La Marsupioterapia, grazie alla quale i neonati possono godere del contatto pelle-a-pelle con mamme e papà, ha effetti positivi duraturi sullo sviluppo del loro cervello; tanto che il loro funzionamento cerebrale in adolescenza risulta migliore rispetto a quello dei neonati prematuri che sono stati posti in incubatrici.
Precedenti ricerche, infatti, hanno dimostrato che i bambini nati prima della 33a settimana di gravidanza hanno maggiori problemi cognitivi e comportamentali durante l’infanzia e l’adolescenza rispetto ai coetanei nati a termine. I ricercatori della canadese Université Laval hanno confrontato le funzioni cerebrali di 18 neonati prematuri tenuti in incubatrice, con 21 posti in marsupioterapia per una media di 29 giorni e 9 neonati a termine.
Per valutare le funzioni cerebrali dei bambini – che adesso hanno 15 anni – i ricercatori hanno utilizzato la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS). Con questa tecnica non invasiva e indolore è possibile attivare le cellule cerebrali in aree mirate, come la corteccia motoria primaria che controlla i muscoli. Misurando le risposte muscolari alla stimolazione, i ricercatori sono stati in grado di valutare le funzioni cerebrali, come il livello di eccitabilità e di inibizione del cervello, la sincronizzazione cellulare, la velocità di conduzione nervosa, e il coordinamento tra i due emisferi cerebrali.
I risultati delle rilevazioni indicano che tutte le funzioni cerebrali del gruppo di adolescenti in Marsupioterapia erano paragonabili a quelli dei bambini nati a termine.
I valori dei bambini che da prematuri sono stati posti in incubatrice, invece, si discostavano significativamente da quelli degli altri due gruppi.
“Grazie alla Marsupioterapia i neonati possono beneficiare della stimolazione del sistema nervoso – il suono del cuore del genitore e il calore del corpo – nel corso di un periodo critico per lo sviluppo di connessioni neurali tra gli emisferi cerebrali”, spiega Cyril Schneider. Anche i neonati in incubatrice ricevono un sacco di stimoli, ma spesso la stimolazione è troppo intensa e stressante per la capacità del cervello di un neonato prematuro. La Marsupioterapia, invece, riproduce le condizioni naturali dell’ambiente intrauterino in cui i bambini si sarebbero sviluppati se non fossero nati prematuramente. Questi effetti benefici sul cervello sono evidenti fino all’adolescenza e forse anche oltre.
La triangolazione all’interno della famiglia – Terapia Sistemico-Trigenerazionale
La maggior parte delle persone si collocano a livelli intermedi della scala di differenziazione del sé, in cui la dipendenza dall’altro definisce gradi maggiori o minori di investimento e soddisfazione in aree di realizzazione personale, professionale, relazionale, e diversi livelli di rigidità, dogmatismo, conformismo, rigidità emotiva, isolamento, conflittualità e anche malattia fisica.
Murray Bowen, uno dei pionieri della terapia familiare, guarda alla famiglia come il luogo nel quale si sviluppa la massa indifferenziata dell’io familiare, un identità emotiva conglomerata il cui grado di intensità determina il livello di coinvolgimento di tutti i membri della famiglia e le possibilità di svincolo e differenziazione del sé di ciascuno.
All’interno di questo sistema emotivo le tensioni si spostano attraverso sequenze ordinate di alleanze e rifiuti tra due o più membri della famiglia.
Il grado di differenziazione del sé è uno dei concetti cardine della teoria di Bowen (1979) e definisce la possibilità di ciascun individuo di differenziarsi rispetto alla massa dell’io familiare; quando l’intensità emotiva della massa familiare è molto elevata, il livello di fusione dell’io, cioè di indifferenziazione dei suoi componenti, potrà essere così marcato da esitare in relazioni simbiotiche e patologie gravi come la schizofrenia; in casi meno estremi, ma comunque caratterizzati da alti livelli di fusionalità, incontreremo persone assorbite in un mondo di sentimenti, estremamente dipendenti dai sentimenti degli altri nei loro confronti e per questo costantemente impegnate a gestire le relazioni interpersonali in termini di conferma o rifiuto; il legame con l’altro definisce le loro possibilità di funzionamento nella misura in cui è possibile trarre forza e conferma all’interno della relazione di dipendenza emotiva, che, nel migliore dei casi, li accompagnerà per tutta la vita.
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Lo spazio di investimento personale in aree legate alla realizzazione personale è inesistente o molto limitato e comunque fortemente condizionato dalla dipendenza all’altro.
All’estremo opposto si trovano invece gli individui con il massimo grado di differenziazione del sé, che possono raggiungere i più alti livelli di funzionamento umano; sono coloro che hanno sviluppato una buona identità individuale, che hanno saputo investire in qualità e attività orientate verso il sé, perseguendo principi e valori nel rispetto di sé stessi e degli altri, mai dogmatici o rigidi, sono emotivamente sicuri tanto da poter funzionare senza essere influenzati da lodi o critiche; i confini dell’io sono flessibili, ma non labili, tanto da permettergli di sperimentare la condivisione con l’altro o l’abbandono proprio dell’incontro emotivo o sessuale con un partner.
Bowen ci rassicura, affermando di non avere mai incontrato nessuno così differenziato nella corso della sua pratica clinica e raramente anche nelle relazioni sociali e professionali.
La maggior parte delle persone infatti si collocano a livelli intermedi della scala di differenziazione del sé, in cui la dipendenza dall’altro definisce gradi maggiori o minori di investimento e soddisfazione in aree di realizzazione personale, professionale, relazionale, e diversi livelli di rigidità, dogmatismo, conformismo, rigidità emotiva, isolamento, conflittualità e anche malattia fisica.
Ma come funzionano dunque le relazioni all’interno della massa dell’io della famiglia nucleare? Come viene gestita la tensione derivante dalla fusione dell’io tra i membri della famiglia?
I meccanismi sono principalmente tre: il conflitto coniugale, la disfunzione di un coniuge e la trasmissione di un problema a uno dei figli.
Nel conflitto coniugale la relazione è simmetrica e ciascuno dei partner lotta per dividere in parti uguali il sé comune, senza cedere nulla all’altro; la seconda modalità di gestione del conflitto prevede che al conflitto coniugale segua la resa di uno dei due coniugi, che più frequentemente dell’altro abbandona la sua posizione e una parte del proprio sé. Una variante è quella in cui uno dei coniugi abbandona del tutto il proprio sé e offre il proprio “non sé” a sostegno del partner, da cui diviene dipendente; in questi casi il coniuge che perde il proprio sé può arrivare a livelli di funzionamento bassissimo e sviluppare patologie fisiche, psicologiche e sociali; sono questi i casi di relazioni altamente sbilanciate in cui uno dei coniugi funziona bene e l’altro è un malato cronico.
Le configurazioni che deriveranno dalla messa in atto di uno o più di questi meccanismi preserveranno il funzionamento di alcuni componenti della famiglia a scapito di altri, infatti secondo Bowen la difficoltà di una relazione coniugale può essere misurata quantitativamente: il sistema agisce come se una certa quantità di immaturità dovesse essere assorbita e questo può avvenire ancorandola alla disfunzionalità di un membro della famiglia, permettendo così maggiore funzionalità agli altri.
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Il conflitto coniugale può, per esempio, mantenere il problema confinato alla generazione dei genitori senza incidere sui figli e il fatto che ci siano famiglie dove i figli di relazioni coniugali conflittuali non sviluppano problemi è prova del fatto che questo non necessariamente danneggia la generazione successiva. Anche la presenza di un genitore malato cronico può costituire una protezione per seri danni nei figli.
La trasmissione del problema ai figli è uno dei meccanismi più frequenti che la massa dell’io familiare mette in atto per gestire la tensione.
La triangolazione si verifica quando l’aumento della tensione relazionale tra i coniugi viene gestito e contenuto coinvolgendo uno dei figli: questa alleanza con “un altro più vulnerabile” mira alla costruzione di una relazione più stabile. La triangolazione, dispiegandosi da una generazione all’altra, rende sempre più difficile il processo di individuazione dei singoli membri della famiglia, fino ad arrivare ai casi estremi di simbiosi familiare in cui la non differenziazione del sé di ciascuno è massima. Secondo Bowen è un tipo di coazione a ripetere applicata alle generazioni, in cui ogni generazione fa ricadere la sofferenza su quella successiva (Hoffman L, 1984).
Ecco alcuni esempi di configurazioni triangolari (Minuchin S, 1980):
Il triangolo inammissibile: due genitori in conflitto cercano entrambi una alleanza con il figlio, allo scopo di costituire una coalizione contro l’altro genitore; questo tipo di schema triangolare, con due lati positivi, è molto stressante per il figlio coinvolto perchè comporta un intenso conflitto di lealtà.
Coalizione genitore-figlio: il conflitto genitoriale è esplicito e l’alleanza tra uno dei genitori e il figlio è stabile. In questi casi spesso il figlio si allea protettivamente con il genitore che sente più debole o fragile, prendendo il suo posto in un paradossale confronto (o scontro) “alla pari” con l’altro genitore; piani e i confini generazionali risultano del tutto alterati.
Deviazione-attacco: il figlio è un capro espiatorio, il suo comportamento è cattivo e distruttivo, i genitori si associano per controllarlo: la relazione matrimoniale è spesso priva di conflittualità ma i sintomi comportamentali del figlio spesso rappresentano “il braccio armato del conflitti generazionali negati o irrisolti” (Andolfi M, 2010)
Deviazione appoggio: anche in questo caso i coniugi mascherano le loro differenze e celano il conflitto concentrandosi entrambi iperprotettivamente sul bambino che viene definito “malato”. È una caratteristica tipica delle famiglie in cui i disturbi si esprimono in modo psicosomatico.
L’aspetto patologico della triangolazione intergenerazionale risiede nel fatto che le risorse psicologiche ed emotive del bambino vengono utilizzate per regolare il conflitto tra adulti, a scapito dei suoi bisogni evolutivi, che per venire accolti e soddisfatti necessitano della sintonizzazione affettiva da parte degli adulti.In questo modo si realizza un processo di delega che, di generazione in generazione, perpetua la richiesta di soddisfacimento di bisogni originari rimasti inappagati.
Inoltre la posizione di funzionamento del bambino all’interno del triangolo inevitabilmente condizionerà il suo modo di pensare, sentire e agire, modellando qualitativamente il suo senso di identità e appartenenza e di conseguenza le possibilità di differenziazione dalla famiglia di origine.
Le relazioni triangolari definiranno anche la partecipazioni ad altre esperienze triangolari con gli altri sottosistemi familiari (ad esempio quello dei fratelli o in generale con la famiglia allargata) e con il sistema amicale e professionale. La non differenziazione dalla famiglia di origine porterà, in un momento successivo del ciclo di vita dell’individuo, a uno spostamento sul partner della richiesta di soddisfacimento dei bisogni rimasti inappagati; quando questa richiesta di appagamento, inevitabilmente, fallirà l’ansia spingerà nuovamente alla ricerca di un alleanza con i figli.
Nel prossimo articolo vedremo più da vicino come la posizione di funzionamento assunta all’interno delle dinamiche triangolari familiari influenza la scelta del partner e la costruzione del legame di coppia.
Da qualche mese ho finito di frequentare il training internazionale di Schema Therapy, sede di Modena, organizzato dalla S.I.S.T (Società Italiana per la Schema Therapy). La Schema Therapy, fondata da Jeffrey Young, è una terapia che integra gli aspetti più significativi della Terapia Cognitivo Comportamentale, della Teoria dell’Attaccamento, della Terapia Psicoanalitica, della Terapia della Gestalt, della terapia Focalizzata sulle Emozioni, e che utilizza un armamentario di strategie e tecniche molto vasto, che permettono un lavoro psicologico in “profondità”. Durante il training ho avuto la possibilità di confrontarmi e di conoscere alcuni terapeuti Schema Therapy: Gunilla Fosse, Neele Reiss e Alessandro Carmelita, con cui ho anche avuto la possibilità di fare due chiacchiere sulla Schema Therapy.
Quale pensa sia il contributo centrale e il valore aggiunto della Schema Therapy?
La Schema Therapy mantiene una cornice focalizzata sul raggiungimento degli obiettivi terapeutici e degli obiettivi del paziente che deriva dalla terapia cognitivo comportamentale. Gli obiettivi quindi sono legati alla vita attuale del paziente, ma allo stesso tempo con la Schema Therapy si ridà importanza alla “cause originarie” dei problemi, tralasciate invece da Beck, e ci si focalizza su di esse con un lavoro a livello immaginativo.
Possiamo definire questo come un lavoro principalmente emotivo perché attraverso gli esercizi esperienziali, esercizi immaginativi di roleplaying, si tende a far emergere in seduta emozioni molto forti e si rende possibile il lavoro sui ricordi di eventi traumatici.Eventi che si pensa siano stati l’origine delle problematiche psicologiche del paziente. Si lavora, quindi, sui ricordi per cambiare le emozioni ad essi collegate.
Altro aspetto fondamentale della Schema Therapy è la grande importanza data alla Relazione Terapeutica e alle dinamiche interpersonali che si manifestano in seduta. Quello che percepisco lavorando da molti anni con la Schema Therapy è che essa permette al terapeuta di avere una visione molto completa della sofferenza umana e una visione “rotonda” della persona che si ha davanti.
Ciò fa sì che il lavoro con il paziente sia su più livelli: il livello emotivo in primis e poi quelli cognitivo e comportamentale.
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Rispetto alla sua esperienza clinica, per quali pazienti trova sia più utile la Schema Therapy?
Io devo dire questo, sono andato a New York per specializzarmi con Jeffrey Young perché mi sono reso conto di avere alcune difficoltà con certi pazienti. Mi è capitato negli anni di perdere qualche paziente non capendo il perché. Inoltre, avevo la sensazione di non fare un lavoro completo, che mancasse qualcosa; infatti, con alcuni pazienti, pur facendo un buon lavoro,mi capitava che dopo qualche tempo mi richiamassero per dirmi che qualcosa nella loro vita non stava andando bene.
Per questo ho deciso di approfondire gli studi su altre forme di terapia che non si discostassero troppo dalla mia formazione cognitiva. Inoltre, ho approfondito la conoscenza dei disturbi di personalità, perché avevo la sensazione che il sintomo che molti pazienti portavano in terapia, che poteva essere riconosciuto come espressione di un disturbo di Asse I, fosse solo la superficie, che stesse “sopra”, celando un disturbo di personalità.
Questa è stata la mia motivazione iniziale per approfondire la Schema Therapy che dai miei studi ritenevo fosse maggiormente indicata per questo tipo di pazienti. Ovvero per i disturbi di personalità.
Dato che viene supportato dalla ricerca, ad esempio il famoso studio di Arntz che dimostra che la Schema Therapy è estremamente efficace per il disturbo Borderline e anche gli attuali studi su i Disturbi di Cluster C che stanno dando ottimi risultati.
Quando, poi, ho visto Jeffrey Young lavorare a New York sono rimasto veramente colpito dal suo modo di relazionarsi ai pazienti. Quello che ho potuto verificare fin da subito, specializzandomi in Schema Therapy con lui, è che cambia la forma mentis del terapeuta. Si è molto più focalizzati sulla persona, che sul paziente; su quelli che sono i bisogni emotivi della persona davanti a noi, che non solo non sono stati soddisfatti nella sua vita passata ma che non o sono ancora oggi.
Quello che molto presto ho verificato e compreso è che la Schema Therapy può essere applicata in altri ambiti oltre a quello dei disturbi di personalità.Per esempio si è dimostrata clinicamente efficace nel trattamento di disturbi d’ansia, della depressione, soprattutto nel prevenire le recidive, ed inoltre è molte utile nelle terapie di coppia, dove permette ai partner di vedere e prendersi cura della parte vulnerabile dell’altro, invece che continuare a rimanere bloccati in un conflitto perenne l’uno contro l’altro. La cosa interessante è che la Schema Therapy sta dimostrando di essere molto efficace anche applicata in gruppo.
Tale approccio risulta anche più vantaggioso in termini di costi e tempi ridotti. Tuttavia, quello che Young consiglia è che se c’è un disturbo di Asse I, come terapeuti siamo tenuti a fare con quel paziente la terapia che si è dimostrata scientificamente più efficace. Quindi, in prima istanza, potremmo proporre un trattamento cognitivo comportamentale per trattare disturbo d’ansia, ma poi in un secondo momento, potremmo andare a vedere quali sono gli “schemi maladattivi” del paziente, quali “comportamenti di coping” sta mettendo in atto e fare un lavoro con lui attraverso la Schema Therapy affinchè questo riduca il tasso di eventuali ricadute e migliori la qualità di vita del paziente.
I pazienti come accolgono la proposta di lavorare in termini di mode e schemi, come accettano la proposta di fare esercizi immaginativi, ha mai trovato delle resistenze?
Sono un terapeuta con una formazione Cognitivo Comportamentale e Sandra Sassaroli è stata la mia didatta per il primo anno di specializzazione. Quindi, io sono conosciuto come terapeuta cognitivo comportamentale.
Quello che succede quindi è che molti pazienti mi chiamano per questo tipo di terapia: una terapia centrata sul sintomo, aspettandosi di “guarire” in un breve tempo. Questo è quello che loro leggono su internet. “La Terapia cognitiva è una terapia breve centrata sul sintomo”.
Quello che spesso accade, però, è che nel momento in cui vengono in terapia la maggior parte di questi abbia dei tratti di disturbo di personalità. Quindi quando loro vengono in terapia con l’aspettativa di lavorare sul presente e io propongo loro di lavorare sulla loro storia, di andare a vedere da dove arrivano le loro problematiche, ci può essere, in effetti, in alcuni di loro un po’ di resistenza. Per questo la prima parte della terapia è anche una parte psico-educativa. Ovvero spieghiamo i motivi per cui è importante lavorare sui ricordi passati e sulla storia di vita. Quello che facciamo è approfondire la storia di vita del paziente per parecchie sedute cercando di fare una sorta di “educazione costante” a quello che sono gli schemi, a cosa significa il fatto che se uno schema si attiva nel presente una persona continua a mettere in atto determinati comportamenti di coping appresi nel passato e a ciò che ne consegue.
Quindi, c’è tutto un lavoro di preparazione a quella che sarà la proposta che noi faremo al paziente: una terapia in cui lavoreremo molto collegando i problemi attuali del paziente a quelle che sono state nel passato le cause; partendo da emozioni molto negative che il paziente prova nel presente per far emergere dei ricordi di situazioni vissute nel passato in cui lui ha provato emozioni simili.
Questo aiuta a fare comprendere al paziente quanto sia importante un lavoro di connessione tra le sue esperienze passate e le problematiche attuali, recuperandone i vissuti dalla memoria. Una cosa che capita spesso è che un paziente mi dica: “Alessandro io sono venuto da te perché volevo stare meglio e invece finite le sedute mi capita di stare ancora peggio” e questo è qualcosa che noi terapeuti dobbiamo comprendere e validare. Quello che facciamo è comprendere il malessere del paziente, mostrare genuinamente il nostro dispiacere per la sua sofferenza facendo però anche comprendere che è necessario far emergere ciò che fa soffrire per poi cambiare quella sofferenza.
Durante la formazione impariamo d condurre degli esercizi immaginativi e di role play in cui il ricordo e il vissuto emotivo dell’altro possa cambiare gradualmente. Si impara a lavorare sui vissuti emotivi negativi e a cambiarli facendo in modo che il paziente possa lasciare le sedute non stando eccessivamente male ma avendo elaborato i suoi stessi vissuti emotivi. Certo mettiamo anche il paziente al corrente di quali potrebbero essere le conseguenze del non fare un lavoro più approfondito sul suo problema attuale. Una sorta di costi e benefici del lavorare sul ricordo del passato.
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Per concludere, le chiedo di parlarci, della fase conclusiva della terapia, come lasciare andare via un paziente?
Se noi pensiamo ai pazienti come a dei bambini, come suggerisce Jeffrey Young, quello che noi vediamo nell’arco della terapia è che all’inizio sono come dei bambini molto piccoli mentre man mano durante il percorso terapeutico è come se loro maturassero sempre di più. Quindi quello che notiamo è che è come se il paziente crescesse. Nella fase finale della terapia noi solitamente vediamo, nel migliore dei casi, che il paziente ha interiorizzato un “Adulto sano”. Questo lo vediamo sia per come si relaziona con noi, ma anche per come vive la sua vita, le sue relazioni al di fuori della seduta. Il paziente alla fine della terapia risulta essere un adulto più sano, maggiormente in grado di stare in contatto con le proprie emozioni e con i propri bisogni, maggiormente in contatto con quella parte bambina che c’è in lui, e che è in grado di provare amore e compassione per quella parte, prendendosene, finalmente, cura.
Noi terapeuti dobbiamo facilitare il distacco del nostro paziente quando vediamo che riesce a farcela da solo. Diraderemo le sedute, ricordandogli sempre che rimarremo una base sicura e stabile per lui.
Le memorie emozionali di recente formazione possono essere cancellate dal cervello umano. È ciò che stato è dimostrato da un team di ricercatori dell’Università di Uppsala.
Quando impariamo qualcosa, le informazioni vengono immagazzinate nella memoria lungo termine grazie al processo di consolidamento, basato sulla formazione di proteine. Quando ricordiamo qualcosa, la memoria diventa momentaneamente instabile, per poi stabilizzarsi nuovamente grazie a un altro processo di consolidamento. In altre parole, quando ricordiamo non stiamo ricordando ciò che è successo in origine, ma piuttosto quello che abbiamo ricordato l’ultima volta che abbiamo pensato a quello che è successo. Interrompendo il processo di riconsolidamento che segue la rievocazione di memorie, è possibile influenzare il contenuto della memoria.
I ricercatori, allo scopo di condizionare i partecipanti a provare paura in associazione a determinate immagini, hanno mostrato loro un’immagine neutra accompagnata da una scossa elettrica. Successivamente per attivare la memoria relativa alla paura, l’immagine è stata mostrata senza scosse di accompagnamento. In un gruppo sperimentale il processo di riconsolidamento è stato interrotto con la presentazione ripetuta dell’immagine. In un gruppo di controllo, invece, il processo di riconsolidamento è stato completato prima che ai soggetti venisse presentata la sequenza ripetuta dell’immagine.
Nel gruppo sperimentale il processo di riconsolidamento è stato compromesso e la paura, precedentemente elicitata dall’immagine neutra, si è dissipata; in altre parole, interrompendo il processo di riconsolidamento, la memoria è stata resa neutra e non più condizionata alla paura. Grazie all’uso di un MR-scanner, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che anche le tracce di memoria scomparivano nell’area cerebrale normalmente deputata alla memorizzazione dei ricordi paurosi, il gruppo nucleare dell’amigdala nel lobo temporale.
Questi risultati rappresentano un passo avanti nel campo della ricerca sulla memoria e sulla paura e potrebbero contribuire allo sviluppo di nuovi metodi di trattamento per i disturbi d’ansia, come le fobie, lo stress post-traumatico e gli attacchi di panico.
Il vero quesito funzionale della valutazione neuropsicologica nelle Demenze dei corpi di Lewy è che questa si dipana all’interno di un tessuto sintomatico tra Parkinson e demenza di Alzheimer – Parte 2
La demenza con corpi di Lewy (DLB) è spesso caratterizzata da marcata compromissione dei domini cognitivi riferiti alle abilità visuo-spaziali dell’attenzione e delle funzioni esecutive. Uno studio, sempre del 2009, ha però mostrato come tuttavia, la forza della espressione fenotipica di DLB varia e può essere più debole in pazienti con malattia estesa concomitante con la diagnosi Alzheimer (AD).
Al fine di determinare la forza del fenotipo clinico DLB , anche in questo studio correlazionale, è stato eseguito un confronto delle performance cognitive con dati autoptici post mortem. Il modello adottato in questo studio, basato su quello delle equazioni di stima generalizzate (GEE), ha rivelato che una significativa riduzione delle performance in test che misurano abilità visuo-spaziale è fortemente associata ad un rapido tasso di declino cognitivo in pazienti con Demenza dei Corpi di Lewy, ma non AD (p <.001).
L’analisi delle prove che misuravano il dominio cognitivo del linguaggio non ha invece mostrato alcun effetto significativo.
I pazienti DLB con scarse competenze visuo-spaziali all’esame autoptico hanno mostrato meno grovigli neurofibrillari e una maggiore probabilità di avere allucinazioni visive rispetto a quelli con una migliore capacità visuo-spaziale.
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Questi risultati suggeriscono che la gravità dei deficit visuo-spaziali nella DLB può essere predittiva nell’identificare coloro che affronteranno un decorso particolarmente ingravescente.
L’analisi, invece, rispetto alle compromissioni nella DLB, per quanto riguarda il dominio delle funzioni esecutive, non ha ben chiarito i rapporti rispetto alle differenze con le demenze di tipo fronto-temporale che sembrerebbero presentare prestazioni simili, fatta eccezione per le prove di Stroop che riguardano la sensibilità, l’inibizione comportamentale e l’indipendenza ambientale.
Altra componente presente nei pazienti affetti da demenza dei corpi di Lewy che condividono maggiormente con i malati con il morbo di Parkinson con demenza, è la presenza di deficit sia in comprensione che in espressione narrativa.
Uno studio (Ash et al. 2012) recentissimo ha esaminato l’ipotesi che questi danni siano dovuti ad un deficit di riorganizzazione del materiale acquisito, piuttosto che a menomazioni specifiche del dominio cognitivo del linguaggio.
I risultati a questo studio hanno mostrato come i pazienti con DLB non riescano a riorganizzare gli elementi narrativi né in fase di comprensione nè di produzione, rispetto alla popolazione degli anziani sani. Il dato interessante di questa ricerca è che le misure esecutive di comprensione e produzione sono correlate tra loro, ma non con le misure neuropsicologiche di semantica lessicale o grammaticale, mostrando come in questi pazienti ci sia un deficit specifico di tipo esecutivo per la comprensione ed espressione narrativa legato, verosimilmente, all’ atrofia corticale prefrontale.
Allo stato dell’opera, dunque, le ricerche in ambito neuropsicologico non mostrano dei dati incontrovertibili, atti a disegnare degli indici stabili di definizione di quadri neuropsicologici tipici della DLB.
Si è però chiarito, anche alla luce degli studi longitudinali e autoptici che una buona valutazione neuropsicologica di tipo differenziale deve prevedere un’estesa batteria di test che osservi tutti i domini delle funzioni cognitive con particolare attenzione a quei quadri dove siano presenti cadute nell’ambito esecutivo e visuo-spaziale.
Per quanto riguarda le funzioni esecutive, occorre dunque prestare particolare attenzione alla sensibilità e all’inibizione di risposte automatiche e alle componenti di organizzazione ed espressione di materiale narrativo; le cadute di tipo visuo-spaziali, invece, potrebbero essere utili per indagare il grado di gravità generale e temporale del paziente affetto da DLB.
BIBLIOGRAFIA:
Roselli, F. Liuzzi, D., Pennelli, M. et al. (2012). Demenza a Corpi di Lewy. Diagnosi e Trattamento. La Neurologia Italiana, 3.
The Psychiatrist & the Rockstar: interview with Sinead O’Connor
Sinead O’Connor during the interview in videochat with State of Mind.
The Psychiatrist & the Rockstar: State of Mind interviews Sinead O’Connor
In my adolescent 90’s playlist there’s a Song (yes, song with a capital S) that wholly deserves it’s place of honor not only for the wonderful ballad (not surprising, seeing as the composer is a certain genius from Minneapolis formerly known as Prince) but above all for the singer’s performance that spears the listener straight in the heart, it pierces the left ventricle and bleeds five minutes and ten seconds of pure emotions.
The song’s called Nothing Compares 2 U and the singer is the Irish bad-girl with a shaved head called Sinead O’Conner.
The piece, which came out in 1990, was a worldwide phenomenon helped along by the minimalist video clip featuring only the singer’s angelic face moved to tears by the time she hits the final notes (Sinead was thinking to her mother, died in a car crash five years previously, while singing Nothing Compares 2 U).
The following years were characterized by even more excellent music and peppered with resoundingly blatant provocations (most famously when she ripped up a photo of the Pope on Saturday Night Live) which earned her the label of activist and heretic; Rock’s answer to Joan of Ark.
In 2005 she surprised the masses by releasing her excellent reggae album “Throw Down Your Arms”, followed by the more intimate “Theology” in 2007, which dealt with her passionate relationship with spirituality.
At the start of 2012 her new album “How About I Be Me (and You Be You)?” was released.
This should have been followed by a tour which was cancelled due to a serious relapse into a depressive phase of the bipolar disorder that Sinead has suffered from, for 8 years. (Editor’s Note: According to DSM-IV criteria , it is most likely Bipolar II disorder). The deep depressive state was characterized by an attempt at self-harm by overdosing on prescription drugs having previously launched a desperate cry for help from her fans on twitter.
On hearing this news, I got the idea for an interview on Skype, each from their own home, me in Modena and her close to Dublin.
Sinead kindly took some time out from her schedule as a busy mother of four to speak to me. Despite the impersonality of online conversation, I felt as though on the other side of the screen I was talking to someone authentic, who isn’t ashamed to share their own fragilities and is extremely precise when describing her own journey towards healing.
THE INTERVIEW
GP: Well Sinead, first of all I want to thank you for your kindness and willingness in giving this interview. I must confess, I was really surprised that you accepted. I don’t know how much you want to talk about yourself specifically, but I would like that our talk be of some help for people who struggle everyday against depression.
S: I am interested in the issue obviously…well the only reason I am qualified to speak is because I have direct experience.
GP: So…you have been diagnosed with bipolar depression, haven’t you?
S: Yes I was diagnosed 8 and half years ago, but it took 12 years to get the right diagnosis.
GP: Did your disorder start with a manic state or with a depressive state?
S: I don’t get the highs and the manic particularly, I get the lows. When I was younger though, I had a very bad temper, that’s my being a bit of a manic; not in a happy way, but I was like… fuck that!
GP: A young rebel…
S: I have always had a good functioning in my artistic life, but I had problems mostly in my private life, I got very angry with my boyfriends and stuff…I would probably have good reasons to be angry but the volume would be too high, just getting to some level of wounding that perhaps was not appropriate to the actual offence committed.
S: I did have once where I was addicted to shopping, that’s unheard of for me because I fucking hate shopping, but I did actually about two years ago. That was as manic as I ever got. I bought a lot of clothes.
GP: Do you think that your experience of depression has been of some inspiration for your creative process at some point?
S: I think the other way round. I don’t agree with this romantic fantasy that people who suffer from depression are more likely to be artists. I find that I am more creative when I am happy actually.
I think that music has been a great help to me and this has been confirmed by every psychiatrist I have seen. I would probably be dead if not for music. They think that the reason that I have this depression is for what I went through growing up. I have also Post Traumatic Stress Disorder, and I wouldn’t have survived that if not for music. So I think for me, music was a soothing thing and it was also a place where you could say all the stuff that you couldn’t say anywhere else. When I grew up in Ireland in the seventies there was no such thing as therapy…I mean we didn’t even have cappuccinos until 1998! So for me music was therapy, it was also the place where one could speak about himself, where he was allowed to speak about his traumatic experiences. I grew up in a situation of extreme abuse, but there was no chance to talk about it, so music became the escape if you like.
GP: In which way has music helped you? More in the creative process of song writing or more in the cathartic process of performing?
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S: I think all of it. I think in the first place hearing the music inside of you is very soothing, very comforting. For me there always been, if you like, a spiritual connection between myself and music. What I like about being a musician is that I find the thing soothing, but I also give the soothing to other people; I guess for some people particularly, I think people who come from abuse and/or people who have mental illnesses, have terrible self-esteem problems. And for me I have always found being a musician, a work and a place where I find a lot of self-esteem. I feel that I was a useful contributor to society, and that I couldn’t be a contributor to society in any other way.
I think when you have a mental illness you can feel very bad about yourself because you are always fucking up in life and making music perhaps makes you feel you are not such a dreadful person and there is something you can do that is not fucked up… because there is a terrible lack of self esteem that comes with mental illness, especially if you live, like I do, in a society such as Ireland, where having mental illness has a dreadful stigma.
And also I suppose is very cathartic to do a show to the masses and you get to make magic in a manner that you can’t do in regular life, but I suppose that self esteem effect is one of the most powerful.
GP: I think that the problem of stigma in mental health is as important as the illnesses themselves. Can you tell me something more about the stigma situation in Ireland?
S: Well I suppose in some ways, all over the world “crazy” is a term of abuse and I think that is something that should be stopped. In Ireland “crazy” is a term of abuse and people are terrified of anything that they conceive to be crazy. And the people believed to be crazy won’t be treated compassionately, they will treat you horribly and use it as a reason to dismiss anything you would think, do, say or feel, so you’re rocking into a self esteem trap. I had a letter from a man back in January, an old man aged 73, he lives in Goolen (Ireland), I was thinking about him this morning, he has been taking antidepressants for 30 years and he has not told his wife and his adult children because of the stigma. That is Ireland, you know. We are very ignorant about the nature of mental illness. People assume all over the world for example that schizophrenia means you have a lot of personalities, like multiple personality disorder, but it is not. It is completely different.
When you have mental illness you don’t have a plaster or a cast or a crutch, that let everyone know that you have the illness, so people expect the same of you as from anyone else and when you are different they give you a hard time and they think you’re being difficult or they think you’re being a pain in the ass and they’re horrible to you. You spend your life in Ireland trying to hide that you have a mental illness. I’m always checking with my friends “Do I seem crazy?”, “Am I being crazy?”, and I shouldn’t have to keep checking, if I’m being crazy I should be left in fucking crazy peace! You have to hide what you are and it’s really stressful and very bad for your self esteem. Because it’s not obvious to people that you are ill, they treat you as if you’re a pain in the ass, then you beat yourself up and you are already beating yourself up as a part of mental illness, you know.
I mean, I understand that we are actually complicated people but we are also dreadfully simple, but you know it’s a hard world where there is this gap between the supposedly sane and the supposedly insane, the sane are not familiar with the insane, which in itself is insane. We are all stuffed behind these kind of, you know, the actual bars that don’t exist anymore, the metaphorical bars do exist.
GP: I know that you have always had a difficult relationship with the Catholic Church. What do you think about the attitude toward mental illness of the Catholic Church today? Is there acceptance and compassion for the mentally ill?
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S: (laughs) If there was acceptance of the mentally ill in the Catholic Church, the entire Curia would resign! You need the best psychiatrist in Italy to take a little time in there! The very top guys are insane. They are more insane than the lot of us put together. If they investigate mental illness they have to start out by checking themselves into hospital. Anybody who can claim that paedophilia and the ordinance of women are equal has a mental problem. When one criticizes the Church, what we usually mean, especially in Ireland, are the top guys. We all know that 99.9% of priests and nuns are incredible people, that do a lot to help people of all kinds. But the regular priests down the road haven’t got the training to go around the country breaking statements, all the poor priest can do is mop up the mess, which is usually suicide, ‘cause stigma leads to suicide. Because of the stigma, people don’t stay in treatment and they don’t get the help they need, because they know they are gonna be treated like shit.
S: Yes…for example: I checked into hospital about 2 years ago because I wanted to make doubly sure that the diagnosis was right. While I was in the hospital (I was there for 2 weeks), there was a woman about my age who had been there for 6 months. She wasn’t that unwell, and I was talking to her one day about why she was there and she showed me her arms, they were all cut. Her mother had died of cancer and she’d nursed her. Nothing had happened to this woman before, but the night her mother died, she probably lost her mind and she sliced up her arms. But the reason she stayed in the hospital so long was that in the village that she came from, they wouldn’t have her back, she couldn’t have her job back, none of her friends wanted to talk to her, she was a pariah in the village because she had done this to her arms, everybody thought she was mad. So she couldn’t go back to her town and she was based in the hospital.
GP: How many times have you been admitted to the hospital?
S: I took myself to the hospital twice. The first to get a clear diagnosis. The second was last year when I was taken off medication very stupidly and I got very sick, I couldn’t eat or sleep.
GP: Why did you stop the medication, was it for the side effects?
S: I was getting a lot of pressure from people in show business about my being overweight because of medication, I was on 200 mg of amitriptiline. When I said this to my doctor, for some reason she took me completely off medication and she didn’t really supervise properly. The mental health system here is really terrible. After I was taken off medications, I got sick, but I didn’t realize I was sick. Then I got carried away with loosing weight so I wanted to pretend I was not sick. It was not my choice to be off medication, but the psychiatrist took me off, so I thought it was ok. Unfortunately in my case, because of what I do for living, here in Ireland is very hard for me to find a doctor who can just deal with me as a person, that can get beyond Sinead O’Connor. I had to go to England to find a psychiatrist for my case.
GP: How long were you without medication?
S: I was off medication from August last year until April. I was told to come off by the doctor, so it took me a long time to know I was sick because when you stop those meds it takes a long time to get sick, so I didn’t know what the fuck was going on.
GP: Nine months without medication is really a long time…weren’t you warned by the psychiatrist about the possible risks of relapse?
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S: Because of what I do for living, in Ireland all that the psychiatrist did was to complain about the stuff that was in the newspapers instead of talking about my sickness. The same psychiatrist was very involved in the Church’s public struggle in Ireland … on the opposite side to me. At the same time as coming off meds, when I was going to her, she complained to me that she didn’t like what I was saying about the Church in the newspapers, so we fell out and I was left stranded. Then in Ireland the mental health system is so shit that you can’t get an appointment with the doctor for treatment for months, so I would wait for another doctor to tell me the same shit. One doctor sent me home with anti-histamines and told me to take 100 mg every night. So I said “ok!”. In Ireland people think doctors are God, they don’t question them. But this meant I was sick for three more fucking months! And the funny thing is that it was a private doctor, and the only alternative is to go to the fucking hospital. Nobody wants to go to the hospital, the worst thing that can happen if you are sick is to leave your family and your children, that’s the only thing that make you feel safe.
GP: It sounds strange…in Italy you can choose a private doctor and pay more, but you can see the doctor more often.
S: Here you have six weeks in agony, but unless you want to check into hospital, you are fucked. Moreover, here people don’t have money. I have, but the guy next door can’t pay for a private psychiatrist and can wait up to six months for a consultation. I’ll give you an idea about how bad our system is: a friend of mine works in a child drug counselling service, run by the National Health Service for children aged between 12 and 18, and there is a fridge in the toilet! That is the picture of the health system in Ireland.
GP: I can imagine you really had terrible times. Was it in the last months when you couldn’t finish the tour?
S: Yes, I almost died. It was in June this year that I was very sick, like never before. I was put on carbamazepine in April and I had a very unusual reaction that made the symptoms worse. Now I feel better taking 200 mg of lamotrigine and 100 mg of quetiapine. Now I also take very high dose of vitamin B12, prescribed by the psychiatrist. They have just discovered that it helps with the depressive phase of bipolar disorder.
GP: Have you ever tried psychotherapy?
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S: Yes, fucking never stops, I still do. At the moment I have counselling every week. From July to August this year I also worked for 12 weeks with a therapist at a Suicide Prevention Centre in Dublin. They are fantastic. One of the main symptoms when I was very sick was the constant suicidal thinking and I found that many therapists are not specifically trained in the area of suicidal thinking, so you can go on for years and it is not fixed. Because I was not on medication the suicidal thinking got worse and worse and I actually made an attempt in January, and then there were three more attempts. The therapists in the Suicide Prevention Centre just work on suicidal thinking. They don’t just talk about killing yourself, they help to rebuild your life, they help you to focus on what life do you want. I saw them once a week for individual sessions. While you do that you don’t do any other therapy.
GP: What do you mean by rebuilding your life?
S: They helped me identify a number of issues, the “off-switch” was one, learning how to fucking do nothing, just sit the fuck down and put energy out. Then you sit down and realize how tired you were, when you have depressed or suicidal thinking you don’t know how tired you are.
Then they focused on the thing with me that I am too inclined to take on board other people’s negative opinions of me. If ten people stood in a room and nine said you are fucking great and one said you’re an asshole, that would be what I’d worry about and believe in, that person, getting depressed if someone says I’m an asshole. They were able to teach me, which I hadn’t learned before, how to really not give a fuck about them. And then another important thing is fun, I mean “What are you doing just for fun?”, “Are you doing anything just for fun?”. They made me put together a bucket list, so first of all you deserve better, to hang out all the people that make you feel like shit, then you need to rest your body, to take time for yourself and they made me put together a list of the things I would like to do in my life, and that was great! They very quickly put you out of the misery part and start to build a fun life. It’s quite witchy how therapy works, it’s a kind of subconscious, you don’t know how the fuck they’ve done it but suddenly you start living differently and thinking differently. I’ve been able to build the life I want, do you know what I mean? When you have a mental illness I think it is important to work with prevention services when one of your symptoms is suicidal thinking.
GP: Did you struggle with interpersonal problems that drove you to think about suicide?
S: In that period I was not on medication, and in the same time a lot of awful stressful things were happening. If I had been on medication perhaps I would have responded differently. In my case it was purely the sickness that made me think suicide but it was a compulsion. I got to the point that the physical symptoms of bipolar disorder made me feel as if I was walking under water.
GP: Walking under water…really gives the idea of how you could have felt…well Sinead, I think you were really exhaustive and brave in telling your difficult story, and I want to thank you on behalf of State of Mind and of all the people who have to face mental illness every day.
Cosa ci spinge a mettere il bene comune davanti a quello personale? Cosa è istintivo, la tendenza a cooperare o quella a pensare innanzi tutto a sé stessi? Un gruppo di ricercatori di Harvard ha cercato di capirlo e ha scoperto che la prima naturale tendenza sia verso la cooperazione, ma che fermarsi a riflettere incoraggi risposte egoistiche.
La ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati su Nature, ha coinvolto migliaia di partecipanti che hanno giocato al “gioco dei beni pubblici”, in cui “io” è contro “noi”. I soggetti sono stati riuniti in piccoli gruppi e posti di fronte ad una scelta: ciascuno avrebbe potuto scegliere se tenere i soldi ricevuti, o metterli in un fondo comune, che crescendo avrebbe garantito vantaggi a tutto il gruppo.
Lo scopo della ricerca era capire se il primo impulso dell’individuo fosse verso la cooperazione o, al contrario, di tipo egoistico.
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Per scoprirlo i ricercatori hanno innanzitutto stimato in quanto tempo le decisioni venissero prese, scoprendo che i più veloci avevano più probabilità di contribuire al bene comune. Successivamente hanno costretto i partecipanti ad accelerare il processo di scelta o, al contrario, a rallentarlo incoraggiando la riflessione; anche in questa circostanza chi decide più velocemente tende ad essere più cooperativo, mentre chi si ferma a riflettere è meno generoso.
Infine, i ricercatori hanno testato la loro ipotesi, manipolando la prosepettiva dei partecipanti. Hanno chiesto ad alcuni di pensare ai benefici di una risposta intuitiva prima di scegliere la quantità di denaro con la quale contribuire. Altri invece sono stati invitati a riflettere sui vantaggi di una valutazione ponderata e cauta. Ancora una volta, l’intuito ha promosso la cooperazione, e la riflessione ha avuto la conseguenza opposta.
“Nella vita quotidiana, generalmente è nel nostro interesse essere cooperativi”, ha detto David Rand. “Così abbiamo interiorizzato la cooperazione come il modo appropriato di comportarci. Se venissimo a trovarci in ambienti insolitamente privi di rinforzi positivi come la reputazione o negativi come le sanzioni, la nostra prima reazione sarebbe quella di continuare a comportarci come facciamo di solito. Se però ci fermassimo a riflettere ci renderemmo conto che questa è una di quelle rare situazioni in cui essendo egoisti potremmo farla franca”.
“Nel corso di milioni di anni, abbiamo sviluppato la capacità di cooperazione”, spiega Martin Nowak. “Questi esperimenti psicologici esaminano i motivi che spingono alla cooperazione su un lasso di tempo più breve, dell’ordine di pochi secondi. Entrambe le prospettive sono essenziali in quanto ci troviamo ad affrontare problemi globali che richiedono una cooperazione su vasta scala. Abbiamo bisogno di capire da dove viene la cooperazione storicamente e il modo migliore per farlo accadere qui e ora”.
A differenza di molti studi di psicologia, che utilizzano un piccolo numero di studenti universitari, questi esperimenti hanno testato migliaia di persone da tutto il mondo utilizzando Amazon Mechanical Turk, un online labor market che sta diventando uno strumento sempre più comune nella ricerca in scienze sociali.
Una normalizzazione psico-educazionale diretta può essere utile, un intervento di informazione esplicita in cui si comunica al paziente che di panico non si muore e né tantomeno si impazzisce.
Un altro problema del paziente con disturbo da panico è la sua tendenza a non contestualizzare il suo malessere emotivo in una situazione. La conseguenza è che situazioni oggettivamente problematiche non sono comprese dal soggetto.
Il soggetto non comprende che il contesto giustifica un certo malessere emotivo ed egli o lei finisce per vivere il suo sconforto come privo di senso. Non comprendendo la componente cognitiva delle emozioni, si finisce per percepirne solo quella fisiologica, la quale assume un aspetto terrificante proprio per la sua assenza di significato.
Ad esempio, se il soggetto trascura o sottovaluta uno stato di tensione per una situazione sociale o prestazionale sgradevole (entrare in una stanza con gente ignota di cui temo il giudizio, affrontare un esame), finirà per percepire solo gli aspetti fisiologici del suo stesso stato di tensione (ad esempio, uno stato di oppressione al petto). Ma questo senso di oppressione toracico, se non viene collegato cognitivamente alla situazione, finisce per assumere un aspetto terrificante proprio perché privo di senso. Di qui la possibile terribilizzazione panica.
Patrizio P. ha 22 anni e frequenta l’Università. Si presenta in terapia riferendo di essere affetto da attacchi di panico. Un esame approfondito rivela un episodio iniziale accaduto in spiaggia un paio d’anni di prima, episodio riconducibile a un capogiro da eccessiva esposizione al sole. Gli episodi di panico attuali iniziano con malesseri nella zona addominale, mal di pancia e timore di perdere il controllo dello sfintere. Questi malesseri non sfociano mai in attacchi conclamati, ma semmai in un disagio sottile e continuo. Si tratta insomma di uno stato continuativo di ansia anticipatoria che suggerisce naturalmente un possibile sconforto esistenziale più globale che il paziente non riesce a definire. Ulteriori domande portano a comprendere che i malesseri addominali e i timori di perdere il controllo dello sfintere avvengono soprattutto quando il paziente fa il suo ingresso nelle aule universitarie per assistere alle lezioni o quando si trova in compagnia di amici o altri studenti universitari. Insomma, occasioni sociali con coetanei. Analizzando la sua condizione di vita, il paziente ammette un periodo di disagio, con un sottile timore sia di non essere all’altezza delle sue ambizioni di studio che di non essere accettato. Questo timore, consapevole e niente affatto inconscio, tuttavia non era riconosciuto dal paziente e non collegato al malessere addominale e alle sue deduzioni catastrofiche di panico. L’esperienza negativa sulla spiaggia di due anni prima aveva reso il paziente timoroso di poter perdere il controllo in situazioni di disagio. In tale maniera, invece di contestualizzare il suo malessere addominale in un disagio più ampio, il paziente aveva finito per definirlo come un preludio al panico. Articolo consigliato: Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico di Beck
A volte il collegamento è reso particolarmente difficile perché il soggetto sta vivendo un periodo di vita globalmente stressante e non una precisa situazione. Ad esempio, una separazione, un cambio di residenza, un esame o una prova particolarmente difficili. In questi casi, paradossalmente, una apparente elaborazione simil-cognitiva effettuata dal paziente da solo (del tipo “posso sopportare”) in realtà facilita il panico, perché gli impedisce di riconoscere, comprendere e accettare il suo malessere.
Ragioniamo insieme. Ricorda cosa pensò negli episodi di panico? È sicuro che in quel momento non stesse davvero pensando a nulla di preoccupante? E se anche in quel momento effettivamente non stava pensando a nulla di sgradevole, è possibile che in quel periodo della sua vita in generale fosse preoccupato, e che questo la rendesse vulnerabile?
Naturalmente la ristrutturazione va effettuata non solo nei confronti del timore di cadere vittima del panico stesso, ma anche sulle supposte conseguenze del panico. Il paziente è spesso convinto che il panico possa poi portare a ulteriori problemi: impazzire, morire, soffocare, essere in balia degli altri, e così via.
In questo caso si può tornare a un intervento di tipo beckiano, incoraggiando il paziente a riflettere su quali prove di fatto ci siano che facciano temere di poter impazzire o morire. Una normalizzazione psico-educazionale diretta può essere utile, un intervento di informazione esplicita in cui si comunica al paziente che di panico non si muore e né tantomeno si impazzisce.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
Storie di Terapie #13: L’analitica Stefania. Molto interessata a descrivere la sua vita alternando vittimismo e intrepido coraggio
Al telefono si presenta come una veterana della psicoterapia, avendo già fatto una lunga analisi in passato, ma subito precisa che allora si trattava di attacchi di panico mentre ora è depressa, lasciando intendere che si tratta di faccenda più grave.
Si presenta come una cinquantenne molto curata, con un passato di ex bella donna che stenta ad archiviare. Durante il primo incontro fatico a contenerla sulla descrizione del suo malessere che si limita genericamente a definire come mancanza di interesse per tutto, stanchezza e tristezza.
E’ molto più interessata a descrivere la sua vita, alternando due registri narrativi che si intrecciano: il vittimismo, che la porta a descrivere le disgrazie che l’hanno colpita sin dalla nascita e il suo intrepido coraggio, la superiorità morale che l’ha portata a superare le traversie.
Un tema ricorrente è l’ingiustizia: in famiglia gli altri fratelli sono stati privilegiati rispetto a lei che onesta, buona e disposta al sacrificio, non ha mai chiesto niente. E’ sommessamente furiosa che i suoi meriti non le siano stati riconosciuti.
Nasce in Calabria, da una famiglia molto ricca di grandi proprietari terrieri. Questa ricchezza, le cui dimensioni afferma che non si possano immaginare, proviene dalla famiglia materna.
La madre è il centro gelido della sua esistenza, per tutta la vita ha tentato disperatamente di ottenere da lei un riconoscimento, senza mai riuscirci. La sua vita potrebbe essere descritta come l’insieme di strategie messe a punto per ottenere l’affetto della madre inizialmente e degli altri, più avanti.
Il padre era di fatto l’amministratore dei beni materni, ricorda che giocava con lei e sapeva farla divertire. In paese, Stefania era considerata la figlia dei signori e dunque rispettata ma, in qualche modo, considerata diversa, non appartenente al gruppo dei coetanei. Oltre a lei ci sono altri quattro figli due maschi, Giovanni ed Enrico e due femmine, Livia e Daniela.
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Su questa famiglia potente e prospera si abbatte una disgrazia. E’ una mattina di settembre del 1970, Stefania sta per iniziare la seconda media, è andata a fare la spesa con l’elenco preparato dalla madre e la raccomandazione di stare attenta ai resti e di non fermarsi per la strada a chiacchierare. Ricorda ancora che indossava un vestitino a fiori azzurri, una camicetta bianca con i pizzi, calzettoni bianchi e dei mocassini neri di cui andava fiera nonostante l’assenza delle desiderate calze di nylon che erano concesse solo a Livia, la sorella più grande. Lei vuole fare la brava bambina e tornare presto a casa, ma non resiste a non entrare nell’edicola di Giampiero. Il figlio Silvio, di due anni più grande di lei, è bellissimo e la sua immagine l’accompagna mentre la notte si consola accarezzandosi. Per mantenere vive le fantasie ha bisogno di un confronto con l’originale. Si trattiene nell’edicola sfogliando una rivista, ma non stacca gli occhi da Silvio.
Poi grida, voci confuse e una sirena della polizia. Stefania avanza sulla soglia dell’edicola in piazza: dalla parte opposta, di fronte alla Cassa di Risparmio, c’è una ressa di gente. Lei si fa largo e, avvalendosi della bassa statura, raggiunge la prima fila. Alcuni tentano di proteggerle la vista dalla scena cruenta, ma solo per rispetto alla sua giovanissima età, non immaginano che il signore che costituisce la sorgente del rivolo di sangue che si fa strada tra l’acciottolato e inizia pigramente ad arrestarsi e coagulare è suo papà.
In seguito penserà: ”se non mi fossi fermata per le mie sozzerie da Silvio avrei incontrato papà prima che entrasse in banca e mi avrebbe accompagnato a casa sfuggendo al momento della rapina.
Stefania oggi si rende perfettamente conto che ogni morte è contornata di questi piccoli eventi che potevano far andare le cose in un altro modo e che la storia non si fa con i se, ma quel senso di colpa è diventato il refrain della sua vita. La ricerca delle colpe è una costante, mitigata soltanto dall’attribuirle talvolta agli altri: un colpevole, comunque, va sempre trovato. Questo è la conseguenza dell’educazione rigida e bigotta della madre.
Con questo lutto la famiglia non perde la guida materiale, che è sempre stata ed è tuttora, a ottantasette anni, la madre, ma il suo pulsante cuore affettivo.
Il patrimonio viene spartito tra tutti gli eredi e a Stefania sono assegnati dei terreni che avranno valore enorme solo se diventeranno edificabili. I due fratelli si iscrivono a Giurisprudenza a Milano e con la loro cospicua parte di eredità costruiscono un’esistenza fondata sul misconoscere le loro origini calabresi. Livia inizia a far uso di droghe e, a diciotto anni, rimane incinta di un tossicodipendente conosciuto in comunità. La storia di Livia è un ruzzolone drammatico continuo: droga, furti, arresti, prostituzione, mette al mondo tre figli con tre uomini diversi, rimane vedova e, a trentotto anni, si ammala di sclerosi multipla. Ora vive con la madre ed una figlia, un’altra figlia è stata cresciuta da Daniela, che è sterile, ed un maschietto è stato dato in adozione.
Brillantemente diplomatasi al Liceo Scientifico e con il desiderio di frequentare la Facoltà di Medicina, Stefania deve accantonare i suoi sogni in famiglia c’è bisogno di soldi, l’università è privilegio solo per i maschi. Così, a vent’anni le trovano un posto in banca, a Roma.
La grande città la fa sentire perduta, a Roma non è nessuno anzi, viene presa in giro per il suo accento calabrese estremo. In questo periodo si consolida il nucleo della sua identità intorno all’idea di sé come forte, caparbia, che non molla mai. Si fa strada, lavora, negandosi ogni bisogno affettivo. Corteggiata da molti dei vertici della banca resiste stoicamente a tutte le avances, concedendosi invece ad un cliente verso cui prova tenerezza per le enormi difficoltà economiche in cui versa. Si sposano, ripiana i suoi debiti e immediatamente dopo inizia ad essere picchiata da lui. Non lo ha mai detto esplicitamente ma credo che sia stata costretta ad avere rapporti con altri a scopo di ottenere denaro o vantaggi.
Questo triste matrimonio durerà fino a quando lei avrà una certa disponibilità economica, poi sarà abbandonata.
Il primo avviene nell’edicola interna della banca dove è scesa per comprare una rivista. Preoccupata per essersi assentata dalla propria stanza senza permesso del superiore si accorge che, nella fretta, non ha preso il portafogli. Non ha i soldi per pagare. Sente le guance diventarle roventi, un fischio sale nelle orecchie a coprire il silenzio, la gola è serrata e l’aria non passa. Si stringe le mani al torace perché il cuore non scappi fuori alla prossima mitragliata di colpi che susseguono a vuoto ma quelle mani, che pure riconosce per l’anello della nonna, non sono le sue. E’ una strana sensazione: riconosce i dettagli del suo corpo, i vestiti, le scarpe, ma si sente estranea a se stessa, si guarda dall’esterno ma non si riconosce da dentro. Anche l’edicola le sembra un luogo sconosciuto che vede per la prima volta. Pensa nitidamente che deve trattarsi del modo in cui gli esseri umani muoiono ed ha anche tempo di dirsi che, in fondo, non è così male. Poi il nulla, fino a riprendersi nella grande stanza del vicedirettore della filiale, Giorgio, che potrebbe esserle padre e da tale si comporta, li separano ventidue anni.
Lui ha un matrimonio alle spalle, finito con vivaci strascichi giudiziari e due figli di diciotto e vent’anni. Stefania ne risulta subito affascinata per la grande cultura e raffinatezza, in verità forse è attratta, senza poterselo dire, dal suo dispotismo. Iniziano una relazione ma lui la tratta male e, da subito, le dice chiaramente che non vuole altri figli. Ogni volta che la donna prova a contraddirlo, la accompagna alla porta di casa invitandola ad andarsene per sempre.
Il giorno del suo trentaquattresimo compleanno inizia con la telefonata del laboratorio di analisi che le comunica che è in gravidanza. Tre giorni dura la sua maternità: il lunedì successivo, da sola, si reca da un’ostetrica procuratale da Giorgio, che pratica aborti clandestini. La notte seguente deve essere accompagnata in ospedale per un’emorragia per cui rischia la vita. E’ furiosa con Giorgio e medita di lasciarlo definitivamente. Si limita ad andare prontamente a letto con il suo precedente psicoterapeuta che, da questo momento, resterà sempre nella sua vita, prima con il ruolo di amante e poi di amico. Riscopre la passione e le voglie che l’età di Giorgio avevano messo da parte.
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Quando decide di contattare un avvocato per la separazione, a Giorgio viene diagnosticato un mieloma multiplo. Prova un grande senso di colpa per averlo tradito e decide che si dedicherà esclusivamente a lui per il resto dei suoi giorni. Per assisterlo meglio si licenzia dal lavoro, finendo per dipendere economicamente dal marito per ogni cosa.
I medici avevano fatto una prognosi massima di quattro anni.
Per questo errore, Stefania vorrebbe querelare i medici e chiedere un risarcimento: quando arriva da me, infatti, sono già otto anni che è stata fatta la diagnosi e il marito non sembra avere nessuna intenzione di morire. Lei lo assiste e contemporaneamente lo odia. Dice di non poter immaginare la sua vita senza di lui, avendo investito tutto in questo rapporto ma, contemporaneamente, non sopporta più la vita con lui che ora vede come un vecchio malato, impotente e tirannico.
Nei miei confronti mette in atto un’evidente e dichiarata strategia di seduzione che mi irrigidisce immediatamente. Utilizza due modi che hanno su di me l’effetto di scatenare la fuga e, persino, un’ inconsueta durezza: richiedere vicinanza attraverso l’esibizione della sofferenza e rimproverare per la mancata vicinanza, invadendo il mio territorio per avere il controllo.
La trappola in cui la terapia stava arenandosi, già nelle fasi iniziali, era evidente: più Stefania pretendeva vicinanza, più io diventavo scostante e rifiutante, ma proprio l’essere scostante e rifiutante aumentava il suo interesse nei miei confronti riattivando pattern relazionali già percorsi più volte nella sua vita. Tanto più lei si “accollava” (come dicono gli adolescenti di oggi per indicare un attaccamento insicuro ambivalente), tanto più io mi sottraevo giustificando ulteriormente le sue angosce di perdita e i conseguenti tentativi di controllo.
Quando ha dichiarato che l’unico motivo che la spingeva in terapia era di passare un’ora con me le ho comunicato che ciò non aveva alcun senso.
Le ho detto che vedevo un solo possibile modo per aiutarla, cercare di capire perché ritenesse terribile e insopportabile rimanere senza qualcuno che l’amasse incondizionatamente e imparare a prendersi cura amorevolmente di se stessa non aspettando che siano gli altri a farlo. Rivedere perciò le strategie, evidentemente fallimentari, finora adottate per non rimanere sola, che aveva messo in atto anche con me:
La più evidente e superficiale era quella di mostrarsi bisognosa, malata, in difficoltà e di chiedere aiuto. Appariva evidente anche a lei che questo comportamento, quando funziona, le attira intorno persone accudenti e l’accudimento è normalmente incompatibile con l’attivazione erotico sessuale;
La seconda convinzione è quella di farsi in quattro per l’altro, anche se non richiesto: a suo avviso essere indispensabile minimizza il rischio di essere lasciati. Per questo è importante la scelta di persone in difficoltà: il primo marito in bancarotta, il secondo anziano e poi ancor meglio malato. Persino nel caso dell’intenso transfert nei miei confronti temo che un ruolo lo abbia giocato la mia disabilità.
Dedicandosi all’altro, Stefania ritiene possibile accaparrarsi dei diritti che, ad un certo punto, inizia a pretendere con la rabbia di chi ha rinunciato a parti importanti di sé (con il secondo marito, la maternità ed il lavoro).
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A quel punto si ritiene defraudata rispetto ad un accordo che in realtà non c’è mai stato e si conferma nella sua idea di buona, giusta e disinteressata, sempre utilizzata dagli altri e mai ricambiata dell’amore che elargisce a piene mani.
Lo scompenso depressivo recente, che l’ha condotta in terapia da me, essendo il suo analista passato a diverso ruolo, è stato causato dal protrarsi imprevisto della vita di Giorgio, che rende sempre più svantaggioso il contratto di “assistenza versus apparenza matrimoniale”, dal precoce prepensionamento che l’ha lasciata senza attività quotidiana e un reddito autonomo e, non ultimo, dall’avanzare dell’età con l’appannarsi di quella bellezza di cui era fiera ed abile utilizzatrice.
Con il passare dei mesi ha riattivato alcune passioni come la musica classica, la danza, il volontariato e l’impegno politico.
Ha anche recuperato un rapporto con la sorella Livia, ma non ha mai smesso di dire che è depressa e la sua vita tutta un errore.
Quando le ho accennato che, considerati i suoi miglioramenti, potevamo pensare a ridurre la frequenza delle sedute, anche in vista di una chiusura, è stata più veloce di me: mi ha detto che certamente i farmaci l’avevano un po’ aiutata ma che si rendeva conto della superficialità di una terapia cognitiva, abituata come era lei, alle profondità analitiche.
Ho tenuto per me le mie associazioni circa le “profondità” che erano mancate.
Diversi studi si sono occupati della correlazione tra la trascuratezza nell’infanzia (neglect) e il rischio di sviluppare un gran numero di disturbi psichiatrici in età adulta. Un recente studio condotto al Rush Alzheimer’s Disease Center del Rush University Medical Center è invece uno dei pochi che ha esaminato l’associazione tra neglect e ictus età adulta.
La ricerca ha coinvolto 1.040 soggetti, di almeno 55 anni e senza demenza, che partecipavano al Memory and Aging Project. Il sondaggio si è focalizzato retrospettivamente sulla relazione tra i soggetti e i loro genitori nell’infanzia con lo scopo di definire la qualità delle relazioni e la presenza di abusi fisici o emotivi, sentimenti di sicurezza e amore o al contrario di trascuratezza e paura; lo studio ha incluso anche variabili relative alla condizione economica familiare e a eventuali separazioni o divorzi.
Nell’arco di tre anni e mezzo 257 partecipanti allo studio sono morti, di questi 192 hanno subito un autopsia cerebrale che rivelasse la presenza di ictus: in base ai risultati dell’autopsia un totale di 89 persone aveva i segni di un ictus.
Lo studio ha rivelato che il rischio di ictus è quasi tre volte superiore in coloro che hanno sperimentato un livello moderatamente elevato di abbandono emotivo dell’infanzia, rispetto a chi invece ha sperimentato un livello moderatamente basso. I risultati sono stati confermati anche dopo aver considerato fattori come il diabete, l’attività fisica, il fumo, l’ansia e problemi cardiaci.
Questi risultati vanno a sommarsi a un sempre maggior numero di evidenze che suggeriscono come le esperienze relazionali traumatiche nei primi anni di vita abbiano un influenza sullo sviluppo di malattie fisiche e comuni malattie croniche anche nella vecchiaia.
I ricercatori segnalano però anche un limite dello studio, infatti la rievocazione di memorie traumatiche a distanza di così tanti anni dal periodo in cui gli eventi si sono verificati può essere poco accurata.
Partecipazione e Cittadinanza: uno Sguardo Metodologico
Di Marcella Offeddu.
Partecipazione: permane in molti cittadini il desiderio di essere parte attiva della vita della propria comunità/società, anche in termini di assunzione di decisioni su varia scala.
La partecipazione alla Res Publica, intesa come partecipazione politica in senso lato, e quindi come cittadinanza attiva, è sempre più al centro del confronto in merito a cosa significhi parlare di comunità nell’era contemporanea.
Dalla comunità virtuale ai movimenti ‘dal basso’, sembra necessario identificare da una parte quali siano i luoghi dello stare insieme oggi, e dall’altra quali siano i modi di convivenza e di assunzione di decisioni.
Se infatti, storicamente, alcune strutture hanno permesso di definire la propria appartenenza (anche come scelta di non appartenenza), e le modalità della propria partecipazione alla vita sociale, dai partiti politici ai sindacati ai centri religiosi, oggi tali strutture appaiono meno in grado di rappresentare grandi parti della società civile.
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Permane in molti cittadini, però, il desiderio di essere parte attiva della vita della propria comunità/società, anche in termini di assunzione di decisioni su varia scala (dalle strategie macro alle scelte di impatto meno elevato).
Esserci, dunque, e agire, non solo nel momento della consultazione – come accade durante le elezioni – ma anche nel quotidiano.
È probabilmente anche per rispondere a tali esigenze, oltre che per garantire l’assunzione di scelte che siano quanto più possibile condivise, che si sono sempre più affermati a livello internazionale modelli cosiddetti ‘partecipativi’. Si tratta di un insieme estremamente variegato di modelli e strumenti, che spesso fanno riferimento all’approccio della democrazia deliberativa.
Tale approccio si appoggia sul concetto di ‘partecipazione’ attribuendo al termine (che di per sé, come vedremo, può assumere significati molto diversi) una accezione molto elevata: partecipazione non solo come assunzione di informazioni (partecipo perché so cosa succede), ma come vero e proprio confronto guidato/‘facilitato’ tra interlocutori informati, che porta ad una deliberazione (cfr in proposito documento di R. Lewanski). Confronto ed inclusione divengono due pilastri fondamentali di tale approccio.
Una chiave di lettura delle molteplici facce che il termine ‘partecipazione’ può assumere è fornita dala Scala della partecipazione proposta da S. Arnestein nel ’69.
Essa (vedi infra) prevede otto livelli di possibile coinvolgimento del cittadino, a partire dalla manipolazione per arrivare fino al controllo da parte dei cittadini stessi; gli otto livelli sono a loro volta organizzati in tre macro‐livelli: non partecipazione, partecipazione di facciata, e potere dei cittadini.
Questa scala presenta una coerenza interna tra livelli non piena, ma è tuttora utilizzata come riferimento poiché ben rappresenta le diverse possibilità. La categorizzazione presentata risulta particolarmente utile per organizzare, e dunque leggere, la molteplicità di metodi che da decenni vengono proposti in ogni parte del mondo, e che possono a vario titolo essere considerati come metodi ‘partecipativi’.
Una lettura di carattere storico dello sviluppo e dell’utilizzo di tali metodi è proposta da Lewanski, il quale mostra anche in quali condizioni sociali e politiche si sono sviluppati modelli diversi (dal Bilancio partecipativo nato nell’esperienza di Porto Alegre nel 1989, al Town meeting sperimentato tra i primi a New York e tuttora in uso negli Stati Uniti, ai modelli più diffusi in Europa come la Consensus Conference).
In questa occasione si preferisce invece fornire un primissimo e molto generale sguardo ad alcuni metodi partecipativi in uso, incrociando la scala di Arnestein, a partire dal livello 3 – informazione – con i contesti di utilizzo dei metodi partecipativi.
Fino ad ora si è trattato infatti dei metodi partecipativi in diretta relazione con l’utilizzo per la vita sociale e politica, come mezzo per il coinvolgimento in decisioni istituzionali dei cittadini.
Esiste però almeno un altro grande ambito all’interno del quale metodi che si definiscono partecipativi vengono utilizzati: si tratta delle attività legate al cambiamento organizzativo (change management). In questo contesto, l’utilizzo di tali metodologie non risponde solo ad un approccio di tipo etico/politico: risponde anche a specifiche esigenze di operazionalizzazione delle decisioni assunte, di assunzione di responsabilità e coinvolgimento in prima persona di ogni soggetto attivo nell’organizzazione. 2
Questa sintetica ‘fotografia’ può risultare utile per chi si interfacci per la prima volta con tali tematiche anche per identificare un metodo che sia applicabile al suo contesto/obiettivo.
• W. ToP (Tecnology of Participation): workshop guidato da un facilitatore per gruppi di lavoro che permette di sviluppare idee ed assumere decisioni significative
• GOPP: Goal Oriented Project Planning, permette di progettare, gestire e valutare interventi in maniera condivisa tra gli attori‐chiave
• Focus Group: permette di conoscere l’opinione di piccoli gruppi di partecipanti tramite un processo di confronto guidato. Non necessariamente porta ad una deliberazione finale
• Brainstorming: permette di coinvolgere i partecipanti tramite la produzione di idee ed il confronto. Non necessariamente porta ad una deliberazione finale
• Town meeting: permette di conoscere l’opinione informata di ampi gruppi di cittadini, attraverso un confronto supportato da facilitatori
• Bilancio partecipativo: permette di conoscere l’opinione di ampi gruppi di cittadini in merito alla gestione degli investimenti di una amministrazione
• Citizen Jury: permette di conoscere l’opinione dei partecipanti su una decisione controversa: l’obiettivo è produrre un ‘verdetto’
• Sondaggio: permette di conoscere l’opinione (non necessariamente informata) di ampi gruppi su ipotesi predefinite
Le differenze tra i due contesti di utilizzo citati sono molteplici, anche per quanto riguarda la scelta di modelli e metodi per la partecipazione: innanzitutto, perché diversi sono gli attori del sistema, sia per quanto riguarda i promotori del processo partecipativo (amministratori in un caso, dirigenti d’azienda o coordinatori di gruppi di lavoro nell’altro), sia per quanto riguarda coloro che possono candidarsi come facilitatori (più facilmente scienziati politici o sociologi nel primo caso, psicologi del lavoro nel secondo).
Inoltre, molto diversa può essere l’ampiezza dell’intervento: utilizzare metodi partecipativi come strumento di azione politica/istituzionale (ad esempio nei piani di sviluppo territoriale come sempre più spesso avviene) implica che possono essere coinvolte da 8/10 fino a centinaia di persone. Utilizzarli invece per il cambiamento organizzativo implica che spesso gli interlocutori saranno gli appartenenti ad un gruppo di lavoro, o ad un’area: più facilmente si parla di meno di dieci di persone.
L’ampiezza del campione comporta la scelta di strumenti diversi e/o una loro applicazione che sia sensibile a questa variabile: un town meeting, ad esempio, può essere realizzato con piccoli gruppi, o coinvolgere, soprattutto nella variante che si avvale di supporti informatici (elettronic town meeting) moltissime persone.
I due ambiti sono dunque da considerarsi e studiarsi separatamente: in questa sede si è ritenuto utile affiancarli per completezza. In conclusione, è utile segnalare il fatto che – oltre a quelli citati ‐ si ritiene che un terzo ambito possa trarre grandissimo beneficio dall’assunzione di approcci, e dall’applicazione di metodi, partecipativi: si tratta della formazione professionale. Tale proposta viene argomentata nell’articolo Partecipare per apprendere.
BIBLIOGRAFIA:
Arnstein, S.R. (1969). “A Ladder of Citizen Participation”. In Journal of the American Institute of Planners, Vol. 35, No. 4, July 1969, pp. 216-224. Boston: American Institute of Planners. Retrieved February 17, 2006 DOWNLOAD
Gli uomini stressati scelgono immagini di donne più robuste rispetto a quelli non stressati.
Secondo le teorie evoluzionistiche la scelta del partnerdipende dalla possibilità di procreare e garantire la sopravvivenza della prole. Per questo motivo le donne hanno bisogno di avere un maggiore accesso alle risorse necessarie per allevare i figli, scegliendo uomini in grado di sostenerle. I maschi, invece, hanno bisogno di incontrare femmine fertili, ad esempio donne giovani.
Quando, però, le condizioni socio-economiche o individuali sono ostili o incerte, gli individui preferiscono dei partner con caratteristiche fisiche più mature, tra cui una dimensione del corpo più florida.
Questo accade perché la maturità fisica si associa alla capacità di gestire le situazioni di minaccia e comunica un senso di forza, controllo e indipendenza, proprio ciò di cui si ha bisogno quando ci si sente minacciati. Quindi, fisici più corpulenti sono preferibili laddove le risorse ambientali sono imprevedibili o non disponibili, proprio in funzione del fatto che il grasso è associato all’idea di un eccesso di risorse.
Partendo da queste ipotesi, in una recente ricerca (Swami, Tovée, 2012) si è analizzato come un’esperienza di stress psicologico può influenzare le preferenze relative alle dimensioni del corpo. Tale studio è stato eseguito su un campione composto da 81 studenti eterosessuali maschi, della stessa etnia, assegnati casualmente al gruppo di controllo o al gruppo sperimentale in cui erano esposti ad una condizione di stress elevato. A ciascuno di loro erano presentate dieci immagini di donne con diversa corporatura.
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I risultati dimostrano che gli uomini stressati scelgono immagini di donne più robuste rispetto a quelli non stressati. Quindi, gli individui sono più propensi a idealizzare fisici più prosperosi, quando si verifica una minaccia ambientale come quella dettata dallo stress e di conseguenza l’attrazione fisica subisce l’impatto dei fattori ambientali. Per concludere a seguito delle condizioni di stress, l’uomo sarebbe propenso a scegliere secondo un proprio gusto personale senza rispondere ai diktat sociali che da sempre ci fanno credere che il magro è bello.
Le donne, invece, in caso di minaccia, potrebbero sentirsi più sicure con uomini più maturi? A voi l’idea per la prossima ricerca!
Oggi State of Mind presenta il libro sul trattamento cognitivo-comportamentale dell’ insonnia curato dai colleghi del Centro per il Trattamento Integrato dei Disturbi del Sonno in Psicopatologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana (AUOP). Il tema del volume è chiaro: si tratta di un manuale pratico e applicativo per il trattamento cognitivo-comportamentale dell’ insonnia.
Come sottolineato nella quarta di copertina del volume, “l’ insonnia è il più frequente disturbo del sonno del mondo industrializzato e interessa potenzialmente tutti”. Per questo motivo, un manuale clinico e pratico riferito a questa problematica assume un’importanza significativa. Un aspetto che mi ha colpito sin dalle prime pagine è la concretezza e la specificità in cui si addentra il manuale. Introduzione e aspetto teorici sono ridotte al minimo (senza mancare di niente…) e ci si addentra subito nell’applicazione del protocollo.
In breve, il libro si struttura in quattro sezioni.
Nella prima sezione, vengono descritti in modo esaustivo le componenti principali del trattamento CBT per l’ insonnia. A mio parere, gli autori riescono ad incarnare il principio dell’integrazione, troppo spesso millantato e gridato ai quattro venti, nonché molto in voga negli ultimo dieci/quindici anni. Infatti, tra le componenti indicate dagli autori, ricordiamo gli aspetti tecnici di prima scelta, come la tecnica di controllo degli stimoli (TCS), la tecnica di restrizione del sonno (TRS) o la tecnica dell’igiene del sonno; gli interventi di seconda scelta, come il rilassamento e la foto terapia. Un accenno viene fatto anche ai recenti protocolli sperimentali con l’ausilio della mindfulness. Oltre agli aspetti tecnici, sempre nell’ottica dell’integrazione, vengono prese in considerazione altre variabili fondamentali come la relazione clinica, il setting e il primo contatto con il paziente.
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La secondo sezione rappresenta il core del volume e ne occupa la maggior parte. Viene infatti descritto il trattamento cognitivo-comportamentale per l’ insonnia, step-by-step, seduta dopo seduta, un approccio così strutturato che potremmo considerarlo un protocollo.
L’intervento mostrato dal manuale prevede i seguenti step: Sessione 1 – valutazione iniziale, Sessione 2 – inizio del trattamento TCS e TRS, Sessione 3 – rivalutazione terapeutica (igiene del sonno) fino a giungere alle valutazioni conclusive nella Sessione 8. Ogni sessione viene coadiuvata da materiali clinici molto utili per gli esperti. Troviamo, infatti, nel manuale, strumenti valutativi, schede da consegnare ai pazienti con problemi di insonnia, schede riassuntive per il clinico, facilmente utilizzabili nella pratica clinica.
Per fornire un esempio, il protocollo prevedere che venga consegnata una scheda a fine trattamento per l’ insonnia che “aiuti il paziente a ricordare i propri guadagni clinici”. La scheda richiama la seguente:
– DUE COMANDAMENTI –
1 – Non rimanere a letto se si è svegli da più di 15 minuti
2 – Non cercare di compensare una notte insonne andando a letto presto, rimanendo a letto effettuando pisolini
– RICORDARE –
“Se non è stasera, sarà domani sera”
“Se stanotte non dorme bene, domani dormirà meglio”
Questa scheda esemplificativa, se da una parte conferma un approccio “british”, standard, dall’altra rende l’idea di quanto il manuale abbia lo scopo di essere realmente uno strumento clinico, da utilizzare come ausilio e guida nella pratica clinica.
Piccola nota per clinici in formazione: ogni sessione viene descritta con l’aiuto di moltissime esemplificazioni cliniche che non solo danno un’idea della tecnica di colloquio (e terapeutica) di Perlis e colleghi, ma aiuta a riflettere su come adattare in modo flessibile e “evidence-based oriented” il proprio agire clinico.
L’importanza data alle esemplificazioni cliniche è evidente in questo manuale, tanto che a tali esempi è stata dedicata tutta la terza sezione del manuale.
La quarta ed ultima sezione del manuale, che ne è anche Appendice, include un insieme di definizioni e caratteritiche sull’ insonnia , utili soprattutto in fase di psicoeducazione, Linee Guida dell’Academy of Sleep Medicine (AASM), questionari e schede per homework e esercizi durante le sessioni utili e di ispirazione clinica.
Il tutto il circa centotrenta pagine. Chiare, nette, lineari, strutturate e senza “fronzoli” teorici. Un manuale scritto da clinici per clinici, da tenere a portata di mano nel cassetto delle nostre scrivanie.
Il Flash Mob davanti all’Ordine degli Psicologi del Piemonte
Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul sito del CPPP (Coordinamento Psicologi Psicoterapeuti Piemontese) riferito al Flash Mob da loro organizzato lunedì 24 settembre 2012, a Torino. Alla redazione di State of Mind è sembrato giusto e naturale dare risonanza alla manifestazione, e ripubblicare l’articolo che traccia un bilancio sull’evento appena concluso e riporta integralmente la lettera che il Coordinamento ha presentato ai membri dell’Ordine.
Lunedì 24 settembre il Coordinamento Psicologi Psicoterapeuti Piemontese (CPPP) ha organizzato un presidio (diffuso via web in chiave 2.0 e declinato in Flash Mob) di fronte alla sede dell’Ordine degli Psicologi Piemontese.
Flash Mob davanti all’ORdine degli Psicologi del Piemonte. Organizzato dal CPPP – Coordinamento Psicologi Psicoterapeuti PIemontese – Lunedì 24 Settembre 2012.
Si denuncia: “Un’inadeguata o inesistente rappresentanza dei diritti della categoria professionale ulteriormente minacciata dalle nuove proposte di legge in materia di formazione continua, assicurazioni obbligatorie, tirocini prolungati”
TESTO ORIGINALE:
Coordinamento Psicologi e Psicoterapeuti Piemontesi – CPPP – Logo Ufficiale
Il flash mob ha avuto luogo. Per chi l’ha organizzato, con pochi mezzi e in breve tempo, è stato un gran successo. Dietro questa improvvisata richiesta d’ascolto ci sono due anni di lavoro di tante persone che hanno deciso di smetterla di lamentarsi e di chiedere con forza che si attui immediatamente un cambiamento.
Ci sono anche due anni di proposte, di scambi di idee, di tavoli di lavoro e di faticose discussioni per riuscire a giungere, sempre, ad una posizione condivisa, appoggiata da tutti coloro che si sono riconosciuti nel CPPP. Siamo riusciti a farci ascoltare portando i “nostri” temi.
Il consiglio dell’ordine ci ha permesso di leggere una dichiarazione e ha dedicato alla questione un’ora, lasciando spazio ad un dibattito che sulla carta non avrebbe dovuto avere luogo – alle riunioni infatti si può presenziare ma non intervenire, salvo richiesta presentata per tempo per essere aggiunti nell’ordine del giorno. Ci sono state in alcuni casi decise contrapposizioni di vedute ma in modo franco e non urlato.
Sperando in reali mutamenti, è necessario però da subito agire con proposte e nuove iniziative. Non ci si può più permettere di aspettare che le cose cambino grazie al lavoro di pochi. Il CPPP è, dunque, ufficialmente in cantiere e ricerca con spasmodica voracità idee, sperando che esse possano essere il frutto dello scambio di più menti (anche della tua). Il nostro obiettivo, non tanto velato, è che presto si arrivi a far lavorare i cervelli di tutti gli psicologi attorno ad un unico progetto: una professione che abbia per davvero una identità comune e condivisa.
Di seguito è riportata la lettera che un collega ha letto a nome di tutti noi ai membri dell’Ordine.
Cari colleghi,
abbiamo chiesto di intervenire questa sera come Coordinamento Psicologi e Psicoterapeuti Piemontesi facendoci portavoce delle istanze di quella fetta di iscritti, probabilmente maggioritaria, che si trova in fortissima crisi lavorativa. Si tratta di un esercito di persone, ogni anno più nutrito, che a seguito di una interminabile formazione non riesce a esercitare la professione e che spesso vive condizioni di precariato lavorativo ed esistenziale, sbarcando il lunario (quando va bene) attraverso altri tipi di impiego sottoqualificato , nell’attesa perenne di esercitare quella agognata professione per cui si è lungamente studiato e per il quale si sono fatti sacrifici enormi.
Certo questa situazione è legata, a nostro modo di vedere, a tanti fattori. Alcuni sono di carattere generale come la crisi economica o la scarsa dignità sociale della disciplina psicologica in Italia a fronte, invece, dell’ importanza sociale e dello strapotere della disciplina medica. Altri fattori invece, sono legati, secondo noi, a errori passati e a una certa miopia nella pianificazione delle politiche formative e professionali.
Il Flash Mob davanti all’Ordine degli Psicologi del Piemonte – Dettaglio Articolo La Stampa 24 settembre 2012
In questa cornice, siamo costretti a sopportare oltre al danno anche la beffa! Proprio questa fetta della comunità professionale che vive le difficoltà maggiori, deve constatare come la propria condizione, le proprie necessità e i propri interessi non vengano quasi per nulla rappresentati nell’ambito della politica professionale, pur trattandosi della componente numericamente più significativa della comunità professionale stessa.
Riteniamo, che le difficoltà di questi colleghi, che stimiamo essere circa il 60% degli attuali iscritti all’Ordine siano oggi “LA” questione, della politica professionale piemontese e non solo piemontese. Ci sembra invece che (per usare un termine a noi familiare) il problema sia e sia stato semplicemente “dissociato”: Tutto va bene Madame la Marchesa….
Ma ciò che più lascia attoniti non è tanto e solo questa cronica assenza di idee, quanto la leggerezza con cui si continua a far ricadere su questi colleghi, già in estrema difficoltà, continui aggravi di spese, sempre meno sostenibili. È importante che voi che sedete su quelle sedie siate a conoscenza del fatto che molti dei vostri colleghi non ricavano dalla pratica professionale nemmeno la cifra necessaria a fare fronte a tutti gli adempimenti correlati alla professione. L’invito accorato che vi rivolgiamo è dunque di tenere conto di queste informazioni prima di avallare decisioni che li mortifichino ulteriormente.
In questa sede non è possibile affrontare l’interezza di una problematica così complessa e questa lunga premessa ha il solo scopo di aiutarvi a immaginare (visto che molti di voi non la vivono nel loro quotidiano) la realtà lavorativa e di vita dei vostri colleghi “diversamente psicologi”. Non sarà sicuramente l’ultima occasione in cui cercheremo di fornirvi input utili per il vostro lavoro.
Quest’oggi però ci dobbiamo concentrare su alcuni punti che, in questo momento, sono all’ordine del giorno e rischiano di fare affogare chi lotta strenuamente per riuscire a stare a galla (la riva non si vede nemmeno all’orizzonte).
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Chiediamo innanzitutto una seria problematizzazione e presa di posizione da parte dell’Ordine in merito ai recenti provvedimenti del Governo, attualmente in discussione presso gli ordini, in materia di formazione continua (ECM). Ci preme sottolineare come l’ipotesi di istituzione di una formazione obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria costituirebbe non soltanto un ulteriore onere economicamente insostenibile per tutti i professionisti che non hanno un reddito (o hanno un reddito risibile) derivante dal lavoro psicologico, ma anche un ulteriore smacco poiché per l’ennesima volta ci ritroviamo incastrati in meccanismi formativi che alimentano un fenomeno che è stato definito di “cannibalismo professionale”: una redistribuzione continua del reddito dal basso verso l’alto, dai perenni formandi ai perenni formatori. Talvolta ci chiediamo se iscrivendoci alla Facoltà di Psicologia abbiamo firmato un qualche modulo che ha impegnato ognuno di noi ad adottare a vita i nostri docenti.
Immaginiamo essere figlie della stessa logica, e dell’”impegno adottivo” assunto, le ipotesi di innalzamento delle scuole di psicoterapia a 5 anni e l’aumento delle ore di tirocinio richieste! Chi seriamente pensa che gli Psicoterapeuti in formazione abbiano bisogno per essere dei bravi professionisti di un anno in più di scuola di specialità?Ironia della sorte, negli stessi giorni in cui ha cominciato a circolare l’ipotesi di allungamento della durata delle scuole di specialità a 5 anni, sui giornali girava anche la notizia dell’ipotesi di accorciare quelle mediche a tre! La solita storia: noi facciamo parte delle professioni della salute solo quando c’è da pagare oneri e mai per condividere gli onori.
Francamente ci sembra che le motivazioni per allungare la durata delle scuole di specialità siano ben altre… Pensiamo che questa decisione, ovunque sia nata , sia un colossale regalo alle scuole di specialità che dimostra per l’ennesima volta come l’ultima generazione di Psicologi sia vista solo come carne da spremere con l’alibi della formazione. Ci chiediamo se questa decisione sia legata oppure no alla massiccia presenza, nei luoghi delle politiche professionali, di personaggi direttamente o indirettamente coinvolti nel grande affare delle scuole di specialità in Psicoterapia.
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Se ancora non fosse chiaro, il problema nostro e della nostra professione non è la mancanza di formazione ma la mancanza di lavoro! La formazione ha dimostrato negli anni di essere un alibi e di non rispondere al problema occupazionale (o meglio, risponde solo ai problemi occupazionali dei docenti), anzi, per assurdo, le generazioni che ci hanno preceduto difendono con i denti nicchie professionali e continuano a lavorare pur essendo in molti casi palesemente meno formati delle nuove generazioni che rimangono fuori dal mercato del lavoro.
In merito all’ipotesi della formazione obbligatoria (ECM) ci chiediamo: chi sarà a organizzare questi incontri di formazione? Chi ne trarrà vantaggio? Su chi ricadranno gli oneri?
Per quanto ci riguarda dichiariamo solennemente che abbiamo deciso di terminare l’adozione dei nostri formatori. A chi ci dobbiamo rivolgere per le pratiche burocratiche?
E cosa dire dell’assicurazione obbligatoria? L’Ordine pensa di fare presente la situazione dei suoi iscritti che è spesso diversa da quella degli iscritti agli altri ordini o, anche in questo caso, assumerà una posizione pilatesca, svolgendo la funzione di passacarte?
Lasciamo che paghino l’assicurazione professionale anche coloro che di fatto non esercitano la professione e che non hanno pazienti? Fermo restando l’importanza dell’assicurazione per chi svolge la professione, l’obbligatorietà non genererà meccanismi speculativi? Quali misure si pensano di adottare in questo senso?
Come ultimo punto di questo intervento, chiediamo con forza che l’Ordine impieghi tutti i mezzi che ha a disposizione affinché il lavoro svolto dal Tavolo sui Tirocini e promosso dall’Ordine prosegua così che la bozza relativa ai tirocini, faticosamente costruita negli scorsi mesi insieme alle ASL e alle Scuole di Psicoterapia, venga assunta come regolamento per i Tirocini in Piemonte e non solo. La situazione sembra stagnare, e chiediamo che l’Ordine che, a onor del vero, si è responsabilmente impegnato nella gestione di questo capitolo, riprenda le fila della questione sollecitando gli attori in campo per facilitare un rapido proseguo di quanto costruito insieme.
Vi ringraziamo dunque per l’attenzione concessaci, sicuri che farete tesoro delle istanze degli iscritti che vi hanno eletto e che siete chiamati a rappresentare.
Un augurio di buon lavoro.
Coordinamento Psicologi e Psicoterapeuti Piemontesi
Il Legame tra Trauma e Perversione: da Freud a De Masi
Il legame fra trauma e perversione è stato indagato da molti autori che hanno cercato di capire se uno o più eventi traumatici vissuti nel corso dell’infanzia possano generare, attraverso una causalità lineare, un quadro di comportamenti che possiamo definire perversioni o se al contrario il trauma si innesta in una struttura psichica già orientata verso fantasie patologiche.
Molto interessante al riguardo è il contributo di De Masi (2008), il quale sottolinea un aspetto centrale ma a suo parere non più condivisibile del pensiero freudiano: il primo modello psicoanalitico, la teoria pulsionale, afferma che la sessualità sia un’esperienza unitaria; le fasi orale, anale e fallica rappresentano un quadro unico di sessualità primitiva e i comportamenti sessuali anomali sono riconducibili allo sviluppo abnorme di una delle componenti di base, che si rende autonoma e si fissa impedendo i successivi processi evolutivi (Freud, 1919).
Se invece intendiamo la perversione non come uno dei possibili sviluppi della sessualità ma come una deviazione di essa, costruiamo un quadro più realistico che ci permette di comprendere meglio ciò che davvero si verifica nei processi mentali dei pazienti.
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In particolare abbiamo una visione chiara della distinzione fra sessualità e sessualizzazione, cioè fra un impulso sessuale che si rivolge ad un oggetto esterno ed uno che invece si trasforma in fantasie autoindotte. La sessualizzazione è il ritiro psichico in un’area nella quale il paziente si eccita esclusivamente con le proprie fantasie; non è più necessario un oggetto sessuale esterno e ciò implica una deviazione dello sviluppo sessuale, poiché gli oggetti che elicitano tali fantasie sono contenuti mentali sui quali, nella maggior parte dei casi, viene operata una distorsione.
E’ il caso delle fantasie sadiche e masochistiche; il soggetto non entra in relazione con l’altro bensì produce nella propria mente una serie di immagini che lo vedono coinvolto in un rapporto di sottomissione o di dominio.
L’altro non esiste più, non ha bisogni e desideri propri ma dipende unicamente da ciò che l’impulso sadomasochistica determina. La sessualizzazione si lega alla perversione dal momento che non sempre il ritiro psichico nel piacere autoindotto rimane separato dall’azione; quando esso si sposta in un contesto reale, in cui il soggetto usa una o più persone per soddisfare le proprie fantasie, abbiamo la perversione.
La sessualizzazione, l’incapacità di uno sviluppo sessuale normale che consente l’instaurarsi di relazioni con l’altro, è senza dubbio connessa alla presenza di traumi nella storia di vita del paziente, ma De Masi puntualizza che per capire il rapporto fra trauma e perversione occorre analizzare ogni singolo caso.
Vi sono infatti soggetti la cui storia è segnata da trascuratezza, comportamenti sessuali anomali da parte dei genitori, incapacità genitoriale di rispondere ai bisogni in modo costante e comprensivo, e in queste situazioni esiste già prima del trauma un’atmosfera ambientale che facilita e induce il processo di sessualizzazione.
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Il concetto di trauma può essere inoltre ampliato includendo non solo gli abusi, le molestie e altri eventi particolarmente stressanti per il bambino (ad esempio delicate operazioni chirurgiche che intervengono su menomazioni del corpo) bensì anche traumi emotivi che si inscrivono nella relazione fra il paziente e una o entrambe le figure genitoriali.
Trovarsi in una condizione di isolamento emotivo, in cui il soggetto non riceve contenimento, né adeguato rispecchiamento alle proprie angosce, provoca uno stato penoso che può essere controllato mediante il ritiro in fantasie autoindotte, che sviluppandosi assumono una valenza erotica; se i genitori, e in special modo la madre, non si accorgono di tale ritiro o addirittura lo consentono attraverso modalità più o meno coscienti, la predisposizione alla perversione è data.
De Masi, in riferimento al trauma, aggiunge che esso può venire erotizzato proprio come operazione difensiva che il paziente pone in atto per controllare lo stato emotivo col quale non può venire in contatto. Percepire ad esempio i genitori come coppia in cui uno dei due membri è violentemente sottomesso all’altro, può generare nell’individuo un vissuto di angoscia molto profondo che egli può controllare trasformando la rappresentazione di quella relazione in una fantasia eccitatoria.
In conclusione, le conseguenze di un trauma fisico o emotivo possono essere molto gravi; per intervenire in terapia su di esse e sulle eventuali perversioni che compongono il quadro clinico è necessario ricostruire sia il trauma sia le modalità attuali con cui il paziente si relaziona, elaborando i rapporti causa-effetto e agendo affinché il paziente sviluppi la capacità di includere l’altro reale nei propri pensieri e fantasie.
Spiare un ex-partner, attraverso l’utilizzo di Facebook, può ostacolare il processo di guarigione dopo la fine della storia d’amore.
“Possiamo comunque rimanere amici”. Questa è la frase che, spesse volte, contraddistingue la fine di una storia d’amore. Numerose ricerche, tuttavia, hanno messo in luce come rimanere amici dopo la fine di una relazione affettiva può compromettere il recupero emotivo di colui che è stato lasciato.
Cosa accade se dopo la rottura sentimentale, si continuasse a far parte della lista degli amici di Facebook del proprio ex? Il rischio è diventare dei Facebook Stalker.
Ricerche recenti dimostrano che il continuo spiare il profilo dell’ex partner su Facebook è associato a una maggiore probabilità di incorrere in un atteggiamento intrusivo di tipo ossessivoparagonabile al presentarsi a scuola o sul luogo di lavoro all’insaputa del proprio ex.
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Cosa più grave: questo atteggiamento è ritenuto, da parte di coloro che utilizzano Facebook per spiare l’altro, assolutamente innocuo.
In realtà spiare on line il comportamento di un ex-partner porta ad aumentare la sofferenza dopo la rottura e a prolungare la nostalgia. Per esempio, guardando le foto, si potrebbe riaccendere il desiderio, o sprofondare in una angoscia se si scoprisse che l’ex partener è coinvolto in un nuovo rapporto.
Una recente ricerca (Marshall, 2012) ha indagato questo fenomeno su un campione costituito da 464 individui. In particolare, coloro che restano amici su Facebook sperimentano un recupero e una crescita più difficile rispetto a chi ha cancellato l’amicizia e recuperano meno in termini emotivi.
Quindi, il frequente spiare il profilo del proprio ex su Facebook è associato ad una maggiore angoscia dopo la rottura, a elevati sentimenti negativi, a desiderio sessuale, a nostalgia per l’ex e a un recupero e una crescita personale inferiore.
Nel complesso, questi risultati suggeriscono che spiare un ex-partner, attraverso l’utilizzo di Facebook, può ostacolare il processo di guarigione dopo la fine della storia d’amore.
Dunque, controllare su Facebook chi ci “ha tanto amato” non è affatto salutare! Vedere che la sua vita prosegue mentre noi siamo bloccati sullo schermo di un computer provoca nostalgia e emozioni negative. Pertanto, evitare di spiare il profilo del proprio ex e continuare la propria vita conservando solo un piacevole ricordo di ciò che è stato, è forse il modo migliore per crescere e per far guarire un cuore spezzato.
Il Cool Kids Program: protocollo strutturato di trattamento per i bambini con disturbi d’ ansia, che si sviluppa e si conclude in 10 sessioni, della durata di un’ora per le terapia individuali, o di due ore per i gruppi.
Ronald Rapee, importante ricercatore della Macquarie University di Sydney ha tenuto un seminario a Milano, presso la scuola di specializzazione in psicoterapia “Studi Cognitivi”. Seminario dedicato all’ansia nel bambino e al suo trattamento cognitivo-comportamentale (CBT).
L’opinione di Ron Rapee è che il trattamento CBT dell’ ansia nei bambini sia diverso da quello degli adulti non tanto nella sostanza, quanto nella forma,: le strategie di base sono le stesse, la ristrutturazione cognitiva e l’esposizione alle situazioni ansiogene; cambia invece il modo in cui queste sono presentate.
Se con un adulto si può usare la ristrutturazione cognitiva a un livello più o meno astratto, con un bambino bisogna utilizzare alcuni accorgimenti che permettano di lavorare a un livello più pragmatico: ad esempio l’uso del “termometro delle emozioni” o lo schema ABCpresentato come un cuore da riempire con l’emozione provata.
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Un’altra differenza fondamentale del lavoro con i bambini è l’attenzione al sistema in cui sono inseriti, “Non c’è un bambino ansioso, c’è una famiglia ansiosa”, come sintetizza Ron Rapee a metà mattina.
Rapee è molto attento agli aspetti di ricerca, questo si traduce in un’attenzione alle misurazioni e ai questionari da dare alla famiglia e al bambino prima di iniziare il trattamento; queste non sostituiscono una diagnosi nel senso classico, ma forniscono informazioni che altrimenti il clinico avrebbe difficoltà a reperire in tempi brevi.
Uno strumento su tutti è il CATS Children’s Automatic Thoughts Scale, sviluppato da Rapee stesso, in cui alcuni dei pensieri automatici negativi tipici dei vari disturbi d’ ansia (ad es. “i bambini pensano che sono stupido”, “sta per succedere qualcosa di brutto a papà e mamma”) sono trasformati in item di una scala Likert e somministrati al bambino .
Il pezzo forte della giornata è indubbiamente il Cool Kids Program,un protocollo strutturato di trattamento per i bambini con disturbi d’ ansia (e solo questi), che si sviluppa e si conclude in 10 sessioni, della durata di un’ora per le terapia individuali, o di due ore per i gruppi.
Il programma si basa sul modello d’ ansia sviluppato da Rapee e collaboratori, in cui fattori genetici, stile genitoriale, vulnerabilità individuale e eventi esterni concorrono a generare il disturbo d’ ansia; per ognuno dei fattori, il protocollo prevede una tranche di terapia, che va a lavorare sugli elementi disfunzionali.
La vulnerabilità individuale, ad esempio, viene affrontata con la ristrutturazione cognitiva e l’esposizione, gli stressor esterni vengono affrontati attraverso l’insegnamento di abilità sociali, la parte che riguarda il lavoro con i genitori prevede un intervento che riduca l’iperprotettività verso il figlio e favorisca il supporto all’esposizione, e via dicendo. A questo proposito, il punto su cui Rapee torna spesso, e sottolinea come principale, è la centralità dell’esposizione alle situazioni ansiogene; se abbiamo pochi incontri, il nostro lavoro deve vertere quasi esclusivamente sull’esposizione.
Il Cool Kids Program include i genitori nel trattamento in modo diretto e in modo indiretto.I genitori partecipano attivamente con una modalità che Rapee chiama “Together, separate, together”, riferendosi ai momenti del lavoro per ogni sessione: inizialmente i genitori entrano nella stanza con i bambini (together) per le chiacchiere di rito sull’andamento della settimana trascorsa e il controllo degli homework, successivamente escono e il bambino rimane da solo a lavorare con il terapeuta (separate) e, alla fine della seduta, tornano per condividere il lavoro svolto (together).
Nelle terapia di gruppo, si osserva una modalità indiretta di partecipazione degli adulti che ha inaspettati effetti benefici: Rapee racconta che i genitori, rinchiusi nella stanza affianco ad aspettare la fine delle due ore di terapia dei figli, si trasformano in un gruppo di mutuo auto aiuto, con esiti sorprendenti.
Le sessioni del Cool Kids Program si svolgono secondo un ordine logico e razionale, il cui primo passo è introdurre i bambini (e i genitori) al collegamento tra pensieri e emozioni e al modello sulla natura e sulle cause dell’ansia. La ristrutturazione cognitiva viene introdotta subito, già nella seconda sessione, attraverso la metafora del detective: ai bambini viene detto che impareranno a fare gli investigatori, che indagheranno sui pensieri che causano le loro paure e che i loro “strumenti del mestiere” saranno delle domande specifiche da utilizzare per contrastare i pensieri dannosi (“Quali sono i fatti?”, “Cosa altro può essere successo invece di quello che sto pensando ora?”, “Cosa è successo in passato di simile?”).
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A questo punto, i bambini e i genitori sono pronti per l’esposizione; dopo aver stabilito la gerarchia delle situazioni temute e aver fatto un po’ di psicoeducazione sull’argomento (aspettarsi alti e bassi, evitamenti “sottili” e via dicendo) si entra nel vivo della procedura: i bambini devono affrontare le situazione temute.
Durante le esposizioni, il focus deve essere rivolto alle conseguenze temute, facendo provare al piccolo paziente il sapore di ciò che teme, stando molto attenti che il bambino non si sottragga, anche in modo velato, a ciò di cui ha paura. Ad esempio, se il bambino ha paura di fare un errore in un compito a casa, l’esposizione consisterà nel compiere apposta un errore, proprio per far vedere al paziente che non è così terribile sbagliare qualcosa. Dopo le esposizioni, in cui il terapeuta è incoraggiato a partecipare attivamente, le sessioni si incentrano sull’’insegnamento delle abilità sociali e sul consolidamento di quanto appreso.
Infine, dopo un paio di settimane dal penultimo incontro, c’è la sessione finale, in cui si discutono gli obiettivi a lungo termine e si programma il follow up a 3 mesi.
Il seminario di Rapee è stato molto stimolante, il Cool Kids sembra essere un programma con ottime potenzialità, sia perché fornisce un protocollo strutturato di trattamento facilmente utilizzabile, sia perché la sua stessa natura si presta molto bene alla ricerca.