Cosa ci spinge a mettere il bene comune davanti a quello personale? Cosa è istintivo, la tendenza a cooperare o quella a pensare innanzi tutto a sé stessi? Un gruppo di ricercatori di Harvard ha cercato di capirlo e ha scoperto che la prima naturale tendenza sia verso la cooperazione, ma che fermarsi a riflettere incoraggi risposte egoistiche.
La ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati su Nature, ha coinvolto migliaia di partecipanti che hanno giocato al “gioco dei beni pubblici”, in cui “io” è contro “noi”. I soggetti sono stati riuniti in piccoli gruppi e posti di fronte ad una scelta: ciascuno avrebbe potuto scegliere se tenere i soldi ricevuti, o metterli in un fondo comune, che crescendo avrebbe garantito vantaggi a tutto il gruppo.
Lo scopo della ricerca era capire se il primo impulso dell’individuo fosse verso la cooperazione o, al contrario, di tipo egoistico.
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Per scoprirlo i ricercatori hanno innanzitutto stimato in quanto tempo le decisioni venissero prese, scoprendo che i più veloci avevano più probabilità di contribuire al bene comune. Successivamente hanno costretto i partecipanti ad accelerare il processo di scelta o, al contrario, a rallentarlo incoraggiando la riflessione; anche in questa circostanza chi decide più velocemente tende ad essere più cooperativo, mentre chi si ferma a riflettere è meno generoso.
Infine, i ricercatori hanno testato la loro ipotesi, manipolando la prosepettiva dei partecipanti. Hanno chiesto ad alcuni di pensare ai benefici di una risposta intuitiva prima di scegliere la quantità di denaro con la quale contribuire. Altri invece sono stati invitati a riflettere sui vantaggi di una valutazione ponderata e cauta. Ancora una volta, l’intuito ha promosso la cooperazione, e la riflessione ha avuto la conseguenza opposta.
“Nella vita quotidiana, generalmente è nel nostro interesse essere cooperativi”, ha detto David Rand. “Così abbiamo interiorizzato la cooperazione come il modo appropriato di comportarci. Se venissimo a trovarci in ambienti insolitamente privi di rinforzi positivi come la reputazione o negativi come le sanzioni, la nostra prima reazione sarebbe quella di continuare a comportarci come facciamo di solito. Se però ci fermassimo a riflettere ci renderemmo conto che questa è una di quelle rare situazioni in cui essendo egoisti potremmo farla franca”.
“Nel corso di milioni di anni, abbiamo sviluppato la capacità di cooperazione”, spiega Martin Nowak. “Questi esperimenti psicologici esaminano i motivi che spingono alla cooperazione su un lasso di tempo più breve, dell’ordine di pochi secondi. Entrambe le prospettive sono essenziali in quanto ci troviamo ad affrontare problemi globali che richiedono una cooperazione su vasta scala. Abbiamo bisogno di capire da dove viene la cooperazione storicamente e il modo migliore per farlo accadere qui e ora”.
A differenza di molti studi di psicologia, che utilizzano un piccolo numero di studenti universitari, questi esperimenti hanno testato migliaia di persone da tutto il mondo utilizzando Amazon Mechanical Turk, un online labor market che sta diventando uno strumento sempre più comune nella ricerca in scienze sociali.
Una normalizzazione psico-educazionale diretta può essere utile, un intervento di informazione esplicita in cui si comunica al paziente che di panico non si muore e né tantomeno si impazzisce.
Un altro problema del paziente con disturbo da panico è la sua tendenza a non contestualizzare il suo malessere emotivo in una situazione. La conseguenza è che situazioni oggettivamente problematiche non sono comprese dal soggetto.
Il soggetto non comprende che il contesto giustifica un certo malessere emotivo ed egli o lei finisce per vivere il suo sconforto come privo di senso. Non comprendendo la componente cognitiva delle emozioni, si finisce per percepirne solo quella fisiologica, la quale assume un aspetto terrificante proprio per la sua assenza di significato.
Ad esempio, se il soggetto trascura o sottovaluta uno stato di tensione per una situazione sociale o prestazionale sgradevole (entrare in una stanza con gente ignota di cui temo il giudizio, affrontare un esame), finirà per percepire solo gli aspetti fisiologici del suo stesso stato di tensione (ad esempio, uno stato di oppressione al petto). Ma questo senso di oppressione toracico, se non viene collegato cognitivamente alla situazione, finisce per assumere un aspetto terrificante proprio perché privo di senso. Di qui la possibile terribilizzazione panica.
Patrizio P. ha 22 anni e frequenta l’Università. Si presenta in terapia riferendo di essere affetto da attacchi di panico. Un esame approfondito rivela un episodio iniziale accaduto in spiaggia un paio d’anni di prima, episodio riconducibile a un capogiro da eccessiva esposizione al sole. Gli episodi di panico attuali iniziano con malesseri nella zona addominale, mal di pancia e timore di perdere il controllo dello sfintere. Questi malesseri non sfociano mai in attacchi conclamati, ma semmai in un disagio sottile e continuo. Si tratta insomma di uno stato continuativo di ansia anticipatoria che suggerisce naturalmente un possibile sconforto esistenziale più globale che il paziente non riesce a definire. Ulteriori domande portano a comprendere che i malesseri addominali e i timori di perdere il controllo dello sfintere avvengono soprattutto quando il paziente fa il suo ingresso nelle aule universitarie per assistere alle lezioni o quando si trova in compagnia di amici o altri studenti universitari. Insomma, occasioni sociali con coetanei. Analizzando la sua condizione di vita, il paziente ammette un periodo di disagio, con un sottile timore sia di non essere all’altezza delle sue ambizioni di studio che di non essere accettato. Questo timore, consapevole e niente affatto inconscio, tuttavia non era riconosciuto dal paziente e non collegato al malessere addominale e alle sue deduzioni catastrofiche di panico. L’esperienza negativa sulla spiaggia di due anni prima aveva reso il paziente timoroso di poter perdere il controllo in situazioni di disagio. In tale maniera, invece di contestualizzare il suo malessere addominale in un disagio più ampio, il paziente aveva finito per definirlo come un preludio al panico. Articolo consigliato: Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico di Beck
A volte il collegamento è reso particolarmente difficile perché il soggetto sta vivendo un periodo di vita globalmente stressante e non una precisa situazione. Ad esempio, una separazione, un cambio di residenza, un esame o una prova particolarmente difficili. In questi casi, paradossalmente, una apparente elaborazione simil-cognitiva effettuata dal paziente da solo (del tipo “posso sopportare”) in realtà facilita il panico, perché gli impedisce di riconoscere, comprendere e accettare il suo malessere.
Ragioniamo insieme. Ricorda cosa pensò negli episodi di panico? È sicuro che in quel momento non stesse davvero pensando a nulla di preoccupante? E se anche in quel momento effettivamente non stava pensando a nulla di sgradevole, è possibile che in quel periodo della sua vita in generale fosse preoccupato, e che questo la rendesse vulnerabile?
Naturalmente la ristrutturazione va effettuata non solo nei confronti del timore di cadere vittima del panico stesso, ma anche sulle supposte conseguenze del panico. Il paziente è spesso convinto che il panico possa poi portare a ulteriori problemi: impazzire, morire, soffocare, essere in balia degli altri, e così via.
In questo caso si può tornare a un intervento di tipo beckiano, incoraggiando il paziente a riflettere su quali prove di fatto ci siano che facciano temere di poter impazzire o morire. Una normalizzazione psico-educazionale diretta può essere utile, un intervento di informazione esplicita in cui si comunica al paziente che di panico non si muore e né tantomeno si impazzisce.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
Storie di Terapie #13: L’analitica Stefania. Molto interessata a descrivere la sua vita alternando vittimismo e intrepido coraggio
Al telefono si presenta come una veterana della psicoterapia, avendo già fatto una lunga analisi in passato, ma subito precisa che allora si trattava di attacchi di panico mentre ora è depressa, lasciando intendere che si tratta di faccenda più grave.
Si presenta come una cinquantenne molto curata, con un passato di ex bella donna che stenta ad archiviare. Durante il primo incontro fatico a contenerla sulla descrizione del suo malessere che si limita genericamente a definire come mancanza di interesse per tutto, stanchezza e tristezza.
E’ molto più interessata a descrivere la sua vita, alternando due registri narrativi che si intrecciano: il vittimismo, che la porta a descrivere le disgrazie che l’hanno colpita sin dalla nascita e il suo intrepido coraggio, la superiorità morale che l’ha portata a superare le traversie.
Un tema ricorrente è l’ingiustizia: in famiglia gli altri fratelli sono stati privilegiati rispetto a lei che onesta, buona e disposta al sacrificio, non ha mai chiesto niente. E’ sommessamente furiosa che i suoi meriti non le siano stati riconosciuti.
Nasce in Calabria, da una famiglia molto ricca di grandi proprietari terrieri. Questa ricchezza, le cui dimensioni afferma che non si possano immaginare, proviene dalla famiglia materna.
La madre è il centro gelido della sua esistenza, per tutta la vita ha tentato disperatamente di ottenere da lei un riconoscimento, senza mai riuscirci. La sua vita potrebbe essere descritta come l’insieme di strategie messe a punto per ottenere l’affetto della madre inizialmente e degli altri, più avanti.
Il padre era di fatto l’amministratore dei beni materni, ricorda che giocava con lei e sapeva farla divertire. In paese, Stefania era considerata la figlia dei signori e dunque rispettata ma, in qualche modo, considerata diversa, non appartenente al gruppo dei coetanei. Oltre a lei ci sono altri quattro figli due maschi, Giovanni ed Enrico e due femmine, Livia e Daniela.
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Su questa famiglia potente e prospera si abbatte una disgrazia. E’ una mattina di settembre del 1970, Stefania sta per iniziare la seconda media, è andata a fare la spesa con l’elenco preparato dalla madre e la raccomandazione di stare attenta ai resti e di non fermarsi per la strada a chiacchierare. Ricorda ancora che indossava un vestitino a fiori azzurri, una camicetta bianca con i pizzi, calzettoni bianchi e dei mocassini neri di cui andava fiera nonostante l’assenza delle desiderate calze di nylon che erano concesse solo a Livia, la sorella più grande. Lei vuole fare la brava bambina e tornare presto a casa, ma non resiste a non entrare nell’edicola di Giampiero. Il figlio Silvio, di due anni più grande di lei, è bellissimo e la sua immagine l’accompagna mentre la notte si consola accarezzandosi. Per mantenere vive le fantasie ha bisogno di un confronto con l’originale. Si trattiene nell’edicola sfogliando una rivista, ma non stacca gli occhi da Silvio.
Poi grida, voci confuse e una sirena della polizia. Stefania avanza sulla soglia dell’edicola in piazza: dalla parte opposta, di fronte alla Cassa di Risparmio, c’è una ressa di gente. Lei si fa largo e, avvalendosi della bassa statura, raggiunge la prima fila. Alcuni tentano di proteggerle la vista dalla scena cruenta, ma solo per rispetto alla sua giovanissima età, non immaginano che il signore che costituisce la sorgente del rivolo di sangue che si fa strada tra l’acciottolato e inizia pigramente ad arrestarsi e coagulare è suo papà.
In seguito penserà: ”se non mi fossi fermata per le mie sozzerie da Silvio avrei incontrato papà prima che entrasse in banca e mi avrebbe accompagnato a casa sfuggendo al momento della rapina.
Stefania oggi si rende perfettamente conto che ogni morte è contornata di questi piccoli eventi che potevano far andare le cose in un altro modo e che la storia non si fa con i se, ma quel senso di colpa è diventato il refrain della sua vita. La ricerca delle colpe è una costante, mitigata soltanto dall’attribuirle talvolta agli altri: un colpevole, comunque, va sempre trovato. Questo è la conseguenza dell’educazione rigida e bigotta della madre.
Con questo lutto la famiglia non perde la guida materiale, che è sempre stata ed è tuttora, a ottantasette anni, la madre, ma il suo pulsante cuore affettivo.
Il patrimonio viene spartito tra tutti gli eredi e a Stefania sono assegnati dei terreni che avranno valore enorme solo se diventeranno edificabili. I due fratelli si iscrivono a Giurisprudenza a Milano e con la loro cospicua parte di eredità costruiscono un’esistenza fondata sul misconoscere le loro origini calabresi. Livia inizia a far uso di droghe e, a diciotto anni, rimane incinta di un tossicodipendente conosciuto in comunità. La storia di Livia è un ruzzolone drammatico continuo: droga, furti, arresti, prostituzione, mette al mondo tre figli con tre uomini diversi, rimane vedova e, a trentotto anni, si ammala di sclerosi multipla. Ora vive con la madre ed una figlia, un’altra figlia è stata cresciuta da Daniela, che è sterile, ed un maschietto è stato dato in adozione.
Brillantemente diplomatasi al Liceo Scientifico e con il desiderio di frequentare la Facoltà di Medicina, Stefania deve accantonare i suoi sogni in famiglia c’è bisogno di soldi, l’università è privilegio solo per i maschi. Così, a vent’anni le trovano un posto in banca, a Roma.
La grande città la fa sentire perduta, a Roma non è nessuno anzi, viene presa in giro per il suo accento calabrese estremo. In questo periodo si consolida il nucleo della sua identità intorno all’idea di sé come forte, caparbia, che non molla mai. Si fa strada, lavora, negandosi ogni bisogno affettivo. Corteggiata da molti dei vertici della banca resiste stoicamente a tutte le avances, concedendosi invece ad un cliente verso cui prova tenerezza per le enormi difficoltà economiche in cui versa. Si sposano, ripiana i suoi debiti e immediatamente dopo inizia ad essere picchiata da lui. Non lo ha mai detto esplicitamente ma credo che sia stata costretta ad avere rapporti con altri a scopo di ottenere denaro o vantaggi.
Questo triste matrimonio durerà fino a quando lei avrà una certa disponibilità economica, poi sarà abbandonata.
Il primo avviene nell’edicola interna della banca dove è scesa per comprare una rivista. Preoccupata per essersi assentata dalla propria stanza senza permesso del superiore si accorge che, nella fretta, non ha preso il portafogli. Non ha i soldi per pagare. Sente le guance diventarle roventi, un fischio sale nelle orecchie a coprire il silenzio, la gola è serrata e l’aria non passa. Si stringe le mani al torace perché il cuore non scappi fuori alla prossima mitragliata di colpi che susseguono a vuoto ma quelle mani, che pure riconosce per l’anello della nonna, non sono le sue. E’ una strana sensazione: riconosce i dettagli del suo corpo, i vestiti, le scarpe, ma si sente estranea a se stessa, si guarda dall’esterno ma non si riconosce da dentro. Anche l’edicola le sembra un luogo sconosciuto che vede per la prima volta. Pensa nitidamente che deve trattarsi del modo in cui gli esseri umani muoiono ed ha anche tempo di dirsi che, in fondo, non è così male. Poi il nulla, fino a riprendersi nella grande stanza del vicedirettore della filiale, Giorgio, che potrebbe esserle padre e da tale si comporta, li separano ventidue anni.
Lui ha un matrimonio alle spalle, finito con vivaci strascichi giudiziari e due figli di diciotto e vent’anni. Stefania ne risulta subito affascinata per la grande cultura e raffinatezza, in verità forse è attratta, senza poterselo dire, dal suo dispotismo. Iniziano una relazione ma lui la tratta male e, da subito, le dice chiaramente che non vuole altri figli. Ogni volta che la donna prova a contraddirlo, la accompagna alla porta di casa invitandola ad andarsene per sempre.
Il giorno del suo trentaquattresimo compleanno inizia con la telefonata del laboratorio di analisi che le comunica che è in gravidanza. Tre giorni dura la sua maternità: il lunedì successivo, da sola, si reca da un’ostetrica procuratale da Giorgio, che pratica aborti clandestini. La notte seguente deve essere accompagnata in ospedale per un’emorragia per cui rischia la vita. E’ furiosa con Giorgio e medita di lasciarlo definitivamente. Si limita ad andare prontamente a letto con il suo precedente psicoterapeuta che, da questo momento, resterà sempre nella sua vita, prima con il ruolo di amante e poi di amico. Riscopre la passione e le voglie che l’età di Giorgio avevano messo da parte.
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Quando decide di contattare un avvocato per la separazione, a Giorgio viene diagnosticato un mieloma multiplo. Prova un grande senso di colpa per averlo tradito e decide che si dedicherà esclusivamente a lui per il resto dei suoi giorni. Per assisterlo meglio si licenzia dal lavoro, finendo per dipendere economicamente dal marito per ogni cosa.
I medici avevano fatto una prognosi massima di quattro anni.
Per questo errore, Stefania vorrebbe querelare i medici e chiedere un risarcimento: quando arriva da me, infatti, sono già otto anni che è stata fatta la diagnosi e il marito non sembra avere nessuna intenzione di morire. Lei lo assiste e contemporaneamente lo odia. Dice di non poter immaginare la sua vita senza di lui, avendo investito tutto in questo rapporto ma, contemporaneamente, non sopporta più la vita con lui che ora vede come un vecchio malato, impotente e tirannico.
Nei miei confronti mette in atto un’evidente e dichiarata strategia di seduzione che mi irrigidisce immediatamente. Utilizza due modi che hanno su di me l’effetto di scatenare la fuga e, persino, un’ inconsueta durezza: richiedere vicinanza attraverso l’esibizione della sofferenza e rimproverare per la mancata vicinanza, invadendo il mio territorio per avere il controllo.
La trappola in cui la terapia stava arenandosi, già nelle fasi iniziali, era evidente: più Stefania pretendeva vicinanza, più io diventavo scostante e rifiutante, ma proprio l’essere scostante e rifiutante aumentava il suo interesse nei miei confronti riattivando pattern relazionali già percorsi più volte nella sua vita. Tanto più lei si “accollava” (come dicono gli adolescenti di oggi per indicare un attaccamento insicuro ambivalente), tanto più io mi sottraevo giustificando ulteriormente le sue angosce di perdita e i conseguenti tentativi di controllo.
Quando ha dichiarato che l’unico motivo che la spingeva in terapia era di passare un’ora con me le ho comunicato che ciò non aveva alcun senso.
Le ho detto che vedevo un solo possibile modo per aiutarla, cercare di capire perché ritenesse terribile e insopportabile rimanere senza qualcuno che l’amasse incondizionatamente e imparare a prendersi cura amorevolmente di se stessa non aspettando che siano gli altri a farlo. Rivedere perciò le strategie, evidentemente fallimentari, finora adottate per non rimanere sola, che aveva messo in atto anche con me:
La più evidente e superficiale era quella di mostrarsi bisognosa, malata, in difficoltà e di chiedere aiuto. Appariva evidente anche a lei che questo comportamento, quando funziona, le attira intorno persone accudenti e l’accudimento è normalmente incompatibile con l’attivazione erotico sessuale;
La seconda convinzione è quella di farsi in quattro per l’altro, anche se non richiesto: a suo avviso essere indispensabile minimizza il rischio di essere lasciati. Per questo è importante la scelta di persone in difficoltà: il primo marito in bancarotta, il secondo anziano e poi ancor meglio malato. Persino nel caso dell’intenso transfert nei miei confronti temo che un ruolo lo abbia giocato la mia disabilità.
Dedicandosi all’altro, Stefania ritiene possibile accaparrarsi dei diritti che, ad un certo punto, inizia a pretendere con la rabbia di chi ha rinunciato a parti importanti di sé (con il secondo marito, la maternità ed il lavoro).
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A quel punto si ritiene defraudata rispetto ad un accordo che in realtà non c’è mai stato e si conferma nella sua idea di buona, giusta e disinteressata, sempre utilizzata dagli altri e mai ricambiata dell’amore che elargisce a piene mani.
Lo scompenso depressivo recente, che l’ha condotta in terapia da me, essendo il suo analista passato a diverso ruolo, è stato causato dal protrarsi imprevisto della vita di Giorgio, che rende sempre più svantaggioso il contratto di “assistenza versus apparenza matrimoniale”, dal precoce prepensionamento che l’ha lasciata senza attività quotidiana e un reddito autonomo e, non ultimo, dall’avanzare dell’età con l’appannarsi di quella bellezza di cui era fiera ed abile utilizzatrice.
Con il passare dei mesi ha riattivato alcune passioni come la musica classica, la danza, il volontariato e l’impegno politico.
Ha anche recuperato un rapporto con la sorella Livia, ma non ha mai smesso di dire che è depressa e la sua vita tutta un errore.
Quando le ho accennato che, considerati i suoi miglioramenti, potevamo pensare a ridurre la frequenza delle sedute, anche in vista di una chiusura, è stata più veloce di me: mi ha detto che certamente i farmaci l’avevano un po’ aiutata ma che si rendeva conto della superficialità di una terapia cognitiva, abituata come era lei, alle profondità analitiche.
Ho tenuto per me le mie associazioni circa le “profondità” che erano mancate.
Diversi studi si sono occupati della correlazione tra la trascuratezza nell’infanzia (neglect) e il rischio di sviluppare un gran numero di disturbi psichiatrici in età adulta. Un recente studio condotto al Rush Alzheimer’s Disease Center del Rush University Medical Center è invece uno dei pochi che ha esaminato l’associazione tra neglect e ictus età adulta.
La ricerca ha coinvolto 1.040 soggetti, di almeno 55 anni e senza demenza, che partecipavano al Memory and Aging Project. Il sondaggio si è focalizzato retrospettivamente sulla relazione tra i soggetti e i loro genitori nell’infanzia con lo scopo di definire la qualità delle relazioni e la presenza di abusi fisici o emotivi, sentimenti di sicurezza e amore o al contrario di trascuratezza e paura; lo studio ha incluso anche variabili relative alla condizione economica familiare e a eventuali separazioni o divorzi.
Nell’arco di tre anni e mezzo 257 partecipanti allo studio sono morti, di questi 192 hanno subito un autopsia cerebrale che rivelasse la presenza di ictus: in base ai risultati dell’autopsia un totale di 89 persone aveva i segni di un ictus.
Lo studio ha rivelato che il rischio di ictus è quasi tre volte superiore in coloro che hanno sperimentato un livello moderatamente elevato di abbandono emotivo dell’infanzia, rispetto a chi invece ha sperimentato un livello moderatamente basso. I risultati sono stati confermati anche dopo aver considerato fattori come il diabete, l’attività fisica, il fumo, l’ansia e problemi cardiaci.
Questi risultati vanno a sommarsi a un sempre maggior numero di evidenze che suggeriscono come le esperienze relazionali traumatiche nei primi anni di vita abbiano un influenza sullo sviluppo di malattie fisiche e comuni malattie croniche anche nella vecchiaia.
I ricercatori segnalano però anche un limite dello studio, infatti la rievocazione di memorie traumatiche a distanza di così tanti anni dal periodo in cui gli eventi si sono verificati può essere poco accurata.
Partecipazione e Cittadinanza: uno Sguardo Metodologico
Di Marcella Offeddu.
Partecipazione: permane in molti cittadini il desiderio di essere parte attiva della vita della propria comunità/società, anche in termini di assunzione di decisioni su varia scala.
La partecipazione alla Res Publica, intesa come partecipazione politica in senso lato, e quindi come cittadinanza attiva, è sempre più al centro del confronto in merito a cosa significhi parlare di comunità nell’era contemporanea.
Dalla comunità virtuale ai movimenti ‘dal basso’, sembra necessario identificare da una parte quali siano i luoghi dello stare insieme oggi, e dall’altra quali siano i modi di convivenza e di assunzione di decisioni.
Se infatti, storicamente, alcune strutture hanno permesso di definire la propria appartenenza (anche come scelta di non appartenenza), e le modalità della propria partecipazione alla vita sociale, dai partiti politici ai sindacati ai centri religiosi, oggi tali strutture appaiono meno in grado di rappresentare grandi parti della società civile.
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Permane in molti cittadini, però, il desiderio di essere parte attiva della vita della propria comunità/società, anche in termini di assunzione di decisioni su varia scala (dalle strategie macro alle scelte di impatto meno elevato).
Esserci, dunque, e agire, non solo nel momento della consultazione – come accade durante le elezioni – ma anche nel quotidiano.
È probabilmente anche per rispondere a tali esigenze, oltre che per garantire l’assunzione di scelte che siano quanto più possibile condivise, che si sono sempre più affermati a livello internazionale modelli cosiddetti ‘partecipativi’. Si tratta di un insieme estremamente variegato di modelli e strumenti, che spesso fanno riferimento all’approccio della democrazia deliberativa.
Tale approccio si appoggia sul concetto di ‘partecipazione’ attribuendo al termine (che di per sé, come vedremo, può assumere significati molto diversi) una accezione molto elevata: partecipazione non solo come assunzione di informazioni (partecipo perché so cosa succede), ma come vero e proprio confronto guidato/‘facilitato’ tra interlocutori informati, che porta ad una deliberazione (cfr in proposito documento di R. Lewanski). Confronto ed inclusione divengono due pilastri fondamentali di tale approccio.
Una chiave di lettura delle molteplici facce che il termine ‘partecipazione’ può assumere è fornita dala Scala della partecipazione proposta da S. Arnestein nel ’69.
Essa (vedi infra) prevede otto livelli di possibile coinvolgimento del cittadino, a partire dalla manipolazione per arrivare fino al controllo da parte dei cittadini stessi; gli otto livelli sono a loro volta organizzati in tre macro‐livelli: non partecipazione, partecipazione di facciata, e potere dei cittadini.
Questa scala presenta una coerenza interna tra livelli non piena, ma è tuttora utilizzata come riferimento poiché ben rappresenta le diverse possibilità. La categorizzazione presentata risulta particolarmente utile per organizzare, e dunque leggere, la molteplicità di metodi che da decenni vengono proposti in ogni parte del mondo, e che possono a vario titolo essere considerati come metodi ‘partecipativi’.
Una lettura di carattere storico dello sviluppo e dell’utilizzo di tali metodi è proposta da Lewanski, il quale mostra anche in quali condizioni sociali e politiche si sono sviluppati modelli diversi (dal Bilancio partecipativo nato nell’esperienza di Porto Alegre nel 1989, al Town meeting sperimentato tra i primi a New York e tuttora in uso negli Stati Uniti, ai modelli più diffusi in Europa come la Consensus Conference).
In questa occasione si preferisce invece fornire un primissimo e molto generale sguardo ad alcuni metodi partecipativi in uso, incrociando la scala di Arnestein, a partire dal livello 3 – informazione – con i contesti di utilizzo dei metodi partecipativi.
Fino ad ora si è trattato infatti dei metodi partecipativi in diretta relazione con l’utilizzo per la vita sociale e politica, come mezzo per il coinvolgimento in decisioni istituzionali dei cittadini.
Esiste però almeno un altro grande ambito all’interno del quale metodi che si definiscono partecipativi vengono utilizzati: si tratta delle attività legate al cambiamento organizzativo (change management). In questo contesto, l’utilizzo di tali metodologie non risponde solo ad un approccio di tipo etico/politico: risponde anche a specifiche esigenze di operazionalizzazione delle decisioni assunte, di assunzione di responsabilità e coinvolgimento in prima persona di ogni soggetto attivo nell’organizzazione. 2
Questa sintetica ‘fotografia’ può risultare utile per chi si interfacci per la prima volta con tali tematiche anche per identificare un metodo che sia applicabile al suo contesto/obiettivo.
• W. ToP (Tecnology of Participation): workshop guidato da un facilitatore per gruppi di lavoro che permette di sviluppare idee ed assumere decisioni significative
• GOPP: Goal Oriented Project Planning, permette di progettare, gestire e valutare interventi in maniera condivisa tra gli attori‐chiave
• Focus Group: permette di conoscere l’opinione di piccoli gruppi di partecipanti tramite un processo di confronto guidato. Non necessariamente porta ad una deliberazione finale
• Brainstorming: permette di coinvolgere i partecipanti tramite la produzione di idee ed il confronto. Non necessariamente porta ad una deliberazione finale
• Town meeting: permette di conoscere l’opinione informata di ampi gruppi di cittadini, attraverso un confronto supportato da facilitatori
• Bilancio partecipativo: permette di conoscere l’opinione di ampi gruppi di cittadini in merito alla gestione degli investimenti di una amministrazione
• Citizen Jury: permette di conoscere l’opinione dei partecipanti su una decisione controversa: l’obiettivo è produrre un ‘verdetto’
• Sondaggio: permette di conoscere l’opinione (non necessariamente informata) di ampi gruppi su ipotesi predefinite
Le differenze tra i due contesti di utilizzo citati sono molteplici, anche per quanto riguarda la scelta di modelli e metodi per la partecipazione: innanzitutto, perché diversi sono gli attori del sistema, sia per quanto riguarda i promotori del processo partecipativo (amministratori in un caso, dirigenti d’azienda o coordinatori di gruppi di lavoro nell’altro), sia per quanto riguarda coloro che possono candidarsi come facilitatori (più facilmente scienziati politici o sociologi nel primo caso, psicologi del lavoro nel secondo).
Inoltre, molto diversa può essere l’ampiezza dell’intervento: utilizzare metodi partecipativi come strumento di azione politica/istituzionale (ad esempio nei piani di sviluppo territoriale come sempre più spesso avviene) implica che possono essere coinvolte da 8/10 fino a centinaia di persone. Utilizzarli invece per il cambiamento organizzativo implica che spesso gli interlocutori saranno gli appartenenti ad un gruppo di lavoro, o ad un’area: più facilmente si parla di meno di dieci di persone.
L’ampiezza del campione comporta la scelta di strumenti diversi e/o una loro applicazione che sia sensibile a questa variabile: un town meeting, ad esempio, può essere realizzato con piccoli gruppi, o coinvolgere, soprattutto nella variante che si avvale di supporti informatici (elettronic town meeting) moltissime persone.
I due ambiti sono dunque da considerarsi e studiarsi separatamente: in questa sede si è ritenuto utile affiancarli per completezza. In conclusione, è utile segnalare il fatto che – oltre a quelli citati ‐ si ritiene che un terzo ambito possa trarre grandissimo beneficio dall’assunzione di approcci, e dall’applicazione di metodi, partecipativi: si tratta della formazione professionale. Tale proposta viene argomentata nell’articolo Partecipare per apprendere.
BIBLIOGRAFIA:
Arnstein, S.R. (1969). “A Ladder of Citizen Participation”. In Journal of the American Institute of Planners, Vol. 35, No. 4, July 1969, pp. 216-224. Boston: American Institute of Planners. Retrieved February 17, 2006 DOWNLOAD
Gli uomini stressati scelgono immagini di donne più robuste rispetto a quelli non stressati.
Secondo le teorie evoluzionistiche la scelta del partnerdipende dalla possibilità di procreare e garantire la sopravvivenza della prole. Per questo motivo le donne hanno bisogno di avere un maggiore accesso alle risorse necessarie per allevare i figli, scegliendo uomini in grado di sostenerle. I maschi, invece, hanno bisogno di incontrare femmine fertili, ad esempio donne giovani.
Quando, però, le condizioni socio-economiche o individuali sono ostili o incerte, gli individui preferiscono dei partner con caratteristiche fisiche più mature, tra cui una dimensione del corpo più florida.
Questo accade perché la maturità fisica si associa alla capacità di gestire le situazioni di minaccia e comunica un senso di forza, controllo e indipendenza, proprio ciò di cui si ha bisogno quando ci si sente minacciati. Quindi, fisici più corpulenti sono preferibili laddove le risorse ambientali sono imprevedibili o non disponibili, proprio in funzione del fatto che il grasso è associato all’idea di un eccesso di risorse.
Partendo da queste ipotesi, in una recente ricerca (Swami, Tovée, 2012) si è analizzato come un’esperienza di stress psicologico può influenzare le preferenze relative alle dimensioni del corpo. Tale studio è stato eseguito su un campione composto da 81 studenti eterosessuali maschi, della stessa etnia, assegnati casualmente al gruppo di controllo o al gruppo sperimentale in cui erano esposti ad una condizione di stress elevato. A ciascuno di loro erano presentate dieci immagini di donne con diversa corporatura.
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I risultati dimostrano che gli uomini stressati scelgono immagini di donne più robuste rispetto a quelli non stressati. Quindi, gli individui sono più propensi a idealizzare fisici più prosperosi, quando si verifica una minaccia ambientale come quella dettata dallo stress e di conseguenza l’attrazione fisica subisce l’impatto dei fattori ambientali. Per concludere a seguito delle condizioni di stress, l’uomo sarebbe propenso a scegliere secondo un proprio gusto personale senza rispondere ai diktat sociali che da sempre ci fanno credere che il magro è bello.
Le donne, invece, in caso di minaccia, potrebbero sentirsi più sicure con uomini più maturi? A voi l’idea per la prossima ricerca!
Oggi State of Mind presenta il libro sul trattamento cognitivo-comportamentale dell’ insonnia curato dai colleghi del Centro per il Trattamento Integrato dei Disturbi del Sonno in Psicopatologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana (AUOP). Il tema del volume è chiaro: si tratta di un manuale pratico e applicativo per il trattamento cognitivo-comportamentale dell’ insonnia.
Come sottolineato nella quarta di copertina del volume, “l’ insonnia è il più frequente disturbo del sonno del mondo industrializzato e interessa potenzialmente tutti”. Per questo motivo, un manuale clinico e pratico riferito a questa problematica assume un’importanza significativa. Un aspetto che mi ha colpito sin dalle prime pagine è la concretezza e la specificità in cui si addentra il manuale. Introduzione e aspetto teorici sono ridotte al minimo (senza mancare di niente…) e ci si addentra subito nell’applicazione del protocollo.
In breve, il libro si struttura in quattro sezioni.
Nella prima sezione, vengono descritti in modo esaustivo le componenti principali del trattamento CBT per l’ insonnia. A mio parere, gli autori riescono ad incarnare il principio dell’integrazione, troppo spesso millantato e gridato ai quattro venti, nonché molto in voga negli ultimo dieci/quindici anni. Infatti, tra le componenti indicate dagli autori, ricordiamo gli aspetti tecnici di prima scelta, come la tecnica di controllo degli stimoli (TCS), la tecnica di restrizione del sonno (TRS) o la tecnica dell’igiene del sonno; gli interventi di seconda scelta, come il rilassamento e la foto terapia. Un accenno viene fatto anche ai recenti protocolli sperimentali con l’ausilio della mindfulness. Oltre agli aspetti tecnici, sempre nell’ottica dell’integrazione, vengono prese in considerazione altre variabili fondamentali come la relazione clinica, il setting e il primo contatto con il paziente.
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La secondo sezione rappresenta il core del volume e ne occupa la maggior parte. Viene infatti descritto il trattamento cognitivo-comportamentale per l’ insonnia, step-by-step, seduta dopo seduta, un approccio così strutturato che potremmo considerarlo un protocollo.
L’intervento mostrato dal manuale prevede i seguenti step: Sessione 1 – valutazione iniziale, Sessione 2 – inizio del trattamento TCS e TRS, Sessione 3 – rivalutazione terapeutica (igiene del sonno) fino a giungere alle valutazioni conclusive nella Sessione 8. Ogni sessione viene coadiuvata da materiali clinici molto utili per gli esperti. Troviamo, infatti, nel manuale, strumenti valutativi, schede da consegnare ai pazienti con problemi di insonnia, schede riassuntive per il clinico, facilmente utilizzabili nella pratica clinica.
Per fornire un esempio, il protocollo prevedere che venga consegnata una scheda a fine trattamento per l’ insonnia che “aiuti il paziente a ricordare i propri guadagni clinici”. La scheda richiama la seguente:
– DUE COMANDAMENTI –
1 – Non rimanere a letto se si è svegli da più di 15 minuti
2 – Non cercare di compensare una notte insonne andando a letto presto, rimanendo a letto effettuando pisolini
– RICORDARE –
“Se non è stasera, sarà domani sera”
“Se stanotte non dorme bene, domani dormirà meglio”
Questa scheda esemplificativa, se da una parte conferma un approccio “british”, standard, dall’altra rende l’idea di quanto il manuale abbia lo scopo di essere realmente uno strumento clinico, da utilizzare come ausilio e guida nella pratica clinica.
Piccola nota per clinici in formazione: ogni sessione viene descritta con l’aiuto di moltissime esemplificazioni cliniche che non solo danno un’idea della tecnica di colloquio (e terapeutica) di Perlis e colleghi, ma aiuta a riflettere su come adattare in modo flessibile e “evidence-based oriented” il proprio agire clinico.
L’importanza data alle esemplificazioni cliniche è evidente in questo manuale, tanto che a tali esempi è stata dedicata tutta la terza sezione del manuale.
La quarta ed ultima sezione del manuale, che ne è anche Appendice, include un insieme di definizioni e caratteritiche sull’ insonnia , utili soprattutto in fase di psicoeducazione, Linee Guida dell’Academy of Sleep Medicine (AASM), questionari e schede per homework e esercizi durante le sessioni utili e di ispirazione clinica.
Il tutto il circa centotrenta pagine. Chiare, nette, lineari, strutturate e senza “fronzoli” teorici. Un manuale scritto da clinici per clinici, da tenere a portata di mano nel cassetto delle nostre scrivanie.
Il Flash Mob davanti all’Ordine degli Psicologi del Piemonte
Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul sito del CPPP (Coordinamento Psicologi Psicoterapeuti Piemontese) riferito al Flash Mob da loro organizzato lunedì 24 settembre 2012, a Torino. Alla redazione di State of Mind è sembrato giusto e naturale dare risonanza alla manifestazione, e ripubblicare l’articolo che traccia un bilancio sull’evento appena concluso e riporta integralmente la lettera che il Coordinamento ha presentato ai membri dell’Ordine.
Lunedì 24 settembre il Coordinamento Psicologi Psicoterapeuti Piemontese (CPPP) ha organizzato un presidio (diffuso via web in chiave 2.0 e declinato in Flash Mob) di fronte alla sede dell’Ordine degli Psicologi Piemontese.
Flash Mob davanti all’ORdine degli Psicologi del Piemonte. Organizzato dal CPPP – Coordinamento Psicologi Psicoterapeuti PIemontese – Lunedì 24 Settembre 2012.
Si denuncia: “Un’inadeguata o inesistente rappresentanza dei diritti della categoria professionale ulteriormente minacciata dalle nuove proposte di legge in materia di formazione continua, assicurazioni obbligatorie, tirocini prolungati”
TESTO ORIGINALE:
Coordinamento Psicologi e Psicoterapeuti Piemontesi – CPPP – Logo Ufficiale
Il flash mob ha avuto luogo. Per chi l’ha organizzato, con pochi mezzi e in breve tempo, è stato un gran successo. Dietro questa improvvisata richiesta d’ascolto ci sono due anni di lavoro di tante persone che hanno deciso di smetterla di lamentarsi e di chiedere con forza che si attui immediatamente un cambiamento.
Ci sono anche due anni di proposte, di scambi di idee, di tavoli di lavoro e di faticose discussioni per riuscire a giungere, sempre, ad una posizione condivisa, appoggiata da tutti coloro che si sono riconosciuti nel CPPP. Siamo riusciti a farci ascoltare portando i “nostri” temi.
Il consiglio dell’ordine ci ha permesso di leggere una dichiarazione e ha dedicato alla questione un’ora, lasciando spazio ad un dibattito che sulla carta non avrebbe dovuto avere luogo – alle riunioni infatti si può presenziare ma non intervenire, salvo richiesta presentata per tempo per essere aggiunti nell’ordine del giorno. Ci sono state in alcuni casi decise contrapposizioni di vedute ma in modo franco e non urlato.
Sperando in reali mutamenti, è necessario però da subito agire con proposte e nuove iniziative. Non ci si può più permettere di aspettare che le cose cambino grazie al lavoro di pochi. Il CPPP è, dunque, ufficialmente in cantiere e ricerca con spasmodica voracità idee, sperando che esse possano essere il frutto dello scambio di più menti (anche della tua). Il nostro obiettivo, non tanto velato, è che presto si arrivi a far lavorare i cervelli di tutti gli psicologi attorno ad un unico progetto: una professione che abbia per davvero una identità comune e condivisa.
Di seguito è riportata la lettera che un collega ha letto a nome di tutti noi ai membri dell’Ordine.
Cari colleghi,
abbiamo chiesto di intervenire questa sera come Coordinamento Psicologi e Psicoterapeuti Piemontesi facendoci portavoce delle istanze di quella fetta di iscritti, probabilmente maggioritaria, che si trova in fortissima crisi lavorativa. Si tratta di un esercito di persone, ogni anno più nutrito, che a seguito di una interminabile formazione non riesce a esercitare la professione e che spesso vive condizioni di precariato lavorativo ed esistenziale, sbarcando il lunario (quando va bene) attraverso altri tipi di impiego sottoqualificato , nell’attesa perenne di esercitare quella agognata professione per cui si è lungamente studiato e per il quale si sono fatti sacrifici enormi.
Certo questa situazione è legata, a nostro modo di vedere, a tanti fattori. Alcuni sono di carattere generale come la crisi economica o la scarsa dignità sociale della disciplina psicologica in Italia a fronte, invece, dell’ importanza sociale e dello strapotere della disciplina medica. Altri fattori invece, sono legati, secondo noi, a errori passati e a una certa miopia nella pianificazione delle politiche formative e professionali.
Il Flash Mob davanti all’Ordine degli Psicologi del Piemonte – Dettaglio Articolo La Stampa 24 settembre 2012
In questa cornice, siamo costretti a sopportare oltre al danno anche la beffa! Proprio questa fetta della comunità professionale che vive le difficoltà maggiori, deve constatare come la propria condizione, le proprie necessità e i propri interessi non vengano quasi per nulla rappresentati nell’ambito della politica professionale, pur trattandosi della componente numericamente più significativa della comunità professionale stessa.
Riteniamo, che le difficoltà di questi colleghi, che stimiamo essere circa il 60% degli attuali iscritti all’Ordine siano oggi “LA” questione, della politica professionale piemontese e non solo piemontese. Ci sembra invece che (per usare un termine a noi familiare) il problema sia e sia stato semplicemente “dissociato”: Tutto va bene Madame la Marchesa….
Ma ciò che più lascia attoniti non è tanto e solo questa cronica assenza di idee, quanto la leggerezza con cui si continua a far ricadere su questi colleghi, già in estrema difficoltà, continui aggravi di spese, sempre meno sostenibili. È importante che voi che sedete su quelle sedie siate a conoscenza del fatto che molti dei vostri colleghi non ricavano dalla pratica professionale nemmeno la cifra necessaria a fare fronte a tutti gli adempimenti correlati alla professione. L’invito accorato che vi rivolgiamo è dunque di tenere conto di queste informazioni prima di avallare decisioni che li mortifichino ulteriormente.
In questa sede non è possibile affrontare l’interezza di una problematica così complessa e questa lunga premessa ha il solo scopo di aiutarvi a immaginare (visto che molti di voi non la vivono nel loro quotidiano) la realtà lavorativa e di vita dei vostri colleghi “diversamente psicologi”. Non sarà sicuramente l’ultima occasione in cui cercheremo di fornirvi input utili per il vostro lavoro.
Quest’oggi però ci dobbiamo concentrare su alcuni punti che, in questo momento, sono all’ordine del giorno e rischiano di fare affogare chi lotta strenuamente per riuscire a stare a galla (la riva non si vede nemmeno all’orizzonte).
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Chiediamo innanzitutto una seria problematizzazione e presa di posizione da parte dell’Ordine in merito ai recenti provvedimenti del Governo, attualmente in discussione presso gli ordini, in materia di formazione continua (ECM). Ci preme sottolineare come l’ipotesi di istituzione di una formazione obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria costituirebbe non soltanto un ulteriore onere economicamente insostenibile per tutti i professionisti che non hanno un reddito (o hanno un reddito risibile) derivante dal lavoro psicologico, ma anche un ulteriore smacco poiché per l’ennesima volta ci ritroviamo incastrati in meccanismi formativi che alimentano un fenomeno che è stato definito di “cannibalismo professionale”: una redistribuzione continua del reddito dal basso verso l’alto, dai perenni formandi ai perenni formatori. Talvolta ci chiediamo se iscrivendoci alla Facoltà di Psicologia abbiamo firmato un qualche modulo che ha impegnato ognuno di noi ad adottare a vita i nostri docenti.
Immaginiamo essere figlie della stessa logica, e dell’”impegno adottivo” assunto, le ipotesi di innalzamento delle scuole di psicoterapia a 5 anni e l’aumento delle ore di tirocinio richieste! Chi seriamente pensa che gli Psicoterapeuti in formazione abbiano bisogno per essere dei bravi professionisti di un anno in più di scuola di specialità?Ironia della sorte, negli stessi giorni in cui ha cominciato a circolare l’ipotesi di allungamento della durata delle scuole di specialità a 5 anni, sui giornali girava anche la notizia dell’ipotesi di accorciare quelle mediche a tre! La solita storia: noi facciamo parte delle professioni della salute solo quando c’è da pagare oneri e mai per condividere gli onori.
Francamente ci sembra che le motivazioni per allungare la durata delle scuole di specialità siano ben altre… Pensiamo che questa decisione, ovunque sia nata , sia un colossale regalo alle scuole di specialità che dimostra per l’ennesima volta come l’ultima generazione di Psicologi sia vista solo come carne da spremere con l’alibi della formazione. Ci chiediamo se questa decisione sia legata oppure no alla massiccia presenza, nei luoghi delle politiche professionali, di personaggi direttamente o indirettamente coinvolti nel grande affare delle scuole di specialità in Psicoterapia.
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Se ancora non fosse chiaro, il problema nostro e della nostra professione non è la mancanza di formazione ma la mancanza di lavoro! La formazione ha dimostrato negli anni di essere un alibi e di non rispondere al problema occupazionale (o meglio, risponde solo ai problemi occupazionali dei docenti), anzi, per assurdo, le generazioni che ci hanno preceduto difendono con i denti nicchie professionali e continuano a lavorare pur essendo in molti casi palesemente meno formati delle nuove generazioni che rimangono fuori dal mercato del lavoro.
In merito all’ipotesi della formazione obbligatoria (ECM) ci chiediamo: chi sarà a organizzare questi incontri di formazione? Chi ne trarrà vantaggio? Su chi ricadranno gli oneri?
Per quanto ci riguarda dichiariamo solennemente che abbiamo deciso di terminare l’adozione dei nostri formatori. A chi ci dobbiamo rivolgere per le pratiche burocratiche?
E cosa dire dell’assicurazione obbligatoria? L’Ordine pensa di fare presente la situazione dei suoi iscritti che è spesso diversa da quella degli iscritti agli altri ordini o, anche in questo caso, assumerà una posizione pilatesca, svolgendo la funzione di passacarte?
Lasciamo che paghino l’assicurazione professionale anche coloro che di fatto non esercitano la professione e che non hanno pazienti? Fermo restando l’importanza dell’assicurazione per chi svolge la professione, l’obbligatorietà non genererà meccanismi speculativi? Quali misure si pensano di adottare in questo senso?
Come ultimo punto di questo intervento, chiediamo con forza che l’Ordine impieghi tutti i mezzi che ha a disposizione affinché il lavoro svolto dal Tavolo sui Tirocini e promosso dall’Ordine prosegua così che la bozza relativa ai tirocini, faticosamente costruita negli scorsi mesi insieme alle ASL e alle Scuole di Psicoterapia, venga assunta come regolamento per i Tirocini in Piemonte e non solo. La situazione sembra stagnare, e chiediamo che l’Ordine che, a onor del vero, si è responsabilmente impegnato nella gestione di questo capitolo, riprenda le fila della questione sollecitando gli attori in campo per facilitare un rapido proseguo di quanto costruito insieme.
Vi ringraziamo dunque per l’attenzione concessaci, sicuri che farete tesoro delle istanze degli iscritti che vi hanno eletto e che siete chiamati a rappresentare.
Un augurio di buon lavoro.
Coordinamento Psicologi e Psicoterapeuti Piemontesi
Il Legame tra Trauma e Perversione: da Freud a De Masi
Il legame fra trauma e perversione è stato indagato da molti autori che hanno cercato di capire se uno o più eventi traumatici vissuti nel corso dell’infanzia possano generare, attraverso una causalità lineare, un quadro di comportamenti che possiamo definire perversioni o se al contrario il trauma si innesta in una struttura psichica già orientata verso fantasie patologiche.
Molto interessante al riguardo è il contributo di De Masi (2008), il quale sottolinea un aspetto centrale ma a suo parere non più condivisibile del pensiero freudiano: il primo modello psicoanalitico, la teoria pulsionale, afferma che la sessualità sia un’esperienza unitaria; le fasi orale, anale e fallica rappresentano un quadro unico di sessualità primitiva e i comportamenti sessuali anomali sono riconducibili allo sviluppo abnorme di una delle componenti di base, che si rende autonoma e si fissa impedendo i successivi processi evolutivi (Freud, 1919).
Se invece intendiamo la perversione non come uno dei possibili sviluppi della sessualità ma come una deviazione di essa, costruiamo un quadro più realistico che ci permette di comprendere meglio ciò che davvero si verifica nei processi mentali dei pazienti.
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In particolare abbiamo una visione chiara della distinzione fra sessualità e sessualizzazione, cioè fra un impulso sessuale che si rivolge ad un oggetto esterno ed uno che invece si trasforma in fantasie autoindotte. La sessualizzazione è il ritiro psichico in un’area nella quale il paziente si eccita esclusivamente con le proprie fantasie; non è più necessario un oggetto sessuale esterno e ciò implica una deviazione dello sviluppo sessuale, poiché gli oggetti che elicitano tali fantasie sono contenuti mentali sui quali, nella maggior parte dei casi, viene operata una distorsione.
E’ il caso delle fantasie sadiche e masochistiche; il soggetto non entra in relazione con l’altro bensì produce nella propria mente una serie di immagini che lo vedono coinvolto in un rapporto di sottomissione o di dominio.
L’altro non esiste più, non ha bisogni e desideri propri ma dipende unicamente da ciò che l’impulso sadomasochistica determina. La sessualizzazione si lega alla perversione dal momento che non sempre il ritiro psichico nel piacere autoindotto rimane separato dall’azione; quando esso si sposta in un contesto reale, in cui il soggetto usa una o più persone per soddisfare le proprie fantasie, abbiamo la perversione.
La sessualizzazione, l’incapacità di uno sviluppo sessuale normale che consente l’instaurarsi di relazioni con l’altro, è senza dubbio connessa alla presenza di traumi nella storia di vita del paziente, ma De Masi puntualizza che per capire il rapporto fra trauma e perversione occorre analizzare ogni singolo caso.
Vi sono infatti soggetti la cui storia è segnata da trascuratezza, comportamenti sessuali anomali da parte dei genitori, incapacità genitoriale di rispondere ai bisogni in modo costante e comprensivo, e in queste situazioni esiste già prima del trauma un’atmosfera ambientale che facilita e induce il processo di sessualizzazione.
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Il concetto di trauma può essere inoltre ampliato includendo non solo gli abusi, le molestie e altri eventi particolarmente stressanti per il bambino (ad esempio delicate operazioni chirurgiche che intervengono su menomazioni del corpo) bensì anche traumi emotivi che si inscrivono nella relazione fra il paziente e una o entrambe le figure genitoriali.
Trovarsi in una condizione di isolamento emotivo, in cui il soggetto non riceve contenimento, né adeguato rispecchiamento alle proprie angosce, provoca uno stato penoso che può essere controllato mediante il ritiro in fantasie autoindotte, che sviluppandosi assumono una valenza erotica; se i genitori, e in special modo la madre, non si accorgono di tale ritiro o addirittura lo consentono attraverso modalità più o meno coscienti, la predisposizione alla perversione è data.
De Masi, in riferimento al trauma, aggiunge che esso può venire erotizzato proprio come operazione difensiva che il paziente pone in atto per controllare lo stato emotivo col quale non può venire in contatto. Percepire ad esempio i genitori come coppia in cui uno dei due membri è violentemente sottomesso all’altro, può generare nell’individuo un vissuto di angoscia molto profondo che egli può controllare trasformando la rappresentazione di quella relazione in una fantasia eccitatoria.
In conclusione, le conseguenze di un trauma fisico o emotivo possono essere molto gravi; per intervenire in terapia su di esse e sulle eventuali perversioni che compongono il quadro clinico è necessario ricostruire sia il trauma sia le modalità attuali con cui il paziente si relaziona, elaborando i rapporti causa-effetto e agendo affinché il paziente sviluppi la capacità di includere l’altro reale nei propri pensieri e fantasie.
Spiare un ex-partner, attraverso l’utilizzo di Facebook, può ostacolare il processo di guarigione dopo la fine della storia d’amore.
“Possiamo comunque rimanere amici”. Questa è la frase che, spesse volte, contraddistingue la fine di una storia d’amore. Numerose ricerche, tuttavia, hanno messo in luce come rimanere amici dopo la fine di una relazione affettiva può compromettere il recupero emotivo di colui che è stato lasciato.
Cosa accade se dopo la rottura sentimentale, si continuasse a far parte della lista degli amici di Facebook del proprio ex? Il rischio è diventare dei Facebook Stalker.
Ricerche recenti dimostrano che il continuo spiare il profilo dell’ex partner su Facebook è associato a una maggiore probabilità di incorrere in un atteggiamento intrusivo di tipo ossessivoparagonabile al presentarsi a scuola o sul luogo di lavoro all’insaputa del proprio ex.
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Cosa più grave: questo atteggiamento è ritenuto, da parte di coloro che utilizzano Facebook per spiare l’altro, assolutamente innocuo.
In realtà spiare on line il comportamento di un ex-partner porta ad aumentare la sofferenza dopo la rottura e a prolungare la nostalgia. Per esempio, guardando le foto, si potrebbe riaccendere il desiderio, o sprofondare in una angoscia se si scoprisse che l’ex partener è coinvolto in un nuovo rapporto.
Una recente ricerca (Marshall, 2012) ha indagato questo fenomeno su un campione costituito da 464 individui. In particolare, coloro che restano amici su Facebook sperimentano un recupero e una crescita più difficile rispetto a chi ha cancellato l’amicizia e recuperano meno in termini emotivi.
Quindi, il frequente spiare il profilo del proprio ex su Facebook è associato ad una maggiore angoscia dopo la rottura, a elevati sentimenti negativi, a desiderio sessuale, a nostalgia per l’ex e a un recupero e una crescita personale inferiore.
Nel complesso, questi risultati suggeriscono che spiare un ex-partner, attraverso l’utilizzo di Facebook, può ostacolare il processo di guarigione dopo la fine della storia d’amore.
Dunque, controllare su Facebook chi ci “ha tanto amato” non è affatto salutare! Vedere che la sua vita prosegue mentre noi siamo bloccati sullo schermo di un computer provoca nostalgia e emozioni negative. Pertanto, evitare di spiare il profilo del proprio ex e continuare la propria vita conservando solo un piacevole ricordo di ciò che è stato, è forse il modo migliore per crescere e per far guarire un cuore spezzato.
Il Cool Kids Program: protocollo strutturato di trattamento per i bambini con disturbi d’ ansia, che si sviluppa e si conclude in 10 sessioni, della durata di un’ora per le terapia individuali, o di due ore per i gruppi.
Ronald Rapee, importante ricercatore della Macquarie University di Sydney ha tenuto un seminario a Milano, presso la scuola di specializzazione in psicoterapia “Studi Cognitivi”. Seminario dedicato all’ansia nel bambino e al suo trattamento cognitivo-comportamentale (CBT).
L’opinione di Ron Rapee è che il trattamento CBT dell’ ansia nei bambini sia diverso da quello degli adulti non tanto nella sostanza, quanto nella forma,: le strategie di base sono le stesse, la ristrutturazione cognitiva e l’esposizione alle situazioni ansiogene; cambia invece il modo in cui queste sono presentate.
Se con un adulto si può usare la ristrutturazione cognitiva a un livello più o meno astratto, con un bambino bisogna utilizzare alcuni accorgimenti che permettano di lavorare a un livello più pragmatico: ad esempio l’uso del “termometro delle emozioni” o lo schema ABCpresentato come un cuore da riempire con l’emozione provata.
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Un’altra differenza fondamentale del lavoro con i bambini è l’attenzione al sistema in cui sono inseriti, “Non c’è un bambino ansioso, c’è una famiglia ansiosa”, come sintetizza Ron Rapee a metà mattina.
Rapee è molto attento agli aspetti di ricerca, questo si traduce in un’attenzione alle misurazioni e ai questionari da dare alla famiglia e al bambino prima di iniziare il trattamento; queste non sostituiscono una diagnosi nel senso classico, ma forniscono informazioni che altrimenti il clinico avrebbe difficoltà a reperire in tempi brevi.
Uno strumento su tutti è il CATS Children’s Automatic Thoughts Scale, sviluppato da Rapee stesso, in cui alcuni dei pensieri automatici negativi tipici dei vari disturbi d’ ansia (ad es. “i bambini pensano che sono stupido”, “sta per succedere qualcosa di brutto a papà e mamma”) sono trasformati in item di una scala Likert e somministrati al bambino .
Il pezzo forte della giornata è indubbiamente il Cool Kids Program,un protocollo strutturato di trattamento per i bambini con disturbi d’ ansia (e solo questi), che si sviluppa e si conclude in 10 sessioni, della durata di un’ora per le terapia individuali, o di due ore per i gruppi.
Il programma si basa sul modello d’ ansia sviluppato da Rapee e collaboratori, in cui fattori genetici, stile genitoriale, vulnerabilità individuale e eventi esterni concorrono a generare il disturbo d’ ansia; per ognuno dei fattori, il protocollo prevede una tranche di terapia, che va a lavorare sugli elementi disfunzionali.
La vulnerabilità individuale, ad esempio, viene affrontata con la ristrutturazione cognitiva e l’esposizione, gli stressor esterni vengono affrontati attraverso l’insegnamento di abilità sociali, la parte che riguarda il lavoro con i genitori prevede un intervento che riduca l’iperprotettività verso il figlio e favorisca il supporto all’esposizione, e via dicendo. A questo proposito, il punto su cui Rapee torna spesso, e sottolinea come principale, è la centralità dell’esposizione alle situazioni ansiogene; se abbiamo pochi incontri, il nostro lavoro deve vertere quasi esclusivamente sull’esposizione.
Il Cool Kids Program include i genitori nel trattamento in modo diretto e in modo indiretto.I genitori partecipano attivamente con una modalità che Rapee chiama “Together, separate, together”, riferendosi ai momenti del lavoro per ogni sessione: inizialmente i genitori entrano nella stanza con i bambini (together) per le chiacchiere di rito sull’andamento della settimana trascorsa e il controllo degli homework, successivamente escono e il bambino rimane da solo a lavorare con il terapeuta (separate) e, alla fine della seduta, tornano per condividere il lavoro svolto (together).
Nelle terapia di gruppo, si osserva una modalità indiretta di partecipazione degli adulti che ha inaspettati effetti benefici: Rapee racconta che i genitori, rinchiusi nella stanza affianco ad aspettare la fine delle due ore di terapia dei figli, si trasformano in un gruppo di mutuo auto aiuto, con esiti sorprendenti.
Le sessioni del Cool Kids Program si svolgono secondo un ordine logico e razionale, il cui primo passo è introdurre i bambini (e i genitori) al collegamento tra pensieri e emozioni e al modello sulla natura e sulle cause dell’ansia. La ristrutturazione cognitiva viene introdotta subito, già nella seconda sessione, attraverso la metafora del detective: ai bambini viene detto che impareranno a fare gli investigatori, che indagheranno sui pensieri che causano le loro paure e che i loro “strumenti del mestiere” saranno delle domande specifiche da utilizzare per contrastare i pensieri dannosi (“Quali sono i fatti?”, “Cosa altro può essere successo invece di quello che sto pensando ora?”, “Cosa è successo in passato di simile?”).
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A questo punto, i bambini e i genitori sono pronti per l’esposizione; dopo aver stabilito la gerarchia delle situazioni temute e aver fatto un po’ di psicoeducazione sull’argomento (aspettarsi alti e bassi, evitamenti “sottili” e via dicendo) si entra nel vivo della procedura: i bambini devono affrontare le situazione temute.
Durante le esposizioni, il focus deve essere rivolto alle conseguenze temute, facendo provare al piccolo paziente il sapore di ciò che teme, stando molto attenti che il bambino non si sottragga, anche in modo velato, a ciò di cui ha paura. Ad esempio, se il bambino ha paura di fare un errore in un compito a casa, l’esposizione consisterà nel compiere apposta un errore, proprio per far vedere al paziente che non è così terribile sbagliare qualcosa. Dopo le esposizioni, in cui il terapeuta è incoraggiato a partecipare attivamente, le sessioni si incentrano sull’’insegnamento delle abilità sociali e sul consolidamento di quanto appreso.
Infine, dopo un paio di settimane dal penultimo incontro, c’è la sessione finale, in cui si discutono gli obiettivi a lungo termine e si programma il follow up a 3 mesi.
Il seminario di Rapee è stato molto stimolante, il Cool Kids sembra essere un programma con ottime potenzialità, sia perché fornisce un protocollo strutturato di trattamento facilmente utilizzabile, sia perché la sua stessa natura si presta molto bene alla ricerca.
Magrezza non è bellezza. I disturbi alimentari. Sassaroli, Ruggiero, Fiore – Edizioni Elettroniche State of Mind – 2012
Capitolo I. Introduzione ai disturbi alimentari.
A metà degli anni ’80 o poco prima i disturbi alimentari si trasformarono. Fino a quel momento erano stati una curiosità psichiatrica, un disturbo psicologico eccentrico e raro, dal sapore quasi ottocentesco. Una stramberia simile alla personalità multipla o alle isteriche del dott. Charcot alla Salpetrière. Ma improvvisamente sembrarono diventare quasi un’epidemia e soprattutto assunsero un valore simbolico. Da residuo polveroso della vecchia psichiatra a malessere psicologico anche troppo tipico del secondo consumismo, quello dell’epoca del riflusso dopo la sbornia rivoluzionaria degli anni ’70.
Gli anni ’80 furono il tempo del ritorno al privato, ma anche di un rinnovato edonismo. Cambiati i valori, improvvisamente l’ideale non era più rinnovare il mondo ma affermarsi personalmente, realizzarsi. Le professioni economiche diventarono appetibili. L’operatore di borsa, che nel decennio precedente era stato una figura negativa, divenne invece un ideale. “Wall Street” di Oliver Stone rappresentò questo cambio di scenario. Gordon Gekko, pescecane della Borsa di New York, rubava la scena al protagonista Bud Fox e si impadroniva del film. Un ideale neopagano di bellezza, forza, potere e splendore personale entrava nell’immaginario pubblico e ne prendeva possesso. Anche Tom Wolfe nel suo romanzo “Il falò delle vanità “ del 1987 seppe illustrare l’ascesa e la caduta di un personaggio avido di vita e di denaro nella New York della metà degli anni ottanta. Il protagonista Sherman McCoy, a causa di un incidente automobilistico in cui la sua amante travolge e uccide un ragazzo di colore, precipita sempre più in basso perdendo tutto e diventando un uomo perseguitato, odiato, abbandonato dalla moglie e alla fine solo e povero, bersaglio emblematico e simbolico di tutti i valori dell’edonismo reganiano.
L’associazione di idee tra questo edonismo e l’emergere dei disturbi alimentari non è immediata. Il rifiuto del cibo dell’anoressica non sembra una scelta legata all’affermazione di sé. Sembra piuttosto una negazione. Ma è una negazione dettata dalla paura e dell’ansia di non riuscire a rispettare l’ideale individualistico dell’affermazione personale. Come vedremo meglio, l’esordio anoressico avviene per lo più al limitare dell’adolescenza, quando la giovane ragazza deve uscire dalla cerchia familiare ed entrare in un mondo sociale fatto di giovani adulti in cui per la prima volta è necessario conquistare l’attenzione e la considerazione altrui. Naturalmente a quella giovane età il ruolo svolto dalla bellezza fisica è particolarmente incisivo, bellezza che deve essere accompagnata da un tipo di carisma sociale estroverso e non particolarmente sofisticato. E naturalmente la giovane età rende questi giovani soggetti particolarmente sensibili al giudizio altrui e al dispiacere delle piccole competizioni di rango imposte dalla vita sociale.
Tutto questo si può tradurre in stati di sofferenza particolarmente acuta, sofferenza che poi rischia di diventare ingestibile nelle personalità più fragili. L’individuo così cade preda di idee e convinzioni che si definiscono, in gergo psicologico, maladattative e distorte: la convinzione di non essere all’altezza, di non avere il controllo delle situazioni e, ancora peggio, di non avere il controllo dei propri stati d’animo e delle emozioni, che appaiono assumere un carattere di intensità ingestibile.
Beninteso, tutto questo non è affatto specifico dei disturbi alimentari, anzi si tratta di un fattore piuttosto comune a molti disturbi emotivi e psichiatrici. L’intero spettro dei disturbi d’ansia condivide questa configurazione emotiva. Ciò che è specifico e che fornisce valore simbolico sono l’obiettivo concreto su cui si concentrano le ansie tipiche dei disturbi alimentari: l’alimentazione e l’aspetto corporeo. Anzi, per essere più precisi: il controllo dell’alimentazione e dell’aspetto corporeo.
Il termine controllo è decisivo. Rischia di essere banale ridurre i disturbi alimentari a una distorsione culturale di eccessivo valore dato all’esteriorità e alla bellezza del corpo. È invece proprio il termine controllo che consente non solo di comprendere il disturbo alimentare stesso, ma perfino di chiarire meglio la natura della stessa di alcune convinzioni culturali.
Controllo, come vedremo, non è solo un comportamento, ma prima ancora un’idea, una convinzione, o come si dice in gergo psicologico, una “credenza”. Per controllo si intende quanto abbiamo l’impressione di poter gestire sia gli eventi esterni che le nostre stesse emozioni. Paradossalmente, è proprio la definizione più tautologica quella che rende meglio l’idea: controllo è la convinzione che ogni cosa vada assolutamente tenuta sotto controllo. Come tutte le idee legate a uno stato di sofferenza emotiva, non si tratta di un obiettivo positivo. Il controllo non è cercato per ottenere un beneficio, ma per evitare un danno. Insomma, e qui appare la natura del disagio, c’è un timore e un ansia e non un desiderio. Quale poi sia questo danno temuto, esso rimane per lo più indefinito. Anzi, è proprio dello stato di sofferenza psicologica che i guai temuti dal paziente rimangano in una sfera indefinita. Tuttavia, si può dire che siamo nell’ambito della realizzazione personale e delle relazioni umane: il danno temuto è l’emarginazione sociale, il senso di inadeguatezza personale e sociale, insomma lo sforzo di maturazione che inevitabilmente attende la giovane donna all’uscita dalle limitazioni della vita familiare.
Questo sforzo di maturazione richiede una grande flessibilità mentale. Il controllo, in sé, non è un fatto negativo. Un certo grado di controllo della realtà è benvenuto. Per esempio, tutti noi cerchiamo di mantenere un aspetto gradevole per avere relazioni affettive e professionali soddisfacenti. Tutti noi ci impegniamo nello studio o nel lavoro per ottenere buoni risultati scolastici o professionali. Tutti noi, quindi, cerchiamo di controllare la nostra vita lavorativa, sociale, relazionale e affettiva. Tuttavia, mentre inseguiamo un grado di controllo, dobbiamo saper anche accettare che questo controllo non è mai assoluto. Il buon senso ci dice che il controllo assoluto della realtà è impossibile. Un individuo dalla personalità matura e flessibile accetta questo limite. O almeno dovrebbe accettarlo.
In realtà, i dati della psicologia ci dicono che il percorso seguito dall’individuo non sofferente di un disturbo emotivo è meno lineare. Infatti è bene chiarire che per Langer (1975) il soggetto non sofferente è colui che è in grado non solo di accettare sia un grado di controllo relativo ma che al tempo stesso, e in maggior misura, riesce ad esperire uno stato di controllo illusorio maggiore di ciò che realmente egli possiede. Al contrario, l’individuo sofferente è colui che non è in grado di accettare il suo grado di controllo imperfetto (imperfezione in sé normale) ed è proprio per questa sua incapacità di accettare questo controllo imperfetto che quest’individuo è perennemente sopraffatto dall’impressione di non essere in grado di controllare né gli eventi né le sue stesse reazioni (Rapee, Craske, Brown, Barlow, 1996; Sassaroli, Gallucci, Ruggiero, 2008; Stapinski, Abbott, Rapee, 2010). La non sofferenza, o almeno la minore sofferenza dell’individuo non colpito da un disturbo psicologico è quindi una singolare combinazione di maggiore flessibilità e al tempo stesso maggiore capacità di illudersi, di immaginare un mondo più consono ai bisogni e alle debolezze individuali.
Naturalmente, questo è vero anche per altri tipi di sofferenza. Per esempio, per la depressione. Lo stato depressivo può essere in parte un cosiddetto errore cognitivo, una distorsione. Ma in esso si cela anche una maggiore verità. Infatti secondo alcuni studiosi in realtà è proprio nella depressione che si raggiunge una più realistica valutazione della propria importanza, brillantezza sociale e capacità personali (Alloy, Abramson, 1979; Dobson, Franche, 1989).
I disturbi alimentari diventano quindi simbolici non solo per l’ossessione verso il cibo o l’aspetto corporeo, ma ancor di più per alcuni temi psicologi più nascosti ma più centrali: l’ossessione per il controllo sulla realtà e per la perfezione dello sviluppo individuale e la centralità della cosiddetta autostima personale su cui fondare il proprio benessere.
Tuttavia, questi temi non appartengono soltanto al presente. In forme differenti, l’angoscia dell’incontrollabilità del reale, la tensione individuale a realizzarsi e svilupparsi, la centralità dell’amor proprio sono anche di altre epoche. Amor proprio è infatti il termine che si usava in passato in luogo della moderna autostima. Indubbiamente l’intonazione era diversa. Nel termine di autostima si riflette la qualità quantificante ed economica dell’età moderna. Tuttavia ci sono anche dei motivi comuni nel cambiamento storico delle idee. Per questo, dopo questo primo capitolo introduttivo, il secondo capitolo è dedicato agli antecedenti storici dei disturbi alimentari, fino al definitivo stabilirsi della categoria diagnostica nel secolo scorso. Nel terzo capitolo si espone il quadro diagnostico. Nel quarto si espongono i principi del modello cognitivo che ha ricevuto più consensi: quello elaborato da Christopher Fairburn. Nel quinto troviamo gli sviluppi successivi del modello di Fairburn, e nel sesto il modello del controllo del nostro gruppo di lavoro. Nel settimo si discute lo stile di personalità dei disturbi alimentari e nell’ottavo si espongono i modelli psicodinamico e sistemico-familiare. Infine nel nono si esplorano le basi evolutive e familiari dei disturbi alimentari.
Alloy, L.B., Abramson, L.Y. (1979). “Judgment of contingency in depressed and nondepressed students: Sadder but wiser?”.Journal of Experimental Psychology: General108: 441–485.
Dobson, K., Franche, R.L. (1989). “A conceptual andempiricalreview of the depressive realismhypothesis“.Canadian Journal of Behavioural Science21: 419–433.
Langer, E. J. (1975), “Theillusion of control“. In Journal of Personality and Social Psychology, 32, pp. 311-328.
Rapee, R. M., Craske, M. G., Brown, T. A., Barlow, D. H. ( 1996), “Measurement of perceived control over anxiety-related events”. In Behavior Therapy, 27, pp. 279–293.
Sassaroli, S., Gallucci, M., Ruggiero, G.M. (2008), “Low perception of control as a cognitive factor of eating disorders. Its independent effects on measures of eating disorders and its interactive effects with perfectionism and self-esteem”. In Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry, 39, pp. 467-488.
Stapinski, L.A., Abbott, M.J., Rapee, R.M. (2010), ”Evaluating the Cognitive Avoidance Model of Generalised Anxiety Disorder: Impact of Worry on Threat Appraisal, Perceived Control and Anxious Arousal”. InBehaviour Research and Therapy, 48, pp. 1032–1040.
Wolfe, T. (1987). The Bonfire of the Vanities. New York, FSG. Tr. It. Il falò delle vanità. Milano, Mondadori, 1988.
Magrezza non è Bellezza. I Disturbi Alimentari (e-book)
MAGREZZA NON E’ BELLEZZA.
I DISTURBI ALIMENTARI
Seminario di Pat Ogden #2: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria
Workshop: “IL TRAUMA E IL CORPO: LA TERAPIA SENSOMOTORIA”, MILANO, 16 -17 settembre 2012
Il 16 e 17 Settembre si è svolto a Milano un interessantissimo workshop sulla terapia sensomotoria tenuto da Pat Ogden, fondatrice della Psicoterapia Sensomotoria e del Sensorimotor Psychotherapy Institute (Boulder, Colorado).
Obiettivo di queste due giornate era quello di affrontare il trattamento con la terapia sensomotoria di pazienti traumatizzati ma anche delle difficoltà legate a storie di attaccamento insicuro non necessariamente traumatiche.
L’approccio parte dall’idea che la narrativa somatica racconti la storia delle relazioni precoci di attaccamento e di eventuali traumi subiti nel passato. Riprendendo l’idea di Janet che i pazienti con storie di sviluppo traumatiche continuino il tentativo di messa in atto dell’azione di difesa che non sono stati in grado di portare a compimento durate l’esperienza traumatica, uno degli obiettivi del lavoro terapeutico è quello aiutare i pazienti ad eseguire “azioni trionfali” (Janet, 1925).
Occorre considerare il corpo, i suoi movimenti e le sue posture per vedere cosa il corpo riesce o non riesce a fare, quali schemi di azione riesce a mettere in atto, quali invece risultano bloccati.
I pazienti traumatizzati mostrano un arousal disregolato, con picchi di iperarousal in cui l’attivazione supera la capacità di integrazione e picchi verso il basso, di ipoarousal in cui l’attivazione non è sufficiente per permettere l’integrazione.
Questi pazienti infatti passano molto rapidamente da stati di intensa reattività emozionale ad un distacco emotivo che talvolta esita in vero e proprio collasso fisico. Per riuscire ad integrare e quindi ad elaborare le sensazioni e l’esperienza traumatica è fondamentale riportare il paziente ad una stabilizzazione dell’attivazione entro una finestra di tolleranza.
Durante il workshop, da un lato facendo sperimentare direttamente ai partecipanti la potenza di questo approccio e dall’altro attraverso la proiezione di sedute videoregistrate, la dottoressa Ogden ha mostrato come la terapia sensomotoria vada a lavorare proprio su questi aspetti.
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Durante una seduta con un paziente traumatizzato, ad esempio, la terapeuta coglieva un gesto delle mani leggibile come l’inizio di un’azione difensiva e focalizzava poi il lavoro clinico nel far portare a compimento tale gesto più volte, di modo che si iscrivesse nel corpo come memoria procedurale, che entrasse a far parte della narrativa somatica, per poi soffermarsi sulle emozioni, sensazioni e cognizioni che questo movimento e questa postura producevano nel paziente, in un processo di elaborazione bottom-up.
Guidati dall’atteggiamento mindfulness di attenzione consapevole al momento presente senza giudizio, si osserva tutto ciò che (in termini di sensazioni corporee, movimenti, percezioni provenienti dai 5 sensi, emozioni e cognizioni) emerge all’interno dell’occhio della mente momento per momento.
A partire da specifiche tecniche corporee l’obiettivo è di facilitare un nuovo apprendimento di tipo procedurale: se non si modificano gli aspetti somatici il trauma resterà nel corpo e non potrà essere elaborato efficacemente.
Non si tratta solo di consapevolezza corporea, che pure è un elemento importante, ma di lavorare sul processamento sensomotorio, ovvero sul come creiamo implicitamente i nostri significati, processiamo le informazioni ed eseguiamo azioni.
Al termine della prima giornata un’attenzione particolare è stata posta al trattamento dei disturbi dissociativi. D’accordo con l’impostazione di Janet, la terapia sensomotoria concepisce la dissociazione come il fallimento della capacità integrativa, pertanto focus del lavoro terapeutico è la comunicazione fra le diverse parti.
Attraverso interventi di mindfulness, il lavoro con la memoria implicita, con le azioni fisiche e le sensazioni corporee, si stimola direttamente la memoria procedurale, per evitare che il lavoro con la sola memoria esplicita e semantica riattivi in modo iatrogeno memorie corporee intense e disregolate senza risolverle.
Nella seconda giornata, invece, ampio spazio è stato dato al lavoro con l’attaccamento, prendendo in considerazione sia le storie di attaccamento problematiche ma non sconvolgenti, sia le storie di traumi subiti dalle figure di attaccamento.
Focus del trattamento, nel primo caso è stata l’esplorazione, sempre a partire dall’esperienza corporea, di parti di sé implicite con l’obiettivo di ampliare la tipologia e l’intensità delle esperienze affettive. Da questo lavoro emergono nuove azioni: ad esempio in pazienti con una storia di attaccamento evitante possono emergere azioni di ricerca della vicinanza con un incremento della capacità di dare e ricevere supporto, sperimentando una nuova gamma di emozioni correlate a queste esperienze.
Al contrario, in pazienti con una storia di attaccamento ambivalente emergono azioni di radicamento e contenimento, esplorando e stabilendo confini e nuove capacità di autoregolazione.
Nel lavoro con storie di attaccamento disorganizzato, e dunque con esperienze traumatiche legate alle figure di riferimento, il trattamento coniuga i principi del lavoro sul trauma con quelli del lavoro sull’attaccamento: il lavoro sul corpo è volto a modulare l’iper e l’ipoarousal, acquisendo nuove capacità autoregolatorie ed interattive e favorendo l’integrazione delle parti. I movimenti diventano più integrati e diretti ad uno scopo, intenzionali.
Questi interventi implicano un lavoro di esecuzione dei 5 movimenti di base dello sviluppo come delineati da Bainbridge-Cohen (1993): lasciarsi andare, spingere, raggiungere, afferrare e tirare. Di importanza fondamentale nelle nostre interazioni sociali, si sviluppano già durante la gestazione e rappresentano la base per ogni nostro movimento. Questo linguaggio corporeo esprime in modo molto potente i temi critici del paziente e sono un canale di accesso diretto a rappresentazioni spesso non consapevoli.
In conclusione di queste due dense ed interessanti giornate di lavoro, la dottoressa Ogden ha dedicato un po’ di tempo alla riflessione su come il percorso clinico sia composto da una parte esplicita, in cui il terapeuta si muove guidato da teorie e tecniche ed orientato consapevolmente ad un obiettivo specifico, ed un parte implicita, in cui dominano processi inconsci, intuizioni cliniche, collusioni e collisioni, passaggi all’atto il cui risultato è imprevedibile.
Pat Ogden ha infine mostrato un video di una seduta in cui è emerso molto chiaramente come, per quanto disorientante, questo processo implicito sia parte attiva del processo terapeutico e come i passaggi all’atto, in cui parti implicite di paziente e terapeuta entrano in contatto attraverso il corpo, possano essere straordinarie occasioni di crescita per entrambi, purché siamo disposti ad imparare qualcosa da questo tipo di esperienze.
E’ stato un incontro interessante quello di queste due giornate e personalmente credo che, pur partendo da una prospettiva diversa da quella a cui siamo abituati, il modello utilizzato dalla terapia sensomotoria ben si integri con quelli cognitivisti. La teoria dell’attaccamento, i concetti di integrazione e disorganizzazione, la prospettiva evoluzionista e il riferimento a processi neurofisiologici fanno parte del bagaglio teorico e clinico di molti terapeuti cognitivisti e questo nuovo canale di accesso all’esperienza del paziente, a partire dal corpo, potrebbe essere un buono strumento di lavoro da inserire nella nostra “cassetta degli attrezzi”.
Resilienza: la capacità di affrontare al meglio situazioni potenzialmente o realmente stressanti. Alcune esperienze negative ci rafforzano, rendendoci più capaci di affrontare lo stress e gestire il dolore.
Difficile a credersi, ma le avversità ci rendono più resilienti. Sembra infatti che i momenti difficili della nostra vita possano avere effetti benefici, in base a quanto sostenuto da Mark D. Seery, autore dell’articolo “Resilience: A Silver Lining to Experiencing Adverse Life Events?”.
Per resilienza si intende la capacità di affrontare al meglio situazioni potenzialmente o realmente stressanti. Quindi in tanti altri casi, l’essere esposti ad eventi negativi nel corso della vita può portare effetti positivi.
Secondo Seery: alcune difficoltà rinforzano, sono cioè in grado di renderci più abili nella percezione delle avversità e nel loro superamento. Per verificarne la veridicità di questa affermazione, l’autore ha condotto uno studio su un campione di 2000 persone, la cui “storia di avversità” è stata valutata calcolando il numero totale di eventi negativi riportati da ogni singolo individuo. Si ottiene che un numero maggiore di avversità corrisponde ad un aumento del distress globale, del danno funzionale (la misura in cui salute fisica ed emotiva interferiscono con lavoro e attività sociali) e dei sintomi da stress post-traumatico, insieme ad una diminuzione della soddisfazione della propria vita. Era, tuttavia, evidente anche come un numero intermedio di eventi negativi portasse outcome positivi.
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In sintesi: considerando il numero di avversità come variabile indipendente, si potrebbe rilevare un andamento ad “U” delle variabili dipendenti negative (distress, sintomi PTSD e danno funzionale) e ad “U inversa” per la variabile dipendente positiva (“soddisfazione di vita”).
Di conseguenza, le persone che avevano esperito eventi negativi in passato erano influenzate meno negativamente da eventi negativi recenti rispetto ad individui che avevano dovuto fronteggiare troppe o nessuna avversità. Infine, la capacità di gestire e sopportare il dolore sembra non essere immune all’influenza delle avversità (Seery, Leo, Lupien, Kondrak & Almonte, 2011).
Le avversità portano ad un minor catastrofismo (riferito al tipo di pensieri riportati mentre si prova dolore fisico), a minore intensità del dolore percepito e a esperire poche emozioni negative.
Nonostante sia importante non minimizzare quando si parla di effetti negativi delle avversità della vita, è probabile che questi effetti siano stati finora sottovalutati: alcune esperienze negative ci rafforzano, rendendoci più capaci di affrontare lo stress e gestire il dolore. Quello che non mi uccide mi fortifica (Nietzsche, 1888).
La Neuropsicologia nella Malattia a corpi di Lewy (Lewy Body Disease -LBD) – PARTE 1
Il vero quesito funzionale della valutazione neuropsicologica nelle Demenze dei corpi di Lewy è che questa si dipana all’interno di un tessuto sintomatico tra Parkinson e demenza di Alzheimer.
Sempre di più i trial clinici randomizzati e le misure del deterioramento mentale, sia in ambito di ricerca, che in ambito peritale adottano test neurosicologici. Ma quali sono i più adatti per la valutazione della malattia a corpi di Lewy (Lewy Body Disease -LBD) ?
La distinzione tra malattia a corpi di Lewy e demenza di Alzheimer (Alzheimer’s disease – AD) rappresenta un obiettivo tanto rilevante, per le sue implicazioni terapeutiche e prognostiche, quanto complessa, data la frequente sovrapposizione dei due quadri clinici, soprattutto in fase iniziale di malattia.
Hans Spinnler pone l’attenzione, per la diagnosi di tutte le demenze, su come le cornici teoriche e i setting in cui sono stati costruiti i test neuropsicologici, differiscano molto rispetto all’ambiente clinico in cui viene diagnosticato e condotto il malato.
Tale discrepanza e la troppa fiducia che i neurologi potrebbero dare ai test neuropsicologici è alla base, secondo l’autore, di possibili problematiche rispetto a una corretta diagnostica della demenza.
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La neuropsicologia non si è, d’altra parte, mai posta l’obiettivo di sostituirsi ad analisi strumentali sofisticate o a esami biologici molecolari, ma ha piuttosto utilizzato modelli descrittivo comportamentali prima, e psicologico-cognitivi a partire dagli anni’50, per costruire quadri funzionali stabili, utili a descrivere organizzazioni di sintomi che stabilissero una disfunzionalità rispetto al criterio statistico di norma della funzione stessa (Lurija 1967) e la sua relazione con parti specifiche del cervello, come dimostrato già nel 1861 da Pierre Paul Broca.
I test, dunque, altro non sono che lo sforzo di sintetizzare tali modelli per contribuire da una parte alla diagnostica clinica, arricchendo i dati osservativi con solide basi funzionali-normative e, dall’altra, a pianificare piani riabilitativi, nei quadri disfunzionali.
Certamente, la valutazione prima di essere psicometrica deve essere neuropsicologica; tale equazione deve prevedere la relazione correlazionale tra domini teorici cognitivi e espressioni funzionali cliniche e anatomiche.
Il vero quesito funzionale della valutazione neuropsicologica nelle Demenze dei corpi di Lewy è che questa si dipana all’interno di un tessuto sintomatico tra Parkinson e demenza di Alzheimer.
Un elemento differenziale con l’ AD potrebbe essere rappresentato dal coinvolgimento dei circuiti fronto-basali, che appare esclusivo della LBD.
Con il Parkinson, invece, potrebbe essere discriminativo osservare la fluttuazione infradiana della cognitività e della vigilanza (elemento cardine della malattia a corpi di Lewy), che nei Parkinson puri è dimostrata solo in fase off e in presenza di MMSE < ai 24 .
Fine prima parte.
BIBLIOGRAFIA:
Roselli, F., Liuzzi, D., Pennelli, M. et al., (2012 ) Demenza a Corpi di Lewy. Diagnosi e Trattamento; La Neurologia Italiana, n.3,.
Recensione: Cinquanta Sfumature di Grigio di E. L. James
A far l’amore comincia tu! Quanto ci costa la sottomissione sessuale… E’ incredibile che tante donne abbiano apprezzato e si siano immedesimate in un libro in cui la protagonista è sottomessa all’uomo.
Com’è possibile che un libro come “Cinquanta sfumature di grigio” stia polverizzando ogni record di vendite (diventando tra l’altro in 4 mesi il best seller più venduto di sempre in Inghilterra), decretando ufficialmente la morte della letteratura?!! Questa è la domanda che in tanti, increduli, si sono posti quest’estate.
Per chi negli ultimi mesi avesse vissuto su Marte, “Cinquanta sfumature di grigio” racconta di Anastasia, ingenua ed impacciata studentessa vergine di 21 anni in attesa del grande amore della vita, che incontra Mr. Grey, bellissimo imprenditore miliardario di 27 anni, tenebroso, con un passato complicato e la passione … per il bondage, la dominanza e la sottomissione.
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Tra i due scatta un’attrazione fatale: Mr. Grey, dio del sesso, le farà scoprire i suoi più oscuri desideri sessuali inoltrandola al mondo del BDSM, e lei – in preda alla ben nota sindrome femminile della crocerossina – cercherà di cambiarlo e di salvarlo dall’oscurità.
Nonostante il pessimo stile letterario, i dialoghi ridicoli, le ripetitive ed assurde scene di sesso, la trama banale e piena di stereotipi, il successo di “Cinquanta sfumature di grigio” pare inarrestabile ed inspiegabile.
Per molti è soprattutto incredibile che tante donne abbiano apprezzato e si siano immedesimate in un libro in cui la protagonista è sottomessa all’uomo. Ma la verità è che il ruolo di sottomesse, in particolare nei rapporti sessuali, ce lo portiamo dentro come retaggio culturale, seppur in maniera inconsapevole, ed influenza la nostra vita sessuale più di quanto immaginiamo.
Alcune ricerche mostrano come in un contesto romantico di coppia si tenda a mettere in atto comportamenti tipici dei ruoli di genere; soprattutto in ambito sessuale il copione tradizionale vuole l’uomo in un ruolo più dominante e la donna sottomessa ai desideri del partner, a cui viene lasciato il compito di iniziare e gestire l’attività sessuale, inclusa la scelta delle posizioni da adottare.
In un recente articolo scientifico Good J.J. et Al. (2012) hanno indagato per la prima volta l’influenza degli stereotipi sessuali di genere sul soddisfacimento sessuale.
Nei rapporti di coppia eterosessuali le donne tendono ad assumere più degli uomini comportamenti passivi: quanti maschi si lamentano di dover essere sempre loro a fare la prima mossa sotto le lenzuola?! Ne consegue una riduzione dell’autonomia sessuale femminile che a sua volta influenza negativamente l’eccitazione, la capacità orgasmica e soprattutto il soddisfacimento sessuale della donna (Sanchez et Al., 2006).
Non pensiate neanche per un attimo che questo sia un problema esclusivamente femminile! Good e collaboratori hanno infatti scoperto che gli uomini sperimentano un più basso soddisfacimento sessuale quando ingaggiano un’attività sessuale con una partner che sposa un ruolo sottomesso. Questo avviene perché innanzitutto l’uomo percepisce il dover fare la prima mossa come una mancanza di desiderio nei propri confronti.
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Inoltre, poiché la mascolinità va di pari passo con l’abilità di soddisfare la propria partner, e l’assunzione di un ruolo passivo influenza negativamente la capacità di eccitarsi e di raggiungere l’orgasmo, uomini che hanno partner sottomesse possono sentirsi inadeguati e incapaci di dar loro piacere. Insomma, l’adozione di un ruolo sottomesso da parte della donna mina il soddisfacimento sessuale di entrambi. Curiosamente non è vero il contrario: la donna non tende a percepire il ruolo passivo del partner come una mancanza di desiderio nei propri confronti; culturalmente si ritiene infatti (erroneamente?) che l’uomo sia quasi sempre interessato al sesso, indipendentemente dal suo comportamento.
Qual è quindi il segreto per una relazione sessuale soddisfacente?Care donne, a meno che non vi piaccia il ruolo di sottomesse (e in questo caso, secondo Good et Al. il vostro soddisfacimento sessuale non ne risentirà) è tempo di emanciparsi! Se non ne avete voglia la vecchia scusa del mal di testa non tramonta mai, ma se volete fare l’amore prendete l’iniziativa e siate dominanti: dare il via all’atto sessuale e scegliere in che posizione farlo può essere molto più gratificante per entrambi, senza dover scomodare Mr. Grey.