La formazione alla professione di psicoterapeuta passa oggi attraverso due canali: pubblico (le scuole di specializzazione universitarie) e privato, che rilasciano titoli sostanzialmente equivalenti. Considerando che, come sostiene Franco Del Corno, la formazione pubblica è praticamente inesistente in quanto le università non vi investono più, e la formazione privata è appaltata, appunto, a privati con una supervisione da parte delle autorità assolutamente labile, la formazione privata in Italia versa in una situazione che potremmo definire caotica. Ad oggi esistono 213 scuole abilitate dal Ministero, 347 se contiamo anche le scuole secondarie, (di cui il 6% ha zero allievi!) che si rifanno ad innumerevoli differenti approcci (dai più tradizionali a “ricombinazioni” varie) e che presentano diversissime impostazioni generali della formazione (tirocinio, supervisioni, attività pratiche, docenza, etc ).
Giusto per dare un’idea dell’eterogeneità presente nel panorama italiano, ecco alcuni dati curiosi presentati durante il simposio. Ve li forniamo così, random, e speriamo stimolino in voi riflessioni.
Lo sapevate che il numero di docenti per istituto varia da un minimo di 6 ad un massimo di 238 e quello per sede varia da un minimo di 6 ad un massimo di 76? La domanda sorge spontanea: le scuole che presentano un numero ridottissimo di docenti forniscono formazione di qualità? Come possono così pochi insegnanti avere una preparazione completa, considerando la necessità di dover essere competenti ed aggiornati su un ampio numero di campi ed argomenti?
Psicoterapia personale obbligatoria, sì o no? Attualmente la psicoterapia personale è richiesta nel 100% delle scuole Gestalt, Umanistiche e Transazionali, nel 46% delle scuole ad approccio cognitivo, nel 72% delle scuole ad orientamento psicoanalitico/psicodinamico; fa parte dell’attività didattica in tutte le scuole sistemiche, nel 52% delle scuole psicodinamiche e nel 65% delle scuole cognitive.
Oggi le richieste di tirocini si suddividono in strutture pubbliche (72,9%), strutture private accreditate (19,6%), strutture private non accreditate, ma riconosciute (2,9%), altro (4,6%), ma le richieste di convenzioni sono maggiori di quelle, poi, effettivamente utilizzate.
Per quanto riguarda le scuole ad orientamento CBT ecco alcune pillole:
Delle 39 sedi principali (e 31 periferiche) il 49% è affiliata alla SITCC, il 21% all’AIAMC ed il 30% non ha alcuna affiliazione.
Le scuole CBT si differenziano tra loro per le innumerevoli denominazioni che hanno scelto di darsi (neuro-scientifica, costruttivista, costruttivista interattivo cognitiva, per citarne alcune). Sarebbe interessante capire se a queste differenti etichette linguistiche corrispondono poi, di fatto, differenti concettualizzazioni teoriche.
Ci sono molti più allievi che frequentano scuole cognitive rispetto a scuole psicoanalitiche sebbene le scuole psicoanalitiche abbiano un maggior numero di sedi.
Le ore medie di psicoterapia personale vanno da 14 ore al primo e al secondo anno, a 30 ore al terzo anno e a 34 al quarto anno
Prendendo come riferimento le linee guida della EABCT Training Standard, le ore di didattica frontale ed esperienziale sono circa 1200 nelle scuole CBT, ben oltre quelle raccomandate dagli standard (min 450 ore)
Le ore annuali previste per il tirocinio si aggirano in media attorno a 160, ma la supervisione, per lo più di gruppo, è fatta solo su una minima parte di queste ore
La supervisione nelle scuole cognitive occupa una percentuale di ore molto bassa, ma vi è un’alta incidenza delle lezioni teorico/pratiche.
Quale di questi dati vi ha colpito di più? Aspettiamo le vostre riflessioni nella sezione commenti!
SITCC 2012: Discorso Inaugurale del Presidente Antonino Carcione
Antonino Carcione (presidente SITCC)
Discorso inaugurale del XVI congresso della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC) (4 ottobre 2012, Centro Congressi Angelicum, Pontificia Università San Tommaso, Roma)
quest’anno è lo stesso titolo del congresso “Questioni controverse in psicoterapia cognitiva” che ci invita ad alimentare i dibatti sui temi che sono oggetto di maggior discussione nella nostra società e non solo. La presenza nella SITCC di aree diverse favorisce certamente questi confronti e proprio in quest’occasione le diversità possono essere un grande punto di forza per animare, arricchendolo e vivacizzandolo, il dibattito intellettuale e scientifico.
Antonio Semerari, come chair, e l’intero comitato scientifico hanno lavorato per rendere il congresso interessante e stimolante per tutti, contenendo i costi il più possibile, in particolare per i soci studenti e corrispondenti, anche se pur sempre oneroso soprattutto in questo periodo di crisi economica.
Con questo congresso scade il direttivo attuale e con esso si chiude il mio secondo mandato alla Presidenza, che spero di aver svolto nell’intero interesse della SITCC e nel rispetto di ogni voce, cercando di promuovere quanto più possibile il dibattito scientifico e la ricerca, unico mezzo per far valere la psicoterapia nelle strette della psichiatria biologica e con pari dignità della farmacoterapia secondo una logica scientifica unica.
Come sei anni fa avevo sottolineato nel mio programma pre-elettorale, ribadendolo in più occasioni congressuale e di discussione on-line, una caratteristica propria della SITCC è costituita dalla pluralità e dalla complessità delle sue componenti culturali e storiche. E tale pluralità costituisce contemporaneamente il punto di forza e di debolezza della società stessa. È un punto di forza per la straordinaria ricchezza del dibattito che permette di sviluppare e questo Congresso, dal titolo significativo, ne dovrebbe essere l’occasione. È un punto di debolezza quando le varie componenti culturali, geografiche e le diverse scuole si muovono ciascuno per proprio conto, se non in modo conflittuale tra loro.
Nella pluralitàè quindi implicito un rischio di crisi; una crisi d’identità che può, a mio avviso, essere affrontata e superata solo se abbiamo una bandiera comune. Siamo in un periodo storico di crisi della psicoterapia, o meglio di quegli approcci terapeutici che non stanno al passo della ricerca scientifica e delle neuroscienze, che si muove a passi da gigante negli ultimi anni.
Forte è la pressione culturale, ma anche dell’utenza che a noi si rivolge, a provare l’efficacia del nostro intervento, a spiegare qual è il valore aggiunto e quindi perché va preferita una terapia a un’altra. Sia chiaro, non credo a una terapia migliore delle altre in assoluto. Credo che questo discorso, come in qualsiasi altra professione di cura, vari a seconda del problema/disturbo da affrontare e a seconda della richiesta di chi a noi si rivolge. A tal proposito rimando anche alla semi-plenaria su farmaci, psicoterapia e neuroscienze, dove viene anche affrontata la questione relativa all’integrazione dei trattamenti.
Quello di cui sono fermamente convinto è che la scientificità, ovvero un atteggiamento che ci costringa a sottoporre al vaglio della valutazione dell’efficacia i nostri trattamenti e la scelta stessa del trattamento da proporre, debba essere la bandiera che caratterizza la SITCC, come stabilito nel suo stesso Statuto e come ha sottolineato più volte il nostro fondatore Gianni Liotti.
Su questo non devono esserci equivoci, è stato detto varie volte, non si tratta di essere tutti ricercatori, ma tutti dobbiamo considerare il panorama della letteratura internazionale e abbandonare un atteggiamento in cui le opinioni prevalgono sulle evidenze. L’ideologia e i pregiudizi fanno male ai nostri pazienti, fanno male a noi e alla psicoterapia che è sempre più schiacciata da istanze biologiche, se non riduzioniste, come parte dell’approccio del DSM-5, che pure ritengo ha i suoi meriti e non va demonizzato, ci dimostrano.
L’osservazione che da psicoterapeuti dobbiamo concentrarci non sui dati, perché questo distoglie dal nostro compito che è di dedicarci al mondo soggettivo e intersoggettivo del paziente, alla sua storia di vita ed al suo dolore non è un’osservazione a mio avviso legittima e sensata, ma solo pretestuosa e ideologica. È ovvio che tutto ciò è e deve essere il cuore del nostro lavoro, non lavoriamo con numeri, ma con persone. Riprendendo quanto ho già sostenuto in un dibattito, la terapia cognitivo-comportamentale (TCC), in tutte le sue variabili, è nota proprio per essere attenta all’analisi minuziosa del disagio personale, considerando la specificità di ogni individuo, e lo fa tenendo presente non soltanto teorie generali o epistemologiche sul funzionamento dell’uomo, anche ma non soltanto! Spesso crediamo che la TCC è richiesta perché è breve e, quindi, costa meno. Vero, ma è anche vero che essa è cercata anche perché -e soprattutto- è assolutamente rispettosa dell’individuo, attenta ai suoi scopi e ai suoi bisogni più intimi, perché è attenta a tutti i dati che emergono dalla ricerca scientifica. Insomma perché, in una parola, è vicina il più possibile all’esperienza dell’uomo. La TCC considera il punto di vista del paziente su di sé come qualcosa da prendere seriamente in considerazione, ma da sottoporre insieme a verifica empirica (ricordiamoci l’empirismo collaborativo). Non è questo massimo rispetto per l’individuo? Solo dopo passa a fornire, eventualmente, indicazioni, informazioni e, perché no, anche prescrizioni, per gestire al meglio la sofferenza, il funzionamento sociale, le relazioni interpersonali. Insomma per adattarsi meglio alla vita quotidiana, cercando di migliorarne la qualità, secondo il proprio modo specifico di pensare e in linea con i propri obiettivi di vita.
Per questo anche all’esterno della SITCC, sia nel mondo scientifico e accademico che presso l’opinione pubblica, deve emergere chiaramente che spesso le informazioni che circolano sulla TCC sono false; e soprattutto va ribadito con forza che l’identità forte della TCC in generale e della SITCC nello specifico è fondata proprio sulla ricerca scientifica. È solo questo che consente nel mondo di oggi di avere credibilità con l’opinione pubblica, con i pazienti, con le Università, con le riviste scientifiche, con gli Enti da cui ottenere finanziamenti, altrimenti finiamo con l’appiattirci su slogan vuoti, come affermare semplicisticamente la centralità dell’uomo, riducendo l’approccio ad un approccio umanistico tout court che ci danneggia su tutti i fronti; ed in particolare a vantaggio soprattutto, ma della psichiatria biologica e riduzionista che vanta, al contrario, il possesso, vero o presunto, della conoscenza del funzionamento mentale umano.
La psicoterapia non è, come alcuni sostengono, una scienza non “a statuto speciale” e come tale deve seguire il modo di procedere della scienza. Abbandonare quest’atteggiamento, non coltivarlo o, peggio, ostacolarlo, è, a mio avviso, scorretto nei confronti dei pazienti e, per di più, suicida per la SITCC. Come già ho avuto modo di affermare, la ricerca serve prima di tutto ai pazienti perché migliora la cura, la aiuta e non tenerne conto è proprio il peggior servizio che a loro possiamo rendere, su questo non ho dubbi. La vicinanza ai pazienti, l’ascolto, l’accoglienza, la relazione umana e così via non sono assolutamente bandite, anzi, ma da sole non bastano: direi che sono un requisito necessario e indispensabile – e su questo siamo tutti d’accordo – ma non sufficiente – e su questo non siamo tutti d’accordo. E questo è un gran problema!
Mi auguro che questo Congresso si muova in quest’ottica animando un dibattito vivace, intellettualmente onesto e soprattutto costruttivo. Questo consentirà sempre più di avere un ruolo influente sulla politica della psicoterapia in Italia e di promuovere una sempre maggiore visibilità del cognitivismo italiano all’estero che sono i due principali obiettivi strategici che mi sono posto in questi anni e che solo parzialmente è riuscito. Sono decisamente in aumento i cognitivisti in ambito accademico, le pubblicazioni in ambito internazionale, gli operatori nei servizi pubblici, i rapporti con altre società scientifiche nazionali ed internazionali. Ma molto rimane ancora da fare.
Ricorrono inoltre quest’anno i quarant’anni dalla fondazione della SITCC: chissà se quei soci fondatori possono essere soddisfatti del punto in cui siamo arrivati oggi. Verrà sicuramente organizzato un evento per celebrare la ricorrenza e un ricordo particolare è per Vittorio Guidano, che è nei nostri pensieri, sempre maestro per tanti. Alla tavola rotonda con la nostra “storia” rimando per inaugurare al meglio questo congresso, ringraziando Antonio Semerari per l’idea e l’efficacia della proposta.
Il disturbo alimentare può essere una spia di disamore e solitudine incompresa, spia importante da non trascurare e considerare come equivalente di disagio giovanile con tutti i possibili tragici sviluppi
L’adolescente vive più intensamente di altri, un turbinoso cambiamento dell’immagine del proprio corpo e del suo stesso spazio mentale.
Tutto questo si oppone all’onnipotenza infantile nella consapevolezza nuova di una finitezza che irrompe dall’incontro con un sé sconosciuto e mortale. Il sentimento di angoscia e depressione che ne scaturisce prelude, con la sua possibile elaborazione attraverso i riti di passaggio, all’entrata nell’età adulta. Può però dare anche origine a sentimenti di negazione della crescita e della morte.
Antoin de Saint-Exupéry, eroico aviatore e grande scrittore, è un Peter Pan, un eterno fanciullo, secondo l’analisi che ne fa Marie-Louise von Franz (2000) “Per favore mi disegni una pecora” chiese il Piccolo Principe sceso dalle stelle, ad Antoin de Saint-Exupéry, e questi lo ascoltò, perché il Piccolo Principe fu il solo che seppe vedere nel disegno che fece da bambino non un cappello come tutti i grandi, ma il profilo di un boa che ha inghiottito un elefante. Non sa disegnare una pecora e allora l’aviatore disegna una scatola che la contiene, piccola come serve nel piccolo mondo del Piccolo Principe. L’incontro con il suo segreto mondo infantile, distrae l’aviatore perso nel deserto, con il suo aereo da riparare.
Articolo Consigliato: Magrezza non è bellezza. I disturbi alimentari. Sassaroli, Ruggiero, Fiore – Edizioni Elettroniche State of Mind – 2012
In ogni adolescente vi è un elefante, un eroe adulto, che rischia di essere stritolato da un boa, il boa dell’incomprensione, della solitudine, della paura, dell’angoscia, dell’indifferenza soffocante, del non essere ascoltato. Ogni fanciullo ha bisogno di essere ascoltato. Le cronache dei giornali sono piene di suicidi commessi da adolescenti non ascoltati dai grandi, anche il primo della classe può aver tedio per la solitudine.
La mancanza di valori da condividere, la disoccupazione, l’assenza di speranza, in questa fase delicata del percorso umano, rappresentano un potente detonatore che fa esplodere in rabbia e vendetta l’energia giovanile trasformandola in criminalità, ‘ndrangheta ecc.
Fondamentale appare quindi il nostro compito di genitori, educatori e terapeuti nel non fare mai mancare ai nostri giovani la speranza di un lavoro, di un posto nella società, di una vita degna di essere vissuta. Altrimenti dovremmo dire che: “I bambini cattivi un cuore ce l’hanno: è quello violento dei loro padri, dei loro cattivi maestri”. Bisogna amarli i giovani e far loro sentire il nostro amore per insegnar loro ad amare la vita e loro stessi.
Il disturbo alimentare può essere una spia di disamore e solitudine incompresa, spia importante da non trascurare e considerare come equivalente di disagio giovanile con tutti i possibili tragici sviluppi.
La diagnosi dell’anoressia ha toccato tutti i campi del sapere, medico, psicologico, psicoanalitico e prima ancora, con le sante anoressiche, il sapere religioso. I sacerdoti sono stati i primi a tentare rimedi per questa dannata santità.
Teresa d’Avila, Caterina da Siena, Chiara d’Assisi sono delle grandi anoressiche, come pure Pedro de Alcantara.
L’anoressia, quindi, non è un fenomeno esclusivo della nostra epoca; ha qualcosa in comune con l’ascetismo delle sante medioevali, hanno in comune un oggetto: il cibo, da cui astenersi.
“Per capire l’anoressica” scrive Lacan, “non bisogna pensare che il bambino non mangia, ma che mangia niente“. Mangiare niente pone l’esistenza di un oggetto, pone quindi una relazione tra soggetto e oggetto. Si può interpretare il vuoto anoressico, quindi come un tentativo di costruire un terzo, un ponte di comunicazione, come avviene anche quando ci si comunica attraverso l’ostia consacrata.
Teresa d’Avila dice che vomita tutte le mattine però se fa la comunione, non vomita più la mattina ma la sera, e un giorno dirà: “mettendo in bocca l’ostia consacrata, mi sono sentita tutta la bocca riempita di sangue”. In questo modo quindi si realizza, attraverso l’ostia consacrata vero alimento, il terzo mediatore nel percorso verso Dio.
Nessuna patologia annovera un tasso di mortalità così elevato
Ma perché l’anoressia trova il suo momento scatenante in quel periodo della vita che è l’adolescenza?
Mara Selvini Palazzoli (1998) fa pensare all’anoressia come una passione, ad uno stato di violenta e persistente emozione erotica in contrasto con le esigenze della ragione. È il realizzarsi della sessualità, la concretezza di un corpo sessuato, che senza chiedere il permesso espone il corpo a modificazioni che sono bruscamente evidenti e impone la discontinuità tra la sessualità perversa polimorfa infantile e la sessualità adulta, incarnata dal periodo della pubertà. È il momento che impone la scelta di appartenenza al sesso.
Teoricamente i riti sociali, si adoperano per far fronte al traumadi questo momento cruciale. L’antropologia sociale e culturale ha studiato con particolare attenzione i riti di iniziazione legati alla pubertà tra gruppi etnici diversi, in tutte le culture e in ogni epoca, vista l’importanza che riveste il cambiamento corporeo in relazione alla funzione sociale dell’individuo.
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Apprendiamo cosi come l’infibulazione e la circoncisione per certe società primitive rappresentino, all’interno di una ritualità ancestrale, un modo per recidere dal corpo ormai cresciuto, ogni ricordo anatomico del sesso opposto: la memoria del pene nella clitoride o della funzione accogliente della vagina nel prepuzio che accoglie e contiene il glande. Chirurgicamente si amputano così i rischi e le preoccupazioni consce ed inconsce che la pubertà risveglia nella mente adulta e se ne allontanano l’ambiguità e l’insicurezza proprie di questa età di confine.
L’incontro con il paziente anoressico descritto da Clorinda Salardi (1990) : “Se l’Io corporeo del paziente non può coniugarsi con l’Io psichico, la mente viene negata come tramite di relazione con l’ambiente interno e con l’ambiente esterno: non solo, ma questa dissociazione manterrà, a sua volta, secondo una circolarità dalla quale il paziente non può uscire con le sue sole forze, la dissociazione Io-Mondo in cui l’essere si disperde.”
Nella relazione il tutto si gioca tra la fascinazione e l’orrore, l’orrore della reciproca scomparsa, il fascino onnipotente di sentire che tutto possa essere controllato. È come dire con Epicuro (2008) : “Se tu ci sei non c’è la morte, se c’è la morte non ci sei tu”, dove la morte è l’ultima onnipotente garante dell’immortalità. Questo lavoro riguarda invece un momento specifico in cui si tratta proprio di lottare attivamente contro questa dissociazione in atto, ed è possibile farlo affrontando le fantasie e la presenza della morte proprio come dolore reale e condivisibile.
Proprio condividendo nella relazione con il paziente tale esperienza è possibile comprendere come, per non disperdersi, il paziente opponga l’angosciosa sensazione di nulla interno la sensazione fisica di fame dolorosa, che come un cilicio dolorosamente cinge i confini del corpo. Schilder (1996) segnala come sia importante il dolore nello sviluppo dell’immagine corporea; scrive che “le sensazioni fisiche forti come la fame o le percezioni dolorose provenienti dagli organi interni….possono avere la funzione di riorganizzare, stimolandole, alcune basilari sensazioni corporee che portano, nella loro evoluzione, alla consapevolezza psichica di sé”.
La profonda regressione spiega anche la riattivazione del narcisismo, con l’assunzione di atteggiamenti ispirati all’onnipotenza infantile. “Posso ben dirmi privilegiato, io che posso farne senza e fare tutto. Tutto-si capisce-quel che mi sembra più importante…” fa dire ancora Italo Calvino (2000) al suo cavaliere inesistente, mentre seppellisce la carcassa di un compagno. Le anoressiche pretendono di vivere senza mangiare abbandonandosi ad attività frenetiche, “quasi fossero macchine del moto perpetuo” scrive ancora Thomä. Infatti, distaccati dai bisogni della carne, paiono trasformarsi in macchine, o vuote corazze.
Santa Caterina da Siena, racconta il suo confessore Raimondo da Capua (1990), si ridusse a cibarsi solo di erbe amare e più aumentava il digiuno più da esso traeva energie e vitalità, e più intensa diveniva la sua unione con Gesù. “Mi sento puro spirito”, disse un giorno soddisfatto un mio paziente, alto un metro e novanta, raggiungendo i quarantanove chili scarsi.
Ma il vuoto sentito come presenza dolorosa di sé non è certo il nulla, è un modo, sia pur patologico di esserci. Giangiorgio Pasqualotto (1992), cita nel suo libro: “L’estetica del vuoto”, Cheng Yao tian, calligrafo della dinastia Ching: “…. È proprio grazie al Vuoto che sole e luna si muovono, che le stagioni si succedono; è da esso che procedono i diecimila esseri. Tuttavia il vuoto non si manifesta e non opera se non mediante il Pieno”.
Riflettendo sulla qualità estetica di questo vuoto, che è un donatore di senso, come la pausa che crea la musica, ci si avvicina a comprendere come attraverso di esso questi pazienti possano esistere e sentire di esistere, e questo ci può aiutare ad avvicinarci a quanto Hilde Bruch (1978), raccomanda al terapeuta che deve “empatizzare con l’esperienza interna della paziente e assumere un vivo interesse per ciò che la paziente pensa e sente”. Un po’ quello che Roberto Losso (2004) definisce “Sedurre alla vita”.
“Udire con gli occhi appartiene al fine ingegno d’amore”, scrive nel ventitreesimo sonetto Shakespeare e aggiunge: “Udire con gli occhi significa conoscere l’altro mediante l’esperienza visiva che si ha di lui. Io non credo che si possa intraprendere questo tipo di lavoro clinico senza provare una reale simpatia per il paziente e senza essere particolarmente sensibile alla sua presenza corporale.”
Il 40° anniversario della SITCC sembra essere l’occasione ideale per fare un bilancio del percorso intrapreso dalla Società nata nel 1972. Al discorso di apertura del XVI Congresso Nazionale Antonio Semerari apre le danze con una domanda che sappiamo già scalderà gli animi: quali sono ad oggi i punti di forza e di debolezza della SITCC? Vediamo cosa hanno risposto i tre Past President presenti alla tavola rotonda: Giovanni Liotti, Lorenzo Cionini e Francesco Mancini.
Liotti evidenzia due principali punti di forza della SITCC. Il primo è l’aver mostrato interesse per un argomento difficile da studiare come l’eziopatogenesi dei disturbi (si pensi al Terzo Centro che, alla pari di Bateman e Fonagy, si è interessato al ruolo della mentalizzazione dei Disturbi di Personalità), e quindi gli sforzi volti a capire perché una tecnica fa star meglio un paziente rispetto alla specificità del disturbo.
Il secondo riguarda la molteplicità di teorie riscontrabili all’interno della SITCC, molteplicità tenuta insieme dal rispetto comune per le regole del metodo scientifico classico; ciascuna teoria deve infatti essere vagliabile e fornire prove falsificabili della propria validità. Tale principio, espresso nello statuto della Società, ha protetto la nascente SITCC dall’aderire ad un’unica teoria assolutistica.
Liotti accusa però la Società di limitare il proprio interesse per il lavoro altrui solo alle aree di propria appartenenza. Sarebbe invece bello se si potessero coinvolgere anche altre correnti nel dibattito.
E allora perché, si domanda Cionini, la SITCC nel 1997 all’ultimo decise di tirarsi indietro e di non far parte della Federazione Italiana Associazioni Psicoterapia (FIAP)? Quello sarebbe stato un momento importante di incontro con altre ottiche, di scambio di opinioni e suggerimenti, di spunti… Ad oggi è l’isolamento della SITCC ad essere il vero punto debole.
Inoltre se è vero che un suo grande pregio è la diversità delle correnti che la compongono, l’adesione ad un principio di ricerca strettamente sperimentale rischia di rivelarsi un grande limite: esistono anche altri differenti modi di fare ricerca ed escludere teorie che non aderiscono al metodo sperimentale può essere una perdita in termini di arricchimento di conoscenza e confronto per la Società.
AncheMancini ricorda che la SITCC, fondata nel 1972, si era posta come fine ultimo quello di migliorare e diffondere la cura dei disturbi psicologici attraverso una psicoterapia scientificamente fondata. La nascita della SITCC si basò infatti sulla condivisione dei seguenti 4 punti:
intervento terapeutico diretto dalla conoscenza dei meccanismi psicologici che generano e mantengono le sindromi
modelli delle sindromi fondati sulle scienze più basiche
tecniche terapeutiche di efficacia dimostrata
conoscenza dei modelli psicologici di genesi e di mantenimento dei disturbi
La quantità e la qualità della ricerca scientifica, la capacità di cogliere innovazioni anche tecniche (es, la third wave) e la capacità di insegnare, diffondere e promuovere la psicoterapia così come fu disegnata nel patto originario, rappresentano senza dubbio punti di forza della SITCC.
La sempre minor coesione al suo interno, però, rischia di spingerla proprio verso ciò da cui inizialmente voleva differenziarsi, cioè:
un approccio ermeneutico (che nega l’approccio scientifico)
un approccio tecnico (che trascura i meccanismi sottesi al disturbo)
un approccio “narcisista” (che aderisce dogmaticamente ad una sola teoria)
Con amarezza Mancini constata che il patto originario fondante la SITCC sta venendo meno.
Dal dibattito emerge una SITCC isolata e sempre meno omogenea al suo interno. Assieme a Semerari ci domandiamo, quindi, quali siano i rimedi.
Liotti sottolinea la necessità di aumentare i contatti con altre correnti che rispettino, però, lo statuto della SITCC. Appartenere a federazioni in cui convergono sempre più nuove scuole dalle identità sfumate, che non esplicitano il proprio metodo di riferimento o aderiscono a metodi non scientifici (es. il metodo storico) è inutile e non costruttivo. Certo, alcune teorie fondate su metodi non sperimentali (es. la ricerca correlazionale o la ricerca qualitativa) possono inizialmente essere prese in considerazione, ma ad un certo punto dovranno confrontarsi con il metodo sperimentale perché possano dare un loro valido contributo.
Come Liotti anche Mancini dissente da una visione annacquata della ricerca scientifica. La volontà di elevare la psicoterapia al rango di disciplina alla pari con medicina e farmacologia passa necessariamente dal rifiuto di uno statuto scientifico speciale e dall’adesione al metodo sperimentale..
Posto quindi che il confronto con altre correnti è accettabile solo nel rispetto delle regole del metodo sperimentale, la domanda su cui Mancini ci invita a riflettere è la seguente: noi, come SITCC, siamo in grado di fare all’esterno un discorso coerente oppure la nostra coesione è talmente bassa che un discorso unitario è estremamente difficile?
Credete anche voi che a 40 anni la SITCC sia ormai isolata e che stia vivendo una crisi di identità?
Una nuova ricerca condotta alla Cornell University e alla University of Rochester Medical suggerisce che le donne in gravidanza potrebbero avere bisogno di assumere non solo acido folico, ma anche colina, una sostanza nutritiva che si trova naturalmente nelle uova e nella carne. Sembra infatti che un aumento dell’assunzione di colina durante la gravidanza possa ridurre la vulnerabilità del bambino a malattie legate allo stress, come disturbi di salute mentale, e più avanti negli anni, alle patologie croniche, come l’ipertensione.
I ricercatori hanno scoperto che una dieta ricca di colina durante la gravidanza ha provocato cambiamenti nei marcatori epigenetici nel feto. I marcatori epigenetici sono piccole molecole che si fissano mediante un normale legame chimico al DNA o alle proteine attorno alle quali il DNA si avvoltola nel nucleo delle cellule e hanno un ruolo fondamentale nella regolazione dell’espressione dei geni stessi; infatti se un gene non è espresso è come se non esistesse.
I marcatori interessati dall’effetto della colina sono quelli che regolano l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che controlla quasi tutte le attività ormonali nel corpo, compresa la produzione di cortisolo, l’ormone che riflette la nostra risposta allo stress e che regola il nostro metabolismo.
Una dieta ricca di colina in gravidanza ha portato a maggiore stabilità dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e di conseguenza a minori livelli di cortisolo nel feto. Questo è un dato importante perchè precedenti ricerche hanno dimostrato che l’esposizione precoce ad alti livelli di cortisolo, come conseguenza di ansia o depressione nella madre, può aumentare il rischio stress e disturbi metabolici nell’arco di tutta la vita del bambino.
Secondo gli autori dello studio questi risultati suggeriscono che la colina possa essere utilizzata terapeuticamente nei casi in cui lo stress materno potrebbe rendere l’asse fetale ipotalamo-ipofisi-surrene più reattiva con la conseguenza di rilascio di cortisolo maggiore del previsto.
Anche se sono necessarie ulteriori ricerche, gli autori suggeriscono alle donne in gravidanza di consumare una dieta a base di cibi ricchi di colina come uova, carne magra, fagioli e verdure crocifere come broccoli. “Un giorno potremmo prescrivere colina nello stesso modo in cui prescrivono acido folico a tutte le donne in stato di gravidanza”, osservano, “è economica e non ha praticamente effetti collaterali in dosaggi come quelli utilizzati in questo studio”.
Inizia oggi a Roma il sedicesimo congresso della società italiana di terapia cognitiva e comportamentale (SITCC). La sede è l’Angelicum Congress Centre della Pontificia Università San Tommaso d’Aquino.
Anche nel congresso italiano, come in quelli europei e americani, si fronteggeranno vari indirizzi che compongono il paesaggio di questa terapia. La terapia cognitiva non è più un blocco omogeneo organizzato intorno alla teoria clinica di Ellis e Beck, a sua volta in qualche modo collegata alle più moderne teorie computazionali della mente. E forse non lo è mai stato.
Tuttavia ultimamente il livello di frammentazione è aumentato, generando anche, e per la prima volta, delle semi-scissioni intorno a certi sviluppi delle ipotesi metacognitive (Wells) e dei modelli dell’accettazione (Hayes) e della schema therapy (Young). Queste correnti hanno iniziato a creare le proprie società e le proprie serie di congressi internazionali. Non è una buona notizia.
Paradossalmente, il fatto che in Italia l’omogeneità fosse fin dall’inizio minore per ora ci protegge da scissioni. Post-razionalisti, costruttivisti più o meno radicali, cognitivo-evoluzionisti, metacognitivisti e razionalisti ancora convivono sotto lo stesso tetto, più o meno dialogando.
Questo è probabilmente il maggiore pregio del congresso SITCC: la possibilità di poter accedere all’intero ventaglio degli sviluppi attuali della teoria clinica cognitiva. E della pratica.
Il tema: esattamente come la prima prova dell’esame di maturità, anche la prima prova dell’ esame di Stato per l’abilitazione alla professione di Psicologo suscita tutta una serie di emozioni difficilmente dimenticabili.
Vuoi perché è il primo scoglio post lauream, vuoi perché, dopo tanto tempo, senti che la professione è ormai vicina e sai che quel “passaporto” ti è indispensabile per entrare nella terra degli psicologi. Ma soprattutto perché non hai la più pallida idea di quale sia il metodo migliore per potersi preparare adeguatamente al tema.
Non è uno dei tanti esami universitari che hai già sostenuto e che ormai avevi imparato bene come si affrontano – la prima prova dell’esame di Stato non tratta un solo argomento specifico, non viene indicato ufficialmente un elenco di libri consigliati su cui prepararsi. Quindi il pensiero che prima o poi si affaccia ad ogni candidato è: e ora come faccio?
Ognuno comincia a tamponare l’ansiacome può: richieste di consigli da parte di colleghi che hanno già superato la prova; compulsive fotocopie di temi o riassunti già fatti; ripasso di tutti i libri di psicologia generale e dello sviluppo utilizzati durante gli anni dell’università, con successivi schemi sui quali studiare; acquisto di libri appositamente pensati per la preparazione di questa prova; oppure assoluta noncuranza sulla preparazione: si improvviserà, magari copiando o studiando all’ultimo momento dai compendi degli amici…
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I più diligenti si scontrano con una mole incredibile di nozioni, teorie, concetti, nomi di autori ecc. da ripassare. Dopodiché tutto questo materiale, per poter essere ricordato, richiede un processo di sintesi. E l’aspetto di sicuro più problematico è proprio riuscire ad organizzarlo mentalmente, con schematizzazioni e collegamenti opportuni. La sensazione è di totale smarrimento, giacché il candidato è costretto a operare una scelta di quali argomenti studiare, su quali libri, ma soprattutto in che modo: cosa è necessario memorizzare e cosa invece è plausibile tralasciare?
Il candidato cerca di organizzarsi magari con un occhio alle linee-guida di ogni università. In alcune facoltà vengono indicati i punti che devono essere toccati nella prima prova: definizione del tema, una o due teorie con autori e relativi esperimenti, ambiti applicativi, strumenti di indagine. In altre si esplicita l’obiettivo, per esempio aver capito e saper quindi riferire i legami tra gli aspetti teorici dell’argomento trattato con quelli pratici della professione. Oppure il candidato può andare a vedersi le tracce degli anni precedenti, per farsi un’idea. Esempi: Il ruolo della memoria nella valutazione dei disturbi cognitivi dell’anziano; Presentare in modo sintetico le principali determinanti psicologiche e sociali dello sviluppo e del benessere della persona; La motivazione in psicologia. Il candidato illustri gli aspetti teorici ed applicativi in uno specifico ambito professionale.
A questo punto bisogna provare – mettersi a stilare dei veri e propri temi come se si fosse all’esame. È la cosiddetta “prova del nove”, e intanto l’ansia e la paura aumentano in modo proporzionale all’avvicinarsi della fatidica data. Ovviamente, il candidato si rende conto se è preparato, se è in grado di redigere un tema su un determinato argomento riuscendo nell’ossimoro di “analizzarne sinteticamente” gli aspetti principali, se sa svolgere i giusti collegamenti e le corrette riflessioni… ma, il giorno in cui la prova poi arriva, le sue impressioni saranno giuste?
La risposta alla temibile domanda giungerà soltanto dopo la correzione del tema. Ma a quel punto, nel caso in cui le sue impressioni siano state erronee, non resta che aspettare altri sei mesi, nei quali ripercorrere da capo tutto il percorso precedentemente descritto.
Perché allora non dare ad ogni candidato la possibilità di migliorarsi, correggersi, perfezionarsi prima della prova, e non solo dopo i suoi errori certificati? Perché non aiutarlo prima dell’esame spiegandogli come studiare, su quali libri, su cosa concentrarsi e cosa poter trascurare, come svolgere un tema, ma soprattutto farlo provare a scrivere sotto la supervisione vigile di persone esperte, e naturalmente via via correggendolo? Tutto ciò sarebbe utilissimo per evitare la spiacevole sensazione di smarrimento iniziale e di cieco affidamento alla casualità successiva.
Malgrado la peraltro non ampia serie di manuali già a disposizione per l’esame di cui stiamo parlando – alcuni anche con temi già fatti – quello che rimane auspicabile è che a scriverli siano persone che l’esame lo abbiano superato di recente, e quindi non disancorate dalla contingenza che intercorre tra la discussione di una tesi di laurea e l’apprestarsi a divenire psicologi professionisti.
Sono loro a sapere come tale occasione valutativa funzioni dal di dentro, con quali esigenze realistiche da parte del candidato, di fronte a quali suoi effettivi disorientamenti metodologici. Chi ha da poco esperito sulla propria pelle difficoltà ed impacci, sa interpretarne il superamento al meglio. Sa quali sono gli argomenti indispensabili da selezionare in modo credibile, quali i testi accademici su cui operare montaggi efficaci, quali il tenore espositivo e i “links” giusti per comporre un tema convincente, e in definitiva quali i temi svolti da offrire al lettore come esempi validi – senza dover strafare, ma garantendo una buona preparazione.
camilla Frecioni, (2011), 24 Temi svolti di Psicologia. Editore Tabula Fati
L’idea del presente libro mi è nata durante la preparazione alla prima prova dell’esame di Stato per l’abilitazione alla professione di psicologo. Durante quel non lontano periodo mi scontrai con un’incredibile mole di nozioni, teorie, concetti, autori da ripassare.
Inoltre, tutto il materiale, per poter essere ricordato, richiedeva un processo di sintesi. Ma l’aspetto senza dubbio più problematico era riuscire a organizzare mentalmente tanta congerie di dati con collegamenti e prospetti opportuni.
Mi trovai così a studiare su libri di psicologia generale e dello sviluppo utilizzati negli anni universitari e su volumi appositamente mirati alla preparazione dell’esame in questione.
La mia sensazione iniziale fu di totale smarrimento, e non perché quei testi non mi fornissero una preparazione adeguata, quanto perché ero costretta a operare la fatidica scelta di quali argomenti studiare, se e dove approfondirli, ma soprattutto in che modo: cioè, cosa era necessario memorizzare e cosa invece potevo tralasciare?
Come realizzai subito, tale sensazione non era, né credo sia, solo mia. Nelle telefonate, nei momenti di ripasso e nello scambio di battute poco prima della prova, tutti i miei compagni di università confessavano le medesime difficoltà della sottoscritta. Tuttora, confrontando i ricordi del benedetto esame abilitativo coi miei attuali colleghi, continuo a riscontrare quello stesso smarrimento.
Allora, perché non scrivere un libro che raccogliesse i principali argomenti di Psicologia, trattati in modo semplice, sintetico, chiaro e perdipiù già svolti in forma di tema? Ho pensato: se dovessi ridare l’esame di Stato, o analoghi esami di pertinenza psicologica (concorsi, esami di accesso alla Facoltà di Psicologia ecc.), che tipo di libro mi risulterebbe utile? Quale potrebbe semplificarmi il lavoro dei prossimi mesi di studio? Mescolando sacro e profano, ecco quindi che ho redatto questo volume ispirandomi all’esortazione evangelica a “fare agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”…
I 24 Temi di Psicologia qui proposti consentiranno al candidato di acquisire un’esauriente preparazione complessiva dei vari argomenti papabili specie per la prima prova dell’esame di abilitazione alla professione, senza il bisogno di consultare troppi libri e di effettuarvi quel lavoro di comparazione e riassunto che altrimenti sarebbe ineludibile.
Il mio libro si rivolge anche ai candidati dei vari concorsi di area psicopedagogica e affini, permettendo loro di concentrarsi sulle principali voci, problematiche e teorie psicologiche. Infine, perché no, il volume può interessare pure tutte le persone nell’esigenza extra-esame o magari nella libera curiosità intellettuale di avere una visione generale di una materia così gravida di questioni ma anche di ramificazioni disciplinari e d’indirizzo teorico, addentrandosi più o meno profondamente nei vari argomenti affrontati, in base alle rispettive contingenze e preferenze.
Il testo si articola in un tema d’apertura che funge da agile introduzione storica incardinata su tre dei principali e più diffusi modelli storici della Psicologia – il modello comporta- mentista, la psicologia della Gestalt e il modello cognitivista – e in 23 temi successivi, ciascuno su una problematica specifica, che sono stati raggruppati in quattro parti.
I. Nella Prima parte è affrontata la metodologia, partendo dai metodi dell’osservazione, sperimentale, correlazionale e dell’inchiesta, passando da quelli clinici (colloquio clinico e metodo psicoanalitico), per arrivare ai metodi psicometrici.
II. Nella Seconda parte vengono trattate le principali funzioni e processi cognitivi: la sensazione e la percezione; l’appren- dimento; la memoria; il pensiero; il linguaggio; l’intelligen- za; i livelli di vigilanza.
III. Nella Terza parte ci si occupa del sé e l’altro, scandagliando la componente motivazionale; le emozioni; la personalità; la frustrazione; il conflitto; la comunicazione e la persuasione; il gruppo.
IV. Infine nella Quarta parte ci si sofferma sullo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale e sulle fasi della vita, dall’adolescenza all’invecchiamento, passando per l’età adulta.
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Interview with Ron Rapee
An Interview with Ron Rapee on Child Anxiety
and Cognitive-Behavioral Therapy
Sandra Sassaroli, director of Studi Cognitivi (Post Graduate Specialization School of Cognitive Psychotherapy) interviews Ron Rapee, Professor of Psychology, Faculty of Human Sciences at the Macquarie University of Sidney, Australia.
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La Marsupioterapia, grazie alla quale i neonati possono godere del contatto pelle-a-pelle con mamme e papà, ha effetti positivi duraturi sullo sviluppo del loro cervello; tanto che il loro funzionamento cerebrale in adolescenza risulta migliore rispetto a quello dei neonati prematuri che sono stati posti in incubatrici.
Precedenti ricerche, infatti, hanno dimostrato che i bambini nati prima della 33a settimana di gravidanza hanno maggiori problemi cognitivi e comportamentali durante l’infanzia e l’adolescenza rispetto ai coetanei nati a termine. I ricercatori della canadese Université Laval hanno confrontato le funzioni cerebrali di 18 neonati prematuri tenuti in incubatrice, con 21 posti in marsupioterapia per una media di 29 giorni e 9 neonati a termine.
Per valutare le funzioni cerebrali dei bambini – che adesso hanno 15 anni – i ricercatori hanno utilizzato la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS). Con questa tecnica non invasiva e indolore è possibile attivare le cellule cerebrali in aree mirate, come la corteccia motoria primaria che controlla i muscoli. Misurando le risposte muscolari alla stimolazione, i ricercatori sono stati in grado di valutare le funzioni cerebrali, come il livello di eccitabilità e di inibizione del cervello, la sincronizzazione cellulare, la velocità di conduzione nervosa, e il coordinamento tra i due emisferi cerebrali.
I risultati delle rilevazioni indicano che tutte le funzioni cerebrali del gruppo di adolescenti in Marsupioterapia erano paragonabili a quelli dei bambini nati a termine.
I valori dei bambini che da prematuri sono stati posti in incubatrice, invece, si discostavano significativamente da quelli degli altri due gruppi.
“Grazie alla Marsupioterapia i neonati possono beneficiare della stimolazione del sistema nervoso – il suono del cuore del genitore e il calore del corpo – nel corso di un periodo critico per lo sviluppo di connessioni neurali tra gli emisferi cerebrali”, spiega Cyril Schneider. Anche i neonati in incubatrice ricevono un sacco di stimoli, ma spesso la stimolazione è troppo intensa e stressante per la capacità del cervello di un neonato prematuro. La Marsupioterapia, invece, riproduce le condizioni naturali dell’ambiente intrauterino in cui i bambini si sarebbero sviluppati se non fossero nati prematuramente. Questi effetti benefici sul cervello sono evidenti fino all’adolescenza e forse anche oltre.
La triangolazione all’interno della famiglia – Terapia Sistemico-Trigenerazionale
La maggior parte delle persone si collocano a livelli intermedi della scala di differenziazione del sé, in cui la dipendenza dall’altro definisce gradi maggiori o minori di investimento e soddisfazione in aree di realizzazione personale, professionale, relazionale, e diversi livelli di rigidità, dogmatismo, conformismo, rigidità emotiva, isolamento, conflittualità e anche malattia fisica.
Murray Bowen, uno dei pionieri della terapia familiare, guarda alla famiglia come il luogo nel quale si sviluppa la massa indifferenziata dell’io familiare, un identità emotiva conglomerata il cui grado di intensità determina il livello di coinvolgimento di tutti i membri della famiglia e le possibilità di svincolo e differenziazione del sé di ciascuno.
All’interno di questo sistema emotivo le tensioni si spostano attraverso sequenze ordinate di alleanze e rifiuti tra due o più membri della famiglia.
Il grado di differenziazione del sé è uno dei concetti cardine della teoria di Bowen (1979) e definisce la possibilità di ciascun individuo di differenziarsi rispetto alla massa dell’io familiare; quando l’intensità emotiva della massa familiare è molto elevata, il livello di fusione dell’io, cioè di indifferenziazione dei suoi componenti, potrà essere così marcato da esitare in relazioni simbiotiche e patologie gravi come la schizofrenia; in casi meno estremi, ma comunque caratterizzati da alti livelli di fusionalità, incontreremo persone assorbite in un mondo di sentimenti, estremamente dipendenti dai sentimenti degli altri nei loro confronti e per questo costantemente impegnate a gestire le relazioni interpersonali in termini di conferma o rifiuto; il legame con l’altro definisce le loro possibilità di funzionamento nella misura in cui è possibile trarre forza e conferma all’interno della relazione di dipendenza emotiva, che, nel migliore dei casi, li accompagnerà per tutta la vita.
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Lo spazio di investimento personale in aree legate alla realizzazione personale è inesistente o molto limitato e comunque fortemente condizionato dalla dipendenza all’altro.
All’estremo opposto si trovano invece gli individui con il massimo grado di differenziazione del sé, che possono raggiungere i più alti livelli di funzionamento umano; sono coloro che hanno sviluppato una buona identità individuale, che hanno saputo investire in qualità e attività orientate verso il sé, perseguendo principi e valori nel rispetto di sé stessi e degli altri, mai dogmatici o rigidi, sono emotivamente sicuri tanto da poter funzionare senza essere influenzati da lodi o critiche; i confini dell’io sono flessibili, ma non labili, tanto da permettergli di sperimentare la condivisione con l’altro o l’abbandono proprio dell’incontro emotivo o sessuale con un partner.
Bowen ci rassicura, affermando di non avere mai incontrato nessuno così differenziato nella corso della sua pratica clinica e raramente anche nelle relazioni sociali e professionali.
La maggior parte delle persone infatti si collocano a livelli intermedi della scala di differenziazione del sé, in cui la dipendenza dall’altro definisce gradi maggiori o minori di investimento e soddisfazione in aree di realizzazione personale, professionale, relazionale, e diversi livelli di rigidità, dogmatismo, conformismo, rigidità emotiva, isolamento, conflittualità e anche malattia fisica.
Ma come funzionano dunque le relazioni all’interno della massa dell’io della famiglia nucleare? Come viene gestita la tensione derivante dalla fusione dell’io tra i membri della famiglia?
I meccanismi sono principalmente tre: il conflitto coniugale, la disfunzione di un coniuge e la trasmissione di un problema a uno dei figli.
Nel conflitto coniugale la relazione è simmetrica e ciascuno dei partner lotta per dividere in parti uguali il sé comune, senza cedere nulla all’altro; la seconda modalità di gestione del conflitto prevede che al conflitto coniugale segua la resa di uno dei due coniugi, che più frequentemente dell’altro abbandona la sua posizione e una parte del proprio sé. Una variante è quella in cui uno dei coniugi abbandona del tutto il proprio sé e offre il proprio “non sé” a sostegno del partner, da cui diviene dipendente; in questi casi il coniuge che perde il proprio sé può arrivare a livelli di funzionamento bassissimo e sviluppare patologie fisiche, psicologiche e sociali; sono questi i casi di relazioni altamente sbilanciate in cui uno dei coniugi funziona bene e l’altro è un malato cronico.
Le configurazioni che deriveranno dalla messa in atto di uno o più di questi meccanismi preserveranno il funzionamento di alcuni componenti della famiglia a scapito di altri, infatti secondo Bowen la difficoltà di una relazione coniugale può essere misurata quantitativamente: il sistema agisce come se una certa quantità di immaturità dovesse essere assorbita e questo può avvenire ancorandola alla disfunzionalità di un membro della famiglia, permettendo così maggiore funzionalità agli altri.
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Il conflitto coniugale può, per esempio, mantenere il problema confinato alla generazione dei genitori senza incidere sui figli e il fatto che ci siano famiglie dove i figli di relazioni coniugali conflittuali non sviluppano problemi è prova del fatto che questo non necessariamente danneggia la generazione successiva. Anche la presenza di un genitore malato cronico può costituire una protezione per seri danni nei figli.
La trasmissione del problema ai figli è uno dei meccanismi più frequenti che la massa dell’io familiare mette in atto per gestire la tensione.
La triangolazione si verifica quando l’aumento della tensione relazionale tra i coniugi viene gestito e contenuto coinvolgendo uno dei figli: questa alleanza con “un altro più vulnerabile” mira alla costruzione di una relazione più stabile. La triangolazione, dispiegandosi da una generazione all’altra, rende sempre più difficile il processo di individuazione dei singoli membri della famiglia, fino ad arrivare ai casi estremi di simbiosi familiare in cui la non differenziazione del sé di ciascuno è massima. Secondo Bowen è un tipo di coazione a ripetere applicata alle generazioni, in cui ogni generazione fa ricadere la sofferenza su quella successiva (Hoffman L, 1984).
Ecco alcuni esempi di configurazioni triangolari (Minuchin S, 1980):
Il triangolo inammissibile: due genitori in conflitto cercano entrambi una alleanza con il figlio, allo scopo di costituire una coalizione contro l’altro genitore; questo tipo di schema triangolare, con due lati positivi, è molto stressante per il figlio coinvolto perchè comporta un intenso conflitto di lealtà.
Coalizione genitore-figlio: il conflitto genitoriale è esplicito e l’alleanza tra uno dei genitori e il figlio è stabile. In questi casi spesso il figlio si allea protettivamente con il genitore che sente più debole o fragile, prendendo il suo posto in un paradossale confronto (o scontro) “alla pari” con l’altro genitore; piani e i confini generazionali risultano del tutto alterati.
Deviazione-attacco: il figlio è un capro espiatorio, il suo comportamento è cattivo e distruttivo, i genitori si associano per controllarlo: la relazione matrimoniale è spesso priva di conflittualità ma i sintomi comportamentali del figlio spesso rappresentano “il braccio armato del conflitti generazionali negati o irrisolti” (Andolfi M, 2010)
Deviazione appoggio: anche in questo caso i coniugi mascherano le loro differenze e celano il conflitto concentrandosi entrambi iperprotettivamente sul bambino che viene definito “malato”. È una caratteristica tipica delle famiglie in cui i disturbi si esprimono in modo psicosomatico.
L’aspetto patologico della triangolazione intergenerazionale risiede nel fatto che le risorse psicologiche ed emotive del bambino vengono utilizzate per regolare il conflitto tra adulti, a scapito dei suoi bisogni evolutivi, che per venire accolti e soddisfatti necessitano della sintonizzazione affettiva da parte degli adulti.In questo modo si realizza un processo di delega che, di generazione in generazione, perpetua la richiesta di soddisfacimento di bisogni originari rimasti inappagati.
Inoltre la posizione di funzionamento del bambino all’interno del triangolo inevitabilmente condizionerà il suo modo di pensare, sentire e agire, modellando qualitativamente il suo senso di identità e appartenenza e di conseguenza le possibilità di differenziazione dalla famiglia di origine.
Le relazioni triangolari definiranno anche la partecipazioni ad altre esperienze triangolari con gli altri sottosistemi familiari (ad esempio quello dei fratelli o in generale con la famiglia allargata) e con il sistema amicale e professionale. La non differenziazione dalla famiglia di origine porterà, in un momento successivo del ciclo di vita dell’individuo, a uno spostamento sul partner della richiesta di soddisfacimento dei bisogni rimasti inappagati; quando questa richiesta di appagamento, inevitabilmente, fallirà l’ansia spingerà nuovamente alla ricerca di un alleanza con i figli.
Nel prossimo articolo vedremo più da vicino come la posizione di funzionamento assunta all’interno delle dinamiche triangolari familiari influenza la scelta del partner e la costruzione del legame di coppia.
Da qualche mese ho finito di frequentare il training internazionale di Schema Therapy, sede di Modena, organizzato dalla S.I.S.T (Società Italiana per la Schema Therapy). La Schema Therapy, fondata da Jeffrey Young, è una terapia che integra gli aspetti più significativi della Terapia Cognitivo Comportamentale, della Teoria dell’Attaccamento, della Terapia Psicoanalitica, della Terapia della Gestalt, della terapia Focalizzata sulle Emozioni, e che utilizza un armamentario di strategie e tecniche molto vasto, che permettono un lavoro psicologico in “profondità”. Durante il training ho avuto la possibilità di confrontarmi e di conoscere alcuni terapeuti Schema Therapy: Gunilla Fosse, Neele Reiss e Alessandro Carmelita, con cui ho anche avuto la possibilità di fare due chiacchiere sulla Schema Therapy.
Quale pensa sia il contributo centrale e il valore aggiunto della Schema Therapy?
La Schema Therapy mantiene una cornice focalizzata sul raggiungimento degli obiettivi terapeutici e degli obiettivi del paziente che deriva dalla terapia cognitivo comportamentale. Gli obiettivi quindi sono legati alla vita attuale del paziente, ma allo stesso tempo con la Schema Therapy si ridà importanza alla “cause originarie” dei problemi, tralasciate invece da Beck, e ci si focalizza su di esse con un lavoro a livello immaginativo.
Possiamo definire questo come un lavoro principalmente emotivo perché attraverso gli esercizi esperienziali, esercizi immaginativi di roleplaying, si tende a far emergere in seduta emozioni molto forti e si rende possibile il lavoro sui ricordi di eventi traumatici.Eventi che si pensa siano stati l’origine delle problematiche psicologiche del paziente. Si lavora, quindi, sui ricordi per cambiare le emozioni ad essi collegate.
Altro aspetto fondamentale della Schema Therapy è la grande importanza data alla Relazione Terapeutica e alle dinamiche interpersonali che si manifestano in seduta. Quello che percepisco lavorando da molti anni con la Schema Therapy è che essa permette al terapeuta di avere una visione molto completa della sofferenza umana e una visione “rotonda” della persona che si ha davanti.
Ciò fa sì che il lavoro con il paziente sia su più livelli: il livello emotivo in primis e poi quelli cognitivo e comportamentale.
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Rispetto alla sua esperienza clinica, per quali pazienti trova sia più utile la Schema Therapy?
Io devo dire questo, sono andato a New York per specializzarmi con Jeffrey Young perché mi sono reso conto di avere alcune difficoltà con certi pazienti. Mi è capitato negli anni di perdere qualche paziente non capendo il perché. Inoltre, avevo la sensazione di non fare un lavoro completo, che mancasse qualcosa; infatti, con alcuni pazienti, pur facendo un buon lavoro,mi capitava che dopo qualche tempo mi richiamassero per dirmi che qualcosa nella loro vita non stava andando bene.
Per questo ho deciso di approfondire gli studi su altre forme di terapia che non si discostassero troppo dalla mia formazione cognitiva. Inoltre, ho approfondito la conoscenza dei disturbi di personalità, perché avevo la sensazione che il sintomo che molti pazienti portavano in terapia, che poteva essere riconosciuto come espressione di un disturbo di Asse I, fosse solo la superficie, che stesse “sopra”, celando un disturbo di personalità.
Questa è stata la mia motivazione iniziale per approfondire la Schema Therapy che dai miei studi ritenevo fosse maggiormente indicata per questo tipo di pazienti. Ovvero per i disturbi di personalità.
Dato che viene supportato dalla ricerca, ad esempio il famoso studio di Arntz che dimostra che la Schema Therapy è estremamente efficace per il disturbo Borderline e anche gli attuali studi su i Disturbi di Cluster C che stanno dando ottimi risultati.
Quando, poi, ho visto Jeffrey Young lavorare a New York sono rimasto veramente colpito dal suo modo di relazionarsi ai pazienti. Quello che ho potuto verificare fin da subito, specializzandomi in Schema Therapy con lui, è che cambia la forma mentis del terapeuta. Si è molto più focalizzati sulla persona, che sul paziente; su quelli che sono i bisogni emotivi della persona davanti a noi, che non solo non sono stati soddisfatti nella sua vita passata ma che non o sono ancora oggi.
Quello che molto presto ho verificato e compreso è che la Schema Therapy può essere applicata in altri ambiti oltre a quello dei disturbi di personalità.Per esempio si è dimostrata clinicamente efficace nel trattamento di disturbi d’ansia, della depressione, soprattutto nel prevenire le recidive, ed inoltre è molte utile nelle terapie di coppia, dove permette ai partner di vedere e prendersi cura della parte vulnerabile dell’altro, invece che continuare a rimanere bloccati in un conflitto perenne l’uno contro l’altro. La cosa interessante è che la Schema Therapy sta dimostrando di essere molto efficace anche applicata in gruppo.
Tale approccio risulta anche più vantaggioso in termini di costi e tempi ridotti. Tuttavia, quello che Young consiglia è che se c’è un disturbo di Asse I, come terapeuti siamo tenuti a fare con quel paziente la terapia che si è dimostrata scientificamente più efficace. Quindi, in prima istanza, potremmo proporre un trattamento cognitivo comportamentale per trattare disturbo d’ansia, ma poi in un secondo momento, potremmo andare a vedere quali sono gli “schemi maladattivi” del paziente, quali “comportamenti di coping” sta mettendo in atto e fare un lavoro con lui attraverso la Schema Therapy affinchè questo riduca il tasso di eventuali ricadute e migliori la qualità di vita del paziente.
I pazienti come accolgono la proposta di lavorare in termini di mode e schemi, come accettano la proposta di fare esercizi immaginativi, ha mai trovato delle resistenze?
Sono un terapeuta con una formazione Cognitivo Comportamentale e Sandra Sassaroli è stata la mia didatta per il primo anno di specializzazione. Quindi, io sono conosciuto come terapeuta cognitivo comportamentale.
Quello che succede quindi è che molti pazienti mi chiamano per questo tipo di terapia: una terapia centrata sul sintomo, aspettandosi di “guarire” in un breve tempo. Questo è quello che loro leggono su internet. “La Terapia cognitiva è una terapia breve centrata sul sintomo”.
Quello che spesso accade, però, è che nel momento in cui vengono in terapia la maggior parte di questi abbia dei tratti di disturbo di personalità. Quindi quando loro vengono in terapia con l’aspettativa di lavorare sul presente e io propongo loro di lavorare sulla loro storia, di andare a vedere da dove arrivano le loro problematiche, ci può essere, in effetti, in alcuni di loro un po’ di resistenza. Per questo la prima parte della terapia è anche una parte psico-educativa. Ovvero spieghiamo i motivi per cui è importante lavorare sui ricordi passati e sulla storia di vita. Quello che facciamo è approfondire la storia di vita del paziente per parecchie sedute cercando di fare una sorta di “educazione costante” a quello che sono gli schemi, a cosa significa il fatto che se uno schema si attiva nel presente una persona continua a mettere in atto determinati comportamenti di coping appresi nel passato e a ciò che ne consegue.
Quindi, c’è tutto un lavoro di preparazione a quella che sarà la proposta che noi faremo al paziente: una terapia in cui lavoreremo molto collegando i problemi attuali del paziente a quelle che sono state nel passato le cause; partendo da emozioni molto negative che il paziente prova nel presente per far emergere dei ricordi di situazioni vissute nel passato in cui lui ha provato emozioni simili.
Questo aiuta a fare comprendere al paziente quanto sia importante un lavoro di connessione tra le sue esperienze passate e le problematiche attuali, recuperandone i vissuti dalla memoria. Una cosa che capita spesso è che un paziente mi dica: “Alessandro io sono venuto da te perché volevo stare meglio e invece finite le sedute mi capita di stare ancora peggio” e questo è qualcosa che noi terapeuti dobbiamo comprendere e validare. Quello che facciamo è comprendere il malessere del paziente, mostrare genuinamente il nostro dispiacere per la sua sofferenza facendo però anche comprendere che è necessario far emergere ciò che fa soffrire per poi cambiare quella sofferenza.
Durante la formazione impariamo d condurre degli esercizi immaginativi e di role play in cui il ricordo e il vissuto emotivo dell’altro possa cambiare gradualmente. Si impara a lavorare sui vissuti emotivi negativi e a cambiarli facendo in modo che il paziente possa lasciare le sedute non stando eccessivamente male ma avendo elaborato i suoi stessi vissuti emotivi. Certo mettiamo anche il paziente al corrente di quali potrebbero essere le conseguenze del non fare un lavoro più approfondito sul suo problema attuale. Una sorta di costi e benefici del lavorare sul ricordo del passato.
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Per concludere, le chiedo di parlarci, della fase conclusiva della terapia, come lasciare andare via un paziente?
Se noi pensiamo ai pazienti come a dei bambini, come suggerisce Jeffrey Young, quello che noi vediamo nell’arco della terapia è che all’inizio sono come dei bambini molto piccoli mentre man mano durante il percorso terapeutico è come se loro maturassero sempre di più. Quindi quello che notiamo è che è come se il paziente crescesse. Nella fase finale della terapia noi solitamente vediamo, nel migliore dei casi, che il paziente ha interiorizzato un “Adulto sano”. Questo lo vediamo sia per come si relaziona con noi, ma anche per come vive la sua vita, le sue relazioni al di fuori della seduta. Il paziente alla fine della terapia risulta essere un adulto più sano, maggiormente in grado di stare in contatto con le proprie emozioni e con i propri bisogni, maggiormente in contatto con quella parte bambina che c’è in lui, e che è in grado di provare amore e compassione per quella parte, prendendosene, finalmente, cura.
Noi terapeuti dobbiamo facilitare il distacco del nostro paziente quando vediamo che riesce a farcela da solo. Diraderemo le sedute, ricordandogli sempre che rimarremo una base sicura e stabile per lui.
Le memorie emozionali di recente formazione possono essere cancellate dal cervello umano. È ciò che stato è dimostrato da un team di ricercatori dell’Università di Uppsala.
Quando impariamo qualcosa, le informazioni vengono immagazzinate nella memoria lungo termine grazie al processo di consolidamento, basato sulla formazione di proteine. Quando ricordiamo qualcosa, la memoria diventa momentaneamente instabile, per poi stabilizzarsi nuovamente grazie a un altro processo di consolidamento. In altre parole, quando ricordiamo non stiamo ricordando ciò che è successo in origine, ma piuttosto quello che abbiamo ricordato l’ultima volta che abbiamo pensato a quello che è successo. Interrompendo il processo di riconsolidamento che segue la rievocazione di memorie, è possibile influenzare il contenuto della memoria.
I ricercatori, allo scopo di condizionare i partecipanti a provare paura in associazione a determinate immagini, hanno mostrato loro un’immagine neutra accompagnata da una scossa elettrica. Successivamente per attivare la memoria relativa alla paura, l’immagine è stata mostrata senza scosse di accompagnamento. In un gruppo sperimentale il processo di riconsolidamento è stato interrotto con la presentazione ripetuta dell’immagine. In un gruppo di controllo, invece, il processo di riconsolidamento è stato completato prima che ai soggetti venisse presentata la sequenza ripetuta dell’immagine.
Nel gruppo sperimentale il processo di riconsolidamento è stato compromesso e la paura, precedentemente elicitata dall’immagine neutra, si è dissipata; in altre parole, interrompendo il processo di riconsolidamento, la memoria è stata resa neutra e non più condizionata alla paura. Grazie all’uso di un MR-scanner, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che anche le tracce di memoria scomparivano nell’area cerebrale normalmente deputata alla memorizzazione dei ricordi paurosi, il gruppo nucleare dell’amigdala nel lobo temporale.
Questi risultati rappresentano un passo avanti nel campo della ricerca sulla memoria e sulla paura e potrebbero contribuire allo sviluppo di nuovi metodi di trattamento per i disturbi d’ansia, come le fobie, lo stress post-traumatico e gli attacchi di panico.
Il vero quesito funzionale della valutazione neuropsicologica nelle Demenze dei corpi di Lewy è che questa si dipana all’interno di un tessuto sintomatico tra Parkinson e demenza di Alzheimer – Parte 2
La demenza con corpi di Lewy (DLB) è spesso caratterizzata da marcata compromissione dei domini cognitivi riferiti alle abilità visuo-spaziali dell’attenzione e delle funzioni esecutive. Uno studio, sempre del 2009, ha però mostrato come tuttavia, la forza della espressione fenotipica di DLB varia e può essere più debole in pazienti con malattia estesa concomitante con la diagnosi Alzheimer (AD).
Al fine di determinare la forza del fenotipo clinico DLB , anche in questo studio correlazionale, è stato eseguito un confronto delle performance cognitive con dati autoptici post mortem. Il modello adottato in questo studio, basato su quello delle equazioni di stima generalizzate (GEE), ha rivelato che una significativa riduzione delle performance in test che misurano abilità visuo-spaziale è fortemente associata ad un rapido tasso di declino cognitivo in pazienti con Demenza dei Corpi di Lewy, ma non AD (p <.001).
L’analisi delle prove che misuravano il dominio cognitivo del linguaggio non ha invece mostrato alcun effetto significativo.
I pazienti DLB con scarse competenze visuo-spaziali all’esame autoptico hanno mostrato meno grovigli neurofibrillari e una maggiore probabilità di avere allucinazioni visive rispetto a quelli con una migliore capacità visuo-spaziale.
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Questi risultati suggeriscono che la gravità dei deficit visuo-spaziali nella DLB può essere predittiva nell’identificare coloro che affronteranno un decorso particolarmente ingravescente.
L’analisi, invece, rispetto alle compromissioni nella DLB, per quanto riguarda il dominio delle funzioni esecutive, non ha ben chiarito i rapporti rispetto alle differenze con le demenze di tipo fronto-temporale che sembrerebbero presentare prestazioni simili, fatta eccezione per le prove di Stroop che riguardano la sensibilità, l’inibizione comportamentale e l’indipendenza ambientale.
Altra componente presente nei pazienti affetti da demenza dei corpi di Lewy che condividono maggiormente con i malati con il morbo di Parkinson con demenza, è la presenza di deficit sia in comprensione che in espressione narrativa.
Uno studio (Ash et al. 2012) recentissimo ha esaminato l’ipotesi che questi danni siano dovuti ad un deficit di riorganizzazione del materiale acquisito, piuttosto che a menomazioni specifiche del dominio cognitivo del linguaggio.
I risultati a questo studio hanno mostrato come i pazienti con DLB non riescano a riorganizzare gli elementi narrativi né in fase di comprensione nè di produzione, rispetto alla popolazione degli anziani sani. Il dato interessante di questa ricerca è che le misure esecutive di comprensione e produzione sono correlate tra loro, ma non con le misure neuropsicologiche di semantica lessicale o grammaticale, mostrando come in questi pazienti ci sia un deficit specifico di tipo esecutivo per la comprensione ed espressione narrativa legato, verosimilmente, all’ atrofia corticale prefrontale.
Allo stato dell’opera, dunque, le ricerche in ambito neuropsicologico non mostrano dei dati incontrovertibili, atti a disegnare degli indici stabili di definizione di quadri neuropsicologici tipici della DLB.
Si è però chiarito, anche alla luce degli studi longitudinali e autoptici che una buona valutazione neuropsicologica di tipo differenziale deve prevedere un’estesa batteria di test che osservi tutti i domini delle funzioni cognitive con particolare attenzione a quei quadri dove siano presenti cadute nell’ambito esecutivo e visuo-spaziale.
Per quanto riguarda le funzioni esecutive, occorre dunque prestare particolare attenzione alla sensibilità e all’inibizione di risposte automatiche e alle componenti di organizzazione ed espressione di materiale narrativo; le cadute di tipo visuo-spaziali, invece, potrebbero essere utili per indagare il grado di gravità generale e temporale del paziente affetto da DLB.
BIBLIOGRAFIA:
Roselli, F. Liuzzi, D., Pennelli, M. et al. (2012). Demenza a Corpi di Lewy. Diagnosi e Trattamento. La Neurologia Italiana, 3.
The Psychiatrist & the Rockstar: interview with Sinead O’Connor
Sinead O’Connor during the interview in videochat with State of Mind.
The Psychiatrist & the Rockstar: State of Mind interviews Sinead O’Connor
In my adolescent 90’s playlist there’s a Song (yes, song with a capital S) that wholly deserves it’s place of honor not only for the wonderful ballad (not surprising, seeing as the composer is a certain genius from Minneapolis formerly known as Prince) but above all for the singer’s performance that spears the listener straight in the heart, it pierces the left ventricle and bleeds five minutes and ten seconds of pure emotions.
The song’s called Nothing Compares 2 U and the singer is the Irish bad-girl with a shaved head called Sinead O’Conner.
The piece, which came out in 1990, was a worldwide phenomenon helped along by the minimalist video clip featuring only the singer’s angelic face moved to tears by the time she hits the final notes (Sinead was thinking to her mother, died in a car crash five years previously, while singing Nothing Compares 2 U).
The following years were characterized by even more excellent music and peppered with resoundingly blatant provocations (most famously when she ripped up a photo of the Pope on Saturday Night Live) which earned her the label of activist and heretic; Rock’s answer to Joan of Ark.
In 2005 she surprised the masses by releasing her excellent reggae album “Throw Down Your Arms”, followed by the more intimate “Theology” in 2007, which dealt with her passionate relationship with spirituality.
At the start of 2012 her new album “How About I Be Me (and You Be You)?” was released.
This should have been followed by a tour which was cancelled due to a serious relapse into a depressive phase of the bipolar disorder that Sinead has suffered from, for 8 years. (Editor’s Note: According to DSM-IV criteria , it is most likely Bipolar II disorder). The deep depressive state was characterized by an attempt at self-harm by overdosing on prescription drugs having previously launched a desperate cry for help from her fans on twitter.
On hearing this news, I got the idea for an interview on Skype, each from their own home, me in Modena and her close to Dublin.
Sinead kindly took some time out from her schedule as a busy mother of four to speak to me. Despite the impersonality of online conversation, I felt as though on the other side of the screen I was talking to someone authentic, who isn’t ashamed to share their own fragilities and is extremely precise when describing her own journey towards healing.
THE INTERVIEW
GP: Well Sinead, first of all I want to thank you for your kindness and willingness in giving this interview. I must confess, I was really surprised that you accepted. I don’t know how much you want to talk about yourself specifically, but I would like that our talk be of some help for people who struggle everyday against depression.
S: I am interested in the issue obviously…well the only reason I am qualified to speak is because I have direct experience.
GP: So…you have been diagnosed with bipolar depression, haven’t you?
S: Yes I was diagnosed 8 and half years ago, but it took 12 years to get the right diagnosis.
GP: Did your disorder start with a manic state or with a depressive state?
S: I don’t get the highs and the manic particularly, I get the lows. When I was younger though, I had a very bad temper, that’s my being a bit of a manic; not in a happy way, but I was like… fuck that!
GP: A young rebel…
S: I have always had a good functioning in my artistic life, but I had problems mostly in my private life, I got very angry with my boyfriends and stuff…I would probably have good reasons to be angry but the volume would be too high, just getting to some level of wounding that perhaps was not appropriate to the actual offence committed.
S: I did have once where I was addicted to shopping, that’s unheard of for me because I fucking hate shopping, but I did actually about two years ago. That was as manic as I ever got. I bought a lot of clothes.
GP: Do you think that your experience of depression has been of some inspiration for your creative process at some point?
S: I think the other way round. I don’t agree with this romantic fantasy that people who suffer from depression are more likely to be artists. I find that I am more creative when I am happy actually.
I think that music has been a great help to me and this has been confirmed by every psychiatrist I have seen. I would probably be dead if not for music. They think that the reason that I have this depression is for what I went through growing up. I have also Post Traumatic Stress Disorder, and I wouldn’t have survived that if not for music. So I think for me, music was a soothing thing and it was also a place where you could say all the stuff that you couldn’t say anywhere else. When I grew up in Ireland in the seventies there was no such thing as therapy…I mean we didn’t even have cappuccinos until 1998! So for me music was therapy, it was also the place where one could speak about himself, where he was allowed to speak about his traumatic experiences. I grew up in a situation of extreme abuse, but there was no chance to talk about it, so music became the escape if you like.
GP: In which way has music helped you? More in the creative process of song writing or more in the cathartic process of performing?
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S: I think all of it. I think in the first place hearing the music inside of you is very soothing, very comforting. For me there always been, if you like, a spiritual connection between myself and music. What I like about being a musician is that I find the thing soothing, but I also give the soothing to other people; I guess for some people particularly, I think people who come from abuse and/or people who have mental illnesses, have terrible self-esteem problems. And for me I have always found being a musician, a work and a place where I find a lot of self-esteem. I feel that I was a useful contributor to society, and that I couldn’t be a contributor to society in any other way.
I think when you have a mental illness you can feel very bad about yourself because you are always fucking up in life and making music perhaps makes you feel you are not such a dreadful person and there is something you can do that is not fucked up… because there is a terrible lack of self esteem that comes with mental illness, especially if you live, like I do, in a society such as Ireland, where having mental illness has a dreadful stigma.
And also I suppose is very cathartic to do a show to the masses and you get to make magic in a manner that you can’t do in regular life, but I suppose that self esteem effect is one of the most powerful.
GP: I think that the problem of stigma in mental health is as important as the illnesses themselves. Can you tell me something more about the stigma situation in Ireland?
S: Well I suppose in some ways, all over the world “crazy” is a term of abuse and I think that is something that should be stopped. In Ireland “crazy” is a term of abuse and people are terrified of anything that they conceive to be crazy. And the people believed to be crazy won’t be treated compassionately, they will treat you horribly and use it as a reason to dismiss anything you would think, do, say or feel, so you’re rocking into a self esteem trap. I had a letter from a man back in January, an old man aged 73, he lives in Goolen (Ireland), I was thinking about him this morning, he has been taking antidepressants for 30 years and he has not told his wife and his adult children because of the stigma. That is Ireland, you know. We are very ignorant about the nature of mental illness. People assume all over the world for example that schizophrenia means you have a lot of personalities, like multiple personality disorder, but it is not. It is completely different.
When you have mental illness you don’t have a plaster or a cast or a crutch, that let everyone know that you have the illness, so people expect the same of you as from anyone else and when you are different they give you a hard time and they think you’re being difficult or they think you’re being a pain in the ass and they’re horrible to you. You spend your life in Ireland trying to hide that you have a mental illness. I’m always checking with my friends “Do I seem crazy?”, “Am I being crazy?”, and I shouldn’t have to keep checking, if I’m being crazy I should be left in fucking crazy peace! You have to hide what you are and it’s really stressful and very bad for your self esteem. Because it’s not obvious to people that you are ill, they treat you as if you’re a pain in the ass, then you beat yourself up and you are already beating yourself up as a part of mental illness, you know.
I mean, I understand that we are actually complicated people but we are also dreadfully simple, but you know it’s a hard world where there is this gap between the supposedly sane and the supposedly insane, the sane are not familiar with the insane, which in itself is insane. We are all stuffed behind these kind of, you know, the actual bars that don’t exist anymore, the metaphorical bars do exist.
GP: I know that you have always had a difficult relationship with the Catholic Church. What do you think about the attitude toward mental illness of the Catholic Church today? Is there acceptance and compassion for the mentally ill?
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S: (laughs) If there was acceptance of the mentally ill in the Catholic Church, the entire Curia would resign! You need the best psychiatrist in Italy to take a little time in there! The very top guys are insane. They are more insane than the lot of us put together. If they investigate mental illness they have to start out by checking themselves into hospital. Anybody who can claim that paedophilia and the ordinance of women are equal has a mental problem. When one criticizes the Church, what we usually mean, especially in Ireland, are the top guys. We all know that 99.9% of priests and nuns are incredible people, that do a lot to help people of all kinds. But the regular priests down the road haven’t got the training to go around the country breaking statements, all the poor priest can do is mop up the mess, which is usually suicide, ‘cause stigma leads to suicide. Because of the stigma, people don’t stay in treatment and they don’t get the help they need, because they know they are gonna be treated like shit.
S: Yes…for example: I checked into hospital about 2 years ago because I wanted to make doubly sure that the diagnosis was right. While I was in the hospital (I was there for 2 weeks), there was a woman about my age who had been there for 6 months. She wasn’t that unwell, and I was talking to her one day about why she was there and she showed me her arms, they were all cut. Her mother had died of cancer and she’d nursed her. Nothing had happened to this woman before, but the night her mother died, she probably lost her mind and she sliced up her arms. But the reason she stayed in the hospital so long was that in the village that she came from, they wouldn’t have her back, she couldn’t have her job back, none of her friends wanted to talk to her, she was a pariah in the village because she had done this to her arms, everybody thought she was mad. So she couldn’t go back to her town and she was based in the hospital.
GP: How many times have you been admitted to the hospital?
S: I took myself to the hospital twice. The first to get a clear diagnosis. The second was last year when I was taken off medication very stupidly and I got very sick, I couldn’t eat or sleep.
GP: Why did you stop the medication, was it for the side effects?
S: I was getting a lot of pressure from people in show business about my being overweight because of medication, I was on 200 mg of amitriptiline. When I said this to my doctor, for some reason she took me completely off medication and she didn’t really supervise properly. The mental health system here is really terrible. After I was taken off medications, I got sick, but I didn’t realize I was sick. Then I got carried away with loosing weight so I wanted to pretend I was not sick. It was not my choice to be off medication, but the psychiatrist took me off, so I thought it was ok. Unfortunately in my case, because of what I do for living, here in Ireland is very hard for me to find a doctor who can just deal with me as a person, that can get beyond Sinead O’Connor. I had to go to England to find a psychiatrist for my case.
GP: How long were you without medication?
S: I was off medication from August last year until April. I was told to come off by the doctor, so it took me a long time to know I was sick because when you stop those meds it takes a long time to get sick, so I didn’t know what the fuck was going on.
GP: Nine months without medication is really a long time…weren’t you warned by the psychiatrist about the possible risks of relapse?
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S: Because of what I do for living, in Ireland all that the psychiatrist did was to complain about the stuff that was in the newspapers instead of talking about my sickness. The same psychiatrist was very involved in the Church’s public struggle in Ireland … on the opposite side to me. At the same time as coming off meds, when I was going to her, she complained to me that she didn’t like what I was saying about the Church in the newspapers, so we fell out and I was left stranded. Then in Ireland the mental health system is so shit that you can’t get an appointment with the doctor for treatment for months, so I would wait for another doctor to tell me the same shit. One doctor sent me home with anti-histamines and told me to take 100 mg every night. So I said “ok!”. In Ireland people think doctors are God, they don’t question them. But this meant I was sick for three more fucking months! And the funny thing is that it was a private doctor, and the only alternative is to go to the fucking hospital. Nobody wants to go to the hospital, the worst thing that can happen if you are sick is to leave your family and your children, that’s the only thing that make you feel safe.
GP: It sounds strange…in Italy you can choose a private doctor and pay more, but you can see the doctor more often.
S: Here you have six weeks in agony, but unless you want to check into hospital, you are fucked. Moreover, here people don’t have money. I have, but the guy next door can’t pay for a private psychiatrist and can wait up to six months for a consultation. I’ll give you an idea about how bad our system is: a friend of mine works in a child drug counselling service, run by the National Health Service for children aged between 12 and 18, and there is a fridge in the toilet! That is the picture of the health system in Ireland.
GP: I can imagine you really had terrible times. Was it in the last months when you couldn’t finish the tour?
S: Yes, I almost died. It was in June this year that I was very sick, like never before. I was put on carbamazepine in April and I had a very unusual reaction that made the symptoms worse. Now I feel better taking 200 mg of lamotrigine and 100 mg of quetiapine. Now I also take very high dose of vitamin B12, prescribed by the psychiatrist. They have just discovered that it helps with the depressive phase of bipolar disorder.
GP: Have you ever tried psychotherapy?
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S: Yes, fucking never stops, I still do. At the moment I have counselling every week. From July to August this year I also worked for 12 weeks with a therapist at a Suicide Prevention Centre in Dublin. They are fantastic. One of the main symptoms when I was very sick was the constant suicidal thinking and I found that many therapists are not specifically trained in the area of suicidal thinking, so you can go on for years and it is not fixed. Because I was not on medication the suicidal thinking got worse and worse and I actually made an attempt in January, and then there were three more attempts. The therapists in the Suicide Prevention Centre just work on suicidal thinking. They don’t just talk about killing yourself, they help to rebuild your life, they help you to focus on what life do you want. I saw them once a week for individual sessions. While you do that you don’t do any other therapy.
GP: What do you mean by rebuilding your life?
S: They helped me identify a number of issues, the “off-switch” was one, learning how to fucking do nothing, just sit the fuck down and put energy out. Then you sit down and realize how tired you were, when you have depressed or suicidal thinking you don’t know how tired you are.
Then they focused on the thing with me that I am too inclined to take on board other people’s negative opinions of me. If ten people stood in a room and nine said you are fucking great and one said you’re an asshole, that would be what I’d worry about and believe in, that person, getting depressed if someone says I’m an asshole. They were able to teach me, which I hadn’t learned before, how to really not give a fuck about them. And then another important thing is fun, I mean “What are you doing just for fun?”, “Are you doing anything just for fun?”. They made me put together a bucket list, so first of all you deserve better, to hang out all the people that make you feel like shit, then you need to rest your body, to take time for yourself and they made me put together a list of the things I would like to do in my life, and that was great! They very quickly put you out of the misery part and start to build a fun life. It’s quite witchy how therapy works, it’s a kind of subconscious, you don’t know how the fuck they’ve done it but suddenly you start living differently and thinking differently. I’ve been able to build the life I want, do you know what I mean? When you have a mental illness I think it is important to work with prevention services when one of your symptoms is suicidal thinking.
GP: Did you struggle with interpersonal problems that drove you to think about suicide?
S: In that period I was not on medication, and in the same time a lot of awful stressful things were happening. If I had been on medication perhaps I would have responded differently. In my case it was purely the sickness that made me think suicide but it was a compulsion. I got to the point that the physical symptoms of bipolar disorder made me feel as if I was walking under water.
GP: Walking under water…really gives the idea of how you could have felt…well Sinead, I think you were really exhaustive and brave in telling your difficult story, and I want to thank you on behalf of State of Mind and of all the people who have to face mental illness every day.
Cosa ci spinge a mettere il bene comune davanti a quello personale? Cosa è istintivo, la tendenza a cooperare o quella a pensare innanzi tutto a sé stessi? Un gruppo di ricercatori di Harvard ha cercato di capirlo e ha scoperto che la prima naturale tendenza sia verso la cooperazione, ma che fermarsi a riflettere incoraggi risposte egoistiche.
La ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati su Nature, ha coinvolto migliaia di partecipanti che hanno giocato al “gioco dei beni pubblici”, in cui “io” è contro “noi”. I soggetti sono stati riuniti in piccoli gruppi e posti di fronte ad una scelta: ciascuno avrebbe potuto scegliere se tenere i soldi ricevuti, o metterli in un fondo comune, che crescendo avrebbe garantito vantaggi a tutto il gruppo.
Lo scopo della ricerca era capire se il primo impulso dell’individuo fosse verso la cooperazione o, al contrario, di tipo egoistico.
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Per scoprirlo i ricercatori hanno innanzitutto stimato in quanto tempo le decisioni venissero prese, scoprendo che i più veloci avevano più probabilità di contribuire al bene comune. Successivamente hanno costretto i partecipanti ad accelerare il processo di scelta o, al contrario, a rallentarlo incoraggiando la riflessione; anche in questa circostanza chi decide più velocemente tende ad essere più cooperativo, mentre chi si ferma a riflettere è meno generoso.
Infine, i ricercatori hanno testato la loro ipotesi, manipolando la prosepettiva dei partecipanti. Hanno chiesto ad alcuni di pensare ai benefici di una risposta intuitiva prima di scegliere la quantità di denaro con la quale contribuire. Altri invece sono stati invitati a riflettere sui vantaggi di una valutazione ponderata e cauta. Ancora una volta, l’intuito ha promosso la cooperazione, e la riflessione ha avuto la conseguenza opposta.
“Nella vita quotidiana, generalmente è nel nostro interesse essere cooperativi”, ha detto David Rand. “Così abbiamo interiorizzato la cooperazione come il modo appropriato di comportarci. Se venissimo a trovarci in ambienti insolitamente privi di rinforzi positivi come la reputazione o negativi come le sanzioni, la nostra prima reazione sarebbe quella di continuare a comportarci come facciamo di solito. Se però ci fermassimo a riflettere ci renderemmo conto che questa è una di quelle rare situazioni in cui essendo egoisti potremmo farla franca”.
“Nel corso di milioni di anni, abbiamo sviluppato la capacità di cooperazione”, spiega Martin Nowak. “Questi esperimenti psicologici esaminano i motivi che spingono alla cooperazione su un lasso di tempo più breve, dell’ordine di pochi secondi. Entrambe le prospettive sono essenziali in quanto ci troviamo ad affrontare problemi globali che richiedono una cooperazione su vasta scala. Abbiamo bisogno di capire da dove viene la cooperazione storicamente e il modo migliore per farlo accadere qui e ora”.
A differenza di molti studi di psicologia, che utilizzano un piccolo numero di studenti universitari, questi esperimenti hanno testato migliaia di persone da tutto il mondo utilizzando Amazon Mechanical Turk, un online labor market che sta diventando uno strumento sempre più comune nella ricerca in scienze sociali.