebrali dei bambini con EEG. Le coppie di sillabe comparivano insieme, ma erano separate da una terza sillaba; questa dipendenza (dependency) tra le sillabe non contigue sarebbe tipica nelle lingue naturali e si ritrova in molte costruzioni grammaticali.

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Le misurazioni EEG hanno dimostrato che i bambini erano in grado di riconoscere la violazione delle regole quando la combinazione si presentava con una sillaba “fuori posto”; inoltre, gli scienziati hanno, di tanto in tanto, variato il tono di una sillaba con un tono più alto con un risultato interessante: solo quei bambini il cui cervello ha reagito ai cambiamenti di frequenza del suono erano in grado di rilevare la dipendenze tra le sillabe.

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Quando gli adulti affrontano la stesso compito dimostrano di reagire alle violazioni delle regole solo quando gli si chiede di cercare esplicitamente le dipendenze tra le sillabe; particolarmente interessante secondo i ricercatori sarebbe il fatto che gli adulti che hanno dimostrato l’apprendimento della regola hanno anche mostrato una forte risposta cerebrale ai cambiamenti di tono. Mueller e i suoi colleghi concludono che, evidentemente, la capacità di riconoscimento automatico si perde dopo la prima infanzia.

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Questi risultati non solo possono aiutare a comprendere in che modo i bambini riescano a imparare una lingua così rapidamente durante il primo sviluppo, ma mettono in evidenza anche un forte legame tra capacità uditive di base e capacità di apprendimento di regole sofisticate. Gli scienziati stanno ora indagando se nei bambini che hanno mostrato differenze in risposta ai cambiamenti di tonalità e nella capacità di apprendimento delle regole siano riscontrabili effetti a lungo termine sullo sviluppo del linguaggio.

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BIBLIOGRAFIA: 

 

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La Coppia in Terapia: tra Processi di Appartenenza e Separazione

 

 

  – LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO –

La coppia in terapia: tra processi di appartenenza e separazione. - Immagine: © ashumskiy - Fotolia.com

Coppia e terapia: come le dinamiche di appartenenza e separazione dalle proprie famiglie di origine influenzano la qualità dei legami di coppia.

Come accennato nell’articolo precedente, le dinamiche di appartenenza e separazione dalle proprie famiglie di origine inevitabilmente influenzano la qualità dei legami di coppia (ma non solo) che ciascun individuo stabilisce nel corso della propria vita.

Quasi come un moto ondoso, questi due processi, complementari ed ugualmente fondamentali nella strutturazione di un sé differenziato (Bowen, 1979), procedono di pari passo per tutto l’arco della vita di una persona. 

Dai processi di appartenenza deriva il prezioso bagaglio fatto di valori, atteggiamenti, consuetudini,  tradizioni che impariamo all’interno del contesto familiare e culturale in cui cresciamo; a livello di coppia questo patrimonio, o aspetti di esso, potrà rappresentare per ciascun partner un valore, una ricchezza, una vera e propria dote o, al contrario, essere percepito come un disvalore, un intrusione dalla quale prendere distanza o addirittura difendersi.

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La separazione invece è il processo, a volte doloroso ma sempre necessario, che permette a ciascuno la costruzione dell’identità individuale.

La coppia in terapia- la prospettiva trigenerazionale. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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La separazione è un processo complesso e per nulla scontato, che può durare gran parte della la vita, a volte senza mai essere portato a termine (Andolfi, Angelo 1987). Secondo Williamson (1982) la “posizione Io” verrebbe raggiunta solo in età adulta, verso i 35-40 anni, grazie al superamento dell’ “intimidazione intergenerazionale”, cioè quella forma di dipendenza per cui un individuo, seppur adulto, continua a percepire i propri genitori come perfetti e onnipotenti nelle loro aspettative verso di lui; chi non vi giunge rimane intrappolato nella posizione di figlio senza riuscire a vivere i rapporti con i genitori ponendosi sul loro stesso piano generazionale, da adulto ad adulto insomma.

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Se immaginiamo appartenenza e separazione come due piatti di una bilancia, potremmo dire che chi rimane cronicamente nella posizione di figlio è colui che si sente tanto gravato dal peso delle appartenenze (e delle aspettative) familiari, da non riuscire ad affrancarvisi.

Sul versante, solo apparentemente, opposto vengono invece a trovarsi coloro che hanno messo una distanza emotiva, e spesso anche fisica, tra sé e i propri vincoli familiari.

La principale espressione di questo “taglio emotivo” (Bowen, 1979; Andolfi, 2003) è la negazione dell’intimità e dell’attaccamento non risolto ai genitori. In questi casi la bilancia pende tutta dal lato della separazione che, ben lungi dal considerarsi parte di un processo di differenziazione del sé, è una vera e propria frattura nei processi di appartenenza, prematura e traumatica.

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Il risultato è la mancanza di modelli a cui appartenere e dai quali separarsi;  non potendosi differenziare – come ci si separa da qualcosa alla quale non si appartiene? – si è costretti a una pseudoindividuazione, cioè a un’indipendenza fittizia, in cui il vuoto relazionale spinge alla ricerca di legami compensatori, tanto necessari quanto temuti; il cutoff emotivo verrà però nuovamente utilizzato per controllare il proprio coinvolgimento emotivo nella relazione con il partner. 

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Tornando alla coppia risulterà ora più intuibile come l’equilibrio raggiunto da ciascun partner tra appartenenza e separazione sarà determinante nella costruzione del legame di coppia: non ci si può unire in modo soddisfacente se prima non ci si è separati da un rapporto in cui ciascuno dei partecipanti sia stato in grado di riconoscere il suo spazio personale e di affermare la propria separatezza e individualità. 

Nel prossimo articolo parlerò più specificamente di come le dinamiche di triangolazione, in seno alla famiglia di origine, impediscono i processi di differenziazione dell’individuo e di come queste influenzano la costruzione del legame di coppia.


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BIBLIOGRAFIA:

Corso di Perfezionamento CBT in Sessuologia – PARTE 2

 

Corso di Perfezionamento Cognitivo-Comportamentale in Sessuologia

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Riprendiamo il reportage dal corso di perfezionamento cognitivo-comportamentale in sessuologia organizzato da Studi Cognitivi, sede di Modena.

L’intervento del Dr. Zanoni illustra la Terapia Mansionale Integrata, terapia d’elezione per le disfunzioni sessuali, laddove queste non siano secondarie a difficoltà psicologiche e/o relazionali  primarie  e gravi.

La TMI consiste nella prescrizione alla coppia o al singolo di esercizi comportamentali che si organizzano in diversi percorsi, a seconda del problema da affrontare, ma caratterizzate da 4 tappe fondamentali: la conoscenza di sé, la conoscenza dell’altro (e di sé tramite l’altro), la conoscenza del proprio piacere e delle proprie emozioni, la conoscenza del piacere di coppia e dell’intimità.

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La conoscenza di sé comprende la conoscenza personale, comportamentale, cognitiva e relazionale dal punto di vista sessuologico, quindi si parte da una conoscenza del proprio corpo e delle proprie risposte sessuali attraverso l’esplorazione visiva e tattile dei propri genitali (fino alle modalità di stimolazione degli stessi), passando attraverso  la consapevolezza dei propri pensieri, del proprio dialogo interno, del proprio immaginario, e delle proprie emozioni attraverso un processo di auto osservazione, fino al riconoscimento dell’aspetto relazionale del proprio comportamento, e quindi la capacità di riconoscere il comportamento dell’altro come una “risposta” evocata da noi.

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Nella conoscenza dell’altro  e di sé tramite l’altro, il partner diventa una sorta di specchio in cui osservarsi, sempre su tre livelli: livello comportamentale in cui vi è la conoscenza del corpo e delle risposte sessuali del partner e della percezione di sé attraverso il contatto con l’altro; livello cognitivo, in cui scoprire le risposte emotive e i desideri dell’altro come fonte di arricchimento e diversità; e il livello relazionale in cui conoscere i giochi di coppia e i ruoli giocati.

Nella conoscenza del piacere a livello comportamentale ci si espone a livelli di piacere orgasmico in maniera “egoistica”, con l’unico scopo di soddisfare i propri desideri; a livello cognitivo l’obiettivo è vivere pienamente l’esperienza emozionale consapevoli della sua non controllabilità e infine sviluppare il processo di “affidamento” nella relazione e di delega del controllo come inizio di un processo di cooperazione.

Nella conoscenza del piacere di coppia e dell’intimità, a livello comportamentale si esplorano i comportamenti utili a procurare reciprocamente piacere, mentre a livello cognitivo si elaborano le esperienze di esposizione a livelli di intimità crescente con la condivisione delle emozioni sessuali; infine a livello relazionale si sperimenta  l’affidamento reciproco come traguardo di un processo di cooperazione.

Queste quattro tappe sono comuni ad ogni iter terapeutico, differenziandosi poi nello specifico delle mansioni per i diversi disturbi sessuali, articolandosi e sfumandosi l’una nell’altra nel processo terapeutico, in cui si sovrappongono e vengono affrontate a diversi livelli di complessità.

E’ con la lezione della Dr.ssa Rebecchi che entriamo nel vivo del Trattamento, iniziando con le Disfunzioni Sessuali Maschili. 

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Il DSM-IV-TR (APA, 2001), definisce le Disfunzioni Sessuali come caratterizzate da un’anomalia del desiderio sessuale e delle modificazioni psicofisiologiche  che caratterizzano il ciclo di risposta sessuale, e causano notevole disagio e difficoltà interpersonali. 

Due sono le Disfunzioni trattate: l’ Eiaculazione precoce (EP)  definita come la  persistente o ricorrente eiaculazione a seguito di minima stimolazione sessuale prima, durante,o poco dopo la penetrazione e prima che il soggetto lo desideri e il Disturbo Maschile dell’Erezione (DE), la cui caratteristica fondamentale è una persistente o ricorrente incapacità di raggiungere, o di mantenere fino al completamento dell’attività sessuale, un’adeguata erezione . 

Le disfunzioni sessuali possono essere il risultato di molteplici fattori eziologici, sia organici che psicologici, per  cui di fondamentale importanza è la valutazione del sintomo sessuale, qualunque esso sia, che comprenderà un’anamnesi dettagliata degli aspetti fisici, psichici, relazionali, familiari e socio-culturali della persona che presenta un problema sessuologico.

Questa analisi permetterà al terapeuta di formulare una restituzione al singolo o alla coppia, di tipo “ricostruttivo” per una lettura integrata dei diversi elementi indagati, utilizzando la curva della risposta sessuale e fornendo un primo intervento di tipo psicoeducativo.

Come abbiamo visto la Terapia Mansionale Integrata prevede quattro fasi con prescrizioni precise, comuni e diverse allo stesso tempo, nel senso che rappresentano un canovaccio sul quale però costruire iter terapeutici personalizzati.

Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta. - Immagine: © mipan - Fotolia.com
Articolo consigliato: Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta.

L’illustrazione dei protocolli di trattamento per le disfunzioni sessuali maschili ha permesso, grazie all’esperienza della pratica clinica della docente, di comprendere come meglio snodare e concettualizzare il funzionamento della persona che porta un sintomo sessuologico, con l’utilizzo flessibile e personalizzato delle mansioni, al fine di un intervento efficace.

I primi colloqui sono finalizzati alla ricostruzione del problema e la sua riformulazione per la formulazione di un contratto, ogni seduta inizierà con l’analisi delle mansioni e terminerà con la prescrizione delle mansioni successive.

Lo scopo della terapia non è solo la scomparsa del sintomo, ma anche il mantenimento del risultato raggiunto, perché quindi sia stabile è importante che cambino nella coppia i comportamenti, le emozioni, le convinzioni sulla sessualità, nonché che si modifichi l’interazione reciproca di questi elementi. 

La TMI  è una terapia sostanzialmente di coppia, ma i suoi principi possono essere applicati anche a terapie individuali: in tal caso dovranno modificarsi alcune caratteristiche significative, la principale delle quali è la ricerca della cooperazione e dell’intimità della coppia. 

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In tal senso, non ci sono le indicazioni per una TMI nel singolo quando la domanda sessuale è mascherata e/o è generata da problemi individuali e relazionali altri, nella coppia quando la discordia sessuale provoca la discordia coniugale, quando la discordia coniugale mortifica la disfunzione sessuale  e/o, è grave ed associata a forte ostilità.

L’esperienza che costantemente emerge dalle esemplificazioni cliniche rimanda e sottolinea l’importanza del terapeuta che non assume il ruolo di “chi sa e comanda”, pur essendo una terapia esplicitamente direttiva, ma dovrà rappresentare, come dice Bowlby (1998), la base sicura da cui la coppia può partire per compiere esplorazioni sempre più lunghe e complesse nel mondo della sessualità.

 

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BIBLIOGRAFIA:  

  • American Psychiatric Association, Washington, D.C., 2000.Trad.it., DSM-IV-TR Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. IV ed. Text Revision. Masson, Milano, 2001.
  • Fenelli, A. & Lorenzini, R. (1991) Clinica delle disfunzioni sessuali, Carrocci Ed.

Scelta del Partner: non più (solo) il Modello Evoluzionista!

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Scelta del partner: la differenza di genere nelle preferenze previste dai modelli evoluzionisti è la più alta nelle società in cui la disuguaglianza tra uomini e donne è maggiore, e più bassa nella maggior parte delle società in cui la disuguaglianza tende a scomparire.

Uomini e donne utilizzano chiaramente criteri e strategie diverse nella scelta del partner, ma il motivo di queste differenze non è del tutto chiaro.

Un nuovo studio suggerisce che le motivazioni legate all’evoluzione forniscano solo una parte della spiegazione.

In termini evolutivi, infatti, il successo di uomini e donne è legato alle possibilità di procreare e assicurare sopravvivenza alla prole: per avere successo le donne hanno bisogno di avere accesso alle risorse necessarie all’allevamento della prole, (scegliendo, per esempio, gli uomini ricchi), e gli uomini hanno bisogno di avere accesso alle femmine fertili (scegliendo, ad esempio, giovani donne). 

Ma dal momento che nella società moderna il successo non è necessariamente legato alla prole, i ricercatori Marcel Zentner e Klaudia Mitura dell’Università di York, hanno ipotizzato che l’influenza dei pregiudizi evolutivi sulla scelta del partner si riduca proporzionalmente con la parità di genere delle nazioni, o l’uguaglianza tra uomini e donne.

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La Scelta del Partner. Immagine: © Christian Maurer - Fotolia.com -
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Per valutare le preferenze di genere nella scelta del partner i ricercatori hanno raccolto le opinioni di 3.177 partecipanti che hanno risposto a un sondaggio on-line; 10 i paesi coinvolti e classificati su una scala che misura il grado di divario di genere, la Global Gender Gap Index (GGI) – una misura che è stata recentemente introdotta dal World Economic Forum – che ha assegnato il valore minimo alla Finlandia e quello massimo alla Turchia. 

I risultati, replicati in un secondo studio che ha coinvolto 8.953 volontari provenienti da 31 nazioni, indicano che la differenza di genere nelle preferenze previste dai modelli evoluzionisti è il più alta nelle società in cui la disuguaglianza tra uomini e donne è maggiore, e più bassa nella maggior parte delle società in cui la disuguaglianza tende a scomparire.

Questi risultati mettono in dubbio la teoria evoluzionista per la quale le differenze di genere nella scelta del partner sarebbero determinate da adattamenti evolutivi che si sono  ancorati biologicamente al cervello maschile e femminile; tuttavia la matrice evolutiva di tali differenze non dovrebbe essere esclusa del tutto: infatti la capacità di modificare i comportamenti e gli atteggiamenti in tempi relativamente brevi, in risposta ai cambiamenti della società stessa, potrebbe essere sostenuta da un programma evolutivo che premia la flessibilità invece della rigidità.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Che trattamento ricevono i Bambini con Autismo in Europa?

 

Che trattamento ricevono i Bambini con Autismo in Europa? COST Action project Enhancing the Scientific Study of Early Autism (ESSEA)Il progetto ESSEA: “Enhancing the Scientific Study of Early Autism”, comprende oltre 50 ricercatori e clinici di 22 diversi Paesi Europei, ed è sembrato il contesto ideale per porsi una domanda solo apparentemente semplice: che trattamento ricevono i bambini con autismo in Europa?

Nonostante l’autismo sia ormai ampiamente conosciuto nella maggior parte degli stati membri dell’Unione Europea, poco si sa sull’accesso ai servizi di trattamento nei diversi Paesi.

Attualmente non ci sono informazioni sistematiche sui servizi disponibili per i bambini con autismo nei diversi Paesi Europei, siano questi interventi forniti nei servizi sanitari o nelle agenzie educative.

Ancora più preoccupante è l’assenza di informazioni sui cosiddetti trattamenti “alternativi”, che comprendono alcuni approcci per i quali non vi è alcuna evidenza scientifica di beneficio e altri che sono potenzialmente pericolosi.

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In Inghilterra il prof. Tony Charman, autore di numerose pubblicazioni e leader nella ricerca sull’autismo a livello mondiale, ha ricevuto fondi dalla European Science Foundation per organizzare una rete di scienzati in Europa per potenziare la ricerca sull’autismo.

Il progetto, denominato “ESSEA – Enhancing the Scientific Study of Early Autism”, comprende oltre 50 ricercatori e clinici di 22 diversi Paesi Europei, ed è sembrato il contesto ideale per porsi una domanda solo apparentemente semplice: che trattamento ricevono i bambini con autismo in Europa?

I ricercatori dell’Azione ESSEA hanno pertanto deciso di lanciare un sondaggio per raccogliere le prime informazioni su questo argomento. I genitori di bambini con autismo fino ai 6 anni di età sono invitati in tutta Europa a compilare un breve questionario online. Sarà loro chiesto di dire quali tipi di interventi e di servizi educativi sono attualmente disponibili per i loro bambini, dai servizi forniti da operatori sanitari, al nido e alla scuola materna ed elementare, fino ai trattamenti farmacologici e agli approcci complementari o alternativi.

Il questionario viene pubblicato su un sito web e sarà disponibile in tante lingue quante sono le nazioni coinvolte. In Italia, i genitori di bambini con autismo possono partecipare alla ricerca cliccando sul seguente link.

Sondaggio per i genitori:  CLICCA QUI PER PARTECIPARE AL SONDAGGIO

ATTENZIONE! RISERVATO AI GENITORI!!

I COLLEGHI RICERCATORI E TERAPEUTI POSSONO INVECE CLICCARE  QUI

Vi chiediamo di incoraggiare a partecipare chi, tra i vostri pazienti e conoscenti, possa essere interessato. Noi pensiamo che i genitori dei bambini con autismo saranno interessati a partecipare a questo studio davvero unico e importante.

Il questionario sarà aperto fino al 15 ottobre 2012. Chi fosse interessato a ricevere maggiori informazioni può contattare Erica Salomone, ricercatore referente per l’Italia a questo indirizzo email: [email protected].

Questa ricerca non aiuterà direttamente i genitori e le famiglie che vi prenderanno parte. Tuttavia, speriamo che le informazioni che raccoglieremo sulla disponibilità del trattamento per l’autismo in 20 diversi Paesi in Europa siano di beneficio in futuro e contribuiscano a sviluppare i servizi sanitari e le politiche dell’Unione Europa.

 PROFESSIONISTI: PSICOLOGI, PSICOTERAPEUTI, RICERCATORI, EDUCATORI

State of Mind ospita anche un sondaggio circa le opinioni dei professionisti della salute mentali sui disturbi dello spettro autistico. Segui questo link per partecipare!

Sondaggio per i professionisti:

CLICCA QUI PER PARTECIPARE AL SONDAGGIO PER GLI OPERATORI DELLA SALUTE MENTALE

 I risultati di queste due ricerche saranno pubblicati e commentati sulle pagine di State of Mind.

Stay Tuned! 

 

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3° Convegno Internazionale AUTISMI Le novità su diagnosi, intervento e qualità di vita. Riva del Garda (Trento), 15 e 16 ottobre 2012 - anteprima
EVENTO CONSIGLIATO: 3° Convegno Internazionale AUTISMI Le novità su diagnosi, intervento e qualità di vita. Riva del Garda (Trento), 15 e 16 ottobre 2012

Il mal di pancia di Kurt Cobain. Una possibile Autopsia Psicologica.

Everything is my fault
I’ll take all the blame
Aqua seafoam shame

All apologies- Kurt Cobain – Nirvana

Kurt Cobain. - Immagine: licenza d'uso Creative Commons 3.0 - Autore: Kurt Cobain. - Immagine: licenza d'uso Creative Commons 3.0 - Autore: Susan McGrane-Burke

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Quando ancora oggi ascolto Kurt Cobain (1967-1994), il cantante-chitarrista leader della rock band Nirvana (fondata a Seattle nel 1987), mi vengono in mente due stati d’animo: rabbia e disperazione.

In teoria sono due stati d’animo contrastanti, perché la disperazione ha un che di passivo, in inglese si parla di hopelessness, come essere senza speranza appunto. La rabbia è sicuramente uno stato d’animo più dinamico ed attivo e credo che sia quella che conferisca alla disperazione l’energia dirompente che caratterizza la musica dei Nirvana

Rabbia e disperazione. Come un prigioniero chiuso in una gabbia per tanti anni che grida la sua voglia di uscire.

Questo solo soffermandomi sulla voce, al di là dei contenuti. La struttura di molte delle canzoni dei Nirvana è molto semplice e diretta, con una formula che ha avuto un successo clamoroso: un riff di chitarra (va bene anche se un po’ scordata o comunque con un suono sporco), una strofa cantata in modo abbastanza soft e un ritornello che letteralmente esplode, urlato disperatamente.

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I Nirvana sono stati uno dei gruppi più importanti della scena indipendente di Seattle, che tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta è stata la mecca del grunge, un genere musicale con influenze rock e punk, che ha rappresentato i cambiamenti culturali dell’America di quel periodo, contagiando poi, come spesso succede, il resto del mondo.

Creatività Musicale & Psicopatologia: Quei geni skizzati del Bebop - Immagine: Licenza Creative Commons, Autore: Tom Palumbo
Articolo Consigliato: Creatività Musicale & Psicopatologia: Quei geni skizzati del Bebop

L’esplosione del gruppo è avvenuta con il secondo album Nevermind (1991) che ha venduto oltre dieci milioni di copie. Kurt Cobain è stato acclamato come portavoce involontario di “una generazione stanca di ascoltare le menzogne di genitori, governo e della musica delle radio commerciali” (Gaines, 1994), di una lost generation che si caratterizzava a partire dal look antifashion e un po’ sciatto: jeans strappati, capelli sporchi e tinti, t-shirt logore e le famigerate camicie di flanella a scacchi bianchi e rossi (modello tagliaboschi).

Paradossalmente sia la musica che il look grunge passarono in pochissimo tempo dall’essere forme di rottura alternative a divenire mode mainstream, imitate addirittura dai principali stilisti mondiali e il nostro fragile e sensibile artista non riuscì ad adattarsi a quello straordinario successo, e ai conseguenti cambiamenti che esso portò nella sua vita.

I testi dei Nirvana contengono stati d’animo di apatia, mancanza di speranza e rabbia contro un sistema sociale da cui Kurt si sentiva sempre più alienato, fino a scegliere il suicidio come via d’uscita dal disagio (anche se come per altre rockstar esistono tesi complottistiche che sostengono si sia trattato di un omicidio).

La storia di Kurt Cobain è ricca di aspetti psichiatrici e psicopatologici, culminati appunto con il gesto estremo. Vediamone alcuni.

Kurt era nato nel 1967 ad Aberdeen, una triste cittadina nello stato di Washington, sulla costa sud occidentale di Seattle, dove l’attività principale era costituita dall’industria del legname. Primo di due figli, durante l’infanzia soffrì della Sindrome da deficit di attenzione con iperattività (ADHD) e fu curato con il Ritalin (Metilfenidato). I genitori divorziarono quando aveva otto anni e il ragazzo crebbe “sballotato” tra diversi parenti. L’adolescenza fu caratterizzata da problemi nella condotta (vandalismo), esplosioni di rabbia con perdita del controllo e il consumo di sostanze stupefacenti, che continuerà per tutta la vita.

Kurt era dotato fin da piccolo di un grande talento artistico, inizialmente espresso attraverso le arti visive (frequentò una scuola superiore artistica) e successivamente nel songwriting. Iniziò a suonare la chitarra alle superiori attirato soprattutto dall’heavy metal e dal punk rock. Abbandonò la scuola poche settimane prima del diploma continuando a dedicarsi alla musica alle droghe e alla microcriminalità.

Circa due anni dopo fondò i Nirvana divenendone il leader e l’autore di musica e testi. Kurt sposò nel 1992 Courtney Love, la leader del gruppo femminile delle Hole e la coppia ebbe una figlia. Fu un matrimonio molto tumultuoso, caratterizzato da forti passioni, litigi violenti e riconciliazioni, abuso dichiarato di droghe come l’eroina, che fece perdere ben presto alla coppia la custodia della figlia, ritenuta non idonea al ruolo genitoriale.

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Oltre a periodi di depressione ricorrente, Kurt Cobain soffriva cronicamente di gravi dolori addominali, che sosteneva di riuscire a curare solamente attraverso l’effetto analgesico degli oppiacei, nella fattispecie l’eroina, di cui è stato dipendente per diversi periodi della sua vita. Abusava anche di altri analgesici.

In un intervista alla rivista Rolling Stone dichiarò che i dolori erano così forti che lo portano ad avere seri problemi di alimentazione, fino a sviluppare un’ideazione autolesiva, “…avrei voluto uccidermi ogni giorno. Ci sono andato vicino diverse volte. Mi sono trovato in tour, steso sul pavimento a vomitare aria, perché non andava giù neanche l’acqua…”.

Consultò diversi medici che non furono in grado di individuare la causa, considerando alternativamente una scogliosi infantile e lo stress. Pare che solo negli ultimi mesi della sua vita fosse stata individuata una vertebra spostata come causa del dolore, che beneficiò di un trattamento fisioterapico. Non possiamo però non ipotizzare e considerare anche il fattore psicogeno nella patogenesi di un dolore cronico così importante.

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
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A livello diagnostico, oltre a un evidente disturbo dell’umore e un importante abuso di sostanze, si possono rilevare dalla biografia dell’artista diversi criteri diagnostici DSM-IV (APA, 1994) tipici del disturbo di personalità borderline: impulsività, disturbi dell’alimentazione (anche se legati al dolore cronico), instabilità nelle relazioni, tentativi di suicidio.

Diversi studi sottolineano come le persone affette da depressione e da disturbo di personalità borderline presentino maggiore prevalenza di dolore cronico rispetto alla popolazione (Tragesser SL et al., 2010, Sansone e Sansone, 2012). Si ipotizza in particolare che le persone affette da disturbo di personalità borderline possano presentare un deficit di autoregolazione del dolore, oltre che delle emozioni. E’ stato dimostrato inoltre come eventi traumatici psichici (nel caso di Kurt la separazione dei genitori?) o sessuali nel periodo infantile possano predisporre l’insorgenza nell’adulto di sintomatologia dolorosa cronica e difficilmente trattabile (Schofferman et al., 1993).

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Non va inoltre trascurato il significato relazionale del dolore, nel tentativo di attivare di risposte di accudimento da parte delle figure di attaccamento. La letteratura ci mostra chiaramente come il dolore cronico figuri tra i fattori di rischio della comparsa di ideazione suicidiaria, dei tentativi autolesivi e del sucidio compiuto, con uno studio che si riferisce specificamente al dolore addominale nella popolazione ispanoamericana degli USA (Magni et al., 1998).

Possiamo dunque ipotizzare che il dolore addominale abbia avuto un ruolo fondamentale oltre che nell’abuso autoterapeutico di sostanze, anche nel favorire tendenze autolesive e suicidiarie dell’artista. In tema di autolesionismo, Kurt scrisse la canzone “I hate myself and I want to die”, che fu poi scartata dall’album In Utero (1993;…titolo delizioso per gli psicanalisti…), ma il cui contenuto è piuttosto esplicito, anche se il cantate sostenne in un’intervista che si trattasse di una frase ironica.

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Sono inoltre noti almeno due importanti tentativi autolesivi nel mese precedente al suicidio: prima Kurt fece un’ingestione incongrua di champagne e Roipnol (flunitrazepam) durante il tour europeo a Roma e successivamente si chiuse armato in una stanza a Seattle e fu costretto a uscire dalle forze dell’ordine chiamate dalla moglie. Come è noto, i tentativi di suicidio sono tuttora il principale fattore di rischio per il suicidio consumato (Owens et al., 2002). Probabilmente consapevoli di tale rischio, la moglie e i colleghi riuscirono a fare ricoverare per la disintossicazione Kurt in una clinica di Los Angeles, da cui però si allontanò poco dopo, trascorrendo gli ultimi giorni in solitudine.

Kurt Cobain si suicidò all’età di ventisette anni nel 1994 con un colpo di fucile nella sua casa di Seattle.

Era un amante delle armi che teneva regolarmente in casa, come molti americani. Anche la pronta disponibilità di mezzi letali è considerato un importante fattore di rischio suicidiario ed è il target di tante campagne di prevenzione (Sarchiapone et al., 2011).

Accanto al corpo c’era una lunga nota suicidiaria in cui Kurt raccontava il proprio profondissimo disagio da individuo ipersensibile quale era (“…penso che io amo troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile…!”) e la mancanza di entusiasmo nel continuare il lavoro di musicista che è ben sintetizzata nella frase di una canzone di Neil Young contenuta nella lettera “è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”.

Nella nota Kurt si rivolge alla moglie e alla figlia e pare mostrare un atteggiamento paradossalmente protettivo nei confronti di quest’ultima, a cui sembra tentare di giustificare il proprio gesto (“Non posso sopportare l’idea che Frances diventi una miserabile, autodistruttiva rocker come me”).

Le analisi tossicologiche hanno mostrato presenza di eroina e benzodiazepine. Il suicidio dell’artista non ha determinato il temuto effetto werther (fenomeno per cui la notizia di un suicidio pubblicata dai mezzi di comunicazione di massa provoca nella società una catena di altri suicidi) nei mesi successivi all’evento, nonostante l’enorme eco suscitato dalla vicenda sui media specializzati e non (Martin and Koo, 1996; Jobes et al, 1996). Questo può essere stato dovuto al modo corretto da parte dei media di trattare la notizia, enfatizzando l’artista, ma stigmatizzando il tragico gesto.

Anche il modo particolarmente violento con cui Kurt si è suicidato, ne ha allontanato l’immagine da quella di star solitaria romantica e incompresa, che si lascia morire in modo dolce dal sonno all’overdose, come ad esempio Marylin Monroe. Pare inoltre che sia stato molto efficace nel disincentivare i comportamenti imitativi, la diffusione di una registrazione in cui la moglie legge parti della nota suicidiaria, esprimendo sincere imprecazioni di rabbia e di profondo dolore per la perdita, che hanno reso l’evento molto reale, con poco spazio per il romanticismo o l’idealizzazione.

Il suicidio di Kurt Cobain e la conseguente “autopsia psicologica” pone l’accento su una categoria particolarmente a rischio su cui devono concentrarsi gli interventi di prevenzione: giovani uomini, dediti all’uso di sostanze, che non hanno compliance alle cure e che hanno accesso a mezzi autolesivi letali. We must care…!

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– LEGGI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SUL DISTURBO DI PERSONALITA’ BORDERLINE –

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Legame Fraterno: una Prospettiva Relazionale

 

Legame Fraterno: una prospettiva relazionale. - Immagine: © gekaskr - Fotolia.com

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Nell’ambito della letteratura psicologica e non solo, spesso si è parlato del legame connotandolo dei più svariati significati e attribuendovi diverse modalità relazionali.

La mia idea è quella di parlare del legame fraterno in una cornice di tipo sistemico-relazionale.

Quando si pensa a questo tipo di legame, spesso vengono in mente concetti come simmetria, pariteticità e somiglianza che portano alla costituzione di un legame basato sulla collaborazione (fratelli che vanno d’accordo e che collaborano tra loro) mentre, legami basati sulla competitività portano a un innesco reciproco di violenza (fratelli che non perdono occasione per litigare fino a giungere a delle escalation violente).

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Queste due tipologie di legame risultano utili per comprendere come il legame fraterno possa avere in sé delle differenze che, come ricordano Cigoli e Scabini (2000), sono differenze intese in senso Batesoniano: ogni informazione proveniente da altro da me è differenza che fa differenza e arricchisce il mio potenziale relazionale.

Infatti, come sostengono questi autori, “ogni figlio è il risultato dell’incontro di quattro generazioni, per cui il corredo genetico è solo in parte condiviso” (Cigoli e Scabini, 2000). Inoltre, ogni figlio ha un sesso distintivo, occupa un ordine di genitura, nasce in un certo periodo della vita familiare, è investito di attese specifiche da parte della parentela.

Quindi, parafrasando Cigoli, la relazione fraterna è come “un vincolo”, ovvero un legame di dipendenza e di connessione dei figli-fratelli con le generazioni precedenti. Questo vincolo implica che tra genitori e figli ci siano delle regole implicite/esplicite da rispettare (lealtà, rispetto).

Considerando il ruolo che gioca il caso, diversi studiosi si sono interessati a studiare le differenze relazionali in cui i fratelli sono implicati. In virtù di questo, la relazione fraterna se considerata nella sua matrice, va riferita al potenziale differenziante della famiglia, ovvero, alla capacità di questa di creare legami unici con ciascun nuovo nato.

La coppia in terapia- la prospettiva trigenerazionale. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Sulla base dei risultati della ricerca psicosociale e clinica di Cigoli e Scabini (2000) destano notevole interesse le differenze trovate nella relazione genitori-figli e le differenze riscontrate nella relazione tra fratelli. Infatti, è stato riscontrato che nella cementificazione del legame fraterno, avendo lo studio come categorie di riferimento il potenziale differenziante della famiglia e la sensibilità alla differenza da parte dei figli-fratelli, gioca un ruolo importante il fatto che la famiglia riesca o meno nel compito di differenziare tra di loro i figli, cioè, di conferirgli unicità personale.

La capacità della famiglia di riuscire a instaurare legami con i figli che abbiano caratteristiche di unicità e diversità è fondamentale, in quanto permette di rendere il legame di un figlio con un genitore diverso rispetto a quello che il genitore ha con l’altro figlio e questo evita omologazioni avventate tra legami che, in quanto costituiti da persone diverse, non possono essere uguali. Tuttavia, queste differenze di trattamento nei legami possono essere prodromo di potenziali conflitti fra fratelli nel caso in cui il trattamento ricevuto dal genitore non corrisponda alle aspettative del figlio.

Elemento, invece, che sembra accomunare i fratelli è l’incastro di coppia coniugale-genitoriale. Infatti, sempre nella ricerca Cigoli-Scabini, è emersa l’interdipendenza presente tra il legami di coppia (aspetto coniugale e genitoriale) ed il legame con i figli.

Sembrerebbe infatti, per i figli, che la qualità del rapporto tra i coniugi e e quello tra figli e genitori sia di grande importanza per lo sviluppo della relazione fraterna, nel senso che ne fa da matrice. Quindi, alle basi del legame fraterno, sembrano giocare un ruolo importante la relazione della coppia (coniugale-genitoriale) e la capacità della famiglia di creare legami differenti con ogni figlio al fine di evidenziarne l’unicità del legame stesso.

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BIBLIOGRAFIA:

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