expand_lessAPRI WIDGET

Attività fisica e psicopatologia: il disturbo di panico

L’ attività fisica sembra avere un ruolo non solo nell’incrementare il benessere psicologico in caso di salute mentale, ma anche del determinare miglioramenti in caso di psicopatologia..

 

Il disturbo di panico è un disturbo clinico caratterizzato da ricorrenti attacchi inaspettati, accompagnati da paura e disagio intensi, dalla preoccupazione persistente per l’insorgenza di nuovi attacchi ed in cui si verificano alcuni tra i seguenti sintomi: tachicardia, sudorazione, tremori, sensazioni di soffocamento, dolore al petto, nausea, vertigine, vampate di calore, formicolio, paura di perdere il controllo, paura di impazzire, paura di morire.

Disturbo di panico: il modello biologico

Klein D.F. (1993) sosteneva che il disturbo di panico fosse un disturbo di ansia di natura essenzialmente biologica. Ha rilevato gli effetti antipanico correlati alla somministrazione di imipramina: i pazienti non rispondevano dunque ai farmaci tipici dell’ansia ovvero alle benzodiazepine bensì all’imipramina che è un antidepressivo. Tuttavia questa teoria ha presentato dei punti di criticità, ovvero: non esiste un rapporto diretto tra imipramina ed attacchi, bensi anche altri antidepressivi riducono gli attacchi. Klein riteneva fossero falsi allarmi frutto di evoluzione, probabilmente legati all’ansia di separazione ed all’asfissia.

Si tratta di allarmi di soffocamento attivati da livelli crescenti di anidride carbonica che comportano una improvvisa difficoltà respiratoria che evoca una sensazione di soffocamento e che innesca iperventilazione, panico e desiderio di fuga, falso allarme che può essere attivato anche da segnali psicologici di soffocamento. Il ruolo dell’iperventilazione è controverso: non è infatti ben chiaro se sia la causa o la conseguenza dell’ attacco di panico in quanto i pazienti affetti da disturbo di panico iperventilano in misura più importante dei pazienti affetti da altri disturbi di ansia.

Disturbo di panico: il modello cognitivo

Clark (1986) sosteneva che gli attacchi di panico fossero dovuti ad una interpretazione catastrofica delle sensazioni somatiche, appannaggio di alcune persone che presenterebbero una tendenza stabile ad interpretare in modo errato i sintomi fisici. Si attiva così un circolo vizioso quando si assiste ad una congruenza tra le sensazioni avvertite e le credenze catastrofiche delle persone, con tendenza a sovrastimare il rischio per la salute credendo che tali sensazioni somatiche siano pericolose. Questo modello non spiega la persistenza della paura degli attacchi a dispetto della consapevolezza della non pericolosità. Clark evidenzia tre tipi di vulnerabilità:

  1. Biologica, correlata alla capacità di provare sensazioni corporee intense
  2. Tendenza ad interpretazioni catastrofiche
  3. L’insieme delle due

Le credenze catastrofiche comportano nel paziente la messa in atto di comportamenti protettivi come l’evitamento o la riduzione dell’attività fisica, la fuga, il ricorso alla vicinanza di persone rassicuranti, condotte che costituiscono fattori di mantenimento della problematica.

Disturbo di panico e benefici dell’esercizio fisico

Sono state introdotte nuove strategie di trattamento per ridurre l’ansia quali l’esercizio fisico. L’ attività fisica sembra possa ridurre l’ansia ma la mancanza di gruppi di controllo validi e la breve durata degli studi costituiscono un limite alla generalizzabilità dei risultati. Sono stati analizzati alcuni studi: uno studio di Hovland et al.(2012) secondo cui l’esercizio fisico ha comportato un miglioramento significativo delle cognizioni catastrofiche circa i pensieri associati all’attacco di panico ed un miglioramento dei sintomi fisici. Lo studio di Wedekind et al.,( 2010) ha dimostrato che l’esercizio aerobico regolare (corsa) ha un’efficacia superiore al placebo nel trattamento del disturbo di panico: lo studio ha confrontato il trattamento combinato di esercizio aerobico con e senza l’assunzione di paroxetina, deducendo che un miglioramento del disturbo potrebbe essere indotto da una maggior efficacia del farmaco, per l’effetto combinato con l’attività fisica. Lo studio di A. Broocks (‎1998) ha messo a confronto tre gruppi ovvero:  esercizio aerobico, clomipramina e placebo, rilevando che la clomipramina presentava una maggiore efficacia seguita dall’efficacia dell’esercizio fisico (superiore al placebo).

L’ esercizio fisico sembra avere una certa efficacia nel ridurre i sintomi del disturbo di panico e ridurre la sensibilità all’ansia che è un precursore di attacchi di panico e del disturbo di panico. I pazienti affetti da disturbo di panico potrebbero temere che l’allenamento possa provocare sintomi come dispnea, tachicardia, vertigini e per questo per le prime sessioni di attività sportiva si consiglia di affiancare al paziente un esperto allenatore e se è necessario, uno psicoterapeuta.

Un follow up a sei mesi ha evidenziato miglioramenti che possono essere attribuiti in parte alle aspettative dei pazienti; per questo sarà significativo munirli di un “diario delle attività sportive” che accuratamente raccolga la storia dell’attività sportiva, monitorando l’intensità dell’esercizio; inoltre sarà opportuno stabilire un programma terapeutico, la scelta dell’esercizio e le modalità di formazione idonee. Diversi studi (Ströhle A et al, 2009; Esquivel G et al, 2008; Ströhle A et al, 2006; Broman-Fulks JJ et al, 2008) hanno rilevato una riduzione di sintomi in soggetti affetti da disturbo di panico che praticavano il cardiofitness ma non si può escludere che l’aumentata interazione sociale possa contribuire al beneficio.

Attività fisica: l’esposizione utile per ridurre gli attacchi di panico

I meccanismi secondo cui l’esercizio fisico influisca sul miglioramento psicologico non sono chiari. Da una prospettiva cognitivo comportamentale l’esecuzione dell’esercizio rappresenterebbe una sorta di “Trattamento di esposizione” in cui il paziente si confronta con gli stimoli interni temuti durante l’attacco di panico, ovvero palpitazioni, arresto del respiro, vertigini, sudorazione: mentre sperimentano attacchi di panico, i pazienti tendono ad interpretare erroneamente le sensazioni corporee come espressioni di una malattia organica che minaccia la loro vita. Non si può escludere la possibilità che questo possa correggere le cognizioni disfunzionali correlate all’esercizio, aiutando i pazienti ad interpretare i pericoli percepiti in modo più innocuo (infatti i pazienti avevano ridotto il loro esercizio a causa della paura che avrebbero sofferto di malattie cardiache, in quanto l’esercizio avrebbe potuto condurli ad attacchi cardiaci pericolosi) .

Effetti ansiolitici dell’esercizio fisico sembrano essere correlati anche a cambiamenti adattivi nel sistema nervoso centrale ma non è chiaro se questi adattamenti neuroendocrini siano correlati o meno all’esercizio. Il ruolo dell’esercizio fisico può essere significativo per i pazienti con disturbo di panico che non possono assumere psicofarmaci: l’ attività fisica potrebbe quindi essere efficacemente integrata con la psicoterapia cognitivo comportamentale. Sarebbe interessante approfondire nel futuro con studi di follow up se, continuando un regolare esercizio fisico, si potrà ridurre nel paziente il rischio di una recidiva del disturbo.

Seduzione e tradimento (2018) di Mirella Baldassarre – Recensione del libro

Seduzione e tradimento è un libro che tratta di legami, osservando l’amore attraverso i territori sconfinati della paura, della gelosia e della vergogna. L’amore come fonte di felicità e di malessere: sorprendente fonte di energia che alimenta la vita, può portare talvolta ad atroci sofferenze.

 

E questo accade quando donne e uomini violenti e bugiardi agiscono da traditori, impostori, veri truffatori dei sentimenti, artefici dei delitti del cuore. Instaurando instancabili reti comunicative e di comportamento, basate sulla manipolazione con cui avviluppano e feriscono le vite altrui, questi uomini e queste donne a volte arrivano fino a distruggerle, per un vantaggio personale.

Sono le situazioni in cui l’amore si trasforma da energia di vita in quella di morte, a volte incontenibile, tanto che il corpo reagisce con dolore, fino a mobilitare i propri organi, somatizzando, ammalandosi.

Seduzione e tradimento – Un’analisi profonda nella psiche individuale e nelle dinamiche di coppia

L’autrice dona al proprio lettore, attraverso riferimenti in chiara ottica psicoanalitica, un viaggio attraverso le esperienze emotive della seduzione e del tradimento, mostrando come le persone che attuano strategie perverse del relazionarsi, si nutrano della vitalità altrui ricorrendo alla manipolazione: attraverso le relazioni umane, da cui traggono energia per ricaricarsi, rafforzare la propria onnipotenza, intrappolano l’altro in una morsa perversa, prevaricandolo e aumentandone la sensazione di inferiorità.

Illuminando i processi psichici sottostanti il tradimento, nella mente del tradito e del traditore, l’autrice del libro Seduzione e tradimento sottolinea come sia fondamentale, per una profonda comprensione delle situazioni che possono generarsi in una coppia che fronteggia questo vissuto, considerare tutti gli elementi che giocano un ruolo: la personalità, la sua organizzazione interna, la maturità raggiunta, i sentimenti e le caratteristiche individuali dei partner della coppia.

Questo perché al di là del tradimento, esiste una serie di insoddisfazioni celate che spingono alla ricerca di qualcun altro, al di fuori, che significa dichiarare l’affermarsi di una nuova ricerca emotiva. E’ molto diverso avere un flirt, dallo strutturare una vera relazione, che s’impone come una triangolazione.

L’infedeltà scopre le fragilità, le frustrazioni subite da ciascuno, una specie di terremoto psichico che può travolgere l’esistenza delle stesse coppie, delle famiglie, coinvolgendo i figli in lotte intestine, cruenti, a causa delle caratteristiche di personalità dei partner, che non essendosi veramente incontrati, non riescono a separarsi.

Piacere, Alessitimia e Priopriocettività: come la capacità di cogliere i segnali del proprio corpo può risultare determinante nel funzionamento sessuale

Lo stretto legame tra alessitimia e funzionamento sessuale suggerisce l’importanza nella pratica clinica di implementare quelle tecniche volte all’aumento della consapevolezza corporea, come ad esempio la Mindfulness.

 

Il piacere sessuale richiede la capacità di rivolgere la propria attenzione sulle sensazioni provate dal corpo durante l’attività erotica (Costa, Pestana, Costa, & Wittmann, 2016): alcune ricerche hanno rilevato come una migliore capacità enterocettiva correlasse con un maggior desiderio sessuale nelle donne (Costa, Oliveira, Pestana, Costa, & Oliveira, 2019); contrariamente, donne con difficoltà nel desiderio e nell’eccitazione sessuale hanno riportato punteggi di consapevolezza enterocettiva più bassi (Carvalheira, Price, & Neves, 2017).

E’ facile intuire come allo stesso modo, la capacità di percepire i cambiamenti fisiologici del proprio corpo in relazione agli stimoli, così come quella di discriminare lo stato emotivo che questi elicitano, in altre parole, la capacità di discriminare le emozioni (Damasio, 1994), abbiano un ruolo fondamentale nella sessualità della specie umana.

Alessitimia e benessere sessuale

L’ alessitimia, condizione subclinica definita come una generale difficoltà nell’esperire e discriminare le emozioni, può manifestarsi anche con una generale difficoltà nel distinguere le diverse emozioni, una difficoltà a distinguere tra emozioni e sensazione fisica, così come lessico emotivo ridotto o fantasie limitate (Taylor, Bagby, & Parker, 2016; Lane, Anderson, & Smith, 2018; Sifneos, 1973).

In generale le ricerche sul rapporto tra alessitimia e benessere sessuale sembrano confermare che una mancata capacità di provare e riconoscere le emozioni abbia un effetto negativo per una buona vita sessuale, riportando nel campione maschile una correlazione con disfunzioni erettili (Madioni & Mammana, 2001; Michetti, Rossi, Bonanno, Tiesi, & Simonelli, 2006), desiderio sessuale ipoattivo (Madioni & Mammana, 2001) ed eiaculazione precoce (Michetti et al., 2007); per le donne invece alti indici di alessitimia erano associati ad un minor desiderio sessuale (Costa et al., 2019), maggiore insoddisfazione sessuale (Humphreys, Wood, & Parker, 2009; Scimeca et al., 2013) ed una frequenza più bassa di rapporti vaginali (Brody, 2003).

Evidenze sperimentali

Un recente studio di Berenguer, Rebolo e Costa (2019) si è proposto di indagare il rapporto tra capacità enterocettiva, alessitimia e funzionamento sessuale, analizzando i dati provenienti da un campione non clinico di 244 soggetti (152 uomini, 88 donne).

Tutti i partecipanti hanno compilato dei questionari self report sull’ alessitimia (Toronto Alessitimia Scale TAS-20; Bagby, Parker, & Taylor, 1994) e sull’enteroceptive awareness (Multidimensional Assessment of Interoceptive Awareness, MAIA; Mehling et al., 2012); inoltre gli uomini hanno addizionalmente risposto all’International Index for Erectile Function ( IEEF, Quinta Gomes & Nobre, 2012; Rosen et al., 1997) ed un item aggiuntivo volto ad indagare eventuali difficoltà nel ritardare l’eiaculazione nell’ultimo mese; le donne hanno invece risposto al Female Sexual Function Index (FSFI; Rosen et al., 2000) ed alla Female Sexual Distress Scale–Revised che si compone di 6 sottoscale sul desiderio, arousal, lubrificazione, orgasmo, soddisfazione, e dolore (FSDS-R; DeRogatis, Clayton, Lewis-D’Agostino, Wunderlich, & Fu, 2008).

I risultati dello studio confermano che sia per quanto riguarda gli uomini che per le donne, una miglior capacità enterocettiva e livelli più bassi di alessitimia correlano con indici migliori di funzionamento sessuale. Nelle donne, una migliore propriocezione correlava positivamente con tutte le sottoscale di funzionamento sessuale analizzate. Negli uomini invece, una miglior discriminazione dei propri stati interni risultava in una minor difficoltà nel ritardare l’orgasmo. L’ alessitimia è invece risultata collegata ad un deterioramento del funzionamento sessuale su tutte le scale, tranne quella del desiderio.

In conclusione

Vi è un crescente numero di studi a supporto dell’idea di uno stretto legame tra un buon funzionamento sessuale ed una buona capacità di interpretare il linguaggio del proprio corpo; in tal senso, la pratica clinica dovrebbe implementare quelle tecniche volte all’aumento della consapevolezza corporea come ad esempio la Mindfulness, le quali si stanno rivelando utili con problematiche di natura sessuale nelle donne (Paterson et al., 2017; Vilarinho, 2017) che, ad esempio, nei casi legate alle disfunzioni erettili (Bossio, Basson, Driscoll, Correia, & Brotto, 2018).

Per una Psicoterapia breve

Perché non ipotizzare una psicoterapia che abbia come obiettivo una profonda consapevolezza di sé e del nesso tra il proprio modo di stare al mondo (identità) ed i sintomi che la persona lamenta e lasci poi al suo lavorio autonomo, ai suoi valori, alla casualità degli accadimenti, troppo sottovalutata, e al mutare nelle varie stagioni della vita degli assetti motivazionali la scoperta di nuovi equilibri?

 

Il format della psicoterapia che abbiamo in testa è immutato da quando è stata formalizzata la psicoanalisi di Freud le cui regole costituiscono il “golden setting”, nato in una Vienna di fine ‘800 dove si andava in carrozza e c’era, oltre la sacher torte, anche l’imperatore Francesco Giuseppe; è rimasto pressoché stabile nonostante un paio di guerre mondiali, l’industrializzazione, la rivoluzione informatica, il web e soprattutto internet che ha reso accessibile a tutti moltissima informazione con cui da un lato bisogna necessariamente fare i conti rinunciando al ruolo di unici possessori e dispensatori per reinventarsi come novelli Virgilio che aiutano la navigazione, e dall’altro lato di cui ci si può avvalere rimandando ad essa e risparmiandoci un bel po’ di lavoro informativo (credo che tutto il mondo della psicoterapia sia colpevolmente in ritardo nella riflessione sul cambiamento attuale di cui libri come “The Game” di Baricco e la trilogia di Harari ”Sapiens”, “Homo deus”, “Lezioni per il XXI secolo” descrivono la portata e l’influenza su tutto il mondo della terapia) .

Per quanto riguarda invece la “mission” della psicoterapia e più in generale della psichiatria, si è se sempre cercato di conciliare due esigenze apparentemente contrastanti: da un lato il benessere soggettivo, e la libera espressione dell’individuo, dall’altro la protezione dei valori della società riconducendo alla normalità coloro che se ne discostavano creando scandalo prima ancora che pericolo. Quest’anima da “castigamatti” ci è immediatamente evidente in alcune società e regimi dittatoriali ma è presente sin dal primo “grande internamento” in cui gli ex lebbrosari trasformati in manicomi accoglievano ogni forma di devianza mentale, fisica, sessuale, culturale e politica custodendo il diverso affinchè non contagiasse il normale. E’ nel 1656 a Parigi che gli ex lebbrosari vengono trasformasti in Hopital General dove confluiscono lunatici, folli, eretici, criminali, libertini, puttane, soggetti con gravi malformazioni fisiche (mostri) e oppositori politici ( Michel Foucault 1963 “Storia della Follia nell’’età classica” ed. Rizzoli Milano).

E’, del resto, impossibile porsi al di fuori di una qualsivoglia cultura e quella in cui si è immersi fatalmente non la si riconosce. Non esiste attività umana che sia cultur-free, tanto meno la psichiatria e la psicoterapia. Si aggiunga che la cultura, pur influenzando ogni nostra espressione, lo fa senza che ce ne rendiamo conto. E’ potente proprio perché la diamo per scontata. Non è l’oggetto del discorso ma la sua premessa, la luce che illumina la scena non gli oggetti o l’azione che vi si svolge. La cultura modella al di fuori della consapevolezza i desideri e i criteri di giudizio.

Anche la psicoterapia ne è da un lato un prodotto diretto e recente (nemmeno 150 anni) e dall’altro un onesto servo idiota con l’aggravante di ritenersi intelligente. Se si escludono alcuni santoni che dichiaratamente vogliono insegnare ai propri pazienti come vivere trasformandoli in adepti, e poco conta che sia secondo i dettami del pensiero positivo, del razionalismo, dell’evoluzionismo o dell’etica evangelica della chiesa avventinzia del penultimo giorno, gli altri, diciamo così quelli seri (cui ci immaginiamo di appartenere), tentano di evitare questo rischio, e in tal senso possono persino essere più pericolosi perché inconsapevoli e poco evidenti.

Infatti per evitare il rischio GDQS (guru da quattro soldi) sono principalmente due gli argomenti e le strategie che si usano. Il primo è il cosiddetto atteggiamento “non giudicante”. Il secondo è il partire da una egodistonia del paziente fissando insieme a lui gli obiettivi. Credo che seppure vi si aspiri ciò si realizzi solo parzialmente e dunque non sia del tutto vero come la presunta ateoricità dei vari DSM (non è forse una premessa epistemologica fondante del cognitivismocostruttivismo che non sono i fatti a costruire le teorie ma quest’ultime a organizzare e valutare i fatti stessi e dunque che sia impossibile prendere contatto con una realtà senza contemporaneamente valutarla e conoscerla attraverso schemi preesistenti ad essa?). Ma prendiamo momentaneamente per buono questo intento e diamolo per realizzato soffermandoci invece sulle premesse culturali implicite che esso stesso nasconde.

L’atteggiamento “non giudicante” tanto sbandierato non afferma in fondo con forza, per usare un ossimoro, un relativismo assoluto? per cui tutto va bene, tutto è ammissibile? Attenzione non sto affermando che questo sia sbagliato (peraltro è davvero la mia convinzione personale) dico solo che bisogna essere consapevoli che anch’essa è una premessa ideologica, non meno assoluta di tante altre e che non è l’unico modo possibile di stare al mondo.

L’egodistonia e l’autodeterminazione degli obiettivi mettono al centro di tutto l’individuo, il suo benessere e il conseguente diritto ad autodeterminarsi per ottenerlo che potremmo definire come “egocentrismo edonico”. Il messaggio che passa più o meno esplicitamente è “pensa a te, ai tuoi bisogni e desideri” (ricentramento su di sé) e “fai di tutto per realizzare il tuo benessere” (assertività) con l’unica attenzione a non essere guidato solo dal principio del piacere immediato ma di tener conto anche del principio di realtà e dunque anche delle prevedibili conseguenze relazionali del tuo comportamento ma sempre per perseguire un piacere che non sia solo a breve ma anche a medio e lungo termine.

Di nuovo mi astengo da qualsiasi giudizio in proposito, volendo limitarmi a suscitare consapevolezza che questo è un modello di uomo sano tipico della attuale cultura occidentale di matrice statunitense in cui ognuno deve darsi da fare al massimo per costruire il proprio personale benessere (tralascio la banalità che lo si pensa legato all’avere piuttosto che all’essere e raggiungibile piuttosto con il fare che con il sentire) in un ambiente di libero mercato del benessere dove il fatto che ognuno persegua il proprio comporta un miglioramento complessivo per tutti.

In tale clima di darwinismo sociale, l’agonismo per l’affermazione del più forte ha preso il nome molto più presentabile, su cui c’è grande consenso, di meritocrazia che non ha più oppositori essendo considerata appunto una ovvietà che turba alcune anime belle solo quando arriva all’eutanasia dei meno performanti o alla impresentabile eugenetica mengeliana di cui, però, è premessa. Ci vorrebbe un filosofo, uno storico e un sociologo per ragionare su questi temi. Mi basta qui sollevare un dubbio circa la presunta avolorialità della psicoterapia che a me sembra invece imbevuta di un egocentrismo edonistico che vede i legami con gli altri come strumenti di soddisfacimento dei propri bisogni. Esistono culture orientali costruite su altri valori che negano esplicitamente che questa sia la strada che conduce alla felicità ( basterà pensare alla millenaria tradizione buddista che oggi molte scuole psicoterapeutiche recuperano e riutilizzano ma in una cornice valoriale diversa).

Se il setting è una eredità soprattutto della psicoanalisi, l’idea di un cambiamento possibilmente rapido, evidente e misurabile proviene prevalentemente dall’approccio pragmatico del comportamentismo e del cognitivismo. Il fatto di ipotizzare un cambiamento non presuppone in fondo che ci sia un modo sano, corretto e giusto di vivere e che tutto ciò che vi si discosta sia patologico? E non è questo il ruolo normalizzatore, di controllo che, come detto ampiamente sopra, ha sempre costituito un’ambivalenza profonda della psichiatria, da un lato attenta a promuovere l’originalità individuale e dall’altra a mantenere l’ordine costituito su mandato sociale. Alcune grandi tradizioni psicoterapeutiche in particolare psicodinamiche si pongono soprattutto come un cammino di conoscenza di sé non mostrando quell’accanimento verso il sintomo, ne facendo quelle promesse di cambiamento a breve termine con le quali la psicoterapia cognitiva si è inizialmente accreditata forse per trovare uno spazio in un mercato già affollato.

Provo a immaginare una proposta finale a partire da 6 osservazioni

  1. Si potrebbe pensare una psicoterapia che per contratto si proponga esclusivamente di fornire consapevolezza sul proprio funzionamento lasciando poi eventuali cambiamenti al paziente che, grazie a tale consapevolezza, può reinventare nuovi adattamenti alla realtà che siano armonici con i suoi vincoli cognitivi, culturali e valoriali. La terapia potrebbe fermarsi al socratico “conosci te stesso” e poi fa ciò che vuoi.
  2. Potremmo considerare la vita di ciascuno con le sue scelte, le stranezze e anche le cosiddette “patologie” non soltanto come “quanto di meglio, poveretto!!, è riuscito a fare” ma come un modo unico e originale di stare nel suo mondo? Un modo quasi da salvaguardare come la biodiversità? (credo davvero che i vari disturbi di personalità soprattutto nelle forme non estreme siano un patrimonio genetico dell’umanità che ci consente potenzialità di adattamento ad ambienti diversi). Questo atteggiamento ridurrebbe lo stigma e i secondari di autosvalutazione caratteristici dei pazienti di ogni tipo.
  3. Probabilmente se esistessero medicine in grado di cambiare il modo di stare al mondo delle persone le guarderemmo con sospetto come una minaccia alla libertà e forse le metteremo fuori legge. Forse molti di noi rifiuterebbero di assumere un farmaco che ci liberasse dai sintomi fastidiosi ma al prezzo della nostra identità. Insomma siamo affezionati e orgogliosi del nostro essere noi stessi anche se comporta dei costi.
  4. Il disagio del vivere ha accompagnato da sempre l’esistenza umana, unica caratterizzata dalla consapevolezza della propria finitezza (dopo la cacciata dall’Eden per aver mangiato appunto il frutto dell’albero della conoscenza) e a tale disagio sono state cercate le soluzioni più varie che potremmo distinguere in due grandi categorie. Da un lato quelle “distrattive” miranti a ridurre tale dolorosa consapevolezza (come se fosse possibile rivomitare la mela) che vanno dall’impegno costante nel fare (poco importa se una famiglia, un figlio, una casa, un’azienda o un progetto per la fame nel mondo), all’uso di droghe (sostanze o fanatismi) che offuscano la mente. Dall’altro quelle opposte “concentrative” (consistenti nell’abbuffarsi di mele in tutte le forme) che puntano attraverso un ampliamento della stessa autoconsapevolezza a trovare la soluzione all’angoscia che essa stessa genera. Appartengono a questa categoria la filosofia, le religioni e le fedi a cui in periodi recenti della storia umana si sono affiancate con lo stesso scopo le ideologie. E’ come se si pensasse che gli animali gestiti dagli istinti nella loro inconsapevolezza vivano bene mentre l’uomo, consapevole e costretto a sapersi mortale, viva male e solo trasformandosi in un ipotetico superuomo che possa comprendere tutto, capire il come e il senso di ogni cosa possa nuovamente riconquistare la felicità e la libertà.
  5. Talvolta la relazione terapeutica somiglia a un tiro alla fune in cui il terapeuta punta al cambiamento e il paziente di contro con pari forza mira al mantenimento (resistenze) della propria identità (l’esempio estremo è il TSO in cui il paziente per il suo bene, che però è stabilito da qualcun altro, è privato della libertà di scegliere).
  6. A tutto questo si può obiettare che il più delle volte è il paziente stesso a chiedere aiuto perché i suoi sintomi sono egodistonici. Il fatto è che praticamente sempre il paziente è egodistonico sui sintomi ma per nulla sul modo di stare al mondo che li produce (vorrebbe eliminare i sintomi restando lo stesso, non cambiando nulla) ed è questo il motivo del successo dei farmaci che sono appunto richiesti perché ritenuti “sintomatici”.

Perché non ipotizzare una psicoterapia che abbia come obiettivo una profonda consapevolezza di sé e del nesso tra il proprio modo di stare al mondo (identità) ed i sintomi che la persona lamenta e lasci poi al suo lavorio autonomo, ai suoi valori, alla casualità degli accadimenti, troppo sottovalutata, e al mutare nelle varie stagioni della vita degli assetti motivazionali la scoperta di nuovi equilibri.

Per fare ciò il modello cognitivista “scopi/credenze” è particolarmente adatto perché corrispondente alle teorie psicologiche innate negli uomini. La psicoterapia si configurerebbe come una psicoeducazione sul funzionamento degli esseri umani in generale e poi in un’esplorazione sui propri specifici modi di stare al mondo (teorie psicologiche native, scopi, credenze, emozioni, strategie). In questo lavoro di esplorazione ci si può avvalere di ogni tecnica (test, osservazioni, sogni, meditazione, ipnosi, sostanze, ecc) che funzioni con quella specifica persona.

Una volta completato il lavoro di assessment che potrebbe risolversi in un paio di mesi al massimo di lavoro in seduta e con gli home work, il tutto sarebbe restituito e discusso con il paziente che potrebbe, qualora lo desideri, per suo conto fissarsi degli obiettivi di cambiamento da perseguire con i tempi e le modalità a lui più congeniali avvalendosi dei percorsi di auto aiuto e di apprendimento di specifiche skill che su internet e in libreria abbondano o degli strumenti disponibili nella sua cultura di riferimento (preghiera, meditazione, volontà, esercizi ecc.). Nulla esclude che il paziente ritorni a distanza di mesi o di anni a fare il punto con il suo terapeuta soprattutto nelle fasi di passaggi esistenziali.

Ho l’impressione che così il terapeuta si liberebbe dell’onnipotenza ma anche del peso di responsabilità che comporta e il paziente si riapproprierebbe della propria libertà e agentività e vivremmo così tutti più a lungo felici e contenti.

Molti criticheranno questa mia proposta accusandomi di essere “cicero pro domo mea” sapendo che se sono bravino nell’assessment, sono gravemente refrattario all’utilizzo delle tecniche che pure so essere efficaci. Il guaio è che hanno ragione..

Quante emozioni! Le risposte dei grandi alle emozioni dei piccoli

Il valore delle emozioni sta nella capacità di poterle vivere liberamente ma al contempo in modo adattivo, tale possibilità è influenzata, nella primissima infanzia, dalla risposta che i bambini ricevono dal mondo degli adulti.

 

“Le reazioni emotive dei bambini si modificano nel tempo perché si modificano le loro interpretazioni degli eventi. Crescendo i bambini diventano anche più abili nel riconoscerle e nel prevederle e se nei primi cinque-sei mesi di vita ne sono completamente dominati mano a mano imparano a dominarle grazie anche all’aiuto dei loro educatori”.

(A.O. Ferraris; A.Oliverio)

I bambini provano emozioni?

I bambini sono in grado di provare emozioni sin dai primissimi mesi di vita. Il modo di fare esperienza delle stesse, cresce nel tempo assieme a loro e grazie ad un processo globale di sviluppo che comprende: aspetti cognitvi, motori e sociali.

Questi aspetti sono collegati e costituiscono un “ponte” fra il mondo interiore del bambino ed il mondo esterno. Il bambino è in grado di agire sul mondo esterno attraverso informazioni che derivano dagli stimoli ricevuti dall’ambiente circostante (sviluppo cognitivo), attraverso l’esplorazione di oggetti e spazi di vita (sviluppo motorio) ed in ultimo, non per importanza, attraverso la relazione con le figure significative presenti nel suo contesto di vita.

Il percorso delle emozioni: tra tappe di sviluppo e relazioni

Sebbene esistano specifiche tappe di sviluppo o livelli organizzativi che il bambino attraversa durante il suo sviluppo, oggi sappiamo, ad opera di numerose ricerche scientifiche, quanto sia indispensabile una rilettura all’interno di processi di negoziazione o di regolazione che avvengono con le figure significative, in primis fra madre e bambino.

La possibilità di rivedere lo sviluppo del bambino in un’ottica relazionale ci permette di rendere gli adulti consapevoli dell’importanza delle risposte che potranno fornire ai loro bambini. Tali risposte supporteranno il genitore ad assumere una posizione equilibrata fra la capacità di offrire una risposta ai bisogni primari, ovvero fisiologici come la fame, il sonno e l’igiene, ai bisogni secondari ovvero psicologici come il bisogno di vicinanza, il contatto, il gioco ed il dialogo, assieme alla capacità di supportare il processo di esplorazione.

Possiamo dunque affermare che l’esperienza di efficacia personale che il bambino vive è legata agli scambi relazionali di cui fa esperienza. In questi scambi, fin dai primissimi giorni di vita, il bambino è capace sia di segnalare un bisogno, ad esempio attraverso il pianto e allo stesso tempo di suscitare una risposta da parte dell’adulto che si prende cura di lui. Il legame consente quindi al bambino di regolare la propria emotività in maniera adattiva aprendo una comunicazione emotiva con l’altro e manifestando le proprie emozioni indipendentemente dalla loro “natura”.

Quante emozioni!

Numerose sono le emozioni che caratterizzano il processo evolutivo dell’infanzia: dalla paura, alla collera, alla gelosia o a quell’insieme di emozioni che definiamo come “positive”. Lo studio dell’emotività infantile, che pur mantenendo una quota di variabilità legata all’unicità di ogni bambino, oggi ci permette di affermare che un bambino in età prescolare è in grado di provare: empatia, capacità di offrire aiuto, paura, collera, gelosia ed un insieme di emozioni “positive”.

Risposte empatiche: dalla partecipazione all’offrire aiuto

Il bambino possiede fin dalle prime settimane di vita la capacità di provare empatia, ovvero di entrare in sintonia con lo stato emotivo dell’altro. I neonati ad esempio si attivano al pianto di un altro neonato, rispondono ai vocalizzi di adulti o bambini e tentano di “imitare” le espressioni del viso dell’adulto, mostrando in questi acerbi tentativi la voglia di entrare in contatto empatico con i propri simili. Si parla di un’iniziale forma di “partecipazione” che successivamente invece diventa un agire “intenzionale”.

Il bambino è capace di offrire aiuto all’altro già a partire dai 18-20 mesi, riproducendo modalità di comportamento simili a quelle osservate nel suo ambiente o che ha messo in atto per “auto-consolarsi”. La variabilità nella modalità di risposta sta nell’individualità di ogni bambino: alcuni rispondono prontamente, altri dopo molto tempo. Non è raro osservare come possano offrire un loro giocattolo o del cibo, portare il ciuccio al fratellino o ad un bambino più piccolo che piange, ricorrere alla vicinanza fisica o con oggetti che per lui sono gratificanti nel momento in cui coglie difficoltà nell’altro.

I segnali di disagio: paura, collera e gelosia

La paura è un’emozione comune nei bambini ed assume nel tempo caratteristiche molto variabili, basti pensare alla paura dell’estraneo o alla paura del buio. Prima dei due anni i bambini temono rumori forti e, in generale, i cambiamenti repentini che possono riguardare oggetti, luoghi e persone. Questo “tipo” di paure si caratterizzano essenzialmente per un aspetto comune, ovvero nascono in risposta ad uno stimolo. Con lo sviluppo cognitivo del bambino, la paura si lega a forme immaginarie e dunque a situazioni che non prevedono necessariamente la presenza di un stimolo scatenante, ma a situazioni che il bambino conosce poco, che non può dunque “controllare”, di cui ha sentito parlare senza farne esperienza in prima persona o che può immaginare, proiettando in esse il proprio mondo interiore.

La collera è un sentimento frequente nell’infanzia, che varia nella sua manifestazione sia per la causa e sia per la modalità in cui viene gestita e che spesso mette a dura prova la pazienza dei genitori. Le sue manifestazioni possono concretizzarsi in reazioni aggressive che il bambino orienta alla persona, attraverso comportamenti oppositivi o provocatori, o agli oggetti. Un divieto “mal posto”, ad esempio, può generare la collera di un bambino, questa è funzionale a far comprendere all’adulto che qualcosa non ha funzionato non nel divieto in sé ma nella modalità di porlo, trascurando l’impatto emotivo che questo ha avuto sul bambino. In altri casi la manifestazione aggressiva può orientarsi su se stesso, inducendo cattivo umore o risposte apatiche.

La gelosia è un sentimento con cui i genitori fanno “i conti” spesso con l’arrivo in casa di un fratellino o di una sorellina, che sembrano essere, da oggi in poi, qualcuno con cui dividere (e condividere) attenzioni, esperienze e l’affetto di mamma e papà. La gelosia nasce quando il bambino teme di perdere l’esclusività del legame che lo lega alla mamma ed al papà, non è dunque rivolta al “nuovo arrivato” quanto al legame che si vuole preservare. Non è un caso che la stessa gelosia possa nascere rispetto ad un cuginetto con il quale “condividere” le attenzioni del nonno o con la “maestra preferita” che il bambino vorrebbe solo per sé.

Le “emozioni positive” (gioia, piacere, affetto, curiosità…) assumono sfumature diverse a seconda del contesto nella quale vengono esperite (scuola, famiglia, gruppo dei pari) e sono dunque soggette all’influenza dell’adulto (genitori e insegnanti) e alle modalità educative che possono incidere sul modo di “vivere” un particolare stato emotivo. L’influenza dell’adulto e la modalità educativa, nonché il proprio modo di gestire le proprie emozioni, costituiscono un importante esempio da cui il bambino trae un modello a cui ispirarsi. Nei bambini molto piccoli l’esperienza fisica e motoria permette di esprimere sentimenti di gioia ed affetto, correre felice in un prato dopo la fine di una giornata a scuola, abbracciare il compagno di giochi appena arrivato a casa.

Adulti come “allenatori” di emozioni

Il valore delle emozioni sta dunque nella capacità di poterle vivere liberamente ma al contempo in modo adattivo. La possibilità di viverle in maniera adattiva è influenzato, nella primissima infanzia, dalla risposta che il bambino riceve dal mondo degli adulti.

Diventiamo “allenatori” del mondo delle emozioni: in che modo?

“Tieni!” – “Grazie mille! Sei stato gentile!”

“Smettila di piangere!” – “Perché piangi? Cosa c’è che non va?”

“Non devi urlare!” – “Posso ascoltarti se parli piano!”

“Non voglio giocare con lui!” – “Hai ragione, questo gioco è per i bimbi più grandi…!”

Saltella e ride… – “Ma cosa ti rende così felice? Raccontami…”

“Ti ho detto di non farlo!” – “Ti faresti male per questo voglio che tu non lo faccia!”

La famiglia che uccide. Un contributo psicoanalitico alla discussione sul caso Schreber – Recensione del libro

La famiglia che uccide, uscito per la prima volta in USA nel 1973, è un libro decisamente innovativo e di rottura per il suo tempo. Per diversi aspetti anticipa i modelli che si affermeranno negli anni a seguire e che avranno al centro l’esperienza della persona nel contesto delle relazioni familiari e la concezione dello sviluppo infantile come esito di relazioni con figure reali e specifiche piuttosto che di pulsioni universali e sovra determinate.

 

La famiglia che uccide (titolo originale: Soul murder, omicidio dell’anima) commenta una vicenda resa celebre da Freud, che nel 1911 scrisse a proposito del “presidente” Daniel Paul Schreber. Si tratta di un caso di paranoia e schizofrenia tra i più noti e studiati nell’intera storia della psichiatria, che ha suscitato particolare interesse clinico.

Nonostante le numerose pubblicazioni in proposito, il contributo di Morton Schatzman appare decisamente originale e non assimilabile ad altri pur importanti scritti su Schreber. Schatzman infatti compie un’operazione inedita: ricostruisce con la precisione dello storico e con la meticolosità del biografo le esperienze infantili e l’educazione del paziente e le confronta con i sintomi e i deliri che lo affliggeranno nell’età adulta. Lo fa esaminando delle fonti dirette e particolarmente attendibili: il diario redatto da Daniel Paul Schreber sulle esperienze vissute durante il ricovero in manicomio e successivamente da lui stesso pubblicato (Memorie di un nevropatico, 1903) e i principi educativi e la pedagogia del padre di Daniel Paul, il Dottor Schreber, descritti nei molti libri che questi scrisse.

Daniel Paul Schreber: la figura del padre

Il padre di Daniel Paul Schreber, il Dottor Daniel Gottlieb Moritz Schreber (1808- 1861), era un medico molto noto, autore di numerose opere pedagogiche che influenzarono parecchio la sua epoca e che questi applicò puntualmente anche ai suoi due figli maschi, Daniel Paul e Daniel Gustav.

I principi educativi del Dottor Schreber erano diffusi e apprezzati a quel tempo, tuttavia oggi diremmo che si basavano sulla repressione, sull’autoritarismo e sulla violenza psicologica e fisica. Entrambi i suoi due figli maschi ebbero un triste destino: Daniel Paul (1842-1911) dopo essere stato un personaggio importante, un giudice, Presidente della Corte di Appello di Dresda, “a quarantadue anni impazzì, guarì e otto anni e mezzo dopo impazzì nuovamente”. Il fratello Daniel Gustav si suicidò.

Anche se i testi pedagogici del padre di Daniel Paul erano ben noti a Freud, e sicuramente qualche conoscenza ne avevano anche altri psichiatri che si occuparono in seguito del caso Schreber, né a Freud né ad altri era venuto in mente di fare delle connessioni tra i comportamenti genitoriali del padre e la sintomatologia del figlio. Il che oggi apparirebbe scontato nei principali approcci clinici (relazionale sistemico ma anche psicodinamico: basti pensare a Le due analisi del signor Z, di Heinz Kohut, edito nel 1979).

Schatzman invece fa proprio questo. Così scrive:

Collego la straordinaria esperienza di Daniel Paul Schreber, a causa della quale fu considerato pazzo, ai metodi di educazione del padre nell’infanzia. Metto in luce e collego tra loro due gruppi di fatti – le strane esperienze del figlio da adulto e le tecniche paterne di educazione dei bambini – e faccio delle ipotesi sulle loro possibili connessioni.

L’autore precisa inoltre, di nuovo anticipando consapevolezze che si diffonderanno in seguito, che:

Gran parte di ciò che viene ritenuto come pazzia può essere visto come una sorta di adattamento a certe situazioni di apprendimento, per quanto maladattato possa essere nel mondo esterno a quelle situazioni.

La famiglia che uccide: un punto di vista differente e sconvolgente sul caso Schreber

Anche se il testo La famiglia che uccide ha come sotto titolo “un contributo psicoanalitico alla discussione sul caso Schreber è evidente come il taglio adottato da Shatzman, che è centrato sul contesto familiare e sulla sua influenza sullo sviluppo del bambino, poco abbia a che fare con la lettura del caso fatta a suo tempo da Freud e poco abbia a che fare con l’ approccio psicoanalitico originario, dove la pulsione sessuale è centrale e gli “oggetti” paiono istanze universali astratte e non storicizzate, né collocate in una relazione concreta di scambio.

Piuttosto, l’autore di La famiglia che uccide, nel suo tentativo di avvicinarsi al vissuto e all’esperienza del paziente, senza etichettarlo, sembra più vicino al filone della cosiddetta anti psichiatria di Ronald Laing. Con Laing del resto Schatzman aveva lavorato a lungo a Londra, condividendone la ricerca e il pensiero. Anche la conoscenza degli studi pioneristici di Gregory Bateson (che cita nell’introduzione al testo tra gli autori a cui si sente debitore) sulla schizofrenia può averlo influenzato. Se pure con diversi approcci e differenti riferimenti teorici, sia Laing (L’Io diviso, 1955) sia Bateson (Verso una teoria della schizofrenia, 1956) legano il processo che esita nella schizofrenia al contesto relazionale ed esperienziale reale e storico del paziente e alle comunicazioni disfunzionali in cui questi è immerso, piuttosto che a una sua idiosincratica disposizione alla patologia, come pretendeva la psichiatria tradizionale, o al complesso di castrazione e alla negazione della pulsione omosessuale di Daniel Paul Schreber nei confronti del proprio padre, come riteneva Freud nella sua analisi del 1911.

La famiglia che uccide, uscito per la prima volta in USA nel 1973, è dunque un libro decisamente innovativo e di rottura per il suo tempo. Per diversi aspetti anticipa i modelli che si affermeranno negli anni a seguire e che avranno al centro l’esperienza della persona nel contesto delle relazioni familiari e la concezione dello sviluppo infantile come esito di relazioni con figure reali e specifiche piuttosto che di pulsioni universali e sovra determinate.

Anche oggi, dopo quasi cinquant’anni, resta un libro decisamente interessante e coinvolgente. Scritto senza tecnicismi, con esemplare chiarezza e percepibile passione, può piacere ai clinici già esperti di patologie maggiori, a chi è ancora in formazione ma anche a chi ama riflettere e pur non disponendo di competenze specifiche desidera avvicinarsi con curiosità e rispetto alle forme gravi della sofferenza umana e cercare di darvi senso.

Va ricordato che l’autore si è sempre impegnato nella propria vita oltre che nel trattamento delle malattie mentali nella costruzione di una società tollerante e non repressiva, e che questo suo impegno profondamente etico, oltre che scientifico, si ritrova anche nelle pagine di La famiglia che uccide.

Struttura e contenuti del libro

La famiglia che uccide è organizzato in undici capitoli. Schatzman tratta il caso Schreber confrontando le esperienze allucinatorie del Presidente Schreber con i metodi educativi del Dottor Schreber, metodi che avevano lo scopo deliberato di soggiogare e sottomettere i bambini fin dai loro primi tempi di vita, ritenendo che la dura disciplina e l’incondizionata sottomissione e obbedienza ai genitori fossero le condizioni per ottenere una gioventù meno decadente e lassista.

Tra i tanti esempi che pongono in chiara connessione le esperienze “deliranti” di Daniel Paul con i metodi educativi del padre è difficile scegliere. Si va da attrezzi particolari, scomodissimi e sadici, che garantivano una certa postura da parte del bambino, a discutibilissime pratiche (es. alternanza di acqua calda e acqua gelata) considerate efficaci in vista di un fisico forte, a una regolare e inscalfibile repressione e sottomissione dei sentimenti e della libertà espressiva del bambino, raccomandata per di più dal Dottor Schreber a partire dalla culla fino al raggiungimento della giovinezza. E’ evidente che anche la sessualità infantile veniva repressa, scoraggiata e punita con grande durezza, e che i genitori, i padri in particolare, costituivano un’autorità assoluta, praticamente divina.

Non è casuale, ci spiega Schatzman, che la natura del delirio e delle allucinazioni di Daniel Paul Schreber fosse religiosa: questi attribuiva l’origine dei suoi gravi malesseri a Dio in persona, ed ai particolari e dolorosissimi miracoli che questi voleva compiere su di lui. Anche per questo probabilmente Schreber venne etichettato come pazzo.

Riporto un esempio puntuale in modo che il lettore abbia chiara sia la natura “religiosa” del delirio di Daniel Paul sia la corrispondenza tra le esperienze infantili e i sintomi emersi successivamente. Leggiamo nel diario di Daniel Paul:

Uno dei miracoli più terribili era il cosiddetto miracolo della compressione del petto… consisteva in una tale compressione della cassa toracica, che lo stato di oppressione causato dalla mancanza di respiro veniva trasmesso a tutto il mio corpo (Memorie di un nevropatico, pag. 151).

Leggiamo in uno dei testi pubblicati dal Dottor Schreber che questi raccomandava l’utilizzo di un congegno di sua invenzione (il raddrizzatore di Schreber) per costringere i bambini a stare seduti diritti. Si trattava di una sbarra di ferro a forma di croce fissata al tavolo al quale il bambino stava seduto a leggere o a scrivere. La sbarra esercitava una pressione contro la clavicola e la parte anteriore delle spalle per prevenire movimenti in avanti o una posizione curva. Il Dottor Schreber sostiene che il bambino non può stare a lungo appoggiato alla sbarra a causa della pressione esercitata da questo oggetto duro contro le ossa e della conseguente scomodità; il bambino tornerà così spontaneamente (ovvero costretto dal dolore!) alla posizione eretta. Il Dottor Schreber precisa che aveva fatto costruire una sbarra che si dimostrò sempre utilissima per i suoi stessi bambini. Di qui il cosiddetto miracolo della compressione del petto lamentata da Daniel Paul.

Un capitolo, l’ottavo, è invece dedicato al confronto del proprio punto di vista con l’analisi di Freud. Schatzman ricorda che Freud riteneva che la paranoia fosse la difesa contro un amore omosessuale e che la causa dell’infermità di Schreber fosse legata all’esplosione di impulsi omosessuali e incestuosi nei confronti del padre. Schatzman non contesta in modo netto l’analisi di Freud; tuttavia sottolinea che nella trattazione di questi il padre di Schreber non è considerato un agente e che la sua condotta reale nei confronti del figlio non viene mai valutata nè presa in considerazione. Pur dichiarandosi d’accordo con la lettura di Freud a proposito di un amore incestuoso di Daniel Paul per il padre, evidenzia la necessità di guardare al contesto e all’ambiente sociale e ai comportamenti dei genitori per comprendere i vissuti e le esperienze psichiche del paziente. Precisa altresì che si attiene alla sola figura del padre in quanto i suoi scritti sono la sola fonte disponibile, e si duole che altre informazioni sulla famiglia di Daniel Paul (anche Schatzman, come faremmo noi, si domanda come fosse la madre di Daniel Paul) non siano rintracciabili.

Di grande interesse e attualità è infine la connessione esplicita che Schatzman a conclusione del libro fa tra i metodi educativi raccomandati dal Dottor Schreber e l’educazione promossa dai regimi totalitari: le società totalitarie predicano obbedienza assoluta e dura disciplina, come il Dottor Schreber raccomandava nei suoi libri pedagogici. Il nazismo che non molti anni dopo esploderà in Germania sembra anch’esso dovere importanti tributi alla pedagogia del Dottor Schreber e al suo sistematico omicidio dell’anima.

Eccitazione sessuale e propensione all’uso del preservativo

Sebbene estremamente diffuso, sia come mezzo di controllo delle nascite, che come protezione da malattie sessualmente trasmissibili (STI), esistono ancora delle considerevoli resistenze nell’uso del preservativo..

 

In antichità il preservativo veniva ricavato da intestini di animali, tessuti dalla trama finissima, o addirittura metalli preziosi: il tentativo era quello di impedire all’atto sessuale di culminare nel concepimento.

Fu per la prima volta nel XVI secolo che un medico padovano, Gabriele Falloppio, documentò l’uso del preservativo con lo scopo di impedire un contagio di una malattia venerea: la sifilide.

Questo semplice ed economico dispositivo, se pur non infallibile, si è rivelato efficace contro la trasmissione di innumerevoli infezioni e patologie, tra cui il virus dell’HIV ed il papilloma virus, la cui infezione può degenerare in cancro della cervice uterina.

Uso del preservativo: in base a cosa decidiamo di usarlo?

Sebbene estremamente diffuso, sia come mezzo di controllo delle nascite, che come protezione da malattie sessualmente trasmissibili (STI), esistono ancora delle considerevoli resistenze nell’uso del preservativo: molti uomini apertamente ammettono di preferire un rapporto sessuale in assenza di condom, adducendo come motivazione una sensazione più intensa e in generale una migliore prestazione (anche in funzione del mantenimento dell’erezione).

Vi sono inoltre svariati fattori situazionali che potrebbero contribuire alla decisione di fare sesso sicuro: diversi studi si sono preposti di indagare quale ruolo il sexual arousal, o eccitazione sessuale, possa avere nella disposizione degli individui all’utilizzo del preservativo, riscontrando che gli individui in questa condizione si mostravano maggiormente disposti ad ingaggiarsi nel sesso non protetto (Ariely & Loewenstein, 2006; George et al., 2009; MacDonald, Fong, Zanna, & Martineau, 2000; Norris et al., 2009; SkakoonSparling, Cramer, & Shuper, 2016).

Secondo la cornice teorica del Reflective-Impulsive Model (RIM) di Strack and Deutsch (2004) la nostra capacità di decision making risente dell’influenza di due sistemi paralleli: il Sistema Riflessivo, contiene le nostre cognizioni esplicite, come ad esempio la conoscenza circa le STI o la conoscenza del rischio oggettivo di contrarne una non utilizzando una protezione; il Sistema Impulsivo viene invece descritto come un sistema di associazioni più elementare, costruito nel tempo attraverso l’esperienza. Un’attitudine implicita positiva verso l’uso del preservativo prevede che ogni volta che il concetto di “condom” viene attivato, nella sua rete di associazione mantenga solo legami “positivi”, che danno luogo verosimilmente alla scelta di ricorrere ad una protezione. Tuttavia, II Modello postula anche che quando la capacità della working memory di un individuo raggiunge il suo minimo, come ad esempio può accadere nel caso della sovrastimolazione che avviene durante l’attività erotica (Carvalho, Leite, GaldoÁlvarez, & Gonçalves, 2011), il Sistema Impulsivo, più economico, subentra nel modulare il comportamento, rendendo conto delle attitudini implicite, che facilmente risultano essere negative nei confronti dell’uso del preservativo.

Uso del preservativo ed eccitazione sessuale: lo studio

Partendo da questi presupposti, Wolfs, Bos, Mevissen, Peters & van Lankveld (2019) hanno condotto uno studio coinvolgendo 27 uomini eterosessuali tra i 18 e i 35 anni, in uno studio within (ovvero due diverse condizioni alle quali ogni individuo viene sottoposto in momenti differenti) per testare l’ipotesi sostenuta dal modello RIM di un’attivazione del Sistema Impulsivo in un contesto di eccitazione sessuale (video erotico) vs. in una condizione neutra (video neutro). Una misura dell’eccitazione sessuale fisiologica è stata ottenuta mediante l’utilizzo di un pletismografo penile, che registra l’afflusso di sangue ai tessuti del pene; i soggetti erano poi tenuti a riportare la propria eccitazione sessuale percepita, così come a rispondere a questionari circa le attitudini e le intenzioni esplicite verso l’uso del preservativo; le attitudini implicite sono invece state misurate mediante il test IAT (Implicit Association Test, Greenwald, Nosek, & Banaji, 2003), che misura la forza dell’associazione automatica implicita tra concetti diversi, in questo caso tra “sesso sicuro/sesso non sicuro” e “positivo/negativo”; per arricchire ulteriormente l’indagine, le disposizioni implicite sono state indagate nelle due forme di una IAT liking, ovvero una generale disposizione verso il sesso sicuro, e una IAT wanting, che si propone di essere un’espressione di intenzionalità nell’attuare il comportamento sicuro.

I risultati dello studio su eccitazione sessuale e propensione all’uso del preservativo

Compatibilmente con le previsioni avanzate dagli autori, quando i soggetti si trovavano nella condizione di normalità (non-aroused) la loro attitudine verso l’uso del preservativo si è dimostrata predetta unicamente dalle attitudini esplicite verso l’uso dello stesso; le attitudini implicite verso l’impiego del condom si rivelano influenti solo nella condizione di eccitazione sessuale, inoltre le attitudini implicite si classificavano come generalmente più negative di quelle esplicite.

Lo studio esposto, pur con le dovute limitazioni, suggerisce come in una condizione di arousal le attitudini implicite possano influenzare il comportamento risultando in una condotta responsabile o al contrario, al sesso non protetto; interventi precoci e preventivi di sensibilizzazione e familiarizzazione con il preservativo maschile e il suo utilizzo potrebbero rappresentare momenti utili alla creazione di quelle associazioni positive sia esplicite che implicite, che facilitano l’aderenza ad una condotta responsabile.

Il fiore dentro: il workshop dedicato alla mindfulness per bambini – Report dall’evento di Roma

L’8 e il 9 giugno, si è svolto all’Istituto A.T. Beck di Roma il workshop dedicato alla mindfulness per bambini sul programma Il fiore dentro, unico programma ideato e pubblicato in Italia.

La mindfulness in infanzia

Da molto tempo ormai si assiste a un’attenzione e un interesse sempre più crescente per la mindfulness, le ricerche sul tema si sono sviluppate in modo esponenziale e hanno indagato i benefici e gli effetti della pratica sulla salute. Non stupisce quindi che le applicazioni della mindfulness si siano intrecciate con il mondo della psicologia, recentemente si sta assistendo ad un’estensione della pratica consapevole in ambito educativo e organizzativo con lo scopo finale di sviluppare un’atteggiamento di promozione della salute e un aumento del benessere.

All’interno di questa cornice, nasce naturalmente un interesse circa i possibili punti di contatto tra la pratica e l’età evolutiva. Iniziano così a comparire i primi studi sul tema che ne evidenziano effetti positivi nei bambini: partendo dalle ricerche che indagano aspetti cognitivi e psicologici come una maggior gestione dello stress e strategie autoregolative passando poi da studi che si sono interessati agli effetti della mindfulness nelle popolazioni cliniche come ad esempio bambini con deficit di attenzione e iperattività.

Il programma italiano di Mindfulness per bambini

Se in altri paesi i protocolli di pratica per i piccoli sono più diffusi (ricordiamo il primo fra tutti “A Still quiet Place” di Amy Saltzman) in Italia il programma Il fiore dentro rappresenta il primo protocollo ideato e pubblicato in un libro dall’omonimo titolo (Programma Mindfulness Il fiore dentro, Erickson). Creato dalle dottoresse Antonella Montano e Sivia Villani il programma è dedicato ai bambini dai 6 ai 12 anni a cui viene insegnata la mindfulness e imparano a vivere in una modalità nuova: maggiormente consapevole e compassionevole.

Il programma è ispirato al protocollo per adulti MBSR (Mindfulness-Based Stress Redction) di Kabat-Zinn e come esso ha una durata complessiva di 8 settimane. Naturalmente nell’approccio con i bambini ciò che cambia è la durata delle pratiche nel rispetto dei loro tempi e della loro età, inoltre le diverse pratiche sono presentate in tempi diversi utilizzando un linguaggio semplice che permetta di spiegare ai bambini la tematica e gli homework associati alla settimana corrente.

Il programma è applicabile in ambito scolastico ed extra ed è pensato per piccoli gruppi con sviluppo tipico tuttavia con adeguati accorgimenti potrebbe essere implementato anche al singolo bambino.

Il workshop

Suddiviso in due giornate, il seminario ha offerto una conoscenza di base sulla pratica della Mindfulness nei più piccoli. La prima giornata è stata dedicata alla parte strettamente più teorica: dal concetto di mindfulness, ai diversi protocolli ad oggi presenti con particolare interesse all’MBSR e all’introduzione del programma Il fiore dentro, la cui struttura è stata approfondita con lavori di gruppo nella giornata successiva. Questa parte teorica ha permesso a tutti i partecipanti di avere le medesime conoscenze di base, necessarie per comprendere il razionale delle pratiche sperimentate; tra i partecipanti infatti c’era chi si approcciava per la prima volta alla pratica della mindfulness e chi invece all’estremo opposto aveva conseguito master e corsi per insegnare la pratica. Questa eterogeneità che a prima vista potrebbe sembrare vincolante, ha permesso invece un proficuo scambio di esperienza e di punti di vista che ha permesso la nascita di riflessioni interessanti sia dal punto di vista clinico che personale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Mindfulness per bambini. Come adattare la pratica per i più piccoli

 

 

Il fil rouge del seminario è stata la pratica che ha permesso di sperimentare in prima persona le attività previste dal protocollo per adulti e quelle de “il fiore dentro”. Da sessioni di yoga, alla eating e walking mindfulness è stata un’immersione totale nelle sensazione corporee, nei pensieri che divagavano, nella mente che viaggiava in modo consapevole.

Quello che è trasparito prepotentemente è stato il concetto di embodied cioè di una pratica che è prima di tutto incarnata, vissuta, sentita e che poi può essere trasmessa agli altri; in questo la docente è stata impeccabile, oltre alla preparazione teorica quello che più di tutto è stato trasmesso è stato l’amore per e della pratica. Il clima che si respirava era di totale accoglienza, eravamo noi tutti presenti in quel preciso momento con le nostre storie condivise e le nostre esperienze accolti uno ad uno da ognuno in modo libero e non giudicante.. qualcuno direbbe: la vera essenza della mindfulness.

Ultima nota di merito riguarda i numerosi materiali inviati e consegnati ai partecipanti: articoli scientifici, esempi di pratiche e di homework che hanno permesso di approfondire ancora di più le conoscenze apprese.

Il gruppo di ricerca dell’Istituto Beck sta validando il programma Il fiore dentro, se siete interessati potete comunicare la vostra disponibilità inviando una e-mail per concordare le modalità di collaborazione.

Ogni volta che pratichiamo mindfulness con i bambini è come se stessimo piantando un seme: non sappiamo con certezza se germoglierà ma nell’attesa di quel momento continuiamo a coltivarlo con amore.

Buona pratica a tutti!

Paura dei fantasmi social: ma chi sei veramente?

Nel presente contributo si analizzano alcuni fenomeni anomali fondati sui social network che si traducono nella “dematerializzazione” dell’essere umano secondo varie modalità: il “ghosting” (ovvero il fenomeno del dileguarsi, dello sparire), l’ “orbiting” (cioè la tendenza a dileguarsi da un rapporto tradizionale face-to-face pur continuando il contatto esclusivamente tramite rete) e il “deep fake” o “deepfakes” (cioè l’essere del tutto inesistente).

 

Prevale un mix feeling nei confronti dei social network da parte dei giovani. È quanto emerge da un’indagine condotta da Telefono Azzurro e Doxa Kids in occasione del Safer Day Internet 2019, su un campione di adolescenti di età compresa tra i 12 e i 18 anni.

Essi rivelano un’attrazione fatale verso i social – non ne saprebbero fare a meno – ma, al tempo stesso, ne hanno paura perché consapevoli dei numerosi rischi sottostanti cui sono esposti, fino a diventare potenziali vittime.

Nel presente contributo si analizzano alcuni fenomeni anomali fondati sui social network che, messi a fattor comune, si traducono nella “dematerializzazione” dell’essere umano secondo varie modalità – chiamiamoli pure giochi psicologici perversi cui il cosmo digitale si attaglia. Il primo è il fenomeno del dileguarsi, diventando evanescente (ghosting); il secondo è nel dileguarsi da un rapporto tradizionale face-to-face, ma continuando il contatto esclusivamente tramite rete (orbiting); infine, il fenomeno più innovativo di essere del tutto inesistente (deep fake o deepfakes).

Per l’analisi di tali fenomeni si farà ricorso al modello di agenzia fondato sul “principal-agent”. L’approccio utilizzato è quindi interdisciplinare poiché coniuga psicologia ed economia (che, come noto, esibiscono forti effetti sinergici) ed evoluzione tecnologica dei social network che, nel presente contesto, fa da collante ai primi due approcci.

L’evitamento come strategia privilegiata tra i Millennials

Il fenomeno di scomparire all’interno di una relazione – non solo di coppia, ma anche di amicizia – è in crescente diffusione tra i Millennials. Attraverso una modalità interpersonale passivo-aggressiva, vengono d’improvviso unilateralmente recisi tutti i canali di comunicazione, tipicamente le piattaforme social.

Il dileguarsi nell’ambito di una relazione costituisce un fatto stilizzato anche fra le generazioni precedenti, ma il virtuale ne diventa un naturale deputato. La fluidità e la superficialità dei rapporti online sono pessimi surrogati dei legami più profondi, che passano primariamente attraverso un rapporto face-to-face: tale iato, traslato in occasione della fine di un rapporto, riflette le medesime modalità. Alla fine del rapporto, decisa da una delle due parti, il confronto interpersonale viene evitato attraverso una più facile chiusura che preclude una parola, una spiegazione, uno scambio, una condivisione, un litigio, un saluto, una promessa. E fine sia.

Fra i Millennials il “ghostizzarsi” si sta diffondendo anche fra le amicizie. Comprensibile: amici virtuali uguale amici superficiali. Oggi ci sono, domani chissà… basta un click et voilà il ghosting.

Il Ghosting

Sotto il profilo psicologico, il ghosting può essere spesso il risultato di forme disfunzionali di attaccamento, errate relazioni affettive rispetto al proprio caregiver nel corso dell’infanzia, tipicamente il genitore. La sofferenza esperita precocemente induce alla coazione a ripetere il comportamento malsano da adulti, sebbene rovesciando il ruolo da ghosting passivo a quello attivo. La violenza psicologica viene così traslata sull’altra/o.

In quest’ultima/o mille domande sorgono ossessivamente fra le trame della sua sofferenza alla ricerca degli eventuali comportamenti sbagliati commessi, interrogandosi sulla propria adeguatezza rispetto al partner scomparso, sulla possibilità che ella/egli possa aver avuto un nuovo incontro più attraente. E, insieme, tanta frustrazione: l’inganno, l’abbandono, la parola negata, una fantasia andata in frantumi. E, quindi, senso di solitudine, autosvalutazione, senso di colpa, pensieri autodistruttivi, difficoltà a elaborare la chiusura. Una circostanza decisamente devastante.

La disfunzione – il gioco mentale, consciamente o inconsciamente sadico – si perpetua se all’improvviso epilogo sparendo segue un improvviso riapparire (zombeing): è violenza psicologica pure il passaggio dal ghosting allo zombeing. Il secondo crea shock e distress, che diventano ancor più laceranti qualora ella/egli sia ancora vulnerabile per le conseguenze del ghosting. Non ancora superato quest’ultimo e già diventa nuovamente vittima, costretta a confrontarsi con lo zombeing. L’attore di entrambe le violenze online ottiene il medesimo risultato: acquisire il pieno controllo psicologico sulla vittima e manipolarla.

L’Orbiting

Nella “creativa” costellazione della rete, una sorta di evoluzione del ghosting, è il c.d. orbiting, cioè dopo che si è deciso di chiudere una relazione, comunque desiderare di “rimanere nell’orbita” dell’ex partner. Anche questo può essere un fenomeno – oltre che manipolatorio – psicologicamente devastante per la persona abbandonata.

In tale fattispecie il soggetto interrompe il rapporto – secondo le modalità del ghosting – ma continua a interagire con l’altro/a esclusivamente nel virtuale seguendo le sue stories su Instagram, mettendo like, retweettando, ecc. Diventa cioè un soggetto puramente virtuale. E conduce il gioco. Che frustrazione e che rabbia per la vittima! Che sottile architettura psicologica, non poi così distante dal cyberstalking!

Qual è l’impulso di questo pseudo ghosting? Il primo senz’altro “lasciarsi una porta aperta” (you never know…) – comportamento anche questo vecchio come il mondo, perpetrato in forme ormai considerate “obsolete”. La seconda motivazione è che l’orbiter non si sente pronto per una relazione stabile e strutturata, ma non ha il coraggio di mollare del tutto la situazione; ne prende così prudenti distanze. Ancora, l’orbiting potrebbe essere una delle tante forme di voyeurismo nella vita degli altri: una comare virtuale, insomma!

È evidente che tra i due soggetti nelle relazioni finora illustrate prevalga un’informazione asimmetrica. Spostandoci dalla sfera psicologica a quella economica, tale rapporto bilaterale con informazione asimmetrica può interpretarsi attraverso il modello di agenzia fra due soggetti. Uno di essi – il c.d. principal – delega a un altro soggetto – il c.d. agent – talune mansioni. Di regola il principal non è in grado di controllare e verificare del tutto l’operato dell’agent, cioè che quest’ultimo esegua nel modo migliore quanto gli è stato affidato. Ciò per vari motivi, quali: il principal non possiede le conoscenze specifiche delle attività delegate o dovrebbe sostenere un costo molto elevato per monitorare con maggiore dettaglio il lavoro dell’agent. Di conseguenza, si crea una situazione di informazione asimmetrica, in quanto l’agent possiede delle informazioni (chiamate appunto informazioni “private”) che l’altro non ha. Il modello di agenzia, sebbene sia esteso a numerosissimi contesti, prende spunto dal rapporto di lavoro dove il principale è appunto il datore di lavoro e l’agente un suo dipendente. Il primo non riesce a monitorare del tutto lo svolgimento dei compiti che gli ha affidato, e quindi il secondo può perseguire propri obiettivi disallineati da quelli su cui fa conto il principale. Da qui: in primo luogo, l’informazione asimmetrica fra i due, a vantaggio dell’agente; in secondo luogo, la necessità da parte del principale di costruire delle strategie che cambino la struttura degli incentivi dell’agente, in modo che questo conformi i propri comportamenti a quelli voluti dal principale. In campo lavorativo, quest’ultimo potrebbe, ad esempio, aumentare la retribuzione del dipendente in modo da aumentare il costo-opportunità di essere licenziato, qualora egli venga scoperto nel non fare quanto richiesto dal suo datore di lavoro. L’aumento della retribuzione rappresenta quindi la strategia per cambiare la struttura degli incentivi dell’agente, finalizzandoli agli obiettivi del principale.

Nel presente contesto l’informazione dell’agent, che il principal non possiede, è la sua volontà di scomparire improvvisamente senza lasciare traccia alcuna (ghosting) e, forse, di tornare improvvisamente (zombeing) o anche di restare in orbita (orbiting) senza sapere le sue successive mosse (if any…). Nel nostro contesto, il rapporto di delega del principal/partner è interpretabile come la consegna all’altro della parte più intima di sé: confidenze sui suoi sentimenti, emozioni, vissuti, portato, speranze, aspettative dal rapporto e altri sogni a occhi aperti… Che ne farà mai l’altro di tutto questo? Difficile o impossibile da controllare attraverso il virtuale.

Vista l’opacità del contesto, come può tutelarsi il principal/partner, in possesso di minori informazioni? Nel modello di agenzia, tutelarsi da parte del principal si traduce nell’indurre un cambiamento di incentivi da parte dell’agent, in altri termini, indurlo a non barare.

Calato nel presente contesto, come può il principal determinare un cambiamento nella struttura degli incentivi dell’agent? Qui il vulnus è il cosmo digitale, è cioè il fraintendimento, diffuso prevalentemente fra i Millennials, della buona succedaneità tra lo scambio intenso sui social e lo scambio dal vivo. Allora nel ghosting tutelarsi, inducendo il cambiamento nella struttura degli incentivi dell’agent, dovrebbe tradursi in una maggiore frequentazione dal vivo che porti a sua una più approfondita conoscenza: ciò aiuterebbe a cogliere i suoi tentennamenti, la sua claustrofobia a relazioni più strette e durature, il suo esser sfuggente od ondivago, il suo narcisismo, la sua tendenza a evitare di assumersi responsabilità, la mancanza di spirito di iniziativa, il suo bluffare nel rapporto, un suo intiepidimento e minor coinvolgimento nella relazione a un certo punto, e così via. “Togliersi la benda”, non rimaner sordi ai campanelli d’allarme, essere “più realisti del re” sono tra le varie tutele per il principal. Nell’incontro vis-à-vis è raro che gli occhi ingannino… non c’è algoritmo o machine learning che tenga! Trasferendo per buona parte la relazione dalla dimensione virtuale al mondo reale, il “profilo” diverrebbe così finalmente… un volto!

Tali precauzioni, benché non saranno mai sufficienti data l’insondabilità della componente umana, possono senz’altro aiutare.

Il Deep fake

Lo stesso problema di informazione asimmetrica si ritrova nella deep fake, cioè la fake più sofisticata di nuova generazione, quella di frontiera. Il termine deriva dal c.d. deep learning (“apprendimento profondo”), che è una forma di machine learning.

La deep fake – manco a dirlo, pericolosissima – consiste nella sostituzione di volto, mimetica, voce di una persona all’interno di un video già esistente. Ciò è possibile attraverso software estremamente avanzati (il più noto è il FakeApp) di intelligenza artificiale. Il nuovo Deal di questo uso selvaggio dell’intelligenza artificiale è talmente significativo e pervasivo che la disinformazione rischia di decadere in caos fondato su panico, incertezza, erronei apprezzamenti, bolle, comportamenti erratici dei mercati e delle Borse, spostamenti del consenso politico, impatto sulle relazioni internazionali. Tutto ciò sul piano macro o sistemico.

Ma la deep fake può funzionare egregiamente anche nelle relazioni interpersonali a due. Ad esempio, attraverso la deep fake un soggetto inesistente, creatura dell’intelligenza artificiale, tramite video può esercitare con successo un gioco di seduzione nei confronti di un altro in “carne e ossa”. La tecnologia ormai è in grado di creare amori e storie in grande stile deep fake a forte detrimento di ingenue e incaute vittime.

Nel 2018 il popolare sito Mashable definisce la deepfakes come “l’ultima crisi morale di Internet”, dando una definizione puntuale del fenomeno: è un nuovo tipo di video con face-swap (scambi di viso) realistici. In altri termini, si tratta di elaborazioni fondate su di un software che trova un “terreno comune” tra una coppia di visi per incollarli insieme. Non si tratta di un semplice fotomontaggio, bensì di un video. Quando questo mix fra immagini risulta di buona qualità, la metamorfosi artificiale rasenta la perfezione sincronizzando movimenti, espressioni, labiale.

La tecnologia da utilizzare è relativamente facile e con la produzione di software sempre più agevoli da adoperare, diventa semplice costruire deep fake “fai da te”, servendosi del volto di una qualsiasi persona. Di conseguenza, manipolazione digitale e bluff sono destinati a diffondersi.

Ma come è possibile sopravvivere in un ambiente in cui non ci si può fidare di quanto si ascolta e/o si vede?

Ed ecco riemergere il problema dell’informazione asimmetrica e dei conseguenti “bidoni” (“lemons” è il termine usato dall’economista statunitense George Akerlof, Premio Nobel per l’economia nel 2001) in cui si può incappare quando le qualità intrinseche di qualcosa – in questo caso di qualcuna/o – non sono osservabili.

Tali asimmetrie informative rinviano al rapporto di agenzia appena ricordato: in questo contesto estremo, l’agent, che ha il controllo del gioco grazie alle maggiori informazioni di cui il software dispone rispetto al principa … non esiste neppure! Chi l’avrebbe mai detto ad Akerlof, la cui intuizione sui “lemons” lo porta al Nobel, che i “bidoni” avrebbero raggiunto tali circostanze!
Infatti, la tecnologia è talmente fine e granulare che è difficile per la vittima scoprire la truffa sottostante. Qualora, prima o poi, essa emerga – e il “bidone” si rivela come tale – le aspettative del soggetto raggirato vengono disattese e il coinvolgimento frana nel vuoto più totale, le ricadute psicologiche possono di conseguenza essere molto gravi. L’impatto emotivo potrebbe essere deflagrante. Quale shock scoprire che si stava flirtando o costruendo fantasie amorose e forse anche programmi per l’avvenire con un software!

Può la vittima in qualche modo tutelarsi? Certamente, in parte sì, attraverso il “sano dubbio”. Formulando dentro di sè sospetti, interrogativi e perplessità sul come mai non giunga prima o poi l’occasione per un incontro face-to-face dal vivo, che sostituisca la perpetua modalità virtuale. Di conseguenza, può tutelarsi cercando di spostare l’arena del rapporto dal video al mondo reale. La spregiudicatezza dei tempi deve infatti indurre l’altra/o a un continuo stato di allerta; a prestare orecchio al suono di tanti campanelli d’allarme quando si instaurano tali tipi di rapporto evanescenti. Sul piano collettivo, la tutela deve venire dalle policy e prima fra tutte dalla cybersecurity.

Insomma.. “L’amore non è bello se non è litigarello”, ma nel virtuale può diventare spietato!

La fine dell’adolescenza e la nascita della personalità (e dei suoi disturbi)

La fine dell’adolescenza segna il momento in cui possiamo riconoscere un’organizzazione di personalità che tende a restare stabile nel tempo e può evolversi in forme psicopatologiche.

 

A prescindere da orientamenti clinici, prese di posizioni su schemi e tratti, dimensioni e categorie, penso che tutti concordiamo sul fatto che sia impossibile divenir adulti senza incorrere in uno o più dei criteri diagnostici per i disturbi di personalità.

La fine dell’adolescenza: 4 costrutti da tenere in considerazione

Il fatto che in adolescenza, nel mentre la nostra corteccia prefrontale e molti altri circuiti neuronali completano il loro sviluppo, nel mentre lottiamo per gestire un sistema ormonale e muscolo-scheletrico quasi del tutto maturo, nel mentre apprendiamo migliaia di item pedagogici e ci sperimentiamo nel caos delle relazioni interpersonali… noi riusciamo in qualche modo a “sfangarla” e ad adattarci, resta per me un vero e proprio paradosso evolutivo!

Per chi lavora frequentemente con tardo-adolescenti e/o giovani-adulti questa premessa ha un senso assai pratico. E posso ad esempio pensare a come Daniela riportasse frequentemente un’irrisolvibile dicotomia tra esser pratica ed esser emotiva nel relazionarsi agli altri, a come Alessia non riuscisse neanche ad esprimere il suo disagio sino al punto di doverlo scrivere innanzi a me, a come Michele proponesse idee per lui chiare e scontate, ma che, ogni volta, lo allontanavo dalle persone per lui significative. Le sabbie mobili delle relazioni con familiari e pari sono al centro di tutte queste storie e sono state abilmente concettualizzate dai grandi della psicoterapia. In questo breve contributo vorrei riflettere su come attraverso le lenti di quattro costrutti transdiagnostici e sovraordinati sia possibile guardare “clinicamente” a questa fase di vita. I quattro costrutti a cui mi riferirò sono: self-in-relation; decentering; compassion; metacognizione.

Self-in-relation: l’interdipendenza tra identità e relazioni

Tutta l’opera di Sidney Blatt (2008) ruota attorno all’interconnessione ed interdipendenza tra quel che lui chiamava self-definition (lett. auto-definizione) e relatedness (lett. interconnessione), ovvero tra attaccamento e separazione, dimensione soggettiva ed intersoggettiva, condivisione ed agency. Questo grande autore, forse poco noto in Italia, ha fatto da trait d’union tra le geniali intuizioni di Sullivan sul processo di personificazione e di Bowlby sui pattern di attaccamento e le moderne concettualizzazioni presenti ad esempio nel criterio A dell’Alternative Model of Personality Disorder del DSM-5 (First, Skodol, Bender & Oldham, 2018). L’idea di fondo, apparentemente banale, è quella che nello sviluppo della personalità vi sia un continuo ed inestricabile scambio tra un dominio personale di auto-definizione ed uno interpersonale di etero-definizione (Cheli, 2018). Dunque la sofferenza psicologica, inquadrata come disturbo di personalità, sarebbe riconducibile ad una difficoltà nell’integrare questi due domini.  E la tarda adolescenza rappresenterebbe lo stadio evolutivo in cui le dimensioni connesse alla self-definition (autonomia, iniziativa, auto-espressione, etc.) si interconnettono con quelle connesse alla relatedness (fiducia, cooperazione, socializzazione, etc.), esponendoci al rischio che questo processo di integrazione fallisca o si polarizzi su uno dei due domini definiti da Blatt.

In quest’ottica espressioni psicopatologiche esternalizzanti, internalizzanti o riconducibili a disturbi del pensiero sono un tentativo disadattivo di modulare la propria personalità (Kotov et al., 2017). Utilizzo volutamente cluster così ampi come esternalizzante, internalizzante e disturbi del pensiero poiché le evidenze scientifiche accumulate dalla moderna psicopatologia e le evidenze cliniche rilevabile nel lavoro con tardo-adolescenti e/o giovani-adulti rendono non solo inutile ma spesso nocivo l’uso di categorie diagnostiche. L’elevata instabilità neurobiologica e personologica dovrebbe consigliare ai clinici di focalizzarsi su modelli di funzionamento generali (es. criterio A dell’AMPD) e dimensioni transdiagnostiche (es. criterio B dell’AMPD).

Decentering: distinguere se stessi dai propri stati emotivi

Non molti ricordano come l’origine teorica della Mindfulness-based Cognitive Therapy prenda le mosse dagli studi di Bernard e Teasdale (1991) sulla definizione di un modello sistemico di comprensione delle interazioni tra cognizione ed emozione. Tale modello cercava di descrivere la complessità delle nostre rappresentazioni e la rigidità delle condizioni psicopatologiche nel canalizzare la nostra esperienza. Ne emerse quella che Teasdale e colleghi (Teasdale et al., 2002) definirono la metacognitive awareness (lett. consapevolezza metacognitiva o meta-consapevolezza), ovvero quel processo che ci permette di osservare criticamente se e in che termini siamo consapevoli dell’esperienza, decentrando noi stessi dai nostri stati mentali e riducendo la reattività a questi.

Se pensiamo alla quotidiana difficoltà nel decentrarci dai nostri vissuti e contemporaneamente al funzionamento neurobiologico di tardo-adolescenti e/o giovani-adulti non possiamo non concordare sulla centralità della metacognitive awareness nel lavoro terapeutico! A complicare le cose giungono ad esempio processi “in corso d’opera” come il sistema dopaminergico della ricompensa (Galvan, 2017). Negli adulti il livello di attivazione dopaminergico è proporzionale alla ricompensa. Fai bene e starai bene, fai molto bene e starai molto bene, e simili. Negli adolescenti le cose non vanno così! Media ricompensa, media attivazione come negli adulti, ma (e qui i problemi) ad alta ricompensa corrisponde altissima attivazione e a bassa ricompensa abbiamo addirittura un decremento generale del sistema dopaminergico. In breve il cervello è programmato per il sensation-seeking e per rifuggire (percependole come negative) le esperienze con minima ricompensa!

Quel che un terapeuta troppo aduso a comportamenti maturi potrebbe confondere per resistenze, sistemi motivazionali inappropriati o non consoni al setting ed al ruolo, sono spesso processi “grossolani” di assimilazione ed accomodamento legati alle precarie capacità di decentramento. Nella misura in cui la terapia permette di mentalizzare progressivamente questa ricerca di un piagetiano equilibrio dinamico il setting è salvo, con buona pace dei teorici dell’attaccamento! Queste impasse divengono piuttosto ottimi spunti per l’utilizzo di pratiche di mindfulness, in particolare finalizzate al monitoraggio esperienziale.

Compassion: i tre flussi della compassione

Nel favorire processi di integrazione tra self-definition e relatedness ed al contempo un progressivo equilibrio tra assimilazione ed accomodamento di propri e altrui stati mentali la Compassion Focused Therapy (CFT) offre degli utili strumenti psicoeducativi ed esperienziali (Gilbert, 2009). Da un lato permette infatti di inquadrare il vissuto tramite tre sistemi motivazionali facilmente e chiaramente comprendibili (sistema protezione della minaccia, ricerca di stimoli e risorse, calmante) e la sofferenza psicologica esplorando le minacce percepite e i meccanismi protettivi più ricorrenti. L’utilizzo di una prospettiva terapeutica evoluzionistica che presume esplicitamente la sensatezza delle scelte protettive del paziente piuttosto che declinare distorsioni o irrazionalità cognitive, favorisce sia la costruzione dell’alleanza terapeutica sia una comprensione personalizzata della sofferenza psicologica. Dall’altro lato l’uso di tecniche esperienziali che pongono il paziente in una condizione accettante favorisce l’emergere in seduta di processi di decentramento e l’acquisizione di pratiche di self-help. Nello specifico l’utilizzo oculato degli esercizi connessi ai tre flussi della compassione (degli altri verso di noi; da noi verso gli altri; verso noi stressi) offre un supporto nel districarsi tra le complicate relazioni interpersonali.

I processi di auto-critica, con i frequenti e ineludibili correlati di colpa e vergogna, rappresentano una dimensione trasversale e ricorrente nell’esperienza di tardo-adolescenti e/o giovani-adulti che conduce a quello che Paul Gilbert definisce l’attacco di sé basato sulla vergogna (in opposizione alla correzione di sé compassionevole). Laddove questi processi si instaurano non solo pongono la persona in uno stato di sofferenza a prescindere dal pattern psicopatologico, ma rappresentano un gravoso ostacolo allo sviluppo di integrazione e decentramento. Recenti studi sembrano infatti mostrare come l’attività della corteccia prefrontale, connessa ai processi di mentalizzazione e prosocialità, sarebbe modulata almeno in parte dalle risposte del nervo vago, a loro volta modulate dalla variabilità interbattito che gli studi di CFT utillizzano come outcome dei propri interventi (Petrocchi & Cheli, 2019).

Metacognizione: verso un senso integrato di sé

Come ci spieghiamo l’insorgenza in età tardo-adolescenziale dei primi esordi di disturbi psicotici e di personalità? Come ci spieghiamo la ricorrenza in psicopatologia di una incapacità ad anticipare i propri e gli altrui stati mentali? Per comprendere il funzionamento tardo-adolescenziale e delle connesse forme psicopatologiche dobbiamo riconoscere come l’esperienza si organizzi in una sorta di continuo processo dialogico interno ed esterno alla persona, in cui l’emergere di un sé sufficientemente integrato corrisponde allo sviluppo di una personalità sufficientemente adattativa.

Questa integrazione corrisponde a quel che in forme diverse è definita metacognizione, ovvero l’abilità di pensare il pensiero, di mentalizzare i miei e gli altrui stati mentali e costruire una visione complessa della mia personale esperienza del e nel mondo. L’esito più rilevante e pragmatico di questa funzione squisitamente umana è quel che Antonio Semerari (1999) definì mastery metacognitiva, ovvero la capacità di utilizzare tutte le variegate funzioni della metacognizione nell’operare scelte e dar senso alla propria vita. Attenzione però! Questa mastery non rappresenta una sorta di livello finale di apprendimento, quanto piuttosto un’area di funzionamento soggetta ad oscillazioni evolutive e frammentazione stato-specifiche. Se prendiamo ad esempio un adolescente risulta chiaro come il variare del funzionamento metacognitivo, suscettibile allo sviluppo neurobiologico, pedagogico, etc., e allo stato mentale qui ed ora esperito condizioni le singole funzioni metacognitive (differenziazione, monitoraggio, etc.) e la mastery nel suo insieme. E tale condizionamento lo possiamo e dobbiamo monitorare e modulare in vivo durante la seduta. In un sistema-individuo come quello plasmato dall’adolescenza diviene centrale la comprensione (di nuovo evolutiva e stato-specifica) dell’esperienza incarnata e di come la dimensione emotiva e procedurale della self-definition e della relatedness sia da promuovere con tecniche corporee ed immaginative (Dimaggio, Ottavi, Popolo, & Salvatore, 2019).

Il Lavoro Psicoterapeutico

Lavorare con tardo-adolescenti e/o giovani-adulti è senza dubbio stimolante. Nella mia personale esperienza richiede tre abilità assai difficili, ma avvincenti, da tener assieme. Innanzitutto è necessario modulare in maniera a volte parossistica il nostro stile terapeutico tra un paziente e l’altro e spesso tra uno stato mentale e l’altro. Si deve dunque far tesoro dell’assunto di Jeremy Safran per cui sia impossibile non incorrere in fratture relazionali. Secondariamente, la varietà evolutiva ed esperienziale di quanto i pazienti riportano richiede di essere sufficientemente eterodossi e dunque pronti ad adattare le strategie a quel che avviene in seduta. Questo non significa abdicare a fattori aspecifici di efficacia, quanto piuttosto tenere a mente e perseguire molti target con metodi specifici. Infine, la plasticità neuronale ed esperienziale di questi utenti rende lapalissiamo come non siamo noi a decidere quale sia l’obiettivo e quale sia l’outcome. La psicoterapia è una pratica relazione-specifica che dovrebbe promuovere l’adattamento degli individui, con le loro specificità, al loro specifico, plasmabile futuro.

Sentire osservando, osservare sentendo nella robotica

Robotica e percezione: i ricercatori del MIT hanno costruito un sistema robotico dotato di un braccio meccanico provvisto di un sensore tattile chiamato GelSight e di una telecamera per la registrazione delle informazioni visive provenienti sia dal braccio che dall’oggetto manipolato.

 

I cuccioli di animale e i bambini imparano a “sentire” e a conoscere il mondo che li circonda primariamente tramite la manipolazione, il tatto e la vista.

Quando interagiamo con un oggetto, nel giro di pochissimi secondi, la vista e il tatto ci mettono nelle condizioni di conoscerlo, carpendo le sue varie sfaccettature come la sua posizione nello spazio, la forma, la dimensione, il peso e la texture (Yau, Pasupathy, Connor et al., 2009).

Come riconosciamo gli oggetti

Il processo di riconoscimento degli oggetti infatti avviene in modo multisensoriale, grazie cioè al coinvolgimento di più canali sensoriali.

La visione rappresenta il canale sensoriale cruciale per l’identificazione e la collocazione dell’oggetto nello spazio, la propriocezione per la derivazione della posizione della mano rispetto l’oggetto con il quale si desidera interagire e infine il tatto che ne raccoglie le informazioni fisiche tramite il contatto di esso con la superficie esterna del corpo.

La combinazione e l’integrazione delle informazioni provenienti sia dalla vista sia dalla percezione aptica – l’insieme della propriocezione e tatto – ci offre l’impareggiabile e unica opportunità di compiere le azioni più semplici per esplorare e interagire con l’ambiente esterno in modo efficace e diretto: la modalità aptica infatti ci permette di percepire l’oggetto fisico e le sue singole parti, mentre quella visiva ci aiuta a perfezionarne la visione generale fondendosi con questi segnali tattili e propriocettivi in una sola volta (Li, Zhu et al., 2019).

Una persona ad esempio potrebbe da una parte descrivere le proprietà fisiche di un oggetto che ha in mano tramite le sensazioni aptiche che afferiscono al cervello dai suoi recettori dell’epidermide ma allo stesso modo, essa potrebbe immaginare le sensazioni che avrebbe nel toccare quell’oggetto semplicemente osservandolo (Yau, Pasupathy, Connor et al., 2009).

Cosa può fare un robot per riconoscere gli oggetti

In linea con quanto appena affermato, questa integrazione nell’elaborazione cerebrale tra le informazioni sensoriali aptiche e visive ci consente di utilizzare in modo interscambiabile le informazioni salienti passando o dal canale visivo o da quello propriacettivo per riconoscere e manipolare gli oggetti; tuttavia, mentre negli esseri umani questa modalità è connaturata ed opera in modo automatico nel processamento delle informazioni sensoriali, ciò risulta particolarmente complesso quando si tenta di ricostruire e trasferire questa nell’ambito della robotica (Li, Zhu et al., 2019).

Come si può “installare” in un robot la modalità cross-sensoriale apitica-visiva per l’identificazione, il riconoscimento e la manipolazione degli oggetti, così come avviene negli esseri umani?

Può ad esempio un robot selezionare il giusto gesto motorio fine per sollevare un oggetto dalla sua impugnatura a partire dalla previsione del suo peso e della sua localizzazione spaziale?

Li, Torralba e Zhu, del laboratorio di Computer Science and Artificial Intelligence del Massachussets Institute of Technology di Boston, hanno tentato di rispondere e risolvere tale problematica partendo primariamente dallo studio dell’associazione tra visione e tatto, introducendo un modello predittivo multimodale per costruire apparecchi robotici in grado di imparare a vedere tramite il tatto e imparare a sentire tramite la vista, inferendo segnali tattili realistici e plausibili da input visivi e predicendo direttamente quale e quale parte di un oggetto è stato toccato a partire da input tattili.

I ricercatori del MIT hanno costruito un sistema robotico dotato di un braccio meccanico provvisto di un sensore tattile chiamato GelSight e di una telecamera per la registrazione delle informazioni visive provenienti sia dal braccio che dall’oggetto manipolato.

È bene precisare che lo sviluppo del modello predittivo multimodale da parte dell’equipe di lavoro di Boston ha richiesto l’utilizzo di un database e di un sistema di machine learning, il Generative Adversarial network (GANs), che utilizza immagini visive realistiche e informazioni tattili raccolte su un range ampissimo di oggetti, per generare immagini multisensoriali, che negli esseri umani potremmo dire equivalenti alle rappresentazioni mentali dell’oggetto nel cervello umano, caratterizzate da precise proprietà fisiche e caratteristiche visive, informazioni circa ciò che fa nel cervello quell’oggetto.

Ogni “immagine”, costituita dalla combinazione di dati visivi e tattili, è stata realizzata a partire da video di oggetti, video frammentati in più di 300 sequenze, in modo tale da realizzare “rappresentazioni” di oggetti con specifici dati visivi associati poi a quelli tattili per gli stessi oggetti, inseriti nel database e nel sistema GANs.

I risultati dello studio

Tali rappresentazioni hanno costituito il magazzino di memoria, di partenza, del braccio robotico per la codifica dei dettagli sia dell’oggetto che dell’ambiente circostante così che mentre il braccio robotico operava nell’ambiente, il modello comparava ciò con il quale il braccio interagiva con le “rappresentazioni” nel magazzino permettendo al robot di localizzare l’oggetto e avere una scala percettiva del tocco appartenente a quello stesso oggetto per il suo successivo riconoscimento (Li, Zhu, 2019).

Questa complicata procedura fa sì che il robot possieda grazie al canale visivo un’ immagine o “rappresentazione mentale” ad esempio di una tazza e successivamente possa inserire informazioni aptiche per identificare l’area in cui il modello previsionale si potrebbe aspettare che la tazza venga toccata per poter essere utilizzata.

Il braccio robotico in questo modo può pianificare efficacemente l’azione fine da compiere sulla tazza  per manipolarla (Li, Zhu et al., 2019).

Per quanto riguarda la produzione di immagini visive a partire da informazioni tattili, il modello ha analizzato la moltitudine di dati tattili presenti nel database calcolando la forma, il materiale e il peso della porzione di interazione dell’oggetto, come se “immaginasse”, un momento prima di afferrarlo, l’interazione con esso.

Ad esempio se il modello analizza dati aptici riguardanti una scarpa, esso potrebbe produrre un’immagine visiva quella porzione della scarpa con maggiori probabilità di interazione per un’azione di tocco e grasping.

Il modello predittivo di percezione multisensoriale sviluppato dai ricercatori del MIT, che verrà presentato prossimamente alla conferenza di Computer Vision and Pattern Recognition in California, consente di predire nell’ambito della robotica l’azione, la manipolazione e l’interazione con un oggetto nell’ambiente in una modalità cross-sensoriale a partire sia dal canale visivo che da sensazioni tattili integrati tra loro.

Robotica e percezione: cosa ci aspetta in futuro?

Nonostante vi siano ancora molti dettagli visivi come il colore o di tipo fisico come la morbidezza o la rigidità di un oggetto che il sistema non è ancora in grado di elaborare per compiere tali predizioni d’interazione, a parere degli autori (Li, Zhu et al., 2019) il modello in futuro potrà predire tali caratteristiche dell’oggetto solo a partire da un’immagine visiva dello stesso, senza averne avuto esperienza sensoriale, a seguito di un’ottimizzazione e miglioramento che consentirà di analizzare dati incerti o non presenti nel suo database.

Lo straordinario apporto di tale ricerca risiede nell’aver sviluppato per la prima volta un modello in grado di passare rapidamente attraverso più canali sensoriali a disposizione per interagire in modo efficace nell’ambiente e compiere azioni semplici nel movimento, ma estremamente complesse da realizzare e riproporre in un sistema robotico.

Come stanno veramente le sex workers?

Cosa c’è di strano quando si parla di sex work e sex workers? C’è di strano che si parla molto poco di come stanno realmente le sex workers (uso il femminile dato l’esigua percentuale di sex worker maschi).

 

Il problema risulta ancor più evidente da queste due considerazioni incrociate: per chi vuole legalizzare totalmente la prostituzione, ci riferiamo ad un’attività che nessuno si auspicherebbe svolgesse la propria figlia (mai sentita e vista, tra l’altro, una bambina o una ragazzina dichiarare questa aspirazione); dall’altro lato si tende a condannare la prostituta assimilandola al mestiere che svolge come intrinsecamente immorale, come se questo servizio prescindesse da una precisa domanda sociale.

I dati sullo sfruttamento della prostituzione

Due forme di ipocrisia che riguardano, da prospettive opposte, lo stesso problema. Questa ipocrisia “parla” chiaramente di qualche scotomizzazione storicamente sedimentata che ancora oggi è difficile mettere a fuoco e che produce di continuo un pensiero fortemente ideologizzato sia da una parte che dall’altra della polarizzazione. Questo accade anche perché il tema della prostituzione si incrocia con mille questioni e mille livelli differenti e quindi fare confusione è molto facile.

Innanzitutto, qualche dato grezzo, soprattutto dati stimati dal momento che è praticamente impossibile vista la posizione al margine sociale di tali attività, censire e conoscere il fenomeno nelle sue reali dimensioni.

Il Codacons ci consegna un aumento dei clienti, che hanno raggiunto quota tre milioni (il riferimento è ai clienti abituali ndr), così come delle prostitute, passate da 70.000 a circa 90.000. Nemmeno la crisi economica ha intaccato il fatturato della prostituzione che risulta cresciuto del 25,8%, passando dai 2,86 miliardi di euro del 2007 ai 3,9 miliardi di euro annui del 2016 (fonte Codacons)

A questi dati, probabilmente fortemente sottostimati, occorre aggiungere un’altra verità statistica: prostituirsi è nella stragrande parte un’attività oggettivamente niente affatto libera e volontaria. Una larga fetta di queste sex workers è intimamente legata ad un’economia criminale “ufficiale” detta traffico della prostituzione. Una forma di schiavismo reale.

I dati dell’OIM e Caritas Migrantes stimano solo le donne vittime di tratta tra le 16.000 e le 29.000. (Alessia Rocco, Sex Worker: autodeterminazione, diritti, lotta alla tratta. Tentativi di dialogo tra schieramenti contrapposti – Tesi di Laurea, Scienze della Formazione, Roma Tre, 2017)

A questa categoria occorre iscrivere specialmente le sex workers africane, cinesi e in parte dei paesi poveri dell’est, dove lo sfruttamento è documentato e esplicito. Esiste poi una enorme galassia di sex workers, specie quelle provenienti da paesi dell’est Europa ma anche Sud America, e a queste aggiungiamo anche le italiane, introdotte alla prostituzione da agenzie specializzate al loro reclutamento, per esclusive ragioni economiche, in poche parole per povertà o per ambizioni economiche. Qui lo sfruttamento è probabilmente molto più camuffato, ma estremamente probabile in quanto inserito in organizzazioni molto strutturate ed efficienti.

Prostituzione libera: un lavoro come un altro?

Non sono però riuscito a reperire dati sul fenomeno “volontario”, spontaneo, se vogliamo vocazionale, se così possiamo chiamarlo. Ma è proprio su questa dimensione libera e volontaria che dobbiamo aprire una riflessione seria e non ideologica, ma basata su esperienza e dati. Secondo quali criteri riusciamo a definire veramente “libera” e volontaria un’attività come la prostituzione? Quanto questa scelta può realmente dirsi tale?

Secondo una recente sentenza della Corte di Appello di Bari: «Prostituirsi non è mai una scelta libera» (Linkiesta, 10 giugno 2019)

Ma pur ammettendo in astratto l’esistenza di una quota parte, di sex workers non direttamente sottomesse alle logiche di questa economia criminale e quindi “libere” da essa, comunque si tratta di un lavoro che si iscrive in una logica non solo mercatista, ma anche ricattatoria, che dal lato del lavoratore risponde unicamente a bisogni economici impellenti o ad ambizioni economiche. Pur essendo, ipoteticamente, “libere” dalla tratta, le sex workers indipendenti non lo sono dalle logiche di sistema che ci hanno convinto che un lavoro vale l’altro perché pecunia non olet. Ma è proprio vero che il sex work è un lavoro come un altro?

Cosa compra il cliente della sex worker?

Se dal lato della sex worker l’ambizione di ricchezza è talmente impellente da entrare in un meccanismo di questo tipo, dal lato sociale la crescente richiesta di esperienze sessuali a pagamento risponde ad una enorme domanda di benessere che evidentemente non è esperibile e reperibile in altri contesti sociali.

L’aumento esponenziale del fenomeno dal punto di vista puramente di marketing richiede di spendere qualche riflessione su cosa generi questa penuria di benessere nei nostri attuali stili di vita. Ed utilizzare una prospettiva “economica” non è necessariamente operazione riduzionistica: qui parliamo di economia in senso molto ampio, quindi anche di economia psichica.

L’economia è però la scienza sociale che studia l’allocamento delle risorse scarse. In questo caso la risorsa scarsa di cui si parla è l’intimità, intesa qui come merce sostitutiva della sessualità, ma forse anche come merce sostitutiva dell’amore. Dobbiamo dunque dedurre che i nostri stili di vita rendono l’intimità una merce rarissima e le esperienze piacevoli ad essa legata ancor più rare. Insomma la ricerca di intimità che sostituisce una sessualità reale, compiuta: si compra l’illusione di un’intimità dal momento che la vera sessualità latita.

Chi si prostituisce, si sa, dà piacere ma non ne riceve, vende un prodotto dal quale si deve necessariamente separare per poterlo vendere adeguatamente, lo deve quindi trasformare per rappresentare al proprio cliente l’immaginario che lui sta comprando. In sostanza deve recitare in modo credibile, deve rappresentare quell’immaginario con una certa attendibilità. In fondo chi compra intimità da una sex worker sta comprando teatro di pessima o buona qualità in un corpo reso inerte.

Chi compra intimità da una sex worker compra un pacchetto di esperienze, atmosfere, fantasie, sensazioni, emozioni che sono la teatralizzazione, più o meno credibile, di una esperienza sessuale. E non è un caso che una delle caratteristiche più gettonate dalle escort è la cosiddetta “girlfriend experience”: la sex worker deve mimare il più possibile una dolce fidanzatina innamorata e vogliosa che si mette devotamente al servizio delle fantasie del suo cliente.

Le sex workers in fondo riproducono, come una sorta di evergreen un po’ consumato, l’illusione di un rapporto tra i generi totalmente gerarchizzato e sotto controllo e senza sorprese, dove l’intimità e il piacere sono certi e non sottoposti alla volubilità del caso, alla stanchezza mortale del dopolavoro, alla depressione diffusa nelle nostre condizioni e delle nostre relazioni, ai problemi di comunicazione, al tempo del relax che manca sempre, e così via.

Tutto questo interroga i nostri più comuni stili di vita e ci spiega l’ascesa verticale di questo mercato.

Ma come stanno le sex workers?

Abbiamo detto che nessuna sex worker riceve piacere dalle esperienze che vende, che procura. La scissione del corpo è la condizione necessaria e iniziale per poter svolgere questa attività.

Il sesso nella prostituzione, come nella pornografia, da cui trae trame immaginarie, è un sesso ipercodificato e socialmente sovrascritto, frutto di una necessaria scissione in origine che si trasmette sulla stessa linea di frattura: dal corpo all’immaginario colonizzato. La condizione affinché tale immaginario ipercodificato sia adeguatamente nutrito è che la sex worker si annulli, separi il proprio corpo dalle proprie emozioni, e diventi docile strumento nelle mani altrui.

Questo in che modo ha a che fare con la dignità umana? Il corpo teatralizzato, scisso e inerte della prostituta ha a che fare con la dignità umana o no?

Possiamo perciò affermare che il sex work è un lavoro come un altro e che la dignità umana non è più calpestata rispetto a tanti altri lavori, socialmente più accettabili, nei quali si perde ugualmente dignità e salute?

Qui le posizioni nel dibattito sociale divergono e di molto.

Chi pensa che il sex work e la prostituzione siano un lavoro come un altro, afferma che la sex worker sia la proprietaria del proprio corpo e che quindi ha il diritto di farne ciò che vuole in una società nella quale vendere e comprare qualunque cosa è atto di libera affermazione di sé. Il principio di libertà e di autodeterminazione in tal caso appare come principio assoluto e astorico, e che l’unico problema delle sex workers sia lo stigma morale che la società infligge loro. Si trascura in questa visione ipocritamente libertaria che il corpo di cui la donna si dichiara proprietaria è un corpo sul quale i codici sociali hanno già profondamente scritto ed inciso la loro precisa narrazione. Ed è una storia di dominio e di sfruttamento, una storia dove l’immaginario erotico, anche femminile, è stato totalmente colonizzato e reso consumistico.

Chi pensa che il sex work non sia un lavoro come un altro, crede invece che questa preliminare e necessaria perdita di dignità, scritta nella scissione sopra descritta, seppure socialmente e perfettamente sintonica rispetto al disagio diffuso esistente, non sia mai condizione di una libera scelta, ma che faccia di questo lavoro un lavoro dove la componente alienante è tale da ledere mortalmente in sequenza dignità e salute.

Prostituzione e trauma

È di questo avviso Ingeborg Kraus, psicoterapeuta esperta in trauma e prostituzione, che alla Conferenza sul mercato del sesso organizzata da TALITA il 2 ottobre 2017 afferma:

La vagina può essere usata come uno strumento di lavoro? Dal punto di vista medico non è possibile (…). Lo sviluppo sano e sostenibile di una società dipende dalla salute mentale delle donne. E la salute mentale delle donne è direttamente connessa al rispetto dei loro diritti. (fonte Micromega, Maria Concetta Tringali, Prostituzione: note su un dibattito che non trova sintesi Aprile 2018)

Si dovrebbero ascoltare le storie di vita delle sex workers per comprendere meglio di cosa stiamo parlando. Non solo quelle vittime di tratta e di sfruttamento, la maggioranza di loro: lì è troppo facile dimostrare la perdita di dignità e salute.

No, si dovrebbero ascoltare le storie delle cosiddette sex workers libere e volontarie. Capire da quali esperienze, da quali contesti sociali, da quali culture e da quali rapporti familiari, provengono. Cosa rende loro “capaci” di operare questo taglio reificante con il proprio corpo tale da renderlo merce.

Scopriremmo, molto probabilmente, nella violenza delle relazioni e delle identificazioni, nelle culture incestuali, nei codici di possesso, nella deculturazione radicale dei codici narcisisitici e consumistici della nostra epoca (come testimoniato dalle storie delle prostitute minorenni di alto bordo), come sia potuta avvenire la collusiva colonizzazione dell’immaginario che ancora oggi ripropone la prostituzione come un atavismo culturale ancora non superato.

Ed allora difendiamo le sex workers dalla condanna morale e dallo stigma sociale, ma senza omettere la verità su quanto il sex work sia esperienza alienante e patogena dove ad essere profondamente lesionata è la dignità umana e quindi la salute mentale.

Come l’attività cerebrale influisce sulle generazioni successive

Oggi si sa che in natura l’ereditarietà può essere influenzata da fattori epigenetici, ovvero relativi ai meccanismi che modificano l’espressione e la funzionalità dei geni senza modificare la sequenza del DNA. In che misura ciò derivi dall’ambiente e quanto influenzi l’uomo non è però ancora del tutto chiaro.

 

Lamarck fu uno dei primi ad usare il termine “biologia” così come lo intendiamo oggi. Egli formulò una teoria che fece scalpore all’epoca, chiamata poi per l’appunto lamarckismo.

Questa teoria ipotizza che tutti gli organismi abbiano un’innata predisposizione ad evolversi in una direzione definita, un obiettivo assoluto, e che la forza motrice di questi cambiamenti sia la pressione adattiva delle condizioni ambientali. Per esempio, le giraffe avrebbero avuto in origine un collo più corto, ma il continuo sforzo di questi animali per raggiungere foglie più alte ne avrebbe lentamente allungato le vertebre, una caratteristica fisica poi trasmessa alla progenie.

Da Weismann all’epigenetica

La teoria lamarckiana non sopravvisse all’avvento del darwinismo, che propose la selezione naturale come processo fondamentale per l’evoluzione della specie. Non fu però Darwin, che condivideva alcune ipotesi di Lamarck, a non ammettere l’ereditarietà delle caratteristiche acquisite, ma bensì August Weismann. Il biologo tedesco propose la netta distinzione fra le cellule aploidi precorritrici dei gameti, le uniche considerate in grado di trasmettere caratteristiche alle generazioni successive, e quelle somatiche “monouso” in grado solo di ricevere ed utilizzare le informazioni genetiche transgenerazionali. Questo concetto viene chiamato barriera di Weismann.

Oggi si sa che in natura l’ereditarietà può essere influenzata da fattori epigenetici, ovvero relativi ai meccanismi che modificano l’espressione e la funzionalità dei geni senza modificare la sequenza del DNA (Morgan, Sutherland, Martin, & Whitelaw, 1999). In che misura ciò derivi dall’ambiente e quanto influenzi l’uomo non è però ancora del tutto chiaro. A molti l’idea che l’attività cerebrale dei genitori influenzi l’informazione trasmessa ai figli può sembrare assurda. Tuttavia, ci sono diversi articoli sul modello animale che suggeriscono come la risposta neuronale possa modificare la struttura neurale ed il comportamento delle generazioni successive (Dias & Ressler, 2014). Un recente studio ha mostrato come questo avvenga in minuscoli vermi chiamati Caenorhabdi elegans, in cui l’attività del sistema nervoso parentale trasmette alla progenie piccole molecole di RNA in grado di regolare l’espressione genica (Posner, et al., 2019).

La RNA interference: comunicazione transgenerazionale dei processi neurali

Uno dei meccanismi di regolazione implicati nella catena gerarchica di eventi che fanno sì che le proteine vengano prodotte con il giusto tempismo e nelle giuste quantità è la RNA interference, un processo in grado di silenziare specifici geni attraverso l’azione di brevi tratti di RNA non codificante a doppia elica chiamati small interferring RNA, o siRNA. Il loro scopo è eliminare determinati RNA messaggero, o mRNA, che codificano e portano informazioni dal DNA ai siti della sintesi proteica, a loro complementari.

I risultati della ricerca mostrano come, nei neuroni, la sintesi di siRNA dipendenti dalla proteina ligante RDE-4, importante nella risposta a tratti di RNA a doppia elica, per almeno 3 generazioni aumenti questi RNA endogeni e influisca sull’espressione genica. Ciò avviene attraverso le proteine argonaute HRDE-1, che uniscono e guidano i siRNA verso i loro bersagli, tra i quali gli mRNA relativi al gene saeg-2, implicato nella chemiotassi sotto stress, ovvero il movimento di un organismo in risposta ad uno stimolo chimico in condizioni ambientali sfavorevoli.

Quello che viene proposto nella ricerca è un meccanismo di comunicazione transgenerazionale dei processi neuronali che infrange la barriera di Weissmann. Il futuro ci dirà in che modo diverse attività delle cellule nervose possano influenzare l’informazione ereditata, e se o come ciò possa essere adattivo per la specie e per gli individui.

Tipi di passione e solidità del rapporto di coppia

La passione è definita come una forte inclinazione verso un oggetto, una persona o un’ideologia che si ama e che la persona trova importante e significativa, in cui si investe tempo ed energia.

 

Il Modello Dualistico della passione di Vallerand presuppone l’esistenza di due tipi di passione: armoniosa e ossessiva.

Passione armoniosa e passione ossessiva: cosa sono

La passione armoniosa (HP) è una tendenza motivazionale che porta gli individui a dedicarsi liberamente e deliberatamente all’attività e deriva da un’interiorizzazione della passione nella propria identità. Pertanto, gli individui con passione armoniosa non sentono un incontrollabile bisogno di impegnarsi nella loro attività appassionante, ma piuttosto scelgono liberamente di farlo. Inoltre, gli individui con passione armoniosa sono in grado di decidere quando e se impegnarsi nelle attività appassionate.

La passione ossessiva (OP), invece, si riferisce ad una pressione interna che porta gli individui ad impegnarsi in un’attività che si ama e deriva da un’interiorizzazione controllata dell’attività nella propria identità. Pertanto, le persone con passione ossessiva si sentono controllate dalla loro attività appassionata e non possono fare a meno di impegnarsi, dal momento che l’attività è fuori dal loro controllo e può assumere uno spazio sproporzionato nella vita di una persona, di conseguenza può indurla a trascurare le altre aree della propria vita. Sebbene gli individui con passione ossessiva possano trarre piacere dalle loro attività appassionate, possono comunque subire conseguenze negative.

Tipi di passione e..tipi di relazione

I processi di interiorizzazione (autonomi o controllati) conducono allo sviluppo iniziale di un tipo predominante di passione, tuttavia entrambi i tipi di passione sono presenti all’interno dell’individuo in diversi gradi e si spostano a seconda del contesto. In effetti, diversi fattori personali o sociali possono provocare temporaneamente un tipo di passione o un’altra. Per esempio, prima di una competizione, una persona con un passione armoniosa predominante per il suo sport potrebbe decidere di mettere da parte altri aspetti della sua vita per concentrarsi completamente nella competizione (che è una caratteristica della passione ossessiva), ma tornerà alla sua o il suo tipo originale di passione una volta che la competizione sarà finita.

Ad esempio, anche la passione romantica può essere armoniosa o ossessiva: passione armoniosa fa riferimento a una tendenza motivazionale in cui le persone scelgono volontariamente di impegnarsi in una relazione romantica con il proprio partner, non si sentono obbligati e la loro passione romantica è in armonia con altri ambiti della vita;  al contrario, la passione ossessiva si riferisce ad una pressione interna che spinge le persone a perseguire una relazione romantica con il loro amato partner e si sentono controllati dalla passione. Quest’ultimo tipo di passione può creare conflitti con altri domini della vita e arriva a condizionare fortemente l’individuo.

Quale passione è più utile al rapporto di coppia?

Lo studio, pubblicato sull’ International Journal of Applied Positive Psychology, vuole indagare come i due tipi di passione (armoniosa e ossessiva) si rapportano in una coppia, esaminando sia le conseguenze positive che quelle negative, ma anche l’impatto che possono avere sulla solidità del rapporto.

I partecipanti allo studio erano 205 canadesi francesi (150 donne, 52 uomini, 3 anonimi) attualmente coinvolti in una relazione romantica. L’età media era pari a 30,83 anni (SD = 11,22 anni). La durata media della relazione era di 6 anni e 11 mesi (SD = 8 anni e 11 mesi). Per quanto riguarda lo stato delle relazioni, il 23,4% era sposato, il 55,1% viveva con il proprio partner senza essere sposati e il 21,5% si frequentava. I partecipanti sono stati reclutati su Facebook attraverso un annuncio pubblicitario rivolto agli individui attualmente coinvolti in una relazione romantica.

I risultati mostrano che una passione armoniosa condiziona la coppia con emozioni positive durante il perseguimento di attività comuni e che rafforza positivamente la relazione, al contrario la passione ossessiva condiziona la coppia con emozioni negative durante lo svolgimento di un’attività comune e di conseguenza prevede una solidità precaria della coppia. Questi risultati suggeriscono che i due domini di passione danno un contributo importante e unico alle relazioni romantiche.

La raccomandazione standard per le coppie è che per migliorare la relazione è necessario fare più cose insieme, al contrario questa ricerca mostra che le coppie ossessivamente appassionate (sentirsi obbligate) si impegnano in attività che non li appassionano e di fatto i risultati possono essere dannosi. Passare necessariamente del tempo insieme non è la risposta. È necessario scegliere di fare qualcosa che ognuno ama. L’energia positiva che proviene dall’eccitazione condivisa è anche parte di ciò che rafforzerà la connessione della coppia. Condividere le attività armoniosamente appassionate con il partner può essere uno dei modi più diretti per migliorare la relazione di coppia, ma solo se questa condivisione è reale e non forzata.

Quando è il terapeuta a piangere

Devo ammettere che ho sempre ritenuto che nell’immaginario comune lo psicoterapeuta non piangesse. Dai, ma che c’hai da piangere? Ma se piangi tu, come puoi essere d’aiuto al paziente? Ma poi, la situazione è così disperata da far piangere pure il terapeuta?

 

Quando un paio di settimane fa mi sono ritrovata ad allungarmi sulla poltrona per afferrare un Kleenex davanti alla paziente, nei 37 secondi precedenti, questi sono stati i pensieri che hanno fatto capolino prepotentemente nella mia mente. Ma poi mi sono detta: che male può fare? Non sarei autentica nel trattenermi di fronte a questo racconto. E poi, sii sincera, ormai le lacrime stanno per uscire e non puoi farci proprio nulla.

Presa dall’amore per la scienza, salutata la paziente, mi sono catapultata su Pubmed e ho iniziato la ricerca dal mio smartphone: “therapist crying, tears, crying”, etc. Mi trovo davanti pochissimi risultati, che tra poco cercherò di riassumere.

Innanzitutto, penso sia condivisibile l’idea che le risposte emotive del terapeuta siano una parte non trascurabile nel trattamento, giusto? Ed il pianto è proprio una tra queste, giusto? Quindi ci saranno begli studi sul tema, giusto? Sbagliato! Eppure il pianto del terapeuta in terapia si è guadagnato anche un nome “proprio” con tanto di sigla: therapists’ crying in therapy, TCIT.

Il pianto del terapeuta: la letteratura sull’argomento

Come dicevo, la prima cosa che mi salta agli occhi è appunto il numero esiguo di ricerche (che mi porta a pensare di essere “una su un milione”). Poi inizio a leggere il primo abstract di un gruppo californiano: il 72% dei 684 psicologi intervistati riporta di aver pianto in terapia (Blume-Marcovici et al., 2013). Evvai! -penso- non sono sola!

Continuo nella lettura e -non me ne vogliano gli psicoanalisti- un sorriso dolceamaro è apparso sul mio viso leggendo le parole di Nancy McWilliams:

[…] (il lettino) permette al terapeuta la libertà di rispondere internamente al materiale del paziente senza autocoscienza: fantasticare, rispondere affettivamente, persino piangere senza preoccuparsi che il paziente sia distratto dai processi interni dalla reattività emotiva del terapeuta (p 242).

Ma come, io mi sono anche soffiata il naso davanti alla paziente!

In realtà, proseguendo scopro che Fairbairn ha lasciato scorrere qualche lacrima salutando il suo celebre paziente Harry Guntrip (per la cronaca, entrambi psicoanalisti come la McWilliams):

Mentre stavo finalmente lasciando Fairbairn dopo l’ultima sessione […] Alzai la mano e subito la prese, e improvvisamente vidi alcune lacrime che scorrevano sul suo viso. Ho visto il cuore caldo di quest’uomo con una mente fine e una natura timida (p.445).

Menomale -mi dico nuovamente- non sono l’unica.

Ma poi praticamente nulla più, un alone di mistero cala sul tema del pianto, quasi come se fosse qualcosa che non accade o, peggio, di cui vergognarsi.

Solamente tre case studies che giungono alla conclusione che il TCIT fosse terapeuticamente appropriato o addirittura benefico per il trattamento (Counselman, 1997; Owens, 2005; Rhue, 2001); una ricerca qualitativa nella quale 9 sui 10 terapeuti intervistati riportano di aver ritenuto utile il therapists’ crying in therapy nel comunicare genuinità o nel facilitare l’espressione emotiva del paziente (Jane Waldman, 1995); poi qualche altra ricerca si è susseguita su questioni etiche nella pratica clinica, ma senza un focus specifico riguardo il pianto.

Per (mia) fortuna, qualche ricerca invece focalizzata sul TCIT negli ultimi anni è stata fatta.

Il pianto del terapeuta: chi piange di più? E’ sinonimo di empatia?

Devo ammetterlo, mi capita di commuovermi abbastanza facilmente ed anche per questo ho sempre ritenuto di essere parecchio empatica. Inoltre pensavo che il mio essere “una piagnona” fosse uno dei motivi per i quali ho finalmente usato anche io quei fazzoletti nella scatoletta di cartone – tipicissimi. E invece pare che la mia ipotesi fosse sbagliata! Per quanto l’empatia sia risultata correlata positivamente con il pianto nella vita quotidiana, quest’ultimo non era predittivo del therapists’ crying in therapy. Quindi no, i terapeuti col pianto facile guardando “Ghost” o “Le pagine della nostra vita” non è detto che piangano in terapia.

Terapeute vs terapeuti

Lo stesso vale per il sesso biologico: se è vero che gli uomini piangono meno frequentemente delle donne nella vita quotidiana (non è questo il luogo per discutere dei possibili motivi sottostanti!), non sono emerse differenze di genere significative (Blume-Marcovici et al., 2015).

Terapeuti giovani vs terapeuti esperti

Pare che i terapeuti più esperti piangano di più. No, non è colpa (solo) dell’età che avanza. Piuttosto sembrerebbe che –come accade per la self disclosure– il clinico più esperto si senta più sicuro ed a proprio agio con le proprie capacità e per questo più libero di esprimersi ed affidarsi al proprio giudizio clinico e meno ai manuali (Blume-Marcovici et al., 2013; ‘t Lam et al., 2018). Ma per il momento si tratta solo di speculazioni che andrebbero approfondite con ricerche future.

Pianto del terapeuta: quali sono le ricadute per la terapia?

È emerso che la maggior parte dei terapeuti non discuta del Therapists’ Crying In Therapy con il paziente; chi invece lo fa è propenso a riportare un miglioramento nella relazione terapeutica.

D’altro canto, molti (66%) dei clinici intervistati che non hanno discusso del TCIT con il paziente hanno comunque riportato un miglioramento nella relazione (Blume-Marcovici et al., 2015). In realtà sembrerebbe che in questi casi le lacrime siano state veicolo di qualcosa che le parole non avrebbero potuto comunicare (Blume-Marcovici et al., 2015). Vi sentite confusi? Anche io.

Gli autori di questa ricerca suggeriscono di valutare sempre in base al benessere del paziente ed al beneficio che potrebbe o non potrebbe trarne: non discutiamo del Therapists’ Crying In Therapy per liberarci di un peso o per scusarci della (eventualmente da noi percepita) figuraccia.

Un gruppo di ricerca danese suggerisce invece che quando le lacrime sono percepite come segno di empatia, calore, affidabilità possano avere un effetto positivo sul processo terapeutico; quando il TCIT viene visto come segno di incompetenza, l’effetto negativo sull’alleanza potrebbe essere molto potente (‘t Lam et al., 2018).

Sarebbe interessante –e al contempo non proprio semplice- individuare i fattori che moderano l’attribuzione di significato al Therapists’ Crying In Therapy: occhi umidi? Lacrime che fluiscono? Singhiozzi? Relazione terapeutica?

Pianto del terapeuta: se e come parlarne con il paziente

Ma quindi ne parlo o no con il paziente? Tendenzialmente la risposta è sì. Ma soprattutto, più che parlarne sempre e comunque e a tutti i costi in maniera esplicita, credo che la cosa più importante sia capire se il nostro pianto ha acquisito un “senso terapeutico” monitorando l’impatto che ha sul nostro paziente. Il terapeuta può evocare il feedback con domande dirette, basandosi quindi su una dimensione verbale (“Come si è sentito nel vedermi piangere?”), oppure affidandosi alla propria lettura della reazione del paziente, avendo cura che i marker somatici siano affidabili.

Infine, ma non di certo per minore importanza, valutare il Therapists’ Crying In Therapy alla luce della formulazione del caso, sostanzialmente avendo ben chiari nella nostra mente gli schemi del nostro paziente.

G. ha 21 anni ed ha perso il padre solo qualche mese fa. G. si descrive come una persona da sempre responsabile, matura, che si prende cura di tutti e che ritiene di non dover mostrare la propria sofferenza agli altri, soprattutto se fanno parte della famiglia, perché “se faccio vedere che sto male, l’altro penserà che io non possa aiutarlo e supportarlo”. Mi racconta anche di come una collega psicologa qualche settimana prima le avesse fatto notare la sua “glacialità” (cit.) nel raccontarle quelle esperienze dolorose. L’immagine che segue è ben impressa nella mia mente: G. mi sta raccontando degli ultimi momenti con suo padre, mi allungo per prendere al volo un fazzoletto, G. mentre continua il racconto nota il mio gesto, mi guarda negli occhi, mi sorride e prende un fazzoletto subito dopo di me. Le lacrime iniziano a rigare le sue guance. Salutandoci sulla porta mi dice “Non avevo mai raccontato tutte queste cose a nessuno, ora può dire di conoscermi un po’”.

Non ho parlato con lei del mio pianto, ma il suo feedback non verbale è stato chiaro: se piangi tu, posso farlo anche io.

Pianto del terapeuta: una sorta di tabù..

Sinceramente, se non mi fosse capitato in prima persona probabilmente non avrei mai approfondito l’argomento del TCIT. Quanti tra i colleghi ne hanno sentito parlare durante gli anni della formazione universitaria? O negli anni della scuola di specializzazione? Spererei in molti, ma forse solo qualche fortunato.

In effetti, ci si concentra così tanto sull’espressione emotiva dei pazienti che finiamo per tralasciare la nostra. Mi stupisce che non pochi terapeuti abbiano dichiarato di ritenere il pianto del terapeuta poco etico e un segno di mancanza di professionalità, il che risulta in contrasto tra l’altro con i risultati emergenti (‘t Lam et al., 2018). Addirittura solo un terzo dei terapeuti ha discusso del proprio pianto con un supervisore e circa un quarto non ne ha mai parlato con nessuno (‘t Lam et al., 2018).

Forse però, vista la frequenza con cui accade (72% in Blume-Marcovici, et al., 2013; 57% in Pope et al., 1987), potrebbe essere un argomento parte della formazione di base, anche perché molti di noi probabilmente non saprebbero bene come affrontarlo e si potrebbero sentire in imbarazzo nel raccontarlo.

Insomma, io riassumerei così i punti salienti:

  • Non sentitevi soli, fate/farete parte del 70-80% dei terapeuti che hanno pianto/piangeranno almeno una volta nella loro carriera.
  • Molto probabilmente il vostro paziente e/o la relazione terapeutica ne beneficeranno (a patto che ne parliate).
  • Non avete fatto del male al vostro paziente piangendo, al massimo non ne ha tratto alcun beneficio (Sinclair, 2011).
  • Se il pianto del terapeuta è legato in modo particolare a tematiche personali del clinico, meglio rifletterci e lavorarci in separata sede.
  • Giovani terapeuti, lasciatevi andare al pianto (regolato)!

Il confine tra religione, delirio mistico e psicoterapia

Il modo di “guardare” dello psicologo deve necessariamente astenersi da ogni credo politico e religioso per poter curare il paziente secondo una totale laicità intellettuale: il rischio di imporre al paziente valori etico-sociali altri deve continuamente essere valutato. Questo è il presupposto fondamentale da cui partire per ragionare sul confine tra credenze religiose, delirio mistico e psicoterapia.

 

L’Art. 4 del codice deontologico degli psicologi (2006) sottolinea che nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità (in Calvi, 2012).

Con questo articolo, esplicitando il valore dei principi fondamentali della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo all’interno dell’agire professionale, si è inteso raggiungere il doppio obiettivo di definire i principi etici della professione e la sua natura laica.

Delirio e religione: la distinzione del DSM 5

Capiamo come sia fondamentale che il modo di “guardare” dello psicologo debba necessariamente far riferimento alla letteratura scientifica e, dunque, astenersi da ogni credo politico e religioso per poter curare il paziente secondo una totale laicità intellettuale. Ma il rischio di imporre al paziente valori etico-sociali altri, quindi sostituire la sua capacità critica invece di aiutarla a svilupparsi, deve continuamente essere valutato.

Questa premessa è il presupposto fondamentale da cui partire per ragionare sul confine tra credenze religiose, delirio mistico e psicoterapia.

Il DSM 5 (2013) descrive i deliri come un disturbo dell’attenzione (ridotta capacità di dirigere, focalizzare, sostenere e spostare l’attenzione) e della consapevolezza (ridotto orientamento nell’ambiente), che si sviluppa in un breve periodo di tempo (solitamente ore o giorni). Rappresenta una variazione rispetto alla condizione di base, tende a fluttuare in gravità nel corso del giorno ed è associato ad almeno un altro deficit cognitivo (per esempio disturbo di memoria, orientamento, linguaggio, abilità visuo-spaziali, percezione) (ibidem). Sono convinzioni fortemente sostenute che non sono possibili di modifica alla luce di evidenze contrastanti e il loro contenuto può comprendere una varietà di temi (per es., di persecuzione, di riferimento, somatico, religioso, di grandezza) (Ibidem). Tra questi, c’è il delirio mistico in cui il soggetto sperimenta un particolare, esclusivo e intimo rapporto con la divinità e in qualche modo ne entra a far parte (Lorenzini e Coratti, 2008).

L’importanza del fattore culturale per la diagnosi

Di fronte a questo tipo di esperienza potrebbe essere a volte difficile riconoscere il confine tra un delirio e un’esperienza profonda di fede. Di fatto, lo stesso DSM 5 (2013) sottolinea l’importanza di considerare il contesto sociale in cui il paziente vive per poter distinguere i sintomi psicotici da modalità di risposte sancite dalla cultura di riferimento. Per esempio, in alcune cerimonie religiose, un individuo può riferire di sentire delle voci, ma queste in genere non persistono e non sono percepite come anormali dalla maggior parte dei membri della comunità di appartenenza (in DSM 5, 2013). Inoltre, fattori culturali e socioeconomici devono essere considerati, in particolare quando l’individuo e il clinico non condividono lo stesso background culturale e socioeconomico (Ibidem). Idee che sembrano deliranti in una cultura (per es., arti magiche) possono essere comunemente diffuse in un’altra: in certe culture, allucinazioni visive o uditive con un contenuto religioso (per es., sentire la voce di Dio) rappresentano una parte normale dell’esperienza religiosa (ibidem).

Anche in questo caso può sembrare limitante e anche poco utile rimuginare su quanto i contenuti dell’esperienza del nostro paziente siano deliranti o meno se poi perdiamo di vista una riflessione sul “se” sono funzionali o meno al suo benessere. Di fatto, dovremmo chiederci se il contenuto delle sue convinzioni rappresentano una libera espressione di sé o il risultato di un intollerabile fallimento il quale mette in discussione aspetti centrali della propria identità che si cercano di salvare (Lorenzini e Coratti, 2008).

Delirio: la sua funzione nella sofferenza dal paziente

L’importanza data dal contesto culturale e sociale per riconoscere il delirio risale agli inizi del ’900, epoca in cui si definisce il delirio come giudizio incrollabile che non può essere accettato dalle persone della stessa classe, educazione, razza ed età della persona che fortemente lo sostiene (Muscillo et al., 2005). Tuttavia, questa definizione non sembra evidentemente esaustiva: alcune opinioni molto personali possono non essere condivise dalla propria comunità, ma non possono essere considerate un fenomeno delirante. Se quindi non è derivabile dal retroterra culturale o educativo della persona, deve assumere più importanza la sua convinzione falsa e incorreggibile che nasce all’interno del processo morboso e in esso trova la sua giustificazione al di là del rapporto con gli altri. Rispetto a esso, alla comunità, il delirio rappresenta la rottura con il mondo, il fallimento dell’intersoggettivo (ibidem). Per Jaspers (1959), il delirio è un’esperienza originaria e inderivabile, un’alterazione del rapporto con la realtà, che coinvolge tutta la personalità; ancora più importanza viene data all’incontro intersoggettivo nell’approccio antropoanalitico, in cui il delirio è la soluzione, inevitabile, a un “errore” dell’incontro interumano, a un progetto mondano ristretto e coartato. La solitudine, l’isolamento e la distanza appaiono, infatti, gli aspetti centrali di molti deliri: l’essere nel delirio è un modo peculiare di essere nel mondo, non corrispondente all’essere nell’amore, bensì all’essere nella fuga, in un separarsi dalla realtà (Muscillo et al., 2005).

Il delirio entra in gioco quando è necessario conservare o recuperare capacità predittiva di fronte alla minaccia di perderla drammaticamente; il bisogno di darsi a tutti i costi una spiegazione nasce proprio dal trovarsi di fronte all’inspiegabile (Lorenzini e Coratti, 2008).

In altre parole anche il delirio è, come sempre, la migliore soluzione che i pazienti sono riusciti a trovare per dare un senso al loro tema doloroso. Di fatti, anche per comprendere il funzionamento del paziente delirante dobbiamo porci la classica domanda che per i cognitivisti rappresenta la guida della terapia: “a cosa gli serve?”. E non ci stupiremo se anche il contenuto stesso dei deliri non è mai casuale, ma sempre coerente con lo scopo di alleviare quel dolore. Comprendere ciò, credo sia il punto di partenza imprescindibile di tutte le psicoterapie: è il primo passo per dare senso alla sofferenza e porsi obiettivi di cambiamento che ridiano al paziente centralità nelle sue scelte di vita.

Delirio mistico: quali sono i fattori predisponenti

Sembrano esserci dei fattori che predispongano alla manifestazione di sintomi deliranti.

La vulnerabilità è un fattore predisponente e precipitante nella manifestazione del delirio: è proprio nella resistenza/impossibilità di cambiare i propri schemi malgrado la loro manifesta disfunzionalità che identifichiamo l’essenza della vulnerabilità al disagio mentale in generale e alla dimensione delirante in particolare (Lorenzini e Coratti, 2008). Il livello di vulnerabilità è sicuramente determinato dalla qualità della relazione d’attaccamento: l’attaccamento sicuro è un fattore predittivo non soltanto in quanto favorisce lo sviluppo della mentalizzazione, ma anche per altre dimensioni quali la possibilità di separarsi (ibidem).

Sembra ormai sufficientemente appurato che l’individuo, nel corso della vita, stabilisca relazioni di attaccamento con figure diverse. Queste relazioni si sovrappongono, per alcuni aspetti, nella funzione di assicurare all’individuo un senso di benessere, sicurezza e fiducia nel mondo che lo circonda.

I dati di ricerca disponibili sull’argomento hanno evidenziato come una relazione significativa col proprio partner, o una profonda esperienza di fede o, ancora, il sostegno del terapeuta che si pone come “base sicura” per consentire al paziente l’esplorazione dei propri modelli di attaccamento, possano apportare cambiamenti significativi nel modello generale dell’attaccamento dell’individuo, e produrre effetti benefici su aspetti dell’esperienza dell’individuo non direttamente implicati in quella specifica relazione (Cassibba, 2003). Ciò avviene perché le esperienze relazionali nuove che confermano le aspettative dei modelli già consolidati vengono immediatamente inglobate nelle rappresentazioni già esistenti. Gli eventi disattesi o che si discostano dalle previsioni del modello, vengono, invece, percepiti inizialmente come eccezioni; qualora tali esperienze si verifichino con una certa ripetitività e consistenza, diventa necessario costruire nuovi copioni e metterli in rete con quelli già esistenti. A questo punto si è prodotto un cambiamento nell’organizzazione dei copioni e, di conseguenza, nelle loro connessioni. Le ripercussioni di tale cambiamento sulla rappresentazione generale dell’attaccamento dipenderanno dalla natura delle connessioni che si saranno create tra i copioni che si situano allo stesso livello di generalizzazione, così come tra i collegamenti esistenti tra questi copioni e quelli situati a livelli di generalizzazione superiore (Aletti 2009). Per questa ragione, eventi autobiografici legati ad una specifica relazione di attaccamento, possono indurre cambiamenti anche profondi (Ibidem). Una conversione religiosa, ad esempio, può lasciare immutati i modelli di attaccamento dell’individuo o, al contrario, può stravolgere il modo di concepire e vivere le relazioni interpersonali a seconda dei livelli di rappresentazione che sono stati toccati dal cambiamento.

L’importanza dell’orientamento religioso

Un individuo con un orientamento religioso estrinseco (Allport & Ross, 1967), che tende ad accostarsi alla religione per acquisire sicurezza, conforto, o un particolare status o supporto sociale, potrebbe modificare, ad esempio, in seguito all’esperienza religiosa, la rappresentazione relativa alla sua “posizione sociale”, ma non le proprie rappresentazioni relative al modo di relazionarsi con se stesso e con gli altri. Al contrario, un individuo con orientamento religioso “intrinseco”, che mette da parte i propri bisogni e fa proprio il modello di relazione basato sull’amore proposto dalla religione, potrebbe mettere in discussione anche le rappresentazioni delle relazioni collocate a livelli più alti di generalizzazione.

Se è vero, del resto, che l’esperienza di fede con Dio viene vissuta come una relazione di attaccamento, l’esperienza di conversione può portare l’individuo a ripensare ai propri modelli mentali delle relazioni e a riorganizzarli, con conseguenti ripercussioni sul proprio modo di vivere le relazioni interpersonali con i propri genitori, con gli amici o col partner.

Un’ultima riflessione sulle condizioni che possono rendere i modelli operativi interni più suscettibili al cambiamento riguarda la considerazione di quei fattori, sia interni che esterni all’individuo, che possono “facilitare” o incoraggiare tale cambiamento (Aletti, 2009). Si può ipotizzare che l’età in cui si verificano particolari esperienze, il temperamento dell’individuo (Belsky, 1997), l’intensità emotiva che caratterizza alcune relazioni possono incidere sulla possibilità di suscitare reazioni emotive forti che riattivano i modelli operativi interni dell’attaccamento e che li rendono più sensibili al cambiamento (Berlin e Cassidy, 1999).

Delirio mistico: il ruolo della famiglia

Ma l’attaccamento non è tutto. Una cultura familiare chiusa, isolata, senza confronti con il mondo esterno, in cui si conosce un solo modo di essere che non ha alternative e non prevede sfumature, è certamente un fattore di rischio (Lorenzini e Coratti, 2008). Altresì, il porsi pochi obiettivi esistenziali, percepire un forte legame tra le prestazioni e l’identità personale (per cui le persone hanno valore per quello che fanno) e il percepirsi vittime impotenti di forze esterne (mentre è fattore protettivo considerarsi attivi costruttori della propria realtà e artefici del proprio destino) sono fattori di vulnerabilità (ibidem).

Alla luce di queste riflessioni, ritengo fondamentale porre attenzione alla sofferenza del paziente e costruire una base sicura dove tutto acquisisce un senso, un porto sicuro da cui partire per sperimentare nuove competenze flessibili e coerenti con i suoi bisogni.

Lo scopo ultimo della terapia sarà ricostruire una nuova storia di quanto accaduto, una storia dove ciò che era impensabile sia ora possibile e accettabile; una narrazione con più gradi di libertà che consenta di progettare per il futuro un’esistenza con meno vincoli, costrizioni, divieti (Lorenzini e Coratti, 2009).

Il panico ospite imprevisto – Diagnosi del disturbo e terapia EMDR (2018) di Paola Vinciguerra e Isabel Fernandez – Recensione del libro

Ad ampliare il panorama delle pubblicazioni in ambito dell’applicazione dell’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), il testo Il panico ospite imprevisto – Diagnosi del disturbo e terapia EMDR a cura di Paola Vinciguerra e Isabel Fernandez. Il testo tratta specificatamente del disturbo di panico proponendo un protocollo di trattamento mediante EMDR.

 

L’EMDR ha come cornice teorica la teoria dell’elaborazione adattiva dell’informazione (Shapiro, 1995) e si applica nel contesto di una psicoterapia.

Mediante la stimolazione bilaterale si desensibilizza, si riducono gli effetti dei sintomi e si riattiva un processo di elaborazione delle informazioni.

Il panico ospite imprevisto: affrontarlo con le 8 fasi EMDR

L’EMDR ha un protocollo ben definito che procede secondo le seguenti otto fasi di lavoro:

  1. Anamnesi e pianificazione
  2. Preparazione e psico-educazione
  3. Pianificazione degli interventi
  4. Desensibilizzazione
  5. Installazione
  6. Scansione corporea
  7. Chiusura
  8. Rivalutazione

L’intento del libro Il panico ospite imprevisto è fornire ai lettori una panoramica del disturbo di panico in un viaggio attraverso le principali teorie esplicative, la descrizione del protocollo EMDR specifico per questa psicopatologia, numerose testimonianze di pazienti che hanno beneficiato di un trattamento mediante EMDR e infine le curatrici chiudono con utili consigli pratici.

Nei primi capitoli le autrici prendono in esame i criteri diagnostici nosografici del disturbo di panico, la diagnosi differenziale e le comorbidità, inoltre approfondiscono la relazione tra eventi stressanti e traumatici e l’insorgenza del disturbo.

Nell’ultima edizione del manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali DSM-5, sono stati, infatti, indicati anche gli eventi traumatici quali fattori di rischio per l’insorgenza del Disturbo di panico. Tra le ricerche che approfondiscono la correlazione tra life stress events e psicopatologia, le autrici riportano lo studio ACE: Adverse Childhood Experience.

Si tratta di un importante studio epidemiologico americano che ha coinvolto più di diciottomila partecipanti, svoltosi negli anni ’80 dagli studi di V. Felitti e collaboratori, presso Dipartimento di Medicina Preventiva di San Diego.

Per Adverse Childhood Experience s’intendono gravi esperienze vissute all’interno dell’ambiente familiare prima dei diciotto anni quali: abuso fisico ricorrente, abuso psicologico ricorrente, abuso sessuale, convivenza familiare con una persona dipendente da alcool o sostanze o con un grave problema psicologico, trascuratezza fisica ed emotiva.

La ricerca mise in luce come un numero inaspettatamente alto di pazienti che afferivano ai dipartimenti di medicina avessero avuto esperienze avverse; per questo motivo è stato ideato un semplice metodo di calcolo che attribuisce un punteggio riguardante l’accumulo di tali esperienze nella vita della persona entro i diciotto anni; il punteggio ACE è usato per valutare il peso dell’esposizione a eventi traumatici e di conseguenza la probabilità di rischio di sviluppare patologie mediche e psicologiche. Gli studi della neurobiologia mediante le metodiche di neuro-immagine hanno mostrato come intense esperienze di paura nell’infanzia possono modificare lo sviluppo neurologico del bambino.

Il panico ospite imprevisto.. con orgini nel legame di attaccamento

A sviluppo e sostegno della relazione tra passato ed emergere della psicopatologia, Anna Rita Verardo e Giada Lauretti dedicano un capitolo del libro Il panico ospite imprevisto alla relazione di attaccamento/accudimento e allo sviluppo dei disturbi di panico. Come le esperienze relazionali precoci e lo stile di attaccamento andranno a influenzare i circuiti della paura/pericolo; panico/sofferenza e della sicurezza. Si devono a Bowlby la formulazione della teoria dell’attaccamento e l’analisi degli stili di attaccamento tra il bambino e il caregiver che può rappresentare una base più o meno sicura. Le autrici descrivono gli aspetti fondamentali della teoria e affermano che:

sulla base delle teorie a sostegno, possiamo definire il panico il risultato della soggettiva percezione di una paura irrazionale, di ricerca di protezione familiare e della necessità di una figura di riferimento “prontamente disponibile” nei momenti di vulnerabilità, il tutto strettamente legato allo stile di attaccamento ansioso ambivalente..

Nel capitolo sono sintetizzati anche i numerosi studi di neurobiologia delle emozioni di paura e ansia e altrettanti studi clinici e teoria circa le genesi dei disturbi di panico. Si deve a Panksepp, neuroscienziato la distinzione tra un sistema della paura da un sistema di panico/sofferenza (Panksepp e Biven 2012).  Come affermano le autrici:

Panksepp (1998) ipotizzava che il Disturbo di panico fosse provocato da un’improvvisa e massiva attivazione del circuito cerebrale deputato alla richiesta di cura e, proprio per tale motivo, chiamò “sistema del panico” quello che noi ora identifichiamo con il sistema di attaccamento.

Le autrici rilevano che chi soffre di attacchi di panico è come se vivesse con il sistema di allarme costantemente attivato, pertanto con il sistema di attaccamento altrettanto attivato alla ricerca di sicurezza e di conseguenza con il sistema esplorativo disattivato.  Ma cosa prova una persona che sperimenta un attacco di panico? Chi sperimenta un attacco di panico comprende bene la differenza con il provare paura, nel panico difatti si ha la sensazione di perdere il controllo di sé, della propria mente o del proprio corpo. Pensieri irrazionali mantengono questa sensazione e trasformano situazioni neutre in situazioni pericolose alle quali il corpo e la mente non possono fare a meno di reagire. Per quanto l’esperienza di panico sia intensa e spaventante non porta alla morte e non dura all’infinito, ha un inizio e una fine e dura qualche minuto. 
Ma come si può intervenire per aiutare le persone che soffrono di disturbi di panico a comprendere ciò? A curare questo disturbo psicopatologico?

Il panico ospite imprevisto: psicoterpia cognitivo-comportamentale e EMDR a confronto

La psicoterapia cognitivo – comportamentale è considerata dalle principali linee guida internazionali fra i trattamenti elettivi di prima scelta per il Disturbo di Panico (APA, 1998; NICE, 2006; OMS, 2000) e l’EMDR metodo evidence-based di provata efficacia nel Disturbo da Stress Post-Traumatico (Jeffrey e Davis 2013). In uno studio, Farretta e Fernandez (2003) hanno comparato la terapia cognitivo comportamentale e l’EMDR nel trattamento del panico in un piccolo campione di diciannove soggetti con diagnosi di disturbo di panico con o senza agorafobia. Nove soggetti sono stati sottoposti a TCC e dieci a trattamento con EMDR.

Come spiega Elisa Farretta:

Si è riscontrato che entrambi i trattamenti CBT ed EMDR risultavano efficaci per la risoluzione del Disturbo di panico dopo 6-12 sedute consecutive (….): “ l’EMDR produceva nei soggetti un miglioramento più rapido e mantenuto nel tempo, come evidenziato dai follow-up effettuati.

(Faretta 2003; 2012). Nella fase uno del protocollo EMDR, anamnesi e pianificazione, è fondamentale raccogliere un’attenta storia di vita, la mappa degli eventi traumatici del paziente, e nello specifico del disturbo di panico è importante individuare e analizzare gli eventi del passato che sono collegati alla sintomatologia ansiosa.

A tale scopo si esaminano nello specifico gli eventi passati associati alla sintomatologia, le situazioni attuali che pro- vocano disagio, i comportamenti e le abilità da sviluppare per il futuro. Quei ricordi che portano ad atteggiamenti negativi (“Non ho il controllo”, “Sono in pericolo”, ” Sono impotente”) diventano gli obiettivi del trattamento.

Nel testo questo procedimento è spiegato attraverso casi clinici e testimonianze dirette dei pazienti stessi.

Le curatrici affermano che l’EMDR è considerato

Oggi il trattamento risolutivo anche per il Disturbo da attacchi di panico. Attraverso la stimolazione bilaterale si lavora non solo sul ricordo di date esperienze che possono aver contribuito all’insorgenza di un Disturbo d’ansia, ma anche sulle memorie delle prime volte in cui si è provata (arrivando a lavorare sul primo attacco di panico).

Nell’ultimo capitolo del libro Il panico ospite imprevisto denominato appunto “consigli pratici”, sono descritti passo dopo passo utili esercizi per divenire maggiormente consapevoli delle cognizioni disfunzionali legate al panico e per favorire l’autocontrollo della paura indicazioni. Inoltre si propongono tecniche di rilassamento ed esercizi per la ripresa di una respirazione calma e bilanciata; esercizi di visualizzazione e immaginativi e procedure per impegnare la memoria di lavoro.

E infine il consiglio e l’augurio finale:

Non spaventarti.
 L’ attacco di panico non è un infarto.
 Non stai impazzendo e non stai morendo. Queste sensazioni sono frutto di pensieri irrazionali.  Ci si può liberare da questa condizione. Si può tornare a star bene… si può tornare liberi!

La pornografia influisce sulla gratificazione sessuale degli adolescenti?

La presente ricerca ha voluto testare se l’uso della pornografia fra gli adolescenti potesse impattare sul livello di soddisfazione sessuale degli stessi. In particolare, si parte dalla verifica dall’ipotesi che la bassa soddisfazione sessuale nella vita privata sia legata all’utilizzo della pornografia.

 

Quando si parla di soddisfazione sessuale si fa riferimento al grado con il quale le persone si dicono soddisfatte della loro vita sessuale (Sprecher & Cate, 2004), indipendentemente dal fatto di essere impegnate o meno in una relazione.

L’avere una soddisfacente vita sessuale sembrerebbe essere importate per il benessere della persona, tanto che alcune ricerche evidenziano un’associazione fra bassa e maggior presenza di sintomi depressivi e ansiosi (Nicolosi et al., 2004; Montesi et al., 2013).

Pornografia, teoria del confronto sociale e soddisfazione sessuale

Le variabili che influenzano il livello di gratificazione sessuale sono innumerevoli, tra le tante è presente la variabile inerente l’utilizzo della pornografia. A tal proposito, la presente ricerca ha voluto testare se l’uso della pornografia fra gli adolescenti potesse impattare sul livello di soddisfazione sessuale degli stessi. In particolare, si parte dalla verifica dall’ipotesi che la bassa soddisfazione sessuale nella vita privata sia legata all’utilizzo della pornografia.

Tale ipotesi si fonda sia sulla teoria del confronto sociale che su alcune ricerche: la teoria del confronto sociale (Wright, Tokunaga, Kraus, & Klann, 2017) afferma come il grado di soddisfazione percepito, della propria vita, dipenda dal confronto fra le proprie situazioni e quelle altrui; alcune ricerche hanno suggerito come gli utenti della pornografia trovino meno soddisfacenti l‘aspetto fisico e le prestazioni sessuali dei relativi partner a causa del confronto fra alcune variabili della propria sfera sessuale e quelle relative agli attori del porno (Doran & Price, 2014; Lambert, Negash, Stillman, Olmstead, & Fincham, 2012; Poulsen, Busby, & Galovan, 2013).

Soddisfazione sessuale negli adolescenti: altri fattori da considerare

Lo studio longitudinale ha coinvolto un campione di 892 adolescenti croati, tra i 15 e i 18 anni, i quali sono stati chiamati a rispondere ad un sondaggio online che indagava la frequenza dell’uso della pornografia e il grado di soddisfazione sessuale. Successivamente, i soggetti sono stati richiamati a compilare i medesimi sondaggi ad intervalli di sei mesi per tre anni.

I ricercatori non hanno trovato alcuna associazione significativa tra la frequenza dell’uso della pornografia e la maggiore o minore soddisfazione sessuale nella vita privata. Tuttavia, questi risultati sono contrastanti rispetto a studi precedenti che hanno invece trovato come l’uso della pornografia riduca la soddisfazione sessuale degli adolescenti nella loro vita privata (Doornwaard et al., 2014, Peter & Valkenburg, 2009).

L’antiteticità dei risultati potrebbe essere ricondotta alla diversità dei contesti sociali in cui gli studi sono stati condotti. Difatti, il presente studio è stato svolto in Croazia, un paese meno sessualmente permissivo e più religioso, mentre gli studi precedenti sono stati condotti nei Paesi Bassi, che si caratterizzano per essere più liberali. Il grado di liberalità di uno stato potrebbe predisporre o meno l’individuo all’utilizzo di materiale pornografico, mentre il grado di religiosità potrebbe influenzare la percezione della gratificazione sessuale.

 

cancel