Quando la mente criminale “scrive” il processo penale. Psiche & Legge #1
PSICHE & LEGGE
Quando la mente criminale “scrive” il processo penale. #1
Psiche e Legge: la nuova Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista
Cosa si intende per sanità mentale (sotto il profilo penale) e cosa accade al criminale, se viene dichiarato non imputabile?
La definizione di sanità mentale – seppur prettamente inerente al contesto medico-scientifico – assume un’estrema rilevanza anche nel mondo del diritto, ed in particolar modo, all’interno del processo penale. L’articolo 85 del nostro codice, infatti, prevede che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso, non era imputabile”, e che “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.
È evidente, dunque, come l’accertamento della salute psichica del presunto criminale – indagato, imputato, e dunque sospettato di aver commesso un reato – sarà perno di un quadro processuale ove dovrà decidersi se questi (in caso di accertata responsabilità penale) possa esser destinatario della sanzione prevista dal sistema giuridico. Tale rilievo fa presagire, anche ai non “addetti ai lavori”, la netta distinzione tra capacità penale, responsabilità penale e imputabilità.
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Nello specifico, la prima va intesa come capacità di essere considerati soggetti di diritto penale (propria di ogni individuo, a prescindere da fattori legati a età, stato mentale o immunità); la seconda, invece, indica l’attribuibilità di un determinato reato al suo autore, il quale – si badi – ne sarà ritenuto responsabile solo ove si accerti che l’azione delittuosa sia frutto di una sua condotta dolosa o colposa (artt. 42 e 43 c.p.). Occorrerà, allora – al fine di ritenere il reo penalmente responsabile del fatto commesso – far luce sul cd. animus necandi, posseduto al momento dell’atto criminale. L’azione o l’omissione integrante il crimine, andrà, perciò, rapportata alla coscienza e volontà dell’autore, e dunque, al concreto dominio dell’atto.
In via esemplificativa, dovrà valutarsi se il reato compiuto sia stato mosso da reale volizione. Si inserisce, in tale opera di analisi, l’indagine sulla sussistenza della responsabilità penale del reo. E ci si chiederà: quale “tipo” di volizione lo ha animato? Ha voluto l’evento e dunque ne risponderà a titolo doloso, o non l’ha intenzionalmente provocato, ma poteva prevederlo ed evitarlo, e dunque ne risponderà a titolo colposo, per aver agito con imprudenza, imperizia o negligenza?
Offrendo un responso a tali quesiti, balza agli occhi la struttura dell’iter criminis che, come insegna la dottrina penalistica, si snoda in quattro fasi:
Ideazione del reato nella psiche del soggetto; la Preparazione: studio delle modalità di realizzazione e reperimento dei mezzi;
Risoluzione: concretizzazione, con atti esecutivi, dell’idea criminosa;
Perfezione: il reato si compie;
Consumazione: il crimine raggiunge la massima gravità.
È palese che, se il reato consegue ad un impulso ideativo, andrà vagliato lo stato psichico posseduto dal soggetto in quel preciso istante, così da comprendere se la scelta di commettere il delitto sia stata formulata dal reo nella piena sanità mentale, o in un momento di follia.
Solo nel primo caso, l’“indagine sulla mente criminale” lo definirà “imputabile” (dunque “capace alla pena”). Imputabilità fondata, secondo i primi studiosi del diritto, sul libero arbitrio (Scuola Classica, che riteneva la pena una sorta di “castigo” per il male consapevolmente arrecato) o sul principio di causalità (Scuola Positiva, i cui dettami ravvisavano nel delitto il “risultato” di fattori antropologici, fisici e sociali).
Distante da ambo le tesi, è quella dell’odierno Codice che – a differenza del precedente testo Zanardelli, nel cui ambito la punibilità del reo coincideva con assenza di uno “stato di infermità di mente” tale “da toglierli la coscienza o la libertà dei propri atti” – abbraccia una più estesa definizione di imputabilità, intesa come capacità giuridica di soggiacere a pena e capacità sostanziale d’intendere e volere.
Ma quando la legge considera un uomo in grado di intendere e volere? La domanda trova agile risoluzione, ove si proceda a ritroso, soffermandosi sulle cause che escludono o diminuiscono l’imputabilità: minore età, infermità mentale, sordomutismo, ubriachezza, cronica intossicazione da alcool o stupefacenti. In questa sede, però, ci soffermeremo solo sull’infermità psichica. La definizione di malattia di mente – che Ippocrate motivava con squilibri fisici – oggi si desume dalla più generale nozione di “salute” fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la disegna come “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o infermità”.
La descrizione dell’Uomo Sano, inerisce, dunque, ad uno status connotato da equilibrio dell’umore, integrità della sfera cognitiva e comportamentale, capacità di relazionarsi con l’esterno, esplicare le abilità cognitive ed emozionali, soddisfare le esigenze quotidiane, risolvere in maniera costruttiva eventuali conflitti interni. Così – se la patologia è alterazione della “norma” – l’attività diagnostica farà riferimento ai parametri di “normalità” inerenti la statistica, l’interazione fra la predisposizione allo sviluppo di un disturbo (diatesi) e un evento negativo o una particolare condizione ambientale/esistenziale che funga da agente scatenante (stress), o relativi alla presenza di patologie mentali, quali psicosi e nevrosi.
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È noto, poi, in sede valutativa, come il DSM IV (Diagnostic Statistic Manual) faccia riferimento a parametri descritti in cinque assi: Disturbi Clinici, Disturbi di Personalità e Ritardo Mentale, Condizioni Mediche Generali, Problemi Psicosociali e Ambientali, Valutazione Globale del Funzionamento. Senza pretesa di divulgare informazioni proprie della scienza medica – con cui il legale si rapporta quotidianamente nella predisposizione delle strategie processuali – si rilevi come i giudici si siano spesso divisi nel tratteggiare l’esatto ambito della malattia mentale, atta ad escludere o far scemare l’imputabilità. Del resto, Sigmund Freud insegnava che in ogni persona c’è un lato oscuro: ciascuno “ha istinti aggressivi e passioni primitive che lo portano allo stupro, all’incesto e all’omicidio e che sono tenute a freno in maniera imperfetta, dalle istituzioni sociali e dai sensi di colpa”. Non resterà, dunque, nel tracciare il profilo del non imputabile, che far tesoro degli insegnamenti mutuati dalla psichiatria forense. Se fino al XVII secolo, la medicina riteneva le patologie mentali delle possessioni diaboliche, fu solo nel Novecento che la psichiatria divenne scienza clinica, e la malattia mentale assunse un ruolo cardine in seno alla disciplina dell’imputabilità.
Si noti, inoltre, come la malattia mentale/infermità (termini adottati, rispettivamente, dalla psicopatologia forense e dal legislatore) vennero, nel tempo, prima collegate ad un modello nosografico (che ne ravvisò la sussistenza solo in costanza di catalogate patologie biologiche, del cervello o del sistema nervoso), e poi incardinate in letture psicologiche (con estensione dell’alveo a psicosi o nevrosi) o sociologiche (legate al contesto di vita del malato).
Tale evolversi della nozione scientifica di malattia mentale, improntò necessariamente le sentenze dei giudici in tema di imputabilità, che – sull’onda delle richiamate correnti – inizialmente riconobbero l’infermità mentale dell’indagato/imputato solo ove affetto da patologie riconosciute dalla cd. psichiatrica biologica, per poi valorizzare anche gli stati di indebolimento, eccitamento, depressione o inerzia dell’attività psichica (Cass. n. 8483/74), ed i disturbi della personalità, tanto gravi da incidere sulla capacità d’intendere e volere del reo (Cass., Sez. Un., n. 9163/05).
L’anomalia mentale, dunque, anche se transitoria, potrà valere a rendere l’individuo non assoggettabile a pena – o destinatario di pena ridotta – solo ove l’alterata coscienza si sia elevata a rango di “vizio di mente” totale (il reo, nel commettere il delitto, era incapace d’intendere e volere. Egli non è imputabile) o parziale (lo stato d’infermità era tale da scemare nettamente la capacità, senza escluderla. Egli è imputabile, ma ha diritto a minor pena). Un discorso a parte, infine, dovrà dedicarsi all’influenza degli “stati emotivi e passionali” (che, ai sensi dell’art. 90 c.p., “non escludono, né diminuiscono l’imputabilità”), sui quali ci soffermeremo nella prossima rubrica, quando tratteremo anche del disturbo borderline, della gelosia patologica e dell’incidenza di tali stati sulla condanna penale.
Come la risposta cognitiva a situazioni di parziale successo influenza il tono dell’umore e la valutazione globale di sé: il Self-Discrepancy Monitoring
Congresso SITCC 2012 Roma
Come la risposta cognitiva a situazioni di parziale successo influenza il tono dell’umore e la valutazione globale di sé: il ‘Self-Discrepancy Monitoring’
S.Sgambati, G. Caselli, A.Decsei-Rodu, F. Fiore, C. Manfredi, S. Querci, D. Rebecchi, G.M. Ruggiero, S. Sassaroli
La depressione è una patologia dell’umore che affligge grande parte della popolazione. In particolar modo, l’incidenza di questo disturbo negli studenti universitari sta progressivamente aumentando. Negli Stati Uniti la percentuale varia dal 10% al 40%. Sebbene per la depressione vi siano trattamenti efficaci, chi ne è affetto spesso non riconosce i sintomi o è riluttante ad intraprendere la terapia, con gravi conseguenze per l’impatto sulla salute, come ad esempio la perdita dell’appetito, problemi di sonno, fatica, ansia e attacchi di panico. Inoltre, le conseguenze possono riguardare i risultati scolastici scarsi, la riduzione delle performance di lavoro e alti tassi di abbandono scolastico.
Alcuni studi hanno dimostrato che gli studenti con sintomi depressivi usano internet in quantità maggiori rispetto a coloro che non hanno sintomi, soprattutto quando le attività praticate erano di tipo ludico (ad esempio shopping, gioco d’azzardo online e chat).
L’uso eccessivo di internet permette agli studenti di rimpiazzare le interazioni della vita reale con una socializzazione informatica, aumentando però l’isolamento sociale e l’ansia nel loro ambiente fisico.
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Il Missouri University of Science and Technology (Missouri University S&T) ha condotto, nel 2011, un esperimento della durata di un mese in cui era presa in considerazione l’associazione dei sintomi depressivi tra gli studenti universitari con i dati reali dell’utilizzo di Internet . I dati sono stati raccolti all’interno della rete del Campus, in forma riservata e in modo da preservare la privacy.
Il campione della ricerca è composto da 216 studenti appartenenti alla Missouri University S&T. Lo screening è stato fatto utilizzando la scala Center for Epidemiologic Studies Depression (CES-D), ideata e sviluppata da Leonore Radloff, il cui cut off ≥ 16 indica la presenza di sintomi depressivi. L’analisi statistica fatta ha messo in correlazione l’uso di internet con il punteggio al CES-D per la depressione.
Mentre, negli studi precedenti, i dati forniti sull’uso di Internet erano riferiti direttamente dagli studenti stessi, quindi l’autovalutazione era suscettibile a desiderabilità sociale e poneva limiti alla medesima ricerca, nell’esperimento attuale è stato risolto il problema mediante l’impiego del Cisco NetFlow Data ( un protocollo di rete per la raccolta di informazioni di traffico IP).
L’analisi successiva ha rivelato che diverse caratteristiche di utilizzo di Internet quali l’indirizzo IP di origine, indirizzo IP di destinazione, porta di origine, porta di destinazione, il protocollo, ottetti, pacchetti e durata mostrano una differenza statisticamente significativa nei valori medi tra i gruppi con e senza sintomi depressivi.
Per entrare nello specifico e dare un’interpretazione pratica dei risultati ottenuti si nota che giocare e guardare video on line siano comuni sintomi di una dipendenza da internet (Internet Addiction) e legati ai sintomi depressivi. Anche la condivisione di file musicali, film, foto e così via può condurre ad una dipendenza dallo strumento informatico e di conseguenza allo sviluppo di depressione. L’uso eccessivo di chat causa nei giovani l’isolamento sociale e la solitudine nel loro mondo. Tuttavia, le persone che soffrono di depressione usano le “Depression Chat Rooms” per ridurre i loro sentimenti di isolamento e questo potrebbe spiegare i livelli significativamente alti di utilizzo.
Inoltre, statisticamente è stato mostrato che il controllo e l’uso eccessivo dell’email è correlato a sintomi depressivi e alti livelli d’ansia; ciò può essere identificato in un disturbo di tipo impulsivo-compulsivo. Anche la difficoltà di concentrazione e di presa di decisioni sembra essere un sintomo di depressione tra gli studenti. Infine, il frequente cambio delle molteplici applicazioni può riflettere la ricerca di emozioni più forti quando sopraggiunge la noia e la disperazione: cercare qualcosa come un articolo interessante, una email o un video gradevole diviene un momentaneo momento di piacere e di umore più alto.
Lo studio può essere esteso ad altre disturbi mentali o alla progettazione di un intervento che utilizza Internet come mezzo contro la depressione stessa.
Kotikalapudi, R, Chellappan, S., Montgomery, F., Wunsch, D. & Lutzen, K. (2012). Associating Depressive Symptoms in College Students with Internet Usage Using Real Internet Data. IEEE Technology and Society Magazine. (DOWNLOAD FULL ARTICLE PDF)
Intervista a Bruno Bara sul XVI Congresso Nazionale SITCC
Direttamente dal XVI Congresso Nazionale SITCC, State of Mind intervista in esclusiva Bruno Bara.
State of Mind: All’inaugurazione di questo XVI Congresso Nazionale si è parlato molto delle differenti correnti all’interno della SITCC. Secondo Lei sono un punto di forza o di debolezza per la Società?
Bara:Io sono tra quelli che sostengono che la forza della SITCC sta proprio nel fatto che noi abbiamo tutte queste diverse anime, questi diversi modi di fare terapia che sono sempre stati la nostra ricchezza. Mi sembra che tutte quante poi si riportino al principio base di cercare, almeno in linea di principio, un’evidenza empirica che supporti qualunque dichiarazione astratta e penso che siano tutte preziose. La forza nostra è sicuramente stata quella di aver resistito alla tentazione di fare microsocietà.
State of Mind: Qual è lo stato attuale della ricerca, in Italia, per quanto riguarda le correnti costruttiviste?
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Bara: In Italia è difficile portare avanti grandi exploit innovativi. Nel mondo invece, per esempio nella scienza cognitiva – che è ciò di cui mi occupo (mi occupo essenzialmente di mente e cervello impegnati nella comunicazione) – nell’ambito costruttivista ci sono due grandi filoni che si dividono il campo: quelli che studiano fenomeni oggettivabili (tipo registrazioni, testi scritti e simili) e quelli che studiano tutte le situazioni ecologiche di interazione umana. Tendenzialmente tutto l’approccio che lavora sull’ecologia usa uno stile, una modalità, un’epistemologia più legata al costruttivismo e da lì discendono tutta una serie di lavori che si applicano indirettamente anche alla clinica, perchè l’interazione tra le persone copre anche l’empatia, l’aspetto emotivo, etc.
Quindi in generale l’approccio costruttivista nel mondo rappresenta oggi, nell’ambito delle cose di cui mi occupo io, cioè la comunicazione normale e patologica, un buon 50% del lavoro. In Italia che ci occupiamo di queste cose in termini scientifici saremo una ventina di persone.
State of Mind: cosa ne pensa del Congresso? Come sta andando?
Bara:per me i Congressi SITCC sono un’occasione per vedere persone, i miei colleghi, i giovani che magari presentano…quindi non sono un buon testimone, sono affettivamente sbilanciato, mi diverto sempre tantissimo. Non è come quando vado ad un convegno all’estero, non assumo un atteggiamento critico. Certo si imparano cose nuove, ma più che l’aspetto culturale per me è forte questo aspetto di piacere.
State of Mind: qual è l’aspetto più interessante dal punto di vista dei contenuti, che è emerso finora in questo Congresso?
Bara: per me è l’EMDR, il modo in cui i teorici dell’EMDR spiegano il processo e la correlazione tra questo fenomeno molto preciso, molto specifico, la tecnica che da questo deriva e l’ulteriore allargamento alla terapia. Ecco, io quell’ora lì [di sessione] l’avrei fatta diventare un’intera mattinata sull’argomento; sarebbe stato secondo me molto interessante.
L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia. L’epidemia nascosta (2012). Giovanni Fioriti Editore
Recensione dell’edizione italiana de L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia – L’epidemia nascosta (2012) di Lanius, Vermetten e Pain.
Negli ultimi anni numerose ricerche cliniche ed epidemiologiche hanno mostrato con dati solidi e convincenti la frequenza incredibilmente alta di esperienze traumatiche vissute nel periodo dell’infanzia e della fanciullezza ed il peso del loro impatto sul successivo sviluppo della persona.
Il concetto di trauma è stato ampiamente esplorato ed approfondito, dando origine a interessanti concettualizzazioni teoriche e ad una notevole mole di dati provenienti da vari ambiti, dalla biologia alla psicoterapia, dall’epidemiologia alla medicina internistica.
Il libro di Lanius, Vermetten e Pain, di cui quest’estate è stata pubblicata la versione italiana, a cura di Giovanni Tagliavini e con prefazione di Giovanni Liotti e Benedetto Farina, rappresenta una rassegna aggiornata e completa delle recenti conoscenze su questo tema.
Merito degli autori, come viene anche sottolineato nella prefazione italiana, è certamente l’essere riusciti a mantenere unità e coerenza nella trattazione, pur nella varietà dei contributi e delle prospettive.
Suddiviso in 3 sezioni, ognuna della quali è composta da 2 parti, il libro analizza, infatti, in maniera approfondita gli aspetti storici ed epidemiologici del trauma, i suoi effetti sulla salute mentale e fisica, gli esiti psicobiologici nei bambinie in età adulta, fino ad arrivare alle prospettive cliniche di valutazione e cura dei disturbi dello spettro traumatico.
Un punto importante, messo in evidenza anche dal sottotitolo, riguarda la necessità di ampliare e meglio specificare il concetto di trauma: oltre alle violenzefisiche, agli abusi sessuali e ai gravi maltrattamenti emotivi,un ruolo di primo piano nella genesi della psicopatologia è svolto dalle esperienze di negligenza grave (neglect), in cui il bambino è lasciato completamente solo e non protetto di fronte alle esperienze quotidiane di pericolo e sofferenza, dalle più piccole a quelle più importanti, che il bambino non è in grado di affrontare e gestire senza l’intervento ed il sostegno di un adulto.
Ricerche epidemiologiche rivelano che questo tipo di esperienze rappresentano più del 50% dei maltrattamenti subiti nel corso dello sviluppo, e che dunque ci troviamo di fronte ad una vera e propria “epidemia nascosta”.
Fenomeni dissociativi, alterazione della regolazione emotiva, la presenza di ricadute pur dopo un periodo di miglioramento in seguito al trattamento, ed una prognosi negativa sono fra le maggiori conseguenze messe in evidenza da vari studi.
Punto di partenza importante di questa riflessione è certamente l’Adverse Childhood Experience (ACE) Study, che ha contribuito in maniera sostanziale a far emergere un fenomeno sempre più difficile da ignorare e ha il merito di aver sottolineato l’effetto negativo in particolare delle esperienze traumatiche cumulative. Questa indagine epidemiologica di vastissime proporzioni (con un campione di oltre 17000 soggetti) ha evidenziato, al di là di ogni dubbio, come tali storie di sviluppo costituiscano un fattore critico rispetto al manifestarsi ed alla prognosi di disturbi psichiatrici, malattie somatiche e comportamenti come l’abuso di sostanze e comportamenti sessuali a rischio.
Nei vari capitoli viene messo in evidenza come la presenza di traumi ripetuti durante il periodo dello sviluppo abbia un notevole impatto non solo a livello psicologico, ma anche a livello biologico con esiti negativi e profondi sullo sviluppo cerebrale, conducendo a disabilità sociali, emotive e cognitive, e sui sistemi neuroregolatori che mediano le malattie somatiche.
Le ferite restano nel corpo e gli autori ne mettono in evidenza le sequele in termini di malattie internistiche, senza contare le imponenti ricadute a livello sociale.
Le proporzioni di questo fenomeno sono tali da rappresentare una vera e propria emergenza sanitaria e sociale, anche in considerazione dei costi necessari per gestirne le conseguenze a breve e lungo termine.
L’ultima parte del volume è dunque dedicata ad alcune proposte di trattamento volte a ridurre l’impatto delle esperienze traumatiche precoci.
Nonostante la specificità di ogni singolo modello di trattamento, Astrachan, Bernardes e Herman nella loro sintesi ben evidenziano come sia possibile rilevare alcune aree comuni.
Innanzi tutto è necessario affrontare il paradosso della sicurezza: al paziente viene richiesto di raggiungere un certo grado di sicurezza e fiducia nella relazione terapeutica, premessa indispensabile per ogni tipo di lavoro clinico, laddove è proprio la sicurezza nelle relazioni interpersonali ad essere stata pesantemente minata dalle loro pregresse esperienze traumatiche.
Altro punto fondamentale riguarda il lavoro sulle emozioni: è necessario fare i conti con la pervasiva alterazione della capacità di regolazione emotiva di questi pazienti e dare spazio non solamente alla paura, ma anche ad altri tipi di emozioni, prima fra tutte la vergogna.
I diversi autori cercano di dare una risposta a queste e ad altre sfide del trattamento di pazienti con esperienze precoci traumatiche, adattando vari modelli terapeutici alle specificità di questa nuova sfida.
Per l’ampiezza di respiro, la completezza e l’impostazione evidence-based è un libro di fondamentale importanza non solo per chi si occupa di trauma, ma per tutti coloro che a qualunque titolo hanno a che fare con la salute di adulti e bambini, raccogliendo efficacemente una sfida sempre più pressante: ormai non possiamo più permettere che questa epidemia resti nascosta ed è necessario munirci di strumenti adeguati per far fronte alle numerose e specifiche difficoltà che presentano la prevenzione, la presa in carico e la cura di questi sviluppi traumatici.
Ultimo di una serie di suggestivi contributi sull’argomento, arriva nel panorama scientifico un interessante articolo pubblicato su JAMA (Colloca, 2012), che ci spiega meglio il ruolo delle parole nella comunicazione clinico-paziente e i suoi effetti sulle nostre percezioni.
Sembrerebbe che aspettative negative sulla malattia, derivanti dalle spiegazioni di un clinico (medico, psicologo, infermiere,..) rispetto a sintomi, effetti collaterali, progressione del disturbo e così via, possano contribuire significativamente alla comparsa o al peggioramento dei sintomi stessi: il fenomeno è noto come Nocebo.
Per Nocebo si intende dunque la comparsa di un sintomo indotto dalle aspettative negative del paziente stesso e/o da suggerimenti negativi (involontari) dati dallo staff medico, in assenza di un quadro clinico di oggettivo peggioramento o di altro tipo di trattamento. Un placebo al contrario, insomma, che può avere effetti negativi sulla qualità della vita dei pazienti, sull’aderenza alla malattia e sull’efficacia del trattamento ricevuto.
I meccanismi psicologici sottostanti sembrano essere l’apprendimento tramite condizionamento pavloviano e l’ansia anticipatoria generata dalle aspettative negative, proprie o indotte dalla comunicazione del clinico. In uno studio sperimentale di qualche anno fa (Pfingsten, 2001), 50 pazienti affetti da dolore cronico sono stati divisi casualmente in due sottogruppi prima di un test di flessione della gamba: uno gruppo è stato informato che il test avrebbe prodotto un lieve incremento del dolore, l’altro ha ricevuto informazioni neutre sulla procedura. Risultati: il gruppo che ha ricevuto informazioni negative ha riportato un significativo aumento dell’intensità del dolore e una performance ridotta nella capacità di flessione della gamba. La potenza del nocebo, ha inoltre riscontro nel funzionamento cerebrale: i circuiti neurali coinvolti infatti riguardano il metabolismo della dopamina e degli oppioidi endogeni, entrambi coinvolti nella percezione del dolore, e centrali dunque sia nel nocebo che nel gemello più noto, il placebo. A conferma di questo dato le neuroscienze ci dicono che il cervello si attiva nello stesso identico modo sia durante la percezione di un dolore fisico intenso, sia quando questo dolore è solo rappresentato nella mente (Colloca, 2012): insomma chiudere il dito nella portiera della macchina o immaginare la scena, attivano le stesse aree cerebrali e l’esito, nel tempo, potrebbe essere la percezione del dolore in assenza dell’esperienza sensoriale vera e propria!
In condizioni di minaccia o di paura, come succede quando si ha una qualche malattia, le informazioni negative vengono assorbite in modo più rapido e preciso rispetto a quelle positive, quindi un’eccessiva quantità di informazioni solo negative può peggiorare significativamente lo stato d’ansia del paziente e far aumentare dunque anche i sintomi. Il dolore cronico è una delle condizioni cliniche in cui il nocebo si manifesta in modo più evidente e costituisce spesso il meccanismo di base responsabile della cronicizzazione del dolore stesso.
Come superare dunque il dilemma etico legato all’indiscutibile diritto del paziente ad essere informato? Ecco alcuni suggerimenti negativi molto frequenti e da evitare nella comunicazione clinico-paziente (Hauser, 2012):
Con il paziente, evitare:
Frasi che causano incertezza: “Il trattamento potrebbe funzionare”, “Proviamo questo farmaco!”
Espressioni gergali: “Durante l’esame (tomografia) il suo cervello sarà tagliato in piccole fettine e poi analizzato successivamente!”
Frasi ambigue: “Tra poco la faremo addormentare e non sentirà più nulla”
Enfatizzare aspetti negativi: “Deve assolutamente evitare di sollevare oggetti pesanti, se non vuole finire paralizzato!”
Focalizzare l’attenzione: “Alzi la mano se sente dolore!”, “Ha nausea?”
Negazione del sintomo: “Non deve preoccuparsi, sanguinerà solo un po’”
Una ricetta per tutti?..Dare il giusto peso alle parole!
Un recente studio mette in luce una relazione tra misure di comunicazione non verbale nei bambini di otto mesi di età e sintomi di autismo.
Secondo precedenti studi circa il 19% dei bambini con un fratello a cui è stato diagnosticato il Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) sviluppa i sintomi a causa della genetica e dell’ambiente. Per questo motivo, gli psicologi dell’Università di Miami (UM) lavorano allo sviluppo di un metodo per prevedere nei primi anni di vita il presentarsi di ASD in bambini ad alto rischio.
In recente studio si è cercato di mettere in luce una relazione tra le misure di comunicazione non verbale nei bambini, di appena otto mesi di età, e i sintomi dell’autismo, che diventeranno poi evidenti entro il terzo anno di vita.
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Prima di imparare a parlare, i bambini comunicano in modo non-verbale, attraverso il contatto con gli occhi e i gesti, tramite una comunicazione di tipo referenziale. Queste abilità sono già presenti all’età di otto mesi. I deficit di comunicazione referenziale sono caratteristici dei bambini più grandi con ASD, spiega Caroline Grantz, dottore di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia presso l’Università di Miami.
Nella ricerca in questione, un team di psicologi ha testato due gruppi di bambini: un gruppo composto da bambini ad alto rischio per ASD (con fratelli con diagnosi di autismo) e un gruppo composto da bambini a basso rischio. Le sessioni valutative hanno avuto una durata di 15-20 minuti e sono state effettuate a 8, 10, 12, 15 e 18 mesi di età dei bambini. Il team ha misurato lo sviluppo di tre forme di comunicazione non verbale:
Iniziativa di Attenzione Congiunta – il modo in cui un bambino mostra ad un partner l’interesse per un oggetto o un evento (ad esempio, puntando lo sguardo verso un giocattolo);
Avvio Richieste Comportamentali – il modo in cui un bambino richiede l’aiuto di un partner per ottenere un oggetto (per esempio raggiungendo, indicando, o dando all’esaminatore un giocattolo desiderato);
Risposta all’Attenzione Congiunta – il modo in cui i bambini rispondono e seguono il comportamento di un partner (ad esempio, l’esaminatore punta il dito verso qualcosa e il bambino segue con lo sguardo).
I risultati mostrano che bassi livelli di Iniziativa di Attenzione Congiunta e di Avvio Richieste Comportamentali tra gli 8 ei 18 mesi sono predittivi della gravità dei sintomi di ASD per i bambini che hanno un fratello con autismo. In particolare, i bambini con i più bassi tassi di Iniziativa di Attenzione Congiunta ad 8 mesi hanno mostrato minore impegno sociale con un esaminatore a 30 mesi.
Un tale risultato, sebbene meriti di essere avvalorato da ulteriori ricerche, si può considerare un grande passo avanti per la terapia dei bambini con autismo: lo stesso Daniel Messinger, professore di Psicologia presso l’università di Miami e uno degli autori dello studio, specifica “Per i bambini ad alto rischio di sviluppare un ASD, interventi specifici orientati alla comunicazione nel corso dei primi anni di vita possono ridurre la gravità dell’impatto dell’autismo”.
Non sorprende dunque che lo studio sia stato finanziato dal National Institute of Child Health and Human Development, restiamo comunque in attesa di ulteriori ricerche.
Dopo una simpatica distrazione che mi ha portato a un concerto mattutino di musica lirica al Teatro Grande di Brescia (sede del primo giorno di congresso), invece che all’Aula Magna della Facoltà di Medicina e Chirurgia (il luogo in cui sarei dovuto andare…), sono riuscito a prendere posto al Congresso, giusto prima del coffee break (non essendo il congresso “foraggiato” dalle case farmaceutiche, si trattava di un coffee break abbastanza sobrio, ma nel complesso soddisfacente. Voto personale: 7). Sono stato subito colpito dalla platea un po’ scarna, considerato il livello piuttosto alto dei contributi scientifici, anche internazionali e questo mi è dispiaciuto molto.
Nella prima relazione a cui ho assistito i neurologi Bertaina e Sandrini dell’IRCSS Fondazione Istituto Neurologico Nazionale C. Mondini di Pavia hanno affrontato il tema dell’uso della musicoterapia attiva (quella in cui il paziente è coinvolto nel fare musica, anche semplicemente battendo le mani ad esempio) nella riabilitazione motoria e emotiva del Morbo di Parkinson. I ricercatori hanno sottolineato come la musicoterapia possa integrarsi alla normale terapia fisica (utilizzata soprattutto per la rigidità) per migliorare gli aspetti della bradicinesia, delle autonomie di base e dell’umore, in linea con precedenti studi (Pacchetti, 2000). Stimolazioni acustiche attraverso appositi metronomi vengono usate in questo disturbo anche per migliorare la marcia.
Successivamente è toccato alla Dr.ssa Giovagnoli dell’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano mostrare i benefici che la musicoterapia attiva nei pazienti con deterioramento cognitivo lieve (mild cognitive impairment: con punteggi al Mini Mental State Examination compresi tra 20 e 24). Rispetto alla riabilitazione cognitiva, che ha maggiori effetti sulla memoria, la musicoterapia in questi pazienti migliora l’umore e la socializzazione. Non è stato rilevato alcun effetto della musicoterapia sulla Theory of mind (l’abilità di comprendere i processi mentali altrui), mentre studi precedenti avevano mostrato un miglioramento degli aspetti afasici del linguaggio(Brotons, Koger, 2000).
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Un musicoterapeuta dell’Istituto Geriatrico Golgi Radaelli di Milano ha evidenziato come la musicoterapia nella Demenza di Alzheimer possa stimolare la memoria autobiografica e la risposta emotiva, migliorare la comunicazione non verbale e la qualità della vita. Dove la parola non arriva più, arriva infatti la musica.
Successivamente è stato il turno della Dr.ssa Galbiati dell’Istituto Tumori di Milano, che ha illustrato i benefici dell’arteterapia integrata alla musicoterapia su pazienti trattate per tumore al seno. I percorsi di arteterapia nel paziente oncologico si ispirano al lavoro della celebre arteterapeuta Paola Luzzato che ha svolto per tanti anni la professione presso il Memorial Sloan-Kattering Cancer Center di New York. Le pazienti attraverso queste terapie sono incoraggiate a esprimere i propri stati d’animo sulla malattia, soprattutto mediante l’uso di simboli e metafore.
Lo studio osservazionale condotto ha evidenziato che le pazienti coinvolte nella terapia integrata mostravano un miglioramento delle relazioni interpersonali, dell’immagine e della percezione corporea.
Anche il networking lunch è stato all’insegna di una sana sobrietà e mi ha portato a un singolare incontro con una simpatica collega bulgara neurologa, cantante e reporter (siamo una grande famiglia evidentemente…), che mi ha mostrato una sua versione di I will survive su Youtube.
Il congresso è poi ripreso con l’intervento del professor Stavros J Baloyannis, in assoluto una delle presentazioni più insolite e interessanti a cui abbia mai assistito in vita mia. Baloyannis (con cui non ho resistito a farmi fare una foto), persona coltissima, è un religioso della Chiesa Greco Ortodossa, neurologo e professore presso l’Università Aristoteleliana di Thessaloniki. E’ autore di 625 papers che trattano di neurologia, filosofia, musicologia, e antropologia.
Il titolo della sua relazione era “La filosofia della musica nella Chiesa Ortodossa”. Tutta la presentazione ha avuto in sottofondo un suggestivo coro ortodosso dall’effetto ipnotico, che si integrava ottimamente con la voce soffusa del relatore. Le origini della liturgia bizantina e ortodossa, risalgono al 527 d.C. con l’elezione di Giustiniano I a imperatore dell’impero d’Oriente, ufficiosamente, anche se le radici risalgono a tempi ancora più remoti. Si tratta di una musica solo vocale e monodica.
La finalità di questi canti è quella di indurre uno stato di apatia (non da intendersi in senso clinico psichiatrico), una sorta di serenità caratterizzata dall’assenza di passioni. Questo aspetto si può apprezzare anche nell’iconografia sacra, dove i volti dei santi sembrano trasfigurati, fuori dal tempo, ormai lontani dalle passioni carnali terrene. Baloyannis ha accennato ad alcuni concetti religiosi relativi alla sofferenza come sentimento universale o non individuale (che possiamo trovare anche nel buddismo) e ha poi spiegato come la diffusione di questa musica nei reparti riduca l’aggressività e potenzi l’attività mentale dei pazienti affetti da Demenza di Alzheimer.
Ha infine presentato i dati di uno studio longitudinale su una comunità monastica del Monte Athos in cui non è stato rilevato un solo caso di demenza sugli oltre 2000 monaci seguiti nel tempo. Si può ipotizzare che questo risultato straordinario sia ascrivibile a una serie di fattori tra cui: la dieta mediterranea, l’ambiente fisico privo di senza stress sociali, l’apatia e la liberazione dalle passioni ottenute anche attraverso il canto della musica bizantina, la vita spirituale con meditazione e preghiera e le aspettative metafisiche sulla vita eterna.
Molto interessante anche il lavoro di Lucia e Michele Cavallari, entrambi musicisti diplomati al conservatorio e musicoterapeuti di Ferrara (www.musicoterapiaferrara.it). Hanno raccontato la propria esperienza nell’ambito della riabilitazione neurologica con pazienti affetti da afasie, disturbi cognitivi e stati vegetativi.
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Si tratta di pazienti veramente complessi con estreme difficoltà di comunicazione, per cui l’intervento musicoterapico, o meglio suonoterapico, viene adattato al singolo caso per favorire l’interazione col mondo esterno e il recupero delle funzioni perse. Hanno sottolineato l’importanza di suonare con il paziente in modo attivo e non per il paziente, mostrando anche un video in cui il suonare impediva a un paziente di succhiarsi il dito come riflesso regressivo.
Il Dr. Nuara del San Raffaele di Milano ha illustrato infine il possibile utilizzo della Stimolazione Magnetica Transcranica (Tms), che è stata studiata anche per il trattamento della depressione resistente, nella Sclerosi Multipla.
Nello specifico ha presentato un caso di un pianista di 39 anni, affetto dalla malattia che in seguito al trattamento ha migliorato le performance motorie e la destrezza manuale nel suonare il piano. Sembra che il meccanismo d’azione riguardi il ribilanciamento di fenomeni maladattati di plasticità neuronale e il rinforzo circuiti sensori motori associati al controllo motorio della mano.
La musica ci fa stare meglio. È certo. E con sempre più entusiasmo le grandi menti che sostengono quest’idea si incontrano per spiegare le loro teorie e mostrare i risultati del loro lavoro.
Il 21 e 22 settembre al Congresso di Neuromusicologia di Brescia, sono intervenuti neurologi, sociologi, psicologi, psichiatri che si sono espressi sul valore della musica come sostegno per recuperare le abilità perdute. Sono intervenuti scienziati da tutto il mondo come Ryo Noda, che, presentando la sua ricerca “Effect of the musico-kinetic therapy” (MKT), ha voluto dimostrare che movimento e musica (o meglio, movimento a tempo di musica), riescono a restituire capacità motorie perdute a causa del Parkinson.
Della stessa idea è anche C. Jola che, con “The neuronal processes of dancing experiences”, spiega come la musica sia capace di stimolare quegli stessi neuroni-specchio che si attivano osservando un danzatore, creando già uno schema mentale di movimento.
Non sono mancati gli interventi sugli aspetti comunicativi e cognitivi della musica, come quello di T. Fritz, che ha spiegato in modo molto chiaro come il linguaggio musicale sia convenzionalmente deciso dalle popolazioni che ne fruiscono. Vale a dire che se proponessimo l’ascolto di un brano di musica occidentale ad un membro della tribù dei Mafa, in Cameroon (questo era il suo esempio), questi ne riconoscerebbero la struttura musicale, ma non il messaggio, convenzionalmente inteso e assorbito da noi, che siamo ormai abituati ad interpretare schemi fissi di melodie, armonie e ritmi.
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Per quanto riguarda il carattere psicoterapeutico della musicoterapia, sono stati molto interessanti gli ultimi tre interventi della prima giornata, quelli di Rita Formisano, “Music therapy in patients with disorders of consciousness”, A.L.Christiensen, “The influence in rehabilitation of individual human skills in music, literature or mathematics to ensure reconstruction after brain injury” e quello della prof.ssa Licia Sbattella che, con la sua ricerca “The orchestral texture of the mind: harmonization and modulation of self”, ha presentato i risultati raggiunti in ambito sociale e cognitivo, chiudendo inoltre il congresso con un concerto dell’orchestra di Esagramma, composta da ragazzi con problemi cognitivi, sindromi degenerative e problemi sociali.
La musica, ancora una volta, ha dimostrato di essere in grado di mettere insieme gruppi umani, attraverso la partecipazione a eventi musicali.
In un clima di grande entusiasmo e cordialità, è stato bello assistere a tante manifestazioni di rispetto per il lavoro l’uno dell’altro. Gli esperti partecipavano con grande entusiasmo e si facevano domande reciprocamente, davanti a tutti durante gli interventi, affinché tutti potessero godere dell’approfondimento.
La neuromusicologia è una nuova branca delle neuroscienze. Questa nasce dalla acquisita consapevolezza del potere del linguaggio sul nostro cervello e sul suo corretto funzionamento, ma soprattutto dalla consapevolezza dell’enorme relazione tra linguaggio e musica, per la loro organizzazione tematica, temporale, per la loro vicinanza al movimento e alla respirazione.
Per quel che concerne il potere terapeutico della musica riporto qui un interessante intervento del fondatore della Società Internazionale di Neuro Musicologia e organizzatore del Congresso, Giorgio Brunelli: “Nel cervello ci sono particolari strade o sentieri: Il sentiero del ‘dove’, del ‘come’, del ‘cosa’, che vanno dai punti di entrata delle sensazioni fino ai lobi frontali. Quando il cervello è distaccato dal mondo esterno, i suoni musicali che entrano nell’orecchio e trovano nel cervello queste strade, possono seguirle, anche passivamente, e in questo modo riattivare quei percorsi che c’erano prima della malattia.”.
Giuliano Avanzini (neurofisiologo, primario emerito dell’istituto neurologico Carlo Besta di Milano), ha parlato del rapporto tra neuroscienza e musica. La neurologia, che ai propri esordi si è occupata di studiare la struttura del linguaggio nel nostro cervello, non si è mai occupata di studiare la musica nello stesso modo, eppure, musica e linguaggio hanno innumerevoli punti in comune. Infatti sono sistemi di comunicazione presenti in tutte le culture umane. Si è scoperto in tempi recenti che l’area del cervello che si occupa di elaborare il linguaggio è molto importante anche per elaborare la struttura musicale, rendendola di senso compiuto. Dà quindi un’organizzazione sintattica.
La musica è una terapia utile a tante malattie neurologiche. Si svolge nel tempo e crea un “tempo”, ossia un’organizzazione temporale. La musica riesce a restituire una capacità di dare un ritmo al movimento (alcuni pazienti riescono a ritrovare una camminata regolare grazie alla musica. Senza questa ci riescono difficilmente).
Naturalmente però la musica non fa solo questo. La musica ci unisce, ci stimola, ci fa riflettere su noi stessi e sugli altri.
La musica chiama altra musica. Imparando ad ascoltarla, potremmo anche imparare a sentirci meglio.
Giornata Mondiale della Salute Mentale – 10 Ottobre 2012
Ogni epidemia è un prodotto del suo tempo (M. Bounan)
LA PAZZIA, QUESTA SCONOSCIUTA.
Oggi 10 ottobre si celebra la giornata mondiale della salute mentale, un concetto che è sempre stato definito per differenza. La persona “sana” è quella “non malata”.
La salute mentale, la così tanto agognata “normalità” è fondamentalmente l’assenza di patologia. Ma allora, che cos’è questa cosa di cui oggi festeggiamo l’assenza? Che cos’è la pazzia?
Nel corso dei secoli sono state date diverse interpretazioni all’evidenza della malattia mentale, della “follia”; citando due esempi, l’interpretazione illuminista, rappresentata da Diderot, attribuisce la follia al corpo; al contrario, la tradizione romantica, attraverso le parole di Schelling, afferma: «L’essenza più profonda dello spirito umano, […] se esso viene considerato nella separazione dall’anima, quindi da Dio, è la follia. La base della ragione stessa è dunque la follia. Quindi la follia è un elemento necessario, che però non dovrebbe manifestarsi […]. Ciò che chiamiamo ragione […] è propriamente null’altro che follia regolata». [1]
Arrivando a secoli più vicini al nostro, negli anni 20 del ‘900 si assiste all’opposizione surrealista alla psichiatria tradizionale. Appoggiandosi alle scoperte freudiane, Breton e colleghi cercano di esplorare il mondo dell’inconscio e del sogno e si interessano a stati, quali l’automatismo psichico, la follia e l’ipnosi, per descriverne i dati. Propugnando la libertà (sociale e individuale), questi autori sostituiscono la ricerca sperimentale scientifica con la filosofia e la psicologia ed esaltano la figura del “folle”, considerato come persona in grado di vedere ed interpretare i fatti del mondo in una chiave particolare, scevra dai limiti e dai confini imposti dalle leggi della società borghese, e quindi più vera e più reale. [2]
Gli anni ’30 vedono l’introduzione di pratiche mediche controverse utilizzate per curare la malattia mentale, inclusa l’induzione di coma tramite elettrochoc, insulinoterapia o altri farmaci, l’asportazione di parti del cervello (leucotomia o lobotomia). Oltre agli evidenti problemi etici, si nota subito quanto la patologia psichica fosse assimilata a quella fisica, arrivando a “curare” la prima con metodi che incidono sulla seconda.
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Negli anni ’50 si sviluppano i primi farmaci, in particolare l’antipsicotico clorpromazina, e lentamente il loro uso soppianta le precedenti “terapie”. Contemporaneamente, oltre al problema degli effetti collaterali, aumenta l’opposizione all’uso degli ospedali psichiatrici e si fanno strada tentativi di riportare le persone alla comunità attraverso gruppi collaborativi autogestiti.
Nel periodo contemporaneo, si dibatte ancora su una contrapposizione di idee e teorie che ha avuto origine in un movimento nato negli anni 60: l’Antipsichiatria.
Rappresentata in America da Goffman e Szasz e in Italia da Basaglia, questo indirizzo si basa sul presupposto secondo cui nella maggioranza dei casi le sofferenze psichiche sono il risultato non di malattie o disfunzioni, ma di condizionamenti ambientali o di contraddizioni sociali. Alla base c’è la premessa teorica del carattere esclusivamente sociogenetico delle malattie psichiche, quindi il conseguente rifiuto di tutte le teorie e terapie dettate dalla psichiatria classica (in particolare dall’indirizzo medico – biologico). Questa è infatti tacciata di riduzionismo, pertanto viene richiesto un mutamento radicale nell’approccio al problema dei disturbi mentali, per esempio con l’applicazione di categorie sociologiche nella diagnosi degli stessi. Inoltre la psichiatria tradizionale viene accusata di concentrare la propria attenzione sulla malattia individuale e sulle sue basi biologiche, trascurando l’origine sociale dei disturbi psichici.
In Italia, in particolare, figure di assoluta importanza per quanto riguarda questo filone teorico sono Basaglia e Jervis (anche se quest’ultimo non volle mai essere incluso esplicitamente in questa corrente). Entrambi concentrarono le loro forze nel tentativo di combattere e sradicare la visione psichiatrica tradizionale della malattia mentale, riproponendo il problema su un piano sociologico: “La follia – afferma lo stesso Jervis – è anzitutto un giudizio di devianza; in pratica è il nome che si dà a certe violazioni del vivere sociale”. [3] La diagnosi psichica non avrebbe un valore scientifico, ma dipenderebbe da categorie socioculturali ed avrebbe l’unica conseguenza di etichettare le persone in base a due grandi classificazioni: il “normale” ed il “patologico”. Lo stesso autore si spinge poi oltre, ipotizzando un’origine del disagio psichico nell’oppressione che da sempre la società perpetua sull’uomo, a cominciare dalla “famiglia nucleare”, per poi proseguire nella scuola e nella fabbrica.
L’altro esponente italiano di questo attacco alla tradizione psichiatrica è Franco Basaglia; partendo dalla sua esperienza personale all’interno di manicomi negli anni ’60 (al tempo caratterizzati dalla massima detenzione, dalla camicia di forza e dall’elettroshock), egli sosteneva che «Un malato di mente entra nel manicomio come “persona” per diventare una “cosa”. Il malato, prima di tutto, è una “persona” […]. Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone».
La rivoluzione concreta attuata applicando le idee basagliane si ebbe per la prima volta a Gorizia, dove il manicomio diventò una “comunità terapeutica”, con cancelli aperti e una nuova concezione di follia. Scrive Basaglia: «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla». [4]
Tutto ciò si concretizza con la legge del 13 maggio1978 (legge 180) presentata e proposta dallo stesso Basaglia. [5] In questa riforma, lo psichiatra sottolinea la necessità di «rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura». Questa legge, che confluirà poi quasi per intero nella legge n° 833 del 23 dicembre 1978 con cui verrà istituito il Servizio Sanitario Nazionale, porta al graduale superamento degli ospedali psichiatrici e neuropsichiatrici ed alla loro trasformazione in strutture diverse, non più coercitive e segregative, ma di aiuto e di appoggio per il malato, quasi come delle strutture che lo accompagnino nel passaggio dalla malattia al reinserimento nel mondo sociale. Sono infatti previsti “Servizi di diagnosi e cura”, ma anche “appartamenti protetti” ed altre strutture d’appoggio per ex degenti manicomiali o per nuovi utenti dei servizi psichiatrici.
Osteggiata in mille modi e mai finanziata, la legge 180 viene applicata solo in alcune zone d’Italia ed ha una grave dimenticanza: non tratta minimamente la situazione dei vecchi “manicomi criminali” (oggi Ospedali Psichiatrici Giudiziari – Opg – , 6 in Italia), lasciandoli sostanzialmente immutati.
La corrente denominata Antipsichiatria, quindi, rappresenta una svolta epocale per il trattamento dei malati pschichici e per i presupposti che proponeva: da una concezione di custodia e controllo, in cui i “folli” venivano rinchiusi in quanto pericolosi, incurabili e nocivi per la società, si passò ad una nuova concezione clinica e terapeutica, tipica del sistema sanitario.
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In questi stessi anni si ebbero dei movimenti popolari contro alcuni criteri psichiatrici: il movimento degli omosessuali si oppose alla classificazione dell’omosessualità come malattia mentale, e in un clima di acceso dibattito nel 1973/1974 l’ American Psychiatric Association (APA) decise con una piccola maggioranza (58%) di rimuoverla dalle categorie nosografiche; ciononostante l’omosessualità egodistonica rimase fino al 1987.
Contemporaneamente alla nascita e al crescente uso di psicofarmaci, nacquero polemiche e correnti che criticavano la psichiatria per la sua eccessiva focalizzazione sull’indagine biochimica circa la malattia mentale. I critici affermarono infatti che le assunzioni biochimiche della psichiatria maggioritaria non erano supportate da prove ed erano solo giudizi parziali. Questo intervento massiccio sul paziente con psicofarmaci era interpretato come un tentativo di sedarlo e di drogarlo, al fine di renderlo il meno pericoloso possibile ed il più possibile standardizzato ed omologato alle persone cosiddette “normali”. Bounan, nel 1991 scrive: «Si drogano i depressi e i folli, li si rende presentabili. Almeno tacciono, e si può sempre distogliere gli occhi dal loro viso idiota». [6]
Ancora una volta, quindi, si perpetua la contrapposizione tra psichiatria e senso comune, tra cause biochimiche o genetiche e cause sociali, tra la cura isolata ed il reinserimento sociale.
Ancora una volta, il “pazzo” è definito dai “normali” per contrapposizione, per differenza, per il rispetto delle norme che gli stessi “normali” hanno costruito.
Ancora una volta si impone la classificazione degli “altri”, di quelli che non sentono voci o non vedono il mondo diversamente dalla maggioranza.
Ancora una volta si danno nomi, si etichettano cose e persone in tutta la sicurezza che questo comporta, ché noi siamo diversi, noi riusciamo a ragionare e a utilizzare la razionalità, noi non siamo come loro.
Ancora una volta tante persone tra i “non addetti ai lavori” sostengono che “alla fine tutte queste malattie mentali hanno una base scientifica, biologica… così ci nasci e non puoi guarire”, che per contro significa che chi non è “nato pazzo” non rischia di diventarlo, che è al sicuro.
Eccola qui la pazzia, che nella quotidianità significa emarginazione, derisione, giudizio degli altri. La paura che la follia provoca nei “normali” è incredibilmente placato dal definire dei limiti immutabili: quello dei “pazzi” è un gruppo con confini impermeabili (pazzi si nasce, non si diventa e dalla pazzia non si guarisce); la differenza di status all’interno della società tra questo gruppo e quello dei “normali” è stabile (i folli non potranno mai arrivare al potere) e legittima (non sarebbero in grado di governarsi da soli: è giusto che noi ci prendiamo cura di loro fissando delle leggi). Allora perché cambiare la situazione? Perché forse non è così. Perché dalla cosiddetta “pazzia” si può guarire (tranne qualche eccezione). Perché differenza non è sinonimo di patologia. Perché almeno si deve provare a reinserire il malato nella società, per fargli riacquisire le sue relazioni e le sue capacità comunicative.
Quanto questa visione immutabile della pazzia sia rassicurante lo si può notare anche nell’uso comune di questo concetto relativamente alla cronaca nera, che ogni giorno impressiona ed insieme appassiona tutti i cittadini. Quante volte ci si nasconde dietro a un “è sicuramente pazzo e malato” per spiegarsi la condotta di un pedofilo, di un assassino? Quante volte si cerca di catalogare le persone tra chi commette reati e chi “non lo farebbe mai”? Le persone partecipano copiose ed interessate alle varie cronache, un po’ per curiosità e un po’ perché pensano di stare osservando qualcosa di altro, di diverso da sé. Quando si legge della madre che ha ucciso il figlio, è più facile dire “è una bestia”, piuttosto che “subito dopo il parto anche io avrei ammazzato mio figlio per quanto piangeva”. Ci sono addirittura dei tabù, degli argomenti che non si possono mettere in discussione; primo fra tutti quello, appunto, che chi commette certi tipi di crimini deve avere per forza qualcosa che non va. Che sorpresa, poi, quando il reo viene giudicato “capace di intendere e di volere”: si affaccia l’ipotesi che una persona sana di mente abbia deciso serenamente dall’oggi al domani di compiere certi reati, e questo per la mentalità di tanta gente non è possibile. Scrivono Fornari e Ponti: «È solo un’illusione quella che accompagna la maggior parte delle persone nella vita: che cioè si possa stabilire una netta linea di demarcazione tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene e il male, tra l’angelico e il diabolico, tra la normalità e la follia, tra il delinquente e chi le norme le rispetta, e così via». [7] Però è un’illusione che rassicura tantissimo e che ci mette al sicuro, una volta posizionataci da una determinata parte della linea, che per quel parametro non potremo cambiare mai.
Verso la psicopatologia si crea così una condizione di paura mista a curiosità per qualcosa che «proprio come il divino, affascina e insieme terrorizza per la sua totale diversità» (Mauro Covacich). L’uomo è attratto dal differente da sé, ma allo stesso tempo non può mostrare interesse per qualcosa di così “sbagliato”: «La gente si tira un po’ indietro come per mostrare che in realtà voleva solo rendersi utile, che non è interessata al male degli altri – sarebbe peccato – e che comunque non è giusto che succedano queste cose, bisognerebbe seguire di più le persone malate (c’è chi dice “controllare”, c’è chi dice anche “sorvegliare”) ». [8]
In fondo si può dire che la paura della pazzia (e lo stesso vale per la paura di impazzire) sia uno dei tanti timori dell’uomo nei confronti di qualcosa che non conosce, quasi come si nutre paura e insieme curiosità nei confronti dell’Aldilà. Per cercare di fronteggiare la dissonanza cognitiva tra questi due sentimenti e per cercare di spiegarsi l’origine del fenomeno, l’uomo crea teorie ingenue sulla pazzia, come del resto ha sempre fatto nel corso della storia, coerenti con i valori preponderanti del momento. Per questo il pazzo è stato visto, nei vari periodi storici, come incarnazione del demonio, stregone, pericolo per la società da rinchiudere, persona con disfunzioni cerebrali etc.
Per lo stesso motivo anche in un medesimo periodo, vi sono diverse interpretazioni della malattia mentale e di conseguenza del malato mentale: al giorno d’oggi si possono ritrovare diverse teorie di riferimento per altrettante tipologie di interventi terapeutici (paradigma biologico, paradigma psicoanalitico, paradigma dell’apprendimento, paradigma cognitivo, etc.).
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Quello che dovrebbe far riflettere è che l’uomo ha paura di impazzire anche per il tipo di vita che questo comporterebbe (l’emarginazione, l’etichettamento, i pregiudizi), quando è proprio lui che, giorno dopo giorno, perpetua questi atteggiamenti mentali nei confronti dei malati psichici. L’uomo rischia così di rimanere intrappolato in un una gabbia che lui stesso si è costruito o almeno ha contribuito a rafforzare presso la società in cui vive. Nessuno si fa problemi nel categorizzare le persone come “diverse”, senza però pensare mai di poter un giorno ricadere nei parametri che definiscono questa categoria. L’uomo ha paura che impazzendo potrebbe perdere i suoi diritti e la sua libertà, ma non si fa scrupoli a togliere questi diritti e questa libertà ad altre persone ritenute “pericolose” per la società.
Il cittadino si aspetta quindi che la legislazione che lo riguarda lo protegga dalle figure ritenute pericolose per se stesso e per gli altri. A questo proposito, l’Italia è rimasta oggi l’unica nazione in Europa dove alla diagnosi di vizio totale o parziale di mente dell’imputato, al momento in cui ha commesso il delitto, il reo rimanga ancora in ambito penale. In pratica, quando un malato psichiatrico commette un reato, le possibilità sulla sua sorte sono tre:
Se viene riconosciuto il vizio totale di mente (art. 88 CP) e se viene giudicato non socialmente pericoloso (artt. 203 – 133 CP), viene prosciolto e rimesso in libertà (artt. 529 – 530 CP)
Se viene riconosciuto il vizio totale di mente (art. 88 CP) e se viene giudicato socialmente pericoloso (artt. 203 – 133 CP), viene prosciolto ed internato in un OPG per 2, 5 o 10 anni (artt. 215 – 222 CP)
Se viene riconosciuto il vizio parziale di mente (art. 89 CP), viene condannato (ad una pena minore), ma prima di entrare in carcere (art.656 CP) trascorre un periodo di 1 – 3 anni in un OPG, per il trattamento della patologia di mente (artt. 215 – 219 CP).
Si pone però a questo punto una domanda: non essendo l’OPG una struttura terapeutica, ma solo custodialistica, per la maggior parte degli internati l’etichetta del socialmente pericoloso come potrebbe scomparire?
Inoltre vale la pena notare un dato statistico, che probabilmente allarmerebbe tutte le persone che si spiegano i reati più gravi e “mostruosi” come messi in opera da un malato mentale: statisticamente i malati mentali che commettono reati rappresentano, rispetto alla popolazione di tutti i malati mentali, la stessa percentuale di quelli che commettono reati e sono sani di mente, rispetto a tutta la popolazione dei sani di mente. Sono infatti pochissime le patologie psichiatriche a rischio di comportamenti aggressivi ed eterolesivi (possono esserlo soprattutto i paranoidei ed i “borderline”).
Sembra quindi di dover modificare la nozione originaria di “follia omicida” o di “pazzo criminale” verso una rappresentazione del malato mentale connotata meno negativamente.
La follia, la devianza, la psicopatologia è quindi qualcosa che ci appartiene. Come società e come singoli. Sta a noi decidere come gestirla quotidianamente, a prescindere dalla legislazione. Sta a noi decidere di accettare che la pazzia sia fondamentalmente sofferenza e che il sofferente sia uno di noi.
Per commettere un crimine Ci vuole il suo coraggio Ma per voltar la testa Basta la debolezza Sono tutti complici E non te ne vorrebbero Ti giustificherebbero, giustificando loro (V. Capossela)
BIBLIOGRAFIA:
1) SCHELLING, F.W. (1974), Opere Filosofiche. Laterza, Bari.
2) BRETON, A. (1997), Manifesti del Surrealismo. Einaudi, Torino.
3) JERVIS, G. (1975), Manuale critico di psichiatria. Feltrinelli, Milano.
4) BASAGLIA, F. (1981), Scritti 1. Einaudi,
5) LEGGE 180. Gazzetta Ufficiale, 16 maggio 1978.
6) BOUNAN, M. (1991), Le temps du Sida. Allia, Paris.
7) PONTI, G., FORNARI,U. (1999), Il fascino del male. Raffaello Cortina, Milano.
8) COVACICH, M. (2007), Storia di pazzi e di normali. Laterza, Bari.
Obesità ed Emotional Eating. Une Liaison Dangereuse
Congresso SITCC 2012 Roma
Obesità ed Emotional Eating. Une Liaison Dangereuse
DR.SSA ANNALISA DA ROS, DR PIERGIUSEPPE VINAI, DR.SSA SILVIA CARDETTI, DR NICOLA GENTILE
Ogni coinvolgimento in relazioni interpersonali ha, per gli esseri umani, basi emotive, e dipende dalla quella capacità di condividere e comprendere le emozioni che noi chiamiamo empatia. Vi chiederete ora cosa c’entri questo tipo di capacità con gli sbadigli. Tutti sappiamo che si tratta di fenomeni contagiosi: sentiamo l’irrefrenabile bisogno di sbadigliare non solo quando vediamo qualcun altro farlo, ma anche quando lo immaginiamo, ne sentiamo il suono, o addirittura quando leggiamo qualcosa sull’argomento (se state sbadigliando leggendo questo articolo, almeno sappiamo che non è – necessariamente – perché vi state annoiando).
Esistono vari indizi di tipo clinico, neuropsicologico e psicologico che suggeriscono l’esistenza di un legame tra il “contagio” di sbadigli e l’ empatia. Questo fenomeno particolarmente curioso inizierebbe infatti a manifestarsi tra i 4 e i 5 anni di età, nel momento cioè in cui i bambini sviluppano l’abilità di identificare le emozioni altrui in modo appropriato (Singer, 2006; Saxe, Carey, & Kanwisher, 2004). A livello neurobiologico, le aree cerebrali che si attivano quando vediamo qualcuno sbadigliare (il cingolato posteriore, il precuneo e la corteccia prefrontale ventromediale) sono le stesse che si attivano durante le interazioni empatiche (Schurmann, Hesse, Stephan, Saarela, Zilles, et al., 2005)
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L’attivazione dell’amigdala supporterebbe inoltre l’ipotesi sull’esistenza una relazione tra sbadigli contagiosi e “l’analisi emozionale” del volto dell’altro, tipica delle interazioni faccia a faccia (Nahab, Hattori, Saad, & Hallett, 2009). Ultimi, ma non per importanza, i “neuroni specchio”: nel caso degli sbadigli, si tratta di particolari neuroni situati nel giro frontale postero-inferiore destro che si attivano durante la visione delle azioni svolte da un partner, prima ancora che queste vengano effettivamente imitate (Arnott, Singhal, & Goodale, 2009). Gli studi sui neuroni specchio svolti nel corso degli ultimi anni ne hanno sottolineato l’importanza per la comprensione delle azioni altrui, un prerequisito dell’ empatia (Rizzolatti, & Craighero, 2004).
Il primo studio di tipo naturalistico sul legame tra empatia e sbadigli contagiosi è stato invece condotto da Ivan Norscia e Elisabetta Palagi e riportato nell’articolo “Yawn Contagion and Empathy in Homo sapiens” (2011). Gli autori hanno osservato il comportamento di 109 adulti (53 maschi) di nazionalità diverse (europei, asiatici, africani e nord-americani), inconsapevoli dell’osservazione in atto.
Lo studio ha dimostrato che il legame sociale, associato all’ empatia, è in grado di influenzare il contagio di sbadigli in termini di occorrenza, frequenza e tempo di latenza (cioè il tempo trascorso tra il primo sbadiglio e lo sbadiglio di “risposta”). Il primo dato interessante è che queste variabili non erano invece affatto influenzate né dal contesto sociale, né dalla nazionalità dei soggetti. Anche la “modalità sensoriale” (vedere una persona sbadigliare vs sentire il suono dello sbadiglio vs entrambi) non aveva alcun effetto sul “contagio”.
L’importanza del legame sociale nel determinare il tipo di “scambio di sbadigli” si è rivelata invece determinante, a dimostrazione del fatto che l’ empatia gioca un ruolo fondamentale in questo tipo di fenomeno. Non solo il contagio era maggiore se i soggetti coinvolti si conoscevano, ma seguiva anche una sorta di “gradiente empatico”. In altre parole, il contagio minore era quello che si poteva osservare in due soggetti sconosciuti l’uno all’altro, mentre quello maggiore tra persone della stessa famiglia, passando attraverso i due gradi intermedi di “conoscenti” e “amici”.
Si tratta della conferma “comportamentale” di ciò che studi clinici, neurobiologici e psicologici hanno suggerito durante gli scorsi dieci anni. È possibile che la percezione dello sbadiglio altrui attivi reti neurali complesse connesse anche all’imitazione motoria, al comportamento sociale e all’ empatia, e che, di conseguenza, le regioni cerebrali che mappano queste reti vengano sovra-stimolate dalla percezione dello sbadiglio di una persona a cui teniamo. Una tale sovra-stimolazione porterebbe ad una sorta di risposta “potenziata”, coerentemente col fatto che proviamo maggiore empatia nei confronti delle persone a cui siamo più legati.