expand_lessAPRI WIDGET

Magrezza non è Bellezza. I Disturbi Alimentari (e-book) & Booktrailer

Sandra Sassaroli, Giovanni Maria Ruggiero, Francesca Fiore

Magrezza non è Bellezza.

I Disturbi Alimentari 

 

 ACQUISTA E SCARICA IL LIBRO (Formati disponibili: PDF, EPUB)  PREZZO: € 5,00

Magrezza non è bellezza. I disturbi alimentari. State of Mind Edizioni Elettroniche
Magrezza non è bellezza. I disturbi alimentari. Sassaroli, Ruggiero, Fiore – Edizioni Elettroniche State of Mind – 2012

Capitolo I. Introduzione ai disturbi alimentari.

A metà degli anni ’80 o poco prima i disturbi alimentari si trasformarono. Fino a quel momento erano stati una curiosità psichiatrica, un disturbo psicologico eccentrico e raro, dal sapore quasi ottocentesco. Una stramberia simile alla personalità multipla o alle isteriche del dott. Charcot alla Salpetrière. Ma improvvisamente sembrarono diventare quasi un’epidemia e soprattutto assunsero un valore simbolico. Da residuo polveroso della vecchia psichiatra a malessere psicologico anche troppo tipico del secondo consumismo, quello dell’epoca del riflusso dopo la sbornia rivoluzionaria degli anni ’70.

Gli anni ’80 furono il tempo del ritorno al privato, ma anche di un rinnovato edonismo. Cambiati i valori, improvvisamente l’ideale non era più rinnovare il mondo ma affermarsi personalmente, realizzarsi. Le professioni economiche diventarono appetibili. L’operatore di borsa, che nel decennio precedente era stato una figura negativa, divenne invece un ideale. “Wall Street” di Oliver Stone rappresentò questo cambio di scenario. Gordon Gekko, pescecane della Borsa di New York, rubava la scena al protagonista Bud Fox e si impadroniva del film. Un ideale neopagano di bellezza, forza, potere e splendore personale entrava nell’immaginario pubblico e ne prendeva possesso. Anche Tom Wolfe nel suo romanzo “Il falò delle vanità “ del 1987 seppe illustrare l’ascesa e la caduta di un personaggio avido di vita e di denaro nella New York della metà degli anni ottanta. Il protagonista Sherman McCoy, a causa di un incidente automobilistico in cui la sua amante travolge e uccide un ragazzo di colore, precipita sempre più in basso perdendo tutto e diventando un uomo perseguitato, odiato, abbandonato dalla moglie e alla fine solo e povero, bersaglio emblematico e simbolico di tutti i valori dell’edonismo reganiano.

L’associazione di idee tra questo edonismo e l’emergere dei disturbi alimentari non è immediata. Il rifiuto del cibo dell’anoressica non sembra una scelta legata all’affermazione di sé. Sembra piuttosto una negazione. Ma è una negazione dettata dalla paura e dell’ansia di non riuscire a rispettare l’ideale individualistico dell’affermazione personale. Come vedremo meglio, l’esordio anoressico avviene per lo più al limitare dell’adolescenza, quando la giovane ragazza deve uscire dalla cerchia familiare ed entrare in un mondo sociale fatto di giovani adulti in cui per la prima volta è necessario conquistare l’attenzione e la considerazione altrui. Naturalmente a quella giovane età il ruolo svolto dalla bellezza fisica è particolarmente incisivo, bellezza che deve essere accompagnata da un tipo di carisma sociale estroverso e non particolarmente sofisticato. E naturalmente la giovane età rende questi giovani soggetti particolarmente sensibili al giudizio altrui e al dispiacere delle piccole competizioni di rango imposte dalla vita sociale.

Tutto questo si può tradurre in stati di sofferenza particolarmente acuta, sofferenza che poi rischia di diventare ingestibile nelle personalità più fragili. L’individuo così cade preda di idee e convinzioni che si definiscono, in gergo psicologico, maladattative e distorte: la convinzione di non essere all’altezza, di non avere il controllo delle situazioni e, ancora peggio, di non avere il controllo dei propri stati d’animo e delle emozioni, che appaiono assumere un carattere di intensità ingestibile.

ACQUISTA E SCARICA IL LIBRO (Formati disponibili: PDF, EPUB) PREZZO: € 5,00 

Beninteso, tutto questo non è affatto specifico dei disturbi alimentari, anzi si tratta di un fattore piuttosto comune a molti disturbi emotivi e psichiatrici. L’intero spettro dei disturbi d’ansia condivide questa configurazione emotiva. Ciò che è specifico e che fornisce valore simbolico sono l’obiettivo concreto su cui si concentrano le ansie tipiche dei disturbi alimentari: l’alimentazione e l’aspetto corporeo. Anzi, per essere più precisi: il controllo dell’alimentazione e dell’aspetto corporeo.

Il termine controllo è decisivo. Rischia di essere banale ridurre i disturbi alimentari a una distorsione culturale di eccessivo valore dato all’esteriorità e alla bellezza del corpo. È invece proprio il termine controllo che consente non solo di comprendere il disturbo alimentare stesso, ma perfino di chiarire meglio la natura della stessa di alcune convinzioni culturali.

Controllo, come vedremo, non è solo un comportamento, ma prima ancora un’idea, una convinzione, o come si dice in gergo psicologico, una “credenza”. Per controllo si intende quanto abbiamo l’impressione di poter gestire sia gli eventi esterni che le nostre stesse emozioni. Paradossalmente, è proprio la definizione più tautologica quella che rende meglio l’idea: controllo è la convinzione che ogni cosa vada assolutamente tenuta sotto controllo. Come tutte le idee legate a uno stato di sofferenza emotiva, non si tratta di un obiettivo positivo. Il controllo non è cercato per ottenere un beneficio, ma per evitare un danno. Insomma, e qui appare la natura del disagio, c’è un timore e un ansia e non un desiderio. Quale poi sia questo danno temuto, esso rimane per lo più indefinito. Anzi, è proprio dello stato di sofferenza psicologica che i guai temuti dal paziente rimangano in una sfera indefinita. Tuttavia, si può dire che siamo nell’ambito della realizzazione personale e delle relazioni umane: il danno temuto è l’emarginazione sociale, il senso di inadeguatezza personale e sociale, insomma lo sforzo di maturazione che inevitabilmente attende la giovane donna all’uscita dalle limitazioni della vita familiare.

Questo sforzo di maturazione richiede una grande flessibilità mentale. Il controllo, in sé, non è un fatto negativo. Un certo grado di controllo della realtà è benvenuto. Per esempio, tutti noi cerchiamo di mantenere un aspetto gradevole per avere relazioni affettive e professionali soddisfacenti. Tutti noi ci impegniamo nello studio o nel lavoro per ottenere buoni risultati scolastici o professionali. Tutti noi, quindi, cerchiamo di controllare la nostra vita lavorativa, sociale, relazionale e affettiva. Tuttavia, mentre inseguiamo un grado di controllo, dobbiamo saper anche accettare che questo controllo non è mai assoluto. Il buon senso ci dice che il controllo assoluto della realtà è impossibile. Un individuo dalla personalità matura e flessibile accetta questo limite. O almeno dovrebbe accettarlo.

In realtà, i dati della psicologia ci dicono che il percorso seguito dall’individuo non sofferente di un disturbo emotivo è meno lineare. Infatti è bene chiarire che per Langer (1975) il soggetto non sofferente è colui che è in grado non solo di accettare sia un grado di controllo relativo ma che al tempo stesso, e in maggior misura, riesce ad esperire uno stato di controllo illusorio maggiore di ciò che realmente egli possiede. Al contrario, l’individuo sofferente è colui che non è in grado di accettare il suo grado di controllo imperfetto (imperfezione in sé normale) ed è proprio per questa sua incapacità di accettare questo controllo imperfetto che quest’individuo è perennemente sopraffatto dall’impressione di non essere in grado di controllare né gli eventi né le sue stesse reazioni (Rapee, Craske, Brown, Barlow, 1996; Sassaroli, Gallucci, Ruggiero, 2008; Stapinski, Abbott, Rapee, 2010). La non sofferenza, o almeno la minore sofferenza dell’individuo non colpito da un disturbo psicologico è quindi una singolare combinazione di maggiore flessibilità e al tempo stesso maggiore capacità di illudersi, di immaginare un mondo più consono ai bisogni e alle debolezze individuali.

Naturalmente, questo è vero anche per altri tipi di sofferenza. Per esempio, per la depressione. Lo stato depressivo può essere in parte un cosiddetto errore cognitivo, una distorsione. Ma in esso si cela anche una maggiore verità. Infatti secondo alcuni studiosi in realtà è proprio nella depressione che si raggiunge una più realistica valutazione della propria importanza, brillantezza sociale e capacità personali (Alloy, Abramson, 1979; Dobson, Franche, 1989).

I disturbi alimentari diventano quindi simbolici non solo per l’ossessione verso il cibo o l’aspetto corporeo, ma ancor di più per alcuni temi psicologi più nascosti ma più centrali: l’ossessione per il controllo sulla realtà e per la perfezione dello sviluppo individuale e la centralità della cosiddetta autostima personale su cui fondare il proprio benessere.

Tuttavia, questi temi non appartengono soltanto al presente. In forme differenti, l’angoscia dell’incontrollabilità del reale, la tensione individuale a realizzarsi e svilupparsi, la centralità dell’amor proprio sono anche di altre epoche. Amor proprio è infatti il termine che si usava in passato in luogo della moderna autostima. Indubbiamente l’intonazione era diversa. Nel termine di autostima si riflette la qualità quantificante ed economica dell’età moderna. Tuttavia ci sono anche dei motivi comuni nel cambiamento storico delle idee. Per questo, dopo questo primo capitolo introduttivo, il secondo capitolo è dedicato agli antecedenti storici dei disturbi alimentari, fino al definitivo stabilirsi della categoria diagnostica nel secolo scorso. Nel terzo capitolo si espone il quadro diagnostico. Nel quarto si espongono i principi del modello cognitivo che ha ricevuto più consensi: quello elaborato da Christopher Fairburn. Nel quinto troviamo gli sviluppi successivi del modello di Fairburn, e nel sesto il modello del controllo del nostro gruppo di lavoro. Nel settimo si discute lo stile di personalità dei disturbi alimentari e nell’ottavo si espongono i modelli psicodinamico e sistemico-familiare. Infine nel nono si esplorano le basi evolutive e familiari dei disturbi alimentari.

ACQUISTA E SCARICA IL LIBRO (Formati disponibili: PDF, EPUB) PREZZO: € 5,00 

 

Bibliografia

  • Alloy, L.B., Abramson, L.Y. (1979). “Judgment of contingency in depressed and nondepressed students: Sadder but wiser?”. Journal of Experimental Psychology: General 108: 441–485.
  • Dobson, K., Franche, R.L. (1989). “A conceptual and empirical review of the depressive realism hypothesis“. Canadian Journal of Behavioural Science 21: 419–433.
  • Langer, E. J. (1975), “The illusion of control“. In Journal of Personality and Social Psychology, 32, pp. 311-328.
  • Rapee, R. M., Craske, M. G., Brown, T. A., Barlow, D. H. ( 1996), “Measurement of perceived control over anxiety-related events”. In Behavior Therapy, 27, pp. 279–293.
  • Sassaroli, S., Gallucci, M., Ruggiero, G.M. (2008), “Low perception of control as a cognitive factor of eating disorders. Its independent effects on measures of eating disorders and its interactive effects with perfectionism and self-esteem”. In Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry, 39, pp. 467-488.
  • Stapinski, L.A., Abbott, M.J., Rapee, R.M. (2010), ”Evaluating the Cognitive Avoidance Model of Generalised Anxiety Disorder: Impact of Worry on Threat Appraisal, Perceived Control and Anxious Arousal”. In Behaviour Research and Therapy, 48, pp. 1032–1040.
  • Wolfe, T. (1987). The Bonfire of the Vanities. New York, FSG. Tr. It. Il falò delle vanità. Milano, Mondadori, 1988.

Magrezza non è Bellezza. I Disturbi Alimentari (e-book)

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA.

I DISTURBI ALIMENTARI 

Magrezza non è bellezza. I disturbi alimentari. State of Mind Edizioni Elettroniche

 

Seminario di Pat Ogden #2: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria

 

Workshop: “IL TRAUMA E IL CORPO: LA TERAPIA SENSOMOTORIA”, MILANO, 16 -17 settembre 2012

 

Seminario di Pat Ogden: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria
Locandina del Workshop.

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

 

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULLA PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA

Il 16 e 17 Settembre si è svolto a Milano un interessantissimo workshop sulla terapia sensomotoria tenuto da Pat Ogden, fondatrice della Psicoterapia Sensomotoria e del Sensorimotor Psychotherapy Institute (Boulder, Colorado).

Obiettivo di queste due giornate era quello di affrontare il trattamento con la terapia sensomotoria di pazienti traumatizzati ma anche delle difficoltà legate a storie di attaccamento insicuro non necessariamente traumatiche.

L’approccio parte dall’idea che la narrativa somatica racconti la storia delle relazioni precoci di attaccamento e di eventuali traumi subiti nel passato. Riprendendo l’idea di Janet che i pazienti con storie di sviluppo traumatiche continuino il tentativo di messa in atto dell’azione di difesa che non sono stati in grado di portare a compimento durate l’esperienza traumatica, uno degli obiettivi del lavoro terapeutico è quello aiutare i pazienti ad eseguire “azioni trionfali” (Janet, 1925).

Occorre considerare il corpo, i suoi movimenti e le sue posture per vedere cosa il corpo riesce o non riesce a fare, quali schemi di azione riesce a mettere in atto, quali invece risultano bloccati.

I pazienti traumatizzati mostrano un arousal disregolato, con picchi di iperarousal in cui l’attivazione supera la capacità di integrazione e picchi verso il basso, di ipoarousal in cui l’attivazione non è sufficiente per permettere l’integrazione.

LEGGI TUTTO GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SUL TRAUMA-ESPERIENZA TRAUMATICA

Questi pazienti infatti passano molto rapidamente da stati di intensa reattività emozionale ad un distacco emotivo che talvolta esita in vero e proprio collasso fisico. Per riuscire ad integrare e quindi ad elaborare le sensazioni e l’esperienza traumatica è fondamentale riportare il paziente ad una stabilizzazione dell’attivazione entro una finestra di tolleranza.

Durante il workshop, da un lato facendo sperimentare direttamente ai partecipanti la potenza di questo approccio e dall’altro attraverso la proiezione di sedute videoregistrate, la dottoressa Ogden ha mostrato come la terapia sensomotoria vada a lavorare proprio su questi aspetti.

Seminario di Pat Ogden: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria
Articolo consigliato: Seminario di Pat Ogden: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria

Durante una seduta con un paziente traumatizzato, ad esempio, la terapeuta coglieva un gesto delle mani leggibile come l’inizio di un’azione difensiva e focalizzava poi il lavoro clinico nel far portare a compimento tale gesto più volte, di modo che si iscrivesse nel corpo come memoria procedurale, che entrasse a far parte della narrativa somatica, per poi soffermarsi sulle emozioni, sensazioni e cognizioni che questo movimento e questa postura producevano nel paziente, in un processo di elaborazione bottom-up.

Guidati dall’atteggiamento mindfulness di attenzione consapevole al momento presente senza giudizio, si osserva tutto ciò che (in termini di sensazioni corporee, movimenti, percezioni provenienti dai 5 sensi, emozioni e cognizioni) emerge all’interno dell’occhio della mente momento per momento.

A partire da specifiche tecniche corporee l’obiettivo è di facilitare un nuovo apprendimento di tipo procedurale: se non si modificano gli aspetti somatici il trauma resterà nel corpo e non potrà essere elaborato efficacemente.

Non si tratta solo di consapevolezza corporea, che pure è un elemento importante, ma di lavorare sul processamento sensomotorio, ovvero sul come creiamo implicitamente i nostri significati, processiamo le informazioni ed eseguiamo azioni.

Al termine della prima giornata un’attenzione particolare è stata posta al trattamento dei disturbi dissociativi. D’accordo con l’impostazione di Janet, la terapia sensomotoria concepisce la dissociazione come il fallimento della capacità integrativa, pertanto focus del lavoro terapeutico è la comunicazione fra le diverse parti.

Attraverso interventi di mindfulness, il lavoro con la memoria implicita, con le azioni fisiche e le sensazioni corporee, si stimola direttamente la memoria procedurale, per evitare che il lavoro con la sola memoria esplicita e semantica riattivi in modo iatrogeno memorie corporee intense e disregolate senza risolverle.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULL’ATTACCAMENTO

Nella seconda giornata, invece, ampio spazio è stato dato al lavoro con l’attaccamento, prendendo in considerazione sia le storie di attaccamento problematiche ma non sconvolgenti, sia le storie di traumi subiti dalle figure di attaccamento.

Focus del trattamento, nel primo caso è stata l’esplorazione, sempre a partire dall’esperienza corporea, di parti di sé implicite con l’obiettivo di ampliare la tipologia e l’intensità delle esperienze affettive. Da questo lavoro emergono nuove azioni: ad esempio in pazienti con una storia di attaccamento evitante possono emergere azioni di ricerca della vicinanza con un incremento della capacità di dare e ricevere supporto, sperimentando una nuova gamma di emozioni correlate a queste esperienze.

EABCT 2012 – State of Mind
Articolo Consigliato: EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti

Al contrario, in pazienti con una storia di attaccamento ambivalente emergono azioni di radicamento e contenimento, esplorando e stabilendo confini e nuove capacità di autoregolazione.

Nel lavoro con storie di attaccamento disorganizzato, e dunque con esperienze traumatiche legate alle figure di riferimento, il trattamento coniuga i principi del lavoro sul trauma con quelli del lavoro sull’attaccamento: il lavoro sul corpo è volto a modulare l’iper e l’ipoarousal, acquisendo nuove capacità autoregolatorie ed interattive e favorendo l’integrazione delle parti. I movimenti diventano più integrati e diretti ad uno scopo, intenzionali.

Questi interventi implicano un lavoro di esecuzione dei 5 movimenti di base dello sviluppo come delineati da Bainbridge-Cohen (1993): lasciarsi andare, spingere, raggiungere, afferrare e tirare. Di importanza fondamentale nelle nostre interazioni sociali, si sviluppano già durante la gestazione e rappresentano la base per ogni nostro movimento. Questo linguaggio corporeo esprime in modo molto potente i temi critici del paziente e sono un canale di accesso diretto a rappresentazioni spesso non consapevoli.

In conclusione di queste due dense ed interessanti giornate di lavoro, la dottoressa Ogden ha dedicato un po’ di tempo alla riflessione su come il percorso clinico sia composto da una parte esplicita, in cui il terapeuta si muove guidato da teorie e tecniche ed orientato consapevolmente ad un obiettivo specifico, ed un parte implicita, in cui dominano processi inconsci, intuizioni cliniche, collusioni e collisioni, passaggi all’atto il cui risultato è imprevedibile.

Pat Ogden ha infine mostrato un video di una seduta in cui è emerso molto chiaramente come, per quanto disorientante, questo processo implicito sia parte attiva del processo terapeutico e come i passaggi all’atto, in cui parti implicite di paziente e terapeuta entrano in contatto attraverso il corpo, possano essere straordinarie occasioni di crescita per entrambi, purché siamo disposti ad imparare qualcosa da questo tipo di esperienze.

E’ stato un incontro interessante quello di queste due giornate e personalmente credo che, pur partendo da una prospettiva diversa da quella a cui siamo abituati, il modello utilizzato dalla terapia sensomotoria ben si integri con quelli cognitivisti. La teoria dell’attaccamento, i concetti di integrazione e disorganizzazione, la prospettiva evoluzionista e il riferimento a processi neurofisiologici fanno parte del bagaglio teorico e clinico di molti terapeuti cognitivisti e questo nuovo canale di accesso all’esperienza del paziente, a partire dal corpo, potrebbe essere un buono strumento di lavoro da inserire nella nostra “cassetta degli attrezzi”.

 

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULLA PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA

LEGGI TUTTO GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SUL TRAUMA-ESPERIENZA TRAUMATICA

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULL’ATTECCAMENTO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La Resilienza: quando le Avversità ci rendono più Forti

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Resilienza: la capacità di affrontare al meglio situazioni potenzialmente o realmente stressanti.  Alcune esperienze negative ci rafforzano, rendendoci più capaci di affrontare lo stress e gestire il dolore.

Difficile a credersi, ma le avversità ci rendono più resilienti. Sembra infatti che i momenti difficili della nostra vita possano avere effetti benefici, in base a quanto sostenuto da Mark D. Seery, autore dell’articolo “Resilience: A Silver Lining to Experiencing Adverse Life Events?”.

Per resilienza si intende la capacità di affrontare al meglio situazioni potenzialmente o realmente stressanti. Quindi in tanti altri casi, l’essere esposti ad eventi negativi nel corso della vita può portare effetti positivi. 

Secondo Seery: alcune difficoltà rinforzano, sono cioè in grado di renderci più abili nella percezione delle avversità e nel loro superamento. Per verificarne la veridicità di questa affermazione, l’autore ha condotto uno studio su un campione di 2000 persone, la cui “storia di avversità” è stata valutata calcolando il numero totale di eventi negativi riportati da ogni singolo individuo. Si ottiene che un numero maggiore di avversità corrisponde ad un aumento del distress globale, del danno funzionale (la misura in cui salute fisica ed emotiva interferiscono con lavoro e attività sociali) e dei sintomi da stress post-traumatico, insieme ad una diminuzione della soddisfazione della propria vita. Era, tuttavia, evidente anche come un numero intermedio di eventi negativi portasse outcome positivi. 

GLI ALTRI ARTICOLI SULLO STRESS POST-TRAUMATICO (PTSD)

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: L’effetto dello Stress sugli uomini: comportamenti Pro-sociali

In sintesi: considerando il numero di avversità come variabile indipendente, si potrebbe rilevare un andamento ad “U” delle variabili dipendenti negative (distress, sintomi PTSD e danno funzionale) e ad “U inversa” per la variabile dipendente positiva (“soddisfazione di vita”).

Di conseguenza, le persone che avevano esperito eventi negativi in passato erano influenzate meno negativamente da eventi negativi recenti rispetto ad individui che avevano dovuto fronteggiare troppe o nessuna avversità. Infine, la capacità di gestire e sopportare il dolore sembra non essere immune all’influenza delle avversità (Seery, Leo, Lupien, Kondrak & Almonte, 2011).

Le avversità portano ad un minor catastrofismo (riferito al tipo di pensieri riportati mentre si prova dolore fisico), a minore intensità del dolore percepito e a esperire poche emozioni negative.

Nonostante sia importante non minimizzare quando si parla di effetti negativi delle avversità della vita, è probabile che questi effetti siano stati finora sottovalutati: alcune esperienze negative ci rafforzano, rendendoci più capaci di affrontare lo stress e gestire il dolore. Quello che non mi uccide mi fortifica (Nietzsche, 1888).

LEGGI GLI ARTICOLI SU TRAUMI ED ESPERIENZE TRAUMATICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La Neuropsicologia nella Malattia a corpi di Lewy (Lewy Body Disease -LBD) – PARTE 1

 

 

La Neuropsicologia nella Malattia a corpi di Lewy (Lewy Body Disease -LBD) – PARTE 1. - Immagine: © julien tromeur - Fotolia.comIl vero quesito funzionale della valutazione neuropsicologica nelle Demenze dei corpi di Lewy è che questa si dipana all’interno di un tessuto sintomatico tra Parkinson e demenza di Alzheimer.

Sempre di più i trial clinici randomizzati e le misure del deterioramento mentale, sia in ambito di ricerca, che in ambito peritale adottano test neurosicologici. Ma quali sono i più adatti per la valutazione della malattia a corpi di Lewy (Lewy Body Disease -LBD) ?

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULLA NEUROPSICOLOGIA

La distinzione tra malattia a corpi di Lewy e demenza di Alzheimer (Alzheimer’s disease – AD) rappresenta un obiettivo tanto rilevante, per le sue implicazioni terapeutiche e prognostiche, quanto complessa, data la frequente sovrapposizione dei due quadri clinici, soprattutto in fase iniziale di malattia.  

Hans Spinnler pone l’attenzione, per la diagnosi di tutte le demenze, su come le cornici teoriche e i setting in cui sono stati costruiti i test neuropsicologici, differiscano molto rispetto all’ambiente clinico in cui viene diagnosticato e condotto il malato.

Tale discrepanza e la troppa fiducia che i neurologi potrebbero dare ai  test neuropsicologici è alla base, secondo l’autore,  di possibili problematiche rispetto a una corretta diagnostica della demenza.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Demenza: le Terapie Comportamentali più utili dei farmaci.

La neuropsicologia non si è, d’altra parte,  mai posta l’obiettivo di sostituirsi ad analisi strumentali sofisticate o a esami biologici molecolari, ma ha piuttosto utilizzato modelli descrittivo comportamentali prima, e psicologico-cognitivi a partire dagli anni’50, per costruire quadri funzionali stabili, utili a descrivere organizzazioni di sintomi che stabilissero una disfunzionalità rispetto al criterio statistico di norma della funzione stessa (Lurija 1967) e la sua relazione con parti specifiche del cervello, come dimostrato già nel 1861 da Pierre Paul Broca.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULLE NEUROSCIENZE

I test, dunque, altro non sono che lo sforzo di sintetizzare tali modelli per contribuire da una parte alla diagnostica clinica, arricchendo i dati osservativi con solide basi funzionali-normative e, dall’altra, a pianificare piani riabilitativi, nei quadri disfunzionali.

Certamente, la valutazione prima di essere psicometrica deve essere neuropsicologica; tale equazione deve prevedere la relazione correlazionale tra domini teorici cognitivi e espressioni funzionali cliniche e anatomiche. 

Il vero quesito funzionale della valutazione neuropsicologica nelle Demenze dei corpi di Lewy è che questa si dipana all’interno di un tessuto sintomatico tra Parkinson e demenza di Alzheimer.

Un elemento differenziale con l’ AD potrebbe essere rappresentato dal coinvolgimento dei circuiti fronto-basali, che appare esclusivo della LBD.

Con il Parkinson, invece, potrebbe essere discriminativo osservare la fluttuazione infradiana della cognitività e della vigilanza (elemento cardine della malattia a corpi di Lewy), che nei Parkinson puri è dimostrata solo in fase off e in presenza di MMSE < ai 24 .

 Fine prima parte.

 

BIBLIOGRAFIA:

Recensione: Cinquanta Sfumature di Grigio di E. L. James

A far l’amore comincia tu! Quanto ci costa la sottomissione sessuale… E’ incredibile che tante donne abbiano apprezzato e si siano immedesimate in un libro in cui la protagonista è sottomessa all’uomo.

TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Recensione: Cinquanta Sfumature di Grigio. - Immagine: Costanza Pinetti 2012
50 sfumature di blu. Immagine: Costanza Prinetti 2012

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI

Com’è possibile che un libro come “Cinquanta sfumature di grigio” stia polverizzando ogni record di vendite (diventando tra l’altro in 4 mesi il best seller più venduto di sempre in Inghilterra), decretando ufficialmente la morte della letteratura?!! Questa è la domanda che in tanti, increduli, si sono posti quest’estate.

Per chi negli ultimi mesi avesse vissuto su Marte, “Cinquanta sfumature di grigio” racconta di Anastasia, ingenua ed impacciata studentessa vergine di 21 anni in attesa del grande amore della vita, che incontra Mr. Grey, bellissimo imprenditore miliardario di 27 anni, tenebroso, con un passato complicato e la passione … per il bondage, la dominanza e la sottomissione.

Donne che non lasciano il partner violento. - Immagine: © Warren Goldswain - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Dipendenza in amore: Donne che non lasciano il partner violento

Tra i due scatta un’attrazione fatale: Mr. Grey, dio del sesso, le farà scoprire i suoi più oscuri desideri sessuali inoltrandola al mondo del BDSM, e lei – in preda alla ben nota sindrome femminile della crocerossina – cercherà di cambiarlo e di salvarlo dall’oscurità.

Nonostante il pessimo stile letterario, i dialoghi ridicoli, le ripetitive ed assurde scene di sesso, la trama banale e piena di stereotipi, il successo di “Cinquanta sfumature di grigio” pare inarrestabile ed inspiegabile.

Per molti è soprattutto incredibile che tante donne abbiano apprezzato e si siano immedesimate in un libro in cui la protagonista è sottomessa all’uomo. Ma la verità è che il ruolo di sottomesse, in particolare nei rapporti sessuali, ce lo portiamo dentro come retaggio culturale, seppur in maniera inconsapevole, ed influenza la nostra vita sessuale più di quanto immaginiamo.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU SESSO-SESSUALITA’

Alcune ricerche mostrano come in un contesto romantico di coppia si tenda a mettere in atto comportamenti tipici dei ruoli di genere; soprattutto in ambito sessuale il copione tradizionale vuole l’uomo in un ruolo più dominante e la donna sottomessa ai desideri del partner, a cui viene lasciato il compito di iniziare e gestire l’attività sessuale, inclusa la scelta delle posizioni da adottare.  

In un recente articolo scientifico Good J.J. et Al. (2012) hanno indagato per la prima volta l’influenza degli stereotipi sessuali di genere sul soddisfacimento sessuale. 

Nei rapporti di coppia eterosessuali le donne tendono ad assumere più degli uomini comportamenti passivi: quanti maschi si lamentano di dover essere sempre loro a fare la prima mossa sotto le lenzuola?! Ne consegue una riduzione dell’autonomia sessuale femminile che a sua volta influenza negativamente l’eccitazione, la capacità orgasmica e soprattutto il soddisfacimento sessuale della donna (Sanchez et Al., 2006).

Non pensiate neanche per un attimo che questo sia un problema esclusivamente femminile! Good e collaboratori hanno infatti scoperto che gli uomini sperimentano un più basso soddisfacimento sessuale quando ingaggiano un’attività sessuale con una partner che sposa un ruolo sottomesso. Questo avviene perché innanzitutto l’uomo percepisce il dover fare la prima mossa come una mancanza di desiderio nei propri confronti.

Dimmi come cammini e ti dirò quanto sesso fai - Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Dimmi come cammini e ti dirò quanto sesso fai

Inoltre, poiché la mascolinità va di pari passo con l’abilità di soddisfare la propria partner, e l’assunzione di un ruolo passivo influenza negativamente la capacità di eccitarsi e di raggiungere l’orgasmo, uomini che hanno partner sottomesse possono sentirsi inadeguati e incapaci di dar loro piacere. Insomma, l’adozione di un ruolo sottomesso da parte della donna mina il soddisfacimento sessuale di entrambi. Curiosamente non è vero il contrario: la donna non tende a percepire il ruolo passivo del partner come una mancanza di desiderio nei propri confronti; culturalmente si ritiene infatti (erroneamente?) che l’uomo sia quasi sempre interessato al sesso, indipendentemente dal suo comportamento.

Qual è quindi il segreto per una relazione sessuale soddisfacente? Care donne, a meno che non vi piaccia il ruolo di sottomesse (e in questo caso, secondo Good et Al. il vostro soddisfacimento sessuale non ne risentirà) è tempo di emanciparsi! Se non ne avete voglia la vecchia scusa del mal di testa non tramonta mai, ma se volete fare l’amore prendete l’iniziativa e siate dominanti: dare il via all’atto sessuale e scegliere in che posizione farlo può essere molto più gratificante per entrambi, senza dover scomodare Mr. Grey.

 

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU SESSO-SESSUALITA’

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Riconoscimento della Voce e del Volto: esiste una Connessione Strutturale Diretta

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Esiste una connessione strutturale diretta tra le aree deputate al riconoscimento della voce e quelle responsabili del riconoscimento del volto. 

Come avviene il processo di riconoscimento della voce e del volto nel cervello umano? In base base al modello classico le informazioni sensoriali relative alla voce e al volto di una persona sono elaborate ad un livello corticale superiore.

Tuttavia i ricercatori del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Leipzig hanno dimostrato che esiste una connessione strutturale diretta tra le aree deputate al riconoscimento della voce e quelle responsabili del riconoscimento del volto. 

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULLA NEUROPSICOLOGIA

Lo studio è stato condotto su 19 soggetti volontari sani (10 donne e 9 uomini) di età compresa tra i 23 e i 34 anni, i quali sono stati sottoposti in un primo momento ad una fase di addestramento, che consisteva nella presentazione di file audio-visivi, attraverso i quali i soggetti imparavano ad associare delle voci ai rispettivi volti e, nella condizione di controllo, dei suoni di tasti ai rispettivi cellulari.

Neuroscienze e Psicoanalisi. Il contributo di Mauro Mancia. - Immagine: © robodread - Fotolia.com
Articolo consigliato: Neuroscienze e Psicoanalisi. Il contributo di Mauro Mancia.

Nella sessione sperimentale ai soggetti si faceva ascoltare una frase pronunciata da uno speaker target, tra quelli mostrati nella fase di addestramento, e successivamente due frasi di 2 parole. Dovevano decidere se si trattasse della voce dello speaker target o meno (riconoscimento della voce), mentre nella condizione di controllo si chiedeva di decidere se si trattasse della frase target o meno, indipendentemente dalla voce dello speaker (riconoscimento della frase). In un secondo momento, ai partecipanti si faceva ascoltare una voce attraverso un file audio (o il suono dei tasti di un cellulare) e subito dopo si mostrava un volto (o un cellulare) attraverso un file solo visivo e veniva loro chiesto di indicare se il volto (o il cellulare) e la voce (o il suono dei tasti) appartenessero alla stessa persona (o cellulare).

Le registrazioni sono avvenute attraverso due scansioni di fRMI, hanno permesso di localizzare le aree deputate al riconoscimento della voce nelle regioni anteriori, mediane e posteriori del solco temporale superiore, mentre il giro fusiforme, area responsabile del riconoscimento del volto, si attiva in risposta sia agli stimoli visivi, che a quelli uditivi nei compiti di riconoscimento dello speaker.

Questo significa che nel cervello umano avviene un’integrazione dinamica di informazioni visive e uditive nei processi di riconoscimento delle persone, grazie alla presenza di una connessione strutturale diretta tra il solco temporale superiore e il giro fusiforme, senza la mediazione di strutture corticali sopramodali.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: L’attività Neurale durante la visione di film

In particolar modo, sono emerse delle connessioni più significative tra il giro fusiforme e le regioni anteriori e mediane del solco temporale superiore, rispetto alla regione posteriore, in quanto quest’ultima è responsabile soprattutto dell’identificazione dei parametri acustici delle voci.

Dallo studio risulta inoltre una connettività strutturale tra le regioni deputate al riconoscimento della voce all’interno dello stesso solco temporale. 

Dunque, le informazioni visive di un volto, acquisite attraverso una precedente esperienza sensoriale, possono contribuire anche al riconoscimento della voce  e questo consente di ottimizzare il processo di riconoscimento delle persone. 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia: Il Disputing del Panico – II Parte

 

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO  

LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

Psicoterapia: Il disputing del panico parte 2. - Immagine: © Stuart Miles - Fotolia.com

È importante comprendere come per il paziente il panico è un problema in sé. Il paziente non teme il panico solo in rapporto alle sue conseguenze (il panico come segnale di pazzia o di infarto) ma anche come evento in sé terrificante.

La ristrutturazione dell’evento del panico va fatta quindi in due direzioni. Una volta stabilito che il paziente teme il panico occorre ragionare su quanti episodi reali di panico sono avvenuti nella vita del paziente, quanto fossero realmente gravi e quanto realisticamente è davvero probabile che avvengano nuovi attacchi. Anzi per la precisione quanto è probabile che un malessere addominale (un mal di pancia) o un’oppressione al petto possano poi davvero portare a un episodio di panico –non hanno da subito ben chiaro che temono il panico.

LEGGI LA MONOGRAFIA DI STATE OF MIND SUL DISPUTING

Il paziente spesso sopravvaluta sia la gravità che la frequenza degli attacchi passati.

In realtà, più che panico si tratta di agorafobia, timore continuo e ansia anticipatoria di poter avere nuovi attacchi. In molti casi solo i primi episodi erano stati davvero di panico, gli altri erano più timori di poter andare incontro a un episodio di panico.

Secondo il DSM, per agorafobia si intende l’ansia relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali può essere difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nei quali può non essere disponibile aiuto in caso di attacco di panico o sintomi tipo panico (per es., paura di avere un attacco improvviso di vertigini o di diarrea).

Non si tratta proprio esattamente di ansia anticipatoria di un attacco di panico, ma è molto simile. Questo stato ansioso agorafobico determina tipicamente l’evitamento pervasivo di una varietà di situazioni che possono includere stare fuori casa da soli o stare a casa da soli; essere in mezzo alla folla; viaggiare in automobile, autobus, metropolitana, treno o aereoplano; oppure essere su un ponte o in ascensore.

Salkovskis- l’equazione dell’ansia nel disputing - Immagine: © lassedesignen - Fotolia.com
Articolo consigliato: Salkovskis- l’equazione dell’ansia nel disputing.

È vero che alcuni individui sono in grado di esporsi alle situazioni temute, ma le sopportano con considerevole paura e fatica.

Tuttavia spesso l’individuo è più capace di confrontarsi con una situazione temuta quando si trova con un accompagnatore.

 

Le domande raccomandate quindi sono:

Mi racconti la storia del suo disturbo

Parliamo del primo, primissimo episodio. Mi può raccontare in che circostanze avvenne? Dov’era? Era solo o in compagnia?Cosa stava facendo? Cosa provò? Quali furono le prime sensazioni? E che cosa pensò/le venne da pensare? E quando pensò che si trattava di qualcosa di grave? Quanto tempo passò tra le prime sensazioni sgradevoli e lo scatenamento pieno del panico? E cosa pensò tra le prime sensazioni e l’attacco completo?

Raccogliere in maniera dettagliata tutte le manifestazioni del panico è importante per poter stabilire davvero il livello di gravità dell’attacco. Usare la lista del DSM che elenca i vari aspetti fisiologici del panico è importante per poter stabilire se siamo davanti a un attacco di panico pieno o solo parziale.

Inoltre, accertare i pensieri è importante. In che momento avvenne la catastrofizzazione? È possibile che il paziente non avesse pensato davvero nulla e si sia trovato davanti a un panico non preceduto da alcun pensiero negativo? Ovviamente dal punto di vista del terapeuta, la risposta è no.

 Nel caso in cui siano presenti pensieri catastrofizzanti che presumibilmente hanno favorito l’interpretazione terribilizzante delle sensazioni corporee (“se ho mal di pancia avrò il panico” oppure “se ho oppressione al petto significa che sta arrivando un infarto”) è possibile lavorare su questi elementi alla Beck, cioè incoraggiando il paziente a ragionare in maniera più critica ed empiricamente fondata sulle sue interpretazioni terribilizzanti della realtà.

Siamo sicuri che un malessere di varia provenienza, toracica o addominale che sia, porti a un episodio di panico?

 

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO  

LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

LEGGI LA MONOGRAFIA DI STATE OF MIND SUL DISPUTING

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Seminario di Pat Ogden: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria

 di Roberto Framba 

 

 Workshop: “IL TRAUMA E IL CORPO: LA TERAPIA SENSOMOTORIA”, MILANO, 16 -17 settembre 2012

Seminario di Pat Ogden: Il Trauma e il Corpo: La Terapia Sensomotoria
Locandina del Workshop.

Sto partecipando a un workshop di due giorni di introduzione alla Terapia Sensomotoria organizzato dall’ Istituto di Scienze Cognitive in una sala gremita di colleghi che mi sembrano provenienti da differenti formazioni ma che hanno in comune l’esplorazione di approcci capaci di operare velocemente ed efficacemente sulle disregolazioni emotive più severe dei pazienti.

La Sensorimotor Therapy si propone come uno degli approcci più promettenti e capaci di integrare gli approcci cognitivi up-down con tecniche e modelli bottom-up in particolar modo per la psicoterapia del trauma, procurato da eventi ambientali oppure connesso all’attaccamento.

I più famosi modelli di ricerca neuro psicologici (Schore) e gli approcci interpersonali (Stern), trovano una convergenza e un’applicazione psicoterapeutica molto attenta ai pattern corporei nel qui ed ora della seduta al fine di conseguire una veloce stabilizzazione delle risposte emotive iper/ipo-attivate dei pazienti che abbiano subito traumi non elaborati.

Riprendendo l’insegnamento di Janet, viene enfatizzato il corpo come sede della memoria degli eventi vissuti della persona ma anche come strumento di elaborazione e ristrutturazione di apprendimenti altamente problematici e attualmente disfunzionali.

La proposta forte parte da un annunciato cambiamento di paradigma che, come ricorda lo stesso Schore, “privilegia sistemi di sviluppo emotivi rispetto a quelli cognitivi privilegiando concentrandosi sul sé implicito piuttosto che sul sé esplicito”.

Il modello della Terapia Sensomotoria prevede tre fasi di intervento:

  1. Stabilizzazione emotiva e la riduzione del sintomo;
  2. Trattamento della memoria traumatica;
  3. Integrazione della personalità.
Psicoterapia Sensomotoria: il Ruolo del Corpo nelle Esperienze Traumatiche. - Immagine: © Guido Vrola - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia Sensomotoria: il Ruolo del Corpo nelle Esperienze Traumatiche.

La scelta d’intervento iniziale è chiara: quando il paziente esorbita i limiti della cosiddetta finestra di tolleranza emotiva sia per eccesso (iperattività fisica e verbale fino al congelamento) che per difetto (ipoattivazione fisica ed emotiva fino al vuoto e al distacco emotivo) il terapeuta interrompe il lavoro sulla narrazione dei contenuti concentrandosi sulla narrativa somatica.

Dato che la maggior parte del comportamento umano è guidato dalla memoria procedurale che si riflette in risposte automatiche e pattern d’azione appresi (movimenti, posture, gesti, ecc.), il terapeuta osserva attentamente tali aspetti e via via interviene attraverso l’attivazione di risorse spontanee di riconoscimento e modulazione emotiva del paziente.

A completamento, il terapeuta può anche proporre tecniche di stabilizzazione emotiva sempre accedendo attraverso il riconoscimento e il maneggiamento degli aspetti corporei con l’obiettivo di restituire consapevolezza cognitiva e maggiore padronanza emotiva.

Il terapeuta alterna due azioni. Da un lato, una sintonizzazione forte con gli stati corporei ed emotivi del paziente condividendo l’attenzione ad azioni, gesti e postura in una sorta di rispecchiamento reciproco che rende disponibile alla coscienza del paziente attraverso l’esperienza di un corpo che avverte qualcosa di non sempre accessibile ma comunque disturbante e problematico. Esso può avvenire compiendo una microanalisi del comportamento non verbale e paralinguistico ma anche attraverso l’urlare insieme un vaffa’… che talvolta ricorda gli spettacoli di un Beppe Grillo di annata. Dall’altro, un continuo sforzo di integrazione cognitiva, chiedendo al paziente come ti fa sentire e cosa dice di te il comportamento che attraverso l’azione viene riattivato e reso esplicito.

La Ogden, in risposta ad una mia specifica domanda, chiarisce che l’aspetto relazionale condiviso è di gran lunga ciò che rende più efficace la costruzione di nuovi percorsi anche a livello neurofisiologico oltre che di significato, utilizzando il corpo come strumento potente di “incontro” e cooperazione.

La risonanza del lavoro e della proposta del nostro Gianni Liotti mi risulta evidente e sento immediatamente che mi pervade un sottile moto di orgoglio. Un divertente equivoco marca la ragione di tale stato d’animo. La Ogden scambia un canuto presente per lo stesso Liotti dicendosi onorata della sua presenza, accorgendosi solo dopo molti minuti che si trattava di altra persona, scusandosi per la sua scarsa capacità fisiognomica attribuita anche al fatto che aveva conosciuto Gianni ormai parecchi anni or sono.

Sarà stato un rendere presente alla sua coscienza una sorta di dialogo implicito con l’esponente italiano più autorevole del settore?

Ma proseguiamo sui contenuti di questa prima giornata. In tutti i modi, sia attraverso il canale verbale che con l’uso di interessanti video ed esercitazioni in aula, la Ogden esprime la convinzione che il corpo in tutte le sue componenti è assolutamente potente nel favorire la collaborazione nella ricerca di un superamento delle esperienze traumatiche. Il lavoro di integrazione si avvia con il porre attenzione sull’esperienza di percezione interna del corpo da parte del paziente, per proseguire nel focalizzare l’attenzione ai movimenti del suo corpo, sia grande che fino motorio, attraversando le percezioni veicolate dai cinque sensi e giungendo, prima agli stati emotivi e, per ultimo, al pensiero e alle interpretazioni.

 Attraverso questo percorso condiviso, paziente e terapeuta conquistano una progressiva sintonizzazione che permette una più efficace elaborazione di aspetti problematici che sono portati dal paziente sia a livello esplicito, ma anche e, specialmente, attraverso l’implicito depositato nell’esperienza corporea.

La Ogden, come altri autori del panorama cognitivista internazionale, fa grande utilizzo delle tecniche di Mindfulness con un approccio “directed”, cioè focalizzato su un aspetto o un problema interno al paziente piuttosto che aperto all’esperienza ampia di consapevolezza di sé.

L’obiettivo finale è quello di rimettere il paziente in grado di ripristinare una serena relazionalità in un clima di sicurezza in sé, attraverso il cambiamento delle tendenze procedurali del corpo, che si erano fissate a neuropercezioni “difettose” a causa dei sistemi difensivi del trauma per ripristinare una neuroplasticità ridotta o perduta. Il cambiamento del corpo, anche dopo poche ore di trattamento, rappresenta un indicatore assolutamente saliente del mondo interno e un terreno di lavoro terapeutico volto al cambiamento.

Il trattamento pone una particolare attenzione per i pazienti con traumi cumulativi e spesso hanno avuto un’esperienza “pericolosa” nello stare in contatto con il proprio corpo. La Terapia Sensomotoria propone al paziente di accostarsi al proprio corpo in modo differente ma non attraverso il parlare e l’argomentare circa l’esperienza vissuta e i suoi risvolti emotivi e di pensiero.

Anche una semplice indicazione data al paziente di tenere una mano sul torace e una sull’addome con la immediata consegna di stare ad ascoltare, consente di sentire il proprio corpo e guidarlo senza fatica ad una spontanea rimodulazione dell’esperienza emotiva.

Dopo la fase di riduzione del sintomo e stabilizzazione emotiva, la Terapia Sensomotoria apre la fase del trattamento delle memorie traumatiche. Basandosi sulle ricerche e conoscenze neurofisiologiche che riconoscono una gerarchia di sistemi atti a gestire gli aspetti traumatici che vanno dall’attivazione del sistema nervoso simpatico fino ad una immobilizzazione da “morte apparente” governata dal complesso ventrale vagale, la terapeuta americana, riprendendo una felice e produttiva intuizione di Bromberg, propone di lavorare sul delicato confine tra la finestra di tolleranza emotiva e l’iperattivazione provocata dal materiale traumatico.

EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi. Meet the expert: Giovanni Liotti
Articolo consigliato: EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti

Muoversi terapeuticamente sui confini regolatori dell’esperienza emotiva traumatica, significa attivare l’esposizione a memorie drammatiche dopo aver concertato con il paziente un set di interventi regolatori della risposta emotiva, sviluppati nella fase di stabilizzazione per evitare al paziente ad entrare in dissociazione davanti a tale materiale.

La narrativa s’interrompe tutte le volte che si rischia di uscire dalla finestra di tolleranza emotiva con un attento e fine lavoro di rimodulazione emotiva che ha come centro la regolazione del corpo fino a quando il paziente raggiunge un senso di sufficiente sicurezza.

A quel punto si riprende la narrazione dell’esperienza traumatica appena il paziente ha recuperato una sufficiente stabilità emotiva. In tal modo, la coppia paziente/terapeuta si muove a zig zag tra la memoria e il qui ed ora dell’esperienza sensomotoria, entrando ed uscendo più e più volte dalla narrazione, mantenendo una grande focalizzazione sulla condivisione della ricadute in termini di esperienza del corpo e miglior padroneggiamento del disconfort emotivo. Via via il paziente esperisce una confidenza con il proprio vissuto problematico. A partire da un’attenzione chiara e forte alla propria esperienza sensomotoria e riconnettendosi in modo consapevole alle sensazioni prodotte dal proprio corpo il paziente può ritornare in contatto con il materiale che era stato dissociato per effetto del trauma.

Il terapeuta ha un ruolo importante anche nel far notare al paziente movimenti o reazioni del corpo che il paziente non riconosce consapevolmente perchè legate al proprio vissuto traumatico, scegliendo di utilizzare forme di compenso emotivo in grado di risolvere l’esperienza traumatica. Questo avviene attraverso un vero e proprio accompagnamento che permette di sperimentare in seduta un’esperienza capace di completare l’azione protettiva e rassicurante spontanea del paziente bloccata precedentemente dal trauma. In seguito, il paziente sarà gradualmente in grado di utilizzare fuori dal setting terapeutico l’esperienza condivisa in seduta.

Va notato che la Terapia Sensomotoria vuole andare oltre la semplice consapevolezza del proprio corpo ma anche senza una partecipazione pienamente consapevole, crea un significato, processa informazioni ed esegue azioni al fine di ripristinare un migliore adattamento all’ambiente e di migliorare l’efficacia e il benessere nelle relazioni.

Memorie Traumatiche e Ruminazione. - Immagine: © PZDesigns - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Memorie Traumatiche e Ruminazione.

La terza fase della Terapia Sensomotoria si rifà al contributo di Van der Hart e procede attraverso un percorso che porti il paziente ad un incremento progressivo della mentalizzazione delle parti dissociate e delle loro alternanze che vengono riconosciute come a loro modo funzionali a scopi anche differenti o opposti, poi messe in relazione a differenti stati in modo sempre più consapevoli, modulati e strategicamente orientati ad un migliore adattamento.

Il corpo è il primo territorio e al tempo stesso lo strumento concreto attraverso queste parti vengono riconosciute e integrate. Attraverso esso il paziente esprime anche il bisogno di completare attraverso il movimento o differenti posture le azioni protettive che il trauma ha precocemente bloccato e conduce il terapeuta a riconoscere parti inconsapevoli che possono emergere e trovare quell’accoglienza probabilmente negata o non riuscita da parte delle figure che potevano avere un ruolo protettivo e, in ultima analisi restituendo comprensione e senso.

Una particolare attenzione viene posta sulla possibilità che il paziente sia molto concentrato sul transfert, che all’interno della Terapia Sensomotoria è riletto in una cornice più generale, cioè come una relazione sociale perturbata dall’esperienza traumatica pregressa del paziente. In tal caso il terapeuta cerca contemporaneamente di spostare l’attenzione della relazione al vissuto del corpo del paziente cercando di dare un nome a ciò che sta avvenendo e attribuendo quell’esperienza ad una parte talvolta dissociata della personalità. Al tempo stesso, il terapeuta agisce modulando il proprio corpo in modo tale di risultare meno “minaccioso” per il paziente.

Per esempio chiudendo gli occhi quando il paziente si attiva emotivamente troppo quando è al cospetto di un altro essere oppure modificando la propria postura, in modo di allontanarsi quando il paziente mostra di sentirsi a rischio di essere intruso.

In ogni caso, per il terapeuta vale sempre la regola aurea di non forzare la tecnica in modo di aumentare la paura piuttosto che la sicurezza e di muoversi in un orizzonte temporale ampio. L’esperienza di sintonizzazione non soddisfacente tra il paziente e il terapeuta non va vista come un insuccesso, quanto come un’area di lavoro per riparare tale frattura e ritrovare un piano condiviso sempre più in modo collaborativo esplorando assieme quell’area non consapevole inizialmente ad entrambi che va oltre ogni tecnica e oltre ogni parola.

In conclusione il percorso della Terapia Sensomotoria è duplice: sul piano esplicito, il porre un’attenzione condivisa al corpo, alle sue percezioni ed espressioni, alla ricerca di modalità più integrate e utili di vivere l’esperienza problematica o traumatica, rende possibile la costruzione di un percorso di sintonizzazione implicita che permette il ripristino di una relazione di condivisione e sicurezza.

 Una riflessione conclusiva. Per chi, come me e probabilmente come altri tra i presenti, viene da una tradizione cognitivista standard, la terapia sensomotoria fornisce due importanti contribuiti. In primo luogo l’originalità di questa terapia sta nell’offrire un’attrezzatura capace di creare un ponte percorribile quando l’attivazione emotiva è incongrua e problematica, quando il linguaggio verbale più astratto rende più faticosa, lungo e spesso inefficace il lavoro terapeutico . Questo diminuisce notevolmente il rischio che il paziente possa essere esposto ad un’esperienza iatrogena di non comprensione e non comunicazione con il terapeuta di quel momento difficile.

In secondo luogo, essa rivaluta paradossalmente il lavoro del terapeuta cognitivo sia nel senso di una ricerca di percorsi integrati in cui superare la contraddizione tra razionale ed emotivo in una visione pienamente cognitiva. Il corpo è un luogo di incontro più immediato per un’esperienza relazionale davvero correttiva per il paziente che è stato perturbato o traumatizzato. Nella Terapia Sensomotoria la parte narrativa diventa chiaramente lo strumento e non il fine della terapia che rimane, invece, quello di operare continue e progressive integrazioni in un clima di sicurezza e di padronanza. Analogamente anche il terapeuta cognitivo standard utilizza la narrativa come luogo d’incontro con il paziente a partire dal pensiero e dalla esplorazione delle rappresentazione delle emozioni e anch’esso non esaurisce il suo intervento in una ristrutturazione del contenuto semantico del pensiero ma opera per una riattribuzione di senso alle situazioni di vita nel contesto di una relazione sicura e cooperativa.

 

LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO 

 

BIBLIOGRAFIA:

Relazioni Interpersonali? Meglio dimenticarsi del Telefono Cellulare

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La prossima volta che sostenete una conversazione faccia a faccia con qualcuno, lasciate il telefono in borsa o in tasca!”. Questa è la raccomandazione di Andrew Przybylski e Netta Weinstein, autori di due studi particolarmente interessanti sul modo in cui i telefoni cellulari possono interferire con le relazioni interpersonali. 

Miliardi di persone ogni giorno comunicano a grande distanza utilizzando il telefono cellulare, e non solo a voce, ma anche scambiandosi SMS, email, “twittando” o anche semplicemente aggiornando il profilo di Facebook.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SUI SOCIAL NETWORK

Niente di male, direte voi. In effetti, l’utilizzo del cellulare sembra promuovere in noi un senso di interconnessione col nostro “mondo sociale”, spostando l’attenzione – o le preoccupazioni – su  persone, luoghi o eventi al di fuori dal contesto in cui concretamente ci troviamo (Srivastava, 2005).

Telephone - © Tomasz Wojnarowicz - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Telefoniamoci… e la nostra autostima cresce

Ma in che modo le relazioni interpersonali ne risentono? Prendiamo come esempio la seguente situazione. Stiamo parlando faccia a faccia con una persona, magari anche di un argomento “mediamente” intimo. Il nostro cellulare è di fianco a noi, in bella vista, e il nostro interlocutore lo nota. Domanda: può anche solo la presenza dell’oggetto influenzare il tipo di relazione che si creerà tra noi e l’altra persona? Sì, e negativamente. 

In un primo esperimento, i due autori hanno esaminato l’effetto della sola presenza (vs l’assenza) di un cellulare lasciato su un tavolo sul tipo di relazione e di conversazione tra due interlocutori seduti uno affianco all’altro. Ai due soggetti (sconosciuti l’uno all’altro) è stato chiesto di parlare per dieci minuti di un evento saliente a loro accaduto nel mese precedente; dopodiché sono state valutate la qualità della relazione, il senso di vicinanza al partner e la presenza/assenza di emozioni positive. Come previsto, la sola presenza del cellulare aveva effetti negativi su ciascuna di queste variabili.

C’è di più. In un secondo studio, l’effetto della presenza/assenza del cellulare è stato valutato sia quando i due interlocutori discutevano di argomenti casuali, sia quando parlavano invece di questioni personali, intime e significative. Oltre alle variabili qui sopra elencate, sono state poi misurati il livello di fiducia verso l’altro e l’empatia percepita nell’altro. I risultati? La presenza del cellulare inibiva lo sviluppo di una vicinanza emotiva e riduceva l’empatia percepita dal partner. In particolare, le differenze tra presenza e assenza del cellulare erano significative nei casi di conversazione su argomenti intimi e personali.

I meccanismi secondo i quali la presenza di un cellulare ostacolerebbe la formazione di relazioni interpersonali sono ancora sconosciuti. È possibile, sostengono gli autori, che questo “colpevole tecnologico” attivi rappresentazioni mentali implicite (non consapevoli) della nostra “rete sociale”, in grado di distrarci dalle interazioni nel qui ed ora. Attendiamo future ricerche: nel frattempo, almeno durante le conversazioni faccia a faccia, meglio dimenticarsi del cellulare.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Dipendenza in amore: Donne che non lasciano il partner violento

 

Donne che non lasciano il partner violento. - Immagine: © Warren Goldswain - Fotolia.comQualche tempo fa, sul quotidiano “La Repubblica”, mi è capitato di leggere un articolo dedicato alle donne che non riescono a lasciare il marito/compagno violento.

Come mai si è incapaci di abbandonare un partner aggressivo?

Forse come correttamente citato nell’articolo, questa modalità è dovuta all’incapacità di prospettarsi scenari alternativi, riconoscendo in quello attuale uno schema familiare simile ad un loro vissuto. Spesse volte si tratta discorgere nell’uomo l’unica alternativa di vita, oltre alla quale non è possibile visualizzare scenari diversi, ma alla resa dei conti si tratta solo della loro gabbia. Tutto questo in nome dell’amore, inteso secondo una visione distorta e atavica, come una forma di sottomissione, di devozione, di sofferenza. Di dipendenza in amore. 

La paura dell'abbandono. - Immagine: © deviantART Fotolia.com
Articolo Consigliato: La paura dell’abbandono

Mi sovviene un passo della Sacra Bibbia, la lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini: “Le mogli siano sottomesse ai mariti…  il marito infatti è capo della moglie…”. Quindi, donne, sopportate tutto e non ribellatevi mai, il vostro partner è il vostro capo, quindi, subite senza apporre giudizio quanto vi viene inferto. Oppure, il recente libro, “Sposati e sii sottomessa” di Costanza Miriano in cui si afferma che ci sono ruoli familiari non degni di essere sottoposti a discussione, pena l’infelicità familiare e l’insoddisfazione personale.

Quindi, la donna deve abbandonare l’immagine avanguardista e ribelle per vestire i panni della donna di casa e di famiglia. Deve, dunque, riprendere il ruolo che da sempre le è stato concesso: obbedire alle regole dettate dal pater familias e che importa se spesse volte deve sottostare ai dettami dei maltrattamenti e delle angherie varie? Quindi, lo scenario prospettato è amore dimesso e sofferto in situazioni maltrattanti. Ma se l’amore equivale a soffrire allora si tratta di una forma di non affetto, quindi non è si ha un rapporto paritetico basato sullo scambio reciproco, ma sull’essere l’uno carnefice e l’altro la vittima, l’uno dominate  el’altro dominato. A questo punto si entra in una sfera relazionale non classificabile come amore. Si attiva, dunque, una spirale senza via d’uscita, dove gran parte delle volte si finisce con il soccombere di una dei due membri della coppia, sempre la donna, la cronaca docet.

Cosa porta una donna a rimanere con il compagno violento? Una possibile spiegazione è il pensare di non valere nulla senza l’aiuto dell’altro, di non avere alternative percorribili, di non essere capace di andare avanti senza una persona che in qualche modo possa  supportarla e amarla. Di non valere nulla, di essere il nulla.

I dati dicono che una donna maltrattata su due lascia il proprio compagno, quindi solo una donna su due è in grado di riprendere in mano la propria vita e di voltare pagina.

Alcuni affermano e sostengono sia la cultura d’appartenenza o la regione di provenienza, intrisa da mentalità gretta e stereotipata a portare ad accettare passivamente quello che accade tra le mura domestiche, ovvero a giustificare il partner fino al punto di riconoscere come amorevole una sberla.

Secondo le testimonianze portate da coloro che hanno subito i maltrattamenti, ciò che induce una donna a non lasciare il partner è la paura delle conseguenze del ribellarsi, paura che ci possano essere delle ripercussioni, paura chele vengano negati figli, paura di rimanere sole.

Ecco che subentra la patologia: la love addiction. La dipendenza in amore. Si intende una forma di affezione  intesa come “droga”. E’ uno stato patologico che in una coppia normale è destinato a portare alla distruzione della relazione.

Nella Love Addiction (Dipendenza in amore) si sceglie e si insegue una persona sfuggente, non disponibile, impegnata in qualcosa di più importante, idealizzata a prototipo del marito perfetto, ma che maltratta e camuffa la sua paura di perdere l’altro disprezzando e bistrattando. Si genera in questo modo una relazione nata sulla scia di una serie di paure che portano i due coniugi a autoinfliggersi sofferenza, fisica e psicologica. La donna affetta da “dipendenza in amore”, o Love Addiction, cerca nell’altro delle conferme essendo incapace di individuarle e riconoscerle in se stessa, per questo, l’altro diventa lo specchio ed il nutrimento da cui si finisce col dipendere. La differenza sostanziale con le altre forme di dipendenze, è che quella affettiva si sviluppa nei confronti di una persona e non di un oggetto, come la droga o l’alcool, e questo rende la dipendenza in amore più difficile da riconoscere e da contrastare.

L’amore dipendente:

  • è ossessivo, con la tendenza a esercitare un controllo assoluto sull’oggetto d’amore;
  • è parassitario, basato su continue richieste di assoluta devozione e di rinuncia da parte dell’amato;
  • è caratterizzato dalla stagnazione e dall’evitamento del sociale, ossia la tendenza a chiudersi alle esperienze esterne per paura del cambiamento, soffocando qualsiasi desiderio o interesse personale in nome di un amore che occupa il primo posto nella propria vita;
  • è contrassegnato da dedizione totale ai voleri dell’altro, determinando una mancanza di riconoscimento delle proprie necessità.

Una forma più severa di dipendenza in amore è costituita dalla co-dipendenza. Il co-dipendente rinuncia ai propri bisogni e desideri, disconoscendoli e negandoli, per abbracciare in toto la volontà dell’altro violento. I co-dipendenti hanno sempre la tendenza a coinvolgersi in relazioni con persone con gravi disturbi di personalità, con disturbi del controllo degli impulsi o co-dipendenti. I partner del co-dipendente è una persona maltrattante che, nella maggior parte dei casi, perpetua comportamenti già vissuti nell’infanzia un ambiente familiare intriso di violenza e per questo non considerato un problema da parte della compagna. Quindi, la donna che subisce giustifica il maltrattamento perché avendolo subito lo trova una forma di riconoscimento affettivo.

Quindi, concludendo, per quanto doloroso e sofferto possa essere lasciare un compagno maltrattante, è importante diventare consapevoli di avere una relazione fallimentare, e tornare a vivere accettando di essere sole, ma al sicuro.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Neuroscienze: Il filtro Neuronale degli stimoli nervosi per la Memoria

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un sistema a filtro nei neuroni per selezionare gli stimoli nervosi più importanti e inibire gli altri: avvviene nei dendriti. 

Ogni attività nel cervello comporta il passaggio di segnali tra i neuroni; si stima che anche 1.000 segnali possano piovere su un singolo neurone contemporaneamente. Per garantire che specifici segnali raggiungano la destinazione, il cervello possiede un sofisticato sistema inibitorio. Stefan Remy ei suoi colleghi del German Center for Neurodegenerative Diseases e della Bonn University hanno fatto luce su come funziona questo meccanismo.

Il sistema si comporta come un filtro, lasciando passare solo gli impulsi più importanti, spiega Remy. “Questo produce degli schemi neuronali specifici che sono indispensabili per la conservazione a lungo termine nella memoria.

LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI SULLA MEMORIA

Malattia di Parkinson e Memoria Prospettica: l’Efficacia Farmacologica sul Deficit Cognitivo© V. Yakobchuk - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Malattia di Parkinson e Memoria Prospettica: l’Efficacia Farmacologica sul Deficit Cognitivo

I ricercatori si sono chiesti come funzioni questo raffinato sistema di controllo e come i segnali inibitori siano in grado di produrre specifici segnali di uscita. Da tempo si sa che questo sistema inibitorio è fondamentale per il processo di apprendimento e ci sono evidenze del fatto che questo si inceppi nei pazienti con Alzheimer. Remy e il suo team hanno studiato le cellule nervose dell’ippocampo, una regione del cervello che svolge un ruolo cruciale nella formazione della memoria.

Le informazioni che impariamo o ricordiamo vengono elaborate nel cervello attraverso impulsi nervosi. I segnali in ingresso entrano nella cellula come segnali eccitatori, dove vengono trasformati da strutture ramificate, i dendriti, e vengono inviati selettivamente ai neuroni vicini. I dendriti in questa regione del cervello servono come amplificatori per segnali sincroni.

LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI DI NEUROSCIENZE

Siamo stati in grado di dimostrare che in specifici dendriti, i dendriti “forti”, i segnali cluster vengono amplificati molto bene. I dendriti “deboli” invece trasmettono segnali solo in alcune fasi“, spiegano i ricercatori. I dendriti sono eccitabili in misura diversa: quelli “forti” trasmettono segnali eccitatori sincroni in modo molto preciso e affidabile, e possono resistere a qualsiasi inibizione. Questo assicura che alcuni segnali, presumibilmente quelli più rilevanti per l’apprendimento e la memoria, vengano trasmessi in modo affidabile.

Ciò si traduce in schemi di attivazione che si ripetono periodicamente, creando una co-attivazione di gruppi di cellule specifiche (assembly). Per cui per l’immagazzinamento nella memoria a lungo termine alcuni gruppi neuronali devono essere ripetutamente attivati nello stesso ordine. Questi modelli di attività sono abilitati dal sistema inibitorio. Ciò spiega perché la mancanza di questo sistema in pazienti affetti da Alzheimer abbia conseguenze così drammatiche. Senza di esso, infatti, l’archiviazione delle associazioni in memoria a lungo termine non può avere luogo.

I segnali che vengono ricevuti dai dendriti “deboli” possono essere trasmessi soltanto durante le fasi di inibizione debole; grazie alla “plasticità intrinseca” alcuni dendriti possono tuttavia essere trasformati in “forti” durante questo processo. Solo se la trasformazione avviene i dendriti saranno in grado di trasmettere un segnale specifico. Questo meccanismo di apprendimento del tutto nuovo, che avviene per lo più durante le fasi di attività intensa, come quando sperimentiamo qualcosa di nuovo, si verifica a livello dei dendriti e non a livello sinaptico, come già era stato osservato in precedenza

I risultati di Remy e dei suoi colleghi rappresentano un passo importante verso una migliore comprensione dei meccanismi di apprendimento e memoria.

 LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI SULLA MEMORIA

LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI DI NEUROSCIENZE

 

BIBLIOGRAFIA: 

Insecure attachment and externalizing behavior problems

 

– Attachment Series – 

Insecure attachment and internalizing behavior problems. - Immagine: © lithian - Fotolia.comInsecure attachment style has been linked to the development of child psychopathology since the beginnings of attachment theory (Bowlby, 1973). More recent work has investigated insecure attachment as a predictor of externalizing and internalizing behavior problems in children.

While the link is sound in theory, empirical evidence is difficult to come by. This is largely because of costly methodological necessities which include the need for large scale, longitudinal studies. Here I will discuss findings related to insecure attachment as a predictor of externalizing problems in children. In the future I will discuss insecure attachment but as a predictor of internalizing behavior.

Erickson, Sroufe and Egeland (1985) used longitudinal methodology to examine 96 children from a high risk group of mothers starting from birth until preschool. Attachment measures were taken using the Strange Situation Procedure at 12 and 18 months.

At the preschool period, teacher questionnaires were completed and school observations were taken. The results demonstrated that, in comparison to securely attached children, anxious/avoidant children were more prone to outbursts and expressing negative emotion. In a meta-analysis of 69 studies (Fearon et al., 2010) found a significant association between insecure attachment and externalizing behavior problems.

The measuring and styles of mother-child attachment. - Immagine: © Alena Yakusheva Fotolia.com.
Recommended: The measuring and styles of mother-child attachment

Interestingly, larger effects were found in boys and in clinical samples. Children with a disorganized attachment were at the largest risk for developing externalizing behavior problems, followed by children with avoidant and then resistant attachment styles.

It is difficult to draw conclusion about the relationship between insecure attachment and the later development of externalizing disorders based on two studies. However, it is important to examine the methodologies of the studies. The Erickson et al. (1985) study was longitudinal, had a large sample, the industry gold standard for measuring attachment and included school observations and questionnaires. Thus the results of the study were more profound. In the same vein, Fearon et al. (2010) was a meta-analysis that examined the results of 69 separate studies.

Therefore the combination of the findings from these powerful studies forms strong conclusions about the relationship between insecure attachment and the development of externalizing disorders in children.

 

 

REFERENCES:

La Compassione da cosa è determinata?

 di Francesca Fiore, Naomi Aceto, Lucchetti Elena, Milko Prati.

 

La compassione da cosa è determinata?. - Immagine: © DAN - Fotolia.com

La compassione è uno stato mentale che invoca l’altruismo e lo fa agire. Si contrappone al desiderio di punizione e di vendetta.

Nell’immaginario collettivo il termine compassione è spesso affiancato a quello di saggezza, infatti se ci soffermassimo su questi due  concetti, per certi versi, sarebbe difficile scinderli.

Entrambi sussumono il significato di vivere in armonia con l’ambiente e il contribuire attivamente al benessere degli altri.

Ma la compassione comprende aspetti emotivi come l’amore e la pietà, mentre la saggezza è guidata da una forte componente intellettuale. La conoscenza, dunque, intesa come cammino verso il sapere, è indispensabile per raggiungere la saggezza e per esercitare la compassione.

La compassione mostra aspetti affini al concetto di empatia, ovvero sentire e soffrire con il nostro prossimo, immedesimandosi nel suo dolore, vivere la stessa emozione dell’altro.

Secondo Price (2007) la compassione è uno stato mentale che invoca l’altruismo e lo fa agire.

Partendo da questo concetto, si è dimostrato come gli individui percepiti come simili a se stessi, non solo evochino più compassione ma, a parità di situazione, inducano i soggetti a mettere in atto comportamenti altruistici rispetto a quelli agiti nei confronti di persone diverse (Valdesolo e De Steno, 2011). Sembrerebbe che la sincronia, indotta da una valutazione di somiglianza, rafforzi una risposta compassionevole nei confronti delle vittime morali favorendo un aumento di comportamenti caritatevoli, concordi con una serie di regole morali. 

Quindi, la compassione potrebbe essere definita come una forza morale?

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Psicologia del Perdono: Azioni & Parole

La risposta, secondo molti leader spirituali, è affermativa. L’essere compassionevole ha un effetto radiante poiché porta ad estendere la gentilezza e il perdono agli altri, anche nei confronti di coloro che hanno trasgredito intenzionalmente (Dalai Lama & Ekman, 2008). Come tale, la compassione si contrappone al desiderio di punizione e di vendetta: funziona come un sentimento morale in grado di inibire le azioni che di solito comportano una escalation di violenza (Davidson e Harrington, 2002).

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU ETICA E MORALE

Valutare questo aspetto è molto difficile vista l’impossibilità di separare la compassione da altri fattori sociali, etici, morali e religiosi come l’essere tolleranti (Berry, Worthington, O’Connor, Parrott, e Wade, 2005), oppure perdonare l’altro (McCullough, Worthington, e Rachal, 1997). 

I sentimenti di compassione provati nei confronti di qualcuno sembrano essere in grado di ridurre la pena anche verso quegli individui che hanno chiaramente trasgredito in maniera irrimediabile e non hanno cercato il perdono per le loro azioni. Il meccanismo presente alla base di questo effetto, tuttavia, è ancora da esplorare, l’essere compassionevole può portare alla riduzione del desiderio di punizione, migliorando il controllo cognitivo circa la punizione da infliggere al trasgressore (Oveis, Horberg, e Keltner, 2010).

E’ possibile che alti livelli di compassione possano essere compensati dal desiderio di punire chi genera un disagio (Meyers, Lynn, &Arbuthnot, 2002). Infatti, esistono casi in cui questi aspetti altruistici vengono meno per cedere il posto all’obbedienza. 

La violazione dei propri principi morali e altruistici spesse volte è determinata dal grado di obbedienza mostrato nei confronti dell’autorità. Il sottostare a delle regole indurrebbe uno stato eteronomico, in cui la persona diventa strumento per eseguire degli ordini. Quindi, la compassione viene meno quando non è possibile accedere per causa di forza maggiore alla moralità (Milgram, 1964)

A tutt’oggi, la natura esatta delle forze che influenzano i meccanismi alla base della compassione è ancora difficile da comprendere, tuttavia aiutare gli altri è comunque un processo costoso, sia in termini di risorse fisiche sia psichiche. Concludo citando Aristotele: “L’uomo saggio non persegue la felicità, ma l’assenza di dolore“, quindi che sia caritatevole o meno l’importante è compiere azioni che possano non farci star male.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Religione: Credenti e Non Credenti di fronte alla Guerra

 

Religione- Credenti e Non Credenti di fronte alla Guerra. - Immagine: © vladischern - Fotolia.comComunità religiose ed individualismo programmatico: credenti e non credenti di fronte alla guerra. La religione è una forza generatrice di pace? O piuttosto l’humus che alimenta ed alimenterà le guerre?

Sono nato negli anni ’70. Durante la mia adolescenza la cultura laica ha acquisito quella prevalenza assoluta che caratterizza indubbiamente la modernità in Occidente.

Nell’infanzia ho imparato che il Vangelo di Cristo insegna la pace e l’amore.

Nella mia adolescenza mi sorprendevo perché il cristianesimo veniva persistentemente associato alla guerra, nelle opere degli intellettuali più creativi, così come negli interventi dei miei coetanei durante le assemblee degli studenti.

Certo la storia forniva alcuni esempi eclatanti: dalle crociate alle guerre di religione nell’Europa del ‘500, fino al conflitto arabo israeliano, gli schieramenti opposti erano frequentemente identificati anche da differenti appartenenze religiose.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULLA RELIGIONE

Percepivo, però, nella cultura che mi circondava, un’accusa implicita e assai più inquietante. Nella prospettiva della cultura laica l’esperienza religiosa non costituirebbe solamente un elemento di coesione e un vessillo identitario per i combattenti. La guerra troverebbe nutrimento proprio nello stato di emozionalità indifferenziata e di apertura percettiva che caratterizza l’uomo a contatto con il Sacro.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Il Pensiero Analitico e la Fede Religiosa

Ricordo, a questo proposito, un tema proposto credo per un esame di maturità di quegli anni. Ai candidati si chiedeva di commentare il titolo di un’opera di Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”. Come a dire, solo la freddezza, l’intelletto che misura e classifica, la concretezza del presente, affrancherebbero l’uomo dal suo radicale istintuale, dall’annebbiamento prodotto dagli impulsi e dalla rabbia. Solo la fredda ragione salverebbe l’uomo dalla guerra.

In questo breve intervento cercherò di rispondere dunque a questa domanda semplice e diretta: la religione è una forza generatrice di pace? O piuttosto l’humus che alimenta ed alimenterà le guerre?

La mia riflessione si baserà sulle mie esperienze, nella mia vita di uomo e di cristiano e nel mio lavoro di professionista a contatto con la malattia mentale, con l’uomo nella sofferenza e nella disperazione. Sotto questo profilo il mio riferimento è la teoria psicoanalitica introdotta da Sigmund Freud e continuamente arricchita e sviluppata fino ai giorni nostri.

Quando il sole della primavera torna ad illuminare i cieli Lombardi dopo il grigio inverno, amo salire lungo la ripida mulattiera che da Civate – presso Lecco – conduce ai 630 metri dell’abazia di san Pietro. L’ingresso è insolitamente rivolto ad Oriente. I monaci che abitavano questi luoghi nell’XI secolo sentirono il bisogno di ringraziare Dio per le gioie della sacra liturgia aprendo il cuore e lo sguardo verso i lago di Pusiano e di Annone e la sconfinata pianura che si apre ai piedi del Cornizzolo.

Invertirono perciò la direzione della chiesa. Oggi noi entriamo nel tempio attraversando le antiche absidiole. Sulla parete in alto la donna vestita di luna sfugge alle insidie del maligno, e più in basso, quattro colonne sostengono i 4 fiumi del giardino dell’Eden. Una spirale destrorsa le attraversa tutte e conduce il nostro sguardo verso il cielo.

Non tutte in verità, la quarta colonna ruota al contrario, in senso antiorario. Allontana da noi e scarica in un immaginario sottosuolo le minacce delle forze del male.

Anche la Cattolica di Stilo, gioiello di architettura greco – bizantina in Italia, ha volto il suo ingresso verso l’infinito, la fiumara, la pianura, il mare. E anche qui ho scoperto una colonna anomala. Un secondo capitello, rivolto verso il pavimento, la distingue dalla altre e si sforza di proteggere l’amore ed il sacro dalla violenza e dal male.

Il male, ecco il male. Vorrei oggi parlarvi della realtà del male. Il cristianesimo è iscritto nella storia di questa collettività italiana. I suoi precetti sono filtrati così profondamente nelle nostre aspettative che a volte fatichiamo a riconoscerli. Non-violenza e amicizia tra i popoli sono forse la componente del messaggio cristiano più universalmente condivisa in Europa occidentale.

Non così la consapevolezza del male. La realtà del male, la minaccia che ha insidiato Cristo, la Chiesa, noi singoli credenti, di fatto tutti gli umani, è oggi rimossa, dimenticata. Vorrei oggi parlarvene perché è qui, temo, che la guerra trova le sue ragioni ed il suo nutrimento.

Il potere politico sociale ed economico usa ed alimenta la guerra, non c’è dubbio. Ma evidentemente non è in grado di crearla. Comportamenti aggressivi organizzati e sistematici nei confronti di altri gruppi sono già osservabili nei primati. Lo studio paleoantropologico delle comunità mesolitiche ha riscontrato ampie tracce di massacri violenti e sistematici. L’antropologia culturale ha incontrato la guerra dovunque.

Sigmund Freud era del tutto convinto che alla radice della guerra vi fosse una precisa base istintuale. Con Al di là del principio di piacere (1920) il padre della psicoanalisi aveva introdotto un’importante riformulazione della sua teoria degli istinti. Lo studio della clinica psicoanalitica e l’osservazione della vita sociale lo avevano indotto ad ipotizzare l’esistenza di un desiderio antitetico alla pulsione libidica, orientato alla sessualità e difesa della vita individuale, ora riformulato come istinto di vita.

Freud si era convinto che nell’uomo era presente, accanto all’istinto di vita, un desiderio distruttivo, orientato a ricondurre ogni forma di vita allo stato di materia inanimata.

In questo istinto di morte egli riconosceva la fonte di vari quadri psicopatologici, della resistenza ai trattamenti psicoanalitici e più in generale di ogni forma di odio tra umani.

La cocaina, Freud e la lezione dei maestri. - Immagine: licenza Creative Commons, Autore: http://www.flickr.com/photos/ajourneyroundmyskull/
Articolo Consigliato: La cocaina, Freud e la lezione dei maestri.

Più specificamente, nella sua nota lettera ad Albert Einstein – Perché la guerra (1932) –egli affermava che la guerra ha una precisa base istintuale in quanto la struttura della mente umana includerebbe un innato istinto distruttivo. Nell’istinto di morte risiederebbe dunque il motore motivazionale dell’uccisione sistematica di altri uomini.

Uno dei grandi maestri del cattolicesimo contemporaneo, don Luigi Giussani (1966), ci invita ad un atteggiamento di realismo nella riflessione sulle natura dell’uomo e del creato. Qui occorre davvero uno sforzo per accettare fino in fondo la complessità della natura umana. L’aggressività umana non esprime semplicemente una competizione per risorse limitate, per l’amore materno o genitale, per il denaro o per posizioni di potere. Include una componente specificamente distruttiva e sadica.

La clinica psicoanalitica così come la cronaca nera ci mostrano quotidianamente relazioni o interazioni, finalizzate al controllo, alla sottomissione, all’umiliazione dell’oggetto. Finalizzate ad indurre e mantenere situazioni di sofferenza, disperazione, impotenza.

Non occorre studiare i campi di concentramento variamente diffusi nel mondo, i massacri gratuiti di civili. La semplice esperienza della vita familiare o degli ambienti di lavoro offre abbondante materiale a testimoniare forme più larvate ma altrettanto maligne di tali meccanismi interpersonali.

Nel dopoguerra l’istinto di morte ha cerato un certo disagio tra gli psicoanalisti. E’ stato difficile ammettere l’esistenza di una radicale malvagità nell’uomo. Si è sottolineata la natura relativa dell’aggressività umana, il suo rapporto con condizioni sfavorevoli e stati di frustrazione. La posizione di Erich Fromm (Anatomia della distruttività umana, 1973) è forse quella più rappresentativa di questo punto di vista.

La meditazione sulla figura e sulla biografia del Cristo può illuminare la nostra riflessione. Cristo ci viene incontro dalla croce. Perseguitato, deriso, abbandonato. Il dolore è il codice della sua condizione esistenziale.

 E proprio questa è la ragione sensibile dell’universalità del suo messaggio. Cristo ci può parlare dalla croce perché il dolore è la realtà più comune dell’esperienza emotiva degli umani. Dolore della frustrazione, dolore della separazione, dolore dell’impotenza, dolore dell’umiliazione. Dolore manifesto, gridato, dolore celato, dolore negato, dolore talvolta inconscio ed accessibile solo all’osservazione psicoanalitica.

Il dolore fisico ha notoriamente riflessi comportamentali. Negli animali è in grado di scatenare risposte di fight or flight, risposte aggressive, che hanno un evidente valore adattativo. Il dolore fisico genera rabbia e aggressività. La psicoanalisi insegna che anche il dolore emotivo – il dolore mentale – ha riflessi comportamentali.

La via di fuga più immediata, se vogliamo più primitiva, al dolore mentale è l’evacuazione. Il modo più semplice di liberarsi del dolore mentale è inserirlo, travasarlo in un altro essere umano. Il sadico, l’aguzzino, agente della gestapo o capoufficio autoritario, feriscono perché specchiandosi nella vittima trovano una pacificazione al proprio dolore personale.

Abbiamo discusso finora l’aggressività individuale. Ma la guerra? Per comprendere la guerra dobbiamo spostare il nostro obiettivo dagli individui, dalle coppie vittima-carnefice, ai gruppi, piccoli e grandi. L’aggressività individuale si rivolge agli individui. Ma è una forza che destabilizza i gruppi, i gruppi istituzionali, ma anche le famiglie, le coppie. L’odio ed il sadomasochismo coniugale sono alla base della attuale crisi dell’istituzione coniugale. Avvelenano cronicamente il clima familiare. Rendono i legami di coppia fragili. Ancora oggi, in un’epoca descritta come non violenta o meno violenta di quelle che l’hanno preceduta, la famiglia è lo scenario della maggior parte degli omicidi.

Più in generale, l’aggressività reciproca rappresenta una costante minaccia alla sopravvivenza di tutti i gruppi umani. Periodicamente le comunità umane sono turbate da conflitti interni. Nel corpo sociale più ampio si vanno differenziando gruppi più piccoli. La loro identità può essere variamente definita. I membri di ciascuna fazione possono essere accomunati dall’appartenenza ad una determinata etnia, area geografica, classe sociale, partito politico, e naturalmente confessione religiosa.

Quando la Religione diventa un'Ossessione: la Scrupolosità. - Immagine: © Alex Motrenko - Fotolia.com
Articolo consigliato: Quando la Religione diventa un’Ossessione: la Scrupolosità.

Per limitarci alla sola storia europea possiamo pensare alle lotte di fazione dei comuni medioevali. Alla più ampia prospettica dei guelfi e dei ghibellini, alle persecuzioni e guerre civili tra cattolici, luterani e calvinisti, alla guerra rivoluzionaria di Russia, alla carneficina che insanguinò la Spagna nella prima metà del secolo scorso. Le ultime attenuate tracce di questi processi di frammentazione della società umana sono state riconoscibili nelle disciplinate lotte sociali che hanno caratterizzato gli anni sessanta del secolo scorso.

La sopravvivenza del corpo sociale è messa in costante pericolo dall’aggressività circolante nel gruppo. La formazione e la persistenza dei gruppi umani sono possibili solo nella misura in cui l’organizzazione ed il funzionamento del gruppo consentono di processare e moderare l’aggressività interna.

Dobbiamo a Melanie Klein la comprensione dei processi con cui la mente umana è in grado di tutelare le relazioni oggettuali più vitali dell’individuo. La Klein osservò come l’aggressività e l’odio che inevitabilmente infiltrano la relazione madre bambino fin dalle prime fasi dello sviluppo umano possono essere sottratte alla coscienza tramite meccanismi di scissione e proiezione. Nelle relazioni d’amore l’aggressività può cioè essere reindirizzata, proiettata verso oggetti esterni. La loro realtà viene ad essere alterata, la loro rappresentazione assume caratteri distorti, negativi. Ecco nascere il sordido ebreo, il prete perverso, il comunista violento, l’africano feroce e selvaggio.

Mi piace pensare ai gruppi umani come a degli organismi unicellulari. All’interno, finché il sistema è stabile, regna la concordia reciproca, forse l’amore. La interazioni tra gli individui possono essere profonde, ma l’odio e l’ostilità non sono percepite. Sono rivolte all’esterno, agli esseri che popolano l’ambiente extracellulare. Oltre la membrana plasmatica sono in agguato micidiali predatori.

Le società umane si formano e si organizzano attraverso processi lunghi e complessi. Esse acquisiscono così una identità coerente ed una sufficiente armonia interna. L’armonia persiste però solo fino al confine, geografico e culturale. Tra forze politico sociali vicine si crea così una soglia di faglia di frattura. Come le zolle della crosta terrestre, i gruppi umani, le nazioni, le razze (io metterei le culture, il concetto di razza è oggi molto in discussione), le religioni sono in perenne movimento di collisione le une rispetto alle altre. Quando la tensione nella crosta terrestre supera un valore soglia sperimentiamo gli effetti devastanti di un terremoto. Quando la conflittualità tra gruppi umani supera una soglia si scatena la violenza: l’omicidio, la faida, la guerriglia, la guerra.

MART Rovereto - Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970-1990. - Immagine: © Victoria & Albert Museum
Articolo Consigliato: Stile e Sovversione nella Psicoanalisi Postmoderna

La storia dimostra ampiamente come la guerra possa rappresentare un eccezionale strumento per mantenere la coesione sociale. Le gazzette del biennio precedente alla I Guerra Mondiale sono piene di scioperi, manifestazioni represse nel sangue, insurrezioni, rivoluzioni. L’odio verso un nemico regalò senza dubbio qualche ultimo e insperato anno di stabilità alle monarchie delle belle époque. Già nel 1095 Papa Urbano II, chiamando a raccolta cavalieri e popolani per la Prima Crociata sottolineava gli effetti di coesione civile offerti da una guerra combattuta all’esterno dell’orizzonte geografico della cristianità latina:

vi uccidete l’un l’altro, vi fate guerra, e frequentemente morite per le reciproche ferite. Allontanate da voi l’odio reciproco, finiscano le contese, cessino le guerre, si acquietino tutti i dissensi e le controversie. Avviatevi sulla strada del Santo Sepolcro, strappate quella terra dalla razza malvagia e sottomettetela a voi. … per la remissione dei vostri peccati e con la certezza di acquisire la gloria eterna del Regno dei Cieli.

Ora abbiamo – mi sembra gli elementi per rispondere alla domanda che abbiamo formulato all’inizio di questa conversazione: le religioni sono una forza che promuove la pace, o piuttosto contribuiscono a generare e mantenere le guerre tra popoli? L’esperienza religiosa non è ovviamente solo un fatto cognitivo, è una prassi, è uno stile di vita, specificamente è uno stile di vita comunitaria.

Le religioni, sicuramente il Cristianesimo e l’Islam promuovono un’esperienza di vita sociale più intensa. Incoraggiano l’apertura ad esperienze comunitaria di tipo fusionale, ad una condivisione delle emozioni più profonde in un contesto più ampio della famiglia nucleare.

Per l’uomo religioso l’esperienza dell’amore, della malattia, della morte sono sperimentate in una dimensione comunitaria in una misura ignota agli stili della società materialista ed individualista. La preghiera comune, l’esperienza liturgica e rituale del lutto, la condivisione in contesti di gruppo dei propri vissuti emotivi, come avviene nei vari movimenti ecclesiali, creano tra i membri delle confessioni religiosi legami più intensi rispetto a quelli usuali nell’occidente laico.

Quale può essere l’impatto sociale di questa coesione più intensa? Come è possibile realizzare un’armonia così profonda? Qual è il destino dell’aggressività che viene così ad essere scissa ed allontanata? Il legame tra i membri di una confessione religiosa può forse essere mantenuto solo grazie alla crescente ostilità verso i gruppi umani situati al di fuori dell’orizzonte di appartenenza?

Freud stesso era convinto che la minaccia della guerra potesse essere allontanata solo da una umanità nuova, in cui ogni individuo fosse in grado di subordinare la propria vita istintuale ai dettami della ragione, realizzando così una libertà di pensiero ostacolata a suo parare dal controllo della Chiesa.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: 11 Settembre: Immagini violente & Impatto dei Traumi Collettivi

Temo proprio che questa prospettiva sia del tutto illusoria. E’ vero, le società cronologicamente mature, le società caratterizzate da elevati livelli di individualismo e materialismo sono poco combattive. L’Europa moderna schiera aerei sofisticati su vari fronti, ma sembra del tutto incapace di sostenere una vera guerra. Anzi, sembra incapace di qualsiasi significativa lotta per la difesa dei diritti sociali ed umani.

L’occidente materialista non rinuncia intenzionalmente alla guerra. Senza una forte identità sociale, nazionale, politica, ma anche religiosa, una guerra è sostanzialmente impossibile. La non belligeranza dei pacifisti europei è in qualche misura inautentica. E’ possibile solo nel contesto di un grande impero nucleare, che allontana e proviene le minacce che giungono dall’esterno.

Tuttavia l’aggressività non è affatto assente dalla società moderna, si piega verso l’interno. Disgrega le forze sociali, e le famiglie. Si rivolge all’interno dell’individuo, trova apparente sollievo nel crescente uso di sostanze, e verosimilmente è un fattore nella diffusione di alcune gravi malattie, come il cancro.

Abbiamo detto che il destino dell’uomo è segnato dal dolore. Il fardello di Adamo e di Eva è pesante. Le condanne loro rivolte dal creatore, lavoro e morte, riassumono una realtà di dolore ben più vasta.

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicologia del Lutto: Accettazione & Elaborazione

L’aggressività e l’odio non sono però le uniche soluzioni, sono semplicemente le più semplici. Sentimenti di lutto, umiliazione, invidia, gelosia, rabbia possono essere proiettati. Ma possono anche essere pensati, compresi e tollerati. Possono essere digeriti e controllati ogniqualvolta trovino accoglienza autentica nel contesto di una relazione di amore.

L’orecchio di un uomo che ascolta è il farmaco più efficace per attenuare il dolore emotivo. Proiezione e sadismo diffondono il dolore. Amore e condivisione lo trasformano. E promuovono la maturazione e lo sviluppo, la creazione di realtà sociali più creative e meno paranoidi.

Il contributo più prezioso delle religioni allo stabilimento della pace non risiede solo nei santi precetti morali che esse offrono all’uomo. In un mondo sempre più individualista e frammentario l’esperienza religiosa crea il luogo e lo spazio per una vita comunitaria più intensa.

E’ proprio in questo spazio che l’uomo può condividere il proprio dolore in una dimensione di amore reciproco. A parere di chi scrive solo la pratica e l’esperienza della comunione fanno crescere le comunità umane e possono prosciugare le sorgenti dell’odio.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

Apprendimento del Linguaggio: i Bambini già a 3 mesi riconoscono Regole Complesse

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La velocità e l’apparente facilità con cui i bambini piccoli imparano le basi di una lingua stupisce da sempre genitori scienziati, infatti comunemente si pensa che l’apprendimento del linguaggio complesso sia prerogativa degli adulti.

Tuttavia, un gruppo di ricercatrici del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Leipzig hanno scoperto che i neonati con meno di tre mesi di vita sono in grado di estrarre e apprendere automaticamente regole complesse dalla lingua parlata; compito che agli adulti riuscirebbe solo grazie a un processo di ricerca e riconoscimento attivo.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

Jutta Mueller, Angela D. Friederici and Claudia Maennel hanno fatto ascoltare a dei neonati per 20 minuti un flusso di sillabe mentre misuravano le risposte cerebrali dei bambini con EEG. Le coppie di sillabe comparivano insieme, ma erano separate da una terza sillaba; questa dipendenza (dependency) tra le sillabe non contigue sarebbe tipica nelle lingue naturali e si ritrova in molte costruzioni grammaticali.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Bambini: già dai 3 mesi di vita quanto contano le interazioni con papà

Le misurazioni EEG hanno dimostrato che i bambini erano in grado di riconoscere la violazione delle regole quando la combinazione si presentava con una sillaba “fuori posto”; inoltre, gli scienziati hanno, di tanto in tanto, variato il tono di una sillaba con un tono più alto con un risultato interessante: solo quei bambini il cui cervello ha reagito ai cambiamenti di frequenza del suono erano in grado di rilevare la dipendenze tra le sillabe.

LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI DI NEUROSCIENZE 

Quando gli adulti affrontano la stesso compito dimostrano di reagire alle violazioni delle regole solo quando gli si chiede di cercare esplicitamente le dipendenze tra le sillabe; particolarmente interessante secondo i ricercatori sarebbe il fatto che gli adulti che hanno dimostrato l’apprendimento della regola hanno anche mostrato una forte risposta cerebrale ai cambiamenti di tono. Mueller e i suoi colleghi concludono che, evidentemente, la capacità di riconoscimento automatico si perde dopo la prima infanzia.

LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI SULL’ARGOMENTO: BAMBINI

Questi risultati non solo possono aiutare a comprendere in che modo i bambini riescano a imparare una lingua così rapidamente durante il primo sviluppo, ma mettono in evidenza anche un forte legame tra capacità uditive di base e capacità di apprendimento di regole sofisticate. Gli scienziati stanno ora indagando se nei bambini che hanno mostrato differenze in risposta ai cambiamenti di tonalità e nella capacità di apprendimento delle regole siano riscontrabili effetti a lungo termine sullo sviluppo del linguaggio.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

LEGGI GLI ALTRI ARTICOLI DI NEUROSCIENZE – BAMBINI E ADOLESCENTI

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

test fullscreen

cancel