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Dall’assemblea Annuale della Consulta delle Scuole di Psicoterapia CBT: presentazione del percorso e del manuale di accreditamento tra pari delle Scuole

Il 27 maggio si è tenuta a Roma l’assemblea annuale della “Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale”.

 

Nel corso della giornata è stato presentato il percorso di lavoro intrapreso da sei scuole afferenti alla Consulta (Istituto Miller, 
ITC, 
Nous,
 Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Scint, Studi Cognitivi) le quali hanno collaborato alla stesura di un manuale contenente gli standard e le linee guida per l’accreditamento e l’assicurazione della qualità formativa delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale.

Il lavoro nasce da una riflessione della Consulta rispetto alle indicazioni ministeriali sul controllo della qualità della formazione fornita dalle Scuole di Specializzazione. A partire da ciò il gruppo di lavoro tra pari costituito e coordinato dal presidente Paolo Michielin ha focalizzato l’attenzione sull’individuare dei criteri che potessero rappresentare degli indici della qualità dell’offerta formativa delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale. Oltre a rappresentare una possibilità di controllo della qualità dell’offerta formativa, gli standard e linee guida sono volte sia a prospettare una maggiore coerenza rispetto ai criteri di qualità interni alle Scuole ed un progressivo allineamento agli standard europei, sia a riflettere sull’importanza di una comunicazione trasparente dei criteri nei canali di comunicazione delle Scuole.

L’assemblea annuale ha quindi rappresentato un momento di condivisione del lavoro svolto: i membri delle sei scuole del gruppo di accreditamento tra pari si sono avvicendati per illustrare dapprima la struttura del manuale e il razionale alla base, per poi proseguire con una sintesi delle aree ritenute di imprescindibile importanza nell’assicurazione delle qualità della formazione offerta dalle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale. È stata inoltre descritta la procedura che verrà seguita nel momento in cui una Scuola di Specializzazione CBT farà richiesta di accreditamento.

La presentazione si è conclusa condividendo riflessioni sul manuale nate da due visite pilota effettuate tra Studi Cognitivi, Nous, Istituto Miller e ITC. La discussione successiva, moderata da Giovanni Ruggiero, ha prodotto considerazioni e spunti futuri per un proficuo percorso che tenga in considerazione sempre più le best practice che garantiscono la qualità e il progresso delle Scuole di specializzazione CBT.

 

I videogiochi violenti sono correlati a comportamenti violenti?

Il fatto che i bambini che usano videogiochi violenti siano più portati a mettere in atto comportamenti violenti può essere spiegato alla luce della teoria dell’apprendimento sociale, secondo cui le persone sviluppano nuove strategie di comportamento attraverso processi di osservazione e imitazione delle azioni altrui (modelli di riferimento). Tali modelli possono essere reali o immaginari come nel caso dei videogame.

 

Gli Stati Uniti sono uno dei paesi con il più alto tasso di mortalità infantile legato all’utilizzo accidentale di armi da fuoco. Sicuramente la presenza legale di armi in casa predispone maggiormente i bambini a trovarsi a diretto contatto con esse. Tuttavia, ci sono diverse variabili che possono influire sulla predisposizione dei bambini ad usare o meno le armi.

La ricerca che viene presentata in questo articolo prende in considerazione la variabile “esposizione alla violenza tramite videogioco”. Si è ipotizzato che i bambini esposti alla visione di videogiochi violenti fossero più portati ad imitare i comportamenti violenti, rispetto ai bambini esposti a videogiochi non violenti.

Lo studio

Il campione oggetto di studio è composto da 220 bambini (8-12 anni) divisi in 110 coppie, delle quali un bambino giocava attivamente al videogioco e l’altro osservava passivamente. Le coppie di bambini sono state esposte ad una delle tre condizioni cliniche: videogioco violento con pistole, videogioco violento con spade e videogioco non violento. Successivamente, i bambini sono stati portati in una stanza videosorvegliata, per 20 minuti, dove sono stati lasciati liberi di giocare con tutti i giocattoli presenti nella stanza. All’interno di un armadietto erano state riposte due pistole scariche ed è stata valutata la propensione dei bambini all’uso delle pistole in seguito alla visione dei videogiochi violenti e non violenti. La propensione all’utilizzo delle pistole è stata valutata tenendo conto del contatto avuto con essa, del tempo d’impugnatura della pistola e dell’innesco dei tiri rivolti verso se stessi o altri.

Dei 220 bambini che hanno trovato le pistole, 120 le hanno toccate. Il tempo medio di impugnatura dell’arma è stato di 96,5 secondi e il 32,5% dei 120 bambini ha premuto il grilletto della pistola almeno una volta.

In particolare, rispetto alle tre condizioni cliniche (videogiochi pistole, spade, no violenza) è emerso che l’esposizione dei bambini a videogame violenti era maggiormente associata al contatto con la pistola, ad un maggior tempo di impugnatura dell’arma e ad una maggior numero di tiri verso se stessi o altri, rispetto all’esposizione a videogame non violenti. Difatti, dei bambini esposti a videogiochi con pistole, il 62% aveva toccato la pistola per 91 secondi ed aveva effettuato più colpi rispetto alle altre due condizioni; dei bambini esposti a videogiochi con spade, il 57% aveva toccato la pistola per 72 secondi effettuando meno tiri rispetto alla condizione con pistole; infine in relazione alla condizione non violenta, il 44% dei bambini aveva toccato la pistola per circa 36 secondi effettuando un numero di colpi più basso rispetto alle condizioni violente (pistole e spade).

Conclusioni

Questa ricerca sembra suffragare l’ipotesi per la quale l’esposizione dei bambini a videogiochi violenti, nei quali vengono utilizzate armi, può avere ripercussioni sull’uso delle armi nella vita reale. Questo risultato può essere letto alla luce della teoria dell’apprendimento sociale (Bandura, 2017) che afferma come le persone sviluppino nuove strategie di comportamento attraverso processi di osservazione e imitazione delle azioni altrui (modelli di riferimento). Tali modelli possono essere reali o immaginari come nel caso dei videogame.

Inoltre, è interessante sottolineare che prima di sottoporre i partecipanti alla procedura clinica, i ricercatori hanno somministrato dei questionari self report per valutare la frequenza con la quale i bambini fossero esposti generalmente a filmati violenti e quanto spesso tendevano a comportarsi in maniera violenta. Dall’analisi dei risultati è emerso che l’esposizione reiterata a filmati violenti era collegata ad una maggiore probabilità di toccare la pistola e sparare; dunque, l’esposizione ripetuta si presenta come fattore di rischio per l’utilizzo di armi nella vita reale.

Tuttavia, questo studio presenta delle limitazioni: un setting artificiale e poco naturale il quale può inibire il comportamento dei bambini; l’utilizzo di un videogioco non molto violento per ragioni etiche; ed infine la difficoltà dei bambini ad identificarsi con l’avatar del videogioco legata a ragioni di grafica del gioco (avatar non personalizzabile e non ripreso) e ad una breve sessione della durata del gioco.

Paul L. Hewitt: Perfectionism. A Dynamic-Relational Approach to Conceptualization, Assessment and Treatment – Report dal Workshop di Bergamo, 25 Maggio

Durante il seminario che si è tenuto a Bergamo il 25 maggio scorso, Paul L. Hewitt ha illustrato il suo approccio dinamico-relazionale, frutto di oltre trent’anni di lavoro, all’assessment, alla concettualizzazione e al trattamento del perfezionismo, un complesso e problematico aspetto di personalità.

 

Il seminario è stato organizzato dalla Society for Psychotherapy Research e dalla Scuola di Psicoterapia Integrata. Uno dei massimi esperti mondiali di perfezionismoPaul L. Hewitt – ha illustrato il suo approccio dinamico-relazionale al tema.

L’ipotesi alla base del lavoro di Hewitt

Nell’ascoltare Paul L. Hewitt è facile capire cosa intendiamo o vorremmo intendere utilizzando la parola “esperto”. Perché Hewitt è senza alcun dubbio un esperto di perfezionismo. Con gentilezza, calma ed approfondita conoscenza ha guidato i partecipanti al corso nella comprensione del suo modello di funzionamento ed intervento. Il cosiddetto approccio dinamicorelazionale prende le sue origini dalle domande che il giovane studente universitario Paul Hewitt si pose scrivendo il suo primo articolo in cui passava in rassegna quanto noto in letteratura. L’ipotesi guida era, e resta, quella che il perfezionismo non sia una sorta di deriva o correlato sintomatologico di altre psicopatologie, quanto piuttosto un tratto di personalità multidimensionale e potenzialmente maladattivo.

A partire dalle prime ricerche in cui cercò di dimostrare come il perfezionismo fosse uno stile interpersonale che media tra eventi stressanti e depressione (Hewitt & Dyck, 1986), sino alle conferme sperimentali sulla multidimensionalità di tale tratto (Hewitt & Flett, 1991), il lavoro trentennale di Hewitt si è sviluppato secondo chiare e coerenti linee di ricerca. Ed ha portato alla pubblicazione di Perfectionism. A Relational Approach to Conceptualization, Assessment, and Treatment (Hewitt, Flett & Mikail, 2017) uscito nel 2017 in lingua inglese e prossimamente disponibile in lingua italiana.

Affondando le sue radici in un background psicodinamico, il modello dinamico-relazionale integra teorie e prospettive diverse anche e volutamente di stampo cognitivista. Hewitt evidenzia chiaramente come all’origine del suo lavoro vi siano in particolare due filoni teorici. Da un lato troviamo le elaborazioni psicoanalitiche del complesso di superiorità (Adler, 1979), ovvero quel tentativo molto umano di mascherare un nostro senso di inferiorità che spesso porta ad ipersensibilità alle critiche e quindi alla tendenza a mascherare le nostre imperfezioni (Horney, 1950). Dall’altro lato, la rilettura interpersonale dell’ansia e della sofferenza umana (in opposizione all’originale eziologia intrapersonale freudiana) che la psicoanalisi americana ha reso famosa (Sullivan, 1953), supporta l’idea di considerare il perfezionismo un tratto di personalità maladattivo al punto da nuocere alla persona e alle sue relazioni (Blatt, 1995).

Il perfezionismo secondo Hewitt

Ma che cos’è il perfezionismo? Secondo Hewitt, è “un modo di essere nel mondo“. Per fare maggiore chiarezza è meglio partire dalla distinzione tra ciò che si intende parlando di perfezionismo e quello che invece, più comunemente, si intende facendo riferimento allo sforzo impiegato per ottenere determinati risultati: la soddisfazione, il piacere per la ricompensa, l’ottimismo e l’organizzazione caratterizzano il sano impegno che ci porta verso degli obiettivi ambiti; quando invece si ha a che fare con il perfezionismo, prevalgono il focus su ciò che non va, la paura del fallimento e la procrastinazione. Alla base di questa sostanziale differenza, secondo Hewitt, risiede un aspetto nucleare: l’obiettivo del perfezionismo è “perfezionare se stessi, e non le cose o le attività“. Questo implica che ottenere la perfezione risponda in realtà a scopi assai più profondi.

Report dal Workshop di Paul L. Hewitt sul perfezionismo ph 3

Imm. 1 – Immagine dal workshop con Paul L. Hewitt

Il modello del perfezionismo presentato da Paul L. Hewitt ne ipotizza una configurazione multidimensionale, che risulta estremamente utile per poter concettualizzare al meglio il funzionamento di ciascun paziente, combinando varie tipizzazioni e permettendo così di impostare in modo più proficuo il trattamento. Nello specifico, il Comprehensive Model of Perfectionistic Behavior (CMPB; Hewitt, Flett & Mikail, 2017) distingue, all’interno del costrutto del perfezionismo, sia degli specifici tratti che dei processi di natura intra- ed interpersonale.

Report dal Workshop di Paul L. Hewitt sul perfezionismo ph2

Imm. 2 – Paul L. Hewitt illustra le caratteristiche del perfezionismo

Tra le dimensioni di tratto, è possibile distinguere diverse configurazioni:

  • una forma in cui la persona si impone alti standard, pretende da se stessa la perfezione e si valuta in modo critico;
  • uno stile che si caratterizza per la tendenza a pretendere la perfezione dagli altri, valutandoli in modo critico e aspettandosi che si attengano ai propri standard;
  • una modalità in cui è centrale la credenza che gli altri si aspettino la perfezione da noi stessi.

Tra le componenti processuali, di natura inter-personale, è invece possibile distinguere tre diverse modalità di auto-presentazione perfezionistica; secondo il modello di Hewitt e colleghi infatti, vi può essere:

  • la tendenza ad auto-promuovere la propria perfezione offrendo agli altri un’immagine di sé ineccepibile ed unica;
  • la tendenza a nascondere quelle che vengono considerate come proprie imperfezioni, attraverso evitamenti e forme condiscendenza passiva;
  • la tendenza a non rivelare, e dunque omettere, le proprie imperfezioni, come ad esempio i fallimenti.

Report dal Workshop di Paul L. Hewitt sul perfezionismo ph 1

Imm. 3 – Paul L. Hewitt parla di perfezionismo

Sempre di tipo processuale, ma intra-personali, sono infine le componenti cognitive del CMPB, che rappresentano l’espressione interiore del perfezionismo: un insieme di pensieri automatici, ruminazioni, autorecriminazioni e autocensure inerenti il bisogno di essere perfetti.

Origine e coseguenze psicopatologiche del perfezionismo

Attraverso numerosi esempi clinici e video di sedute ed interviste, durante il workshop Paul L. Hewitt ha illustrato come la paura di non essere ‘abbastanza’ possa rendere la vita del perfezionista molto dolorosa. Ma quali possono essere dunque le problematiche, inerenti il perfezionismo, su cui il clinico si trova a dover intervenire? Hewitt nel corso del seminario ha più volte ribadito che il perfezionismo non è di per sé classificato come un disturbo psicologico, ma rappresenta comunque uno dei più rilevanti fattori di vulnerabilità nello sviluppo della personalità, che esita in altre sindromi (come la depressione, i disturbi alimentari, i disturbi d’ansia, i disturbi di personalità), in problematiche relazionali, in disturbi di natura fisica connessi allo stress e in difficoltà inerenti la realizzazione (come la procrastinazione, la paura del fallimento, il burn-out, la sindrome dell’impostore).

All’origine del perfezionismo, secondo Paul L. Hewitt, ci sarebbe un’asincronia nell’attaccamento, una sorta di non sintonizzazione tra bisogni del bambino e risposte dei genitori ad essi, nei confronti della quale il perfezionismo è solo una delle risposte possibili, in quanto stile di personalità che insorge all’interno di un contesto relazionale. Il Perfectionism Social Disconnection Model (PSDM; Hewitt, Flett & Mikail, 2017) illustra infatti in che modo, attraverso le prime interazioni significative, i comportamenti perfezionistici si sviluppino come una modalità orientata a uno scopo preciso: compensare o riparare un sé danneggiato e gestire l’ansia interpersonale e le altre emozioni negative che si creano, in relazione ad esso, all’interno dei contesti interpersonali.

Risultare perfetto sembra permettere (solo ipoteticamente) di sviluppare una migliore relazione con l’altro, ma questa modalità finisce invece per condurre – paradossalmente – alla sensazione di non essere accettati, capiti, di non essere mai abbastanza, e spinge passo dopo passo ad utilizzare sempre di più le strategie perfezionistiche, sviluppando, anche verso se stessi, relazioni problematiche. Nel PSDM, infatti, Hewitt mette a fuoco non solo le considerazioni inerenti lo sviluppo precoce del perfezionismo, ma anche le modalità attraverso cui esso evolve e si mantiene secondo differenti traiettorie evolutive.

Il trattamento del perfezionismo

Nell’ultima parte del seminario, Hewitt ha illustrato alcuni aspetti inerenti il trattamento del perfezionismo. L’approccio utilizzato da Paul L. Hewitt e colleghi è di tipo dinamico-relazionale ed integra al suo interno elementi della psicoterapia dinamica, di quella interpersonale e di quella cognitivo-comportamentale; il modello di trattamento è stato declinato sia per l’intervento individuale che per quello di gruppo. Partendo da un accurato assessment, tramite questionari e attraverso il colloquio clinico, il terapeuta giunge alla formulazione del caso che nel modello viene rappresentata mediante due triangoli: uno rappresenta le modalità attraverso cui il perfezionismo si è sviluppato, e prende in considerazione lo stile di attaccamento ed i bisogni interpersonali, gli affetti negativi, le difese e gli stili di coping (triangle of adaptation); l’altro rappresenta il modo in cui il perfezionismo si è manifestato e si manifesta, nei vari contesti interpersonali compreso il setting terapeutico (triangle of object relations). La terapia ha infatti come focus l’aumento della consapevolezza riguardo alle dinamiche interne e ai modelli interpersonali che danno origine alla convinzione che perfezionare se stessi o gli altri sia essenziale.

Come tutte le moderne psicoterapie rivolte a tratti, dimensioni o fattori di personalità il trattamento non ambisce illusoriamente a stravolgere la personalità stessa. Per chi ha avuto tra i propri pazienti persone con elevati livelli di perfezionismo sa che oltre che controproducente una simile strategia risulterebbe dannosa. L’obiettivo dell’intervento proposto da Hewitt mira infatti a promuovere un processo adattativo basato sulle specificità della persona, cercando di “ridurre e eliminare i meccanismi causali individuati” (Hewitt, Flett & Mikail, 2017, p. 285) all’origine dei sintomi e delle sindromi psicopatologiche che il perfezionismo può generare. E nel far questo possiamo forse ambire ad accettare l’imponderabilità della vita, a prescindere dal tempo e dalle energie dedicate a prepararsi a future invalidazioni. Lo stesso Hewitt, nel ricevere la primissima stampa di un’antologia di studi sul perfezionismo curata per conto dell’American Psychological Association (Flett & Hewitt, 2002), lesse con un certo sgomento: “Pefectionism”… si erano dimenticati una “r” nel titolo!

The maxim ‘nothing prevails but perfection’, may be spelt shorter: paralysis (Sir Winston Churchill)

L’importanza degli aspetti psicologici nella cyber-security

Non sono passati molti anni da quando le fotografie si scattavano solo con una macchina fotografica e dovevano essere stampate per poter essere viste, dai luoghi di vacanza si mandavano cartoline, per passare al casello autostradale ci si doveva fermare e pagare il pedaggio, per prelevare del denaro ci si doveva recare in banca e fare la coda allo sportello.

 

L’elenco dei cambiamenti nelle nostre abitudini introdotti dall’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni è davvero vasto e coinvolge praticamente tutti gli ambiti della nostra vita.

I più giovani riescono a fatica a immaginare come poteva essere un mondo senza le attuali tecnologie e la generazione che ha vissuto, o in alcuni casi subito, il cambiamento non sempre è consapevole di ciò che davvero è avvenuto.

Cyber-security: pc, smartphone e IOT

Se prendiamo ad esempio le fotografie, possiamo notare come sia cambiato radicalmente, oltreché il modo di scattarle, anche il nostro modo di condividerle passando dall’album mostrato agli amici più cari a foto anche molto intime mostrate sui social al mondo intero. Il semplice telepass che ci consente di transitare velocemente al casello autostradale lascia una traccia digitale del nostro passaggio che un tempo non esisteva.

Analogamente è cambiato il nostro rapporto con il denaro. Tra il doversi recare allo sportello per prelevare denaro contante e quindi effettuare gran parte dei pagamenti vis à vis stiamo passando a una modalità di pagamento “dematerializzata” attraverso carte di pagamento o strumenti elettronici. Secondo i dati di una ricerca condotta da Visa (Visa, 2017) l’82% dei millennials italiani (18-34 anni) dichiara di utilizzare lo smartphone per effettuare pagamenti e ben il 96% di loro prevede di farlo entro il 2020.

Non c’è dubbio che, a fronte di notevoli miglioramenti nelle nostre condizioni di vita, il prezzo che stiamo pagando sia quello di concedere ai fornitori dei vari servizi informazioni sulla nostra vita sia che si tratti di immagini, di viaggi, di abitudini e preferenze o delle nostre possibilità di acquisto. Nel prossimo immediato futuro, inoltre, con l’avvento dell’IOT (Internet Of Things) tutto questo riguarderà anche l’utilizzo che facciamo di tutti le apparecchiature presenti nelle nostre case (quanto ci riscaldiamo, cosa mangiamo, quali porte apriamo ecc).

Possiamo quindi affermare che le nostre vite sono, e lo saranno sempre di più a breve, quasi completamente incarnate negli strumenti tecnologici  che ci circondano e che potremmo addirittura definire come parte della nostra “mente estesa” (Clark, 2002). La Stessa Corte Suprema degli Stati Uniti con la sentenza 573 del 25 giugno 2014 ha dichiarato lo smarphone protetto dal quarto emendamento affermando che nemmeno le forze di polizia, senza apposito mandato dell’autorità giudiziaria, possono accedere ai suoi contenuti essendo in grado di contenere informazioni molto personali di carattere politico, sanitario, psicologico, sociale, lavorativo e relazionale.

Una quantità di dati così preziosa attira inevitabilmente l’interesse, oltreché delle aziende che vendono prodotti o servizi online, anche di persone malintenzionate con l’obiettivo di truffarci o utilizzare in modo fraudolento le nostre informazioni.

Cyber security: le truffe online e le possibili conseguenze

Negli ultimi anni il fenomeno delle truffe online o degli attacchi hacker ha coinvolto un numero crescente di aziende e di persone.

Il caso di Cambridge Analytica con i 50 milioni di profili Facebook coinvolti (Franceschini, 2018), il furto di dati di 500 milioni di utenti di Yahoo (Biagio, 2016),  i 117 milioni di mail e password rubati su Linkedin (Ansa.it, 2016) sono solo alcune delle situazioni più eclatanti che hanno riguardato i nostri dati personali.

Le stesse banche stanno subendo costanti attacchi al sistema informatico al punto che secondo il report “Banking & Financial Services Cyber-Security: US Market 2015-2020“ (Homeland Security Market Research, 2016) il mercato relativo alla protezione dei servizi finanziari americani arriverà a toccare la cifra record di 9,5 miliardi di dollari.

Ma non sono solo le aziende ad essere oggetto di attacco per il furto di dati personali.

A chi non è capitato di ricevere una mail o un messaggio di congratulazioni per aver vinto un nuovo Smartphone, o una mail da una banca con l’avviso che il nostro conto è stato bloccato e per sicurezza dobbiamo accedere al sito? Questi sono solo un paio di esempi di tentativi di entrare in possesso dei nostri dati personali e finanziari. Immaginiamo poi la quantità di applicazioni presenti sul nostro telefono e computer e il fatto che molte di esse ci chiedono una password per accedere o segnalano la nostra posizione; se non siamo attenti a utilizzare password diverse per ognuna aumentiamo enormemente il rischio che, nel caso una di queste sia ingannevole, l’accesso a tutte le nostre applicazioni sia potenzialmente in pericolo. Ma dobbiamo comunque essere molto attenti alle applicazioni che scarichiamo; è di pochi mesi fa, ad esempio, la notizia che un’applicazione per il fitness abbia rivelato informazioni potenzialmente sensibili sul personale militare americano e alleato in luoghi “caldi” come Afghanistan, Iraq e Siria (Lanni, 2018).

Appare evidente come queste truffe possano avere gravi conseguenze per l’ignara vittima, per l’azienda per cui lavora o addirittura, per la sicurezza nazionale.

In molti casi i dati vengono rivenduti e quindi utilizzati per l’invio di mail promozionali o ulteriori tentativi di truffa, in altri casi possono essere utilizzati per scoprire segreti o brevetti aziendali, per condizionare le nostre scelte politiche o di acquisto. Essere incauti quando rispondiamo a un messaggio o clicchiamo su un link può avere molte conseguenze: potremmo ad esempio acquistare un prodotto o un servizio che non arriverà mai o che arriverà contraffatto, potremmo ritrovarci con il PC bloccato con una richiesta di riscatto per poterlo sbloccare (ransomware), potremmo sottoscrivere abbonamenti a servizi mai richiesti, oppure potremmo essere ricattati per evitare la divulgazione di immagini personali. Le possibili conseguenze sono davvero tante e arrivano fino al furto dell’ identità digitale che consente al truffatore di compiere numerose operazioni con l’identità altrui come ad esempio comprare auto, sottoscrivere finanziamenti, aprire conti correnti, fino ad aprire vere e proprie aziende.

Cybersecurity: quali sono i meccanismi di queste truffe?

La modalità più frequentemente utilizzata è quella del Phishing o dello Spear Phishing.

Rientrano nella categoria di Phishing tutte quelle mail che riceviamo apparentemente da Istituti di Credito e che ci chiedono di inserire i nostri dati del conto per accedere e risolvere una qualche problematica. “La sua carta è stata bloccata…” “Abbiamo riscontrato movimentazioni sospette sulla sua carta…”. Il link presente nella mail reinvia a un sito simile a quello dell’Istituto e se l’utente inserisce i dati di accesso il gioco è fatto.

Un’altra tipologia di Phishing è rappresentata dalle comunicazioni di vittoria di un qualche premio. Per ricevere il premio dovremo inserire i nostri dati personali e in alcuni casi sono previsti anche piccoli costi di spedizione (anche solo di un euro) che ci costringono a inserire anche i dati della carta di credito.

Mentre il Phishing avviene sostanzialmente attraverso l’invio massivo di mail senza conoscenza particolare del destinatario, nello Spear Phishing c’è un invio mirato a una persona o una azienda di un testo credibile e di solito con un allegato infetto (malware). Nel momento in cui la persona apre l’allegato la sicurezza del sistema informatico è minacciata e potrebbero essere rubate informazioni riservate legate alla persona o all’azienda stessa.

Aprire allegati di mail di cui non conosciamo il mittente è sempre molto pericoloso. Potrebbe infatti trattarsi di un malware che potrebbe inviare informazioni dettagliate su cosa stiamo facendo (testi, password o immagini che visualizziamo a video) a qualcuno a nostra insaputa, attraverso delle backdoor installate furtivamente mentre noi apriamo l’allegato.

Cyber-security: le frodi sentimentali sui social

Oltre al Phishing e allo Spear Phishing ci sono molte altre strategie per ingannarci online, la frode sentimentale è uno di questi. Nella versione di qualche anno fa si trattava di una richiesta di contatto via mail, spesso sgrammaticata, da parte di una sedicente ragazza dell’est e successivamente di denaro per svariate ragioni (perso i documenti, viaggio per incontrarsi, furto subito). La versione più recente passa attraverso i social network o i siti di dating online. Il meccanismo in questo caso parte da un contatto da parte di una ragazza o un ragazzo molto affascinante. Se l’utente risponde al contatto, ci sarà una prima fase di consolidamento della relazione attraverso lo scambio di messaggi finalizzata ad aumentare la fiducia e l’intimità. A questo punto  si possono verificare due situazioni: se il malintenzionato percepisce la vittima come di “buon cuore” potrebbe chiedere un piccolo prestito (analogamente al vecchio schema) o in alternativa potrebbe sedurla e portarla a inviare foto compromettenti con cui potrà in seguito attuare dei ricatti.

Cyber-security: quali aspetti psicologici ci portano a essere tratti in inganno?

Ci sono molti aspetti psicologici che vengono studiati dalla Social Engineering con l’obiettivo di aumentare le probabilità di successo di una truffa online.

Iniziamo con il concetto fondamentale di “disinibizione online” (Suler, 2004). Molte persone navigando in rete si comportano in modo differente da come farebbero nella vita offline di fronte ad altre persone. Si ha la percezione di essere anonimi, invisibili, si può rispondere in modo asincrono ai messaggi, non si vede la reazione emotiva dell’altra persona e non si rischia che l’altra persona veda la propria.

Tutto questo sembra disinibire il nostro comportamento e consentirci di fare cose per le quali vis à vis ci imbarazzeremmo. Ovviamente questo implica una serie di aspetti positivi come la possibilità di condividere sentimenti o situazioni che altrimenti sarebbe difficile condividere, il potersi sentire più autentici, il potersi sperimentare in relazioni online e aspetti negativi come ad esempio quelli legati alla violenza online o al cyberbullismo dove l’aggressività può raggiungere livelli ben più alti che nella vita offline. Essere disinibiti e abbassare quindi i nostri automatismi difensivi, ci potrebbe però anche far sottovalutare situazioni di pericolo o di potenziali truffe.

A tutto questo si aggiunge la mancanza di importantissimi indicatori utilizzati dai nostri sistemi di allarme, come la vista dell’altra persona, l’udito, l’olfatto, il che rende decisamente più difficile smascherare il potenziale inganno. In una interessante ricerca condotta da Jeff Hancock della Stanford University è stato scoperto che la presenza di segnali fisici sulla presenza reale di un’altra persona permette una maggiore attenzione alla propria privacy nelle interazioni online (Hancock, 2017).

Cyber-security: il fattore tempo

Abbiamo già individuato due fattori che aumentano la possibilità di indurci in inganno, la disinibizione online e la mancanza di indicatori fisici dell’altra persona.

C’è un altro aspetto che rende insidiosi questi attacchi: il fattore tempo.

Internet ha nella velocità una componente essenziale e nel futuro tutti ci aspettiamo che la velocità migliori ancora. Ma la velocità che ci consente di fare in pochissimo tempo molte cose ci da anche meno tempo per attivare le aree del cervello che ci consentono un’analisi precisa su cosa stiamo facendo. Un inganno tradizionale richiede oltre alle abilità del truffatore anche molto tempo; un inganno online è basato sull’istante necessario a cliccare su un link o a inserire qualche dato personale cosa che siamo abituati a fare senza pensarci troppo e in pochissimo tempo.

Per la truffa online è quindi fondamentale attivare degli automatismi mentali e fare in modo che l’operazione si concluda prima che le aree del nostro cervello deputate alla valutazione specifica si attivino.

Finora abbiamo considerato aspetti psicologici connessi alle caratteristiche dello strumento e della rete internet.

Cyber-security: fattori di rischio di personalità e interpersonali

Ci sono però altri due elementi da tenere in considerazione: gli aspetti temperamentali personali e quelli interpersonali. Tra gli aspetti temperamentali personali quello dell’impulsività è stato oggetto di numerosi studi (Hadlington, 2017) (Coutlee, Politzer, Hoyle, & Huettel, 2014) (McCoul, 2001) (Zuckerman, 2000).

Dagli studi condotti è emerso che una risposta impulsiva, rapida e senza riflettere sulle possibili conseguenze aumenta le probabilità di comportamenti rischiosi sulla cyber-sicurezza; sembra esserci inoltre una differenza significativa nella capacità di riconoscimento di una mail di phishing tra una persona impulsiva rispetto a una che riesce a controllare meglio il tono emotivo (Welk, Hong, Zielinska, Tembe, Murphy-Hill, & Mayhorn, 2015).

Tra gli aspetti psicologici connessi al nostro modo di stare in relazione con gli altri e alla nostra tendenza ad agire in funzione di mete particolari connesse con le esperienze emotive del momento, faremo riferimento a quelli che Liotti ha definito i Sistemi Motivazionali Interpersonali (Liotti, 2008) .

Possiamo individuare almeno 4 tipologie di phishing basate su schemi motivazionali interpersonali:

  1. Il bisogno di ricevere aiuto
    Quando stiamo male, proviamo disagio o paura cerchiamo l’immediata vicinanza di qualcuno che ci possa aiutare. Un esempio dell’applicazione nel phishing di questo nostro bisogno è evidente in tutte le mail che iniziano con un qualche cosa di allarmante come: “abbiamo notato movimenti sospetti sulla tua carta” “abbiamo bloccato la tua carta di credito” “sei stato scoperto a visitare siti pornografici”. Lo scopo di queste mail è attivare l’emozione della paura e il nostro immediato e automatico bisogno di aiuto. Le persone più sensibili a questo tipo di paura saranno attirate dalla seconda parte della mail che di solito offre una soluzione: “clicca qui” “accedi per verificare” “paga una quota e nessuno saprà nulla”; se il tutto avviene in un tempo rapido che non consente l’attivazione della parte cognitiva è probabile una violazione della sicurezza dei dati personali.
  2. Accudimento
    Siamo esseri sociali e tendiamo a offrire aiuto agli altri in modo evolutivamente vantaggioso. Se vediamo una persona in una condizione di fragilità o in difficoltà sentiamo una spinta ad aiutarla. Si basano su questo nostro bisogno innato ad esempio le mail del tipo “sono una ragazza dell’est ho perso i documenti, puoi mandarmi un po’ di soldi?”. In un interessante esperimento condotto nel campus dell’Università dell’Illinois (Tischer, Durumeric, Bursztein, & Bailey, 2017) sono state abbandonate 297 chiavette usb per verificare quanti studenti avrebbero raccolto e utilizzato la chiavetta, mettendo potenzialmente a rischio la sicurezza, e per quale ragione. I partecipanti hanno aperto uno o più file su ben 135 chiavette e il 68 % di loro ha dichiarato di aver aperto i file alla ricerca di dati del proprietario per poter restituire l’unità mentre il 18% lo avrebbe fatto per curiosità. Sembrerebbe quindi che la motivazione principale, raccontata dai soggetti che hanno preso parte all’esperimento, che ha messo in pericolo la sicurezza del campus, abbia a che vedere con la bontà.
  3. Agonismo
    Siamo istintivamente agonisti e competitivi gli uni con gli altri. Essere i più forti in natura garantisce cibo migliore e il rispetto del gruppo. Se in natura il rango si stabilisce con la lotta fisica per noi si traduce nel desiderio di essere più ricchi, possedere le cose più costose, avere più potere. Si basano su questo nostro bisogno innato le mail del tipo: “sei il fortunato vincitore di..” “c’è una grossa eredità da riscuotere” “prodotto di marca sotto costo”. Anche in questo caso la truffa può avere diversi obiettivi: la conferma dell’indirizzo e-mail, il furto dei dati personali, il furto di dati finanziari, la truffa per contraffazione.
  4. Sesso
    La sessualità è il più grande sistema motivazionale umano. Possiamo essere attivati da fattori fisiologici, da fattori ambientali e dal corteggiamento dell’altro individuo. Si basano su questo nostro bisogno innato le frodi sentimentali del tipo “sono ragazza sola desiderosa…” o gli inviti ricevuti sui social network o app di incontri da profili con potenziali partner molto attraenti e apparentemente disponibili. Come abbiamo visto sopra una delle possibili conseguenze di questo tipo di frode potrebbe anche essere quella del ricatto nel caso in cui ci sia lo scambio di foto o materiale compromettente.

Non tutti siamo sensibili allo stesso modo alle varie situazioni, alcuni saranno più vulnerabili alle richieste di aiuto, altri alla paura, altri all’idea di avere un partner sessuale e altri ancora a ricevere un premio o del denaro. Queste motivazioni interpersonali sono alla base anche delle truffe nel mondo offline ma su internet la disinibizione, la velocità, la possibilità di inviare una serie infinita di messaggi con contenuti diversi aumenta la probabilità di intercettare la vulnerabilità su quel tema di quella specifica persona. Ovviamente il tutto, per raggiungere l’obiettivo, deve avvenire il più rapidamente possibile e senza attivare una valutazione critica cognitiva.

Come intervenire in modo efficace?

Le aziende hanno investito molto in sistemi di sicurezza basati sulla tecnologia e molte persone hanno installato sul proprio pc o smartphone software di protezione.

Tutto questo non sembra essere sufficiente per garantire la sicurezza. In una ricerca condotta dal governo Inglese (UK Department for Digital, Culture, Media & Sport, 2018) emerge come il 43% delle aziende abbia subito un attacco o un security breach negli ultimi 12 mesi nel 75% dei casi attraverso mail fraudolente, nonostante la presenza di sistemi di protezione.

Molte delle violazioni ai sistemi informatici sono da attribuire al fattore umano (Anwar, He, Ash, Yuan, Li, & Xu, 2016). Inoltre, come sottolineato da Wilde, l’affidarsi a sistemi di sicurezza tecnici per ridurre il rischio potrebbe allo stesso tempo generare la sensazione di sicurezza che ci porta a correre maggiormente il rischio stesso (Wilde, 1998).

Nel contesto della cyber security l’affidarsi a infrastrutture informatiche confidando esclusivamente nella presenza di software e sistemi di sicurezza potrebbe farci sentire meno la pericolosità delle nostre azioni e portarci persino a correre rischi maggiori (Hadlington, 2017).

I fattori umani da tenere presenti sono molteplici, la motivazione interpersonale, più o meno consapevole, che ci porta ad agire di fronte a determinati stimoli e situazioni; i tratti personali temperamentali di ansia o impulsività o, come messo in luce da Kimberly Young, la dipendenza dall’uso eccessivo di internet. Sono tutti fattori che vanno considerati come possibili elementi di vulnerabilità personale rispetto alla cyber security.

Diventa così difficile, se non impossibile, pensare a una soluzione efficace valida per tutti i contesti.

Laddove l’intervento punitivo non sembra portare ad un miglioramento del comportamento di sicurezza in un contesto aziendale (Young & Case, 2004) anche il limitarsi a dare informazioni sui rischi e i comportamenti corretti non è sufficiente (Bada, Sass, & Nurse, 2014).

Il tema della cyber security va affrontato con un approccio che tenga conto della sua complessità dove al primo livello risiede la necessità di analizzare le esigenze della specifica realtà aziendale e delle risorse umane.

I fattori umani di vulnerabilità possono essere personali, culturali, ambientali o sociali e non possono essere generalizzati ma vanno indagati nelle situazioni specifiche.

La conoscenza di questi fattori è un presupposto importante per non esserne vittime inconsapevoli e per questo la formazione diventa uno strumento essenziale. Un altro aspetto importante sarebbe la possibilità di identificare quelle persone che, per fattori umani, presentano un rischio più elevato e consentire a loro un percorso specifico finalizzato al cambiamento di atteggiamento e comportamento rispetto al tema della cyber security.

Come si curano paura e pregiudizio

La conflittualità fondata sul pregiudizio e la stereotipizzazione dell’altro del gruppo estraneo è difficilmente affrontabile ed educabile con il semplice contatto o frequentazione tra gruppi, ma occorre che in qualche modo i gruppi conflittuali siano aiutati a collaborare su finalità sovraordinate. Perché un pregiudizio si sgonfi ci vuole molto tempo e soprattutto sono necessari tolleranza e integrazione.

 

Ci sono novità nelle nostre culture che, impensabili e irricevibili solo pochi anni fa, diventano non solo compatibili, ma anche auspicate, nei nostri stili di vita. E questo accade in ogni direzione: civile e costruttiva come incivile e disumanizzante.

Una sequenza di mutamenti socio-culturali è stata formalizzata in quella che viene definita “Finestra di Overton”, dal nome del suo inventore: un’idea, una consuetudine, in partenza socialmente ritenuta inaccettabile, impensabile, nel giro di pochi anni diventa prima un’idea radicale, poi accettabile e sensata, poi diffusa, infine legale e auspicata. Se pensiamo alla direzione civile-costruttiva di questa sequenza, basta guardare al mutato atteggiamento verso diritti sociali e civili che a noi appaiono oggi come scontati e acquisiti come il suffragio universale, il diritto allo studio delle donne, le leggi su divorzio e aborto, le relative giurisdizioni sull’affido condiviso, e così via. Tutte idee assolutamente impensabili e inaccettabili solo pochi anni fa.

Oppure possiamo osservare il cambiamento del clima culturale verso gruppi etnici o religiosi o connotati da orientamento o identità sessuale, e quindi osservare nell’arco di alcuni decenni ridursi i relativi fenomeni di apartheid o sentimenti xenofobi verso comunità straniere e il relativo cambiamento legislativo per la parità di diritti. Oppure verso l’omosessualità o la transessualità e i diritti di queste comunità. C’è dunque da essere orgogliosi se ad esempio oggi, in Italia, un ragazzino gay di 15 anni può essere perfettamente in grado di fare coming out sentendosi più che sereno (come ho potuto personalmente constatare in diverse occasioni).

Se pensiamo invece alla direzione opposta, quella incivile-disumanizzante, degli stessi mutamenti, purtroppo assistiamo nella storia, ma anche oggi, a tendenze regressive di inaudita portata. Basta ricordare il noto fenomeno storico della nazificazione della Germania, dove in capo a soli 10 anni, negli anni ’30, un intero popolo riuscì a disumanizzare vasti gruppi sociali fino alla follia della pulizia etnica. O quanto accaduto in Cambogia, in ancora meno tempo, tra il 1975 e il 1979, con il genocidio di una parte enorme della stessa popolazione cambogiana per ragioni politiche. Se invece vogliamo fare un altro esempio di mutamento di mentalità e opinione più vicino alla nostra epoca, pensiamo allo sdoganamento delle varie nuove dipendenze e ludopatie, socialmente accettate e impensabili solo pochissimi anni fa. Insomma spostare il manubrio della storia da una parte o dall’altra non è un caso, ma una precisa scelta educativa, politica e culturale.

Superare il pregiudizio è possibile!

Vi racconto ora un divertente siparietto che ha a che fare con quanto sto dicendo. Sabato scorso, mi ero dato un improbabile appuntamento con una persona amica durante il 25° Gay Pride. Decine di migliaia di persone festanti, musica, balli, slogan, striscioni, paillettes, colori. Una bellissima festa.

Al margine del corteo, che attraversava il quartiere multietnico dell’Esquilino, molte persone di etnie asiatiche o africane che osservavano interdette, qualcuno riprendeva divertito con il telefonino quel fiume carnevalesco ed eccessivo. Mi sono chiesto chissà come vivono questo shock culturale rispetto alle loro tradizioni. Magari nei loro paesi dichiararsi gay potrebbe essere punito con la galera o addirittura con la pena di morte, ed invece qui da noi tutto appare consentito. Chissà quale potrebbe essere la loro reazione a questo gap apparentemente incolmabile: forse qualcuno penserà che l’occidente è irrimediabilmente corrotto e in preda alle forze del male, forse qualcun altro, magari quelli che tra di loro sorridevano di più, penseranno che tutta questa libertà è un valore aggiunto al quale non rinunciano neanche loro. Chissà poi quale potrebbe essere la scena tra 2-3 generazioni e se anche i loro figli o nipoti un bel giorno potrebbero partecipare al gay pride.

Ma mentre ero assorto in questi pensieri e contemporaneamente scandagliavo nella folla alla ricerca della persona con la quale avevo il mio improbabile appuntamento, mi sento chiamare con tono enfatico: “professore!”. Mi giro e riconosco una persona conosciuta da poco sul lavoro. Lui vestito con coroncina e sciarpa arcobaleno, mi saluta con calore e affetto. Io ricambio il saluto con cordialità, ma con minore entusiasmo.

Immediatamente penso: solo 20 anni fa un fatto del genere mi avrebbe generato un po’ di ansie: partecipare al gay pride non è scelta neutrale ed essere riconosciuti ancor meno! Specie poi se non sei gay. Oggi un episodio del genere mi lascia del tutto indifferente e tollerare l’equivoco e l’eventuale gossip alle mie spalle circa un mio indefinibile orientamento sessuale non solo non mi genera alcuna ansia, ma al contrario mi diverte molto. Come è cambiata in me e nella società la percezione dell’omosessualità e il mio rapporto con essa. E questo anche grazie a manifestazioni come il gay pride. 25 anni di gay pride e 60 anni di movimenti gay sono la vera causa dell’assenza della mia ansia omofoba. Ma vediamo perché.

In psicologia sociale numerosi studi sulla natura del pregiudizio e della discriminazione dimostrano che alcune tendenze elementari a categorizzare l’estraneo della prima infanzia si consolidano in vero e proprio pregiudizio verso gruppi sociali estranei al proprio solo dopo i 10 anni (in Hogg e Vaughan, Psicologia Sociale, 2016, pagg. 215-18 riportano numerose ricerche a riguardo). Come a dire che il ruolo giocato dall’educazione, dalla cultura, dall’esempio familiare e dei propri ambienti più prossimi, e persino dalle proprie fantasie, è decisivo nella creazione del pregiudizio sociale. Ma ciò che la cultura aggroviglia, la cultura può sbrogliare, ma a determinate condizioni.

Infatti, molte ricerche confermano che la conflittualità fondata sul pregiudizio e la stereotipizzazione dell’altro del gruppo estraneo è difficilmente affrontabile ed educabile con il semplice contatto o frequentazione tra gruppi, ma occorre che in qualche modo i gruppi conflittuali siano aiutati a collaborare su finalità sovraordinate (in Hogg e Vaughan, Psicologia Sociale, 2016, pag. 234. In particolare le ricerche di Stephan e Stephan; Pettigrew; Sherif; e lo stesso Gordon Allport). Perché un pregiudizio si sgonfi ci vuole molto tempo e soprattutto ci vogliono perciò alcune precise condizioni di partenza senza le quali ogni tolleranza e integrazione appare impossibile: l’interazione tra gruppi rivali deve essere non casuale, prolungata, cooperativa, finalizzata a scopi comuni, dentro una cornice di senso istituzionalizzata, tra gruppi sociali omogenei, gli obiettivi sovraordinati comuni devono avere successo e non fallire.

In una ricerca del 2005, Gabriele Oettingen e collaboratori (Turning Fantasies About Positive and Negative Futures into Self-Improvement Goals, in Motivation And Emotion 29/4 236-266) dimostra come sia anche possibile modificare le fantasie negative xenofobe sui gruppi di immigrati aumentando tolleranza e integrazione purché ci si ponga obiettivi che siano percepiti come realistici e calibrati. Insomma, il ruolo dell’educazione e dell’ambiente culturale e politico pragmaticamente operativo nelle classi scolastiche, nei condomini, nei comitati di quartiere e in tutti gli spazi pubblici è ritenuto assolutamente centrale nel portare una naturale tendenza a rispondere emotivamente con paure e diffidenze all’estraneo, all’alterità minacciosa, verso una più realistica ed empatica convivenza tra esseri umani.

Mi domando cosa porti nelle nostre culture questa volontà all’integrazione, scientificamente supportata, seppure di difficile realizzazione, a convertirsi nel suo opposto. Chi specula sulle nostre paure e perché? Questa è la vera domanda.

Che cosa comporta crescere in un ambiente ostile o vivere condizioni stressanti e traumatiche in infanzia?

Fare esperienza di un ambiente invalidante, come crescere in condizioni di povertà, vivere episodi traumatici, un brutto incidente o una violenza sessuale, etc. può avere un impatto notevole sia sullo sviluppo del cervello sia sul comportamento del bambino o del giovane adulto.

 

Condizioni socioeconomiche precarie ed esperienze di eventi stressanti o traumatiche fanno parte di un ambiente invalidante. Numerosi studi hanno inoltre dimostrato come questi fattori ambientali siano implicati nello sviluppo di deficit comportamentali, anormalità nello sviluppo del cervello ed infine di una maturità accelerata. Tuttavia, il contributo relativo a questi fattori rimane ancora poco studiato.

Un recente studio, condotto dalla Perelman School of Medicine presso la University of Pennsylvania e il Children’s Hospital of Philadelphia (CHOP) through the Lifespan Brain Institute (LiBI), e pubblicato su JAMA Psychiatry, ha cercato dunque di indagare l’associazione tra un ambiente invalidante, come ad esempio una condizione socioeconomica precaria, eventi stressanti o traumatici, e la psicopatologia, i disturbi neurocognitivi e i parametri del cervello durante la pubertà.

Lo studio

Il lasso temporale, considerato in questa ricerca, è stato quello tra l’infanzia e la prima età adulta. I partecipanti allo studio sono stati reclutati dai registri pediatrici del Children’s Hospital di Philadelphia, avevano un’età compresa tra 8-21 anni, presentavano una salute stabile e un buon livello nella fluidità dell’inglese. Il campione era composto da 9498 partecipanti, di cui 5298 (55.8%) di origine europea, 3124 (32.9%) di origine africana ed infine i restanti 1076 (11.4%) di altra origine; inoltre i partecipanti appartenevano a condizioni socioeconomiche diverse tra di loro.

Si è deciso di selezionare dal campione originale, in maniera casuale, un gruppo (N=1601) che è stato sottoposto al neuroimaging multimodale (MRI). I dati sono stati raccolti da novembre 2009 fino a dicembre 2011, successivamente sono stati analizzati tra febbraio e novembre 2018.

I risultati hanno evidenziato una correlazione significativa tra le condizioni socioeconomiche precarie, le esperienze di eventi stressanti o traumatici e i sintomi psichiatrici, quali ansia, depressione, fobie, comportamenti esternalizzanti e legati a disturbi psicotici. I ricercatori hanno osservato come questa correlazione riguardasse di più la popolazione femminile rispetto a quella maschile.

È emerso anche che le due condizioni fossero legate a deficit cognitivi, quali astrazione, flessibilità mentale, attenzione e working memory.

Grazie alle immagini di neuroimaging, i ricercatori hanno inoltre riscontrato differenze significative nelle regioni limbiche e frontoparietali del cervello.

Infine, si è riscontrato che i bambini che vivevano in povertà o avevano vissuto esperienze traumatiche o stressanti maturavano più precocemente, sia a livello cerebrale che a livello fisico, poiché presentavano caratteristiche appartenenti ad un’età più adulta.

In conclusione

È dunque importante sottolineare come sia necessario identificare il prima possibile e prevenire quelle condizioni ambientali avverse che si associano al neurosviluppo.

Stop hating? Start dating! – Siti di incontri online, aumento dei matrimoni misti e possibili effetti sull’inclusione sociale

Se fino a pochi anni fa iniziare una storia con persone distanti anche migliaia di chilomentri era impensabile, oggi gli incontri online sono il secondo modo più comune per le coppie eterosessuali di incontrarsi. Per le coppie omosessuali, è di gran lunga il più popolare.

 

Il mito della metà di Aristofane che compare nel Simposio di Platone ci spiega da dove muove la nostra ricerca di un altro che ci completi:

Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà…

Fortunatamente oggi ci pensano siti e app come Meetic e Tinder a facilitare la vita di noi poveri esseri umani, imperfetti dopo la vendetta di Zeus.

Se fino a pochi anni fa iniziare una storia con persone distanti anche migliaia di chilomentri era impensabile, oggi gli incontri online sono il secondo modo più comune per le coppie eterosessuali di incontrarsi. Per le coppie omosessuali, è di gran lunga il più popolare.

Dall’apripista Match.com del 1995, fino ai più recenti Tinder e Meetic, il panorama dei siti d’incontro vanta un’ampia scelta. Oggi oltre un terzo dei matrimoni ha inizio con una storia nata online.

Siti di incontri online e cambiamenti sociali

Naturalmente, a livello più individuale, l’utilizzo di questi siti di incontri online ha modificato i comportamenti legati all’approccio con l’altro ed oggi emergono le prime prove a riguardo. Ma a livello sociale, cosa sta cambiando?

Un articolo apparso qualche tempo fa su MIT Technology Review “First Evidence That Online Dating Is Changing the Nature of Society”, che fa riferimento allo studio di Josue Ortega e Philipp Hergovich, ricercatori presso l’Università di Vienna, ce lo spiega.

Per più di 50 anni sono state studiate le reti che collegano le persone tra loro. Tali reti sono fatte di nodi più resistenti (legami forti) tra un gruppo relativamente piccolo di persone più vicine e nodi più deboli che legano tra loro persone più distanti. Questi ultimi hanno un’importante funzione sociale: creano un ponte tra il gruppo di nostri amici più intimi e altri gruppi di persone, permettendo così l’espandersi delle connessioni. In passato sono stati proprio questi legami a giocare un ruolo chiave nel conoscere e incontrare nuovi partner, il famoso “Ho un collega da presentarti” o “Una mia amica vorrebbe conoscerti”..

L’aumentare degli incontri online che ruolo gioca in tutto questo assetto? Le persone che si incontrano su internet sono tra loro completamente estranee e, conoscendosi in questo modo, creano reti e collegamenti sociali prima inesistenti.

Ortega e Hergovich a questo punto si chiedono come ciò impatti anche sulla diversità etnica della società, prendendo come riferimento il numero di matrimoni misti, oggi considerato uno dei maggiori indicatori di contatto/distanza sociale.

I ricercatori hanno così creato un modello per simulare cosa accade quando all’interno delle reti sociali vengono introdotti dei collegamenti extra. Il modello si compone di uomini e donne di etnie diverse distribuiti casualmente, ognuno dei quali intende sposare una persona dell’altro sesso, ma solo se ha con questa una connessione. Questo ovviamente porta a una società con un tasso bassissimo di matrimoni misti.

Ma, se al loro modello, i ricercatori aggiungono collegamenti casuali (come quelli che si creano attraverso i siti di incontri online) tra persone di diversi gruppi etnici, il livello dei matrimoni misti aumenta drasticamente.

Se tali risultati ad una prima lettura possono sembrar scontati, ad una riflessione più profonda ci spingono a chiederci quale sia il ruolo dei siti di incontri online nel favorire l’integrazione tra persone di differente etnia (non è affatto scontato, infatti, che gli individui interessati a fare nuove conoscenze online, inizino una relazione con una persona di etnia diversa).

Il modello suggerisce quindi come l’integrazione tra diverse etnie potrebbe diventare di fatto più realizzabile grazie al diffondersi dei siti di appuntamenti online.

E tale intuizione trova conferma nella realtà: la percentuale di matrimoni misti infatti è aumentata vertiginosamente nel 1995 (poco dopo la creazione di Match.com), negli anni 2000 (anni di diffusione dei siti di incontro) fino a un nuovo picco nel 2014 (poco dopo la nascita di Tinder).

Ovviamente, questi dati non provano che siano i siti di incontri online a causare l’aumento dei matrimoni misti, ma la correlazione statistica ottenuta è altamente significativa.

Che dire? I siti di incontri online dunque non solo sarebbero utili nel recuperare l’altra metà che ci renderebbe perfetti, ma potrebbero dar vita anche a una società multi-etnica, riducendo episodi di discriminazione e intolleranza. Un doppio scacco matto insomma: a Zeus e ai tanti xenofobi che, dividendo il mondo in perfetti e non, si credono ahimé simili a Zeus!

I mondi dei sordi

La sordità è una condizione che può essere un’importante fonte di arricchimento all’interno della nostra società, perché ciò avvenga è però necessario che sia le persone sorde sia le persone udenti stiano attenti ad evitare l’isolamento così che entrambe le culture possano favorirsi a vicenda e costituire una risorsa reciproca per tutti i loro componenti.

Debora Mauri

 

La perdita dell’udito colpisce più del 5% della popolazione mondiale (Oms, 2007). Nella nostra società, si guarda alla sordità in modi molto diversi. In alcune realtà geografiche, come ad esempio Martha’s Vineyard, Fremont e Rochester (USA), dove la popolazione sorda supera numericamente quella udente, la sordità non è vista come una patologia e la comunità è organizzata in relazione alle
determinate necessità delle persone sorde, che sono perfettamente integrate nel contesto e occupano importanti cariche sociali. In altre realtà, inclusa l’Italia, invece, la sordità diventa un handicap, nel senso che porta a serie limitazioni della vita sociale e relazionale, e l’approccio a tale condizione è principalmente sanitario, sebbene nel tempo si stia passando progressivamente verso una prospettiva di tipo educativo e pedagogico (Bacchini & Valerio, 2000; Maragna, 2008).

La sordità: un “handicap nascosto”

La sordità è un “handicap nascosto” perché non immediatamente visibile alla nascita, spesso scoperto tardivamente, nascosto dalla famiglia che deve accettare la diversità del figlio, spesso nascosto dalle stesse persone sorde divise fra la costruzione di una propria identità e l’adesione a modelli udenti, nascosto perché sconosciuto in tutte le sue implicazioni socio-psicologiche (Fabbretti, 2006).

Sono le implicazioni socio-culturali e psicologiche del deficit uditivo a fare della sordità un handicap: la percezione della sordità si realizza sempre in contrapposizione ad un modello udente dominante (Zuccalà, 1997).

È utile distinguere tra deficit ed handicap, laddove il primo implica la diminuzione di una prestazione (Mottez, 1979), mentre l’handicap rappresenta l’insieme dei limiti che la persona sorda incontra nella vita sociale, scolastica e lavorativa. Lo ribadiamo ancora una volta, sono le implicazioni socio-culturali e psicologiche del deficit uditivo a fare della sordità un handicap (Zuccalà, 1997). Nella realtà quotidiana le persone sorde vivono, a causa del loro deficit e della scarsa sensibilità alle loro esigenze, in una condizione di isolamento culturale. Nel nostro paese è comune la scarsa attenzione alle esigenze comunicative e conoscitive delle persone sorde: per esempio, è solo dal 1994 che gli studenti universitari sordi possono usufruire di servizi speciali per le proiezioni cinematografiche con sottotitoli (Zaghetto, 2012).

Oltre la disabilità, la sordità come tratto distintivo di una comunità

Quando si parla di sordità è opportuno conoscere e tenere conto diversi fattori (Schick, 2006). Gli individui con deficit uditivo rappresentano un gruppo eterogeneo, le cui differenze dipendono dal grado e tipo del deficit, dal momento dell’insorgenza, dalla personalità e temperamento dell’individuo, dalla storia famigliare e dal percorso riabilitativo scelto dai genitori (Rinaldi et al., 2015). Ciò che accomuna questi individui è l’assenza dell’udito, che porta a un sviluppo atipico del linguaggio. Ed è qui che le strade dei sordi prelinguali si dividono e imboccano due percorsi diversi poiché, come sottolinea Enrico Dolza nell’articolo Sordità: disabilità o identità” pubblicato sulla rivista Effeta del 2017 (Dolza, 2017), seguono due opposte visioni della sordità.

In un caso, la sordità è percepita come disabilità, quindi il focus è sul deficit dell’apparato uditivo, su cui bisogna intervenire con la riabilitazione, in modo da normalizzare il linguaggio e, quando possibile, con protesi, ausili e impianti, anche l’udito. Questa realtà rappresenta la visione della sordità dominante nella nostra società attuale, in cui è percepita, definita e trattata come una delle varie forme di disabilità (Dolza, 2017). È anche l’approccio più diffuso quantitativamente, poiché è la strada naturale che intraprendono i genitori udenti di bambini sordi, che sono la maggioranza, probabilmente oltre il 95% dei nati (Mitchell & Karchmer, 2004). Questo primo gruppo utilizza per definirsi molto spesso il termine “audioleso“, talvolta “non udente” o sordo con “s” minuscola.

Nel secondo caso, invece, il focus è sull’uso di una lingua alternativa, la Lingua dei Segni. La sordità tende a non essere più percepita come una disabilità, perde la sua accezione negativa e si definisce come un tratto distintivo di una comunità che deve essere riconosciuta e accettata come un esempio della grande variabilità presente negli esseri umani. In questa visione di sordità, l’attenzione è rivolta alla rivendicazione e difesa della propria specificità linguistica e identità culturale, che va protetta e preservata in quanto ricchezza dell’umanità. I sordi di questo gruppo chiedono di essere identificati con la parola sordo con la “S” maiuscola, proprio ad indicare la loro appartenenza ad un popolo, ad un gruppo linguistico minoritario (Dolza, 2017). Il senso forte di appartenenza alla comunità sorda è manifestato in modi diversi dai vari gruppi di sordi nel mondo; in Italia si è tenuta a Torino nel 2009 la Giornata Mondiale dei Sordi durante la quale due artiste sorde (Lucia Daniele e Laura Di Gioia) hanno “cantato” l’Inno alla Sordità che esprime l’essenza dell’essere sordi (in Italia):

Se i segni vivono/i Sordi sono felici./Se spieghi con i segni,/i Sordi capiscono./Se i segni aumentano,/i Sordi comunicano./Se i segni sussistono,/i Sordi esistono,/Se i segni ci sono,/i Sordi sono liberi/Se i segni si tramandano, i Sordi continuano ad esistere!

I sordi sono orgogliosi di esserlo. È questo che più colpisce. I sordi sono orgogliosi di appartenere ad una comunità. Infatti, il sordo non si percepisce come appartenente a un gruppo di disabili, ma ad un gruppo etnico (Lane, 2005) perché possiede un nome collettivo (il nome-segno, conosciuto nella comunità e che richiama caratteristiche fisiche, mentali, o di personalità dell’individuo sordo, e che può anche mutare nel tempo); ha un’eticità diversa da quella della comunità udente; i sordi hanno una cultura propria (la cultura sorda); possiedono propri costumi intesi anche nel modo di esprimersi caratteristici del mondo sordo; possiedono una loro struttura sociale (i sordi possono arrivare a ricoprire cariche importanti e riconosciute dagli altri membri della propria comunità sorda); hanno una propria lingua, creano e realizzano manifestazioni artistiche caratteristiche del gruppo (Poesia in lingua dei segni, narrazioni in Visual Vernacular, performance teatrali); possiedono una loro storia e una parentela/discendenza (Luberto, 1997; Zaghetto, 2012).

Tuttavia, questa autoaffermazione e difesa della propria sordità non sempre è compresa e conosciuta al mondo degli udenti. Infatti, come afferma Anna Folchi, ricercatrice sorda, i sordi sono una “minoranza organizzata”, con una propria lingua, propria tradizione e usi, ma, come troppo spesso accade a chi è bollato come “minoranza”, tutto ciò rimane un mondo sconosciuto agli “altri”, alla maggioranza (Folchi & Rossetti, 2007; Zaghetto, 2012). Ciò che ne consegue è una sorta di scissione tra i “due mondi”, quello dei sordi (orgogliosi di esserlo) che chiedono uguali diritti, e quello degli udenti che vedono i sordi solo come portatori di un handicap, persone da aiutare per eliminare il deficit uditivo.

Come avvicinare questi “due mondi”?

Un tentativo di avvicinamento tra i “due mondi” è rappresentato dal movimento di Sara Giada Gerini, “Facciamoci Sentire”. L’obiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della sordità e richiede i sottotitoli ovunque.

Sara è una ragazza sorda oralista che vuole far passare un messaggio preciso: la sordità non rappresenta un gruppo di disabili, ma un insieme di persone accomunate solo da un deficit sensoriale. Oltre a quello, sono tutti diversi, sono tutti dotati di una storia, di un’individualità, di una personalità e hanno vite diverse. Sara rappresenta un simbolo di orgoglio sordo, che desidera affermare la sua identità e i suoi diritti, sottolineando “le sfumature dei sordi.

Durante le mie ricerche ho scoperto e compreso che i sordi non sono tutti uguali: all’interno di questo mondo esiste grande eterogeneità: c’è chi difende l’uso della Lingua dei Segni e chi, invece, la rifiuta, optando per l’impianto cocleare. A questo proposito, non si dovrebbe parlare di “mondo” dei sordi, quanto piuttosto di “mondi dei sordi”. L’impianto cocleare è un argomento che divide: c’è chi è favorevole e lo ritiene “la soluzione”, e chi invece lo rifiuta a priori. Entrambe le posizioni sono estreme, dunque non funzionali al reale benessere della persona sorda. Infatti, se da una parte si cercasse di valutarne i possibili benefici e dall’altra si ammettessero le limitazioni, senza farla passare come l’unica soluzione, forse si potrebbe diminuire la distanza tra le due posizioni opposte e tutti ne potrebbero beneficiare.

L’obiettivo di chi cerca di “curare” il deficit con ausili tecnologici è quello di far integrare il sordo nella società, tuttavia ciò nasconde il tentativo di omologarlo alla cultura di riferimento. In altri termini, invece di valorizzare e prendere atto dell’esistenza di una cultura con tradizioni e storie proprie, rifiuta la diversità altrui. La reazione del sordo è, dunque, quella di allontanamento e chiusura, che si configura come un meccanismo di difesa per preservare la sua identità. Ne consegue una chiusura da entrambe le parti che può ostacolare la reale integrazione dell’individuo nella società. È quindi necessario che entrambi i gruppi siano aperti per evitare l’isolamento, poiché entrambe le culture possono favorirsi a vicenda e dovrebbero rappresentare una risorsa e un arricchimento per tutti i componenti.

L’età dello smarrimento. Senso e malinconia (2018) di Cristopher Bollas – Recensione del libro

L’età dello smarrimento. Senso e malinconia di Cristopher Bollas, psicoanalista della British Psychoanalytical Society, è un interessante contributo in cui la disciplina psicoanalitica s’interroga sulla situazione di crisi in Occidente e segnala una possibilità per invertire quello che sembrerebbe il suo inarrestabile decorso.

 

Sin dalle prime pagine, infatti, si coglie, forte e chiara, l’intenzione dell’autore di denunciare lo stato di disinteresse, o d’interesse mal riposto – nell’analisi dei fatti che riguardano il singolo e la collettività – sulla materia incandescente degli stati d’animo degli ultimi due secoli.

Bollas fa notare come:

Gli esperti del nostro tempo sembrerebbero – in modo opposto alla pioneristica attitudine di William Bradford a incuriosirsi verso il mondo interno – scarsamente stimolati dalla sua esplorazione, e quindi responsabili di perdersi la trasformazione del pensiero e del comportamento di una società, come il risultato di modi di sentire che perdurano nel tempo, fino a evolversi in assiomi inconsci.

L’età dello smarrimento: la rivoluzione industriale

Per renderci osservatori, a nostra volta, di ciò che ha condotto l’uomo ad una perdita di valori senza precedenti, fa partire la sua analisi dallo stato della mente maniaco-depressivo, seguito alle trasformazioni industriali e tecnologiche del XXVIII secolo. In quegli anni, in tutta l’Europa, poi anche in America, si respirò una ventata d’incredibile ottimismo che coinvolse tutte le discipline, l’economia, la politica, la società intera. Sull’onda di un’intensa euforia, si costruì quel “senso di grandiosità” che ci sarebbe costato caro.

Di fatto, una profonda rabbia seguì alle idealizzazioni distrutte dalla guerra, facendo vacillare il carico di fiducia sin lì costruito. Se quest’ultimo resse il colpo, in realtà, fu grazie all’intervento di uno stato mentale in grado di allontanare tutto ciò che diventava indesiderato. Più precisamente, la sua funzione fu quella di “sistemare” le parti depressive portate alla luce dalla guerra, proiettandole sull’altro; il costo richiesto si rivelò molto alto: l’altro doveva essere distrutto e il circolo instauratosi doveva proseguire. Crebbe, così, un vuoto di valori che fu compensato dalla ricerca di produttività.

In un tale clima, di profonde e radicali trasformazioni, una nuova forma di sé fece la sua comparsa. La sua parte positiva, le consentì di idealizzare il mondo, mentre quella negativa, di fare l’opposto, e non sussistendo nessuna possibilità di comunicazione tra queste due parti, si rivelò altamente funzionale per il periodo post-bellico, soprattutto in America.

Tuttavia, per l’uomo questa modalità divenne sempre più debilitante, e sotto l’effetto di un trauma cumulativo, come fa notare più avanti Bollas (2008)

La ricerca di un’esistenza quotidiana più sicura, meno inquietante, aveva spinto le persone a prendere le distanze dalla soggettività, ad abbandonare la propria mente (p.96).

L’età dello smarrimento: la reazione alle guerre

Di fronte al dolore, l’uomo del dopoguerra, riconobbe il sollievo che poteva ottenere allontanandosene. Fu proprio lo stabilizzarsi di questa soluzione a produrre un’anomala normalità che spazzò via l’orrore delle guerre e consentì il diffondersi di un preoccupante interesse nei confronti della vita materiale e un ritiro marcato dal mondo reale.

Questa mentalità, che Bollas chiama “normopatica”, riprendendo il termine da Joyce Mcdougall, intorno agli anni settanta si manifestò in netto aumento, soprattutto in America. Questi sé normopatici si organizzarono perfino in comunità e alcuni di loro, proprio perché isolati dal contatto con il mondo esterno, pur disponendo di tutte le risorse per poter condurre un’esistenza agiata, iniziarono a manifestare condizioni di sofferenza fino a un forte impoverimento dell’io; una vera e propria “sindrome da compound” che alimentava l’isolamento.

Questo preludio ci sollecita a cogliere la scomparsa del rapporto tra l’uomo e il mondo reale, e dunque tra il sé e l’altro da sé, che l’avvento della globalizzazione non poteva che acuire.

Non sorprende, infatti, come nel suo ambiente virtuale ovattato, quello globale appunto, in cui la velocità diventa assai più importante della riflessione, siano gli stessi sé, come i dispositivi cui ricorrono, a divenire trasmissivi, in altre parole smart, ripetitivi, superficiali.

Si diffondono così nuove forme di pensiero come “l’operazionismo”, “l’orizzontalismo”, “l’omogeneizzazione”, “il pensiero rifrattivo”, proprio per compensare il senso di smarrimento emergente.

L’età dello smarrimento: la gestione della complessità

Di fronte a una complessità che viene percepita però sempre più soverchiante, il ritiro paranoide si afferma come la soluzione migliore, veloce e unificante, capace di offrire una spiegazione semplice; una manovra evacuativa convincente e facile da applicare.

Se pensare a qualcosa faceva stare meglio, quella cosa doveva essere giusta; se qualche idea faceva stare peggio, sicuramente si trattava di un’idea cattiva, che andava eliminata (Bollas, 2018, p.146).

Percorrendo, dunque, i quindici capitoli del testo, l’analisi di Bollas sembra condurci a riconoscere che se ci troviamo di fronte ad un forte impoverimento del processo democratico, al deragliamento della politica verso posizioni estreme e reciprocamente accusatorie, alla perdita di umanità, a vantaggio della velocità e della semplicità, tutto questo va letto seguendone l’evoluzione nel corso delle generazioni. Non solo, e mi piace sottolineare questo aspetto, va letto riconoscendo la responsabilità di ciascuno in quella che sembrerebbe una navigazione inconsapevole in acque soggette a correnti sempre più imprevedibili.

Saltando dal micro al macro, dal singolo ai gruppi e viceversa, e proponendosi con un’ottica interdisciplinare, l’autore stimola il lettore a cogliere, confrontare, esplorare le possibili relazioni tra la vita mentale e la società, che rimangono il più delle volte inesplorate, sconosciute, o probabilmente taciute.

L’età dello smarrimento: serve ricostruire un senso

Se la vita mentale ha perso la capacità di integrare idee contrastanti, di comprenderne il senso, di riconoscerne il valore, è fondamentale assumersi la responsabilità di risvegliare un’attività di pensiero che sia capace di costruire nuovi significati e di interrompere questo “soggetticidio collettivo”.

In contrasto con quel trend autodistruttivo che rifiuta l’insight, Bollas evidenzia il valore della sua disciplina, suggerendone un’applicabilità che appare ancora impensabile, ma che è possibile e quanto mai necessaria. La finestra aperta sulla stanza d’analisi, rappresenta la possibilità offerta al lettore di comprendere in che modo sia possibile riconoscersi soggetti, restituire valore alla vita mentale, al linguaggio, alle emozioni, a quelle capacità riflessive che sono state deprivate e trasformate.

Per concludere, è nell’assistere all’incontro tra paziente e analista e al costituirsi della loro relazione che il lettore si avvicina con più consapevolezza al senso di quella che Bollas chiama coscienza dinamica,

[…] che valorizza, riceve e utilizza il pensiero inconscio con abilità creativa (Bollas, 2008, p.135).

È in questa intersoggettività che si respira un richiamo alla vitalità, all’umanità, che sembra, ma è qui che è richiesto tutto il nostro impegno affinché non lo diventi, come in Meursault, irrimediabilmente perduta.

Piacere femminile: un nuovo studio indaga come l’aderenza a degli imperativi fallocentrici possa influire sulla soddisfazione sessuale delle donne

Nella moderna concezione del benessere sessuale, si presume non solo l’assenza di disturbi organici che impediscano l’esperienza erotica, ma la possibilità per l’individuo di vivere la propria sessualità in assenza di coercizioni, discriminazioni e violenza (Who, 2006).

 

Sarebbe tuttavia semplicistico pensare che questi possano essere gli unici fattori a concorrere nel raggiungimento di una completa soddisfazione sessuale; un esempio di ciò sembra emergere dal crescente corpo di ricerche sull’attitudine al piacere nella specie umana, ed in particolare nella cultura occidentale, che sembra delineare una netta disparità tra l’esperienza erotica vissuta dagli uomini e quella riportata dalle donne.

Soddisfazione sessuale: gli studi sul piacere femminile

In termini di orgasmi raggiunti, gli uomini riportano un tasso nettamente superiore rispetto a quello delle donne, e nel 94,1% delle esperienze sessuali il rapporto aveva incluso una penetrazione vaginale (McClelland,2011; Richters, deVisser, Rissel, & Smith, 2006). Inoltre, le donne eterosessuali riportano una frequenza di orgasmo inferiore rispetto ai dati provenienti dalla popolazione delle donne che fanno sesso con le donne (Breyer, Smith, Eisenberg, Ando, Rowen & Shindel, 2010; Garcia, Lloyd, Wallen & Fisher, 2014). Sebbene l’esperienza dell’orgasmo non sia sinonimo di soddisfazione sessuale, le due cose risultano essere strettamente collegate, motivo per cui tale indice è ritenuto una misura concreta del successo di un incontro sessuale, così come la sua assenza può divenire motivo di ansie e preoccupazioni personali e di coppia.

La recente ricerca di Willis, Jozkowsky, Lo & Sanders (2018) parte dall’idea che gli script a cui i rapporti sessuali spesso si attengono, possano largamente influenzare questo aspetto della soddisfazione delle donne: gli autori hanno ipotizzato in particolare che vi possano essere due cosiddetti imperativi fallocentrici, quello dell’imperativo al coito e quello dell’orgasmo maschile, che creerebbero un focus maggiore sulla soddisfazione maschile rispetto a quella femminile; conversamente gli autori prevedono che la capacità di mantenere il focus attentivo sul proprio orgasmo, così come ricorrere ad una variabilità maggiore nei comportamenti sessuali, possano essere i mediatori che rendono conto delle differenze riportate in letteratura.

L’imperativo al coito si traduce nella preferenza riservata nei rapporti uomo/donna alla penetrazione vaginale (Braun, Gavey & McPhillips, 2003; Peterson & Muehlenhard, 2007), sebbene solo il 46% delle donne abbia riportato di raggiungere l’orgasmo in questo modo (Richters, deVisser, Rissel & Smith, 2006) ed al contempo una maggior varietà del repertorio della coppia, sia stata provata significativamente correlata ad un maggior numero di orgasmi; ancora una volta, le donne che hanno rapporti con le donne, si trovano a preferire questa modalità, essendo libere dall’imperativo al coito caldeggiata dalla controparte maschile. L’imperativo dell’orgasmo maschile si riflette nei dati riportati dalla letteratura, per cui nella maggioranza dei rapporti è l’orgasmo maschile che decreta la fine di un rapporto (Braun et al., 2003; Opperman, Braun, Clarke, & Rogers, 2014) e più sorprendentemente, è sempre l’orgasmo maschile che predice la soddisfazione sessuale per entrambi i partner, anche a discapito del climax raggiunto o meno dalla donna (McClelland, 2011).

Soddisfazione sessuale: la differenza tra rapporti omosessuali e rapporti eterosessuali

Nello studio di Willis et Al. (2018) è stato selezionato un campione di 2296 donne, originariamente reclutate tramite una survey online condotta dal Kinsey Institute for Reaserch on Sex, Gender and Reproduction, 1998 delle quali appartenevano alla popolazione normativa (Donne che fanno Sesso con Uomini, d’ora in avanti chiamate DSU) e 308 delle quali riportavano un partner principale di sesso femminile (Donne che fanno Sesso con Donne, o DSD). Per ottenere un indice del funzionamento sessuale delle partecipanti, è stato somministrato l’Interviewer Ratings for Sexual Function (Bancroft, Loftus & Long, 2003), composto di 66 items atti a comprendere la natura fattuale ed emozionale degli incontri sessuali intercorsi nelle 4 settimane precedenti. A conferma dei risultati anticipati dalla letteratura, le DSD riportavano di aver avuto rapporti culminati in un orgasmo più spesso delle DSU (Incidence Ratio Rate: 1,23), tuttavia controllando l’influenza delle variabili orientamento al proprio orgasmo e varietà delle attività sessuali intraprese, il divario tra i due gruppi diminuiva, ad indicare che le donne che rimanevano concentrate sul proprio piacere e sperimentavano nella coppia un repertorio erotico più diversificato riportavano più orgasmi a prescindere dal genere sessuale del proprio partner (sebbene le DSD rimangano favorite in questo).

I risultati della letteratura circa l’atteggiamento verso l’autoerotismo contribuiscono a chiarire come sia possibile che le donne stesse possano talvolta contribuire alla negligenza verso la propria soddisfazione sessuale: le donne impegnate in una relazione eterosessuale hanno riportato in uno studio qualitativo che la masturbazione fosse un’attività che minacciasse l’ego del proprio partner, che andasse praticata a beneficio del partner, che dovesse essere praticata solo dagli uomini (Fahs & Frank, 2014); in secondo luogo, sembra che la maggioranza delle donne siano convinte che la masturbazione femminile debba necessariamente includere l’autopenetrazione e considera sé stessa “strana” per preferire la stimolazione clitoridea (Fahs & Frank, 2014). In tal senso, sembra che anche gli atteggiamenti delle DSU nei confronti dell’attività masturbatoria porti i segni di un’interiorizzazione degli imperativi fallocentrici già esaminati in precedenza.

Soddisfazione sessuale femminile: sembra condizionata da quella maschile

Con le dovute limitazioni, appare chiaro dai risultati di questo studio come il condizionamento operato implicitamente dagli script incentrati sugli imperativi fallici rischi di precludere alle donne il piacere di un’appagante esperienza sessuale, non soltanto in un contesto di coppia, ma anche nella propria intimità. Le implicazioni di questo studio sono evidenti: tutte le donne, ed in particolare le DSU (Donne che fanno Sesso con Uomini), possono beneficiare da un repertorio erotico più diversificato, da un maggior orientamento verso il proprio appagamento ed in generale, dal distanziarsi dagli script che favoriscono unilateralmente il soddisfacimento del partner a proprio discapito.

Mi ancoro, dunque mi oriento

Uno degli ambiti in cui è coinvolto uno psicologo delle risorse umane è l’ orientamento professionale. Si tratta di una fase estremamente delicata che coinvolge sia il lavoratore, che ha perso la sua “bussola”, sia lo psicologo che deve essere bravo nel non sostituirsi alla risorsa umana, la quale deve prendere decisioni, ma svolgere una funzione di facilitatore del processo.

 

L’ orientamento professionale è, infatti, il processo di educazione ed evoluzione della competenza di scelta e progettazione del Sé professionale, degli sviluppi futuri e di una maggiore conoscenza di sé (Sarchielli, 2003). Il termine “orientare”, infatti, deriva dal latino ‘oriens’ che significa ‘rinato’. Ma cosa rinasce con un processo di orientamento? Rinasce la comprensione che l’essere umano, in quanto lavoratore, ha dell’Io professionale.

Orientamento professionale: il contributo di Edgar Schein

Invero, un processo di orientamento che si pone l’obiettivo di aumentare la conoscenza dell’identità professionale, non può non tener conto di quel costrutto che Edgar Schein (1990; 1993; 2006; 2013) ha definito “àncore di carriera”. Le àncore di carriera sono l’insieme di valori, motivazioni profonde, competenze e relative scelte di carriera. Si tratta di una immagine che si sviluppa e, come una nave getta l’àncora in un porto sicuro, così la nostra àncora di carriera ci aiuta nel compiere scelte in base al nostro interesse. L’ àncora di carriera è, perciò, quell’elemento del proprio sé professionale che non è possibile mettere in discussione e che orienta le scelte che la persona fa nel proprio percorso di carriera.

In base alla definizione di tale costrutto, gli studi sulle àncore di carriera hanno permesso di creare una tassonomia di, inizialmente, cinque àncore, che sono:

  • l’àncora tecnico-funzionale, consente di essere molto propensi all’apprendimento e all’acquisizione di competenze, al fine di svolgere ed essere motivati da lavori sfidanti;
  • l’àncora manageriale, tipica di coloro che sono predisposti a ricoprire mansioni con responsabilità e potere decisionale;
  • l’àncora della creatività imprenditoriale, tipica di coloro che si impegnano in mansioni creative e con alto livello di inventiva;
  • l’àncora della sicurezza, tipica di coloro che, nel lavoro, ricercano stabilità permanente e mansioni ben definite e organizzate;
  • l’àncora dell’autonomia, tipica di coloro che amano dimostrare di essere competenti a modo proprio, al proprio ritmo e con propri standard di riferimento.

Orientamento professionale: le àncore per la propria carriera

A queste cinque àncore, ne sono state aggiunte altre, ovvero:

  • l’àncora dello stile di vita, tipica di coloro che hanno necessità di coordinare gli orari lavorativi agli impegni familiari;
  • l’àncora di sfida pura, tipiche di coloro che cercano autonomia lavorativa al fine di perseguire valori personali;
  • l’àncora di servizio/dedizione alla causa, tipica di coloro che traggono motivazione e soddisfazione professionale nel risolvere problemi complessi o superare ostacoli.

In un clima di flessibilità lavorativa, precariato e incertezze, conoscere la propria àncora di carriera vuol dire, da un lato comprendersi come un “Io che lavora”, dall’altro significa essere in possesso di un potente strumento di orientamento che consente di non dedicarsi ad una occupazione qualunque.

I Legami e il dono – Il care giver materno

Freud, in Al di là del principio di piacere, attraverso il concetto di “coazione a ripetere” afferma che gli adulti ricreano nei rapporti interpersonali della propria vita le esperienze di relazioni della prima infanzia. Ciò implica l’esistenza negli individui della capacità d’interiorizzazione e perpetuare modelli di relazione.

 

Freud e il dono della madre

Le relazioni riguardanti la prima infanzia per Freud riguardano, seppure nelle varie fasi dello sviluppo, il soddisfacimento dei bisogni fisiologici. Il neonato vive in uno stato di “narcisismo primario” e sperimenta l’angoscia riguardo al bisogno di nutrimento. La madre che per il tramite del seno fornisce il cibo diventa oggetto di amore per la sua capacità di attenuare, con la sua presenza e disponibilità, l’angoscia.

Infatti, il dono per Freud è la presenza della madre che tramite il cibo soddisfa i bisogni del bambino. Da ciò si deduce che l’assenza di dono ovvero una madre che non soddisfa questi bisogni primari non stabilisce un legame rassicurante per il bambino.

In seguito Freud nel saggio Inibizione, sintomo e angoscia introduce il concetto di segnale di angoscia in cui il bambino si sente rassicurato dalla presenza della madre e sviluppa l’angoscia in caso di separazione o di assenza. In questo caso il dono per il bambino è la presenza della madre.

Harlow: attaccamento genera attaccamento

Harlow, in seguito, nei suoi studi sull’attaccamento, dimostrò che le scimmie rheus preferivano la mamma surrogata di peluche piuttosto che quella con il biberon ma solo di filo metallico. Ciò permise ai coniugi Harlow di dimostrare che i piccoli macao si sentivano protetti dalla presenza della madre, anche se surrogata da un peluche, piuttosto che dal soddisfacimento dei bisogni fisiologici.

Harlow con i suoi esperimenti andò oltre tenendo i piccoli macao in piccole gabbie in assoluto isolamento ma con grande disponibilità di acqua e cibo. Dopo un po’ di tempo i piccoli cominciarono a mostrare una serie di alterazioni comportamentali. Addirittura quelli che rimasero rinchiusi all’incirca un anno mostravano un comportamento catatonico, non manifestando nessun interesse per l’ambiente esterno. Le scimmie una volta raggiunta l’età adulta non riuscivano a relazionarsi in modo corretto non cercando e trovando un partner, non mostrando nessuna necessità di avere figli. Alcuni macachi, inoltre, si lasciavano morire smettendo di mangiare e bere. Le femmine non mostravano nessun interesse ad avere figli, Harlow li fece fecondare contro la loro volontà. I risultati furono terribili poiché non si curavano per niente dei figli, non gli davano da mangiare e addirittura arrivavano a mutilare i loro piccoli.

Gli studi di Harlow sembrano indicarci, da un lato, che la presenza della madre e il dono dell’affetto fanno nascere un debito positivo che genera nei figli il bisogno successivo alla cura, mentre l’assenza della madre non genera legame poiché crea un debito negativo che tende a mantenersi. La mamma è fonte di affetto e di sicurezza se dona la sua presenza al figlio. Inoltre, Harlow tende ad accennare a un concetto generativo dell’attaccamento per cui attaccamento genera attaccamento.

Melanie Klein e le relazioni oggettuali

Gli studi di Harlow nascono nell’ambito delle teorizzazioni sull’attaccamento infantile dovute agli studi di M. Klein che apporta alle teorie freudiane alcuni elementi di novità dovuti in particolar modo al suo lavoro con i bambini. Fermo restando il soddisfacimento dei bisogni fisiologici, introduce anche il concetto di relazioni oggettuali. Secondo questo modello il bambino non interiorizza più un oggetto o una persona ma l’intera situazione relazionale caratterizzata da un vissuto emotivo, un modo di sentire se stessi e un modo di sentire l’altro. Le interiorizzazioni possono essere connotate positivamente e, quindi, costituire un oggetto buono o, al contrario, negativamente e costituire un oggetto cattivo. La novità della teoria della Klein è costituita, inoltre, dalle influenze che il mondo interno del bambino ha sulla relazione. La nostra autrice ipotizza l’esistenza di un istinto di morte. E’ la presenza di questo istinto che fa si che la prima relazione con la madre è pervasa dall’invidia primitiva, da fantasie sadiche, da meccanismi di proiezione che possono provocare delle distorsioni percettive. L’istinto di morte è preesistente rispetto alla relazione oggettuale ed ha una forte influenza su quest’ultima. Ciò che s’inizia a ipotizzare con le teorie Kleiniane è il ruolo del sedimento culturale presente all’interno dell’inconscio che è sì la sede delle pulsioni ma anche di una trasmissione filogenetica che viene da lontano.

In sostanza con gli studi della Klein, prima, e di Bolbwy, Harlow, Winnicott, Bion, Stern e altri si passa da una concezione, tipicamente freudiana, di relazione madre-figlio totalmente simbiotica che può essere rotta solo dall’intervento del terzo (fase edipica), a una relazione diadica o oggettuale in cui i due attori – madre e figlio – interagiscono tra di loro essendo dotato il neonato da un patrimonio genetico efficace sin dalla nascita a promuovere vicinanza e contatto con la madre. La differenza non è di poco conto poiché il nucleo delle disfunzioni successive in Freud va ricercato nel legame simbiotico madre-bambino mentre, per i secondi, va trovato nelle relazioni tra il bambino e l’oggetto che nel primo periodo non può che essere la madre o parti di essa.

Margaret Mahler e il concetto di separazione-individuazione

La Mahler, attraverso lo sviluppo del concetto di separazione-individuazione e di distinzione fra sé e non sé, supera questa dicotomia descrivendo uno sviluppo in fasi che prevede la presenza sia delle fasi simbiotiche sia di quelle oggettuali in relazione allo sviluppo psicobiologico del bambino:

  • fase autistica: da 0 a 2 mesi in cui il bambino pensa alla sua sopravvivenza più ché alle relazioni oggettuali;
  • fase simbiotica: da 2 a 6 mesi riesce ad avere una vaga coscienza della mamma e si percepisce come totalmente in simbiosi e dipendenza con quest’ultima;
  • fase di separazione-individuazione: da 6 a 36 mesi in cui attraverso la differenziazione, la sperimentazione, il riavvicinamento e la costanza oggettuale, il bambino differenzia il sé dagli altri.

Se la differenziazione fra l’immagine del sé e quella degli oggetti fallisce, vi è un terreno fertile per lo sviluppo successivo delle psicosi. La Mahler sostiene che la fase simbiotica richiede che il bambino si comporti come se lui e la madre fossero una cosa sola e “un sistema onnipotente, un’unità duale racchiusa dentro gli stessi confini”. Nella psicosi simbiotica vi è fusione, dissolvimento e mancanza di differenziazione tra il sé e il non sé: una completa indefinizione dei confini. Questa ipotesi ci ha condotto allo studio della normale formazione di un’entità separata e di un’identità. Quando in certi casi il ritardo delle funzioni autonome dell’io è unito a un concomitante ritardo della prontezza emotiva a funzionare separatamente dalla madre, dà origine a un panico a livello di organismo. E’ questo panico che causa la frammentazione dell’io e genera così il quadro clinico della simbiosi psicotica infantile. Racamier, in Genio delle origini, afferma che la rottura della fase simbiotica sia il primo dei lutti che il bambino deve imparare a elaborare al fine di elaborare i vari lutti che nella vita è costretto a superare:

Il lutto originario è dunque la prima e prolungata prova che l’io deve affrontare per scoprire l’oggetto. In virtù di un paradosso fondatore, questo è perduto prima che trovato, allo stesso modo non si trova l’io se non accettando di perdersi.

Il legame madre-bambino e l’importanza dei confini

Da ciò deriva che il legame madre-bambino prevede una differenziazione tra i due nuclei con lo stabilizzarsi dei relativi confini senza che venga meno il processo di legame, cosi come descritto in precedenza.

Lo strutturarsi di fenomeni psicotici, in sostanza, è legato alla fusione dei due nuclei più che a un interscambio di elettroni. Se all’inizio (fase autistica e fase simbiotica), la fusione, in senso chimico e fisico, apporta calore alla relazione, in assenza di differenziazione si determina una deflagrazione.

Il calore, inoltre, come sostenuto in precedenza, costituisce l’energia di legame in grado di fare cambiare stato alla materia da solida in liquida o da liquida in gassosa. E’ attraverso il calore della relazione che il soggetto è in grado di differenziare il sé e conquistare una propria identità. Da notare, ancora una volta, che per acquistare (identità o consapevolezza di sé) si deve perdere la funzione protettrice della simbiosi. Ritorna la funzione del dono nel senso del perdere al fine d’acquistare nuovi legami.

Uscire dalla simbiosi, infatti, vuol dire acquistare consapevolezza di sé e in forza di questa nuova immagine d’identità potersi predisporre al legame con gli altri. Conquistare una nuova stabilità con confini chiari apre alla possibilità di potersi legare con altri soggetti esattamente come fanno i composti in chimica. Se ci trasformiamo in molecola, abbiamo la possibilità, attraverso i legami secondari, a unirci ad altre molecole in modo da formare altri composti. Essendo un processo che si perpetua all’infinito, non vi è dubbio che assuma forme antropologiche e simboliche.

Al contrario, i processi che impediscono, provenienti sia dalla madre sia dal bambino, come vedremo in seguito, il processo di differenziazione non danno la possibilità di formare nuovi legami. E’ quello che succede ai primati di Harlow alle quali, attraverso l’isolamento, non si da la possibilità di sperimentare la fase simbiotica e, di conseguenza, di potersi differenziare e conquistare una consapevolezza di sé e, quindi, di poter stabilire legami stabili nel momento in cui vengono liberate. E’ quello che succede alle relazioni in cui le madri trattengono i figli in simbiosi con loro e non permettono la perimetrazione del territorio attraverso la creazione di confini. Levy, a questo proposito parla di madri iperprotettive che, a loro volta, avevano avuto profonde carenze e che, in qualche modo, le spingono “a cercare di ottenere dai figli ciò che non avevano ottenuto dalle proprie madri“. Lidz , definisce queste madri come impenetrabili ai bisogni dei figli che continuamente propongono la mancanza di significato della loro vita .

Winnicott, afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo perché parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza a un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita. Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé. Da questo presupposto nasce la good enough mother che è quella madre che sa regredire, diventare piccola come il suo bambino, per sintonizzarsi meglio su di lui, sul suo mondo interno e su i suoi bisogni.

 

Disturbo della condotta femminile: attività ridotta della corteccia prefrontale dorsolaterale

Attraverso l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI) alcuni ricercatori dell’Università di Zurigo hanno indagato i pattern di regolazione delle emozioni nelle ragazze adolescenti con diagnosi di Disturbo della condotta.

 

L’adolescenza è un periodo della vita caratterizzato da profondi cambiamenti emotivi, per questo l’adolescente ha bisogno di acquisire nuove abilità sociocognitive, come ad esempio l’abilità di regolare in maniera efficace le emozioni.

È emerso da vari studi che carenze nella regolazione emotiva sono associate a diverse psicopatologie nell’infanzia, come ad esempio il Disturbo della condotta (CD).

Il Disturbo della condotta

Il Disturbo della condotta è un disturbo psicopatologico dell’infanzia e dell’adolescenza, caratterizzato da comportamenti ripetitivi sia aggressivi che non aggressivi, i quali violano i diritti fondamentali degli altri o le norme sociali. La prevalenza di questo disturbo nella popolazione è del 9,5% e differisce per quanto riguarda il genere, infatti colpisce per il 12% i maschi e per il 7,1% le femmine.

L’origine dei comportamenti caratteristici del Disturbo della condotta (ad es. irritabilità, scoppi di rabbia o intense risposte emotive) può essere sostenuta da variazioni della reattività emotiva e/o difficoltà nella regolazione delle emozioni.

Per molto tempo, tuttavia, non sono state studiate le correlazioni neurali nella regolazione emotiva negli adolescenti con Disturbo della condotta. Un recente studio, condotto presso l’Università di Zurigo e pubblicato su Journal Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, ha invece voluto approfondire proprio questo aspetto, utilizzando perciò la risonanza magnetica funzionale (fMRI) ha indagato i  pattern di regolazione delle emozioni nelle ragazze adolescenti con diagnosi di Disturbo della condotta.

Lo studio

I partecipanti sono stati reclutati dallo studio Neurobiology and Treatment of Female Adolescent Conduct Disorder (FemNAT-CD) e sono stati testati presso l’Università di Basel e l’Università di Francoforte.

Il campione era composto da 59 femmine adolescenti con età compresa tra i 15 e 18 anni, di queste 30 presentavano una diagnosi di Disturbo della condotta mentre le altre 29 non presentavano alcuna diagnosi clinica (queste ultime appartenevano al gruppo di controllo).

I risultati della fMRI hanno evidenziato una bassa attivazione nella corteccia prefrontale dorsolaterale e del giro angolare nelle adolescenti con Disturbo della condotta durante la regolazione emotiva, tuttavia non vi erano differenze per quanto riguardava la reattività emotiva nei due gruppi. Inoltre, durante la rivalutazione cognitiva, le connettività tra la corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra e il putamen bilaterale e quella tra la corteccia prefrontale destra e l’amigdala risultavano ridotte nelle adolescenti con Disturbo della condotta rispetto al gruppo di controllo.

Conclusioni e prospettive future

La ricerca evidenzia una ridotta attività cerebrale prefrontale e connessioni compromesse tra la corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra e il putamen bilaterale e quella tra la corteccia prefrontale destra e l’amigdala durante la regolazione delle emozioni nelle adolescenti con Disturbo della condotta.

Come prospettive future sarebbe interessante indagare se gli interventi cognitivi siano efficaci nel migliorare le capacità di regolazione emotiva e/o normalizzare l’attività prefrontale e temporoparietale nelle ragazze con Disturbo della condotta.

Essere genitori – Nasce il gruppo di sostegno milanese ai genitori di persone LGBTQ+

Essere genitori di persone LGBTQ+ può essere una sfida difficile da affrontare. Nasce il gruppo di sostegno milanese per intraprendere questo percorso con consapevolezza

Associazione Asterisco

 

Il coming out di una persona cara può essere accompagnato da una grande varietà di sentimenti e spesso i familiari di persone LGBTQ+ incontrano difficoltà nella gestione di questa situazione nella vita quotidiana, non riuscendo a fornire il sostegno desiderato.

L’ associazione milanese Asterisco – che si occupa di promozione del benessere psicologico e sessuale attraverso la riduzione degli stereotipi e la diffusione della cultura psicologica – ha deciso di fornire ai genitori in questa situazione un gruppo di sostegno, all’interno del quale confrontarsi con persone che stanno vivendo la stessa esperienza, sotto la guida della professionista Chiara de Bella, psicologa clinica e sessuologa.

La dottoressa, ideatrice del progetto, racconta:

L’idea nasce dall’esperienza di lavoro fatta con genitori di adolescenti transessuali, e dall’analisi degli studi che ci parlano di come il livello di disagio psicologico (ansia, depressione, ideazione suicidaria) delle persone LGBT+ diminuisce significativamente se da parte dei familiari è presente un atteggiamento di accettazione e sostegno. “Essere genitori” è un gruppo di confronto, scambio e supporto. Vorrei creare un ambiente accogliente e non giudicante, dove poter provare a guardare alla propria situazione da una diversa prospettiva.

Gli incontri si svolgono la sera di ogni primo lunedì del mese presso la sede dell’Associazione Asterisco a Cormano (MI) in via Verdi 14.

Per accedere al gruppo è necessario effettuare prima un colloquio conoscitivo.

Per informazioni e adesioni è possibile scrivere a [email protected]

Attività microcircuitale in diretta: una svolta per le Neuroscienze

Un recente studio basato sull’uso del processo di optogenetica parzialmente modificato, ha permesso per la prima volta di osservare “in diretta” l’attività dei neuroni. Le applicabilità sono enormi. Questa tecnologia apre una nuova finestra che potrebbe avere un effetto trasformativo nell’ambito delle neuroscienze.

 

Per anni gli scienziati hanno cercato un modo per osservare la sparsa ed intricata attività neurale in tempo reale, il pattern spazio-temporale dei potenziali d’azione che forma le basi della complessa rete di attività del nostro cervello.

Le modalità con cui questi eventi elettrici iniziano e sono propagati dipendono dalle sparse oscillazioni nei potenziali di membrana
dei neuroni, ovvero la differenza di potenziale fra l’interno e l’esterno della cellula derivante dall’integrazione dei segnali a livello dell’albero dendritico che, superando la soglia critica, permette la depolarizzazione.

Usando coloranti sensibili al potenziale è possibile ottenere un valore lineare dell’attività di ampie popolazioni di neuroni, ma la tecnica è limitata dal fatto di non poter selezionare specifiche categorie cellulari. Ciò rappresenta un ostacolo importante, poiché cellule adiacenti hanno spesso funzioni distinte. I metodi di misurazione diretti più usati rientrano nella categoria dei whole-cell patch clamp, in cui un elettrodo a vetro, contenente un fluido conduttivo e un filamento metallico, viene fissato sulla membrana, che viene poi aperta tramite aspirazione in modo da permettere l’accesso allo spazio intracellulare al sensore. Queste registrazioni, però, vengono effettuate su una cellula alla volta e non sono quindi un metodo efficacie per misurare l’attività correlata delle reti neurali.

Optogenetica: di cosa si tratta?

L’ optogenetica è considerata una tecnica promettente per sopperire a queste limitazioni in quanto consente lo studio di diversi tessuti, generalmente neuroni, modificati in modo da esprimere canali ionici sensibili alla luce.

Il processo è ottenuto inserendo il gene che codifica per i fotorecettori in un virus, il quale infetterà determinati neuroni dell’ospite in modo che esprimano le proteine di membrana fotosensibili. Il vettore virale può essere programmato in modo da riprodursi solo in cellule con determinate caratteristiche molecolari, in modo da poter studiare specifiche tipologie di neuroni. I geni così trasmessi codificheranno per indicatori di voltaggio e attuatori optogenetici. I primi sono in grado di produrre un segnale ottico misurabile, come l’emissione di fosforescenza, in risposta ai cambiamenti elettrici della cellula; i secondi possono modificare il potenziale di membrana in base allo spettro elettromagnetico e quindi al colore, della luce con cui vengono a contatto.

Comunque, le limitazioni di velocità e sensibilità degli indicatori di voltaggio geneticamente codificati e la sovrapposizione di spettro fra questi e gli attuatori optogenetici hanno impedito di costruire un sistema elettrofisiologico geneticamente codificato per la misurazione dell’attività di cellule specifiche, libero da interferenze, sul modello animale. Questo limite, però, potrebbe essere stato superato.

Oltre i limiti dell’ optogenetica: potenzialità e prospettive future

Il dottor Yoav Adam e colleghi (2019) hanno recentemente sviluppato un processo, basato su microscopia a fluorescenza ad alta velocità e su uno schema di espressione genica mirato di ultima generazione, che ha permesso una simultanea registrazione delle dinamiche del voltaggio transmembrana sotto e sopra soglia in diversi neuroni dell’ippocampo di topi svegli che camminavano su un tapis roulant.

I ricercatori hanno inserito nelle cellule dell’ippocampo delle cavie un’archeorodopsina, una proteina recettoriale fotosensibile trovata negli archeobatteri che è un indicatore di voltaggio, veloce e sensibile in vitro, chiamato QuasArs 3. Questo fotorecettore geneticamente codificato è, fra tutti, quello che risponde alla radiazione elettromagnetica con la lunghezza d’onda più alta. Viene eccitato dalla luce rossa ed emette una fluorescenza quasi infrarossa. Per controllare il potenziale di membrana hanno invece utilizzato il fotorecettore CheRiff, una rodopsina, ovvero una proteina fotosensibile in grado di cambiare il tasso di neurotrasmettitore rilasciato, che si attiva a contatto con la luce blu (che ha breve lunghezza d’onda).

I risultati mostrano dettagli subcellulari dei cambiamenti sottosoglia del potenziale di membrana in cellule multiple in tempo reale, riuscendo allo stesso tempo ad eccitare ed inibire optogeneticamente gli input sinaptici con un’interferenza minima. Il tutto per diversi giorni.

I ricercatori hanno visto per la prima volta neuroni lampeggiare in diretta in un animale sveglio ed attivo. Lo studio sembra dunque aver trovato uno strumento per trasformare la sparsa attività elettrica dei vari circuiti cerebrali in un “film” visibile attraverso un microscopio. Le applicabilità sono enormi. Questa tecnologia apre una nuova finestra che potrebbe avere un effetto trasformativo nell’ambito delle neuroscienze.

Aiuti concreti ed inclusivi per facilitare l’apprendimento della lettoscrittura (inglese come L2) per studenti italofoni

La lettoscrittura della lingua inglese è un problema realmente difficile per i soggetti con dislessia.

 

Ci sono vari ordini di difficoltà per le persone con dislessia che vanno a sommarsi:

  • Parliamo di inglese come L2, non come lingua madre. Ci sono quindi a valle le difficoltà di uno straniero che deve imparare a leggere e scrivere una lingua che non possiede profondamente a livello orale.
  • Parliamo di una lingua la cui fonetica è ricca e complessa: l’ inglese ha 44 fonemi (l’italiano solo 30) e ha regole ortografiche non facili, con una discreta quantità di omofoni e omografi.

In questo articolo cercheremo di dare dei suggerimenti concreti ai docenti di inglese che devono insegnare ai propri alunni a leggere e scrivere.

Particolarmente, insisteremo sulla necessità di un approccio strutturato all’insegnamento della fonetica inglese dalla scuola primaria (ovviamente con modalità adeguate all’età). Ad oggi, questo non viene fatto.

Dislessia: indicazioni per un training fonetico strutturato per imparare l’ inglese

Per quanto complesso possa essere fare un training fonetico strutturato in una L2 (è ovviamente necessario prendere una serie di misure e accorgimenti perché sia efficace ed adeguato alle competenze linguistiche degli alunni), è a nostro avviso necessario, soprattutto con i bambini e ragazzi con dislessia.

Dare delle procedure e delle regole per affrontare la lettura delle parole e dei fonemi è di grande aiuto per i soggetti in difficoltà: la sfida è svecchiare le modalità di questo training, che rischia di essere arido, astratto e demotivante su una lingua non profondamente conosciuta. Il gioco e la multisensorialità sono i necessari accorgimenti per introdurre da subito procedure che guidino i ragazzi.

Di seguito diamo quindi 5 consigli ai docenti, per introdurre ed insegnare la lettoscrittura in inglese in classi dove siano presenti anche soggetti con dislessia.

  1. Dedicare tempo ed energia a potenziare l’ascolto

I giochi di ascolto sono la prima attività per il riconoscimento della fonetica.

Nei training fonetici della scuola anglosassone c’è quella che viene comunemente chiamata “fase zero”. Che cosa è la fase zero? È la prima tappa del training fonetico, quella dedicata al potenziamento dell’ascolto.

Nel nostro mondo, nel quale grande importanza viene data alla comunicazione visiva, la capacità di ascoltare è peraltro una competenza da potenziare in molti bambini.

L’ascolto è diretto non solo ai suoni fonetici, ma anche ai suoni non fonetici. Il primo passo è infatti ascoltare e discriminare rumori non fonetici e suoni fonetici: riconoscere e discriminare lo sciabordio delle onde, il ronzio del frigorifero, il fischio del vento, il tonfo di un oggetto che cade.

Da questi esercizi si può passare alla fase fonetica, ovvero a riconoscere e discriminare il sibilo della /s/o la frizione della /th/.

2. Fare attività per sviluppare e consolidate la consapevolezza fonologica

La dislessia è un fenomeno complesso: i sintomi riferibili alla “difficoltà di leggere” si possono riferire a difficoltà di elaborazione di stimoli visivi o uditivi (o entrambi).

Tuttavia, a livello statistico, molti soggetti dislessici hanno problematiche nell’elaborazione dei suoni fonetici (discriminazione del suono fonetico dallo sfondo, discriminazione dei suoni fonetici tra loro, segmentazione e corretta sequenza dei suoni fonetici etc): per questo consigliamo a tutti i docenti di inglese di dedicare molte energie per sviluppare nei discenti la consapevolezza fonologica.

Che cosa è la consapevolezza fonologica?

  • È la conoscenza dei suoni fonetici dell’ inglese
  • È la competenza di discriminare e riconoscere questi suoni all’interno di parole e frasi
  • È la competenza di discriminare il singolo suono fonetico da altri suoni fonetici anche simili
  • È la competenza di articolare i suoni fonetici
  • È la competenza di manipolare la lingua, variando o sostituendo i suoni fonetici all’interno di sequenze, parole e frasi

È importante notare che possono essere presentati anche prima che i bambini imparino a scrivere, non è necessario procedere immediatamente alla rappresentazione grafica dei fonemi.

Nella scuola anglosassone, i training metafonologici iniziano sin dagli anni della scuola di infanzia, quindi prima di insegnare le lettere. I fonemi possono essere utilmente rappresentati con oggetti che iniziano con quel suono. Considerato il fatto che in inglese non c’è corrispondenza biunivoca suono-lettera, potrebbe essere anzi anche una buona misura nella scuola primaria, per evitare confusioni ai bambini con DSA.

Nell’ambito dello studio dell’ inglese come L2, bisogna anche segnalare una ulteriore specifica: i bambini non di madrelingua non saranno da subito in grado di discriminare tutti i suoni fonetici.

Ognuno di noi, entro il diciottesimo mese di vita, “si specializza” nella propria lingua madre, ovvero diventa abile nel riconoscerne i suoni. Questo è fondamentale per imparare a comunicare nella propria lingua, tuttavia significa anche che diminuisce la sensibilità nei confronti di suoni fonetici non rappresentati nella lingua madre.

Per questo, gli esercizi di ascolto sono cosi importanti. Si tratta di ripristinare, ampliare e potenziare la capacità di cogliere un ampio spettro di suoni. Questo momento aiuterà concretamente il momento successivo, ovvero il training strutturato sui suoni fonetici.

3. “Ascoltare” con gli occhi

Il bambino che impara la propria lingua non impara solo ad ascoltare ma anche ad articolare i suoni che percepisce. Il bambino osserva la bocca della madre quando parla e grazie ai neuroni a specchio lavora per imparare gli schemi articolatori sottesi dalla pronuncia dei suoni che sente.

Questo meccanismo per cui ascoltiamo per così dire contemporaneamente con le orecchie e con gli occhi, traendo in modo integrato l’informazione che ci aiuta a decifrare la lingua è ben presente durante tutte le fasi della vita. Abbiamo notato tutti che è più faticoso ascoltare e capire una lingua straniera al telefono: il “labiale” ci fornisce molte informazioni.

Per imparare i suoni è importante sia ascoltarli che vederli articolare, sia coglierli che riprodurli in prima persona: possiamo trasportare questa consapevolezza nella lezione di inglese, dando una grande importanza non solo all’ascolto con file audio o CD, ma anche alla visione di video dove si veda lo speaker che articola i suoni.

Nei vecchi libri di testo, c’erano le cassette o i cd con la sola traccia audio, mentre i nuovi libri di testo hanno introdotto i video, che oltre ad essere piu divertenti da vedere danno una serie di informazioni visive importanti per comprendere il messaggio e imparare la lingua. In questo senso, esiste quindi già un aiuto concreto disponibile in molti testi: il fatto che ci siano dei video oltre ai file audio è sicuramente uno dei criteri da curare per la scelta del libro di testo.

Ma non è tutto. Quando si impara la lingua materna, l’esposizione alla lingua è massima quindi il training non è strutturato. Ma se parliamo di poche lezioni alla settimana, strutturare un training articolatorio può davvero fare la differenza nell’insegnamento della fonetica.

Ciò che intendo dire è che possiamo utilmente affiancare all’ascolto un insegnamento sistematico di come si articolano i vari fonemi. Aiutiamo bambini e ragazzi a distinguere un suono sordo da un suono sonoro, a riconoscere l’articolazione labiale, palatale e gutturale. È abbastanza divertente e facile da fare, basta attirare la loro attenzione su alcuni fenomeni:

  • Se il suono è sonoro (come le vocali ed alcune consonanti), ponendo la mano sulla gola percepiamo la vibrazione. Se è sordo, non la percepiamo.
  • Le consonanti si distinguono a seconda del luogo della bocca dove avviene l’occlusione o la frizione, quindi se stringiamo le labbra sono consonanti labiali, se percepiamo l’occlusione o la frizione al centro della bocca sono palatali, se invece percepiamo il movimento in fondo alla bocca, visini alla gola, sono gutturali.

Questi esercizi possono essere fatti in modo ludico e con crescenti dettagli mano a mano che sale l’età e la competenza dei bambini e dei ragazzi, ma aiutarli a distinguere l’articolazione dei suoni sarà un grande aiuto per riconoscerli, oltre che per riprodurli.

4. Bilanciare ed intagrare l’approccio phonics vs approccio whole word (sight word)

Esistono due approcci contrapposti nell’insegnamento della lettoscrittura, ovvero l’approccio fonetico vs approccio globale. Fino agli anni ’80, nel mondo anglosassone (e non solo) era prevalente l’approccio globale (whole word), che potremmo sinteticamente definire così: i bambini erano addestrati a riconoscere “a vista” gruppi di parole. Sostanzialmente, si lasciava che la regola fonetica fosse in qualche modo dedotta, grazie alla presentazione strutturata di molti esempi.

La didattica globale della lettoscrittura annovera anche nomi illustri come Edward William Dolch, il professore cui si devono le famose “parole di Dolch”, ovvero le liste di parole ad alta frequenza, la cui memorizzazione “visiva” era indicata per facilitare la lettura in inglese.

Definiamo parole ad alta frequenza le parole che ricorrono molto spesso in ogni testo della lingua. Il riconoscimento immediato a vista (senza il tempo di decifrazione) delle parole ad alta frequenza può sveltire moltissimo la lettura, soprattutto nei soggetti che hanno delle difficoltà specifiche.

Le parole di Dolch sono state per decenni insegnate nelle scuole primarie americane, strutturate nelle classi successive a partire dai 5 anni in gruppi ordinati per difficoltà e frequenza. Nonostante una buona parte delle parole di Dolch potessero essere decifrate secondo le regole fonetiche, prevaleva in quei tempi l’approccio globale e le parole erano presentate in libri di lettura nei quali le parole frequenti ricorrevano continuamente per facilitare il riconoscimento a vista (“sight words”).

Successivamente, ha avuto un successo crescente il metodo fonetico, basato sull’istruzione diretta dei singoli suoni e delle regole che stanno alla base del “blending” dei suoni fonetici per formare le parole.

La formazione fonetica è stata strutturata in un percorso pluriennale (che abbraccia gli anni a cavallo tra la scuola di infanzia e la primaria), ed i metodi più diffusi danno grande importanza anche al lato multisensoriale, inclusivo e ludico del training fonologico (giochi di ascolto e discriminazione di fonemi, scrittura in aria  e su diversi materiali, grande importanza alla dimensione dello storyelling etc).

I test standardizzati, negli anni, hanno decretato la superiorità del metodo fonetico rispetto al metodo globale. Le performances sono state migliori non solo nella decifrazione della scrittura, ma anche in competenze correlate come la comprensione del testo.

L’irregolarità della lingua inglese, tuttavia, è tale da suggerire l’utilità di un approccio integrato, che viene conservato dai materiali in uso. Svariate parole ad alta frequenza sono infatti  foneticamente irregolari, e necessitano di essere insegnate a vista.

Insegnamento della fonetica inglese (inglese come L2)

Qui bisogna fare una doverosa parentesi per l’ inglese come L2.

I bambini italofoni a cui insegniamo l’ inglese non hanno una sicura competenza della lingua orale, spesso sono addirittura principianti assoluti. La domanda è quindi: ha senso insegnare la fonetica (con un approccio analitico, fonema per fonema) di una lingua che non si conosce?

La domanda ha naturalmente senso e sono diverse le sfumature da prendere in considerazione: se da una parte è vero e incontrovertibile che un approccio strutturato aiuta i principianti, è altrettanto vero che “iniziare dai fonemi” anziché dalle parole è un agire che va contro la direzione naturale dell’apprendimento, dal globale all’analitico. Ha senso riconoscere i fonemi, ove non conosciamo neppure le parole? Non è una forma di insegnamento astratto e demotivante?

Quindi, ciò che fa la differenza, è il modo in cui insegniamo la fonetica inglese ai bambini principianti:

  • È necessario mantenere un approccio ludico, in modo che le attività in se siano gratificanti e non arbitrarie e quindi motivanti.
  • È necessario strutturare la sequenza di presentazione dei fonemi e delle parole in modo che sia adeguata alle competenze  del bambino che studia inglese come L2.

Facciamo degli esempi concreti: uno dei piu celebri metodi multisensoriali e ludici dell’insegnamento fonetico, usato anche in Italia per insegnare la fonetica dell’ inglese a bambini italofoni, presenta tra le prime parole “snake” (serpente) e “castanets” (nacchere). Sono parole non presenti nel vocabolario di un principiante, sono parole lunghe e difficili da pronunciare e ricordare per un parlante non nativo. La sequenza stessa dei suoni, intuitiva per il bambino madrelingua, è invece innaturale per il bambino italofono che studia inglese come L2. Ciò che voglio dire è che gli studi dimostrano l’efficacia dei training fonetici e il mercato anglosassone offre ottimi materiali, ma che è necessario adattarli per venire incontro alle esigenze del bambino che studia l’ inglese.

Insegnamento delle sight words nello studio dell’inglese L2

Il training delle parole al alta frequenza (whole words) è molto importante  perché il bambino che non conosce la lingua avrà un vantaggio in tempi brevi dall’imparare le parole che ricorrono piu frequentemente. Normalmente, nei training anglosassoni, le parole che fanno eccezione foneticamente sono studiate dopo le parole regolari dal punto di vista fonetico. Tuttavia, può essere una buona indicazione anticipare tra le eccezioni fonetiche le parole ad alta frequenza.

5. Insegnare la segmentazione delle parole

Una delle difficoltà piuì comuni è la lettura di parole lunghe (bisillabe e trisillabe). Uno dei rimedi che ha senso insegnare, soprattutto a soggetti con DSA, è i pattern per scomporre le parole, e leggerle “a pezzi” e poi “rifonderle insieme “ (bending + segmenting), ad esempio:

  • Riconoscere i prefissi “IN”, “A”, “POST”…
  • Riconoscere i suffissi “NESS”, “LY”, “ER”…

Di solito la formazione delle parole è un argomento che viene trattato molto avanti nell’ insegnamento dell’ inglese, tuttavia ai fini della lettura delle parole insegnare a scomporre le parole in radicale + prefisso (suffisso aiuta concretamente ad affrontare monosillabi anziché bisillabi/trisillabi.

Come nota a margine, aggiungo che essenso molti prefissi di provenienza latina al parlante italofono oltre ad essere di facile lettura danno in modo immediato delle informazioni sul significato)

6. Leggere, leggere, leggere

I soggetti con difficoltà raramente leggono libri in inglese. Eppure, leggere è molto importante e sarebbe da fare con regolarità per imparare e consolidare la lingua. Per facilitare la lettura, consigliamo di:

  • Usare letture graduate per il livello dei bambini (controllate sul retro)
  • Proporre le Storie fonetiche, ovvero storie nelle quali ricorrono parole fonetiche con pattern riconoscibile (famiglia di parola)
  • Scegliere libri con CD e proporre ai bambini e ragazzi l’esperienza contemporanea di lettura + ascolto (audio-book)

Implementando nella classe, sin dalle scuole primarie, training strutturati di questo tipo, si dovrebbe essere in grado di costruire in modo più efficace le competenze di base di tutti i discenti, aiutando in particolare modo coloro che più di tutti possono avvantaggiarsi di una istruzione esplicita, ovvero i bambini e ragazzi con DSA.

Dalla teorizzazione all’episodio narrativo

In un precedente articolo avevo definito i terapeuti TMI come cacciatori di episodi, scene, momenti, cercando, poi, di descrivere la differenza tra la ricostruzione dell’episodio narrativo e quella dello schema interpersonale maladattivo. In quell’occasione avevo sottolineato l’importanza di raccogliere vari episodi narrativi prima di formulare e condividere un’ipotesi di schema che comprendesse la procedura del tipo “se…allora”.

 

Questa volta, però, vorrei portare l’attenzione sulla differenza tra generalizzazione, teorizzazione e un buon episodio narrativo. Noi tutti abbiamo una teoria del nostro modo di funzionare del mondo e, per carità, spesso e volentieri questa teoria è giusta. Banalmente potremmo dire, ad esempio, che siamo suscettibili a coloro che ci ignorano perché stiamo male. Oppure che vestirci in un certo modo ci fa sentire più sicuri. Queste semplici affermazioni che rappresentano, evidentemente, una regola, le definiamo generalizzazioni perché descrivono un nostro modo di reagire di fronte a determinati trigger oppure un nostro modo di comportarci in determinate situazioni ma, come è evidente, sono prive di ogni componente mentalistica utile.

Non vi è, infatti, descritto un pensiero, né un’emozione né un comportamento specifico. Ovviamente vi è solo un vago accenno alla relazione tra le variabili, molto semplicistica e limitativa. Non rappresentando una narrazione che favorisce una riflessione, resta un’esperienza che non è di aiuto nella concettualizzazione del caso e non permette l’accesso ad alcun contenuto mentale.

È nostro compito, a questo punto, aiutare il paziente ad identificare e descrivere un episodio nel quale la sua teoria si esplica, analizzando fotogramma per fotogramma tutta la sequenza di eventi incorsi nella sua mente ed intorno a lui. Lo scopo è di identificare le variabili necessarie alla ricostruzione di un eventuale schema e di determinare, nel modo più preciso possibile, questa teoria per far notare che essa rispecchia il modo con cui leggiamo gli eventi e che non ha niente a che vedere con la realtà stessa. Non a caso, si parla di rappresentazione.

Generalizzazione ed episodio narrativo – Facciamo subito un esempio:

Ogni volta che vado al mare, sto bene. Quando sono a lavoro, mi sento spesso a disagio.

Tralasciando la volontaria presenza di alessitimia, in quanto in queste due affermazioni non vi è neppure l’ombra di un’emozione specifica, potremmo dire che queste sono teorie. Generalizzazioni. Volutamente ho fatto un esempio al positivo ed una al negativo perché, sarà magari relativamente sorprendente, ma spesso tendiamo a generalizzare anche su eventi positivi.

L’avreste mai detto?

La teoria riflette uno specifico difetto metacognitivo dell’automonitoraggio ma questo non vuol dire che il paziente, se opportunamente guidato, non riesca a rintracciare tutti i dettagli dell’episodio narrativo, effettuando un’analisi ben più precisa, organizzando il materiale cognitivo, emotivo e magari anche corporeo/somatico. Il suo teorizzare ci indicherà quanto grave possa essere il deficit dell’automonitoraggio e ci indurrà a sollecitare un allenamento auto-osservativo che lo aiuti ad esaminare meglio quello che, per certi versi, sembra incalzare e pervadere la mente.

A questo punto il “se vado al mare sto bene” può diventare un “ieri, quando ero sulla spiaggia, con i piedi scalzi, sentivo la sabbia calda sotto di me, il sole che mi scaldava il viso e l’acqua che ogni tanto mi rinfrescava. Nell’osservare tutti questi elementi che mi circondavano, ho subito pensato quanto fosse complessa la natura nel suo insieme e come essa potesse regalarci degli spettacoli meravigliosi. Ero da sola, eppure mi sentivo interconnessa con tutto ciò che era intorno a me. Ho provato un’intensa sensazione di pace e tranquillità ed il mio corpo era profondamente rilassato ma presente”.

Il “quando sono a lavoro sto male” si può trasformare in uno scenario molto più complesso del tipo “settimana scorsa a lavoro un mio collega mi ha detto di aver notato che il progetto che avevo presentato al mio capo era ancora sulla scrivania. Ho, quindi, pensato che non l’avesse preso in considerazione, che non l’avesse neppure letto e questo mi ha catapultato in un’emozione di vergogna molto intensa perché ho pensato che effettivamente non ho i numeri in tasca per scrivere e presentare un progetto. Non valgo nulla. Merito quasi la loro non considerazione. Estremamente triste, sono andato a casa e non sono uscito per tutto il week-end”.

Cambia molto, vero? In questo caso sembra quasi di vedere il nostro attore della scena che si infila la giacca e lascia l’ufficio con capo chino e passo lento. È esattamente questo modo di lavorare sulla scena che favorisce la consapevolezza di quello che si muove nella mente, decisamente molto più complesso e sfaccettato di un semplice interruttore bene-male. Per fare questo lavoro minuzioso basta cogliere il paziente nella sua teorizzazione sugli eventi, seppur vaga e chiedergli di farci un esempio, di portarci con lui su una scena o un momento in cui quello di cui ci sta parlando si è verificato. Quando più episodi aiutano a far emergere sempre un determinato vissuto, come se dietro vi fosse una certa sistematicità, a quel punto possiamo immaginare che su quegli aspetti ci sia proprio uno schema e possiamo provare a formulare e condividere con il paziente una prima idea di schema interpersonale maladattivo.

Un episodio può non è essere sempre semplice da ottenere, il più delle volte se siamo fortunati dobbiamo allenare il paziente. Una modalità è quella di validare, in un clima relazionale collaborativo ed esplorativo, riportando l’dea che è una difficoltà comune e spiegare il razionale, cioè far capire al paziente perché questa analisi è così importante. Poi cerchiamo di accedere a delle scene ma se questo non dovesse succedere allora accompagniamo il paziente nella palestra mentalistica in cui si dovrà esercitare nell’automonitoraggio. Appena si accede ad un materiale anche vago il terapeuta ne approfitta per agganciarsi e porre una serie di domande di approfondimento senza risultare un investigatore ma un osservatore curioso. Un altro trucco è quello di agganciarsi a temi a carattere edonico positivo oppure a momenti che emergono nel vivo dell’interazione in seduta, anche di tipo relazionale. Tale spunto giunge dal lavoro coi pazienti gravi, con cui può essere davvero complesso il lavoro sulle narrazioni (Salvatore et al., 2017). Infine non dimentichiamo la possibilità di aiutarci con tecniche immaginative, drammaturgiche e corporee a scopo esplorativo (Dimaggio et al., 2019).

Nerve Transfers: utilizzata per la prima volta in Italia la tecnica per il recupero delle funzioni delle mani in pazienti tetraplegici

Utilizzata per la prima volta in Italia la tecnica del Nerve Transfers per il recupero delle funzioni delle mani in un paziente tetraplegico.

Marco Tanini, Ilaria Bagnulo, Alessandro Toccafondi, Vittoria Falchini, Anna Manfriani

 

Nuovo trattamento per il recupero della funzione delle mani in pazienti tetraplegici

Tetraplegico per un incidente d’auto, un 52enne recupererà la funzione delle mani grazie ad un innovativo intervento realizzato all’Ospedale Cto della Città della Salute di Torino.

La metodica, eseguita in pochi centri al mondo e – sottolinea l’ospedale – per la prima volta in Italia, bypassa la lesione del midollo spinale ricollegando, come fili elettrici, i nervi sani a nervi non più funzionanti. In questo modo, spiegano i sanitari, è possibile reinnervare distretti muscolari altrimenti non recuperabili (ANSA, 2019).

I danni al midollo spinale

Il midollo spinale è contenuto all’interno del forame vertebrale e consente il passaggio dei messaggi sensoriali e motori che interessano il movimento dei muscoli che sono trasmessi e ricevuti dal cervello attraverso il midollo spinale stesso.

Si definisce cervicale la porzione di midollo che è ospitata all’interno del forame vertebrale a partire dalla prima vertebra cervicale fino alla settima.

Danni al midollo possono essere originati da sezioni trasversali da distorsione del rachide o da compressione in seguito ad ematomi. Entrambi i traumatismi possono dare origine ad una paralisi che blocca la trasmissione nervosa. Se il trauma è a livello cervicale si ha la paralisi sia degli arti inferiori che di quelli superiori.

Ogni anno in Italia diventano para o tetraplegiche circa 2.500 persone, di cui il 45% a causa di incidenti stradali, il 20% a causa di incidenti sul lavoro, il 10% a causa di incidenti sportivi, il restante 25% per diverse cause tra cui le armi da fuoco. L’80% di queste persone ha un’età compresa tra i 10 e i 40 anni e quindi un’aspettativa di vita molto lunga, conseguentemente un costo sociale e personale, per sé e per le proprie famiglie, elevatissimo. Vivono in Italia circa 75.000 persone con esiti di lesione al midollo spinale (dati Federazione Associazioni Italiani Paraplegici).

Nerve Transfers in Italia: il caso

L’intervento è stato eseguito su un uomo di 52 anni che a seguito di un incidente stradale aveva riportato una lesione completa del midollo spinale cervicale e conseguente paralisi degli arti inferiori e superiori. Sei mesi dopo l’ incidente, è stato sottoposto ad un intervento chirurgico durante il quale sono state connesse terminazioni nervose sane direttamente al sistema nervoso dei distretti nervosi degli arti superiori.

Nerve Transfers: la tecnica

Tale intervento consente di bypassare la lesione midollare trasferendo e connettendo le strutture nervose, a monte della lesione, al tessuto nervoso dei distretti muscolari degli arti superiori.

In passato, per cercare di recuperare la capacità di apertura/chiusura della dita delle mani, si usava una tecnica detta “Trasferimento Tendineo”, questo intervento consiste nel prelevare un tendine fisiologicamente deputato ad una funzione diversa, che viene staccato dal suo punto di inserzione distale per essere poi opportunamente inserito in altra sede, questo allo scopo di fornire un nuovo motore al segmento che ha perso quello fisiologico. La tecnica del trasferimento tendineo è di largo impiego anche nelle lesioni nervose periferiche dell’arto superiore non altrimenti riparabili. In questi casi si sostituisce la funzione di un muscolo paralizzato per una lesione di un suo nervo motore con quella di un muscolo innervato da un nervo sano (Ortensi P. 1997).

Il vantaggio della metodica usata all’Ospedale Cto della Città della Salute di Torino ha il vantaggio di consentire un recupero sensoriale oltre che motorio.

La prima pubblicazione della tecnica di Nerve Transfers (Fox, Kristen, Novak et al. 2015) prendeva in esame gli esiti di nove nove pazienti tetraplegici con lesioni del midollo spinale alla base del collo dove ogni paziente aveva mostrato un miglioramento delle funzionalità delle mani e delle braccia (Fox, Kristen, Novak et al. 2015).

Questa tecnica di Nerve Transfers, sperimentata per la prima volta in Italia, fornisce miglioramenti nella funzionalità, motoria e sensitiva, delle mani in pazienti tetraplegici. Nonostante il recupero globale sia minimo, la riacquisizione del controllo funzionale degli arti superiori può contribuire al miglioramento della qualità della vita.

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