LEGGI PARTE I – PARTE II – LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA
Una normalizzazione psico-educazionale diretta può essere utile, un intervento di informazione esplicita in cui si comunica al paziente che di panico non si muore e né tantomeno si impazzisce.
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Un altro problema del paziente con disturbo da panico è la sua tendenza a non contestualizzare il suo malessere emotivo in una situazione. La conseguenza è che situazioni oggettivamente problematiche non sono comprese dal soggetto.
Il soggetto non comprende che il contesto giustifica un certo malessere emotivo ed egli o lei finisce per vivere il suo sconforto come privo di senso. Non comprendendo la componente cognitiva delle emozioni, si finisce per percepirne solo quella fisiologica, la quale assume un aspetto terrificante proprio per la sua assenza di significato.
Ad esempio, se il soggetto trascura o sottovaluta uno stato di tensione per una situazione sociale o prestazionale sgradevole (entrare in una stanza con gente ignota di cui temo il giudizio, affrontare un esame), finirà per percepire solo gli aspetti fisiologici del suo stesso stato di tensione (ad esempio, uno stato di oppressione al petto). Ma questo senso di oppressione toracico, se non viene collegato cognitivamente alla situazione, finisce per assumere un aspetto terrificante proprio perché privo di senso. Di qui la possibile terribilizzazione panica.
Patrizio P. ha 22 anni e frequenta l’Università. Si presenta in terapia riferendo di essere affetto da attacchi di panico. Un esame approfondito rivela un episodio iniziale accaduto in spiaggia un paio d’anni di prima, episodio riconducibile a un capogiro da eccessiva esposizione al sole. Gli episodi di panico attuali iniziano con malesseri nella zona addominale, mal di pancia e timore di perdere il controllo dello sfintere. Questi malesseri non sfociano mai in attacchi conclamati, ma semmai in un disagio sottile e continuo. Si tratta insomma di uno stato continuativo di ansia anticipatoria che suggerisce naturalmente un possibile sconforto esistenziale più globale che il paziente non riesce a definire. Ulteriori domande portano a comprendere che i malesseri addominali e i timori di perdere il controllo dello sfintere avvengono soprattutto quando il paziente fa il suo ingresso nelle aule universitarie per assistere alle lezioni o quando si trova in compagnia di amici o altri studenti universitari. Insomma, occasioni sociali con coetanei. Analizzando la sua condizione di vita, il paziente ammette un periodo di disagio, con un sottile timore sia di non essere all’altezza delle sue ambizioni di studio che di non essere accettato. Questo timore, consapevole e niente affatto inconscio, tuttavia non era riconosciuto dal paziente e non collegato al malessere addominale e alle sue deduzioni catastrofiche di panico. L’esperienza negativa sulla spiaggia di due anni prima aveva reso il paziente timoroso di poter perdere il controllo in situazioni di disagio. In tale maniera, invece di contestualizzare il suo malessere addominale in un disagio più ampio, il paziente aveva finito per definirlo come un preludio al panico.
A volte il collegamento è reso particolarmente difficile perché il soggetto sta vivendo un periodo di vita globalmente stressante e non una precisa situazione. Ad esempio, una separazione, un cambio di residenza, un esame o una prova particolarmente difficili. In questi casi, paradossalmente, una apparente elaborazione simil-cognitiva effettuata dal paziente da solo (del tipo “posso sopportare”) in realtà facilita il panico, perché gli impedisce di riconoscere, comprendere e accettare il suo malessere.
Ragioniamo insieme. Ricorda cosa pensò negli episodi di panico? È sicuro che in quel momento non stesse davvero pensando a nulla di preoccupante? E se anche in quel momento effettivamente non stava pensando a nulla di sgradevole, è possibile che in quel periodo della sua vita in generale fosse preoccupato, e che questo la rendesse vulnerabile?
Naturalmente la ristrutturazione va effettuata non solo nei confronti del timore di cadere vittima del panico stesso, ma anche sulle supposte conseguenze del panico. Il paziente è spesso convinto che il panico possa poi portare a ulteriori problemi: impazzire, morire, soffocare, essere in balia degli altri, e così via.
In questo caso si può tornare a un intervento di tipo beckiano, incoraggiando il paziente a riflettere su quali prove di fatto ci siano che facciano temere di poter impazzire o morire. Una normalizzazione psico-educazionale diretta può essere utile, un intervento di informazione esplicita in cui si comunica al paziente che di panico non si muore e né tantomeno si impazzisce.
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BIBLIOGRAFIA:
- Beck, A. T., Emery, G., Greenberg, R. L. (1985). Anxiety disorders and phobias: A cognitive perspective. New York: Basic Books. (READ ON GOOGLE BOOKS)