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La Coppia in Terapia: tra Processi di Appartenenza e Separazione

 

 

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La coppia in terapia: tra processi di appartenenza e separazione. - Immagine: © ashumskiy - Fotolia.com

Coppia e terapia: come le dinamiche di appartenenza e separazione dalle proprie famiglie di origine influenzano la qualità dei legami di coppia.

Come accennato nell’articolo precedente, le dinamiche di appartenenza e separazione dalle proprie famiglie di origine inevitabilmente influenzano la qualità dei legami di coppia (ma non solo) che ciascun individuo stabilisce nel corso della propria vita.

Quasi come un moto ondoso, questi due processi, complementari ed ugualmente fondamentali nella strutturazione di un sé differenziato (Bowen, 1979), procedono di pari passo per tutto l’arco della vita di una persona. 

Dai processi di appartenenza deriva il prezioso bagaglio fatto di valori, atteggiamenti, consuetudini,  tradizioni che impariamo all’interno del contesto familiare e culturale in cui cresciamo; a livello di coppia questo patrimonio, o aspetti di esso, potrà rappresentare per ciascun partner un valore, una ricchezza, una vera e propria dote o, al contrario, essere percepito come un disvalore, un intrusione dalla quale prendere distanza o addirittura difendersi.

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La separazione invece è il processo, a volte doloroso ma sempre necessario, che permette a ciascuno la costruzione dell’identità individuale.

La coppia in terapia- la prospettiva trigenerazionale. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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La separazione è un processo complesso e per nulla scontato, che può durare gran parte della la vita, a volte senza mai essere portato a termine (Andolfi, Angelo 1987). Secondo Williamson (1982) la “posizione Io” verrebbe raggiunta solo in età adulta, verso i 35-40 anni, grazie al superamento dell’ “intimidazione intergenerazionale”, cioè quella forma di dipendenza per cui un individuo, seppur adulto, continua a percepire i propri genitori come perfetti e onnipotenti nelle loro aspettative verso di lui; chi non vi giunge rimane intrappolato nella posizione di figlio senza riuscire a vivere i rapporti con i genitori ponendosi sul loro stesso piano generazionale, da adulto ad adulto insomma.

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Se immaginiamo appartenenza e separazione come due piatti di una bilancia, potremmo dire che chi rimane cronicamente nella posizione di figlio è colui che si sente tanto gravato dal peso delle appartenenze (e delle aspettative) familiari, da non riuscire ad affrancarvisi.

Sul versante, solo apparentemente, opposto vengono invece a trovarsi coloro che hanno messo una distanza emotiva, e spesso anche fisica, tra sé e i propri vincoli familiari.

La principale espressione di questo “taglio emotivo” (Bowen, 1979; Andolfi, 2003) è la negazione dell’intimità e dell’attaccamento non risolto ai genitori. In questi casi la bilancia pende tutta dal lato della separazione che, ben lungi dal considerarsi parte di un processo di differenziazione del sé, è una vera e propria frattura nei processi di appartenenza, prematura e traumatica.

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Il risultato è la mancanza di modelli a cui appartenere e dai quali separarsi;  non potendosi differenziare – come ci si separa da qualcosa alla quale non si appartiene? – si è costretti a una pseudoindividuazione, cioè a un’indipendenza fittizia, in cui il vuoto relazionale spinge alla ricerca di legami compensatori, tanto necessari quanto temuti; il cutoff emotivo verrà però nuovamente utilizzato per controllare il proprio coinvolgimento emotivo nella relazione con il partner. 

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Tornando alla coppia risulterà ora più intuibile come l’equilibrio raggiunto da ciascun partner tra appartenenza e separazione sarà determinante nella costruzione del legame di coppia: non ci si può unire in modo soddisfacente se prima non ci si è separati da un rapporto in cui ciascuno dei partecipanti sia stato in grado di riconoscere il suo spazio personale e di affermare la propria separatezza e individualità. 

Nel prossimo articolo parlerò più specificamente di come le dinamiche di triangolazione, in seno alla famiglia di origine, impediscono i processi di differenziazione dell’individuo e di come queste influenzano la costruzione del legame di coppia.


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BIBLIOGRAFIA:

Corso di Perfezionamento CBT in Sessuologia – PARTE 2

 

Corso di Perfezionamento Cognitivo-Comportamentale in Sessuologia

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Riprendiamo il reportage dal corso di perfezionamento cognitivo-comportamentale in sessuologia organizzato da Studi Cognitivi, sede di Modena.

L’intervento del Dr. Zanoni illustra la Terapia Mansionale Integrata, terapia d’elezione per le disfunzioni sessuali, laddove queste non siano secondarie a difficoltà psicologiche e/o relazionali  primarie  e gravi.

La TMI consiste nella prescrizione alla coppia o al singolo di esercizi comportamentali che si organizzano in diversi percorsi, a seconda del problema da affrontare, ma caratterizzate da 4 tappe fondamentali: la conoscenza di sé, la conoscenza dell’altro (e di sé tramite l’altro), la conoscenza del proprio piacere e delle proprie emozioni, la conoscenza del piacere di coppia e dell’intimità.

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La conoscenza di sé comprende la conoscenza personale, comportamentale, cognitiva e relazionale dal punto di vista sessuologico, quindi si parte da una conoscenza del proprio corpo e delle proprie risposte sessuali attraverso l’esplorazione visiva e tattile dei propri genitali (fino alle modalità di stimolazione degli stessi), passando attraverso  la consapevolezza dei propri pensieri, del proprio dialogo interno, del proprio immaginario, e delle proprie emozioni attraverso un processo di auto osservazione, fino al riconoscimento dell’aspetto relazionale del proprio comportamento, e quindi la capacità di riconoscere il comportamento dell’altro come una “risposta” evocata da noi.

La coppia in terapia- la prospettiva trigenerazionale. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Nella conoscenza dell’altro  e di sé tramite l’altro, il partner diventa una sorta di specchio in cui osservarsi, sempre su tre livelli: livello comportamentale in cui vi è la conoscenza del corpo e delle risposte sessuali del partner e della percezione di sé attraverso il contatto con l’altro; livello cognitivo, in cui scoprire le risposte emotive e i desideri dell’altro come fonte di arricchimento e diversità; e il livello relazionale in cui conoscere i giochi di coppia e i ruoli giocati.

Nella conoscenza del piacere a livello comportamentale ci si espone a livelli di piacere orgasmico in maniera “egoistica”, con l’unico scopo di soddisfare i propri desideri; a livello cognitivo l’obiettivo è vivere pienamente l’esperienza emozionale consapevoli della sua non controllabilità e infine sviluppare il processo di “affidamento” nella relazione e di delega del controllo come inizio di un processo di cooperazione.

Nella conoscenza del piacere di coppia e dell’intimità, a livello comportamentale si esplorano i comportamenti utili a procurare reciprocamente piacere, mentre a livello cognitivo si elaborano le esperienze di esposizione a livelli di intimità crescente con la condivisione delle emozioni sessuali; infine a livello relazionale si sperimenta  l’affidamento reciproco come traguardo di un processo di cooperazione.

Queste quattro tappe sono comuni ad ogni iter terapeutico, differenziandosi poi nello specifico delle mansioni per i diversi disturbi sessuali, articolandosi e sfumandosi l’una nell’altra nel processo terapeutico, in cui si sovrappongono e vengono affrontate a diversi livelli di complessità.

E’ con la lezione della Dr.ssa Rebecchi che entriamo nel vivo del Trattamento, iniziando con le Disfunzioni Sessuali Maschili. 

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Il DSM-IV-TR (APA, 2001), definisce le Disfunzioni Sessuali come caratterizzate da un’anomalia del desiderio sessuale e delle modificazioni psicofisiologiche  che caratterizzano il ciclo di risposta sessuale, e causano notevole disagio e difficoltà interpersonali. 

Due sono le Disfunzioni trattate: l’ Eiaculazione precoce (EP)  definita come la  persistente o ricorrente eiaculazione a seguito di minima stimolazione sessuale prima, durante,o poco dopo la penetrazione e prima che il soggetto lo desideri e il Disturbo Maschile dell’Erezione (DE), la cui caratteristica fondamentale è una persistente o ricorrente incapacità di raggiungere, o di mantenere fino al completamento dell’attività sessuale, un’adeguata erezione . 

Le disfunzioni sessuali possono essere il risultato di molteplici fattori eziologici, sia organici che psicologici, per  cui di fondamentale importanza è la valutazione del sintomo sessuale, qualunque esso sia, che comprenderà un’anamnesi dettagliata degli aspetti fisici, psichici, relazionali, familiari e socio-culturali della persona che presenta un problema sessuologico.

Questa analisi permetterà al terapeuta di formulare una restituzione al singolo o alla coppia, di tipo “ricostruttivo” per una lettura integrata dei diversi elementi indagati, utilizzando la curva della risposta sessuale e fornendo un primo intervento di tipo psicoeducativo.

Come abbiamo visto la Terapia Mansionale Integrata prevede quattro fasi con prescrizioni precise, comuni e diverse allo stesso tempo, nel senso che rappresentano un canovaccio sul quale però costruire iter terapeutici personalizzati.

Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta. - Immagine: © mipan - Fotolia.com
Articolo consigliato: Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta.

L’illustrazione dei protocolli di trattamento per le disfunzioni sessuali maschili ha permesso, grazie all’esperienza della pratica clinica della docente, di comprendere come meglio snodare e concettualizzare il funzionamento della persona che porta un sintomo sessuologico, con l’utilizzo flessibile e personalizzato delle mansioni, al fine di un intervento efficace.

I primi colloqui sono finalizzati alla ricostruzione del problema e la sua riformulazione per la formulazione di un contratto, ogni seduta inizierà con l’analisi delle mansioni e terminerà con la prescrizione delle mansioni successive.

Lo scopo della terapia non è solo la scomparsa del sintomo, ma anche il mantenimento del risultato raggiunto, perché quindi sia stabile è importante che cambino nella coppia i comportamenti, le emozioni, le convinzioni sulla sessualità, nonché che si modifichi l’interazione reciproca di questi elementi. 

La TMI  è una terapia sostanzialmente di coppia, ma i suoi principi possono essere applicati anche a terapie individuali: in tal caso dovranno modificarsi alcune caratteristiche significative, la principale delle quali è la ricerca della cooperazione e dell’intimità della coppia. 

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In tal senso, non ci sono le indicazioni per una TMI nel singolo quando la domanda sessuale è mascherata e/o è generata da problemi individuali e relazionali altri, nella coppia quando la discordia sessuale provoca la discordia coniugale, quando la discordia coniugale mortifica la disfunzione sessuale  e/o, è grave ed associata a forte ostilità.

L’esperienza che costantemente emerge dalle esemplificazioni cliniche rimanda e sottolinea l’importanza del terapeuta che non assume il ruolo di “chi sa e comanda”, pur essendo una terapia esplicitamente direttiva, ma dovrà rappresentare, come dice Bowlby (1998), la base sicura da cui la coppia può partire per compiere esplorazioni sempre più lunghe e complesse nel mondo della sessualità.

 

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BIBLIOGRAFIA:  

  • American Psychiatric Association, Washington, D.C., 2000.Trad.it., DSM-IV-TR Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. IV ed. Text Revision. Masson, Milano, 2001.
  • Fenelli, A. & Lorenzini, R. (1991) Clinica delle disfunzioni sessuali, Carrocci Ed.

Scelta del Partner: non più (solo) il Modello Evoluzionista!

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Scelta del partner: la differenza di genere nelle preferenze previste dai modelli evoluzionisti è la più alta nelle società in cui la disuguaglianza tra uomini e donne è maggiore, e più bassa nella maggior parte delle società in cui la disuguaglianza tende a scomparire.

Uomini e donne utilizzano chiaramente criteri e strategie diverse nella scelta del partner, ma il motivo di queste differenze non è del tutto chiaro.

Un nuovo studio suggerisce che le motivazioni legate all’evoluzione forniscano solo una parte della spiegazione.

In termini evolutivi, infatti, il successo di uomini e donne è legato alle possibilità di procreare e assicurare sopravvivenza alla prole: per avere successo le donne hanno bisogno di avere accesso alle risorse necessarie all’allevamento della prole, (scegliendo, per esempio, gli uomini ricchi), e gli uomini hanno bisogno di avere accesso alle femmine fertili (scegliendo, ad esempio, giovani donne). 

Ma dal momento che nella società moderna il successo non è necessariamente legato alla prole, i ricercatori Marcel Zentner e Klaudia Mitura dell’Università di York, hanno ipotizzato che l’influenza dei pregiudizi evolutivi sulla scelta del partner si riduca proporzionalmente con la parità di genere delle nazioni, o l’uguaglianza tra uomini e donne.

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La Scelta del Partner. Immagine: © Christian Maurer - Fotolia.com -
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Per valutare le preferenze di genere nella scelta del partner i ricercatori hanno raccolto le opinioni di 3.177 partecipanti che hanno risposto a un sondaggio on-line; 10 i paesi coinvolti e classificati su una scala che misura il grado di divario di genere, la Global Gender Gap Index (GGI) – una misura che è stata recentemente introdotta dal World Economic Forum – che ha assegnato il valore minimo alla Finlandia e quello massimo alla Turchia. 

I risultati, replicati in un secondo studio che ha coinvolto 8.953 volontari provenienti da 31 nazioni, indicano che la differenza di genere nelle preferenze previste dai modelli evoluzionisti è il più alta nelle società in cui la disuguaglianza tra uomini e donne è maggiore, e più bassa nella maggior parte delle società in cui la disuguaglianza tende a scomparire.

Questi risultati mettono in dubbio la teoria evoluzionista per la quale le differenze di genere nella scelta del partner sarebbero determinate da adattamenti evolutivi che si sono  ancorati biologicamente al cervello maschile e femminile; tuttavia la matrice evolutiva di tali differenze non dovrebbe essere esclusa del tutto: infatti la capacità di modificare i comportamenti e gli atteggiamenti in tempi relativamente brevi, in risposta ai cambiamenti della società stessa, potrebbe essere sostenuta da un programma evolutivo che premia la flessibilità invece della rigidità.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Che trattamento ricevono i Bambini con Autismo in Europa?

 

Che trattamento ricevono i Bambini con Autismo in Europa? COST Action project Enhancing the Scientific Study of Early Autism (ESSEA)Il progetto ESSEA: “Enhancing the Scientific Study of Early Autism”, comprende oltre 50 ricercatori e clinici di 22 diversi Paesi Europei, ed è sembrato il contesto ideale per porsi una domanda solo apparentemente semplice: che trattamento ricevono i bambini con autismo in Europa?

Nonostante l’autismo sia ormai ampiamente conosciuto nella maggior parte degli stati membri dell’Unione Europea, poco si sa sull’accesso ai servizi di trattamento nei diversi Paesi.

Attualmente non ci sono informazioni sistematiche sui servizi disponibili per i bambini con autismo nei diversi Paesi Europei, siano questi interventi forniti nei servizi sanitari o nelle agenzie educative.

Ancora più preoccupante è l’assenza di informazioni sui cosiddetti trattamenti “alternativi”, che comprendono alcuni approcci per i quali non vi è alcuna evidenza scientifica di beneficio e altri che sono potenzialmente pericolosi.

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In Inghilterra il prof. Tony Charman, autore di numerose pubblicazioni e leader nella ricerca sull’autismo a livello mondiale, ha ricevuto fondi dalla European Science Foundation per organizzare una rete di scienzati in Europa per potenziare la ricerca sull’autismo.

Il progetto, denominato “ESSEA – Enhancing the Scientific Study of Early Autism”, comprende oltre 50 ricercatori e clinici di 22 diversi Paesi Europei, ed è sembrato il contesto ideale per porsi una domanda solo apparentemente semplice: che trattamento ricevono i bambini con autismo in Europa?

I ricercatori dell’Azione ESSEA hanno pertanto deciso di lanciare un sondaggio per raccogliere le prime informazioni su questo argomento. I genitori di bambini con autismo fino ai 6 anni di età sono invitati in tutta Europa a compilare un breve questionario online. Sarà loro chiesto di dire quali tipi di interventi e di servizi educativi sono attualmente disponibili per i loro bambini, dai servizi forniti da operatori sanitari, al nido e alla scuola materna ed elementare, fino ai trattamenti farmacologici e agli approcci complementari o alternativi.

Il questionario viene pubblicato su un sito web e sarà disponibile in tante lingue quante sono le nazioni coinvolte. In Italia, i genitori di bambini con autismo possono partecipare alla ricerca cliccando sul seguente link.

Sondaggio per i genitori:  CLICCA QUI PER PARTECIPARE AL SONDAGGIO

ATTENZIONE! RISERVATO AI GENITORI!!

I COLLEGHI RICERCATORI E TERAPEUTI POSSONO INVECE CLICCARE  QUI

Vi chiediamo di incoraggiare a partecipare chi, tra i vostri pazienti e conoscenti, possa essere interessato. Noi pensiamo che i genitori dei bambini con autismo saranno interessati a partecipare a questo studio davvero unico e importante.

Il questionario sarà aperto fino al 15 ottobre 2012. Chi fosse interessato a ricevere maggiori informazioni può contattare Erica Salomone, ricercatore referente per l’Italia a questo indirizzo email: [email protected].

Questa ricerca non aiuterà direttamente i genitori e le famiglie che vi prenderanno parte. Tuttavia, speriamo che le informazioni che raccoglieremo sulla disponibilità del trattamento per l’autismo in 20 diversi Paesi in Europa siano di beneficio in futuro e contribuiscano a sviluppare i servizi sanitari e le politiche dell’Unione Europa.

 PROFESSIONISTI: PSICOLOGI, PSICOTERAPEUTI, RICERCATORI, EDUCATORI

State of Mind ospita anche un sondaggio circa le opinioni dei professionisti della salute mentali sui disturbi dello spettro autistico. Segui questo link per partecipare!

Sondaggio per i professionisti:

CLICCA QUI PER PARTECIPARE AL SONDAGGIO PER GLI OPERATORI DELLA SALUTE MENTALE

 I risultati di queste due ricerche saranno pubblicati e commentati sulle pagine di State of Mind.

Stay Tuned! 

 

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3° Convegno Internazionale AUTISMI Le novità su diagnosi, intervento e qualità di vita. Riva del Garda (Trento), 15 e 16 ottobre 2012 - anteprima
EVENTO CONSIGLIATO: 3° Convegno Internazionale AUTISMI Le novità su diagnosi, intervento e qualità di vita. Riva del Garda (Trento), 15 e 16 ottobre 2012

Il mal di pancia di Kurt Cobain. Una possibile Autopsia Psicologica.

Everything is my fault
I’ll take all the blame
Aqua seafoam shame

All apologies- Kurt Cobain – Nirvana

Kurt Cobain. - Immagine: licenza d'uso Creative Commons 3.0 - Autore: Kurt Cobain. - Immagine: licenza d'uso Creative Commons 3.0 - Autore: Susan McGrane-Burke

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Quando ancora oggi ascolto Kurt Cobain (1967-1994), il cantante-chitarrista leader della rock band Nirvana (fondata a Seattle nel 1987), mi vengono in mente due stati d’animo: rabbia e disperazione.

In teoria sono due stati d’animo contrastanti, perché la disperazione ha un che di passivo, in inglese si parla di hopelessness, come essere senza speranza appunto. La rabbia è sicuramente uno stato d’animo più dinamico ed attivo e credo che sia quella che conferisca alla disperazione l’energia dirompente che caratterizza la musica dei Nirvana

Rabbia e disperazione. Come un prigioniero chiuso in una gabbia per tanti anni che grida la sua voglia di uscire.

Questo solo soffermandomi sulla voce, al di là dei contenuti. La struttura di molte delle canzoni dei Nirvana è molto semplice e diretta, con una formula che ha avuto un successo clamoroso: un riff di chitarra (va bene anche se un po’ scordata o comunque con un suono sporco), una strofa cantata in modo abbastanza soft e un ritornello che letteralmente esplode, urlato disperatamente.

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I Nirvana sono stati uno dei gruppi più importanti della scena indipendente di Seattle, che tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta è stata la mecca del grunge, un genere musicale con influenze rock e punk, che ha rappresentato i cambiamenti culturali dell’America di quel periodo, contagiando poi, come spesso succede, il resto del mondo.

Creatività Musicale & Psicopatologia: Quei geni skizzati del Bebop - Immagine: Licenza Creative Commons, Autore: Tom Palumbo
Articolo Consigliato: Creatività Musicale & Psicopatologia: Quei geni skizzati del Bebop

L’esplosione del gruppo è avvenuta con il secondo album Nevermind (1991) che ha venduto oltre dieci milioni di copie. Kurt Cobain è stato acclamato come portavoce involontario di “una generazione stanca di ascoltare le menzogne di genitori, governo e della musica delle radio commerciali” (Gaines, 1994), di una lost generation che si caratterizzava a partire dal look antifashion e un po’ sciatto: jeans strappati, capelli sporchi e tinti, t-shirt logore e le famigerate camicie di flanella a scacchi bianchi e rossi (modello tagliaboschi).

Paradossalmente sia la musica che il look grunge passarono in pochissimo tempo dall’essere forme di rottura alternative a divenire mode mainstream, imitate addirittura dai principali stilisti mondiali e il nostro fragile e sensibile artista non riuscì ad adattarsi a quello straordinario successo, e ai conseguenti cambiamenti che esso portò nella sua vita.

I testi dei Nirvana contengono stati d’animo di apatia, mancanza di speranza e rabbia contro un sistema sociale da cui Kurt si sentiva sempre più alienato, fino a scegliere il suicidio come via d’uscita dal disagio (anche se come per altre rockstar esistono tesi complottistiche che sostengono si sia trattato di un omicidio).

La storia di Kurt Cobain è ricca di aspetti psichiatrici e psicopatologici, culminati appunto con il gesto estremo. Vediamone alcuni.

Kurt era nato nel 1967 ad Aberdeen, una triste cittadina nello stato di Washington, sulla costa sud occidentale di Seattle, dove l’attività principale era costituita dall’industria del legname. Primo di due figli, durante l’infanzia soffrì della Sindrome da deficit di attenzione con iperattività (ADHD) e fu curato con il Ritalin (Metilfenidato). I genitori divorziarono quando aveva otto anni e il ragazzo crebbe “sballotato” tra diversi parenti. L’adolescenza fu caratterizzata da problemi nella condotta (vandalismo), esplosioni di rabbia con perdita del controllo e il consumo di sostanze stupefacenti, che continuerà per tutta la vita.

Kurt era dotato fin da piccolo di un grande talento artistico, inizialmente espresso attraverso le arti visive (frequentò una scuola superiore artistica) e successivamente nel songwriting. Iniziò a suonare la chitarra alle superiori attirato soprattutto dall’heavy metal e dal punk rock. Abbandonò la scuola poche settimane prima del diploma continuando a dedicarsi alla musica alle droghe e alla microcriminalità.

Circa due anni dopo fondò i Nirvana divenendone il leader e l’autore di musica e testi. Kurt sposò nel 1992 Courtney Love, la leader del gruppo femminile delle Hole e la coppia ebbe una figlia. Fu un matrimonio molto tumultuoso, caratterizzato da forti passioni, litigi violenti e riconciliazioni, abuso dichiarato di droghe come l’eroina, che fece perdere ben presto alla coppia la custodia della figlia, ritenuta non idonea al ruolo genitoriale.

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Oltre a periodi di depressione ricorrente, Kurt Cobain soffriva cronicamente di gravi dolori addominali, che sosteneva di riuscire a curare solamente attraverso l’effetto analgesico degli oppiacei, nella fattispecie l’eroina, di cui è stato dipendente per diversi periodi della sua vita. Abusava anche di altri analgesici.

In un intervista alla rivista Rolling Stone dichiarò che i dolori erano così forti che lo portano ad avere seri problemi di alimentazione, fino a sviluppare un’ideazione autolesiva, “…avrei voluto uccidermi ogni giorno. Ci sono andato vicino diverse volte. Mi sono trovato in tour, steso sul pavimento a vomitare aria, perché non andava giù neanche l’acqua…”.

Consultò diversi medici che non furono in grado di individuare la causa, considerando alternativamente una scogliosi infantile e lo stress. Pare che solo negli ultimi mesi della sua vita fosse stata individuata una vertebra spostata come causa del dolore, che beneficiò di un trattamento fisioterapico. Non possiamo però non ipotizzare e considerare anche il fattore psicogeno nella patogenesi di un dolore cronico così importante.

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A livello diagnostico, oltre a un evidente disturbo dell’umore e un importante abuso di sostanze, si possono rilevare dalla biografia dell’artista diversi criteri diagnostici DSM-IV (APA, 1994) tipici del disturbo di personalità borderline: impulsività, disturbi dell’alimentazione (anche se legati al dolore cronico), instabilità nelle relazioni, tentativi di suicidio.

Diversi studi sottolineano come le persone affette da depressione e da disturbo di personalità borderline presentino maggiore prevalenza di dolore cronico rispetto alla popolazione (Tragesser SL et al., 2010, Sansone e Sansone, 2012). Si ipotizza in particolare che le persone affette da disturbo di personalità borderline possano presentare un deficit di autoregolazione del dolore, oltre che delle emozioni. E’ stato dimostrato inoltre come eventi traumatici psichici (nel caso di Kurt la separazione dei genitori?) o sessuali nel periodo infantile possano predisporre l’insorgenza nell’adulto di sintomatologia dolorosa cronica e difficilmente trattabile (Schofferman et al., 1993).

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Non va inoltre trascurato il significato relazionale del dolore, nel tentativo di attivare di risposte di accudimento da parte delle figure di attaccamento. La letteratura ci mostra chiaramente come il dolore cronico figuri tra i fattori di rischio della comparsa di ideazione suicidiaria, dei tentativi autolesivi e del sucidio compiuto, con uno studio che si riferisce specificamente al dolore addominale nella popolazione ispanoamericana degli USA (Magni et al., 1998).

Possiamo dunque ipotizzare che il dolore addominale abbia avuto un ruolo fondamentale oltre che nell’abuso autoterapeutico di sostanze, anche nel favorire tendenze autolesive e suicidiarie dell’artista. In tema di autolesionismo, Kurt scrisse la canzone “I hate myself and I want to die”, che fu poi scartata dall’album In Utero (1993;…titolo delizioso per gli psicanalisti…), ma il cui contenuto è piuttosto esplicito, anche se il cantate sostenne in un’intervista che si trattasse di una frase ironica.

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Sono inoltre noti almeno due importanti tentativi autolesivi nel mese precedente al suicidio: prima Kurt fece un’ingestione incongrua di champagne e Roipnol (flunitrazepam) durante il tour europeo a Roma e successivamente si chiuse armato in una stanza a Seattle e fu costretto a uscire dalle forze dell’ordine chiamate dalla moglie. Come è noto, i tentativi di suicidio sono tuttora il principale fattore di rischio per il suicidio consumato (Owens et al., 2002). Probabilmente consapevoli di tale rischio, la moglie e i colleghi riuscirono a fare ricoverare per la disintossicazione Kurt in una clinica di Los Angeles, da cui però si allontanò poco dopo, trascorrendo gli ultimi giorni in solitudine.

Kurt Cobain si suicidò all’età di ventisette anni nel 1994 con un colpo di fucile nella sua casa di Seattle.

Era un amante delle armi che teneva regolarmente in casa, come molti americani. Anche la pronta disponibilità di mezzi letali è considerato un importante fattore di rischio suicidiario ed è il target di tante campagne di prevenzione (Sarchiapone et al., 2011).

Accanto al corpo c’era una lunga nota suicidiaria in cui Kurt raccontava il proprio profondissimo disagio da individuo ipersensibile quale era (“…penso che io amo troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile…!”) e la mancanza di entusiasmo nel continuare il lavoro di musicista che è ben sintetizzata nella frase di una canzone di Neil Young contenuta nella lettera “è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”.

Nella nota Kurt si rivolge alla moglie e alla figlia e pare mostrare un atteggiamento paradossalmente protettivo nei confronti di quest’ultima, a cui sembra tentare di giustificare il proprio gesto (“Non posso sopportare l’idea che Frances diventi una miserabile, autodistruttiva rocker come me”).

Le analisi tossicologiche hanno mostrato presenza di eroina e benzodiazepine. Il suicidio dell’artista non ha determinato il temuto effetto werther (fenomeno per cui la notizia di un suicidio pubblicata dai mezzi di comunicazione di massa provoca nella società una catena di altri suicidi) nei mesi successivi all’evento, nonostante l’enorme eco suscitato dalla vicenda sui media specializzati e non (Martin and Koo, 1996; Jobes et al, 1996). Questo può essere stato dovuto al modo corretto da parte dei media di trattare la notizia, enfatizzando l’artista, ma stigmatizzando il tragico gesto.

Anche il modo particolarmente violento con cui Kurt si è suicidato, ne ha allontanato l’immagine da quella di star solitaria romantica e incompresa, che si lascia morire in modo dolce dal sonno all’overdose, come ad esempio Marylin Monroe. Pare inoltre che sia stato molto efficace nel disincentivare i comportamenti imitativi, la diffusione di una registrazione in cui la moglie legge parti della nota suicidiaria, esprimendo sincere imprecazioni di rabbia e di profondo dolore per la perdita, che hanno reso l’evento molto reale, con poco spazio per il romanticismo o l’idealizzazione.

Il suicidio di Kurt Cobain e la conseguente “autopsia psicologica” pone l’accento su una categoria particolarmente a rischio su cui devono concentrarsi gli interventi di prevenzione: giovani uomini, dediti all’uso di sostanze, che non hanno compliance alle cure e che hanno accesso a mezzi autolesivi letali. We must care…!

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BIBLIOGRAFIA:

Il Legame Fraterno: una Prospettiva Relazionale

 

Legame Fraterno: una prospettiva relazionale. - Immagine: © gekaskr - Fotolia.com

– LEGGI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU PSICOTERAPIA SISTEMICO-RELAZIONALE –

Nell’ambito della letteratura psicologica e non solo, spesso si è parlato del legame connotandolo dei più svariati significati e attribuendovi diverse modalità relazionali.

La mia idea è quella di parlare del legame fraterno in una cornice di tipo sistemico-relazionale.

Quando si pensa a questo tipo di legame, spesso vengono in mente concetti come simmetria, pariteticità e somiglianza che portano alla costituzione di un legame basato sulla collaborazione (fratelli che vanno d’accordo e che collaborano tra loro) mentre, legami basati sulla competitività portano a un innesco reciproco di violenza (fratelli che non perdono occasione per litigare fino a giungere a delle escalation violente).

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Queste due tipologie di legame risultano utili per comprendere come il legame fraterno possa avere in sé delle differenze che, come ricordano Cigoli e Scabini (2000), sono differenze intese in senso Batesoniano: ogni informazione proveniente da altro da me è differenza che fa differenza e arricchisce il mio potenziale relazionale.

Infatti, come sostengono questi autori, “ogni figlio è il risultato dell’incontro di quattro generazioni, per cui il corredo genetico è solo in parte condiviso” (Cigoli e Scabini, 2000). Inoltre, ogni figlio ha un sesso distintivo, occupa un ordine di genitura, nasce in un certo periodo della vita familiare, è investito di attese specifiche da parte della parentela.

Quindi, parafrasando Cigoli, la relazione fraterna è come “un vincolo”, ovvero un legame di dipendenza e di connessione dei figli-fratelli con le generazioni precedenti. Questo vincolo implica che tra genitori e figli ci siano delle regole implicite/esplicite da rispettare (lealtà, rispetto).

Considerando il ruolo che gioca il caso, diversi studiosi si sono interessati a studiare le differenze relazionali in cui i fratelli sono implicati. In virtù di questo, la relazione fraterna se considerata nella sua matrice, va riferita al potenziale differenziante della famiglia, ovvero, alla capacità di questa di creare legami unici con ciascun nuovo nato.

La coppia in terapia- la prospettiva trigenerazionale. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Sulla base dei risultati della ricerca psicosociale e clinica di Cigoli e Scabini (2000) destano notevole interesse le differenze trovate nella relazione genitori-figli e le differenze riscontrate nella relazione tra fratelli. Infatti, è stato riscontrato che nella cementificazione del legame fraterno, avendo lo studio come categorie di riferimento il potenziale differenziante della famiglia e la sensibilità alla differenza da parte dei figli-fratelli, gioca un ruolo importante il fatto che la famiglia riesca o meno nel compito di differenziare tra di loro i figli, cioè, di conferirgli unicità personale.

La capacità della famiglia di riuscire a instaurare legami con i figli che abbiano caratteristiche di unicità e diversità è fondamentale, in quanto permette di rendere il legame di un figlio con un genitore diverso rispetto a quello che il genitore ha con l’altro figlio e questo evita omologazioni avventate tra legami che, in quanto costituiti da persone diverse, non possono essere uguali. Tuttavia, queste differenze di trattamento nei legami possono essere prodromo di potenziali conflitti fra fratelli nel caso in cui il trattamento ricevuto dal genitore non corrisponda alle aspettative del figlio.

Elemento, invece, che sembra accomunare i fratelli è l’incastro di coppia coniugale-genitoriale. Infatti, sempre nella ricerca Cigoli-Scabini, è emersa l’interdipendenza presente tra il legami di coppia (aspetto coniugale e genitoriale) ed il legame con i figli.

Sembrerebbe infatti, per i figli, che la qualità del rapporto tra i coniugi e e quello tra figli e genitori sia di grande importanza per lo sviluppo della relazione fraterna, nel senso che ne fa da matrice. Quindi, alle basi del legame fraterno, sembrano giocare un ruolo importante la relazione della coppia (coniugale-genitoriale) e la capacità della famiglia di creare legami differenti con ogni figlio al fine di evidenziarne l’unicità del legame stesso.

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BIBLIOGRAFIA:

Verbalizzare ed Esplicitare le proprie Emozioni di Paura aiuta a controllare l’Ansia.

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Descrivere le propre emozioni mentre ci si trova in una situazione di forte paura e stress emotivo può aiutare a sentirsi meglio. È quanto scoperto grazie a una ricerca condotta alla University of California (UCLA).

Lo studio ha coinvolto 88 persone aracnofobiche alle quali è stato chiesto di affrontare una tarantola posta in un contenitore aperto: il compito prevedeva un progressivo avvicinamento al ragno fino ad arrivare, se possibile, a toccarlo.

Mentre si avvicinavano i soggetti avevano consegne differenti: a un primo gruppo è stato chiesto di descrivere ed etichettare le emozioni provate; un secondo gruppo doveva utilizzare vocaboli che riuscissero a smorzare l’intensità dell’emozione provata così da ridurre la minacciosità dell’esperienza, ad esempio “questo ragnetto non può farmi alcun male e io non ne ho paura!”; un terzo gruppo di soggetti doveva verbalizzare qualcosa di irrilevante rispetto all’esperienza in corso; infine un quarto gruppo procedeva all’esposizione silenziosamente.

Il compito di avvicinamento è stato ripetuto la settimana successiva, monitorando i partecipanti nelle loro reazioni fisiologiche all’ansia. Le differenze tra il primo e gli altri tre gruppi sono state significative: i risultati indicano che chi aveva potuto descrivere ed etichettare le emozioni provate durante l’esposizione riusciva ad avvicinarsi di più al ragno e a provare meno timore, avendo anche una reazione fisiologica meno intensa.

Gli scienziati hanno anche analizzato le parole utilizzate dai soggetti. Coloro che hanno utilizzato un numero maggiore di parole negative hanno ottenuto risultati migliori, sia in termini di avvicinamento alla tarantola che per quanto riguarda i correlati fisiologici dell’ansia.

Cioè descrivere la tarantola come terrificante tanto quanto appariva, si è rivelato utile nel ridurne la paura.

Questo approccio si differenzia sostanzialmente da quello in cui l’esposizione mira alla ristrutturazione cognitiva delle esperienze con una ridefinizione verbale di essa e delle emozioni in termini meno ansiogeni e più accettabili;

I risultati sono anche in contrasto con il senso comune, secondo cui mettere a fuoco e nominare aspetti di un esperienza negativa proprio mentre la si vive, la farebbe apparire ancora più ansiogena.

Questo è il primo studio che dimostra i benefici dell’etichettamento delle emozioni di paura e ansia in un ambiente reale; sembra inoltre che tale processo interessi la corteccia prefrontale ventro-laterale, una regione del cervello coinvolta nella etichettatura e nella regolazione delle emozioni, in particolare delle risposte emotive.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

SPR: Il congresso italiano della Society for Psychotherapy Research

 

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SPR-Salerno-2012Si è svolto dal 14 al 16 settembre 2012 all’Università di Salerno il congresso della sezione italiana della Society for Psychotherapy Research (SPR).

Il congresso è interessante perché l’ambiente della SPR non è un’arena neutra in cui ci si accomoda per fare ricerca, ma ha una sua identità ben precisa. La SPR fin dagli anni ‘70 si raccoglie intorno a un significativo gruppo di ricercatori di formazione psicodinamica e dedica la massima parte dei suoi sforzi all’analisi scientifica ed empiricamente provata delle componenti più complesse del processo terapeutico.

Questo vuol dire minore attenzione agli interventi di contenuto esplicito (che siano interpretazioni psicodinamiche o ristrutturazioni cognitive) e concentrazione sui fenomeni di tipo interpersonale, emotivo e procedurale.

Questo non vuol dire che alla SPR non siano presenti anche ricercatori di area cognitiva, ma caratteristicamente si tratta di studiosi anch’essi interessati alle componenti interpersonali (e metacognitive) del processo terapeutico.

Accanto a questa ricerca molto sofisticata, la SPR continua a promuovere il tema della terapia empiricamente efficace nei servizi pubblici. 

EABCT 2012 – State of Mind
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Qui la partita è tra chi sostiene un modello “hard” con terapie molto manualizzate e standardizzate da testare come se fossero farmaci e modelli più flessibili che cercano di unire validità empirica e complessità terapeutica.

Nella tavola rotonda del primo giorno si parlava appunto di questo e si sono confrontati la posizione hard di Giuseppe Nicolò e quella più soft di Vittorio Lingiardi e Antonella Bozzaotra. Sempre nel filone “soft” si colloca l’incontro con gli scrittori Gianrico Carofiglio e Diego De Silva.

Tra le varie ricerche presentate vi erano quelle sull’obesità del gruppo diretto da Giorgio Caviglia, quelle sulla metodica del Q-set promossa da Antonello Colli e Francesco Gazzillo, le ricerche sul processo di Sergio Salvatore, di Omar Gelo e di Diego Rocco, e le ricerche sulla metacognizione e i processi interpersonali di Raffaele Popolo e Giancarlo Dimaggio, i lavori di area gruppale di Gianluca Lo Coco o evolutiva di Adriana Lis.

Segnaliamo anche le interessanti considerazioni di Franco Del Corno, Francesco Gazzillo e Vittorio Lingiardi sui pregi, i limiti e gli sviluppi del manuale diagnostico psicodinamico.

Infine c’è stata la presentazione magistrale di Mark Hilsenroth sull’alleanza terapeutica.

Ottimistiche le considerazioni conclusive sulle prospettive in Italia della ricerca espresse da Sergio Salvatore, Adriana Lis e Girolamo Lo Verso, che hanno mostrato una felice capacità di apprezzare tutti i contributi provenienti sia dall’Università che dalle scuole di psicoterapia.

Segnaliamo infine l’ottimo lavoro del comitato organizzatore del congresso, culminato in una splendida cena sociale nella costiera amalfitana. Grazie!

 

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Storie di Terapie #12: Priscilla, la Colpa e i suoi 106 Kg

Storie di Terapie 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –

 

Storie di Terapie #12: Priscilla. - Immagine: © robodread - Fotolia.com#12. Priscilla, la Colpa e i suoi 106 Kg

Disturbo del comportamento alimentare

Disturbo dissociativo di personalità

 

Quando Priscilla ha occupato l’intero specchio della porta dello studio, impedendo l’entrata della luce mi sono rannuvolato. Non amo lavorare con i disturbi alimentari, forse perché ne sono subdolamente affetto ma, siccome questo vale certamente per me e probabilmente, per molti colleghi per la grande maggioranza delle patologie che trattiamo, mi dico che non posso fami inibire da ciò.

Pregiudizio: una persona obesa, se cerca una terapia, lo fa per riuscire a dimagrire. 

Intendiamoci, Priscilla sa di essere obesa con i suoi 106 kg. da nuda e vorrebbe anche dimagrire ma non è per questo che viene da me. E’ stanca, non ce la fa più, non sa come tirare avanti.

E subito scatta un altro pregiudizio: è la solita depressa insoddisfatta della vita, che chissà quale felicità si aspettava ed è in vena di proteste sindacali con il padreterno o il destino (a piacere per credenti e non).

Secondo errore: non è stanca della vita come chi organizza il suicidio nel senso che è annoiato, anedonico, dolente, privo di desideri. No, Priscilla è affaticata come chi ha troppo da fare.

La terapia potrebbe concludersi qui, con il consiglio di ridurre i ritmi e farsi una bella dormita ma il problema è che, per far così, Priscilla dovrebbe mandare al diavolo una serie di persone tra i quali i suoi tre figli ed il marito che la vedono come una lavatrice, lavastoviglie, aspirapolvere e bancomat contemporaneamente.

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia. - Immagine: © bobyramone - Fotolia.com
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Contratto di terapia può essere dunque questa sua tendenza a sottomettersi ai voleri e capricci dell’altro, scopriremo più avanti, allo scopo di essere accettata. Naturalmente questa sua tendenza attira intorno a lei profittatori e opportunisti di ogni genere, secondo il detto romano per cui “se te fai cantone, te pisciano addosso”.

Priscilla ha quarant’anni e si vanta, a ragione, di una pelle liscia e di un seno solido e copioso che attira immancabilmente lo sguardo degli uomini, nonostante le sottostanti ciambelle che la avvicinano all’omino della Michelin. Con un pizzico di vanità, annota che a vent’anni e quaranta chili fa era “una fica da paura”, ma che le sta bene pure così.

Ha un marito, coetaneo, che gestisce con i genitori un famoso ristorante, e tre figli: Luca di sedici e Marianna di diciassette anni, adolescenti ribelli, viziati e irrispettosi, entrambi abbondantemente sovrappeso e incapaci a scuola, poi c’è Fabio di quattro anni, frutto evidente di un colpo partito accidentalmente. 

Per rendere più vivace la situazione si è dotata anche di un cane bonsai che ha le stesse necessità assistenziali di un San Bernardo ma una irrequietezza che non appartiene al gigante delle nevi.

E’ stufa di essere sovraccaricata dalle richieste di tutti e di essere giudicata inadempiente.

Lavora a casa come estetista su appuntamento, in più vuole laurearsi in medicina e fare il medico, prendersi cura degli altri le viene naturale e le cure estetiche sono un ripiego rispetto alle cure vere e proprie.

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Non si limita a sognare, sta racimolando i soldi per l’iscrizione e passa le giornate a studiare sui libri delle medie e delle superiori dei figli,  per prepararsi ai test di ingresso. Il suo progetto è bollato come velleitario e osteggiato da tutti i familiari, vicini e lontani.

L’attuale famiglia oltre ai figli e al cane annovera il marito Francesco, che è stato ed è il grande amore della sua vita. Quando ne parla il suo viso si illumina come quello delle adolescenti al primo amore.

Lavora nel grande ristorante di famiglia con uno stipendio modesto perché “tanto tutto questo un giorno sarà tuo”. Questo giorno non si presenta  vicino perché i suoceri vivono per il ristorante e, nonostante l’età, non mollano assolutamente la gestione. Entrambi dichiarano orgogliosamente di voler morire tra i fornelli tra una comanda e l’altra.

Francesco, tornato dal lavoro, trascorre tre ore al giorno in palestra e poi altre due di allenamento a casa: per lui, l’attività fisica è un bisogno irrinunciabile. Poi, con le energie ritemprate, si dedica alla critica di Priscilla per il disordine della casa.

Storie di terapia #11: Maddalena chiamata Maddy. - Immagine: © arturkurjan - Fotolia.com
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Per dare un’idea della considerazione da elettrodomestico di cui Priscilla gode in famiglia un esempio: se Francesco alle tre di notte si preoccupa perché uno dei figli non è rincasato, la sveglia perché lei gli telefoni. I suoceri inviano un flusso costante di cibo per aiutarla, ma il risultato è che sono loro ad avere il controllo sull’alimentazione familiare e ad invadere costantemente l’intimità domestica. 

Anche il sovrappeso familiare diffuso non si giova di questa consuetudine. Un effetto secondario, che ne è la conseguenza e finisce per rinforzarlo, è che Priscilla non ha mai imparato né a cucinare, né a fare la spesa. Cosa si mangerà a colazione, merendina di metà mattino, pranzo, merenda e cena è l’argomento più interessante per tutta la famiglia, ma lei non sa mettere in tavola che precotti riscaldati al microonde.

La famiglia d’origine di Priscilla è composta dalla madre Amalia, dal fratello maggiore di cinque anni, Bruno e dalla sorella, minore di tre, Silvia. Il padre, amato e idealizzato come l’unico che l’avesse a cuore, è morto per un ictus cinque anni fa. Poiché la notizia la raggiunse in treno, da allora Priscilla non usa più le ferrovie per spostarsi. 

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Il padre lavorava in banca, dove ha sistemato anche il figlio maschio che ora vive fuori Roma. Quando erano ragazzi, ruoli e schieramenti erano i seguenti: Bruno, il primogenito, orgoglio familiare per i successi scolastici, identificato come successore del padre alla guida della famiglia; Silvia, la piccolina, adorata dalle madre, perfezionista e gravemente anoressica, fa un matrimonio di convenienza in via di liquidazione e si dedica alla professione di avvocato prestigioso e danaroso. Tra lei e Priscilla c’è una evidente competizione  che vedono Silvia sempre vincente agli occhi del giudice unico, la madre. 

Sono l’esatto contrario l’una dell’altra: Silvia, tuttora anoressica, bravissima, ricca, egoista e narcisista, ha una naturale tendenza a pretendere tutto dagli altri. Priscilla obesa, sempre giudicata di modeste capacità, coattamente oblativa, ha un’altrettanto incoercibile tendenza a mettersi al servizio di chiunque. 

Tracce di questo modo di fare erano presenti nel padre che, in effetti, aveva una preferenza per Priscilla.

Su di lui Priscilla ha puntato tutto in famiglia ma si è dimostrato il cavallo sbagliato, sia perché il suo potere in famiglia era minore, sia per la sua precoce scomparsa che l’ha lasciata senza sponsor.

Il ruolo di pecora nera, che Priscilla inizia a far suo in adolescenza con comportamenti ribelli e insuccesso scolastico, viene certificato ufficialmente con il suo osteggiato fidanzamento con Francesco e, addirittura, con l’imprevista gravidanza che ne indurrà le nozze. In concomitanza temporale con l’osteggiato fidanzamento, Priscilla inizia ad ingrassare e aumenta di 40 kg in tre anni. 

Oggi sostiene che si trattava di un dispetto che lei, inconsapevolmente, faceva ai suoi, che avevano il mito della bellezza e della magrezza che la sorellina incarnava, una sorta di ulteriore gesto di ribellione.

Chissà, però, che questa spiegazione non sia stata indotta da una precedente psicoterapia sistemica cui fu spedita, superato il livello di guardia dei 75 kg.

Quello che Priscilla riferisce è che il sovrappeso la rendeva invece più simile alla famiglia di Francesco. 

Le due famiglie non si sono mai frequentate e, tuttora, non comunicano e le nonne non collaborano in nessun modo nella gestione dei nipoti. I motivi di ostilità sono opposti, ma simmetricamente sostenuti dalla vergogna.

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La famiglia di Priscilla è sempre stata in soggezione rispetto al potere economico dei consuoceri. Il grande ristorante è, visto da fuori, come una sorgente inesauribile di denaro facile mentre, dall’interno, è percepito come un mostro che richiede un sacrificio esistenziale totale, la rinuncia a vacanze e svaghi e una dedizione monacale per garantire la vita decorosa di chi vi lavora. 

La famiglia di Francesco, al contrario, si è sempre sentita inferiore culturalmente ai consuoceri, lui impiegato in banca, lei insegnante.

Il progressivo lievitare fisico di Priscilla l’ha spostata progressivamente nell’appartenenza da una famiglia all’altra, ma ora si sente straniera da entrambe le parti. 

Soprattutto si sente colpevole: per i suoi è colpevole di essere grassa e non colta, per i suoceri è colpevole di essere disordinata e poco lavoratrice.

Nel continuo tiro al bersaglio su Priscilla anche i figli e Francesco sono impegnati, utilizzando argomenti dell’una e dell’altra parte. Tutti infatti hanno percepito, più o meno consapevolmente, che la colpa è il motore della disponibilità di Priscilla. Non si deve immaginare che questo vissuto di colpa renda Priscilla una persona cupa e pesante, tutt’altro.

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Il suo arrivo a studio è portatore di gioiosità per me , per gli altri colleghi dello studio e per i pazienti in sala d’attesa. Sa farsi voler bene e, soprattutto, sa leggere immediatamente i desideri e i gusti altrui, scrutando i visi. Del resto, si è allenata per tutta la vita a far questo, “scusate il disturbo” sembra sempre premettere ad ogni interazione, “lasciatemi fare e vedrete che soddisferò i vostri desideri”.

Questo comportamento di disponibilità indiscriminata e incontrollata è talmente evidente, anche ad occhi non clinici, che è stato il motivo dell’invio in psicoterapia.

Certamente Priscilla doveva già covare l’idea di farsi aiutare, stanca di essere considerata da tutti una nullità e una schiava, ma la goccia che ha fatto prendere la decisione è stata la cassiera del bar sotto casa.

Una mattina l’ha presa da parte e le ha detto rispettosamente se si fosse o meno accorta che, quando lei entrava per fare colazione, si precipitavano nel bar una serie di vicine e presunte amiche che consumavano ogni ben di Dio e si approvvigionavano di beni di conforto e sigarette che poi lei, regolarmente, pagava per tutti. A lei, invece, nessuno aveva mai offerto un caffè.

Fu la stessa cassiera, a sua volta mia ex paziente, a darle il mio numero di telefono.

La prima volta mi disse che doveva proprio essere grave, visto che anche gli estranei si accorgevano dei suoi problemi.

Una motivazione alla terapia, che comunque faceva  parte del problema, era la preoccupazione che questo suo comportamento potesse danneggiare economicamente e moralmente i suoi cari.

I problemi iniziarono quando  la coscienza della propria vocazione al martirio e la necessità di comportamenti più assertivi furono ricollocate all’interno della famiglia.

Iniziarono allora i sabotaggi, perché la Priscilla “malata” faceva comodo a tutti, se non fosse stato per il suo eccessivo lagnarsi che speravano io risolvessi. Invece, con il rimpianto di tutti, al diminuire delle lagnanze aumentarono le incazzature e questa fu la fase veterofemminista della psicoterapia.

Mi sentivo come una leader in zoccoli e gonnellona a fiori degli anni settanta che spinge una compagna a prendere coscienza e liberarsi dalla dittatura maschile e della schiavitù del ruolo di angelo del focolare.

Avevo un potente alleato: il suo forte  desiderio di fare il medico, tuttavia temetti seriamente che la marcia trionfale verso la conquista dei propri diritti potesse arrestarsi quando fu bocciata ai quiz di ammissione per la facoltà di medicina. Non fu così  anzi,  il lavoro prese una piega migliore. Il cambiamento doveva avvenire soprattutto dentro di lei, le psicoterapie cambiano l’ interiorità e solo per questa strada talvolta producono anche cambiamenti esterni. Dovevo togliermi il gonnellone fiorato, scendere dalle barricate per la gestione autarchica dell’utero e tornare a fare l’artigiano riparatore dell’anima: avrei dovuto trovare un altro modo ed un’altra sede per espiare le mie colpe maschili.

Ci soffermammo su cambiamenti molto più microscopici. Da un lato concordammo con Priscilla che dovesse prestare attenzione ai propri gusti, a ciò che voleva veramente. Per tanto tempo era stata talmente concentrata sulle attese e i desideri degli altri che i propri li aveva persi di vista, non è che li trascurasse a vantaggio degli altri, è che proprio non c’erano più. 

Se molti pazienti devono essere aiutati a decentrarsi, con lei il lavoro fu opposto: doveva ricentrarsi, rimettersi al centro. Partimmo con i gusti alimentari, tema per lei caldo. Anche lì scoprimmo che non aveva preferenze definite, mangiava un po’ di tutto, spinta soprattutto dalla paura di non avere cibo a disposizione nel momento in cui avesse avuto fame.

Riteneva intollerabile la sensazione della fame insoddisfatta. Facemmo varie esposizioni in studio rispetto a questa sensazione, senza mai mettere nel mirino l’obiettivo di dimagrire, poiché anche il dimagrimento non era un suo obiettivo ma un compiacere le aspettative della famiglia.

Una volta che iniziò a percepire i propri gusti e le preferenze iniziammo “Il Training del No”: di fronte ad una richiesta di chiunque altro, doveva evitare di rispondere immediatamente con il “si” che partiva automatico e rispondere un generico “ci penserò”, poi doveva prendersi del tempo per sé, senza la pressione dell’altro e valutare se la richiesta fosse compatibile con i suoi desideri, infine poteva rispondere ed osservare l’effetto relazionale che un eventuale “no” producesse.

Nel giro di tre mesi iniziò ad apprezzare dei cambiamenti: il tono con cui si rivolgevano a lei era più garbato e si era passato dall’ordine alla richiesta, la sua disponibilità non era data per scontata e quando si manifestava veniva ringraziata e ricambiata. 

Psicoterapia Cognitiva: "Cosa non le va in questo?" Come iniziare il Disputing del Pensiero Negativo. - © Lisa F. Young #16136135
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Una delle motivazioni fondamentali, per questo lavoro faticoso, era di essere un migliore esempio per i figli.

Il tono costante di criticismo e l’esasperata emotività espressa in famiglia si attenuarono, persino il cagnolino sembrava che abbaiasse di meno e che fosse meno pretenzioso con le sue richieste di uscire a passeggiare.

Un giorno Priscilla arrivò alla seduta piangente. Era venuta in macchina con la madre, che poi avrebbe dovuto accompagnare dalla sorella cui guarda i figli.

Tutto il viaggio era stato occasione di litigi perché Priscilla lamentava le preferenze che la madre mostrava per la sorella. Ad un certo punto, la madre aveva detto di auspicarsi una rapida conclusione della terapia perché le sembrava che stesse sempre peggio e che dubitava della mia competenza. Priscilla era partita in mia difesa rincarando la dose e accusando la madre quando, a questo punto,  la madre aveva detto “mi sa che sarebbe stata meglio l’altra”.

Fu in macchina, sotto lo studio, nel mezzo di un diluvio, che Priscilla apprese di essere nata al termine di una gravidanza gemellare durante la quale il feto della gemella era stato riassorbito. I medici avevano spiegato ai genitori che si trattava di una evenienza piuttosto comune, uno dei due gemelli per sopravvivere fa fuori l’altro. Di lì a pensare che chi sopravvive è il più cattivo il passo è breve. Non ricordava che nessuno glielo avesse mai detto esplicitamente da piccola, ma questo poteva spiegare quel senso di colpa originario che lei avvertiva e che la portava a scusarsi per tutto.

Si rese conto che era una “mission impossible”, il senso di colpa del sopravvissuto rischiava di rovinare la sua esistenza. 

Mangiare o non mangiare animali?. - Immagine: © dresden - Fotolia.com
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Privarsi delle cose, abbassarsi, la avvicinava alla sorte della gemella che non era nata, attenuava il gap di fortuna che distanziava le due creature, destinate ad essere identiche. Razionalmente si rendeva conto che neppure la propria morte avrebbe pareggiato i conti perché almeno lei era vissuta per un po’ e poi non aveva nessuna intenzione di morire, non  era questa la strada.

Qui ebbe un colpo di genio che, forse memore della precedente esperienza terapeutica, attribuì ad un sogno in cui correva in una strada del centro, affollata per lo shopping,  insieme alla sua gemella su un tandem. Io, più incline ad ricercare la ragione dei sogni in pesantezze gastriche, preferii immaginarla come una rivoluzionaria ristrutturazione cognitiva.

Sta di fatto che Priscilla pensò che, se non poteva far pari morendo lei, poteva farlo facendo vivere la gemella, che chiamò Livia. D’ora in avanti si sarebbe concesse delle cose per lei ed altre per Livia. 

Per Livia, inoltre, qualsiasi desiderio era ammesso, poichè doveva recuperare anche l’infanzia e l’adolescenza. Sarebbe diventata, insomma, la madre accudente, generosa e complice di questa parte di se stessa che aveva battezzato Livia.

La pregai di considerare tutto ciò soltanto come una metafora e di tenerla per sé, temendo che l’avrebbero portata da un altro psichiatra che avrebbe prescritto, copiosamente, degli antipsicotici.

Di lì a poco concludemmo la terapia, perché era contenta della sua vita, senza prevedere  dei follow up. Immagino che tutto stia andando bene perché da lei ho avuto ulteriori invii. Una di queste persone mi ha raccontato che Priscilla e Francesco hanno avuto un quarto figlio che porta il mio nome. 

Un farmaco antinfiammatorio per la depressione?

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Può un farmaco antinfiammatorio aiutare nella cura della depressione? Sembrerebbe proprio così.

L’infiammazione è la risposta naturale del corpo alle infezioni o ferite” spiega Andrew H. Miller, MD, autore senior dello studio che sostiene questa tesi e professore di Psichiatria e Scienze Comportamentali alla Emory University School of Medicine.

Tuttavia, quando prolungata o eccessiva, l’infiammazione può danneggiare molte parti del corpo, compreso il cervello.

Precedenti studi hanno dimostrato che le persone depresse, in presenza di infiammazione elevata, hanno meno probabilità di rispondere ai trattamenti tradizionali con farmaci antidepressivi e la psicoterapia.

Lo studio in questione è stato progettato per verificare se ridurre l’infiammazione possa essere un trattamento utile per la depressione farmaco resistente.

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L’infliximab è uno dei nuovi farmaci biologici utilizzati per trattare le malattie autoimmuni e infiammatorie come l’artrite reumatoide, e la malattia infiammatoria intestinale.

Un farmaco biologico riproduce gli effetti delle sostanze naturalmente prodotte da parte del sistema immunitario. In questo caso, il farmaco usato è un anticorpo che blocca il fattore di necrosi tumorale (TNF), una molecola chiave del processo infiammatorio, che risulta in concentrazione elevata in alcuni individui depressi.

Lo studio ha coinvolto 60 pazienti con diagnosi di depressione maggiore moderatamente resistenti ai farmaci, ai quali è stato somministrato l’infliximab o un trattamento placebo.

I risultati dello studio suggeriscono che il farmaco usato non abbia un’efficacia generalizzata sulla depressione resistente al trattamento, ma può migliorare i sintomi di depressione nei pazienti con biomarker infiammatori elevati.

L’infiammazione in questo studio è stata misurata con un semplice esame del sangue che misura la proteina C-reattiva o CRP: più alta è la CRP, più intenso è il processo infiammatorio, e maggiore è la probabilità di rispondere al farmaco.

La previsione di una risposta antidepressiva con un semplice esame del sangue è uno dei sacri graal in psichiatria“, dice Miller. “Questo è particolarmente importante perché l’esame del sangue non misura solo ciò che pensiamo sia la causa principale della depressione in questi pazienti, ma è anche l’obiettivo del farmaco.”

Secondo i ricercatori questa è la prima applicazione di successo di una terapia biologica alla depressione e questo studio apre la porta a una serie di nuovi approcci che agiscono sul sistema immunitario per curare le malattie psichiatriche.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

The Effect of Maternal Anxiety on Mother-Child Attachment

 

– Attachment Series by Jeffrey Pella – 

The effect of maternal anxiety on mother-child attachment

The Effect of Maternal Anxiety on Mother-Child Attachment - Immagine: © zergkind - Fotolia.com In the previous installment of this series I discussed mother-child attachment in the context of maternal depression.

In this article I will be discussing attachment in the context of maternal anxiety. Mother-child interactions in the context of anxiety are qualitatively different from interactions seen in healthy mother-child dyads (e.g. lack of autonomy promotion). Mother-child interactions characterized by similar differences are theorized to lead to the development of insecure attachment in children (i.e. explicitly, low or inconsistent maternal sensitivity and responsiveness).

Therefore, since maternal anxiety influences mother-child interactions in a similar style which is theorized to promote insecure attachment, the effect of maternal anxiety on infant attachment style has been examined.

 

Anxiety and Emotional Conversations between Mothers, Fathers and Children - Fotografia: © James Steidl - Fotolia.com
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Delcarmen, Pederson, Huffman and Bryan (1993) examined attachment security in a normal population of 52 distressed mothers and their infants. At 12 months, infants’ attachment styles were assessed using the Strange Situation Procedure (SSP). Maternal anxiety was assessed using a battery of questionnaires prenatally. The results demonstrated that those mothers who had higher prenatal anxiety scores were more likely to have insecurely attached infants when compared to those who had lower anxiety scores. The Atkinson et al. (2000) meta-analysis, which was mentioned in a previous article in this series, investigated 13 studies of maternal stress and insecure infant attachment, also showed that maternal stress was significantly associated with insecure child attachment.

Manassis, Bradley, Goldberg, Hood and Swinson (1994) used an experimental design to investigate a clinical population of 18 anxious mothers and the attachment classification of their 20 children (aged 18 to 59 months). All maternal diagnoses were conducted using the SCID. Measures of maternal attachment and mother-child attachment style were taken using the Adult Attachment Interview and the SSP, respectively.

 

The Effectiveness of Video Feedback Therapy - Part 2 - Immagine: © Ruslan Olinchuk - Fotolia.com -
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The children were then assessed using the Diagnostic Interview for Children and Adolescents Revised, parent version (Reich & Welner, 1988). After reclassifying the disorganized children to their secondary classification, the results showed that 11 of the 20 children had an insecure attachment style. Specifically, six had a resistant attachment style and five had an avoidant style. Additionally, 13 of the children’s attachment style matched that of their mothers. Finally, three children in the sample were reported to have an anxiety disorder diagnosis; notably, two had an avoidant and one had a resistant attachment style. Although this study was limited by its sample size and lack of a comparison group, it does suggest a possible link between anxiety disorder in mothers and insecure attachment style in their children.

 

Further investigation into the relationship between mother-child interactions and child attachment by Corriveau et al. (2009) examined the relationship between children’s attachment styles and their dependency and trust in their mothers’ judgment. One–hundred and forty-seven children’s attachment styles were assessed at 15 months of age using the SSP. At 50 months of age children’s attachment style and their trust in their mothers were measured using a hybrid image task. The children were scored for the proportion of trials which they chose to ask their mothers for information about each hybrid image rather than the stranger, and for when they chose to support their mothers’ comments rather than those of the stranger.

Behavioral Inhibition and Child Anxiety - Immagine: © dannywilde - Fotolia.com -
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Resistant children showed the most dependency on their mothers, asking their opinion most frequently; they were followed by securely attached children, with avoidant children showing the least dependency. In relation to maternal trust, avoidant children showed the least trust in their mother followed by secure and resistant children were the most trusting. Interestingly, disorganized children were the least systematic in their responses and showed no preference to their mothers or to the strangers.

Overall, there appears to be a link between maternal psychopathology, specifically maternal depression, and children developing insecure attachment styles. Additionally, although evidence is more limited, it appears that maternal anxiety may also be associated with the development of insecure attachment. Interestingly, an investigation into the mother-child relationship in each attachment classification revealed that avoidant children were the most rejecting of their mothers, followed by secure children, and lastly resistant children.

 

 

REFERENCES:  

Cervello Tripartito & Evoluzione

 di Stefano Terenzi

Cervello Tripartito & Evoluzione. - Immagine: © mates - Fotolia.comLe neuroscienze hanno contribuito nella definizione dell’architettura del nostro Sistema Nervoso Centrale: è una verità lapalissiana.

L’attività mentale è ora considerata in termini bio-psico-sociali e si è superata una visione riduzionistica giungendo ad una maggiormente integrativa. Infatti quello a cui molti neuroscienziati tuttora aspirano è la formulazione di una teoria della natura della mente in grado di unire le nozioni medico- strutturali con le teorie concernenti il mondo fisico, interprersonale e socioculturale.

Ciò permetterebbe di approcciarsi alla patologia mentale, nella sua naturale integrazione, senza una differenziazione tra patologia della mente e patologia del cervello comportando un trattamento integrato e sinergico tra le diverse figure professionali: medici, psicologi e neuroscienziati.

Numerose ricerche nel campo dell’attività mentale evidenziano come il nostro cervello sia organizzato in senso gerarchico, costituito cioè da diversi livelli anatomo-funzionali-organizzativi: cervello rettiliano, cervello limbico e cervello neocorticale. Ognuno di questi ha una sua diversa rappresentazione mentale ed una sua diversa modalità di relazione organismo-ambiente. Ciascun ” cervello ” presenta un proprio sistema “del sé” e “del non-sé” che genera una peculiare rappresentazione mentale di sé e dell’ambiente che esperisce. Tale visione non è ne localizzazionista ne separatista ma viceversa considera la naturale connessione tra i diversi livelli.

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EABCT 2012 – State of Mind
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Anche la patologia può essere considerata in base al suddetto approccio, dove un disturbo può svilupparsi nel cervello rettiliano e poi alimentarsi e strutturarsi negli altri livelli (cervello limbico e cervello neocorticale). Le funzioni mentali possono dunque essere concettualizzate secondo un modello gerarchico-relazionale. Tra i maggiori teorici della concettualizzazione gerarchica delle nostre strutture cerebrali, Darwin( teoria evoluzionistica), Jackson (divisione delle funzioni mentali in centri superiori ed inferiori del cervello) e MacLean( divisione il cervello in rettiliano, cervello mammifero e cervello neomammifero) hanno evidenziato come la nostra struttura mentale sia frutto di un’evoluzione ontogenetica e filogenetica.

Anche Panksepp ha recentemente riaffermato la natura gerarchica dell’attività cerebrale: le funzioni mentali sono considerate il frutto di un’interazione costante e continua tra la struttura cerebrale e l’ambiente. Viene, quindi, messa in discussione la dicotomia e la visione monistica localizzazionistica per fare spazio ad una visione integrativa e multidimensionale che evidenzia l’incontro tra dimensione biologica, psicologica e sociale.

Pur considerando le differenze individuali (ambientali e fisiche), un modello gerarchico-relazionale può aiutarci ad approcciare allo studio dell’essere umano e delle sue modalità di esistenza. Alla suddetta strutturazione gerarchica si va integrando la modellizzazione della nostra attività mentale in senso relazionale.

Tra i maggiori fautori di questa visione vi sono Vigotsky, Edelman, Damasio e Rizzolatti. Questi studiosi hanno evidenziato come la nostra struttura mentale sia in continua relazione con il mondo esterno. Ergo è ipotizzabile che la nostra mente sia stata organizzata in modo gerarchico, grazie all’evoluzione della specie, tramite il costante influenzamento ambiente agito nei confronti della stessa. Edelman e Damasio evidenziano, inoltre, come le stesse strutture nervose siano un esempio della relazione tra organismo ed ambiente.

Invero, il Sistema Nervoso Centrale serve per metterci in relazione con l’ambiente, mentre un fiore, con la sua sintesi clorofilliana, presenta una relazione ambientale di gran lunga minore rispetto a quella umana.

Possiamo così concettualizzare tre tipi di cervello: cervello rettiliano, cervello limbico e cervello neocorticale, interconnessi tramite processi dinamici psicobiologici e in continua e costante relazione con l’ambiente.

L’evoluzione va quindi inquadrata in quanto frutto dell’interazione dell’uomo con l’ambiente. Ergo, la nostra capacità di adattamento risulta essere il prodotto di questa evoluzione. Ambiente, evoluzione ed adattamento sono gli elementi, le “conditiones sine qua non”, gli angoli di un triangolo, di un ciclo monodirezionale evolutivo in cui essi possono interagire edinfluenzarsi a vicenda.

Risalendo dal più primitivo al più evoluto livello mentale, l’individuo compie la sua differenziazione soggettiva, con le sue esperienze, le sue memorie, le sue rappresentazioni e le sue libertà.

Sistema Limbico, disturbo di personalità borderline e approcci neurobiologici radicali. Immagine: © Argus - Fotolia.com -
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A riprova di quanto detto, la caratteristica relazionale del nostro cervello è stata recentemente evidenziata dalla scoperta dei neuroni specchio, grazie ai quali si è potuto riconfermare che ogni interazione interpersonale ha una caratteristica relazionale. Essi infatti permettono una “simulazione interna” di un’azione effettuata da un consimile a cui si assiste.

Già Locke filosoficamente affermava come “percepire è agire”. Ma sappiamo ora che anche agire è percepire: ad esempio, persone con aprassia motoria hanno una ridotta capacità di percepire negli altri ciò che loro non riescono a fare. Il Mirroring, come meccanismo generale ed ubiquitario, produce simulazioni interne, rappresentative ed espressive, che permettendo la decodificazione del fine dell’azione sono elemento e prova fondamentale della continua e costante relazione del Sistema Nervoso Centrale con l’ambiente.

Per quanto concerne la gerarchizzazione invece, possiamo ipotizzare come una dissociazione tra i diversi livelli mentali possa generare problematiche che evidenziano in controprova la natura dinamica della gerarchia del Sistema Nervoso Centrale.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

ADHD & Parkinson: Un aiuto diagnostico dai movimenti oculari.

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Sembrerebbe che il tracking e l’analisi dei movimenti oculari possa diventare uno metodo utile per la diagnosi di alcuni disturbi quali il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) o il morbo di Parkinson.

In uno studio pubblicato da poco sul Journal of Neurology, i ricercatori della University of Southern California affermano che alcuni disturbi quali ADHD, sindrome feto-alcolica, e il Parkinson implicano caratteristici pattern di movimenti oculari identificabili attraverso le procedure di eye-tracking mentre il paziente, per esempio, guarda la TV.

Ai partecipanti allo studio è stato chiesto semplicemente di guardare programmi televisivi per 20 minuti, mentre i loro movimenti oculari venivano registrati (eye-tacking). I dati ottenuti mediante la tecnica di eye-tracking sono stati analizzati in funzione di un modello computazionale dell’attenzione visiva standard, che ha consentito l’estrazione di patterns di movimenti oculari tipici e caratteristici per ciascuna tipologia di paziente rispetto ai soggetti di controllo.

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In totale sono stati coinvolti nello studio 108 soggetti e l’algoritmo identificato– caratterizzato da specifici patterns di movimenti oculari per ciascun disturbo- ha riconosciuto pazienti con morbo di Parkinson con l’89,6% di accuratezza, e i bambini con ADHD e sindrome feto-alcolica con accuratezza pari al 77,3%.

Tale metodologia relativamente a basso costo e basata effettivamente su un indizio comportamentale rilevabile da situazioni di vita quotidiana promette quindi di essere uno strumento diagnostico integrabile alle modalità di assessment tradizionali.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La Relazione Terapeutica nella Terapia Cognitivo-Comportamentale – EABCT 2012

 di Carmelo La Mela, psichiatra psicoterapeuta.

Scuola di specializzazione in psicoterapia “Scuola Cognitiva Firenze

 

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EABCT 2012 GenèveSi è concluso da pochi giorni il 42° Congresso annuale dell’EABCT,  di cui abbiamo letto le interessanti cronache e gli approfondimenti nelle pagine di questo giornale.

Ho partecipato al Congresso e mi ha sorpreso il non trovare neanche un simposio dedicato ad un tema a me caro: la relazione terapeutica. In realtà qua e là nei lavori presentati faceva capolino l’argomento e sicuramente lintervento di Liotti è stato il più fecondo di stimoli in questo senso.

Mi sono chiesto il perché di questa mancanza: argomento poco “cool” per il congresso? Tema troppo aspecifico nella TC? Altro? Penso che una parte della risposta stia nel successo stesso della TC.

La TC è stata ed è una terapia con alti tassi di efficacia nell’attenuazione e nel controllo della sintomatologia clinica in particolare dei disturbi psicopatologici di asse I, secondo il DSM.

Negli anni 90, dopo il grande successo anche empiricamente dimostrato nel trattamento dei disturbi depressivi e d’ansia, le sue tecniche e il suo programma di ricerca sono stati progressivamente estese alle diverse aree psicopatologiche, individuandone le specifiche credenzedisfunzionali e mettendo a punto tecniche che ne ristrutturassero la funzionalità e modificassero i comportamenti e altri fattori che mantenevano il problema attivo. 

La condivisione in psicoterapia. - Immagine: © Lisa F. Young - Fotolia.com
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Tutto ciò accompagnato da una esponenziale diffusione della fama e  della applicazione della TC tra gli psicoterapeuti di tutto il mondo. Sul tema della relazione terapeutica era sufficiente ciò che raccomandava A. Beck fin dai suoi primi libri sulla depressione: “le qualità ottimali che il terapeuta deve possedere comprendono calore umano, empatia e schiettezza”, queste caratteristiche modulano la collaborazione terapeutica in modo da favorire l’applicazione e quindi l’efficacia del trattamento.

L’empatia intesa come capacità del terapeuta di entrare nel mondo del paziente, cercando di provare le medesime sensazioni e sentimenti provati dal paziente, e la condivisione di questa esperienza, aumenteranno nel paziente la percezione di essere capito e faciliteranno la nascita di una fiducia nel rapporto terapeutico. Ancora più chiaramente viene sottolineata l’importanza di una “intesa cioè di un accordo armonioso” tra i due.

In quelle pagine si trovano già gli elementi principali di ciò che poi Bordin (1979) sistematizzerà in un modo che diventerà paradigmatico nella successiva riflessione sulla relazione terapeutica al di là del modello teorico. Goal, task e bond sono gli elementi che vengono identificati  da Bordin nel 1979, come fattori fondamentali nella costruzione e mantenimento di una relazione terapeutica.

Beh per la TC era già tutto lì. Ma, è stata talmente grande la forza dei primi due elementi nell’impatto sull’esito (goal, obiettivo della terapia e task, la strategia-compito per raggiungerlo) elementi tra l’altro così intrinseci alla TC da oscurare e rendere trascurabile l’importanza del terzo fattore (bond, il legame).

EABCT 2012 – State of Mind
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In quegli anni pochi appassionati esploratori di territori di confine, si sono dedicati alla riflessione sull’argomento. Da loro sono comunque arrivati contributi fondamentali, più rari quelli provenienti dal mondo anglosassone, il più importante dei quali da parte di Safran e Segal (1990) con il volume “Il processo interpersonale in terapia cognitiva” edito da Feltrinelli, ma non più disponibile (perché? Dovrebbe essere un libro di testo per tutti i giovani terapeuti cognitivi).

Credo, inoltre, debba essere sottolineata l’originalità di due autori italiani Antonio Semerari (2000) e Gianni Liotti (2005) che, da prospettive diverse, hanno messo al centro della loro riflessione la relazione tra paziente e terapeuta fin dall’inizio del loro lavoro, rappresentando una avanguardia nel panorama del cognitivismo internazionale.

E’ con l’estensione del modello cognitivista all’area dei disturbi di personalità e al trattamento dei cosiddetti “casi difficili” che il modello”standard” ha mostrato i suoi limiti e l’attenzione alla RT (relazione terapeutica) è diventata non più eludibile.

E’ esperienza clinica di tutti, infatti, la sensazione di stallo che in certi momenti si prova durante la terapia con pazienti di questo tipo: a volte caratterizzata da irritazione per una sfida continua, a volte da fascinazione, da noia, da un senso di impotenza.

Termini come crisi, rottura e riparazione della RT sono diventati usuali nella comprensione di ciò che avviene nel processo terapeutico.

Monitorare ciò che avviene in terapia anche alla luce di ciò che succede nella relazione, dando senso ai propri stati mentali e facendo ipotesi su quelli dell’altro e utilizzare tutto questo con finalità terapeutiche appare ineludibile con questi pazienti, che vedono proprio nello scadimento del loro funzionamento relazionale una delle conseguenze fondamentali della loro psicopatologia.

E’ quindi inevitabile che questa difficoltà relazionale si rifletta nel rapporto col terapeuta. Un terapeuta che si avventuri nel lavoro con questi pazienti avrà bisogno di conoscere non solo i meccanismi che regolano questo rapporto ma anche dovrà essere consapevole delle proprie modalità di costruzione e gestione delle relazioni e delle proprie vulnerabilità rispetto a queste. Lo siamo?

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BIBLIOGRAFIA: 

Childfree, senza figli: scelta o necessità?

Childfree:  in America e in Gran Bretagna fa parlare di sè il movimento delle coppie che decidono consapevolmente di non procreare.

Childfree, senza figli: scelta o necessità?. - Immagine: © Costanza Prinetti 2012.
Childfree. Immagine: © Costanza Prinetti 2012.

“Ogni scarrafone è bello a mamma soja” canta Pino Daniele in una sua famosissima hit, sintetizzando così una sorta di motto che mette bene in luce l’indissolubile legame tra madri e figli.

In controtendenza a questo pensiero, nell’epoca dell’adolescenza interminabile, della crisi economica e dei cosiddetti bamboccioni, in America e in Gran Bretagna fa parlare di sè un fenomeno che in Italia appare più che altro “di costume”: il movimento delle donne (e delle coppie) childfree, che – come sottolinea il nome – decidono consapevolmente di non procreare.

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Il termine childfree sembra nascere in antitesi al più ghettizzante childless, con cui in genere nei paesi anglofoni si indicano le persone senza figli e che sembrerebbe implicare, con il suffisso -less, l’idea di una mancanza. La cultura childfree, che negli USA vanta delle vere e proprie organizzazioni, raduni e siti dedicati, sembrerebbe originare dal desiderio e dal bisogno di arginare lo stereotipo che accusa le donne senza figli (per scelta) di voler emulare l’ambizione carrieristica maschile o, nella peggiore delle ipotesi, di essere donne incomplete, riducendo così il valore di una donna alla maternità.

Penso sia interessante prendere in considerazione la presentazione che il sito Childfree.net pubblica sulla propria homepage, perché ben racchiude tutto quello che è stato scritto sinora.

“Siamo un gruppo di adulti che condividono almeno un desiderio: non vogliamo avere figli. Siamo un gruppo di insegnanti, dottori, imprenditori, autori, esperti di computer. Scegliamo di chiamarci childfree piuttosto che childless perché sentiamo che quest’ultimo termine implichi la mancanza di qualcosa che desideriamo, e non è così. Ci consideriamo childFREE: liberi dalla perdita di libertà personale, soldi, tempo ed energie che avere un figlio richiede”.

Mi sembra curioso come nella presentazione sia sottolineato il rilievo culturale delle persone che fanno parte del gruppo: imprenditori, insegnanti etc., quasi a voler rassicurare il lettore di essere persone rispettabili e quindi degne di essere prese in considerazione. Al di là di questa sottigliezza, il sito si prefigge di essere un punto di riferimento in quella che definisce una società orientata ai bambini, che giudica e ghettizza coloro che scelgono di non averne. Raccoglie anche in una pagina dedicata tutti i libri e le pubblicazioni a sostegno del movimento: un dato ulteriormente interessante è l’anno di pubblicazione del primo libro che sembra trattare questo spinoso argomento. Il testo, pubblicato nel 1995 e intitolato “Will you be mother? Women who choose to say no” raccoglie una serie di interviste a donne britanniche dal background culturale ed etnico variegato.

Ci rendiamo così conto che, sicuramente con un palcoscenico più ridotto, il movimento childfree nasce quasi 20 anni orsono, in tempi “non sospetti”, ossia lontani dalla crisi economica, dal calo drastico delle nascite, dai figli in provetta o partorienti over 45.

Cougar Town - Locandina cinematografica. - Immagine: Proprietà di ABC Studios.
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Oggigiorno fa parlare di sé anche grazie (o soprattutto?) alle dichiarazioni di personaggi famosi, come ad esempio Cameron Diaz, che in una sorta di vero e proprio coming out ha dichiarato a mezzo stampa di non desiderare bambini per non dover rinunciare a nulla della vita attuale.

Sempre questo movimento sembrerebbe avere più rilevanza di quella che si potrebbe pensare. Catherine Hakim, sociologa della London School of Economics, già nel 2006, in una intervista alla BBC, ipotizzò che dietro il calo della natalità occidentale ci fossero non solo problemi di infertilità, di scelte troppo rinviate e di società assai poco ospitali in termini di welfare verso i bambini, ma anche “Un numero crescente di donne che ha scelto e sceglie di non fare figli”.

Tale decisione, però, sembra quasi impossibile da prendere serenamente, non tanto per ragioni coscienza individuale, quanto più per stereotipi culturali. Uno dei cavalli di battaglia del movimento childfree è proprio quello di legittimare le persone ad essere se stesse sino in fondo, e non solo “marionette delle società”.

Molte donne aderenti al movimento, hanno espresso il sollievo di poter finalmente comunicare, grazie alla nascita di gruppi e siti dedicati, il proprio pensiero e il proprio desiderio di non diventare madri, ritenuto dalla società aberrante e innaturale.

Le ragioni che muovono le donne childfree sono le più svariate: molte ritengono di non sentirsi (e di non essersi mai sentite) pronte a dedicare il 100% del proprio tempo, e della propria vita, ad un altro essere umano. Altre, invece, sostengono di non aver mai sperimentato il cosiddetto istinto materno e di aver scelto di essere libere non per dedicarsi alla carriera, ma semplicemente per poter vivere appieno la propria vita. Un’altra ragione che sembra accomunare le donne che scelgono questo stile di vita è il benessere planetario. Molte childfree sostengono, infatti, di compiere una scelta consapevole ed ecosostenibile evitando la sovra ppopolazione e aiutando così il pianeta (o per lo meno provando a) a mantenere un proprio equilibrio.

Restando in tema di motivazioni valide per non procreare, la psicoanalista francese (e madre) Corinne Maier ne ha individuate ben 40, nel (fu) best seller del 2006 “No kid. 40 ragioni per non avere figli”.

In patria, Il Corriere della Sera, estrapolò le seguenti 20 motivazioni:

  1. Il parto è una tortura;
  2. Diventerete dispensatrici ambulanti di cibo;
  3. Lotterete per continuare a divertirvi;
  4. Perderete i contatti con gli amici;
  5. Dovrete imparare un linguaggio da veri idioti per riuscire a comunicare con i vostri figli;
  6. I figli uccideranno il vostro desiderio;
  7. I figli suonano la campana a morto della vostra vita di coppia;
  8. Fare figli è da conformisti;
  9. I figli costano;
  10. Verrete ingannati pensando che non esista niente come un figlio perfetto;
  11. Sarete inevitabilmente delusi dai vostri figli;
  12. Tutti si aspetteranno che voi siate una madre prima che una professionista e una donna;
  13. Le famiglie sono un incubo;
  14. I figli mettono fine ai vostri sogni dell’infanzia;
  15. Non smetterete di desiderare la completa felicità per la vostra prole;
  16. Stare a casa a badare ai figli è incredibilmente noioso;
  17. Dovrete scegliere fra maternità e carriera;
  18. Quando arriva un figlio, di solito scompare il padre;
  19. Ci sono già troppi bambini sul pianeta;
  20. I figli sono pericolosi: vi portano in tribunale senza pensarci un secondo.

Decontestualizzate, tali motivazioni lasciano il tempo che trovano e appaiono soprattutto suggerimenti da ombrellone, privi di un fondamento e di un’analisi, se non quella del preconcetto.

Il movimento childfree, invece, cerca un proprio spazio nella società, dividendosi al suo interno addirittura in sottocategorie: i dink, ovvero le coppie che tendono a posticipare continuamente la decisione di procreare, forse per cause e ragioni esterne (instabilità economica, mancanza di un compagno, ad esempio); i childfree veri e propri, cioè donne e coppie che decidono deliberatamente di non volere figli.

Sarebbe difficile e riduttivo cercare un identikit della donna childfree, perché all’interno di tale movimento si raggruppano persone diverse, sia per scelte professionali sia per origine che per background culturale. Sembrerebbe, però, che la maggior parte di queste donne siano in genere in carriera, indipendenti, soddisfatte della propria vita sociale e sessuale. Sembrerebbe tutto molto chiaro, dunque: donne (e, forse in misura più ridotta, uomini che decidono di accompagnarsi a donne che hanno fatto la loro scelta) decise e consapevoli di rinunciare ad un’opportunità (se non altro biologica) nel nome di una volontà e di una libertà guadagnata a caro prezzo.

Amica? Nemica! - Immagine: 2011-2012 © Costanza Prinetti.
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Più che chiarezza, però, questo movimento fa nascere degli interrogativi, soprattutto inerenti alla genitorialità oggi, o al significato che un legame stabile e una famiglia possono avere. Nella società, infatti, del qui ed ora, del piacere, nel quale tutto il pensiero sembra essere ridotto all’istante, dove non esiste progettualità (perché forse, anche a causa delle precarie condizioni sociali ed economiche è difficile progettare a mente serena) ma consumo, la scelta childfree sembrerebbe andare nella direzione del non voler responsabilità o impegni. Del non volersi, forse, sacrificare per qualcosa che non si può conoscere a priori, per un progetto che potrebbe anche tranquillamente fallire e causare dolore (un divorzio, un bambino che non è come ci si aspetta). La scelta childfree inoltre sembra andare nella direzione del “crollo” dei grandi ideali e delle grandi istituzioni, e – perché no? – delle certezze e della immobilità dei ruoli ai quali la società di oggi assiste. I ruoli sono sempre più sfumati e indefiniti, anche a livello corporeo e/o biologico. Crollano quelli che erano considerati in qualche modo tabù ma che funzionavano all’organizzazione della società, contribuendo così a renderla sempre più “liquida”.

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Il condizionale, naturalmente, come in ogni situazione che implica la più profonda natura umana e il libero arbitrio è d’obbligo. Così come, però, credo sia d’obbligo interrogarsi sul valore della libertà di scelta al giorno d’oggi e, soprattutto, sulla consapevolezza che si ha di poterla (o non poterla o non volerla) esercitare.

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BIBLIOGRAFIA:

Neuroimaging: misurare l’efficacia del Trattamento dell’Ansia Sociale

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Neuroimaging: quando le attivazioni cerebrali sono predittive degli outcome psicoterapici per il trattamento CBT dell’ansia sociale.

Un nuovo studio condotto da un team di ricercatori del MIT,  Boston University e del Massachusetts General Hospital ha scoperto che le scansioni cerebrali di pazienti con disturbo d’ansia sociale possono contribuire a prevedere se tali individui avranno dei  benefici da una terapia cognitivo-comportamentale.

In altre parole sembrerebbe che l’efficacia della terapia sia prevedibile misurando l’attività cerebrale dei pazienti, sottoposti a un task di visualizzazione di stimoli emotigeni  (espressioni facciali emotive e scene emotigene tratte dall’ International Affective Picture System) prima di iniziare il percorso psicoterapico. 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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L’ansia sociale è caratterizzata da un’intensa esperienza di disagio nelle situazioni sociali- generalmente associata al timore del giudizio degli altri- che interferisce in modo rilevante con il funzionamento della persona nella vita quotidiana. 

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La terapia cognitivo-comportamentale mira a cambiare il pensiero e modelli di comportamento che portano e mantengono tale sintomatologia. 

I ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per ottenere le scansioni delle attivazioni cerebrali di 39 pazienti con diagnosi di ansia sociale mentre visualizzavano fotografie di volti che esprimevano emozioni negative e altre scene emotigene . 

Tali rilevazioni di neuroimaging sono state effettuate prima e dopo 12 settimane di trattamento CBT. Nel pre e post assessment è stata inoltre valutata e misurata la sintomatologia ansiosa correlata al disturbo utilizzando la Liebowitz Social Anxiety Scale. I cambiamenti della sintomatologia clinica sono stati analizzati mediante regressioni con le misurazioni di attivazioni cerebrali durante il task di visualizzazione di stimoli sociali emotivamente connotati.

Anzitutto i punteggi di partenza della  Liebowitz Social Anxiety Scale hanno predetto il 20% della varianza legata agli outcome terapeutici. Le attivazioni di specifiche aree cerebrali, quali le regioni della corteccia occipito-temporale dorsale e ventrale, al task di visualizzazione di stimoli sociali si sono dimostrate predittive – in combinazione alla baseline della condizione sintomatologica- del 57% dei successivi outcome psicoterapici.

Invece la gravità dei sintomi depressivi alla baseline non si è dimostrata predittiva dell’efficacia del trattamento.

 Diverse le interpretazioni che vengono proposte dagli autori per spiegare come mai proprio la metrica delle attivazioni di tali aree occipito-temporali durante la visualizzazione di stimoli emotigeni sarebbe predittiva dell’efficacia terapeutica:  maggiori attivazioni in tali aree nel pretrattamento potrebbero ricollegarsi a maggiori risorse del paziente dal punto di vista della regolazione emotiva o dei processi attentivi nei momenti di esposizione a stimoli sociali emotivamente connotati.

Come si è già trattato in altri articoli su State of Mind, il mondo delle neuroscienze appare ricco di studi che identificano peculiarità e differenze cerebrali tra persone cosiddette sane e pazienti con una diagnosi di disturbo psicologico-psichiatrico; lo stesso mondo è anche desideroso di portare contributi che leghino l’efficacia terapeutica al funzionamento cerebrale.  

Emozionante, ma con moderazione  e cautela leggere i primi risultati che vanno in questa direzione: se possono costituire un tassello rilevante di una predittività poliedrica bio-psico-sociale degli esiti terapeutici, non dovrebbero però diventarne una chiave di lettura univoca e biologicamente deterministica.    

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Genogramma

 

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

GENOGRAMMA

Il termine è stato introdotto nella terapia familiare sistemica da Murray Bowen (1913-1990).

Il genogramma familiare è uno speciale albero genealogico che oltre a rappresentare graficamente le relazioni di parentela tra i componenti di una famiglia su almeno tre generazioni, viene completato con la narrazione che il paziente fa delle relazioni tra i soggetti rappresentati.

Grazie all’uso di simboli convenzionali già a prima vista il genogramma fornisce informazioni significative sugli eventi del ciclo di vita e gli eventi relazionli che caratterizzano la storia di una famiglia.

Il genogramma è uno strumento fondamentale per il terapeuta sistemico relazionale ed è utilizzato sia all’interno del percorso terapeutico – per strutturare le informazioni raccolte, quindi formulare ipotesi sull’origine del disagio e pianificare il percorso di trattamento – sia all’interno del percorso di formazione del terapeuta come strumento di elaborazione della propria esperienza familiare, in questo caso il lavoro di co-costruzione della storia personale dell’allievo avviene grazie alla partecipazione attiva e supportiva del gruppo di formazione e del didatta.

Per approfondimenti sull’argomento:

La coppia in terapia: la prospettiva trigenerazionale

 

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La coppia in terapia- la prospettiva trigenerazionale. - Immagine: © olly - Fotolia.comDa un punto di vista sistemico relazionale la coppia è sempre il risultato dell’incontro di due sistemi familiari, e la qualità del legame di coppia, con i suoi punti di forza e di debolezza, il suo potenziale evolutivo o, al contrario, involutivo, ha a che fare con le vicissitudini relazionali di ciascun membro della coppia all’interno della sua famiglia di origine, cioè con il legame che questo ha stabilito con le persone significative della sua vita.

Questo punto di osservazione “verticale”, che guida l’analisi della forma e della qualità di questi legami, nonché l’osservazione di ridondanze o differenze nel passaggio da una generazione a quella successiva, è chiamato trigenerazionale (Andolfi, 2006).

In un ottica trigenerazionale, quindi, per capire cosa sta succedendo alla coppia in crisi che bussa alla nostra porta in cerca di aiuto, è necessario iniziare a esplorare i “piani superiori” del genogramma familiare, di cui la coppia rappresenta uno dei tanti punti nodali del complesso sistema trigenerazionale in cui ciascun individuo è inserito. 

La coppia infatti è il punto di incontro tra due assi immaginari: uno verticale, il vincolo di filiazione e uno orizzontale, quello di alleanza (Canevaro, 1999).

Il primo assicura la trasmissione da una generazione all’altra dei valori affettivi e culturali; grazie a questo vincolo viene anche garantita la sopravvivenza delle persone dopo la morte fisica.

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Il secondo si muove sull’asse orizzontale, è quello che si stabilisce tra i membri di una coppia e che si consolida grazie alla formazione di regole proprie che danno vita alla complicità di coppia; delimitando un confine attorno alla coppia, queste vanno ad allentare i vincoli di filiazione di ciascuno con le rispettive famiglie di origine. Con la nascita dei figli si stabilisce un nuovo vincolo di filiazione che lega la nuova generazione alla precedente.

La tensione dinamica tra questi due assi, tra questi due vincoli, è il punto nodale del sistema trigenerazionale: i problemi della coppia hanno sempre a che fare con difficoltà nei processi di differenziazione intergenerazionale, cioè con i processi incompiuti di appartenenza e svincolo del singolo dalle famiglie di origine e di conseguenza con la difficoltà a stabilire un nuovo e funzionale vincolo di alleanza a livello di coppia. 

In generale un sistema funzionale e armonico a livello intergenerazionale è quello in cui ciascun individuo compie il ruolo assegnato dal suo momento evolutivo: i figli possono essere figli e non vengono utilizzati nella gestione delle problematiche di coppia o in quelle con la famiglia di origine dei genitori; i valori e le tradizioni di ciascun partner sono una “dote” da condividere con l’altro  e non un campo di battaglia sul quale fronteggiano per la supremazia le due famiglie di origine; i partner rimangono all’interno della relazione di coppia sullo stesso piano generazionale, cioè  si considerano membri alla pari di un team che funziona grazie alle risorse emotive e psicologiche di ciascuno.

Per questo quando si incontra una coppia si devono tenere presenti tre piani generazionali – la famiglia di origine, la coppia, i figli – e valutare se il bilanciamento tra appartenenza e separazione/differenziazione del sè permette ai tre piani di rimanere ben distinti; i confini tra le generazioni sono infatti uno dei principali indicatori di buona funzionalità del sistema familiare.  

Nei prossimi articoli verranno trattati più nello specifico i temi accennati in questa parte introduttiva: l’importanza dei processi di appartenenza e separazione dalla famiglia di origine nella costruzione del legame di coppia, i confini intergenerazionali, la triangolazione, la trasmissione intergenerazionale di modelli relazionali disfunzionali.

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BIBLIOGRAFIA:

 

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