Questo congresso di Ginevra rappresentava una cartina di tornasole sullo stato delle terapie cognitivo comportamentali in Europa. L’ EABCT è una vecchia società, giunta al suo 42esimo congresso, che da sempre raduna in Europa partecipanti da tutti i continenti, il suo congresso per molto tempo è stato il più importante luogo d’incontro internazionale per i clinici e i ricercatori d’area.
Ha avuto momenti trionfali, quando le terapie cognitivo-comportamentali, con la loro efficacia, sembravano spazzare via gli altri approcci e confrontarsi con forza con gli psichiatri e le ricerche di psicofarmacologia, con la sensazione che il nuovo paradigma fosse ineluttabile.
Poi da Helsinki (2008) fino a Reykjavik (2011) si è vista una grande crisi. Avanzavano approcci diversi con i pazienti difficili, e molti ricercatori e clinici si sentivano sempre più stretti nel confronto con certe rigidità e chiusure dei protagonisti della seconda ondata di Salkovskis, Clark e Fairburn. La reazione di alcuni è stata quella di lasciare e formare una propria società. Così hanno fatto Hayes, Young e Wells. Ma non è detto che abbiano fatto bene. La scelta di trovarsi solo tra adepti dello stesso orientamento non ci sembra creativa in questa fase.
Noi temevamo, andando a Ginevra, di trovare una società sclerotica e poco aggiornata con le nuove ricerche nate dalle riflessioni cliniche di chi approccia pazienti difficili e non riesce a adattare i modelli della seconda ondata ai pazienti complessi. Ma gli organizzatori del congresso sono stati molto bravi. L’esperienza e l’intelligenza di Lucio Bizzini e del suo gruppo ha saputo radunare le nuove correnti e ha portato al congresso esperienze e ricerche nuove e molto, molto interessanti. Certo, mancava un’intera generazione. Non c’erano i “vecchi” protagonisti che hanno contribuito a portare il cognitivismo a essere leader del mondo, mancavano Clark, Hayes, Salkovskis e Wells.
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Ma gli stessi organizzatori (e noi con loro) sono rimasti basiti di fronte alla ricchezza dei contribuiti di tantissimi giovani e poco meno giovani che portano ricerche importanti spesso in aree del tutto innovative.
Cosa sono le cose nuove? L’area di integrazione tra neuroscienze, neuropsicologia, imagery e psicoterapia(il tutto talvolta denominata audacemente neuropsicoterapia); le varie modalità di somministrazione della psicoterapia che affrontano le esigenze della modernità, come le Internet Based Psychotherapy (standard e individualizzata), la CBT a bassa intensità, ovvero adattata alla domanda clinica estensiva e non intensiva dei servizi pubblici, la prevenzione dei disturbi e applicazioni sociali delle tecniche CBT. La CBT insomma si adatta e lavora anche per formalizzare gli interventi con pazienti nuovi, gli anziani, i malati organici, i sex offenders.
Ma ci ha colpito anche la presenza di nazioni che fino a pochi anni fa erano presenti solo come fruitori di formazione dai paesi anglosassoni, e oggi producono ricerca originale su vari temi, dall’attaccamento, alla mindfulness, all’integrazione tra terapia e neuroscienze. Abbiamo assistito a lavori scientifici provenienti dalla Serbia, dalla Lettonia, dalla Tunisia. La sensazione è di una grande vitalità e di un cambiamento in atto che non si può non guardare con interesse. L’Italia ha fatto la sua parte. In futuro forse la crisi della vecchia egemonia di seconda ondata potrà aprire a paesi di seconda linea la possibilità di essere ascoltati e di contribuire con ricerche originali al mainstream del cognitivismo.
Chi è rimasto nelle EABCT ha chiaro che certi trionfalismi che vorrebbero mettere sotto un’unica etichetta tutta la creatività clinica e scientifica hanno (in parte) fallito o perlomeno non hanno potuto rispettare certe promesse eccessive e che ora l’assetto integrativo e curioso verso il nuovo, da qualunque parte esso arrivi, è la posizione scientifica migliore. Meno profeti e più clinici e scienziati. Una grande lezione di maturità della cultura clinica e scientifica europea.
Una nuova ricerca condotta al National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism (NIAAA) e all’UNC’s Bowles Center for Alcohol Studies fa luce sul meccanismo che lega l’alcolismo ai disturbi d’ansia, in particolare il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). L’uso di alcol provocherebbe un “ricablaggio” nei circuiti cerebrali, rendendo più difficile il recupero psicologico a seguito di una esperienza traumatica. Ciò che risulta compromessa è la capacità, normalmente insita in ognuno, di andare incontro a una spontanea desensibilizzazione rispetto all’evento traumatico subito, in modo tale che questo con il tempo non risulti più ansiogeno e temibile. L’esposizione cronica all’alcol infatti rende deficitario il controllo centri cerebrali emozionali da parte dei centri cerebrali cognitivi.
Per un mese, i ricercatori hanno somministrato a un gruppo di topi dosi di alcool equivalenti al doppio del limite legale di guida negli esseri umani. Un secondo gruppo di topi a cui non è stato somministrato alcol è stato usato come controllo. I topi sono poi stati condizionati con lievi scosse elettriche a temere il suono di una nota. Quando la nota è stata suonata più volte senza essere accompagnata dalla scossa elettrica, i topi che non erano stati esposti all’alcool hanno gradualmente smesso di averne paura. I topi con esposizione cronica all’alcool, invece, hanno continuato a immobilizzarsi dalla paura ogni volta che hanno sentito il suono della nota, e questo anche molto tempo dopo che le scosse elettriche non venivano più somministrate.
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Il comportamento è simile a quello osservabile nei pazienti con PTSD, che hanno difficoltà a superare la paura, anche quando non sono più in una situazione pericolosa. Confrontando i cervelli dei topi, i ricercatori hanno notato che le cellule nervose nella corteccia prefrontale dei topi esposti all’alcool avevano una forma diversa rispetto a quelle degli altri topi. Inoltre, l’attività di un recettore chiave, il NMDA (recettore postsinaptico dell’acido glutammico), risulta soppressa nei topi trattati con dosi massicce di alcool.
Andrew Holmes, autore principale dello studio, ritiene che questi risultati siano importanti perché individuano esattamente il luogo in cui l’alcool provoca danni responsabili dell’impossibilità a superare la paura. “Non stiamo solo vedendo che l’alcool ha effetti negativi su un processo emotivo clinicamente importante, ma siamo in grado di offrire una certa comprensione su come l’alcool potrebbe farlo interrompendo il funzionamento di alcuni circuiti cerebrali molto specifici“, ha detto Holmes. “Una storia di abuso di alcool può compromettere un meccanismo fondamentale per il recupero dal trauma, e in tal modo esporre le persone a maggior rischio di PTSD; il prossimo passo sarà quello di verificare se i nostri risultati preclinici possono essere applicati a pazienti affetti da PTSD in comorbidità con l’abuso di alcool“. Comprendere il rapporto tra alcool e l’ansia a livello molecolare potrebbe offrire nuove possibilità per lo sviluppo di farmaci per aiutare i pazienti con disturbi d’ansia che hanno anche una storia di abuso di alcool.
Nella piovosa Ginevra si è tenuta la quarantaduesima edizione dell’EABCT, dal titolo:”Psychotherapy and Neuroscience: Evidence and Challenges for CBT“.
Come è possibile evincere dal titolo, lo scopo di questo congresso era di stabilire un link tra la patologia mentale e neuroscienze, in particolare le tecniche che studiano le attivazioni di determinate aree cerebrali.
Diverse sono state le sessioni in cui si è parlato di questa relazione e di questo futuribile scambio di informazioni da utilizzare anche in psicoterapia.
Fondamentalmente le neuroscienze costituiscono una delle componenti più importanti all’interno del background scientifico contemporaneo. Infatti, risultano essere una commistione di discipline che provano ad indagare e verificare attraverso i correlati neurali i comportamenti osservabili. L’italiano Tullio Scrimali, azzarda l’utilizzo di rilevazioni elettrodermiche e elettroencefalografiche durante degli step di psicoterapia, allo scopo di avanzare nuove ipotesi di intervento, ma attualmente oltre al biofeedback non è possibile capire in che modo queste rilevazioni possano aiutare la psicoterapia se non nella rilevazione di una emotività latente che spesse volte traspare limpida all’occhio del bravo terapeuta.
Durante il congresso molti sono stati gli interventi atti voler indagare cose succede nella mente di una persona che soffre di una patologia in Asse I. Si parte con i correlati neurali dell’ansia sociale; in questi pazienti, rispetto ai controlli sani, si attiva maggiormente l’amigdala, l’insula, la parte mediale del talamo e, l’immancabile, corteccia prefrontale mediana. Dopo una sessione di appraisal è possibile osservare una minore attivazione delle aree in questione rispetto ai controlli. Quindi, l’intervento psicoterapeutico aiuta a far funzionare meno alcune aree. Ma in termini terapeutici questo minor funzionamento come si traduce? A confermarlo sarà un nuovo studio realizzato in Svezia dal gruppo di Stain e collaboratori (2012).
Conclusioni: la psicoterapia, intesa come processo di riapprendimento attraverso costruzione di scenari alternativi, aiuta a far funzionare meno aree e circuiti inerenti all’ansia. Nessuna risposta su come avviene il cambiamento terapeutico e cosa cambia, ma solo quanto cambia.
Prontamente si passa dall’ansia alla depressione in cui si rileva un maggior funzionamento del nucleo accumbens e del circuito talamico-pallido-corticale-striatale-limbico, che risulta essere catecolamine dipendente. Anche in questo caso dopo un percorso terapeutico, non meglio specificato, e una cura farmacologica ad hoc, si rileva una riduzione del funzionamento di queste aree. Altri ancora affermano che sempre con la depressione oltre alla tecnica standard di base terapeutica è possibile usare una strategia basata sulla mindfulness. In questo caso nei pazienti depressi si ha una un aumento dell’attività dell’amigdala e della corteccia prefrontale.
Si passa poi alla schizofrenia dove è possibile riscontare l’attivazione di aree affini a quelle precedenti che dopo task cognitivi proiettati al computer si attivano in maniera sostanzialmente minore.
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Per concludere, in uno studio si esplorano i correlati neurali specifici della terapia cognitiva. Lo scopo era di individuare qual è l’impatto della CBT sui circuiti neuronali e se ci fossero differenze con la farmacoterapia. I risultati dimostrano che alcuni network cognitivi si modificano sostanzialmente con la psicoterapia. Ma di quali circuiti si tratta? Sempre degli stessi, ovvero la corteccia prefrontale l’amigdala, il talamo e alcuni nuclei sottocorticali.
Concludendo la CBT opera cambiamenti a livello della mente e del cervello! Naturalmente senza distinguere tra nessun tipo di disturbo e tra nessuna area in particolare. Quindi, secondo questo studio (Loftus, 2012), le neuroimaging dovrebbero essere un ottimo coadiuvante da inserire nei protocolli terapeutici. In che modo?
Morale della favola ginevrina: ci sono molti studi di neuroimaging e molti altri se ne faranno, ma ad oggi la psicoterapia può utilizzare queste tecniche per affermare se sostanzialmente qualcosa cambia. Le neuroimaging non sono supportive al cambiamento terapeutico, ma rilevano un cambiamento e, il più delle volte, non specifico ma generico.
Immagine: una scena del film Harry ti presento Sally (1989)
“No, no no no no, non l’ho mai detto! … Sì, hai ragione, non possono essere amici. Cioè, se tutti e due stanno con qualcun altro allora sì, è l’unico emendamento alla regola d’oro: Se due persone stanno con altri la possibilità di un coinvolgimento diminuisce. E non funziona lo stesso, perché allora la persona con cui stai non capisce perché devi essere amico della persona di cui sei solo amico, come se mancasse qualcosa al rapporto e dovessi andare a cercartelo fuori. E quando dici -no, no, no, non è vero, non manca niente al rapporto- la persona con cui stai ti accusa di essere segretamente attratto dalla persona di cui sei solo amico, il che probabilmente è vero. Insomma parliamoci chiaro, vale la regola d’oro, si abolisce l’emendamento: uomini e donne non possono essere amici. Vieni a cena con me?”
Così recitava Billy Crystal nel film del 1989 Harry ti presento Sally a proposito della possibilità che un uomo e una donna possano intrattenere un’autentica relazione d’amicizia e la trama del film gli dà ragione: Harry e Sally assisteranno alla metamorfosi del loro rapporto d’amicizia in un’intensa storia d’amore.
Pare proprio che Nora Ephron, sceneggiatrice del film deceduta lo scorso mese, avesse già intuito gran parte dei risultati della ricerca condotta da Bleske-Rechek proprio in merito ai rapporti di amicizia tra maschi e femmine. La professoressa dell’Università del Wisconsin e il suo team hanno intervistato 88 coppie di sesso opposto protagonisti di una relazione d’amicizia della durata di almeno due anni.
I risultati ci dicono che gli uomini provano maggiore attrazione verso le amiche che non viceversa, sovrastimano l’attrazione di quest’ultime nei loro confronti e il loro desiderio di frequentare le amiche, così come l’attrazione verso di loro, non è affatto influenzata dal fatto che stiano vivendo nel contempo una relazione amorosa con altre. Le donne invece dichiarano una riduzione del desiderio di uscire con gli amici maschi se già impegnate in una storia d’amore ed una ridotta attrazione nei loro confronti.
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La psicologia evolutiva spiega tali riscontri nei termini di una maggiore selettività femminile nella scelta dei partner giustificata da un ridotto periodo di fertilità e dai costi della gestazione, mentre gli uomini, implicitamente descritti come eternamente dediti alla diffusione del loro seme, sarebbero molto più disponibili ad incontri amorosi, espandendo il territorio di caccia anche alle relazioni amicali.
Risulta a mio parere più interessante un secondo studio che ha voluto investigare come le persone si confrontano con il desiderio sessuale eventualmente nutrito nei confronti degli amici di sesso opposto.
Il campione questa volta è stato suddiviso per età. Il campione giovane, con età media di 19 anni, presenta una percentuale di soggetti impegnati in relazioni amorose del 38%, mentre il campione adulto, con età media di 37 anni è composto da persone sposate per il 90%.
I giovani mostrano complessivamente molta più attrazione verso il partner amicale di quanto non dichiarato dal campione adulto, fatta eccezione per quella piccola percentuale di single incalliti che manifestano livelli di attrazione pari a quelli dei giovani.
Curioso notare come l’attrazione nei confronti di un amico nell’intero campione sia percepita molto più spesso come un peso che non come un beneficio . Per le giovani donne e per gli uomini e le donne del campione più maturo l’attrazione verso gli amici comporta una minore soddisfazione nel rapporto di coppia. I giovani ometti ancora una volta sembrano invece non essere minimamente disturbati dal loro impulso predatorio, del resto è l’evoluzione che li vuole così!
Tirando le somme pare che l’attrazione sessuale tra amici di sesso opposto sia esperienza comune e percepita come un costo piuttosto che come un beneficio. Chissà che non sia proprio tale giudizio a rendere complicato gestire la relazione d’amicizia piuttosto che il fatto di sentirsi semplicemente attratti dall’altro.
Harry ci aveva comunque avvisati con un paio di decenni d’anticipo : “Insomma parliamoci chiaro, vale la regola d’oro, si abolisce l’emendamento: uomini e donne non possono essere amici”, a meno che non si riesca a contemplare la possibilità che un po’ di attrazione fisica non guasti né al rapporto di amicizia né tantomeno ad eventuali relazioni amorose contemporaneamente coltivate.
E voi, che ne pensate del vostro amico del cuore?!
BIBLIOGRAFIA:
Bleske-Rechek A., Somers, E., Micke, C., Erickson, L., Matteson, L., Stocco, C., Schumacher, B., and Ritchie, L. (2012). Benefit or burden? Attraction in cross-sex friendship. Journal of Social and Personal Relationships. DOI: 10.1177/0265407512443611
Secondo una ricerca condotta all’Università di Iowa la consapevolezza di sé è il prodotto di un mosaico di percorsi nel cervello. La ricerca è in contrasto con la teoria che tre regioni del cervello siano fondamentali nella consapevolezza di sé: la corteccia insulare, la corteccia cingolata anteriore e la corteccia mediale prefrontale.
A queste conclusioni gli scienziati sono giunti dopo avere avuto la rara opportunità di studiare una persona con gravi danni cerebrali in tutte e tre queste regioni cerebrali.
L’uomo in questione, un 57 enne laureato, chiamato convenzionalmente il “paziente R”, ha superato tutti i test standard di auto-consapevolezza e ha dato ripetute prove di riuscire a riconoscersi allo specchio e in fotografie relative a diverse epoche della sua vita; inoltre, nel corso di una lunga intervista, ha dimostrato profonda capacità introspettiva e di riuscire a comprendere chiaramente che ogni azione da lui compiuta è la conseguenza di un intenzione.
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Di sé ha dato questa descrizione “Io sono solo una persona normale con un brutto ricordo”. Cioè che il paziente ha perso, a causa di un danno ai lobi temporali, è la capacità di aggiornare i nuovi ricordi nel suo “sé autobiografico”, provocandogli una grave amnesia anterograda. (LEGGI ANCHE: ARTICOLI SULLA MEMORIA) Al di là di questo deficit, tutte le altre funzioni legate alla consapevolezza di sé sono, secondo i ricercatori, rimaste fondamentalmente intatte.
Secondo David Rudrauf, Ph.D., co-autore dello studio, questa ricerca dimostra chiaramente che la consapevolezza di sé corrisponde a un processo che non può essere localizzato in una singola regione cerebrale; è molto probabile che questa emerga invece da interazioni diffuse e ampiamente distribuite tra le reti delle regioni cerebrali; le aree che giocherebbero un ruolo in tale processo sono il tronco cerebrale, del talamo e corteccia posteromediali.
Abbiamo già parlato del contributo di Liotti al congresso EABCT. La presenza italiana prevedeva altri importanti contributi. I simposi a cui ha partecipato Giancarlo Dimaggio (Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma) erano naturalmente focalizzati sul modello di metacognizione sviluppato dal nostro collega in collaborazione con Antonio Semerari e gli altri membri storici del Terzo Centro di Roma.
La presenza di Dimaggio al congresso EABCT è un evento interessante. Per varie ragioni, finora il modello metacognitivo-interpersonale dei colleghi di Roma si era diffuso soprattutto nell’ambiente più ecumenico della Society for Psychotherapy Research. Questo suggeriva una sorta di vocazione interdisciplinare e una sorta di desiderio di smarcarsi dal modello cognitivo standard. Tuttavia, è pur vero che a sua volta l’EABCT si distacca dal modello cognitivo standard, aprendo le porte alla mindfulness e alle nuove ricerche di terza ondata.
Finora il modello metacognitivo dominante nel campo EABCT è stato quello di Adrian Wells. La presenza di Dimaggio consente di paragonare i due modelli. Si tratta in entrambi i casi di modelli processuali. I processi di Wells, però, sono soprattutto di tipo attentivo e quindi tendenzialmente intrapsichici. I processi descritti da Dimaggio e Semerari sono invece più di tipo interpretativo (identificazione degli stati mentali) e interpersonali (consapevolezza degli stati mentali dell’altro come separati dai propri).
Il modello “romano” mette più l’accento sulle funzioni per così dire positive della metacognizione, quelle che più ci consentono di gestire in maniera produttiva e sana il pensiero. Il modello “manchesteriano” sembra invece insistere sulle possibili conseguenze negative della metacognizione: la produzione di pensieri secondari disfunzionali e dannosi, il cosiddetto meta-rimugino (meta-worry). Sembra quasi una differenza tra razionalismo continentale fiducioso verso la moltiplicazione degli stati mentali ed empirismo anglo-sassone teso alla massima economizzazione dei pensieri. Entrambi i modelli mantengono un interesse verso il disputing dei contenuti cognitivi distorti, ma come una sorta d’intervento preparatorio.
Il simposio presieduto da Dimaggio era molto internazionale. Il nostro collega è riuscito a richiamare l’interesse di gruppi stranieri che hanno adottato il suo modello e lo stanno applicando a vari disturbi, non solo di personalità. In particolare, Matthias Schwannauer dell’Università di Edimburgo, Angus MacBeth dell’Università di Glasgow, Katja Koelkebeck dell’Università di Muenster e Toshiya Murai dell’Università di Kioto stanno applicando il modello metacognitivo-interpersonale ai disturbi psicotici.
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Francesco Aquilar dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Cognitiva e Sociale (AIPCOS) di Napolie Mauro Galluccio dell’European Association for Negotiation and Mediation (EANAM) proseguono il loro lavoro, molto originale e sperabilmente proficuo per il benessere del nostro pianeta, di applicazione dei principi cognitivi ai negoziati politici internazionali. Naturalmente il modello adotta molti principi della cognizione sociale e interpersonale.
Tullio Scrimali dell’Università di Catania continua a sviluppare il suo modello di trattamento cognitivo delle psicosi e partecipando al tentativo, molto presente in questo congresso, di ancorare la psicoterapia alle neuroscienze (Freeston già parla di “fourth wave”, quarta ondata. Ma non è un po’ presto?).
Anche Barbara Basile, collaboratrice di Francesco Mancini all’Associazione di Psicoterapia Cognitiva di Roma ha portato un contributo che mette in relazione variabili cognitive e neurologiche, analizzando le basi cerebrali del senso di colpa nel disturbo ossessivo.
Antonio Pinto del Centro di Psicoterapia cognitivo-comportamentale di Napoli si occupa di terapia cognitiva delle psicosi, ma si aggancia alla mindfulness e ai principi dell’accettazione e pare meno interessato alle neuroscienze. Segnaliamo anche il grande lavoro di coordinamento organizzativo di Antonio Pinto, membro sempre più prestigioso e rispettato del Board direttivo dell’EABCT.
Il gruppo di Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero delle Scuole di specializzazione in terapia cognitiva “Studi Cognitivi” e “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” di Milano ha portato i suoi contributi nelle sue aree di passione e competenza: le basi cognitive dei disturbi alimentari (in collaborazione con Ronald Rapee della Macquarie University di Sydney), dei disturbi d’ansia, dei disturbi dissociativi (area di competenza della nostra sede distaccata di Firenze coordinata da Carmelo La Mela) e nelle dipendenze (area padroneggiata dai ricercatori della nostra sede distaccata di Modena e coordinati da Gabriele Caselli).
Gioia Bottesi dell’Università di Padova ha portato un lavoro sul modello dell’intolleranza dell’incertezza di Michel Dugas. Laura Tieghi del Centro GRUBER di Bologna (diretto da Romana Schumann) ha parlato di assertività nella bulimia. Roberto Cattivelli dell’Università di Parma ha presentato un lavoro sull’acceptance and committment therapy. Fabrizio Didonna della Casa di Cura Villa Margherita di Vicenza ha portato un lavoro dedicato alla mindfulness. Angela Ganci dell’Istituto Beck di Roma (diretto da Antonella Montano) si è occupata di trattamento e neuroscienza delle allucinazioni. Cristina Terribili del Gruppo Accademia di Ricerca e Formazione Clinicopedagogica e Psicosociale di Roma ha trattato l’integrazione di terapia cognitiva e psicofarmaci. Davide Coradeschi e Andrea Pozza dell’Università di Firenze hanno analizzato l’efficacia della terapia comportamentale nel disturbo ossessivo compulsivo mentre nello stesso simposio Annunziata Larosa del Miller Institute, Genova ha validato un interessante strumento di valutazione della confusione inferenziale.
Miles Davis (1926-1991): uno dei massimi esponenti della scena jazz per oltre mezzo secolo. Immagine: Tom Palumbo
Il rapporto tra creatività musicale (ma anche creatività artistica in genere) e psicopatologia è dibattuto da anni. Diversi autori hanno evidenziato una chiara relazione tra creatività e disturbi affettivi (Andreason 1987; Jamison, 1993) e tratti di personalità patologici (Post, 1994).
Le conclusioni di queste ricerche mettono in evidenza come le persone che lavorano in ambito artistico presenterebbero un maggior numero di problematiche psichiatriche e per periodi più prolungati rispetto a coloro che svolgono altre professioni.
E’ stata persino ipotizzata una base genetica comune per la creatività e la psicopatologia, con esclusione delle psicosi (Eysenk, 1995). La relazione ad esempio tra creatività e disturbi affettivi, disturbo bipolare in particolare, è stato evidenziato ripetutamente dalla letteratura (Jamison, 1993). Si è ipotizzato che la psicopatologia possa contribuire al processo catartico o che indirizzi in qualche modo la fase creativa, la quale però solitamente si concretizza quando l’individuo sta sufficientemente bene.
La principale difficoltà nel condurre questi tipi di studi consiste innanzitutto nel reperimento delle informazioni sulla sintomatologia psicopatologica, che vengono desunte dalle biografie ufficiali degli artisti. Una biografia redatta da un giornalista non ha certo la validità di un questionario somministrato da un ricercatore o dall’anamnesi raccolta da un clinico, anche perché i libri vengono scritti per essere venduti e amplificare un po’ le condotte tipiche della vita bohemien, che in psichiatria possono essere considerati “sintomi” (abuso di alcol e sostanze, promiscuità sessuale, acting out da rockstar…) aumenta l’interesse del pubblico per il personaggio.
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Volendo giocare un po’ con la psicoanalisi, si può ipotizzare addirittura che il pubblico medio borghese proietti e identifichi le proprie parti di sé trasgressive e inaccettabili sull’artista e sulla sua arte, che viene quindi sacrificato sull’altare della buona società, in una sorte di circolo vizioso distruttivo ed autodistruttivo.
La musica jazz è considerata a ragione come una delle espressioni musicali più importanti e rappresentative del ventesimo secolo.
Autorevoli studiosi si sono concentrati sull’analisi degli aspetti psicopatologici dei protagonisti del periodo più importante del jazz moderno, la cosiddetta era del Bebop, che va dal dopoguerra agli anni sessanta. Il periodo successivo è stato caratterizzato da un ulteriore evoluzione della musica verso quello che è stato definito Free Jazz, ma nell’immaginario collettivo il jazz classico è identificato con il Bebop.
Wills (2003) ha analizzato le biografie di 40 jazzisti, veri innovatori del proprio strumento (tra questi tromba, trombone, sax, piano, chitarra, batteria e vibrafono) e dalle rivoluzionarie capacità compositive e di improvvisazione, per la maggior parte di origine afro-americana (65%), cercando di trasformare i dati biografici in ipotesi diagnostiche in base ai criteri del DSM-IV (APA, 1994). L’autore evidenzia come circa il 30% del campione abbia sofferto di disturbi dell’umore, il 30% di alcolismo, ben il 52% di dipendenza da eroina e il 7,5% di disturbi psicotici, tutte percentuali molto più alte rispetto alla popolazione generale.
Ad esempio per il pianista Bud Powell, è stata ipotizzata la diagnosi spesso dibattuta di disturbo schizoaffettivo, probabilmente favorito dalle percosse di un poliziotto all’età di 21 anni, causa anche di crisi epilettiche. Il disturbo ha determinato diversi ricoveri in ambito psichiatrico per presenza di aspetti paranoici, accelerazione del pensiero fino alla “fuga delle idee” e probabili allucinazioni uditive (veniva spesso visto a ridere da solo).
Il contrabbassista Charles Mingus soffriva di un disturbo ciclotimico, che ha pure necessitato l’ospedalizzazione, caratterizzato da ipomaniacalità, irascibilità, grandiosità e aspetti paranoidi. Il trombettista Miles Davis, che a differenza di molti altri riuscì a sopravvivere agli eccessi giovanili coronando una lunga carriera di successi, fu colpito da una forma di depressione reattiva alla dolorosissima anemia falciforme di cui soffriva.
Rispetto agli aspetti di personalità Wills si è concentrato sul cosiddetto sensation seeking (Zuckerman, 1994), cioè la tendenza a cercare nuove, variegate e intense sensazioni ed esperienze a costo di mettere in atto condotte rischiose. E’ stato notato come questo tipo di atteggiamento caratterizzi i disturbi di personalità del Cluster B (tipo drammatico) e che sia legato anche alla creatività, nella forma del cosiddetto pensiero divergente, un modo di processare l’esperienza cognitiva meno basato sulla logica, ma più sulle libere associazioni, sulle connessioni improbabili, sul brainstorming e sullo stream of consciousness (McCrae, 1987). E’ molto probabile che questa attitudine sia fortemente funzionale all’improvvisazione che troviamo nel jazz, e che lo distingue da altre tipologie di musica.
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Circa il 12% dei soggetti inclusi nel campione mostravano queste caratteristiche in particolare sotto forma di disinibizione comportamentale (uno dei fattori del sensation seeking) rispetto alle sostanze e al sesso.
Il saxofonista Charlie Parker, morto di polmonite a 34 anni, eccedeva di regola con il cibo, l’eroina, l’alcol (la leggenda narra che riuscisse a bere sedici whisky doppi in due ore…non male) e le donne. Il trombettista Chet Baker era invece appassionato di speedball (mix di eroina e cocaina) Non furono da meno i sassofonisti Art Pepper e Stan Getz.
Nell’analizzare questi dati è d’obbligo considerare il periodo storico e il contesto in cui questi musicisti sono vissuti: l’America del McCartismo e della segregazione razziale, in cui artisti di colore tentavano di proporre una musica spesso clandestina e contraria all’establishment. Questo ha sicuramente influito sullo stile di vita sregolato rappresentando un fattore di rischio in grado di condizionare la salute mentale.
I jazzisti in quell’epoca erano costantemente in tour, spesso sottopagati, lavorando prevalentemente nelle ore notturne in locali dove l’alcol scorreva generoso. Per quanto riguarda il massiccio abuso di eroina caratteristico del dopoguerra, è opportuno considerare l’ignoranza che c’era in quegli anni rispetto alle possibili conseguenze negative della sostanza sull’organismo. Prova di ciò è che le generazioni successive di jazzisti non hanno avuto questa abitudine in modo così massiccio.
Non possiamo però trascurare il fattore di predisposizione individuale al sensation-seeking a cui ho accennato in precedenza, al di là delle influenze ambientali. Si potrebbe speculare che persone creative e dotate di questo aspetto della personalità vengano attratte in modo naturale dal mondo della musica o dell’arte. Questo è risultato ancora più evidente in seguito, analizzando le biografie di tanti musicisti rock, finiti male per i propri eccessi. Ma anche in precedenza, come nella Parigi di fine secolo, era nota la dedizione all’oppio di Picasso e all’alcol di Modiglioni e Toulouse-Lautrec, solo per citare qualche esempio.
Questi studi dimostrano come gli artisti possano soffrire di disturbi psichiatrici anche gravi con percentuali superiori alla media e nonostante questo produrre opere eccezionali.
Molti restano spiazzati da questi risultati in quanto gli stessi disturbi possono avere effetti molto distruttivi su altre funzioni mentali. Ciò che chi tenta di curare dovrebbe ricordare sempre è che l’individuo non viene completamente annullato dal disturbo mentale e che soprattutto non può essere rappresentato completamente da una diagnosi, soprattutto del DSM-IV, V, VI, etc…
Secondo una ricerca internazionale condotta alla Duke University l’uso persistente di marijuana prima dei 18 anni provocherebbe danni cognitivi permanenti alle funzioni intellettive, attentive e mnestiche.
Madeline Meier ha seguito un gruppo di 1.037 bambini nati nel 1972-73 a Dunedin, Nuova Zelanda, dalla nascita ai 38 anni . Circa il 5 per cento di loro sono stati considerati dipendenti dalla sostanza, o ne facevano uso più di una volta la settimana prima dei 18 anni.
Un utente dipendente è colui che continua ad utilizzare la sostanza nonostante significativi danni per la salute, problemi sociali o familiari, ha spiegato Meier. All’età di 38 anni a tutti i partecipanti sono stati somministrati test psicologici per valutare la memoria, la velocità di elaborazione, il ragionamento e l’elaborazione visiva.
I risultati dello studio mostrano che chi ha iniziato a fumare cannabis in adolescenza, e ha continuato negli anni successivi, ha ottenuto punteggi significativamente peggiori nella maggior parte dei test cognitivi e ha mostrato un calo medio del QI di 8 punti; inoltre smettere di farne uso non sembra avere l’effetto di ripristinare le funzioni cognitive. Amici e parenti intervistati nell’ambito dello studio avevano una maggiore probabilità di riferire che i fumatori abituali d’erba avevano problemi di attenzione e memoria.
La variabile chiave è l’età, infatti chi, tra i soggetti di studio, ha iniziato fumare marijuana solo dopo i 18 anni non ha mostrato un uguale calo nelle funzioni cognitive in questione.
Prima dei 18 anni il cervello è ancora in fase di organizzazione e ristrutturazione e quindi maggiormente vulnerabile ai danni derivanti dall’assunzione di farmaci e droghe.
Un QI alto correla con una maggiore istruzione e reddito, una salute migliore e una vita più lunga, “Chi perde 8 punti di QI nell’adolescenza può essere svantaggiato rispetto ai suoi coetanei anche negli anni a venire“, ha detto Meier.
Il trattamento cognitivo dei disturbi d’ ansia avviene adattando il modello generale del disputing cognitivo agli specifici tipi di pensiero negativo di ogni singolo disturbo d’ ansia. Il che vuol dire che le varie diagnosi di ansia che possiamo trovare nel DSM-IV corrispondono ognuna a diverse varietà di timori, di paure, di eventi temuti e di convinzioni su come potrebbero verificarsi gli eventi tenuti e su come fronteggiarli.
L’ ansia, ripetiamolo, è una previsione negativa, la preoccupazione riguardo la possibilità che eventi dolorosi o dannosi possano accadere. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, il terapeuta cognitivo agisce a vari livelli. Egli chiede al paziente cosa esattamente teme e di quali eventi ha paura. Poi si accerta in maniera più dettagliata come e quando potrebbero verificarsi questi eventi.
Chiede poi al paziente di riflettere introno alla reale probabilità che questi eventi si verifichino e alla gravità di questi eventi, ai danni reali che questi eventi potrebbero arrecare. Questa è la parte di disputing più legata alla realtà esterna, a eventi concreti più o meno dannosi. Si tratta di incrementare l’esame di realtà del paziente.
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Lavorando su questi parametri, è possibile sdrammatizzare molte delle disgrazie e delle sciagure temute dal paziente. Si può riflettere, ad esempio, su come un certo evento calamitoso non sia così probabile, o addirittura è molto improbabile. Si può riflettere sul concorso di circostanze che rendono l’evento possibile o pericoloso, e su quanto questo concorso sia probabile.
Il passo successivo è riflettere sul perché, secondo il paziente, questi eventi temuti potrebbero verificarsi e sul perché essi sarebbero così dolorosi o catastrofici. Si tratta di un passo avanti verso l’interiorità, anche se non si può definire ancora un passo definitivo.
Scopriremo, quindi, che per il paziente l’evento è pericoloso non solo in sé, come evento dannoso, ma soprattutto perché egli se ne ritiene responsabile. O perché egli ritiene che dipenda da una sua imperfezione, da un suo errore. O anche perché ritiene che, sebbene la probabilità dell’evento sia bassa, per lui o lei è tuttavia intollerabile la sua semplice possibilità, il fatto che possa avvenire.
Infine, il paziente potrà riferire che, sebbene egli/ella si renda conto che l’evento in sé non è poi così materialmente dannoso tuttavia per lui/lei è comunque soggettivamente troppo sgradevole sopportare quell’evento. Pensiamo per esempio a certe situazioni lievemente imbarazzanti, ma temutissime da alcuni.
Si tratta di valutare e considerare le convinzioni del paziente che fanno sì che un certo evento sia temuto non per il suo valore di danno materiale ma come evento soggettivamente sgradevole.
Valutando queste convinzioni si attraversa una regione intermedia tra mondo esterno e mondo interiore. Eppure anche le reazioni interiori possono essere sottoposte a critica. Anzi, si tratta di un passaggio fondamentale, in un certo senso il vero inizio della terapia. In questo caso non si tratta più di riflettere su quel che potrebbe accadere, ma su come il paziente interpreta quel che potrebbe accadere.
Il tragitto, in genere, si conclude sugli stati interiori del paziente e sulla loro descrizione, con il fine di valutare il reale livello di sofferenza del paziente, la possibilità di ripensare questi stati d’animo in misura meno minacciosa e terrificante.
Insomma si tratta di promuovere la convinzione di poter tollerare gli stati di sofferenza emotiva, oltre a diminuirne la portata ristrutturandoli.
Storie di terapie #12 – La Gelosia della Bella Caterina
STORIE DI TERAPIE
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
Caterina è una di quelle pazienti che si mantengono in pericoloso equilibrio sul filo sospeso tra simpatia e seduzione e che pongono particolari problemi al terapeuta. Consapevole della sua bellezza di ventinovenne, Caterina mostra con fierezza i suoi capelli tendenti al rosso ma ancora nel range del castano scuro e la sua corporatura alta e atletica da prolungata pratica sportiva, da ragazzona sana, robusta e slanciata.
Perfino il fatto che sia quasi specializzata in psicoterapia, sebbene in una parrocchia rivale, rende interessante e culturalmente stimolante (ma a volte seduttivamente interessante) il lavoro con lei. Tutto questo fa scattare un campanello d’allarme. Caterina ha modi naturalmente seduttivi, purtroppo a motivo della sua sofferta vicenda esistenziale.
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La sua seduttività si esprime, in parte, attraverso la sua consapevole gestione del corpo, che viene con pudica malizia esibito e rapidamente nascosto e, in parte molto maggiore, attraverso il linguaggio: pur mantenendosi in un contesto formalmente irreprensibile e consono al lavoro psicoterapeutico, stuzzica il terapeuta.
Nel descrivere minuziosamente le sensazioni orgasmiche o gli indicatori che utilizza per decidere il momento giusto per lasciar entrare il partner nel suo corpo, si compiace evidentemente della reazione che pensa di suscitare nell’interlocutore. Allo stesso modo quando si dilunga nelle fantasiose tecniche autoerotiche che ha messo a punto con sorprendente creatività e nelle fantasie che le accompagnano.
Tutto questo ha un significato ben preciso, e prima di proseguire ci tengo a dire che in questi casi noi terapeuti ci troviamo davanti a un problema tecnico e relazionale. Dobbiamo raccogliere tutte le informazioni necessarie seguendo però solo fino a un certo punto l’invito scopertamente erotico dei pazienti. Laddove i dati raccolti siano sufficienti, è bene segnalare al paziente che il patto terapeutico impone che si lavori cercando il significato psicologico e cognitivo di ogni cosa, senza abbandonarsi a una conversazione ambiguamente piacevole. E questo non è moralismo (o forse lo è, ma di quello che sa di bucato) ma semplice professionalità.
Perché la paziente erotizza il discorso? Non è necessario essere psicoanalisti per intuire che ci sono delle ragioni. E da cognitivista aggiungo: ragioni non inconscie, anzi pienamente coscienti, che dopo un po’ occupano la scena. E infatti il problema di Caterina si rivela essere un problema affettivo ed erotico.
La richiesta d’aiuto di Caterina è relativa ad un’ incontrollabile gelosia che, a tratti, assume aspetto delirante e che la fa soffrire, divenendo per di più causa di autosvalutazione: non ha motivo di credere che Paolo, il suo attuale ragazzo, la tradisca, ma ci pensa costantemente.
Per rassicurarsi ha imposto a Paolo una serie di divieti assoluti, non può uscire neppure con amici maschi perché la possibilità di incontrare una donna è sempre presente e lo chiama per telefono ogni pochi minuti, interrogandolo su cosa stia facendo per cogliere contraddizioni e imbarazzi. Il controllo ha degli aspetti francamente vessatori e quasi sadici. Se, in sua presenza, Paolo guarda qualcun’altra o si allontana con un amico, ne segue una furibonda litigata in cui lei alza violentemente le mani su di lui, procurandogli vere e proprie lesioni. La ragazza dice che, in quei momenti, non ha il controllo di sé.
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Di contro Caterina tradisce Paolo sistematicamente con due “trombamici” di vecchia data, Alfonso e Francesco. Non si lascia sfuggire nessuna occasione con chicchessia che, anche considerato il suo bell’aspetto, hanno una frequenza serrata.
Un ulteriore problema che potrebbe mettere a rischio il lavoro con Caterina è l’attivazione del mio sistema di accudimento che, immancabilmente, si riaffaccia quando mi trovo di fronte a persone con una storia difficile di trascuratezze e maltrattamenti; mi immagino immediatamente nel ruolo di colui che risarcisce. In questi casi invece occorre mantenersi su una posizione di cooperazione rispettosa. La terapia non è accudimento.
Caterina è la secondogenita di una famiglia dell’entroterra pugliese, il padre Nicola, violento e alcolista, la madre Assunta, casalinga e sottomessa. Il clichè sarebbe quasi banale se non fosse che la madre, stanca dei continui maltrattamenti del marito, aveva iniziato a tradirlo, concedendosi a tutti gli uomini che, per un motivo o per un altro, entravano in casa. Caterina l’aveva sorpresa a letto con un cognato molto più giovane e un’altra volta con l’amministratore del condominio, un vecchio ragioniere con un gozzo che lo rendeva, agli occhi della piccola Caterina, mostruoso come gli orchi delle favole. Questo era il segreto che la figlia condivideva con la madre e che escludeva il padre.
La madre, a sua volta, era esclusa dalla vicenda che accadeva sotto i suoi occhi: Nicola, lamentandosi con la figlia delle disattenzioni della moglie, ne richiedeva costantemente l’affetto in forme via via sempre più inappropriate con l’aumentare dell’età di Caterina.
La verginità la perse a dieci anni durante un riposino pomeridiano in un rovente meriggio estivo nel letto matrimoniale dove il padre l’aveva condotta mentre Assunta finiva di lavare i piatti: quando il suo grosso dito da contadino si fece strada oltre l’imene, lei ebbe il suo primo memorabile orgasmo.
Caterina diceva di essere cresciuta nel tradimento e che questo era il motivo della sua assillante gelosia. La madre tradiva il padre, lei tradiva il padre tenendo il gioco della madre, il padre tradiva la madre con altre donne e con lei, la madre tradiva lei fingendo di non accorgersi dell’incesto e, in qualche modo, dandola in offerta al Minotauro per essere lasciata libera.
I rapporti sessuali con il padre proseguirono per cinque anni ed, evitando sempre la penetrazioni, esplorarono tutte le innumerevoli possibilità orgasmiche alternative. Intorno alla questione vorticavano emozioni, diverse ma accomunate dalla forte intensità e, pur imbarazzata nell’ammetterlo, l’emozione più importante era il piacere. Caterina godeva intensamente nei rapporti ravvicinati con il padre e si presentava spontaneamente agli appuntamenti che implicitamente si scambiavano, non c’era mai stata una effettiva violenza fisica. Il piacere era difficilmente distinguibile da un sottile senso di disgusto che accompagnava alcune delle pratiche perverse che avevano messo a punto. Il senso di colpa ricordava con esattezza di averlo perduto dopo i primi rapporti, si era trasformato in un senso di vergogna ed in un rossore al volto che emergeva quando le compagne parlavano delle loro prime esperienze sessuali.
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Con l’adolescenza i rapporti con il padre divennero burrascosi, Nicola giocava il ruolo del padre padrone violento e geloso e Caterina il ruolo della figlia ribelle, contestatrice e rivoluzionaria. Era l’unica a fronteggiarlo nelle violente litigate familiari perché sapeva di averlo in pugno con il possibile ricatto di rivelare la faccenda. In realtà, in cuor suo, sapeva quanto il suo potere fosse fittizio; era certa, infatti, che nessuno, ad iniziare dalla madre, le avrebbe creduto e l’avrebbero fatta passare per una povera matta perversa. In realtà, ognuno credeva di avere in mano un’arma di ricatto nei confronti di un altro componente della famiglia.
Tutto ciò ebbe due conseguenze: da un lato si mantenne, con questo segreto, un’intimità tra i due da cui tutti erano esclusi, dall’altro spostò il terreno di incontro e confronto del padre e della figlia dal sistema sessuale a quello agonistico e, nella mente di Caterina, i due sistemi si saldarono intimamente.
Due le conseguenze disfunzionali.
Caterina non tollerava ruoli di subordinazione che le provocavano una vera e propria angoscia di abuso, ad esempio, non riusciva a mantenere nessun lavoro come dipendente e persino gli appuntamenti che prendeva con me doveva spostarli almeno una volta, perché altrimenti sentiva di essere assoggettata alla mia volontà, sebbene fosse stata lei a stabilirli.
Anche con Paolo il suo controllo, apparente motivato dalla gelosia, appariva piuttosto una continua battaglia per stabilire chi dettasse le regole e, dunque, chi comandasse.
Contemporaneamente, l’interesse sessuale era strettamente associato alla sensazione di essere sottomessa ad un’ autorità più forte di lei. Era dunque dentro una situazione paradossale: per paura di essere sottomessa e violentata doveva sopraffare il partner, ma quando egli era a sua totale disposizione, come capitava molte volte con Paolo, che era di quattro anni più giovane di lei, perdeva ogni interesse sessuale.
Quando lui gli garantiva, a parole e fatti, un affetto sincero, esclusivo e duraturo nel tempo si spaventava, forse per il timore di affidarsi ed essere nuovamente tradita dopo aver abbassato la guardia. Così, smetteva i panni della giovane e raffinata professionista della psiche fidanzata felicemente con il giovane e riservato ingegnere e dava via libera alla seconda Caterina. Tanto mi era difficile dar credito ai suoi racconti che, per convincermi, e forse anche con inconsapevole intento seduttivo, mi mostrò delle foto sul display del telefonino. Tacco dodici, minigonna arancione giro pubica da cui occhieggiava tanga nero aggrappato alle due creste iliache, trucco violaceo da film sui vampiri, così conciata e con l’aiuto di un paio di vodka si lanciava nella movida romana.
Diceva di non ricordarsi quasi nulla quando si risvegliava al mattino in letti sconosciuti, senza memoria per il partner di turno. Talvolta ricordava, a sprazzi, che la sera precedente aveva temuto di essere violentata e uccisa tanto grevi, aggressivi e coatti erano coloro che le giravano intorno. La mattina al risveglio, passata la paura, provava il conosciuto disgusto che si trasformava lentamente in eccitazione e che si placava soltanto masturbandosi ripetutamente con fantasie in cui il padre, con un cenno impercettibile, la invitava o le ordinava di andare, su questo non sapeva decidersi, nella stanza matrimoniale.
Caterina aveva nel cuore un’altra pena: suo fratello Sante, mingherlino e quasi femminile nei modi, di due anni più grande, aveva iniziato a mostrare stranezze all’età di quindici anni.Passava le ore in bagno a lavarsi le mani, sentiva ossessivamentedovunque odore di escrementi e frequentava un solo amico di nome Ricky, robusto e spavaldo al contrario di lui, che aveva però una caratteristica singolare, era invisibile a tutti tranne che a Sante. Facevano tutto insieme, fino al giorno in cui Ricky, durante un’ esplorazione in una cava di tufo abbandonata alla periferia del paese, ebbe un incidente: in un passaggio pericoloso, la mano di Sante non riuscì a sostenerlo, cadde di sotto e morì sul colpo. Ai solenni funerali, il giorno seguente, c’era soltanto Sante perché nessun altro lo aveva mai visto.
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Forse fu per il senso di colpa, sta di fatto che Sante precipitò in un grave esaurimento nervoso e, due mesi dopo, fu ricoverato in un clinica psichiatrica. Da allora sono passati sedici anni e Sante è migrato attraverso cliniche più o meno convenzionate, Centri di Salute Mentale e persino qualche specialista privato pagato da Caterina, per approdare definitivamente al circuito delle Comunità Terapeutiche.
Caterina è sempre stata convinta che il fratello abbia subito ancor prima di lei gli abusi paterni e che la madre ne sia a conoscenza. Ricorda con rabbia l’aria omertosa con cui un giorno Assunta lavava frettolosamente al pozzo le mutande sporche di sangue del fratello.
Anche questo non perdonava alla madre e al padre, che riteneva parimenti colpevoli, se non proprio complici.
Credo che gran parte del successo di questa psicoterapia sia dovuto al superamento dei test di seduttività cui Caterina mi sottopose inizialmente. Per motivi che esulano da questa storia e, dunque, tralascio per non appesantirla non sono affatto sensibile agli approcci delle pazienti, non trovo gratificante il loro innamorarsi di me e dunque non scatta in me il sentimento reciproco.
Certamente rappresentavo ai suoi occhi una figura autorevole, per cui si aspettava da un lato che cedessi alle sue manipolazioni, dall’altro che la dominassi: non accadde né l’una né l’altra cosa. La partita del “chi comanda qui” era regolarmente proposta, io mi limitavo a mostrare il mio disinteresse per la gara, a svelare il suo schema ripetitivo e a riproporre un patto di collaborazione paritario. Lei proponeva un linguaggio di guerra o di sesso o di entrambi contemporaneamente, io rispondevo con solidarietà, parità e accudimento. Fedele all’ammonimento degli anni giovanili “compagni non rispondete alle provocazioni!” non mi ingaggiavo nei suoi vecchi giochi, ma non indietreggiavo di un passo; nonostante tutto rimanevo lì con lei. Mi modellavo sull’immagine interna di un nonno buono e saggio che abbraccia la nipotina picchiata dai genitori, che morde tutti per difendersi.
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Il lavoro terapeutico è consistito sostanzialmente nel renderla consapevole della ridondanza e pervasività con cui usava gli schemi agonistici e seduttivi per gestire i rapporti con gli altri e nel ricostruire gli stessi eventi con significati alternativi quali ad esempio quelli della cooperazione tra pari, dell’accudimento e dell’attaccamento.
Un indicatore del miglioramento raggiunto non fu tanto la scomparsa delle crisi di gelosia che costituivano l’oggetto della richiesta iniziale, quanto piuttosto l’avvio di una convivenza con Paolo e il desiderio espresso di una maternità, fino ad allora tanto temuta poichè percepita come un legame definitivo, dunque costrittivo e intollerabile e un compito per cui si riteneva incapace. Di pari passo concluse il suo itinerario formativo superando la paura di riconoscersi adulta. Fui io ad inviargli i primi pazienti.
Secondo un nuovo studio condotto da un team di scienziati della University of South Florida (USF), del National Institutes of Health (NIH), della Columbia University e del New York State Psychiatric Institute, esisterebbe un gene in parte responsabile della felicità femminile, la cui esistenza spiegherebbe perchè le donne sono spesso più felici degli uomini.
Si tratta del gene che codifica le MAO-A. Data la loro azione fondamentale a livello del sistema nervoso centrale, le alterazioni nei valori delle monoaminossidasi sono associate a vari disturbi psichiatrici, tra cui la depressione; gli inibitori delle monoaminossidasi (I-MAO) infatti sono una categoria di farmaciutilizzati per aumentare la quantità di monoammine (tra questi la serotonina, che ha un effetto antidepressivo).
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I ricercatori hanno analizzato un campione di 345 persone, uomini e donne, e hanno scoperto che le donne con il tipo di gene a bassa espressione di MAO-A erano significativamente più felici delle altre; inoltre avere due copie di questo tipo di gene ha determinato un ulteriore aumento del punteggio nella scala di auto-valutazione della felicità.
Negli uomini, invece, avere o non avere il gene MAO-A a bassa espressione non fa nessuna differenza in termini di felicità.Come spiegare la differenza tra i sessi?
I ricercatori hanno il sospetto che la differenza possa essere in parte spiegata dal testosterone,che si trova in quantità minori nelle donne che negli uomini. Chen e i suoi co-autori suggeriscono che il testosterone può annullare l’effetto positivo del gene MAO-A sulla felicità negli uomini.
“Forse gli uomini sono più felici prima dell’adolescenza perché i loro livelli di testosterone sono più bassi” dice Chen, cioè il beneficio potenziale della MAO-A negli adolescenti potrebbe svanire con la pubertà, quando i livelli di testosterone aumentano.
Sono necessarie ulteriori ricerche per identificare in modo specifico quali geni influenzano fattori come la resilienza e il benessere soggettivo; infatti è probabile che sia un insieme di geni, congiuntamente alle esperienze di vita, a modellare i nostri livelli di felicità individuale.
BIBLIOGRAFIA:
Chen, H., Pine, D.S.,Ernst, M., Gorodetsky, E., Kasen,S., Gordon, K., Goldman, D., Cohen, P. (2012) The MAOA gene predicts happiness in women; Progress in Neuro-Psychopharmacology & Biological Psychiatry, online in advance of print Aug. 4, 2012.
EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti
EABCT 2012 – Meet the Expert – Gianni Liotti: TREATING POST-TRAUMATIC COMPLEX CASES: ATTACHMENT THEORY, CLINICAL AND RESEARCH CONTRIBUTION
Gianni Liotti @ EABCT 2012
Meet the Expert – Giovanni Liotti: “The relevance of attachment theory and research for the understanding and treatment of adult disorders related to childhood cumulative trauma”.
Venerdì a Ginevra si è tenuto un “Meet the Expert” molto importante: Giovanni Liotti discute l’importanza della Teoria dell’Attaccamento per la comprensione e il trattamento di disturbi in età adulta correlati a traumi cumulativi nell’infanzia.
Quando la Room 4 del Centre International de Conférences Genève si riempie, Lucio Bizzini, organizzatore del Congresso introduce l’intervento di Liotti. Dopo una breve presentazione dei lavori di Liotti, inizia il Meet the Expert.
Nonostante i temi da trattare siano tanti e complessi e il tempo a disposizione poco più di un’ora, Liotti mostra in grandi linee i concetti del suo modello dell’Attaccamento Disorganizzato e dei Traumi Complessi.
Il concetto centrale è quello di complex trauma, core del problema clinico. A seguito di traumi complessi e prolungati durante l’infanzia, secondo il modello brillantemente presentato da Liotti, i pazienti sviluppano uno stile interpersonale traumatico e caotico, una incoerenza nel discorso e un caratteristico shift tra diverse rappresentazioni di sé e degli altri.
L’importanza del tema trattato da Liotti è subito chiaro: secondo i dati citati, un paziente con diagnosi psichiatrica su tre proviene da una storia personale traumatica. Pensiamo a pazienti che, a seguito di sviluppi traumatici, sviluppano un Disturbo Borderline di Personalità e/o un Disturbo Dissociativo oltre a presentare memorie traumatiche e dissociate.
Liotti fa notare nel suo intervento come la diagnosi PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder) presente nella nosografia del DSM-IV-TR non sia utile per rilevare né per comprendere i complex trauma. Infatti, le caratteristiche dei pazienti che hanno subito in infanzia continue e ripetute esperienze traumatiche intra-familiari (come ad esempio eventi legati a genitori che “abdicano” al loro ruolo di caregivers) presentano caratteristiche psicopatologiche chiare e ben distinte dal PTSD semplice: impotenza, rappresentazioni di sé legate a impotenza e debolezza.
In particolare, si parla di “loss of confidence of other people”, nato da esperienza gravemente disfunzionali durante l’infanzia. Questo è un altro aspetto centrale del “Meet the Expert” di Liotti: la “loss” di cui si parla rappresenta una costante e profonda paura di relazionarsi con le persone, in particolare con quelle significative e quindi anche il proprio terapeuta (che ha saputo instaurare una buona alleanza terapeutica con il paziente).
Per comprendere meglio la sofferenza portate da questi pazienti, pensiamo al circolo vizioso doloroso che si crea nel momento in cui una persona che ha avuto una storia di sviluppo traumatica si trova in una situazione relazionale in cui prova due emozioni ben distinte e contraddittorie: ha una intensa paura dell’altro, da cui desidera anche cura e protezione.
A seguito di questi concetti chiave, il discorso vira in modo naturale all’importanza della relazione terapeutica con i pazienti con storie di sviluppo traumatiche. Il primo aspetto su cui noi terapeuti dobbiamo porre la nostra attenzione clinica è costruire un’alleanza “sufficientemente buona” con il paziente. Non solo, è di fondamentale importanza trovarsi pronti per gestire in modo adeguato le rotture (anche situazioni e momentanee) dell’alleanza terapeutica, frequenti con questi pazienti.
Considerato il circolo vizioso citato precedentemente (semplificando, “io ho paura della stessa persona da cui desidero cure e protezione”) risulta chiaro (e Liotti di questo discute e chiarifica in modo netto) che il tema della relazione terapeutica assuma un significato centrale. Prima di lavorare con i paziente con traumi complessi, è necessario che il Sistema di Attaccamento sia attivo, ma se il paziente teme ciò che rappresenta il tema centrale del sistema di attaccamento, ovvero la “closeness” (la vicinanza), questo si insinua nella relazione con il paziente e rappresenta un problema primario e fondamentale (“he/she fears his/her own wish of closeness”).
Il tempo dell’intervento di Liotti è poco ma l’importanza e la portata del tema trattato sono evidenti. Il resto del “Meet di Expert” si concentra su una breve introduzione del modello di Liotti (descritto nel recente lavoro dello stesso insieme a Benedetto Farina, “Sviluppi Traumatici, recensito da State of Mind) e per un accenno alle neuroscience.
L’interesse dell’uditorio è evidente e resta solo il tempo per conciliare il discorso e integrarlo con le Neuroscienze, molto presenti in questi giorni di EABCT. Viene infatti presentato un recente lavoro di Farina (2012, in pubblicazione) in cui viene svolto un esperimento con uno strumento di misura della EEG cohenrece, ovvero uno strumento che misura la connettività corticale delle rete neurali. In breve, ai soggetti viene somministrata la AAI (Adult Attachment Interview) e, dopo pochi minuti dalla conclusione, viene misurata la connettività delle reti cerebrali.
Come è noto, la AAI è un’intervista costruita al fine di sollecitare nel paziente memorie e riflessioni legate alla propria storia di attaccamento. Ci si aspetta, quindi, una risposta coerente delle reti neurali coinvolte con le emozioni e i pensieri. I dati mostrati da Liotti sono davvero interessanti: le persone codificate con un attaccamento disorganizzato, a differenza di tutti gli altri pattern di attaccamento mostrano una connettività cerebrale assente, sembra dai dati che le persone con attaccamento disorganizzato non riescano a riflettere sulla propria storia di attaccamento.
Le parole di Liotti sono: “impairment of the higher-order of integrative mental functions during the interview” (“danneggiamento delle funzioni mentali integrative di ordine superiore”).
Questo dato fa riflettere, e apre la strada a nuovi filoni di ricerca e di applicazioni cliniche, in cui psicoterapia e neuroscienze si incontrano. E prima ancora, le riflessioni di Liotti nel suo “Meet the Expert” ci aiutano a mantenere nella nostra mente da clinici un tema centrale:
Quando ci troviamo di fronte a pazienti che provengono da una storia traumatica (se pensiamo che, secondo quanto sottolineato da Liotti, sono uno su tre…) e che hanno sviluppato un attaccamento disorganizzato, è fondamentale tenere a mente che, i pazienti che hanno sviluppano un attaccamento disorganizzato mostrano:
incoherence of discourse, memory and thoughts concerning attachment
difficulties in emotional regulation
poor metacognitive monitoring
Credo che questa frase di Liotti riesca a riassumere brillantemente il senso profondo del suo “Meet the Expert”: “con un paziente con attaccamento disorganizzato, cerchiamo di ragionare con lui, farlo connetterete con le proprie esperienze dolorose. Il problema è che lui/lei non può farlo (…), in quel momento il paziente non riesce a riflettere sulle proprie memorie traumatiche. Bisogna, quindi, privilegiare l’alleanza terapeutica, condividere gli obiettivi e monitorare continuamente l’attivazione dell’attaccamento del paziente nei confronti del terapeuta” (traduzione libera dell’autore, NdA).
Il Meet the Expert si conclude con un lungo applauso dai partecipanti pieno di stima da parte di tanti e di curiosità per i pochi che non conoscevano Giovanni Liotti.
Un piccola nota a margine: per il gruppo di ricerca italiano presente a Ginevra, un “Meet the Expert” tutto italiano, svolto dal nostro Past-President SITCC e decano del cognitivismo made in Italy ci ha riempiti di orgoglio, in un mondo come quello dell’EABCT in cui il “british-american scenario” rimane dominante.
Liotti, G. (2012). TREATING POST-TRAUMATIC COMPLEX CASES: ATTACHMENT THEORY, CLINICAL AND RESEARCH CONTRIBUTION. Meet the Expert 7. EABCT Congress, Genève.
EABCT 2012 – Non solo Mindfulness: la Keynote di Tom Borkovec
EABCT 2012 – KEYNOTE 2: Tom Borkovec – WHAT WILL CBT LOOK LIKE IN THIRTY YEARS?
Dopo la sottile promozione della mindfulness operata da Segal, arriva il discorso più ecumenico di Tom Borkovec nella sua keynote: “What will CBT look like in thirty years?”.
Come sarà la terapia cognitiva e comportamentale tra trent’anni? Tre sono gli elementi nuovi che si svilupperanno cambiando l’aspetto del paradigma del cognitivismo clinico: l’attenzione ai processi cognitivi, il legame con le neuroscienze e la componente interpersonale. Tuttavia, e Borkovec ci tiene a dirlo, rimarrà anche l’elemento più tipicamente cognitivo dei contenuti distorti.
Il tema dei processi cognitivi è ormai dominante da circa un decennio. Probabilmente è il tipo di svolta più naturale per riuscire a rimanere nell’ortodossia cognitiva quando si iniziò a capire che l’esplorazione dei contenuti di pensiero distorti si stava esaurendo.
L’ultima pepita trovata in quella vena fu l’intolleranza dell’incertezza di Dugas. Dopo la quale non sono più saltate fuori nuove credenze cognitive distorte. E allora si è pensato, giustamente, si dare più attenzione ai processi:l’attenzione, la memoria e i processi interpretativi. Non che si trattasse di una totale novità. Già Beck, accanto alla triade cognitiva, aveva individuato una serie di processi disfunzionali: labeling, fortune-telling, overgeneralization, jumping to conclusion, e così via.
La vera novità della maggiore attenzione ai processi piuttosto che ai contenuti è stata un cambiamento di tecnica. Beck conosceva i processi, ma li trattava in terapia come le credenze distorte: accertandoli, un po’ disputandoli e poi ristrutturandoli.
Invece i nuovi teorici dell’importanza dei processi cognitivi hanno perfezionato nuovi protocolli terapeutici in cui il trattamento consisteva in esercizi di addestramento che direttamente andavano a modificare le abitudini mentali dei pazienti: il modo di dirigere l’attenzione sugli stimoli negativi o di trattare i propri ricordi.
E sopra questo nuovo piano terapeutico è andata a piazzarsi la mindfulness, che si propone come l’operazione clinica regina delle nuove tecniche addestrative, la corona che finisce per caratterizzare le nuove terapie.
Articolo consigliato: Segal all’EABCT: è la Mindfulness il nuovo Paradigma Cognitivo? -- Nella foto da sinistra: Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero, Tom Borkovec
Borkovec, però, non è Segal e, pur citando la mindfulness, non le conferisce questo carattere onniesplicativo. Usa anche altri termini e altre parole. Parla di riaddestramento attentivo, di rieducazione mentale e così via. Insomma, Borkovec ridimensiona la mindfulness da nuovo paradigma a strumento tra gli strumenti a disposizione del terapeuta.
Se i processi ricollegano il cognitivismo clinico al comportamentismo, l’aspetto interpersonale lo collega alla terapia psicodinamica. Borkovec sembra quasi indicare un percorso ecumenico in cui le grandi correnti terapeutiche si incontrano.
Qui però Borkovec è più critico e quasi severo. Dice che, a parere del suo collega della Penn State University, Louis Castonguay (un cognitivista che non a caso frequenta anche l’ambiente della Society for Psychotherapy Research, che è il terreno di gioco della migliore terapia psicodinamica che fa ricerca empirica) la terapia cognitiva ha un problema con gli aspetti interpersonali della psicoterapia.
“Non c’è una teoria cognitiva di come la relazione (certo, non magicamente ma attraverso la mediazione di processi cognitivi) agisca sulla terapia”.
E soprattutto non ci sono ancora modelli cognitivi delle interazioni interpersonali più conflittuali, che descrivano come gestire le rotture dell’alleanza terapeutica, le provocazioni di un paziente svalutante e sprezzante non solo con il mondo esterno, ma col terapeuta stesso.
EABCT 2012 - da sinistra: Gianni Liotti, Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero
Abbiamo modelli di interazione col paziente non conflittuali: la collaborazione tra filosofi immaginata da Beck (l’empirismo collaborativo), la sollecitazione motivante e a tratti quasi aggressiva alla Ellis (diamoci una mossa!), il maternage iperaccogliente e consolante alla Young (fin quasi a sedersi e piangere insieme sulle rive di un fiume), le esperienze condivise e cooperative di Liotti e/o Semerari.
Si, lo so: semplifico. Ed è pur vero che Liotti (giustamente) ci tiene a sottolineare che cooperazione non significa accudimento. E fa bene a sottolinearlo.
Ma c’è anche un momento in cui il rapporto terapeutico va in vera tensione e il paziente prova insoddisfazione verso il terapeuta, forse perfino rancore e rabbia quando è messo in faccia alle sue idiosincrasie.
Immaginiamo un narcisista messo di fronte alle sue distorsioni sprezzanti verso gli altri. Pensiamo di poterlo fare serenamente con lui in un’atmosfera di imperturbabile empirismo collaborativo? Di potergli proporre un paio di esercizi attentivi sui suoi rimuginii narcisistici con la stessa flemma con la quale possiamo proporli a un ansioso? Come due filosofi che cercano insieme la verità all’ombra di un platano? Non è così facile.
Infine Borkovec affronta il problema delle neuroscienze. Dice che questo tipo di ricerca sta iniziando a uscire fuori dalla sua infanzia fatta di meraviglie colorate e di scarse ricadute cliniche e che si inizia a capirci qualcosa in più. Che si sta superando il paradigma delle zone cerebrali e ci si sta iniziando ad avvicinare a indici neurocerebrali delle funzioni mentali.
Questo è un argomento delicato. Come si sa, le scienze psicologiche soffrono un po’ la loro evanescenza di discipline che studiano fenomeni che non si riesce a collegare a supporti fisici e organici. Questo Graal di vera materia lo si cerca da decenni. In fondo anche Freud partì con un modello fisico, termodinamico della mente come macchina. Poi fallì traducendo i suoi concetti in termini più psicologici. Speriamo che questa volta vada meglio.
BIBLIOGRAFIA:
Borkovec T. (2012). WHAT WILL CBT LOOK LIKE IN THIRTY YEARS? Keynote 2. EABCT Congress, Genève
EABCT 2012 – Attenzione alle dipendenze: una questione di… Attenzione?
EABCT 2012 – Symposium 2 – Recovery in Addiction: from Conflicted Motivation to Cognitive Control
EABCT 2012 – Attenzione alle dipendenze: una questione di… Attenzione?
Uno dei primi simposi del Congresso Europeo di Terapia Comportamentale e Cognitiva ( EABCT 2012, Ginevra) ci offre la possibilità di esplorare le nuove prospettive scientifiche nel trattamento delle dipendenze patologiche.
Da cultore di disturbi legati al desiderio mi presento curioso in prima fila. Frank Ryan, chairman del simposio introduce in poche parole il razionale ed è subito chiaro che la strada tracciata dai gruppi di ricerca presenti segue il tema principale del congresso.
Ogni intervento ha la stessa base teorica: le dipendenze sono un problema neurocognitivo, cioè una questione relativa al cervello più che alla mente. Anzi l’agito dipendente è considerato esattamente come un’esperienza di ‘mente assente’ (absent-mind behaviour).
Chair: Frank Ryan
La coscienza è dimenticata. I vecchi paradigmi del condizionamento rispondente e operante così come i processi cognitivi automatici sono eletti a promotori del comportamento desiderante e incontrollato. Tutto ciò che è cosciente viene relegato al vecchio mito della forza di volontà, vetusto e superato, quasi deriso.
L’attenzione automatica è un elemento nucleare sia nell’attivazione che nella conclusione delle sequenze comportamentali che conducono all’oggetto del desiderio. Questo è il cuore: attenzione (processi cognitivi), condizionamento (non elaborazione), automatismo (fuori dalla coscienza).
Ergo, l’obiettivo diventa la ristrutturazione della connessione tra stimoli contestuali e cattura dell’attenzione dell’individuo. Certi stimoli condizionati acquistano, attraverso l’esperienza e il rinforzo, la capacità di catturare le risorse attentive automatiche. Per ridurre la dipendenza occorre quindi de-condizionare questo potente collegamento.
La soluzione proposta è interessante (Field & Eastwood, 2005; Field et al., 2007). Si tratta di una versione di training attentivo computerizzato in cui gli individui sono gradualmente allenati a rifiutare rapidamente immagini correlate all’oggetto (es: bottiglie di birra) che vengono presentate velocemente. Allo stesso tempo imparano ad approcciarsi velocemente a stimoli neutrali. In questo modo si allenano a selezionare stimoli neutrali (che hanno perso la capacità di catturare risorse attentive) ed evitare stimoli correlati all’oggetto. Dopo quattro settimane di allenamento quotidiano i risultati sembrano ottimi e anche la ricaduta si riduce di circa il 15% rispetto a un gruppo di controllo a un anno di follow-up.
È una strada nuova, apparentemente efficace ma non priva di buche nascoste in cui è possibile inciampare. Gli stessi autori non hanno soluzioni alle perplessità e messi alle strette sono costretti ad accettare limiti indiscutibili che non sarà facile superare.
Innanzitutto, anche se per un rifiuto, l’esposizione a stimoli legati all’oggetto della dipendenza vengono comunque proposti e questo, anche all’interno del loro razionale scientifico, potrebbe sostenere il legame di condizionamento. Secondariamente, il grosso limite è quello della generalizzazione: come è possibile stabilire che gli individui non diventino semplicemente esperti in un compito computerizzato, ben diverso e lontano dagli stimoli interpersonali del naturale contesto di vita?
Insomma manca ancora l’attenzione al processo di generalizzazione e validità ecologica e quando vi si sono imbattuti i risultati sono stati meno evidenti (Field et al., 2007).
Il rischio è quello di cadere nella vera meccanicizzazione dell’essere umano il quale molto spesso manipola gli oggetti mentali attraverso la troppo dimenticata coscienza.
Dopo la brillante apertura del Convegno da parte di Zindel Segal, in cui la mindfulness e le neuroscience hanno fatto da mattatori (come ha scritto il nostro Direttore Giovanni Ruggiero), è la volta di un simposio sui meccanismi della Mindfulness. Il simposio, intitolato “Mechanisms of Mindfulness: RCTs, Theories and Qualitative Data” viene moderato da Susan Bögels, Professor in Developmental Psychopathology alla University of Amsterdam, Director of the Research Institute Child Development and Education, and Director of the Academic Treatment Centre for Parent and Child, UvA-Virenze.
Il tema affrontato è chiaro: qui si parla di RCT, teorie mindfulness-based e dati di efficacia.
Chair: Susan Bögels
Le relazioni presentano esperienze cliniche e riflessioni teoriche che contribuiscono ad aggiungere dati di efficacia alle terapie mindfulness-based. La prima relazione, ad opera di Nicole Geschwind e colleghi, presenta un RCT che mostra come il Training Mindfulness promuova emozioni positive e esperienze di reward in adulti con depressione. 
La seconda relazione viene svolta da Marieke Wichers, della University of Maastricht. L’autrice e i suoi colleghi hanno svolto uno studio per indagare i mediatori affettivi e cognitivi che potrebbero contribuire a spiegare i meccanismi che rendono la MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy) efficace.
A seguire, Evelin Snippe e colleghi discutono la relazione tra mindfulness, ruminazione e sintomi depressivi. Jenny Van Son e colleghi presentano un progetto molto interessante svolto da loro con pazienti con Diabete. Il Progetto, attivato per ora in Olanda, è stato chiamato DiaMind. A Ginevra viene presentato un RCT. Brevemente, gli autori presentano un intervento mindfulness-based con pazienti diabetici che mostrano un elevato livello di distress emotivo, dovuto alla gestione giornaliera del diabete, problematica e difficile per alcuni di loro.
L’ultimo intervento è ad opera di Hiske van Ravesteijn e colleghi della olandese Radboud University Nijmegen Medical Centre. Il focus della loro relazione si concentra sui pazienti che mostrano sintomi medici “unexplained” che non hanno trovato spiegazione nella nosografia medica. Uno studio longitudinale mostra gli effetti positivi della Psicoterapia basata sulla Mindfulness (MBCT – Mindfulness-Based Cognitive Therapy).
A conclusione dei lavori, Susan Bögels saluta il pubblico con una riflessione degna di interesse. Nonostante ormai in letteratura gli studi di efficacia della Mindfulness siano presenti e in continua crescita, sembra che questo simposio abbia segnato un lieve ma consistente spostamento del focus di attenzione dei ricercatori verso panorami più ampi di efficacia.
Infatti, oltre agli esiti dei trattamenti basasti sulla mindfulness, nel simposio “Mechanisms of Mindfulness: RCTs, Theories and Qualitative Data” l’attenzione è sui processi, sulle misure ripetute, sul tentativo di comprendere in modo sempre più articolato e complesso “come” la mindfulness funziona, e non più se funziona o meno.
EABCT 2012 – Il ruolo delle Tecniche Immaginative in Terapia Cognitiva
EABCT 2012 – (29/08) Pre-Congress Workshop –
An experiential guide to using Imagery in your cognitive therapy practice. James Bennett-Levy
EABCT 2012 – Il ruolo delle tecniche immaginative in terapia cognitiva
Risale a inizio degli anni ’90 la critica al razionalismo della terapia cognitiva standard che sottolineava la distinzione tra cognizioni fredde e cognizioni calde.
Le prime, più intellettuali e distaccate, sono comprese e conosciute dall’individuo al di fuori delle situazioni di attivazione emotiva, o per spiccata capacità autoriflessiva o in seguito a interventi psicoterapeutici. Le cognizioni calde sono il frutto dell’integrazione tra il ‘pensare’ e il ‘sentire’, non una semplice ristrutturazione ma anche una percezione di veridicità e convinzione (‘sento che è così’).
Questa critica ha portato alla proliferazione di ricerche e tecniche tese a favorire il passaggio dalla pura riflessione verso una percezione anche sensoriale dei nuovi punti di vista che si costruiscono in terapia. L’immaginazione è il destriero che molti hanno cavalcato per attraversare il ponte. La psicologia cognitiva di base sosteneva questa scelta iniziale: attraverso l’immaginazione è possibile generare un’attivazione emotiva, seppur virtuale, anche durante una sessione di terapia. Diventava possibile avere un contesto capace di mettere alla prova i nuovi punti di vista on-line e con il supporto diretto del terapeuta.
Prof. James Bennett Levy
Vent’anni dopo è tempo di fare il punto su ciò che è stato prodotto al riguardo. Vi riesce con grande chiarezza e lucidità, James Bennett-Levy nel suo workshop al presente Congresso Europeo di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (EABCT, Ginevra, 2012): An experiential guide to using imagery in your cognitive therapy practice. L’obiettivo dichiarato all’inizio del suo lavoro è quello di tracciare una mappa di quali interventi immaginativi sono stati sviluppati, le loro caratteristiche, a quali pazienti si rivolgono, quando e come applicarli in psicoterapia cognitiva.
Una simile guida era necessaria, dato che il termine ‘imagery’ volava da molto tempo tra molte bocche, ognuna delle quali tendeva a farsene padrona. Si aveva l’impressione che questa imagery fosse per molti ricercatori la nuova base tecnica della terapia cognitiva, più rapida, efficace, e capace di aggirare gli ostacoli relazionali. Poi, nel dettaglio, la si usava in modi tanto variegati da risultare vaga e confusa. La classificazione di Bennett-Levy è una vera organizzazione della conoscenza teorica e tecnica al riguardo, esaustiva e chiara dove non manca una mappa retrospettiva e precisi riferimenti a coloro che si sono occupati in varia misura del tema.
Il workshop descrive ben nove modalità di utilizzo dell’immaginazione delle quali il terapeuta può avvalersi dall’assessment iniziale, alla formulazione del caso, alla ristrutturazione delle esperienze negative alla costruzione di nuovi stili di vita. Esistono esercizi di imagery per comprendere gli episodi emotivi quando il paziente fatica a differenziare i contenuti mentali, per recuperare memorie infantili dolorose e accertarne il significato, per facilitare la manipolazione delle immagini intrusive o favorire il distanziamento da contenuti negativi passati o semplicemente ipotetici futuri.
Così l’imagery si estende fino alle frontiere delle emozioni positive che vengono sostenute e rinforzate, stati mentali come l’autoefficacia o la compassione verso di sé possono essere conosciuti attraverso la visualizzazione immaginativa. In questa visione d’insieme l’imagery si mostra un destriero cresciuto e ben addestrato per solcare questo ponte.
Ne esco soddisfatto, con l’impressione che fortunatamente nei circuiti scientifici non mancano persone con una predisposizione all’integrazione e piuttosto che alla competizione o ancor peggio, all’indifferenza verso altri modi di pensare e di agire. È possibile che per procedere nella conoscenza scientifica e nella pratica terapeutica si abbia bisogno anche di distruttori o di arieti che procedono lungo la loro strada senza guardarsi al fianco.
Ma ho la netta convinzione che i ruoli di attenti revisori siano imprescindibili. E Bennett-Levy, da attento revisore, ha tracciato gli attuali confini delle tecniche immaginative. E ora si può ripartire con più ordine.
Segal all’EABCT: è la Mindfulness il nuovo Paradigma Cognitivo?
Quando un paradigma scientifico è maturo, si va ai congressi per aggiornarsi, ricevere stimoli e chiarirsi le idee. Quando invece si imboccano percorsi di svolta e momenti di crisi le idee si confondono.
E da qualche anno i congressi di terapia cognitiva offrono un quadro appunto più confuso (epperò anche meno monotono) rispetto a quello della golden age della terapia cognitivo-comportamentale standard, che situerei negli ultimi decenni del secolo scorso.
In quell’epoca classica e felice aggiornarsi significava conoscere nuove credenze cognitive distorte, apprendere nuovi bias la cui disputazione e ristrutturazione andava poi ad arricchire il proprio strumentario clinico. Poi l’età dorata è finita ed è iniziato quello che potremmo forse chiamare semplicemente il casino.
Le rotte si sono moltiplicate (troppo!) e sfilacciate (spesso!), nuove ondate di saperi clinici non sempre compatibili tra loro si sono abbattute sui terapeuti lasciandoli spesso più confusi e disorientati dei pazienti che pretendono di curare. In breve, è andato in crisi un modello di sviluppo che prevedeva che, man mano che si scoprivano nuovi contenuti cognitivi patologici aumentasse l’efficacia terapeutica e si moltiplicasse il numero di disturbi emozionali che rispondevano felicemente alla terapia cognitiva.
Con il nuovo secolo l’interesse si è spostato sui processi cognitivi, sulle variabili metacognitive, sulle emozioni, sulle componenti evolutive, sugli interventi neo-comportamentali di riaddestramento dell’attenzione e su tante altre cose. Si è parlato ora di accettazione, ora di compassione, ora di metacognizione, ora di mindfulness. Tutto questo non si è incanalato in un unico nuovo paradigma, ma in molteplici ondate di nuovi saperi clinici che si sono accavallate disordinatamente. Soprattutto a metà degli anni zero del nuovo secolo i congressi sono diventati a volte campi di battaglia tra fautori dei nuovi e vecchi modelli, con scontri personalistici che ci hanno insegnato qualcosa su come veramente si sviluppa la scienza.
Ieri è iniziato il 42esimo congresso annuale della EABCT, la European Society of Behaviour and Cognitive Therapy. Una buona occasione per tentare di farsi un’idea delle linee di sviluppo scientifiche e cliniche che si aprono davanti alle terapie cognitive e comportamentali. Cosa c’è di nuovo?
Di nuovo c’è che, dopo quasi dieci anni di incremento della complessità e della confusività dell’offerta, per la prima volta forse si assiste a una semplificazione. La polvere della battaglia si dirada e sul campo di questo congresso rimangono meno combattenti. Non sono i vincitori della guerra, ma di questa battaglia. Scorrendo il programma del congresso, notiamo che campeggiano la mindfulness (vera dominatrice, almeno secondo le mie impressioni), alleata a qualcosa che inizia a chiamarsi il modello neuropsicoterapeutico.
In seconda linea ma baldanzosa avanza la ricerca sui processi cognitivi (soprattutto sull’attenzione e la memoria di lavoro). C’è poi la vecchia guardia delle credenze cognitive, difesa dall’intolerance of uncertainty e anche dal need of control (pallino del nostro gruppo di ricerca). Meno rappresentate di un tempo le linee della acceptance and committment therapy e della metagnizione alla Wells. Però (e finalmente) si presentano a questo congresso altri modelli metacognitivi diversi da quello di Wells. La schema therapy è difesa dagli olandesi che -a leggere gli abstract- porteranno i loro dati di efficacia sempre più solidi, ma (forse) non troppe novità cliniche e non nuovi sviluppi di questo modello. Intendiamoci: più che sconfitti, questi modelli sono migrati e si sono costruiti dei nidi personali, ovvero proprie società e propri congressi. Il tempo dirà se questa strategia è vincente. Ma di tutto questo parleremo nei prossimi articoli che State of Mind produrrà durante il congresso.
In questo primo articolo da Ginevra commento concisamente il discorso di apertura del congresso EABCT affidato a Segal, intitolato “Psychotherapy and neuroscience: a promising union”.
Segal ha passato in rassegna alcuni risultati della ricerca sugli indici di modificazione neurocerebrale correlati al cambiamento psicoterapeutico ed è riuscito a dare l’impressione che questa strada stia iniziando a dare i primi frutti. Non si tratta più di far vedere zone cerebrali più o meno colorate in pazienti ed ex pazienti (immagini che spesso mi parevano in rapporto con la psicoterapia come una foto della Francia dalla Luna è in rapporto con una passeggiata sul lungosenna a Parigi), ma si sta iniziando a trovare indici neuroscientifici di funzioni mentali che si modificano in psicoterapia. Il livello di informazione mi pare ancora basso, ma almeno non si ha più l’impressione di vedere fotografie scattate dallo spazio vuoto.
Tuttavia il vero interesse di Segal mi è sembrato essere diretto verso qualcosa che non era citato nel titolo della sua presentazione: la mindfulness. Voglio dire, dopo un po’ è diventato chiaro che i dati neuroscientifici scelti di Segal descrivono funzioni mentali di tipo attentivo e processuale che sono tipicamente quelli che si modificano in seguito a trattamenti di mindfulness. Ovvero, un incremento delle capacità di elaborazione non automatizzata e non distorta da bias attenzionali e della memoria di lavoro, ma focalizzata sul presente, sul qui e ora elaborato con il minimo indispensabile di routine cognitive già apprese e con la massima disponibilità a un sorta di innocenza aperta e priva di pregiudizi e preconcetti.
Non basta. Se Segal avesse fatto solo questo, avrebbe fatto molto, ma in fondo si sarebbe limitato a produrre una delle tante increspature che vanno a comporre il dorso ancora (molto) informe della terza ondata. A mio parere l’operazione di Segal è più ambiziosa. Collegando neuroscienze e mindfulness e definendo la mindfulness come il bacino che può comprendere e contenere tutto il coacervo di interventi processuali a cui in fondo si riduce la terza ondata, Segal si propone di riuscire ad essere la nuova mano ordinatrice che davvero stabilisce i confini di un nuovo paradigma.
Ovvero, Segal col termine mindfulness non indica più un singolo intervento specifico, che sia la accettazione o la compassione o la validazione emotiva, ma di una vera categoria onnicomprensiva, così come onnicomprensivo era il concetto di interpretazione e ristrutturazione cognitiva di credenze distorte proposto da Beck. Categoria che si propone di diventare il descrittore dell’unico e vero processo terapeutico che starebbe alla base del cambiamento del paziente. Perché la mindfulness sembra avere non dico più possibilità, ma più fascino della metacognizione -concetto potenzialmente altrettanto onnicomprensivo- è un altro discorso, troppo lungo da affrontare qui (ma una parola si può dire: la metacognizione è ancora legata al vecchio paradigma logico e razionalistico della ristrutturazione cognitiva; la mindfulness no).
Da sinistra: Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero e Tom Borkovec @ EABCT 2012 - Geneva - Opening Ceremony
E inoltre questa categoria, a differenza di altre, ha pure una base neuroscientifica ed elimina così una volta per tutte un vecchio complesso di inferiorità della psicoterapia rispetto alla medicina; finalmente avremo la nostra anatomia patologica al posto delle bislacche sindromi descrittive del DSM!
Quando ho proposto questa mia idea a Tom Borkovec durante il cocktail che seguiva la conclusione della cerimonia d’apertura, lui si è mostrato abbastanza d’accordo, tenendoci però a sottolineare che ci sono tante strade per arrivare a questo stato mentale non patologico.
Vero, però ho l’impressione che Segal stia suggerendo che ci possono essere tante strade, ma che l’esito sia uno solo: la mindfulness.
E in questo modo, pur nel rispetto delle varie possibili varianti, si crea un nuovo ombrello clinico e concettuale: la mindfulness based cognitive therapy.
Le Pussy Riot e le Donne Tunisine: Coraggio e Paura nella Ribellione
Pussy Riot: alcune note a margine.
Immagine: dettaglio di pittura murale. Orgosolo
Il coraggio di tre giovani donne, tre cantanti punk che si scontrano con un potere schiacciante e affrontano le conseguenze delle proprie azioni concrete e reali. Queste ragazze non si sono limitate a schiacciare un semplice tasto “mi piace” su Facebook, ma hanno sfidano il potere di Putin.
Era nelle loro intenzioni andare allo scontro frontale? Probabilmente no, in fondo si è trattato di una bravata in una chiesa. Poi la reazione è arrivata, durissima.
E’ certo che, davanti a conseguenze così devastanti (il carcere!) le tre ragazze mostrano la dignità di chi sa esporsi e pagare concretamente per le scelte che fa. A me vengono in mente Sordi e Gassman nell’ultima scena de La Grande Guerra, mentre si espongono alla morte senza mai proclamarsi eroi.
Allo stesso modo leggo la notizia delle proteste delle donne tunisine che non accettano di essere definite complementari e non giuridicamente eguali. Vanno in piazza, si ribellano, spostano l’opinione del paese.
Cos’è questo coraggio, questa freschezza nella ribellione? Quasi un passaggio di testimone. Ai tempi del femminismo si diceva che sarebbe venuto il momento in cui le donne si sarebbero prese in carico non solo le lotte del proprio personale destino di genere, ma anche la richiesta di giustizia della società tutta intera. Questo è interessante e segna, in tempi non felici, un cambiamento che ci riguarda tutti e che ha a che fare, in modo duro e profondo, con il coraggio di tutti noi.
Che il coraggio implichi una complessa elaborazione cognitiva è confermato dalle due psicologhe Gizela Szagun e Martina Schauble (1997), che hanno analizzato lo sviluppo dell’esperienza del coraggio in bambini e negli adulti. I bambini fino ai sei anni concepisconoil coraggio in termini comportamentali, mentre con l’aumentare dell’età il coraggio inizia ad essere concepito come uno stato mentale interno incentrato sulla paura e sul superamento della paura. Con l’aumentare dell’età, i soggetti credevano sempre più che le strategie psicologiche potessero incrementare il controllo sulla complessa esperienza del coraggio.