ll presente lavoro vuole analizzare la correlazione fra stili di attaccamento e metacognizione fornendo quindi un contributo all’approfondimento dei temi sopra citati.
Il campione della ricerca è costituito da 30 soggetti di entrambi i sessi, di età compresa tra i 25 e i 60 anni. Ad ogni soggetto sono stati somministrati i seguenti strumenti di indagine:SCL-90; ASQ per valutare le differenze individuali nell’attaccamento adulto; SVaM (V 4.0), una scala di valutazione della metacognizione e l’AAI che è stata utilizzata come trascritto su cui valutare le funzioni metacognitive.
L’analisi dei dati è stata condotta in due fasi e con diverse modalità.
Nella prima fase sono stati presi in considerazione i soggetti che avevano ottenuto valori maggiori di 60 nelle singole dimensioni patologiche; l’analisi della varianza evidenzia una correlazione positiva tra punteggi elevati delle suddette dimensioni e maggiore insicurezza nelle relazioni di attaccamento.
Per quel che riguarda le correlazioni significative tra funzioni metacognitive e sintomatologia, nei soggetti con sintomi di tipo ansioso e depressivo risulta maggiormente ingaggiata la funzione “autoriflessività-monitoraggio”. (Non sono emerse invece correlazioni significative tra metacognizione e stili d’attaccamento).
In seconda analisi è stata eseguita una bivariata condotta su tutti i 30 soggetti senza considerare il cut-off della prima ottenendo una sostanziale conferma dei risultati.
I trascritti AAI sono stati successivamente codificati utilizzando l’Aimit al fine di correlare la variabilità delle funzioni metacognitive con i sistemi motivazionali.
La paura è una delle emozioni fondamentali degli esseri viventi, ci mette in guardia dai pericoli e ci spinge alla sopravvivenza.
“Dentro faceva più freddo. La pelle del morto era sudicia, incrostata di fango e merda. Era nudo. Alto come me, ma più magro. Era pelle e ossa. Le costole gli sporgevano. Doveva avere più o meno la mia età. Gli ho toccato la mano con la punta del piede, ma è rimasta senza vita. Ho sollevato la coperta che gli copriva le gambe. Intorno alla caviglia destra aveva una grossa catena chiusa con un lucchetto. La pelle era scorticata e rosa. Un liquido trasparente e denso trasudava dalla carne e colava sulle maglie arrugginite della catena attaccata a un anello interrato. Volevo vedergli la faccia. Ma non volevo toccargli la testa. Mi faceva impressione. Alla fine, tentennando, ho allungato un braccio e ho afferrato con due dita un lembo della coperta e stavo cercando di levargliela dal viso quando il morto ha piegato la gamba. Ho stretto i pugni e ho spalancato la bocca e il terrore mi ha afferrato le palle con una mano gelata. Poi il morto ha sollevato il busto come fosse vivo e a occhi chiusi ha allungato le braccia verso di me. I capelli mi si sono rizzati in testa, ho cacciato un urlo, ho fatto un salto indietro e sono inciampato nel secchio e la merda si è versata ovunque. Sono finito schiena a terra urlando. Anche il morto ha cominciato a urlare. Mi sono dimenato nella merda. Poi finalmente con uno scatto disperato ho preso la corda e sono schizzato fuori da quel buco come una pulce impazzita. Pedalavo, mi infilavo tra buche e cunette rischiando di spezzarmi la schiena, ma non frenavo. Il cuore mi esplodeva, i polmoni mi bruciavano. Ho preso un dosso e mi sono ritrovato in aria. Sono atterrato male, ho strusciato un piede a terra e ho tirato i freni, ma è stato peggio, la ruota davanti si è inchiodata e sono scivolato nel fosso a lato della strada. Mi sono rimesso in piedi con le gambe che mi tremavano e mi sono guardato. Un ginocchio era sbucciato a sangue, la maglietta era tutta sporca di merda, una striscia di cuoio del sandalo si era spezzata. Respira, mi sono detto. Respiravo e sentivo il cuore placarsi, il fiato tornare normale e improvvisamente mi è venuto sonno.”(N. Ammaniti, Io non ho paura, pp. 52-53).
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La paura è una delle emozioni fondamentali degli esseri viventi, ci mette in guardia dai pericoli e ci spinge alla sopravvivenza.
Di fronte a un pericolo, infatti, il nostro corpo produce un ormone – la ben nota adrenalina – che induce cambiamenti fisici e mentali e che ci prepara all’azione: fuggo o rimango immobile (flight or fight). Se facciamo un salto indietro ai nostri antenati riusciamo a capire come questa emozione li abbia protetti da animali selvaggi o da vicini ostili.
Attualmente, almeno nelle società occidentali, gli stimoli che ci inducono paura non sono più leoni o invasioni vicine, quanto piuttosto la perdita di un lavoro, un cambiamento di vita o il sommarsi di problemi quotidiani. Ma i cambiamenti corporei, il pensiero e le reazioni comportamentali rimangono le stesse dei nostri antenati. Così come la paura, ansia e preoccupazioni che spesso i nostri pazienti ci chiedono di curare (anzi, di eliminare!), sono estremamente utili e diventano un problema solamente quando vengono vissute in maniera esagerata o fuori contesto.
I cambiamenti corporei
“Ho stretto i pugni e ho spalancato la bocca e il terrore mi ha afferrato le palle con una mani gelata…Il cuore mi esplodeva, i polmoni mi bruciavano…Le gambe che mi tremavano”
Reazioni corporee della paura includono: bocca secca, aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, motilità intestinale, tensione muscolare, aumento della sudorazione. Il nostro corpo si sta preparando a una reazione immediata. Senza tali cambiamenti, infatti, saremmo del tutto inadeguati di fronte al pericolo.
Proviamo a pensare a un atleta a una finale olimpica: i sintomi ansiosi elevati possono essere paragonati a quelli della paura, senza i quali il nostro atleta non sarebbe pronto a reagire immediatamente al fischio di inizio e a dare il meglio di sè.
I cambiamenti psicologici
“Poi finalmente con uno scatto disperato sono schizzato fuori come una pulce impazzita”
La reazione psicologa a stimoli pericolosi o ansiogeni risulta in un cambiamento nel modo in cui noi pensiamo e che diventa adattivo in quel contesto, in quanto ci prepara a far fronte alla minaccia. Per esempio, quando siamo sotto particolari stressdiventiamo più focalizzati sul problema, ci concentriamo più a lungo e incrementiamo le nostre capacità di problem-solving. Similmente, avvertiremo anche un cambiamento in ciò che proviamo, come l’essere più irritabili o tesi.
I cambiamenti comportamentali
“I capelli mi si sono rizzati in testa, ho cacciato un urlo, ho fatto un salto indietro…Pedalavo, mi infilavo tra buche e cunette rischiando di spezzarmi la schiena, ma non frenavo…Ho preso un dosso e mi sono ritrovato in aria. Sono atterrato male, ho strusciato un piede a terra e ho tirato i freni, ma è stato peggio, la ruota davanti si è inchiodata e sono scivolato nel fosso a lato della strada. Mi sono rimesso in piedi…”
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Le reazioni comportamentali alla paura consistono sostanzialmente nello scappare o nell’evitare. Se al parco mi accorgo che un ramo di un albero mi sta cadendo addosso, troverò la forza di fare un salto indietro all’improvviso e allontanarmi. Senza questo tipo di risposta, mi troverei schiacciato dal ramo. Sotto la spinta della paura, siamo in grado di fare cose che non avremmo mai pensato di riuscire a compiere.
I cambiamenti corporei, cognitivi e comportamentali fanno parte della natura delle emozioni, in particolare della paura, non solo per fare fronte agli stress ma, in ultimo, per garantirci la sopravvivenza. Si tratta, perciò, di esperienze vitali e necessarie.
Le cose cambiano quando lo stress diventa cronicamente intenso e slegato da stimoli contingenti. Nella seconda parte di questo articolo vedremo come i cambiamenti legati alla paura da adattivi diventano disadattivi, originando molti dei più comuni disturbi psicologici.
I soggetti che percepiscono il proprio partner come corrispondente ai propri ideali risultano più resilienti e tolleranti nei suoi confronti.
È opinione piuttosto diffusa che l’idealizzazione del partner e successive più o meno profonde delusioni vadano a braccetto. In effetti, non si tratta semplicemente di una teoria ingenua, ma di un concetto più volte confermato in letteratura: dopo un primo “idilliaco” periodo post-matrimoniale, l’amarezza nel constatare che la persona con cui intendiamo passare il resto della vita non corrisponde esattamente alle nostre aspettative sopraggiunge inevitabile. Le conseguenze? Insoddisfazione e deterioramento del rapporto (Huston, Caughlin, Houts, Smith, & George, 2001).
Ma è davvero sempre così? Sandra Murray, studiosa dell’Università di Buffalo, e colleghi hanno deciso di dare una “seconda possibilità” alla tendenza, frequente in molte coppie, a crearsi un’immagine ideale del partner, più o meno fedele alla realtà (Murray, Griffin, Derrick, Harris, Aloni, & Leder, 2011). Gli autori hanno condotto uno studio longitudinale al fine di testare se l’idealizzazione del partner portasse realmente ad un deterioramento del rapporto oppure, al contrario, fungesse da fattore protettivo dall’insoddisfazione di coppia.
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Lo sappiamo tutti: il tempo è nemico delle relazioni, in particolare di quelle matrimoniali. Gli anni passano, aumentano i conflitti e i difetti dell’altro ci sembrano più evidenti e difficili da tollerare. Il presupposto da cui gli autori sono partiti è che vedere il partner sotto una luce positiva possa aiutare ad affrontare in modo più efficace questi conflitti.
Sono state perciò create due misure, una correlazione “percepito-ideale” (tra la valutazione data da un soggetto al suo partner e la caratterizzazione, data dal soggetto sulla base di 20 qualità prestabilite, di un ipotetico partner ideale) ed una correlazione “reale-ideale” (tra la caratterizzazione data dal soggetto dell’ipotetico partner ideale e una auto-caratterizzazione creata dal partner sulle stesse 20 qualità predeterminate). In questo modo è stato possibile da una parte identificare un “bias da idealizzazione”, e dall’altra osservare in che modo questo bias fosse relato alla soddisfazione di coppia. È stato poi valutato in che modo questa relazione variasse nel tempo (i soggetti sono stati testati sette volte, con distanza di sei mesi da un test all’altro).
Come previsto, i soggetti che percepivano il proprio partner come corrispondente ai propri ideali risultavano anche più resilienti e tolleranti nei suoi confronti. In tutti i momenti temporali in cui i soggetti sono stati testati, a maggiore idealizzazione corrispondeva maggiore soddisfazione.
Così, al contrario, i partecipanti allo studio che riportavano un basso livello di soddisfazione alla prima misurazione erano soggetti ad un maggior declino della stessa nel corso dei mesi. Come se non bastasse, l’idealizzazione aveva effetti benefici anche sul partner “idealizzato”, promuovendo anche la sua soddisfazione all’interno del rapporto.
Resta da chiarire perché “illudersi” funziona, e sono state sviluppate diverse ipotesi a riguardo. Innanzitutto, le persone hanno il potere di determinare il loro “destino di coppia” tramite il comportamento. In altre parole, sia i comportamenti che promuovono una relazione (ad esempio, essere supportivi) sia quelli che solitamente la indeboliscono (essere iper-critici) sono controllabili. Credere che le caratteristiche del partner riflettano i propri ideali rinforzerebbe l’ottimismo necessario ad affrontare in modo positivo ed efficace le sfide che una relazione inevitabilmente comporta (Murray & Holmes, 2011).
È anche possibile, sostengono gli autori, che sia una questione di flessibilità: se il tempo ha il potere di rivelare quanto il partner possa essere deludente, avranno più successo nelle relazioni quegli individui capaci di “aggiustare” i propri ideali, rendendoli in qualche modo sovrapponibili alle caratteristiche percepite nell’altro e rimanendo conseguentemente soddisfatti nonostante le delusioni (Kunda, 1990).
La mancanza di senso è ciò che rende il panico un’emozione così terrorizzante.
Occorre incoraggiare il paziente a trovare spiegazioni alternative per la propria vulnerabilità al panico, pensando al contesto sia della situazione che generale.
Riflettere quindi se si era in uno stato particolare affaticamento di stresso in un stato generale di fatica, sconforto esistenziale e perfino dolore. Il paziente panicoso, infatti, ha una particolare difficoltà a collegare le emozioni alle situazioni. Di qui la sua propensione a vivere le emozioni dolorose in maniera terrifica, proprio perché non cerca di trovare spiegazioni, ma le vive come stati di terrore insensato e inspiegabile.
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Aiutarlo a comprendere invece che si può essere in una situazione di vulnerabilità generale legata a un evento problematico può aiutarlo a ristrutturare il panico in maniera meno terrificante. Ad esempio, il paziente può stare vivendo una separazione, un cambio di lavoro o di residenza, o qualunque altra situazione problematica e stressante che lo può rendere più facilmente predisposto a emozioni intense. Una volta che il paziente impara a dare un significato alle proprie emozioni potrà soffrire in maniera diversa. Riconoscere di essere tristi o ansiosi per la fine di una storia sentimentaleo per un cambio di lavoro potrà aiutare la trasformazione del panico in uno stato di disagio maggiormente tollerabile perché dotato di senso. La mancanza di senso è ciò che rende il panico un’emozione così terrorizzante.
Riflettere sulla storia di vita e sulla situazione di vita del soggetto può aiutare a rivelare nuove convinzioni cognitive riguardanti la relazione con gli altri. Come abbiamo potuto già leggere, nella sintomatologia DSM del panico, infatti, troviamo spesso la convinzione che il panico sia meno probabile in presenza di figure affettive rassicuranti. Tuttavia con queste figure il paziente può intrattenere una relazione difficile, fatta di dipendenza e al tempo stesso di sofferenze e controllo reciproci. Esplorare a fondo queste relazioni può far emergere delle credenze di dipendenza.
Può essere necessario quindi analizzare a fondo la crescita del nostro paziente, il suo modo di relazionarsi con gli altri e in particolare con le figure affettivamente significative. È possibile che questa persona non riesca a concepire i legami affettivi in maniera flessibile, ma che sia incatenata a relazioni controllanti in cui egli o lei tendano a richiedere vischiosamente la presenza dei partner al loro fianco, pena lo scatenamento del panico stesso. Si tratta quindi di legami con uno sfondo ricattatorio. Non a caso, secondo David Winter, questi soggetti hanno molto a cuore il tema del tradimento e dell’abbandono.
Il partner va tenuto al guinzaglio proprio con il ricatto della necessità di essere accuditi.
Si crea quindi una relazione ambigua, in cui sia l’individuo con il panico che il suo partner condividono una soffocante schiavizzazione reciproca. Essi si costringono a vicenda a non potersi allontanare e a non poter curare spazi propri. La libertà è temuta come minacciosa, ma al tempo stesso il legame reciproco è così chiuso e controllante da essere vissuto con disagio, sconforto e dolore. E anche con rabbia, sia pure latente e poco espressa.
Oltre alla ristrutturazione cognitiva della interpretazione catastrofica si possono aggiungere degli esercizi comportamentali e meditativi che diminuiscono al sensazione di perdita di controllo.
SITCC 2012, Simposio: I MILLE VOLTI DELLA DIPENDENZA
Negli ultimi anni l’ambito delle dipendenze patologiche è diventato sempre più ampio poichè non include più solo la dipendenza da sostanze ma sta cominciando a prendere in considerazione una vasta gamma di comportamenti che in passato non esistevano o non venivano classificati come tali (internet addiction, love addiction, gioco d’azzardo patologico).
Questo simposio si è focalizzato sulla descrizione di diverse forme di dipendenza, vediamone alcune nel dettaglio.
Il simposio inizia con l’intervento della dr.ssa Cimmino, psicologa-psicoterapeuta del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Napoli. La Dr.ssa si occupa in modo specifico della cosidetta love addiction o dipendenza affettiva. La Love Addiction non viene considerata una vera e propria dipendenza, anche se presenta molte caratteristiche simili alla dipendenza da uso di sostanze.
La persona che soffre di dipendenza affettiva vive costantemente nell’ansia di poter perdere la persona amata, ha bisogno di continue rassicurazioni da parte del partner e può sviluppare con il tempo anche un fenomeno di vera e propria “astinenza affettiva” nel momento in cui il partner è assente. Si tratta di una condizione relazionale negativa caratterizzata da una mancanza cronica di reciprocità nella vita di affettiva e di coppia.
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Per comprendere i meccanismi che stanno alla base di tale fenomeno è di notevole importanza la teoria dell’attaccamento. Diversi studi in letteratura sembrano infatti dimostrare come gli individui con attaccamento insicuro (spesso insicuro-ambivalente) siano più vulnerabili e suscettibili a questa forma di dipendenza. L’adulto con un attacamento insicuro non è in grado di attivare, in situazioni particolari e stressanti, adeguati meccanismi di regolazione interna e tende ad avvalersi di ausili esterni per gestire le difficoltà (esempio: alcol, droga e nel caso della love addiction una vera e propria persona).
È importante specificare la differenza tra la dipendenza affettiva e la fase iniziale dell’innamoramento, la cosidetta “luna di miele”.
L’innamoramento è presente in tutti gli esseri umani di tutte le culture ed ha una durata diversa che può andare da qualche settimana a due anni circa. Trascorso questo periodo di tempo, l’amore non finisce ma si trasforma in qualcosa di diverso poiché entrano in gioco altri fattori, tra cui la condivisione e la pianificazione di un futuro insieme. Una persona che soffre di dipendenza affettiva non riesce ad accettare proprio questo tipo di cambiamento che caratterizza il rapporto d’amore ed inizia ad entrare in un elevato stato di allarme, interpretando qualsiasi atteggiamento del partner come una mancanza di affetto o come carenza di amore. Questo stato di allarme lo porta a ricercare il proprio compagno/a in modo sempre più frequente e ossessivo.
Durante tale fase si verifica uno shift dalla condizione piacevole di “luna di miele” ad un vero e proprio inferno, il dipendente affettivo vive un perenne stato d’angoscia e si instaura un meccanismo simile a quello dell’overdose da sostanze (se prima bastavano tre messaggi al giorno per sentirsi rassicurato/a ora ne sono necessari 10).
Spesso le persone che soffrono di love addiction presentano tratti di personalità che rientrano nel cluster B ovvero tratti narcisistici, istrionici e border ed hanno un attaccamento ambivalente o disorganizzato. Il loro partner è generalmente un soggetto rifiutante, sfuggente che loro rincorrono pensando di poterlo cambiare, redimere.
Dal punto di vista terapeutico in questi casi è sicuramente importante fornire al paziente una relazione terapeutica sicura, costante e prevedibile.Possono inoltre essere utili le tecniche immaginative e la disintossicazione relazionale ovvero l’allontanamento del partner per un certo periodo di tempo, in modo tale da poter fare ripartire la persona in modo funzionale. Importante è inoltre la ritrutturazione cognitiva e il dialogo socratico poiché spesso il motto di queste persone è “meglio essere male accompagnati piuttosto che rischiare di rimanere da soli”.
Altro intervento interessante è stato quello della Dr.ssa Barba, psicoterapeuta del centro di psicoterapia di Napoli, relativo al Gioco d’azzardo Patologico. Il gioco in generale può essere definito come un’attività ludica, divertente e di svago che per alcuni però diventa una vera e propria malattia psichiatrica, riconosciuta per la prima volta nel 1980 dall’American Psychiatric Association e definita Gioco d’azzardo Patologico (Gambling).
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In base agli studi presenti in letteratura è possibile classificare il giocatore d’azzardo in tre differenti tipologie: 1) il giocatore occasionale, il quale gioca saltuariamente ma ha un elevato controllo del proprio comportamento, scomette somme di denaro prefissate e limitate; 2) il soggetto problematico, che inizia l’attività come giocatore occasionale ma comincia a perdere il controllo della situazione (litigate con il partner, primi problemi sul lavoro ecc); 3) il soggetto patologico caratterizzato da una vera e propria diagnosi.
Ma, chiediamoci, come si comincia a giocare d’azzardo?
Generalmente la persona che comincia a giocare lo fa con intento ricreativo, di svago. Nel momento in cui arrivano le prime vittorie elevate acquisisce erroneamente un forte senso di autoefficacia, si sente sempre più abile. Quando inziano invece a presentersi le perdite, si attiva nella persona un meccanismo automatico che la porta a giocare ripetutamente, per cercare di riacquistare quello che ha perduto e per ripristinare quel senso di abilità provato durante le vittorie. Dopo questa fase il giocatore entra in uno stato di disperazione vera e propria, passa la maggior parte del tempo giocando o recuperando soldi per poter giocare, le relazioni socialie l’attività lavorativa né risentono fortemente. La quarta ed ultima fase è caratterizzata dalla totale perdita di speranza, il soggetto può sviluppare depressione, pensieri suicidari e richiedere aiuto.
Da quali meccanismi dipende il gioco d’azzardo e quali sono i trattamenti più efficaci?
Alla base del gioco d’azzardo vi sono sicuramente meccanismi di condizionamento classico e di condizionamento operante.Questo significa che il soggetto associa il gioco ad una serie di stimoli sia esterni (persone, situazioni) che interni (depressione, solitudine, rabbia) e quando tali stimoli si presentano insieme la persona ritorna a giocare. Vi è inoltre la forte componente del rinforzo positivo intermittente dato dal denaro. Si possono osservare anche meccanismi di modellamento, ovvero di apprendimento per osservazione, spesso il giocatore ha amici e parenti che giocano. Da non dimenticare sono le credenze cognitive erronee come la sovrastima di un evento casuale o la fallacia del giocatore (se un evento è molto tempo che non si verifica allora la sua probabilità attuale che si verifichi è maggiore).
Il trattamento che si è constatato essere efficace con questo tipo di disturbo è il trattamento cognitivo-comportamentale. Prima di incominciare la terapia vera e propria è importante raccogliere infomzioni dettagliate sulla persona chiedendo quando ha iniziato a giocare, per quanto tempo lo fa, quanto pensava di vincere e di perdere. Queste domande possiedono una rilevante salienza poiché verranno utilizzate per effettuare un confronto tra situazione idealizzata di vincita e situazione reale, si costruisce perciò un grafico dove si mostra al paziente la sua tendenza a sovrastimare le vincite e sottovalutare le perdite. Si procede poi con il chiedere alla persona di porre su un ipotetico piatto della bilancia gli aspetti positivi e negativi del gioco d’azzardo, in modo tale da poter indagare la consapevolezza del paziente.
Queste tecniche comportamentali vengono generalmente associate a tecniche di ristrutturazione cognitiva. Nel caso si verifichi una ricaduta, il terapeuta aiuterà il paziente ad interpretare quell’evento non come una sconfitta ma come una situazione dalla quale poter apprendere che cosa è stato tralasciato e cosa modificare per evitare che si ripeta.
SITCC 2012 – Il trattamento del Disturbo Borderline secondo Shelley McMain
Sessione Plenaria di Shelley McMain – “Improving Psychotherapy for Borderline Personality Disorder”
Shelley McMain presenta un lavoro molto interessante sul Disturbo Borderline di Personalità, che da una parte, mette in discussione i risultati del modello DBT e dall’altra ne propone una rilettura.
Venerdì al Convegno SITCC ho avuto la possibilità di seguire un intervento molto stimolante ad opera di Shelley McMain sul Disturbo Borderline di Personalità. La McMain è una terapeuta ricercatrice dell’Università di Toronto, formata al modello DBT direttamente da Marsha Linehan.
La relatrice presenta un lavoro molto interessante che da una parte, mette in discussione i risultati del modello DBT e dall’altra ne propone una rilettura, una specificazione molto interessante che riflette non solo l’interessa di McMain per diffondere in modo critico il modello, ma anche una notevole onestà intellettuale.
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Il dato rilevante che sviluppa la prima parte dell’intervento ci concentra su una recente ricerca svolta dal gruppo di McMain in cui viene mostrato che, ad un follow-up di due anni, non hanno trovato differenze significative di outcome tra l’intervento DBT e la GPM (General Psychiatric Management).
Questo ha sollevato molti interrogativi nel gruppo ricerca e sembra che abbiamo sfruttato tali dati per riflettere in modo più approfondito sulle applicazione del modello DBT.
Infatti, la seconda parte della presentazione di McMain si concentra su una riflessione clinica, a mio parere, molto importante: Sarebbe forse opportuno specificare gli interventi DBT in modo più preciso, a seconda delle caratteristiche cliniche dei pazienti?
Tale domanda potrebbe sembrare, ad una prima lettura, banale (tutti risponderemmo “ma certo!” o forse no?), però credo sia nata dalla constatazione che, talvolta, la DBT viene applicata in modo formalmente ineccepibile ma in una forma un po’ “blind”, seguendo il manuale e il protocollo Linehan, senza preoccuparsi troppo degli outcome. E’ vero che la mole di ricerche presenti in letteratura sul modello Linehan ormai è ingombrante e sull’efficacia di tale protocollo pochi discutono. Però, e questa è la riflessione di McMain, va sempre considerato che il focus dell’intervento debba “variare”, ad esempio centrato sul funzionamento relazionale oppure sulla gestione della rabbia o ancora sui sintomi specificamente borderline, a seconda delle caratteristiche cliniche dei pazienti.
La terza ed ultima parte della sessione plenaria di McMain si concentra sugli aspetti clinici. In particolare, riprendendo brillanti lavori recenti (Livesly, 2012; Stoffers et al., 2012), vengono indicati e descritti diversi aspetti non specifici di trattamento con i paziente con Disturbo Borderline di Personalità.
Tali aspetti riescono, a mio parere, a rappresentare una “guideline” di trattamento per l’atteggiamento relazionale del terapeuta che si trova a svolgere percorsi psicoterapici con pazienti borderline.
Gli elementi sottolineati da McMain sono i seguenti:
– Il Terapeuta deve avere in mente una cornice teorica coerente, precisa e chiara;
– E’ opportuno esplicitare la struttura del trattamento con il paziente;
– Lavorare sulla relazione terapeutica, seguendo linee chiare e uno stile terapeutico basato su un atteggiamento aperto, paziente, attivo e proattivo e promuovente la self-agency del paziente;
– Bilanciare il focus del trattamento seguendo i due poli della validazione e del cambiamento (che fa eco ai principi della ACT, grande assente, a mio parere, del Convegno SITCC);
– Focalizzarsi su obiettivi specifici e precisi;
– Promuovere nel paziente un atteggiamento di comprensione di sé e dei propri stati mentali;
– Infine, McMain ricorda che i terapeuti che lavorano con questi paziente necessitano di un equipe e di un supporto dai colleghi. Il suo consiglio è quindi quello di limitare al massimo le barriere e gli ostacoli alla richiesta di supporto da parte del terapeuta.
Comunemente si pensa che gli uomini pensino al sesso più frequentemente rispetto alle donne, ma le evidenze empiriche a questo proposito sono piuttosto deboli e inconsistenti.
Questo luogo comune è stato messo in discussione da uno studio condotto nel Dipartimento di Psicologia dell’Ohio State University, al quale hanno partecipato 163 donne e 120 uomini, tutti studenti del college, di età compresa tra i 18 e i 25 anni.
Ai partecipanti è stato chiesto di rispondere ad un questionario di valutazione dei comportamenti associati ai principali bisogni fisiologici quotidiani, quali mangiare, dormire e fare sesso e a domande aperte sulla frequenza quotidiana dei pensieri riguardanti questi tre bisogni. Le misure riguardanti i bisogni di dormire e nutrirsi sono state inserite solo per mascherare il focus dello studio, ossia l’attività sessuale e per ridurre l’imbarazzo nei partecipanti.
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Ma cosa può predire la frequenza dei pensieri sessuali? I ricercatori di questo studio hanno tenuto conto di 3 variabili: il genere, l’erotofilia e la desiderabilità sociale. Per “erotofilia” si intende un positivo o negativo orientamento e predilezione per situazioni legate al sesso, mentre la desiderabilità sociale indica la tendenza a scegliere risposte che appaiono socialmente più accettabili. I partecipanti sono stati in seguito assegnati, in modo casuale, a 3 diverse condizioni ed è stato chiesto loro di annotare per una settimana la frequenza e una breve descrizione dei pensieri riguardanti uno dei 3 bisogni fisiologici, a seconda della condizione.
L’ipotesi di partenza è che se gli uomini pensano più frequentemente al sesso rispetto alle donne, potrebbero pensare più spesso anche ad altre funzioni biologiche. Tuttavia è possibile che le donne siano più riluttanti a riportare pensieri riguardanti il cibo, a causa dello stereotipo sociale che ne deriva, secondo il quale le donne dovrebbero mangiare di meno rispetto agli uomini e dunque, pensarci anche di meno. Un altro stereotipo, invece, potrebbe influenzare i maschi, i quali potrebbero fornire stime significativamente più alte della frequenza di pensieri sessuali rispetto alle donne, poiché comunemente si ritiene che gli uomini pensino al sesso più spesso delle donne.
Dai risultati è emerso che le differenze della frequenza dei pensieri riguardanti il sesso in funzione del genere, sono minori rispetto a quanto si credesse comunemente e a quanto è emerso dai precedenti studi e queste differenze sono presenti anche rispetto agli altri bisogni fisiologici, quali nutrirsi e dormire. Dunque gli uomini pensano di più al sesso rispetto alle donne, ma pensano di più anche alle altre funzioni fisiologiche.
Realmente, quanto spesso si pensa al sesso? Dallo studio è emerso che gli uomini pensano al sesso mediamente 20 volte al giorno, mentre le donne circa 10 volte al giorno.
Inoltre, in linea con quanto ci si aspettasse, dallo studio risulta che la desiderabilità sociale nelle donne é associata negativamente ai punteggi relativi alla frequenza dei pensieri riguardanti il sesso e il cibo, ma non il sonno e questa correlazione negativa non è stata riscontrata negli uomini. Anche la variabile “erotofilia” è risultata associata alla frequenza dei pensieri sessuali nelle donne, ma non negli uomini. Questo cosa significa? Si può supporre che gli stereotipi culturali abbiano influenzato maggiormente le risposte delle donne rispetto a quelle riportate dagli uomini.
La ricerca futura potrebbe proporsi anche di distinguere il contenuto dei pensieri (si pensa ad esperienze reali o la mente tende a fantasticare?).
Questo studio resta comunque l’unico, al momento, che abbia preso in considerazione la variabile della desiderabilità sociale e che abbia tenuto conto di pensieri riguardanti anche altre funzioni fisiologiche, oltre a quella legata all’attività sessuale.
SITCC 2012- Formazione in Psicoterapia: terapeuta o paziente?
Roberta Dalena
DAL SIMPOSIO: LA FORMAZIONE CENTRATA SUL TERAPEUTA E LA FORMAZIONE CENTRATA SUL PAZIENTE
La formazione in psicoterpia diventa un’esperienza in cui didatta e allievo collaborano per la costruzione di senso della loro relazione grazie alla condivisione dei loro campi di apprendimento.
La Formazione in Psicoterapia deve essere centrata sul paziente o sul terapeuta?
Nel primo caso si pone particolare attenzione ai protocolli diagnostici e d’intervento seguendo precisi principi di efficacia. E’ vero, però, che negli ultimi tempi l’interesse si è spostato sulla relazione terapeutica e quindi sulla dimensione emotiva attivata dal rapporto con il paziente.
Per formazione centrata sul terapeuta, invece, intendiamo un modello che sviluppa le conoscenze e le tecniche derivate dal primo, mettendo però l’accento sulla dimensione intersoggettiva e sulla relazione terapeutica, intesi come strumenti indispensabili per promuovere il cambiamento in terapia.
Fatta questa breve introduzione, necessaria per comprendere i concetti dibattuti durante questo Simposio, possiamo entrare nel vivo del discorso descrivendo quali sono i punti di vista in merito all’argomento.
Secondo Antonio Fenelli si dovrebbe parlare di formazione decentrata, ovvero una formazione che non sia centrata nè sul terapeuta nè sul paziente. Cosa significa? Quando si parla di formazione in psicoterapia non si può fare a meno di pensare a due figure imprescindibili: didatti e allievi (accostati metaforicamente alle figure del mastro e dell’apprendista). Il decentramento della formazione consiste nel porre l’accento non tanto singolarmente sull’uno o sull’altro, quanto sulla relazione che entrambi co-costruiscono. In questo senso il didatta non deve essere inteso come insegnante puro e semplice, interpretato come strumento per il trasferimento di conoscenze, metodi e competenze. Al contrario, ha un compito ben più complesso, quello di aiutare l’allievo a trovare il proprio campo di apprendimento.
In quest’ottica, squisitamente costruttivista, si rifiutano categoricamente le riproduzioni da parte degli allievi delle modalità e degli stili dei propri didatti a tal punto da valutare questa eventualità come un totale fallimento. In tal senso diventa sostanziale lavorare sulle mappe cognitive lungo le quali i didatti si muovono per riconoscersi in un ruolo il cui compito non è quello di trasmettere contenuti, nè tantomeno di riceverne. Ne deriva che la formazione in psicoterpia diventa un’esperienza in cui didatta e allievo collaborano per la costruzione di senso della loro relazione grazie alla condivisione dei loro campi di apprendimento.
Il simposio continua con l’intervento di Lorenzo Cionini. Quest’ultimo, condividendo la posizione di Antonio Fenelli sull’importanza di considerare la relazione didatta-allievo una co-costruzione di aree di apprendimento, si focalizza sull’inutilità di trasferire durante il percorso formativo soltanto tecniche o modelli. Cionini ritiene infatti che tecniche, procedure, modelli e protocolli non abbiano significato in quanto tali, ma lo acquisiscano solo all’interno della relazione. Risulta evidente che il processo di apprendimento non deve riguardare la tecnica di per sè, ma la procedura con cui inserire la tecnica all’interno della relazione, nonchè la modalità di porsi in relazione con l’altro.
Ancora, la formazione personale è ritenuta indispensabile per giungere alla conoscenza del proprio funzionamento cognitivo ed emotivo, dal quale non si può prescindere nel lavoro con i pazienti. Le ragioni di questa necessità risiedono nel considerare la buona gestione delle emozioni che il terapeuta vive durante la relazione, determinante per l’esito della terapia. Eppure Cionini propone diverse modalità di applicazione della formazione personale, proponendo alternative alla terapia individuale: ad esempio, la supervisione intesa non come momento per correggere il proprio metodo, ma come comprensione delle difficoltà che emergono dalla relazione in funzione al proprio funzionamento emotivo.
Concludendo, La Formazione in Psicoterapia deve essere centrata sul paziente o sul terapeuta? La posizione assunta durante questo simposio non lascia spazio ai dubbi…
SITCC 2012 – Cinema e Letteratura come Strumenti Terapeutici
Utilizzare l’ironia come strumento terapeutico: nessuno di noi scherza volentieri sulle proprie aree problematiche e la capacità di ridere della propria patologia è sicuramente un grande progresso per il paziente.
Sarà perché leggere e andare al cinema sono due mie grandi passioni, ma ho trovato il Simposio “Film e libri in psicoterapia” tra i più interessanti presentati fino ad ora ed indubbiamente il più divertente a cui abbia assistito.
Iniziato con la proiezione di uno spezzone tratto dal film Il discorso del Re, il Simposio si rivela un interessante viaggio tra cinema e letteratura come strumenti terapeutici. Roberto Lorenzini, con il suo caratteristico stile ironico, regala più di una risata ad un pubblico attento e partecipe, tra aneddoti di vita e consigli vari per utilizzare al meglio libri e film come ausilio nel trattamento dei pazienti.
Lorenzini ci ricorda come sia ormai stato ampiamente dimostrato che terapie che fanno uso di homework sono più efficaci e più brevi (ed in tempo di crisi è un punto a favore per la terapia cognitiva). Posto che il termine “compito” ha spesso una valenza negativa, prescrivere di guardare un film o leggere un libro è anche un modo per sdoganare il piacere e passare ai nostri pazienti, spesso più attenti ai bisogni degli altri che ai propri interessi, il messaggio “Divertiti che ti fa bene!”
L’uso di libri e film come homework è indicato, per esempio, quando si ha difficoltà a spiegare ad un paziente un concetto: pensate al noto personaggio di Carlo Verdone, Furio, esemplificazione perfetta di una personalità ossessiva.
Articolo Consigliato: Film e Psicoterapia. Recensione de “I Territori dell’Incontro”.
I vantaggi per il paziente sono molteplici: la possibilità di rendersi conto di non essere il solo a soffrire del proprio disturbo, la possibilità di vedersi dall’esterno e quindi aumentare la propria metacognizione e l’occasione di apprendere nuove strategie risolutive rispetto al disturbo; inoltre, perché no, farsi quattro risate e utilizzare l’ironia come strumento terapeutico: nessuno di noi scherza volentieri sulle proprie aree problematiche e la capacità di ridere della propria patologia è sicuramente un grande progresso per il paziente.
Non dimentichiamo i vantaggi per il terapeuta: “la possibilità di leggere libracci e vedere filmacci con la scusa di farlo per la professione!”
Lorenzini sottolinea che la prescrizione deve avvenire in base ad un obiettivo preciso e deve essere sempre legata alle credenze bersaglio terapeutiche. Ovviamente il terapeuta deve aver letto e visto ciò che prescrive e trasmettere al paziente la propria passione. E se invece è il paziente a consigliare un libro o un film al proprio terapeuta, è compito del terapeuta seguire il suggerimento ricevuto.
Durante il Simposio Scarinci illustra una ricerca esplorativa condotta in Italia sull’utilizzo di film e libri nella pratica terapeutica. Da questo studio emerge che “gli psicoterapeuti di approccio cognitivo comportamentale ritengono utile assegnare libri e film come homework durante il trattamento dei pazienti ed esprimono quasi unanimamente l’interesse per una rivista che li proponga come supporto per l’attività professionale, ma utilizzano molto meno questi strumenti rispetto ai colleghi d’oltreoceano”.
Il Simposio termina con un’interessantissima rassegna di casi clinici illustrata da Anna Segre in cui vengono associate problematiche portate dai pazienti e film/libri prescritti. Ecco alcuni spunti:
– I film “Moonsoon Wedding“ e “Faster” e l’idea che l’abusatore debba essere smascherato davanti a tutti
– “In un milione di piccoli pezzi” e l’idea che si possa uscire dalla tossicodipendenza
– La serie tv “Will & grace” e il tema dell’omosessualità
– I libri di Bennett e il rapporto con il corpo
Il pubblico che ha assistito al Simposio ha contribuito al dibattito con una serie di spunti interessanti, tra cui approfondire l’uso di cartoni animati nella terapia in età evolutiva, e richieste di consigli su come gestire pazienti che guardano libri/film pericolosi (es. un paziente con disturbo borderline di personalità che ha visto “Ragazze interrotte”) e sul perché, a volte, la prescrizione non ha il successo sperato.
Il libro/film non deve adattarsi solo al disturbo, ma anche allo specifico paziente che abbiamo in cura. La scelta deve essere guidata infatti da un’integrazione tra diagnosi, intuito terapeutico erelazione terapeutica.
Cosa ne pensate dell’utilizzo di film e libri come strumento terapeutico? Li usate nella vostra pratica clinica? Fatecelo sapere in un commento qui sotto.
Ricordate solo che “andare al cinema con un paziente rimane violazione del setting terapeutico”.
A seguito dell’acceso dibattito scaturito all’inaugurazione del XVI Congresso SITCC durante la tavola rotonda dei Past President SITCC, chiediamo ad Antonio Semerari un commento sullo stato attuale della SITCC. Ecco a voi l’intervista in esclusiva per State of Mind, in cui esprime la propria preoccupazione per le divisioni interne alla Società e in cui muove una critica alle correnti che non hanno sviluppato programmi di ricerca, ma si sono “fossilizzate” sulle proprie teorie.
STATE OF MIND: Alla luce di quanto emerso ieri all’inaugurazione, ci rilascia un suo commento sullo stato attuale della Società?
SEMERARI: Mi sembra molto chiaro, c’è stato un richiamo molto forte ad un patto originario, ovvero all’idea che questa è una Società che non si ritrova sull’adesione ad un particolare paradigma o teoria, ma sull’applicazione alla psicoterapia del metodo scientifico. Evidentemente se qualcuno sente il bisogno di fare un richiamo, è perché ritiene sia necessario.
STATE OF MIND: Ma Lei condivide l’idea che ci sia una deriva della SITCC verso un approccio ermeneutico?
SEMERARI: No, verso l’ermeneutica no, se c’è è piuttosto marginale. C’è in realtà una vasta sezione della SITCC che sta vivendo un blocco nella ricerca scientifica.
STATE OF MIND: Come mai, secondo Lei?
SEMERARI: E’ singolare, ma ci sono molte ipotesi che non hanno avuto uno sviluppo progressivo, non c’è stato quel cambiamento che normalmente avviene. Mi rivolgo soprattutto alle correnti costruttiviste, per esempio all’idea delle organizzazioni di personalità e così via…sono tutte cose che sono rimaste quasi sostanzialmente ferme dal punto di vista della ricerca scientifica. Ricerche ne sono state fatte, ma al di fuori della SITCC, discutibili a mio avviso, ma ci sono.
Sono necessari chiarimenti concettuali per poter fare ricerca. Guidano parla di organizzazioni di personalità e fa un’affermazione molto forte: la personalità si organizza intorno ad alcune strutture cognitive, a strutture di significato ed è un’ide molto forte di personalità. Quest’idea nel campo del dibattito sulla personalità e i disturbi di personalità è completamente assente, non fa parte della ricerca, non c’è. Che cosa c’entra con il Big Five, per esempio? Se credessi nel concetto di organizzazione di personalità avrei cercato di pensare ad un programma di ricerca. Ma questo è solo un esempio [della fossilizzazione della ricerca da parte di alcune correnti della SITCC, ndr] e non vorrei polemizzare.
Trovo però debole sinceramente l’argomento opposto al richiamo alla scientificità che ci sono tanti tipi di ricerca e che in particolare non esiste solo la ricerca sugli esiti; è un argomento giusto, ma diventa debole quando non si rende esplicito qual è il criterio di demarcazione. Certo, ci sono tanti tipi di ricerca scientifica, ma quali sono quelli che vanno bene e quali no? Che cosa non va bene? Che cosa non è ricerca scientifica?
STATE OF MIND: Secondo Lei quali dovrebbero essere i criteri?
SEMERARI: Non ce li dobbiamo inventare, sono quelli con cui normalmente un articolo viene valutato dai referee. Se dovessimo inventarli noi ogni volta questi criteri, rientreremmo in un infinito dibattito filosofico, utile per carità, ma che poi alla fine lascia il tempo che trova.
STATE OF MIND: Per quanto riguarda invece le differenti correnti all’interno della SITCC pensa che siano un punto di debolezza o di forza?
SEMERARI: Se si riesce a ripartire dai principi originari, un punto di forza; altrimenti si rischia di creare pochezza. Credo che ieri Francesco Mancini abbia colto un punto: se la SITCC non riesce ad avere una politica all’esterno è proprio perché le divisioni interne lo impediscono, rimangono fossilizzate se non le riportiamo sul piano del dibattito scientifico attraverso il metodo scientifico. Se questo avviene, certo è un punto di forza.
STATE OF MIND: Riassumendo, è quini corretto dire che ci sono delle divisioni interne alla SITCC che si sono fossilizzate, che non hanno portato avanti lo sviluppo delle proprie teorie da un punto di vista scientifico e questo è un problema perché non ci permette di presentarci all’esterno con una nostra identità unitaria?
SEMERARI: Sì
STATE OF MIND: Cosa si aspetta da questo congresso?
SEMERARI: Sinceramente sto a vedere, ne riparliamo alla fine. Però mi sembra che si stia riuscendo a fare una cosa che era nelle mie intenzioni: far emergere chiaramente i punti controversi. Mi pare he questo stia accadendo, un po’ me lo auguro e un po’ me lo aspetto.
STATE OF MIND: Ci sono tanti giovani specializzandi alla SITCC quest’anno anche del primo anno di scuola. Che messaggio vorrebbe passare loro?
SEMERARI: Di pensare con la loro testa e di studiare.
L’infertilità di coppia è un tema da affrontare in modo olistico, considerando tanto la dimensione organica quanto quella psicologica e percorrendo la strada dell’integrazione.
Questo è quanto afferma Laura Vita durante il suo intervento al Simposio “L’approccio costruttivista alle problematiche della sessualità maschile, della fertilità di coppia e della maternità difficile“.
Come evidente dal titolo del suo contributo “Organizzazione di significato Personale e Fertiltà di coppia“, uno spunto interessante per la ricerca nell’ambito risiede nell’individuazione di possibili organizzazioni di significato personale comuni alle coppie sterili.
In questo modo si cerca di sorpassare i tre i filoni tradizionali della ricerca nel campo. Di questi, il primo indaga i fattori psicologici dell’infertilità, il secondo l’impatto che la stessa ha sul funzionamento dell’individuo, mentre l’ultimo focalizza l’attenzione sulle strategie di adattamento all’infertilità.
Sebbene la letteratura in merito all’argomento conti numerose ricerche, nessuna di queste riesce a colmare appieno il divario tra fattori somatici e psichici. Peraltro, non si è giunti neppure a conciliare i fattori psicologici di causa ed effetto dell’infertilità, prediligendo sempre l’uno a discapito dell’altro senza mai superarne la dicotomia.
In questo senso, i lavori costruttivisti hanno l’obiettivo di valicare questa parzialità e fornire una visione quanto più integrata del problema. Con questo genere di approccio si giunge ad individuare l’organizzazione di significato personale degli individui infertili.
Dalle prime ricerche effettuate emerge un dato estremamente interessante, che riguarda l’elevata incidenza dell’organizzazione ossessiva nelle donne infertili. Sulla base di ciò è possibile ipotizzare che uno dei temi centrali per queste donne sia proprio quello del controllo.
Degni di nota altresì i dati concernenti le strategie di coping messe in atto dalle coppie infertili. Per far fronte al problema infatti, sembrerebbe che queste utilizzino strategie passive, in particolare strategie di evitamento.
Inoltre, dai risultati appare una correlazione positiva tra il periodo di tempo impiegato in tentativi di fecondazione e i livelli di ansia di stato, l’ansia di tratto e la depressione. In altre parole tanto più si espande in termini di tempo la ricerca della fertilità, più aumentano i livelli di ansia e depressione.
In conclusione, dalle parole di Laura Vita emerge in modo chiaro quanto sia rilevante, ai fini di una valutazione globale, ricercare i significati personali della coppia, ma soprattutto il significato che la stessa attribuisce alla gravidanza e alla maternità.
SITCC 2012 Roma: L’AIMIT e le sue applicazioni in Psicoterapia: dalla validazione dello strumento allo studio della relazione terapeutica, nella ricerca e nella didattica.
Dal Simposio “Psicoterapie. Valutazione in Efficacia, Valutazione della Formazione” è emerso che la formazione psicoterapeutica privata in Italia, secondo alcuni membri della commissione, verte in una situazione confusa. Cesare Maffei prende spunto dai dati presentati al Simposio per condividere una riflessione davvero interessante. Ad oggi infatti esistono differenti paradigmi tradizionali nei quali le 213 scuole abilitate dal Ministero (347 se contiamo anche le scuole secondarie) si riconoscono: dall’approccio umanistico al comportamentismo, dal cognitivismo allo psicoanalitico/psicodinamico, ecc. Questi grandi paradigmi sono a loro volta frammentati in più di un centinaio di denominazioni diverse e in sempre più casi si osserva la nascita di nuove correnti proprio dalla combinazione di più paradigmi. Maffei osserva come ad oggi si assista sempre di più a numerose proposte di integrazione da parte delle scuole, integrazione che può avvenire a diversi livelli:
integrazione teorica, in cui una precisa teoria guida la scelta degli interventi che possono includere tecniche appartenenti a diversi approcci psicoterapeutici (si pensi alla DBT o alla CAT)
integrazione assimilativa, in cui all’interno di una cornice di un particolare sistema di psicoterapia la terapia principale è integrata con tecniche specifiche di altri sistemi
l’integrazione sequenziale e parallela, in cui forme separate di terapia sono fornite in ordine sequenziale o durante la stessa fase di trattamento in sessioni o momenti differenti
l’eclettismo tecnico, in cui tecniche psicoterapeutiche vengono utilizzate senza prenderne in considerazione la teoria di riferimento
In tutto il mondo – afferma Maffei – le tradizioni stanno andando a pallino!
Ma il fenomeno a cui stiamo assistendo in Italia è un tentativo di integrazione?
Secondo Antonio Semerari ciò a cui stiamo assistendo è una situazione confusa. Non si dovrebbe poter parlare di tante psicoterapie, ma dovrebbe esistere un’unica scienza psicoterapeutica all’interno della quale possano esserci differenti controversie. Il livello di integrazione teorica è indubbiamente un dibattito che ci arricchisce a livello filosofico, ma lascia un po’ il tempo che trova. La vera integrazione deve riguardare altri livelli: facendo riferimento ad un modello clinico scientificamente fondato diventa spontaneo usare qualunque tecnica per risolvere il problema portato dal paziente. L’integrazione dovrebbe pertanto avvenire a livello tecnico a condizione che ci siano robusti modelli psicopatologici alla base.
Qual è la vostra opinione in merito? Le scuole di psicoterapia in Italia stanno vivendo un momento di confusione o si stanno muovendo verso l’integrazione di approcci differenti?
Aspettiamo le vostre opinioni nella sezione commenti.
Commento di Giovanni Maria Ruggiero, Direttore responsabile di State of Mind
Aggiungo una precisazione. Le presentazioni di Del Corno, Maffei e Semerari documentano alcune difficoltà del quadro generale. Ma non si tratta di un problema specifico dell’organizzazione e della qualità delle scuole di psicoterapia italiane, che anzi sono all’avanguardia per qualità e intensità dei programmi.
Si tratta semmai di uno stato di crisi dei grandi orientamenti teorici. Che nel mondo (sottolineo nel mondo) esistano più di 400 tipi diversi di psicoterapia è un dato e un problema noto da tempo. Ma al tempo stesso è vero che gli orientamenti teorico-clinici prevalenti siano ancora i principali 4 (psicodinamico, cognitivo-comportamentale, sistemico e umanistico-esperienziale) è altrettanto vero.
Ed è altrettanto vero che, accanto a fenomeni di frammentazione, ce ne sono altri di integrazione spontanea o programmata. Il modello semi-psicodinamico di Fonagy integra una componente di addestramento a potenziare le capacità cognitive; i modelli cognitivi integrano aspetti interpersonali di provenienza psicodinamica. E così via.
Il quadro è complesso ma non caotico. Da direttore posso dire che il lavoro che noi svolgiamo è spesso di integrazione, esplorazione di dati scientifici e clinici nuovi, assimilazione delle novità cliniche all’interno di quadri di riferimento teorici che non sono unidimensionali ma non per questo sono caotici.
Commento di Sandra Sassaroli, direttore di Studi Cognitivi.
Alcuni dati importanti a commento della riunione di oggi: Innanzitutto penso che il lavoro di raccolta dati della commissione sia stato importante, ma che alcune interpretazioni che poi vengono proposte non rappresentino bene la realtà e siano ancora lontane da una comprensione autentica del mondo delle scuole di psicoterapia.
1. le scuole che fanno poca supervisione secondo la commissione, spesso chiamano la supervisione: esercitazioni, o usano altre dizioni, certo occorre che vi sia almeno una omologazione linguistica.
2. Altre note mie: il problema dei tirocini sollevato da Del Corno: molte scuole chiedono una convenzione per il tirocinio di un certo allievo in una certa struttura, poi l’allievo si diploma e la convenzione per uno o due anni rimane silente. Questa non mi sembra malascuola, ma semplicemente la norma: se invece alcune scuole chiedono tirocinii in strutture in modo massivo ma poi non le usano e le tengono silenti questo si mi sembra cattiva pratica.
3. Io sono stata molto colpita che la commissione abbia fatto un lavoro così importante di catalogazione e chiarimento della realtà italiana, traendo conclusioni, senza mai convocare alcun direttore di scuola. Io credo che sulle difficoltà nel tenere viva e di qualità la propria scuola, i direttori avrebbero qualcosa da dire.
4. Altro: nel nostro mestiere (parlo da cognitivista) esistono alcuni dati protocollari definiti e chiari (i protocolli efficaci, le tecniche base, gli interventi efficaci per i pazienti difficili ecc), Ma non possiamo ridurre una scuola solo a questo. Esiste un costante incontro con il nuovo sia interno che proveniente dall’esterno, di pensieri tecniche e concettualizzazioni e diagnosi. Non si può non tenerne conto ma non è caos. E’ evidente che le scuole sono organismi vivi che si trasformano nel tempo (se dentro hanno pensiero alto e pratica clinica eccellente). Non è vero che tutto ciò che è disorganizzato, in movimento e non protocollare sia caotico. Questa cosa del caotico non mi piace affatto. Nelle scuole di legge, si vedono pazienti, si studia e si ragiona e molte tecniche che non avrei mai insegnato o fatto insegnare nella scuola oggi le ritengo utili per alcuni tipi di pazienti e le insegno. L’incremento di complessità, l’integrazione NON è caotico allo stato attuale delle conoscenze. Io credo che il pericolo sia non il caos ma anzi la scelta di una ideologia (magari importata da fuori e basata su ricerche fatte all’estero e basta) che divenga totem ideologico unico e esclusivo di una scuola. Segno di immaturità clinica e di passione ideologica che non condivido. Forse ci sono troppe scuole come dice la commissione ma secondo me ci sono ancora troppo poche scuole che abbiano il coraggio di investire realmente per proporre un pensiero e una pratica originali, basati su sapienza clinica si ma anche su ricerca e capacità di assimilazione autentica del nuovo. Da ultimo: e’ evidente che occorre un controllo sulla formazione e che compito della commissione è aver messo le basi per poterlo fare. Questo è anche interesse delle scuole, che la propria formazione sia controllata, che si analizzi l’aderenza degli allievi ai modelli che imparano per avere una prima base solida dalla quale cominciare la propria avventura professionale, che si conosca meglio il processo della formazione così come si è interessati ai processi di cambiamento dei pazienti. Questo può rendere le cose più facili, agli studenti, ai didatti e a chi verifica l’opera di chi forma. Ma che i criteri dei controlli e delle verifiche siano essi stessi non ideologici, o poco informati o parziali o autoriferiti, ma animati da una vera curiosità per la realtà delle scuole.