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Crisi adolescenziale, teorie e ricerca del proprio ruolo

Secondo Erikson il processo di costruzione dell’ identità non si esaurisce in un periodo circoscritto che può essere quello dell’ adolescenza, ma si protrae per tutta la vita e la crisi di identità può manifestarsi in modo più o meno violento anche in relazione al momento storico che ci si trova a vivere.

 

Il passaggio dall’infanzia all’età adulta è normalmente caratterizzato da quella fase definita come crisi adolescenziale. Giovanna Racchetti, psicologa, nel suo libro “Il genitore nascosto” ci descrive un’ adolescente che si sente intrappolato in un tempo da cui teme di non uscirne mai più, un adolescente che soffre la perdita di punti di riferimento e non è ancora in grado di godere delle sue nuove conquiste e della sua nuova identità. Deve elaborare il lutto verso gli oggetti di investimento infantili, in primo luogo verso le figure genitoriali, per potersi rendere autonomo da loro ma, allo stesso tempo, ha segretamente bisogno del riconoscimento dell’adulto per sentirsi veramente autonomo. Questa necessità dà luogo a comportamenti contraddittori che vanno da moti di indipendenza e ribellione all’autorità degli adulti, a richieste regressive di attenzione.

Adolescenza e costruzione dell’ identità: la voce degli autori

Winnicott parla dell’ adolescenza come di un atto aggressivo. Crescere significa prendere il posto dei genitori e questo implica che le figure genitoriali vengano idealmente “uccise” perché l’ adolescente possa subentrare al loro posto: “se il bambino deve diventare adulto, questo avviene sul cadavere di un adulto”.

Sul tema del lutto torna Erikson, che ci parla di un adolescente che si trova a dover riconsiderare le sue certezze infantili e quello in cui si identificava, per operare una selezione in base ai suoi bisogni e alle sue capacità in modo da poter creare una sua propria identità che gli permetta di trovare uno spazio nel contesto sociale. In questa ricerca l’ adolescente va alla ricerca di modelli in cui identificarsi e che gli indichino la strada da percorrere, ma la sua insicurezza lo porta spesso a cercare e sovrapporre modelli differenti creando una confusione di ruoli generatrice di ansie.

Interessante teoria su questo tema è quella esposta da Viktor Frankl, neurologo e psichiatra, che per primo introduce nel campo della psicologia il concetto di “senso delle vita” che era precedentemente esclusiva dell’ambito filosofico. Frankl è riconosciuto come il fondatore della logoterapia, che si pone come obiettivo primario la riscoperta del significato dell’esistenza dell’essere umano. Proprio la ricerca del senso della vita si troverebbe alla base del passaggio dall’infanzia all’età adulta; la faticosa ricerca di un significato diventa generatrice di quella frustrazione che viene percepita dai giovani nel tentativo di realizzarsi definendo il loro significato e il loro scopo. La motivazione al cambiamento è data dalla direzione che ci si è prefissata e dalla meta che si vuole raggiungere. Trovare il proprio significato vuol dire trovare il proprio posto nel mondo e indirizzare i propri sforzi a perseguire quell’obiettivo che dà un senso alla propria vita. In accordo con questa teoria è anche Erikson per il quale sapere “dove si va” fornisce l’intima sicurezza di avere un proprio posto nel mondo, accettato, riconosciuto, e quindi legittimato, dagli altri.

Così dice Allport a questo proposito:

Il senso dell’io raggiunge la sua completezza quando l’ adolescente comincia a fare dei progetti, a porsi delle finalità ad ampio raggio.

Sempre secondo Erikson, il processo di costruzione della propria identità non si esaurisce in un periodo circoscritto che può essere indicato dal termine adolescenza, ma si protrae per tutta la vita e la crisi di identità può manifestarsi in modo più o meno violento anche in relazione al momento storico in cui ci si trova a vivere.

Tornando alle teorie di Frankl, un ulteriore approfondimento ci arriva leggendo “Giovani, identità e senso di vita” della dottoressa Del Core, docente e psicologa, che mediante una ricerca sperimentale arriva a concludere che la costruzione di una propria identità si basa sull’elaborazione di una scelta di vita che determina l’indirizzo degli impegni e degli decisioni che si deciderà di assumersi. Alla costruzione del senso di sé contribuiscono anche la percezione delle proprie possibilità e l’esistenza di un modello di vita (anche qui ci ricolleghiamo ad Erikson) che fornisca punti di riferimento. Oggi la definizione di una propria identità risulta più difficile e, può sembrare un paradosso, ciò avviene proprio in relazione al numero crescente di opportunità professionali e personali che la società offre ma a fronte delle quali manca un’effettiva possibilità di realizzazione delle stesse (si pensi alle innumerevoli proposte formative tra cui i giovani si trovano a scegliere e alla difficoltà di reali sbocchi nel mondo lavorativo).

I due grandi problemi dell’ adolescenza sono: trovarsi un posto nella società e, allo stesso tempo, trovare se stessi. (Bruno Bettelheim)

Le ricerche esposte dalla professoressa Del Core, condotte mediante interviste, evidenziano come il “senso di identità” e il “senso della vita” tendano a sovrapporsi in questo periodo evolutivo in cui si affrontano cambiamenti generali riferibili sia alle relazioni con la famiglia e con tutto l’ambiente circostante, sia con l’immagine e l’idea che si ha di sé, sia ai propri progetti e ai propri valori. Il processo di rielaborazione dei valori è ancora limitato perché è ancora molto forte la dipendenza dalla famiglia e dai coetanei. Proprio in questi ultimi, gli adolescenti trovano un termine di confronto per sperimentare i cambiamenti in atto. L’educazione dovrebbe, secondo la Del Core, farsi carico di accompagnare gli adolescenti a realizzare una progettualità all’interno e nonostante la propria identità non ancora ben definita e un ambiente che non fornisce punti di riferimento certi.

L’isola dell’abbandono (2019) di Chiara Gamberale – Recensione del libro

L’isola dell’abbandono è l’ultimo libro della scrittrice Chiara Gamberale che, come già nel precedente Per dieci minuti, torna a parlare di quando gli eventi della vita irrompono e pongono di fronte a un bivio: restare fermi nelle proprie convinzioni, abitudini, zone di comfort, oppure aprirci alla possibilità di cambiare, sviluppando potenziali che non eravamo consapevoli di possedere.

 

L’importante è che adesso – proprio adesso – lei sappia che ci sono labirinti dove, per uscire, dobbiamo mollare il filo che avevamo in mano, invece di tenerlo stretto.

L’isola dell’abbandono: mito e abbandono

Il mito greco di Arianna e Teseo, sfondo del libro, offre un’interessante metafora dell’abbandono, uno degli eventi più dolorosi che possono capitare nella vita.

Narra il mito che Teseo, uscito dal labirinto di Creta grazie ad Arianna, non rispettò la promessa di portarla ad Atene per sposarla, bensì l’abbandonò sull’isola di Naxos, da cui origina l’espressione “essere piantati in asso”. Da lì, il mito si sviluppa in molteplici varianti, di cui due versioni appaiono particolarmente interessanti: in una variante, il dio Dioniso per consolarla dona ad Arianna una corona e la rende immortale trasformandola in una costellazione (la Corona Boreale), che diventa una sorta di simbolo perenne dell’abbandono subito; in un’altra versione invece Dioniso, giunto sull’isola e innamoratosi di Arianna, la sposa e la fa diventare una dea e il diadema d’oro ricevuto come dono di nozze, lanciato in cielo, diventa costellazione.

Queste due varianti del mito sembrano rappresentare i due possibili modi di reagire all’abbandono: rimanere congelati nel dolore dell’abbandono, facendo in modo che la paura di esso continui a condizionare le nostre scelte, oppure elaborare quel dolore e imparare a gestire quella paura, aprendoci così a nuove opportunità.

L’isola dell’abbandono e la paura dell’abbandono: le origini

La protagonista del libro della Gamberale si chiama proprio Arianna ed è un’illustratrice di favole e fumetti per bambini. La paura più grande di Arianna è quella di perdere le persone che ama, paura che potremmo definire normale, se non fosse che in lei assume proporzioni tali da crearle uno stato di ansia perenne, condizionandone le scelte di vita.

Dai pochi cenni al passato di Arianna, si deduce che il padre ha lasciato la madre venticinque anni prima e, da lì, la madre ha manifestato lo stesso stato patologico di ansia, trasmesso poi alla figlia.

E’ attraverso due suoi personaggi, “l’elefantino Naso” e “la bambina con gli occhi verde alieno” del suo fumetto “Naso torna sempre”, che Arianna ci permette di comprendere meglio questa sua paura: la “bambina con gli occhi verde alieno” è felicissima quando riceve in regalo dal suo papà l’elefantino peluche Naso, ma quest’ultimo finisce per sparire continuamente; ogni volta che questo accade, disperazione e febbre a quaranta assalgono la bambina. Il papà, per farla guarire, le compra ogni volta un peluche identico che di nuovo scompare, riattivando lo stesso susseguirsi di eventi in un interminabile ciclo di abbandono-ricongiungimento-abbandono.

La bambina è

talmente paralizzata dall’idea di venire abbandonata da scegliere un amico capace di fare solo quello (…) perché se avesse scelto un amico fidato, uno che non scappava mai, allora sì che l’abbandono avrebbe potuto essere davvero tremendo. Mentre così, alla fine, pareva un gioco.

L’isola dell’abbandono a Naxos

Arianna, come “la bambina con gli occhi verde alieno” col suo peluche, sceglie come suo primo grande amore Stefano, un uomo incapace di essere presente e dall’umore labile, a cui fa più da madre che da compagna.

Del resto Arianna, fin dai tempi in cui faceva la baby sitter, assorbiva dentro di sé le difficoltà dei bambini a cui badava –

si immergeva tutta in quella innocenza, per aiutarla a proteggersi dal mondo e da se stessa, …

– così come si rifugia oggi nei suoi disegni e nella relazione con Stefano, “il compagno di giochi ideale”.

Arianna e Stefano si incontrano in un reciproco bisogno, che li incastra in una disfunzionale dinamica relazionale: da una parte, Stefano ha bisogno di Arianna per uscire dal labirinto della sua mente, dall’altra Arianna ha bisogno di legarsi a qualcuno che è incapace di essere presente, cosa che, pur facendola soffrire, le è pur sempre familiare e confortevole. La relazione tra Arianna e Stefano si trascina così per sette anni tra continui alti e bassi, in un’alternanza di momenti sfavillanti e ripetuti abbandoni da parte di Stefano, fino all’ultimo, quello più straziante: sull’isola di Naxos, dove erano andati in vacanza, Stefano “la pianta in asso” e scappa a Londra con una ragazza inglese conosciuta sul posto.

L’isola dell’abbandono e oltre

L’abbandono di Stefano a Naxos, che produce una grande sofferenza in Arianna, si tramuta tuttavia in un’occasione di svolta allorché, proprio in quell’isola, incontra di lì a poco Di (il Dioniso del mito), un uomo che invece è disposto ad esserci e ad amarla in modo autentico (“Che cosa significa amare? Significa esserci …”)

Di, in un dialogo con Arianna, usando le metafore di “Papà Trauma” e “Mamma Ossessione”, le spiega come gli eventi dolorosi che ci capitano non debbano diventare giustificazione per chiuderci e proteggerci da ogni altro dolore perché, così facendo, si rischia di proteggersi anche da quello che di bello ci può capitare e che in fondo desideriamo.

Purtroppo il palesarsi improvviso, dopo pochi mesi, dell’evento maggiormente temuto da Arianna, la tragica morte di Stefano in un incidente, non le permettono di far proprie dentro di sé le parole di Di e di continuare a vivere con lui quel rapporto fatto di presenza.

Arianna lascia Naxos e, con essa, Di e rientra a Roma dove, sentendosi disgregata in pezzi, si fa ricoverare in una clinica dove viene presa in cura dallo psichiatra e psicoterapeuta di Stefano, Damiano. Quello che, all’inizio, è solo un rapporto terapeutico diventa qualche mese dopo una relazione a cui Arianna si aggrappa e da cui nascerà un bambino, Emanuele. Damiano è un uomo che può esserci solo a metà, invischiato nel rapporto con la moglie e che, inoltre, sembra usare le conoscenze della mente di Arianna per far leva sulle sue fragilità (non a caso, uno dei significati del nome Damiano è “colui che domina”).

L’isola dell’abbandono: ritorno a Naxos

La nascita del figlio Emanuele è un evento che Arianna all’inizio vive come totalizzante e che rischia di farla rifugiare e annullare nella cura di un altro, come era già successo con Stefano. Ma l’incontro con Lidia, mamma in attesa conosciuta ad una seduta di gruppo di genitori single (e protagonista del libro Adesso della Gamberale), le dà un’occasione di potente insight:

… se non trasformeremo i nostri figli nella scusa per perdere definitivamente il contatto con quello che davvero siamo, anche se è scomodo, soprattutto se è scomodo, io penso che quando un giorno loro ci chiederanno: che cosa è successo, mamma?, come mai qui, nella mia testa, è tutto per aria? (…), be’: almeno una risposta da noi ce l’avranno (…) E magari a loro volta, quando cresceranno, sapranno che cosa vogliono, lo sapranno chiedere, sapranno dire qui mi fa male, oppure scusa, saranno liberi di dire ti amo anch’io, non ti amo più, (…).

Le parole di Lidia la invitano a ricostruire la propria identità e a trovare da sola la strada per capire quello che davvero vuole. Arianna così decide di tornare dopo dieci anni a Naxos, dove tutto le sembra finito e, allo stesso tempo, iniziato.

Il nuovo incontro con Di, oltre ad essere un momento di bilancio di vita, è anche l’incontro con il processo di cambiamento che era iniziato e subito stroncato dalla notizia della morte di Stefano. È il momento di far ripartire quel cambiamento, iniziando dal recupero del ricordo di quell’esperienza positiva vissuta con Di, che Arianna non aveva nemmeno riportato nelle lettere scritte a suo figlio prima della nascita, come se quel pezzo di vita, in cui “le è sfuggito il filo di mano”, fosse rimasto blindato dentro di sé. La sfida per Arianna ora è imparare ad abbandonarsi alla vita con fiducia per

avere la sensazione di vivere, perchè, anche se ogni tanto è faticoso, comunque ne vale la pena,

insegnamento da trasmettere anche a suo figlio.

L’isola dell’abbandono è un romanzo sia sull’abbandono come evento doloroso, sia sull’importanza di abbandonarsi alle trasformazioni a cui i grandi eventi (come anche una nascita) ci chiamano, non congelandoci nella paura di perdere il controllo. Nessuno infatti può sfuggire all’abbandono nelle sue varie forme – dall’essere lasciati fino alla perdita di una persona cara – tuttavia, dal dolore dell’abbandono, se lo si accoglie e si decide di viverlo, può scaturire occasione di ripartenza, di rinnovata forza e consapevolezza di sé.

Dal meccanismo di attacco-fuga alla preoccupazione

Due studi recenti hanno cercato di mappare gli effetti dell’ ansia di tratto e dei diversi livelli di sofisticazione ed efficacia del processo decisionale sulla corteccia prefrontale umana per spiegare perché proviamo paura e ansia.

 

Gli studi sono rispettivamente di Fung e colleghi del California Institute of Technology di Pasadena e Korn & Bach del dipartimento di Psichiatria, Psicoterapia e Psicosomatica dell’Università di Zurigo, apparsi recentemente su Nature Human Behaviour. Integrano e aggiungono ai già preesistenti modelli animali di comprensione dei circuiti sottostanti la paura e l’ansia nuova linfa, mappando gli effetti dell’ ansia di tratto e dei diversi livelli di sofisticazione ed efficacia del processo decisionale sulla corteccia prefrontale umana generando un modello più complesso di spiegazione del come e perché abbiamo paura e proviamo ansia.

Ansia e paura: sono sovrapponibili?

La paura e l’ ansia sono la stessa cosa? Provengono dagli stessi circuiti come finora ipotizzato ed evidenziato dai modelli animali (McNaughton, 2019)? Quali sono le variabili che influenzano i processi di decision making per la selezione del comportamento più adatto alle circostanze ambientali minacciose?

Nel presente articolo verranno presi in considerazione due recenti studi che hanno svelato i meccanismi neurali gerarchici di controllo e gestione della minaccia, dando una nuova prospettiva alla comprensione della paura e dell’ ansia, tramite la manipolazione virtuale e a vari livelli della minaccia.

Solitamente, nell’ambito della psicologia comune, la paura e l’ ansia sono ritenute stati emotivi tra di loro sovrapponibili, dipendenti l’una dall’altra, determinati dagli stessi stimoli avversivi e aventi la stessa valenza e così i due termini vengono utilizzati spesso come sinonimi intercambiabili per descrivere e comunicare le medesime manifestazioni fisiologiche, cognitive e comportamentali.

Questa relazione tra paura e ansia non ben definita a livello teorico è ulteriormente complicata dal fatto che diversi modelli animali hanno evidenziato come esse e le loro risposte difensive siano associate all’attivazione di specifici network e sistemi neurali in parte sovrapposti (McNaughton, 2019).

Ansia e paura: lo studio per capire come nascono

Tuttavia nel panorama delle neuroscienze affettive, nuovi dati (Mobbs, Petrovic et al., 2007; Qi, Petrovic et al., 2018) stanno progressivamente problematizzando tale relazione evidenziando come la paura e l’ ansia siano stati emotivi simili ma non del tutto sovrapponibili o equivalenti e che lo spostamento dall’una all’altra dipenda dall’attivazione “sottile” di alcune aree cerebrali che rispondono a diverse caratteristiche ecologiche della minaccia presente nell’ambiente.

Il primo studio che approfondisce tale dato empirico è di Fung e colleghi (2019), i quali hanno realizzato un disegno sperimentale in grado di valutare selettivamente i contributi della paura cosiddetta “reattiva”, più semplice e istintiva, e di quella “cognitiva”, più gerarchicamente strutturata appartenente alla sfera dell’ ansia, nella presa di decisione per l’implementazione di comportamenti difensivi.

Nello specifico, il compito comportamentale, sottoposto a 28 studenti universitari, prevedeva un task al computer nel quale ciascuno avrebbe dovuto massimizzare il guadagno di una certa somma di denaro mentre al contempo si sarebbe trovato a fronteggiare l’incombenza e l’attacco di un predatore virtuale.

Lo scopo del compito pertanto è stato simultaneamente quello di guadagnare denaro evitando di essere catturati: nel caso in cui la persona fosse riuscita a sfuggire con successo all’attacco, avrebbe guadagnato l’intero ammontare della cifra di denaro, in caso contrario avrebbe ricevuto un leggero shock elettrico e avrebbero perso la somma di denaro.

Le diverse condizioni sperimentali erano caratterizzate da differenti tipologie di predatori, la cui incombenza veniva segnalata tramite un cue specifico con diversi gradi di intensità di attacco (lieve-moderato-forte) e di timing in cui il soggetto avrebbe ricevuto l’attacco del predatore: ad esempio il predatore ad attacco rapido ed anticipato, passava rapidamente dall’approccio di avvicinamento lento a quello veloce verso la persona e quindi richiedeva a quest’ultima di prendere rapidamente una decisione per fuggire.

Per completare il compito con successo, ciascun partecipante avrebbe dovuto ad ogni trial imparare le varie distribuzioni di distanza di attacco per ciascuna tipologia di predatore e rispondere il più prontamente possibile aumentando e raggiungendo la giusta distanza tra lui e il predatore (Fung et al., 2019).

I soggetti hanno completato il task mentre erano nello scanner della risonanza magnetica funzionale utilizzata per valutare in modo distinto e dissociato i diversi contribuiti della paura reattiva e della paura cognitiva sui comportamenti di fuga e la diversa attività cerebrale in funzione dei diversi livelli interindividuali di ansia di tratto.

Ansia e paura: il peso dell’ansia di tratto nelle nostre reazioni

I dati ottenuti, mettendo in relazione le diverse tipologie di predatore con diversa distanza di attacco (lento-medio-veloce) con i punteggi dei soggetti ottenuti al test STAY-T e la percentuale di fughe avvenute con successo, hanno suggerito che l’ ansia di tratto correlava positivamente con i successi nelle fughe, in particolare nella condizione di in cui l’incombenza del predatore era lenta, facendo quindi ipotizzare che le persone con un’alta ansia di tratto riuscivano a scappare con maggior successo; tuttavia questo loro successo nella fuga correlava negativamente con la quantità di denaro guadagnata.

In aggiunta, i ricercatori hanno osservato delle significative risposte di attivazione cerebrale nelle regioni dell’amigdala, dell’ippocampo, della regione ventrale mediale prefrontale e parte della corteccia cingolata; l’attivazione di questo macrocircuito infatti è risultata andare di pari passo con i punteggi alti o bassi del test STAY-T.

Di conseguenza è apparso evidente come l’ansia di tratto sia stata in grado selettivamente di influenzare le decisioni facilitando la messa in atto di un comportamento di fuga, ma solo nella condizione in cui viene chiesto alla persona di scegliere più “cognitivamente” a come rispondere alla minaccia reale presente nell’ambiente anziché alla sua incombenza immediata, tramite la distinzione tra quantità di tempo a disposizione (per la decisione di scappare) e la selezione di altre strategie cognitive.

Un’urgenza nella risposta dovuta ad un predatore veloce ingaggia invece i circuiti di sopravvivenza difensiva sottocorticali come la materia grigia periacquiduttale.

Ansia e paura secondo Blachard

Tutto ciò supporta ulteriormente la teoria basata sulla distanza difensiva di Blanchard (1990), secondo la quale le reazioni (di solito di paura) ad un pericolo immediato sono frutto di un circuito neurale più basso a livello gerarchico, mentre quei pericoli anticipati, più distanti sia fisicamente che psicologicamente (più legati all’ ansia) deriverebbero da aree ad alto livello gerarchico come la corteccia prefrontale.

La scelta del comportamento da adottare e il coinvolgimento delle aree si distingue tra di loro, in modo anche dissociabile, nel caso in cui la minaccia sia distale oppure prossimale e sono ulteriormente influenzate dal livello di ansia di tratto (Fung t al., 2019).

Sulla stessa linea delle evidenze ottenute da Fung e colleghi (2019), lo studio di Korn & Bach (2019) ha ulteriormente messo in evidenza questa specializzazione e differenza nel coinvolgimento e nell’attivazione dei network neurali sottostanti la paura e l’ ansia soprattutto nelle condizioni in cui la persona si trovava a dover stabilire quale linee di condotta (soluzione) ottimale selezionare e poi seguire tra tutte le possibili opzioni a disposizioni.

Ciò soprattutto in una condizione più ecologica in cui i processi di decision making sono resi ulteriormente difficoltosi dalla presenza nell’ambiente di una minaccia.

Tra gli esempi più rilevanti in questo ambito vi è la presa di decisione in un contesto più complesso in cui si presenta la possibilità di mettere in atto due comportamenti ugualmente rinforzati ma entrambi rischiosi e in conflitto tra di loro, come l’approcciarsi ad una fonte di cibo evitando al contempo un predatore minaccioso presente nei dintorni (Qui et al., 2019).

Ansia e paura: come incidono sul decision making

Gli autori dello studio si sono focalizzati sull’analisi delle strategie cognitive che permetterebbero alla persona di prendere una decisione risolvendo la problematicità e la conflittualità tra approccio vs evitamento e le relative rappresentazioni a livello neurale (Korn & Bach, 2019).

Anche in questo caso è stato utilizzato un compito virtuale di decision making, nel quale ai soggetti veniva presentata la possibilità di raggiungere un foraggiamento in una foresta in cui era altresì possibile morire a causa dell’attacco di un predatore o per inedia.

Lo scopo del videogioco era quello di resistere e sopravvivere nella foresta per quanti più giorni possibile cercando di mantenere tutte le “vite” a disposizione; per ogni giorno passato nella foresta, i soggetti avrebbero dovuto selezionare tra due diverse opzioni, quali “aspettare” perdendo gradualmente un punto di energia oppure l’opzione “nutrirsi”.

In aggiunta a ciò, in un ordine randomizzato, ciascun partecipante imparava ad aspettarsi, con diversi gradi di probabilità per ogni trial, l’attacco di un predatore.

È bene precisare che il compito sperimentale di decision making è stato strutturato a partire dal modello matematico di Markov che ha consentito di individuare e calcolare a priori la linea decisionale ottimale per selezionare l’azione che avrebbe permesso di massimizzare il guadagno e minimizzare la perdita delle “vite” a causa del predatore o dell’inedia, in modo da avere un criterio decisionale ottimale a monte per la successiva spiegazione delle scelte dei partecipanti.

A partire da questo criterio optimum sono state di conseguenza derivate delle euristiche, ciò delle strategie alternative al criterio di riferimento, “più imprecise” che avrebbero potuto impiegare i soggetti.

Lo scopo dei ricercatori è stato infatti quello di individuare tra le molteplici alternative, il predittore primario selezionato dai soggetti per la scelta dell’euristica che maggiormente avrebbe consentito di spiegare il processo di decision making: la probabilità della presenza di un predatore è risultata essere il criterio chiave per la scelta della strategia decisionale migliore congruente con lo scopo.

Le risposte dei soggetti, basate dunque sulla probabilità del predatore, sono altresì risultate associate ad un’alta attivazione delle aree dorso laterali prefrontali, corroborando così la descrizione del sistema neurale di controllo delle manifestazioni di paura e ansia di tipo gerarchico disegnato dallo studio di Fung e colleghi (2019).

Ansia e paura: derivano da diversi livelli gerarchici di decision making

In conclusione, da ambedue gli studi è emerso come le diverse tipologie di risposte sia di paura che ansia derivino da distinti livelli gerarchici presenti all’interno del processo di decision making.

Tale gerarchia ben precisa permetterebbe di modulare le reazioni e le risposte comportamentali sulla base dell’imminenza della minaccia o del diverso grado di incertezza relativa ad essa.

Ne deriva quindi che il processamento per la selezione della strategia ottimale di risposta ad una minaccia è influenzata da molteplici variabili e ci consente di volta in volta sulla base di esse di passare in rassegna un ampio ventaglio di opzioni, dalla reazione più immediata e semplice di paura, a quella più cognitiva, strategica e complessa della preoccupazioni in una condizione più incerta e meno prevedibile.

Il tutto grazie alla presenza di un’architettura neurale coerente e strategica che permette di shiftare da strutture sottocorticali più antiche per le reazioni di sopravvivenza, a sistemi corticali più alti per la selezione di euristiche finalizzate alla previsione della minaccia fino a strategie decisionali finalizzate all’ottimizzazione della risposta allo stimolo esterno minaccioso.

 

Timidezza: caratteristiche, differenze con la fobia sociale e strategie per diventare dei “timidi di successo”

Per superare la timidezza è importante innanzitutto non opporsi ad essa o contrastarla. Piuttosto è molto più efficace accettare il fatto di essere timidi, capire le dinamiche della propria timidezza e modificare ciò che si fa e non ciò che si è.

 

Introduzione e definzione

La timidezza è definita come l’incapacità di rispondere in modo adeguato alle situazioni sociali: in particolare, le persone timide hanno difficoltà ad incontrare altre persone ed avviare una conversazione con loro, a creare amicizie ed innamorarsi (Henderson, Zimbardo, Carducci, 2010).

La timidezza può creare un insieme di barriere personali, sociali, professionali e creare un disagio significativo per la persona. Tuttavia, nonostante la tendenza diffusa nell’opinione comune a medicalizzare la timidezza, essa non è né un disturbo, né un tratto di personalità, può essere invece intesa appunto come un fallimento nell’affrontare situazioni sociali, caratterizzata da componenti affettive, cognitive e comportamentali. Va sottolineato inoltre che la timidezza è un fenomeno comune e piuttosto diffuso. In una ricerca di Carducci (2000), il 50% del campione intervistato ammette di essere timido, l’89% delle persone timide dichiara di esserlo stato fin dall’inizio della propria vita, solo l’11% del campione dichiara di non essere mai stato timido nell’arco della vita. La timidezza colpisce in forma lieve circa il 60% degli italiani (Coles et al., 2001). Relativamente ad altri paesi e culture, secondo gli studi di Zimbardo (1977) la timidezza sarebbe più diffusa in Giappone e a Taiwan rispetto ad altre culture studiate, come ad esempio la cultura israeliana.

La timidezza non corrisponde con l’introversione, poichè nella timidezza si ha il timore del giudizio negativo da parte dell’altro, mentre nell’introversione è presente la preferenza per situazioni meno “sociali” senza necessariamente presentare timore del giudizio dell’altro. Inoltre, la timidezza è spesso accompagnata da intensa sofferenza mentale rispetto alla sensazione di inadeguatezza nelle situazioni sociali. La timidezza non va confusa una bassa autostima generalizzata: l’autostima invece può essere alta a livello globale nel timido (pensiamo alle numerose star o persone di potere che di fatto sono timide) ma risultare bassa solo in specifici domini, primo tra tutti il dominio delle competenze sociali.

Timidezza: eziologia e caratteristiche

La timidezza è caratterizzata da una componente cognitiva, da una componente affettiva e da una componente comportamentale.

Riguardo la componente cognitiva, le persone timide presentano spesso il timore del giudizio dell’altro e sensazioni di inadeguatezza. Uno dei tratti più caratteristici delle persone timide è quello di un’estrema coscienza di sé, con un’eccessiva tendenza a focalizzare l’attenzione sul proprio mondo interiore fatto di pensieri, emozioni e comportamenti e un’eccessiva precoccupazione del giudizio degli altri.

A livello emotivo possono essere presenti le emozioni di paura e imbarazzo con sintomi di attivazione fisiologica tipici di queste emozioni tra cui: aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, aumento della sudorazione, aumento della tensione muscolare, rossore del volto, balbettio, etc. Il rossore è l’indizio tipico dell’emozione dell’imbarazzo e della timidezza. L’imbarazzo è uno stato emozionale vissuto in seguito ad un’azione socialmente inaccettabile compiuta sotto gli occhi di terzi e ha la funzione di segnalare l’infrazione reale o temuta di norme sociali. L’imbarazzo è un’emozione esclusivamente sociale perché si manifesta soltanto in situazioni di interazione sociale. Mentre l’imbarazzo è uno stato emotivo temporaneo che spesso accompagna la timidezza, la timidezza è invece considerabile una caratteristica più stabile.

A livello comportamentale, similmente a quanto accade per l’ansia sociale, può esserci la tendenza all’evitamento di situazioni sociali che creano disagio, cosi come se esposte a certe situazioni sociali può esserci l’evitamento del contatto oculare.

Sebbene vi siano una serie di ricerche empiriche che evidenziano l’influenza dei fattori genetici, biologici e temperamentali nell’eziologia della timidezza, vi è comunque accordo in letteratura nel considerare i fattori genetico-biologici come fattori di rischio per lo sviluppo delle forme di timidezza, in cui giocherebbero un ruolo fondamentale invece i fattori ambientali. La timidezza dunque può essere appresa e mantenuta da specifiche credenze che la persona ha riguardo se stessa e gli altri. Similmente possiamo riscontrare casi di timidezza generalizzata diversi contesti oppure casi di timidezza specifica in termini situazionali e contestuali (sentirsi timidi soltanto in determinate e specifiche situazioni e/o in relazione a specifici interlocutori).

Le dinamiche della timidezza e le strategie di coping funzionali e disfunzionali

Bernardo J. Carducci fu professore di psicologia presso la Indiana University Southeast e fu uno dei massimi esperti in tema di timidezza e delle sue dinamiche. Riguardo al costrutto della timidezza mise a punto un modello cognitivo rigoroso e diffuso in un libro pubblicato nell’anno 2000 con Susan Golant. Nel 1997 fondò lo “Shyness Research Institute”, nella sede dell’Indiana University Southeast, per promuovere la comprensione psicologica della timidezza.

Secondo i suoi studi vi sarebbero tre dinamiche principali coinvolte nella timidezza:

  1. Conflitto tra avvicinamento-allontanamento: il timido vuole entrare in iterazione con gli altri, ma si blocca, preferisce aspettare che siano gli altri a fare la prima mossa. La motivazione è presente ma non sufficiente dunque.
  2. Lento meccanismo di riscaldamento: i timidi hanno bisogno di tempi più estesi per rapportarsi agli altri, ed è anche questo che li blocca, vorrebbero velocizzare le relazioni ma non ci riescono.
  3. Zona di comfort limitata: i timidi si lasciano coinvolgere nelle uscite, nel partecipare a situazioni sociali, ma tendono a ripetere sempre le stesse cose, mostrano un limitato repertorio di azioni che cercano di non modificare, perché per loro il cambiamento significherebbe minaccia e pericolo.

Inoltre i timidi sembrano presentare alcuni bias attentivi e cognitivi che si riscontrano anche nelle forme di disturbo d’ansia sociale. Ad esempio, l’eccessiva attenzione e automonitoraggio di se stessi durante le interazioni sociali e la tendenza all’autocriticismo e autovalutazione negativa di sé nei contesti sociali.

Come affrontare la timidezza

Molto spesso le persone timide utilizzano una serie di strategie per affrontare la loro timidezza. Le principali strategie utilizzate sono: estroversione forzata, estroversione mentale (parlare della timidezza), estroversione educativa (ricercare informazioni sulla timidezza), estroversione liquida (bere alcolici per rilassarsi ed eliminare l’ansia), estroversione assistita (ricercare un aiuto professionale di uno psicologo o psicoterapeuta) (Carducci, 1999). Spesso le strategie sopra descritte, ad eccezione dell’utima, si rivelano disfunzionali e agiscono contro la timidezza stessa.

Carducci (1999) affermava che la strategia migliore di cui ci si può appropriare è quelle dell’intelligenza colloquiale, ossia la capacità di coinvolgere gli altri in una conversazione al fine di sviluppare una relazione sociale. Ciò è utile in quanto ogni tipo di relazione inizia con una conversazione e quindi è importante imparare come connettersi con gli altri, capacità che è deficitaria nelle persone timide. Per l’appropriazione della strategia dell’intelligenza colloquiale e del deficit nell’iniziare una conversazione, ad esempio l’approccio di Carducci propone un approccio step-by-step utile ad iniziare e proseguire una conversazione e a connettersi con le altre persone (Carducci, 1999). Innanzitutto viene insegnato come iniziare una conversazione, come mantenerla, come coinvolgere altre persone in una conversazione avviata e infine come terminare con successo una conversazione creando opportunità future di contatto.

In generale, la visione di Bernardo J. Carducci prevede che sia importante lavorare con la timidezza anziché contro la timidezza. È importante accettare il fatto di essere timidi, capire le dinamiche della propria timidezza e modificare ciò che si fa e non ciò che si è. Il modello di Bernardo Carducci si muove nell’area della psicologia dell’accettazione – anche se la terminologia che lui usava era più tradizionale – e infatti il suo scopo era di aiutare i timidi a diventare “successful shy”, timidi di successo, ovvero senza negare la loro natura ma valorizzandola. Valorizzando quindi la tendenza all’introversione come sensibilità introspettiva e la difficoltà a relazionarsi come capacità di stabilire contatti intimi e profondi, sebbene meno abbondanti rispetto agli estroversi.

La differenza tra timidezza e ansia sociale/fobia sociale

È imporante tenere presente che, nonostante molte similarità, vi sono delle differenze rilevanti tra timidezza e ansia sociale o fobia sociale. Timidezza e ansia sociale (o fobia sociale) sono due condizioni di “discomfort sociale”, la prima frequente e non clinicamente rilevante, la seconda appartenente alla più ampia categoria dei disturbi d’ansia.
 Secondo molti autori entrambe le condizioni si collocano lungo un continuum a intensità crescente e sono connotate da emozioni di imbarazzo e vergogna che si manifestano in contesti interpersonali. Non sempre tali condizioni risultano immediatamente distinguibili.

Pensare alla timidezza necessariamente come un difetto o, ancor peggio come una malattia, è quindi profondamente errato. Il luogo comune non distingue infatti la timidezza dalla fobia sociale, disturbo ansioso caratterizzato da una costante e sproporzionata paura nelle relazioni sociali, uno stato di intenso malessere psicofisico che costringe l’individuo a evitare situazioni sociali per il timore di essere giudicato inadeguato dagli altri. Il più delle volte questo timore si autoalimenta dando vita a una sorta di circolo vizioso, in cui il soggetto fobico, per paura che gli altri scoprano le sue preoccupazioni, arriva al punto di avere paura della paura stessa, sviluppando un’ansia anticipatoria che lo costringe di conseguenza a perpetuare i suoi comportamenti di evitamento.

La fobia sociale, o ansia sociale, è quindi di fatto un disturbo d’ansia caratterizzato da ansia significativa indotta dall’esposizione a determinate situazioni interpersonali o prestazionali in pubblico (come parlare o mangiare insieme ad altre persone, firmare un documento davanti a degli osservatori, utilizzare un bagno pubblico, conoscere nuove persone, esprimere la propria opinione in gruppo, prendere la parola in una riunione), spesso associata ad evitamento di situazioni, comportamenti, luoghi, contesti, persone che possono elicitare le situazioni temute. La sua caratteristica principale è la paura di essere criticati dagli altri durante azioni o compiti di vario genere o essere soggetti alla valutazione di altre persone. Le persone con fobia sociale temono che le loro prestazioni o azioni appariranno agli occhi degli altri inadeguate e/o ridicole. Il concetto di paura del giudizio altrui è l’aspetto centrale della fobia sociale, oltre ad essere considerato fondamentale anche nell’eziologia e nel mantenimento del disturbo (Clark, Wells, 1995).

La fobia sociale, spesso, si accompagna ad altri disturbi come la depressione e la dipendenza da sostanze (Kessler, Stang, Wittchen, Stein, Walters, 1999). Le persone con fobia sociale tendono ad abusare di sostanze o di alcool per fini autoterapeutici: infatti, grazie alla loro azione “disinibente”, queste sostanze aiutano ad alleviare l’ansia che origina dal confronto con le situazioni temute. I soggetti che soffrono di fobia sociale presentano una significativa disfunzione sociale e professionale e scarsa qualità della vita (Fresco, Erwin, Heimberg, Turk, 2000).

I modelli cognitivi comportamentali che cercano di spiegare l’origine e il mantenimento della fobia sociale evidenziano il ruolo dell’ansia anticipatoria (generata da preoccupazioni, pensieri, ricordi, immagini, aspettative, conseguenze catastrofiche fantasticate prima di esporsi alla situazione temuta, come la possibilità di essere criticati dagli altri o giudicati negativamente in una determinata situazione sociale), dell’attenzione focalizzata e della valutazione a posteriori dell’evento (PEP) che riguarda sia la valutazione dei comportamenti tenuti al termine della performance, sia delle emozioni, dei pensieri, e dei ricordi esperiti, nonché il giudizio relativo alla propria performance e alle sue future conseguenze su di sé e sul proprio futuro (Clark e Wells, 1995; Rapee, Heimberg, 1997)
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Diversi contributi in letteratura evidenziano quindi che la timidezza e la fobia sociale, seppur presentando aspetti di similarità, sono di fatto costrutti diversi. In particolare, alcune evidenze empiriche dimostrano che la depressione giocherebbe un ruolo chiave per comprendere il rapporto tra timidezza e ansia sociale. Secondo questi studi il rapporto tra la timidezza e la fobia sociale sarebbe mediato dalla depressione, anche se non dal processo cognitivo della ruminazione. Questi risultati hanno implicazioni in ambito clinico in termini di screening per la depressione nelle persone timide e la gestione della depressione, attraverso la CBT, al fine di poter eventualmente prevenire l’insorgenza di fobia sociale.

Il Corpo in Psicoterapia – Report dal primo livello del corso, 11 maggio 2019

L’appuntamento per le prime due giornate dedicate al corso è di sabato, via Domodossola, adiacente a Piazza Re di Roma. È lì che si trova il centro Mindful, lo studio che ci accoglie e sarà sede degli incontri.

Luisa Buonocore

 

Questo corso si rivolge agli psicoterapeuti che vogliono approfondire il lavoro sul corpo e integrarlo nella loro pratica clinica. Di preciso Edoardo Pera, psicoterapeuta a orientamento corporeo, di formazione reichiana e istruttore Mindfulness, conduttore del corso, ci ospiterà in una grande stanza doppia, che è possibile separare, al bisogno, attraverso una sofisticata parete a scomparsa insonorizzata.

Questo elemento di modernità è armonizzato con elementi più antichi, come la parete con mattoni a vista che disegnano due archi o le nicchie irregolari illuminate da sapienti faretti. Ne deriva una stanza piacevole, accogliente, piena di tappeti e cuscini di ogni forma. Siamo in dieci, tutti psicoterapeuti, nove cognitivo-comportamentali, di cui la maggior parte ad orientamento TMI, e una psicoanalista. Nel corso delle giornate, si metteranno in gioco tutti, nessuno si risparmierà dallo svelare un po’ di sé, ma, da buoni cognitivisti, sempre preoccupati del fare, non faremo mancare domande sulle applicazioni cliniche di ciò che sperimenteremo in prima persona.

Il corpo in psicoterapia: il corso…in pratica

Poca teoria e tanta pratica. Sarò l’unica a prendere, poche volte, quaderno e penna, perché per 6 ore a giornata saremo immersi completamente negli esercizi e nell’auto-osservazione. Si inizia con gli esercizi di scioglimento, si prosegue con quelli di respirazione e di grounding. Edoardo li conduce in modo molto diverso rispetto alle tracce dei libri, sa che tono di voce usare (e ci farà lavorare anche su quello), sa dove direzionare l’attenzione e la consapevolezza, sa correggere con gentile fermezza.

Si prosegue con gli esercizi di attivazione, una peculiarità dell’approccio reichiano. Il conduttore li propone seguendo una precisa struttura: inizialmente, dopo averci mostrato l’esercizio, ci chiede di replicarlo, e lo fa svolgere spontaneamente, solo dopo un po’ inizia a fornire lievi suggerimenti per perfezionare i nostri movimenti. Ci mostra così implicitamente le potenzialità di tali esercizi: esploratoria e di cambiamento. Questi esercizi possono diventare quindi facilmente parte del già ampio bagaglio di tecniche che il terapeuta TMI può utilizzare come via di accesso al mondo interno del paziente e allo stesso tempo come risorsa di lavoro per il cambiamento (Dimaggio et al., 2019). Attraverso tali esercizi, il paziente può acquisire maggiore consapevolezza di come il suo corpo racconta la sua storia e di come sia centrale il lavoro su di esso per favorire l’esplorazione e il cambiamento.

Il corpo in psicoterapia: solo dopo pensieri ed emozioni

Dopo ciascun esercizio Edoardo apre la discussione chiedendoci le nostre osservazioni, cosa che noi cognitivisti aperti ai nuovi approcci bottom-up siamo allenati a fare, ma insiste su un particolare per nulla trascurabile: l’ordine con cui vanno esplorati pensieri, emozioni e sensazioni. E cioè esattamente l’opposto di come l’ho appena scritto e di come tanti di noi sono abituati a fare.

Lasciateli per ultimi i pensieri, allenatevi a sentire il corpo – ripeterà più volte.

Il conduttore arricchisce le nostre condivisioni con le sue osservazioni, il suo occhio è super allenato, non gli sfugge nessun movimento, tensione, postura discordante. Riconduce ogni osservazione e la parte del corpo interessata ad una fase evolutiva, una formulazione lontana dalla nostra ma che appare chiara e centrata con le sue parole: pur parlando una lingua diversa riusciamo a comprendere la lettura dell’approccio post-reichiano.

In questi incontri ho così imparato a porre attenzione consapevole all’altezza del mio sguardo, a notarne le oscillazioni, a interrogarmi sul loro significato. Ho preso consapevolezza del fatto che anche piccolissimi movimenti del nostro corpo possono raccontare una storia. Ho sperimentato come esplorare con il corpo nuove posture o movimenti possa generare sensazioni diverse da quelle usuali.

Allo scoccare delle 17 di sabato 11 maggio ci diamo appuntamento per il secondo livello, io saluto tutti velocemente perché ho un treno che mi aspetta. Dopo la corsa verso la stazione, ho il tempo del viaggio per fermarmi, riflettere e osservare come sento il mio corpo. La sensazione è quella di sentirsi di più, sentire il corpo riempire tutto il suo spazio. E, a essere sinceri, anche un po’ di mal di schiena…Ma lo osservo e lo accolgo gentilmente.

Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno (2019) di Rizzolatti e Sinigaglia – Intervista a Giacomo Rizzolatti sul suo ultimo libro

I neuroni specchio sono stati scoperti circa 20 anni fa, grazie all’importante contributo di Giacomo Rizzolatti. Si tratta di neuroni motori che si attivavano non solo quando viene effettuata un’azione, ma anche quando si vede qualcun altro svolgere un’azione simile. Nono solo.. i neuroni specchio sembrano avere un ruolo anche nelle interazioni sociali, aiutandoci a capire scopi ed emozioni dell’altra persona.

Apparso sul Corriere della Sera del 5 maggio 2019

 

Viviamo immersi negli scambi sociali, decodifichiamo in diretta gli scopi delle azioni degli altri. È un’operazione che sembra richiedere un impegno cognitivo enorme. Il ragionamento è troppo lento, ci servono meccanismi più veloci. I neuroni specchio costituiscono la base per sapere all’istante cosa vuole l’altro, che emozione prova e come vive l’esperienza. Daniel Stern parla di forme vitali, i modi del sentire: una stretta di mano energica o fiacca, un’ira fredda o esplosiva. Come le intuiamo? Grazie ai neuroni specchio l’altro agisce in un certo senso dentro di noi. Nell’ultimo libro: “Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno”, Rizzolatti e Sinigaglia mostrano come gli stessi neuroni ci permettono di intuire velocemente cosa l’altro prova e come.

Intervista al Professor Rizzolatti

Intervistatore (I): Professor Rizzolatti, innanzitutto, ci può dire in modo semplice cosa sono i neuroni specchio?
Rizzolatti Giacomo (RG): Circa 20 anni fa abbiamo scoperto dei neuroni, motori, che si attivavano non solo quando la scimmia agiva, ma anche quando vedeva lo sperimentatore fare un’azione simile. La sorpresa era questa: i neuroni motori sono motori, quelli visivi sono visivi. Questi invece erano sia motori che visivi e soprattutto rispondevano selettivamente allo scopo dell’azione. In un esperimento, ad esempio, la scimmia afferrava un oggetto con la mano, ma il suo neurone specchio sparava anche se lo sperimentatore lo afferrava con la bocca: capiva ‘afferrare’. Trasformava una rappresentazione sensoriale (vedere) in una motoria.

I: Ci sono neuroni specchio anche in altre specie?
RG: Sì, sono presenti nell’uomo, nei ratti, nei pipistrelli, negli uccelli. Indipendentemente dalla posizione nella scala evolutiva, sembra un meccanismo molto efficiente. Capire gli altri mediante un modello interno che hai tu.

I: Un modello interno pre-esecutivo, non solo rappresentazionale. Il corpo si prepara ad agire mentre capisce?
RG: Sì e no. Se io vedo che uno afferra il cibo e sono a cento metri non mi preparo ad afferrare. Per capire gli altri devo avere un modello interno dello scopo della loro azione. Immagini di osservare un giocatore di pallacanestro che tira un tiro libero. Chi capisce più velocemente dove andrà a finire la palla sono i campioni. Gli esperti, ma non ex-giocatori, sono meno precisi, i non esperti ancor meno. Chi ha giocato ha un modello interno dell’azione più accurato e lo chiama in causa per comprendere il gesto che osserva come se lo eseguisse in prima persona.

I: Sembrerebbe giustificare la presenza di un telecronista che ha praticato quello sport a fianco del commentatore.
RG: Concordo. Io sono appassionato di calcio e trovo molto intelligenti, ad esempio, i commenti di Giuseppe Bergomi.

I: Esatto! A proposito, mi ha divertito la scoperta dei neuroni specchio nelle cosiddette place cells, le cellule di posizione.
RG: Ha sorpreso anche noi vedere come capiamo la posizione degli altri riferendoci a una nostra eventuale posizione in quel punto.

I: Spiegano qualcosa degli sport di squadra: abbiamo aree che ci fanno risuonare con gli altri del team.
RG: Certamente Le applicazioni allo sport sono tante. Pensi a un’atleta che si prepara a saltare con l’asta. Si concentra? No, sta girando nella sua mente i movimenti che deve fare e lo fa utilizzando i neuroni specchio. Questi si attivano sia quando vedi fare quell’azione, sia quando la pensi.

I: Tornando al funzionamento in gruppo, mi vengono in mente gli studi di Michael Tomasello sulle origini del sistema cooperativo, che coordina l’intenzionalità congiunta, per esempio nella caccia collettiva. Credo che i neuroni specchio abbiano avuto un ruolo fondamentale, permettevano di risuonare con scopi e posizioni degli altri cacciatori e rendere la caccia più efficace.
RG: È coerente con i nostri lavori, vero. Secondo Ramachandran i neuroni specchio sono i neuroni della cultura. Immagini un geniale uomo primitivo, circa 100.000 anni fa quando si stavano ancora formando i neuroni specchio per l’imitazione, che fabbrica un coltello efficientissimo. Se nessuno lo sa imitare, quel coltello si perde con l’inventore. Sviluppatisi i neuroni specchio per l’imitazione il coltello viene riprodotto, perfezionato, trasmesso nel tempo. La novità del nostro libro riguarda però la comprensione delle azioni e le emozioni, non l’imitazione.

I: E l’empatia.
RG: Sì. Noi la definiamo non come il comportarsi bene con l’altro, tu stai male e io ti aiuto, ma un esperire assieme. Tu e io siamo nello stesso stato: tu hai male e io male, tu sei felice e io felice.

I: Uno studio mi ha colpito: se tu provi disgusto la mia insula reagisce. Se tu sei divertito il mio giro cingolato reagisce e genera il riso. Se tu soffri, mi si attiva una porzione diversa del cingolo, ma non mi fa soffrire, mi prepara ai guai!
RG: Esatto. C’è un’area che non abbiamo studiato per ora che forse “risuona” con la tristezza altrui, ma la sua interpretazione è corretta: vedo che l’altro soffre e mi preparo ad agire. Prima si pensava che fosse un reagire al dolore dell’altro, ma in realtà è come se il soggetto pensasse qualcosa come: “Non so perché ma devo andarmene”.

I: Avete investigato un concetto caro a noi psicoterapeuti, le forme vitali.
RG: Daniel Stern ne ha parlato nel 1985 e per 30 anni i neuroscienziati se ne sono disinteressati! Il nostro Di Cesare le ha studiate a fondo e mi dispiace perché i suoi studi, accurati ed originali, sono poco citati.

I: Provvedo subito a citarlo in un articolo che sto pubblicando io!
(A questo punto mi rendo conto che di Rizzolatti, oltre che genio e acume, mi colpisce l’estremo rispetto con cui parla del lavoro dei colleghi e dei collaboratori. Una dote rara).
RG: Ne sarà contento. Mi colpisce che lei consideri le forme vitali importanti.

I: È che lo scambio psicoterapeutico si basa sulla sintonia con la forma vitale del paziente: sento quello che dici e capisco come lo dici: gentile, brusco, deluso. Sono processi di sintonizzazione relazione di tipo pre-cognitivo, concorda?
RG: Assolutamente. Alcuni studiosi pensavano fosse un aspetto di simulazione, ma invece credo siano processi pre-consci, la simulazione implica cognizione, ti vedo fare così e provo a farlo. Anche l’empatia è pre-cognitiva: intanto esperisco quello che provi senza ragionare, poi decido il da farsi, se valuto che sei amico ti aiuto, se sei nemico ti attacco.

I: I neuroni specchio non garantiscono precisione nel comprendere l’altro. Dovrebbero per esempio favorire la cosiddetta sovra-attribuzione di similarità. Ti sento, risuono e concludo che siamo simili anche se magari non è così.
RG: Corrado (nda: Sinigaglia, co-autore del libro) ed io ne abbiamo discusso molto. Bisogna distinguere la comprensione basilare dell’azione – che investighiamo noi – dalla comprensione intellettuale che recluta altri processi di ragionamento. Io vedo uno che afferra un bicchiere e capisco immediatamente senza alcuna cognizione che lo fa per bere, ma non posso concludere che è un beone o lo fa perché la moglie lo tradisce. Forse alcuni psicologi si erano infastiditi perché pensavano che volessimo spiegare tutto, ora c’è pace.

(Faccio notare a Rizzolatti che per tutto il libro hanno interpretato ogni esperimento con parsimonia estrema ed eleganza, non li si può certo accusare di considerare le loro scoperte la chiave unica per la comprensione degli altri esseri umani. Rizzolatti apprezza la mia osservazione. Gli scienziati veri hanno questa dote: interpretano il dato fin lì, e si fermano).

I: Un’ultima domanda. Il neurone specchio spara sia quando la persona sta per compiere l’azione sia quando la osserva. Ma anche in una terza condizione: quando la immagina.
RG: Sì. Marc Jeannerod ha osservato che i neuroni specchio sono gli stessi che si attivano nell’immaginazione motoria. Fare un gesto gentile o maleducato, osservarlo o immaginarlo innescano le stesse aree. La stessa area si attiva se osserva Federer, se sta per colpire la palla o immagina di colpirla. Però deve immaginare di essere lei a colpire, non si attiva se immagina Federer colpire, lì è un altro tipo di immaginazione, di tipo visivo.

In conclusione

Le implicazioni delle ricerche sui neuroni specchio sono molte: ragionamento decisionale, psicoterapia, psicologia sociale e dello sport, marketing. Domanda aperta: cosa inibisce i neuroni specchio e blocca le aree del cervello predisposte a portare l’altro dentro di noi? Domanda senza risposta: perché malgrado io scruti ogni movimento di Federer il mio dritto non gli somiglia neanche lontanamente? Mi rassegno: i miei neuroni specchio sono disallineati alla nascita.

Disturbi alimentari e maggior rischio di sintomi depressivi nelle madri

Diversi studi dimostrano che le donne con disturbi alimentari, come anoressia nervosa e bulimia nervosa, dopo la gravidanza sperimentano più sintomi depressivi (40-60%) rispetto alla popolazione generale (5-13%).

 

Altri studi hanno rilevato che circa 1/3 delle donne soffrono di depressione post-partum, e che tra le donne che hanno sofferto di disturbi alimentari questa proporzione aumenta fino a 2/3.

Disturbi alimentari e depressione nelle madri: lo studio logitudinale

Lo studio condotto dalla University College London (UCL), pubblicato sul British Journal of Psychiatry, ha voluto indagare l’andamento e lo sviluppo dei sintomi depressivi nel lungo termine delle madri affette da disturbi alimentari, come anoressia nervosa e bulimia nervosa o entrambe.

Le diagnosi di disturbo alimentare erano self reported.

Nello specifico si è indagato come lasso temporale dalla 18 settimana di gravidanza fino ai 18 anni del bambino. Inoltre, i ricercatori hanno voluto indagare anche la percezione dell’immagine corporea durante la gravidanza in queste donne.

Lo studio ha utilizzato come campione i dati della Avon Longitudinal Study of Parents and Children (ALSPAC), dati appartenenti ad un campione di donne in gravidanza.

Le partecipanti allo studio erano 9276 donne, 126 (1,4%) riportavano una diagnosi di anoressia nervosa, 153 (1,6%) di bulimia nervosa e 60 (0,6%) sia anoressia nervosa che bulimia nervosa.

Disturbi alimentari e depressione nelle madri: il rischio è maggiore

I risultati mostrano come le donne con disturbi alimentari da tutta la vita riportassero un maggior numero di sintomi depressivi rispetto al campione di controllo, formato da donne senza una diagnosi di disturbo alimentare.

Nello studio si evidenzia una forte associazione tra l’immagine corporea e le preoccupazioni alimentari e anche un possibile sviluppo di sintomi depressivi nel futuro nelle donne in gravidanza. Nonostante un efficace trattamento del disturbo alimentare, i sintomi depressivi si possono comunque presentare in futuro.

Per concludere, questo grande studio longitudinale ha rilevato che le donne con diagnosi di disturbo alimentare, ad un certo punto della loro vita sviluppano sintomi depressivi nel periodo successivo alla gravidanza; in più questi sintomi possono persistere fino a 18 anni; inoltre le donne con preoccupazioni legate alla loro immagine corporea e all’alimentazione sono più a rischio di sviluppare sintomi depressivi nel corso della loro vita.

Lo studio presenta anche alcuni limiti, dal momento che la principale variabile utilizzata era quella legata alla misurazione autoriferita del disturbo alimentare.

La stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS) modula gli atteggiamenti impliciti verso il cibo nei disturbi alimentari – Riccione, 2019

Nel seguente articolo presentiamo il lavoro premiato come “Miglior poster di ricerca” al Forum di Ricerca in Psicoterapia 2019 di Riccione

 

Nel corso di questo studio la tDCS è stata applicata sulla corteccia prefrontale mediale (mPFC) sinistra e sull’extrastriate body area (EBA) destra di pazienti con disturbi del comportamento alimentare e partecipanti sane.

Gallucci A., Mattavelli G., Schiena G., D’Agostino A., Sassetti T., Bonora S., Bertelli S., Benetti A.,
Tugnoli E., Ruggiero G., Sassaroli S., Romero Lauro L., Gambini O., Papagno C.

 

Premesse

Recentemente, la ricerca neuroscientifica ha rivolto molto interesse allo studio dei disturbi del comportamento alimentare. Tuttavia, i meccanismi neurobiologici sottostanti l’origine e il mantenimento del disturbo non sono ancora chiari, così come il ruolo delle aree cerebrali implicate nell’elaborazione degli stimoli di cibi e nella rappresentazione corporea.

Diversi studi di neuroimmagine hanno mostrato che le aree cerebrali attivate durante l’elaborazione di immagini di cibi comprendono l’amigdala, l’ippocampo, l’insula anteriore, la corteccia orbito-frontale e la corteccia prefrontale dorso-laterale e mediale; rispetto alla rappresentazione corporea, alcuni studi mostrano che ad essere implicata sia l’extrastriate body area, un’area localizzata nella corteccia occipito-temporale laterale che risponde ad immagini di corpi (Downing et al., 2001).

Il crescente interesse per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare, insieme alle evidenze circa l’implicazione di specifici circuiti neurali, ha portato a indagare la possibilità di utilizzare tecniche di neuro-stimolazione non invasiva, come la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS), per modulare l’attività delle aree coinvolte, allo scopo di giungere ad una migliore comprensione dei meccanismi sottostanti i disturbi e sviluppare protocolli di trattamento da affiancare alle classiche terapie farmacologiche e alla psicoterapia. In particolare, la tDCS è una tecnica di neuro-modulazione, ampiamente utilizzata sia in campo sperimentale che in contesti riabilitativi, in grado di modulare l’eccitabilità corticale tramite l’applicazione di deboli correnti elettriche allo scalpo, rilasciate attraverso una coppia di elettrodi (Nitsche et al., 2008).

Oggetto della ricerca

Il presente studio aveva lo scopo di verificare gli effetti di modulazione della tDCS sugli atteggiamenti impliciti verso il cibo ed il corpo, fattori potenzialmente determinanti per la comparsa e il mantenimento della patologia alimentare. Con questo obiettivo la tDCS è stata applicata sulla corteccia prefrontale mediale (mPFC) sinistra e sull’extrastriate body area (EBA) destra di pazienti con disturbi del comportamento alimentare e partecipanti sane.

Metodo

Lo studio ha coinvolto 36 pazienti con diagnosi di anoressia nervosa o bulimia nervosa, reclutate presso l’Ambulatorio per lo studio e la cura dei disturbi del comportamento alimentare dell’Ospedale Santi Paolo e Carlo di Milano e 36 partecipanti sane, reclutate presso l’Università Milano-Bicocca.

Sia le pazienti che le partecipanti sane sono state coinvolte in tre diverse sessioni di stimolazione. In due sessioni è stata applicata la tDCS anodica, nota per aumentare l’eccitabilità dei neuroni corticali, o su mPFC o su EBA, mentre in una sessione è stata applicata la tDCS sham, cioè una stimolazione placebo. In ciascuna sessione, alla stimolazione faceva seguito l’esecuzione dell’“Implicit Association Test” (IAT; Greenwald et al., 1998), un compito sperimentale da svolgere al computer che permette di valutare gli atteggiamenti impliciti verso immagini di cibi gustosi e non gustosi, di corpi sottopeso e sovrappeso e di fiori e insetti come condizione di controllo.

Risultati

I risultati più interessanti hanno riguardato gli atteggiamenti impliciti verso le immagini di cibi, valutati tramite l’indice D, un indice che riguarda la forza dell’atteggiamento implicito (un indice D elevato corrisponde ad un atteggiamento implicito forte) e i tempi di reazione, cioè il tempo impiegato dalle pazienti e dai controlli nell’associare le immagini agli attributi del test IAT. In particolare, le analisi hanno mostrato che solo nelle pazienti la tDCS applicata su EBA destra aumentava l’indice D rispetto alla stimolazione placebo. Inoltre, solo nelle pazienti, la tDCS sulla mPFC e su EBA destra aumentava i tempi di reazione nei blocchi incongruenti (i.e. immagine di una pizza associata ad attributi negativi) rispetto alla condizione sham.

Conclusioni

I risultati dello studio hanno mostrato che la tDCS applicata su mPFC modula significativamente gli atteggiamenti impliciti verso il cibo delle pazienti con disturbi del comportamento alimentare. Questi dati sono in linea con studi precedenti (Fregni et al., 2008; Mattavelli et al., 2015; Van den Eynde et al., 2010) e confermano il ruolo di mPFC nel regolare le preferenze per il cibo e le strategie cognitive legate al cibo. L’effetto della tDCS su EBA destra è in realtà inaspettato. L’ipotesi è che l’effetto diffuso della tDCS abbia modulato l’attività di aree frontali e posteriori, cruciali per l’elaborazione degli stimoli di cibi.

Nonostante non sia stato individuato un effetto di modulazione della tDCS sugli atteggiamenti impliciti legati alle immagini di corpi, lo studio mostra che la tDCS modula specificatamente le preferenze implicite delle pazienti verso cibi gustosi e non gustosi, aprendo prospettive incoraggianti per il trattamento dei disturbi alimentari.

Vulvodinia: il ruolo della ruminazione in risposta ad eventi traumatici precoci

La vulvodinia è una patologia la cui incidenza si è stimata sul 14% della popolazione femminile (Stockdale, Lawson, 2014) ed è caratterizzata da un dolore cronico nella zona del vestibolo vulvare che rende doloroso qualsiasi contatto intimo e spesso inficia la qualità della vita dei soggetti che ne soffrono.

 

Sebbene l’eziologia del disturbo sia riconducibile a diverse cause di natura in diverse ricerche, tra cui possiamo citare quelle di Harlow & Steward (2005), Noleman-Kieksema, Wisco & Lyubomirsky (2008), Lyubomirsky & Tkach (2004) e Ganzel, Morris & Whetington (2010), il processo infiammatorio che ne consegue viene ricondotto ad una risposta immuno-infiammatoria alterata.

Vulvodinia secondo il Modello Cognitivo Pervasivo

Il modello esplicativo di riferimento è quello chiamato Pervasive Cognition Model (Modello Cognitivo Pervasivo) che propone un modello meccanicistico plausibile che spiegherebbe in che modo eventi stressanti occorsi precocemente, con le conseguenze psicologiche e fisiologiche ad essi correlati, influiscano sull’insorgenza e il mantenimento degli stati infiammatori. In questo senso, la rievocazione mnestica e il mantenimento del ricordo dell’evento traumatico o le ruminazioni cognitive da esso elicitate, concorrono a mantenere o addirittura aumentare l’attivazione fisiologica di distress esperito a causa del trauma, anche tempo dopo che tale evento è occorso.

Brosschot, Gerin & Thayer (2006) hanno indagato il ruolo delle “perseverative cognition” a seguito di eventi traumatici precoci, dimostrando l’impatto disregolatorio sull’asse adreno-ipofisi-surrenale dei soggetti analizzati, da ultimo impattando sul loro stato di salute generale.

Vulvodinia e ruminazione in donne traumatizzate: lo studio

Con l’intento di ampliare i risultati ottenuti dalle ricerche già presenti in letteratura, un recente studio di Khandlker, Brady, Rydell, Turner, Schreiner & Harlow (2019) si è proposto di estendere la conoscenza aneddotica di una relazione tra trauma e insorgenza della sindrome algica nella vulvodinia, con uno studio sistematizzato su due popolazioni di riferimento: 30676 donne hanno partecipato ad uno screening online autosomministrato, per indagare la presenza di un passato di dolore genitale, in seguito sono state selezionate 185 donne che rispondessero ai criteri diagnostici per la vulvodinia, e altrettante donne che rappresentassero invece soggetti di controllo, non affetti da alcun dolore genitale.

La ruminazione mentale dei soggetti sperimentali è stata analizzata mediante un Multidimensional Rumination Questionnaire (MRQ), adattato dagli autori per poter prendere in esame eventi avvenuti in un lasso di tempo più esteso da quello consentito dal questionario classico (2 settimane). 15 items erano volti ad indagare la ruminazione focalizzata sull’emozione (e.g. “Per quanto hai pensato a quando non saresti più stato di umore depresso per quello che è successo?”), 7 item per analizzare la ruminazione strumentale (e.g. “Quanto hai pensato a cosa fosse la cosa migliore per te stesso per affrontare questa situazione?”) e infine 6 item rivolti alla ruminazione che cerca un significato (e.g. “Quanto tempo hai passato a pensare cosa tu possa aver fatto per causare questa situazione?) e, complessivamente, come un indice generale di ruminazione (tot. 28 items). Oltre all’MRQ, i soggetti hanno completato due assessment volti ad indagare la gravità degli eventi traumatici subiti; gli abusi fisici o sessuali in età infantile (<12anni) sono stati valutati con una versione adattata a 72 items tratti dalla Conflict Tactics Scale e il Pregnancy Abuse Assesment Screen, riconosciuti per rappresentare un ampio spettro di abuso. I soggetti sono quindi stati divisi nelle due categorie nessun-abuso e abuso grave-moderato (di qualsiasi tipo). In secondo luogo, si è indagata la natura dei traumi precedenti con un’indagine qualitativa operata sul consenso raggiunto tra tre specialisti ricercatori. I dati ottenuti sono stati poi divisi in terzili che delineassero tre profili in base all’intensità del trauma subito dal soggetto (low, moderate, highest severity).

Vulvodinia e ruminazione in donne traumatizzate: i risultati

Dalle analisi di regressione logistica operate sui risultati, è emerso che le donne affette da vulvodinia avevano 2.4 volte più probabilità di essere incluse nel terzile più alto di ruminazione focalizzata sull’emozione. Sia per quanto riguarda le donne che sono risultate vittime di un abuso infantile moderato o grave, sia quelle che sono risultate reduci da un trauma di intensità moderata o alta (moderate o high), quelle affette da vulvodinia ricorrevano nuovamente alla ruminazione focalizzata sull’emozione o quella di tipo strumentale più spesso rispetto alla controparte, non affetta dalla stessa patologia.

La ruminazione focalizzata sulle emozioni è già stata affrontata in letteratura, concludendo come possa comportare nel tempo, un aggravarsi della salute mentale dei soggetti (Friz, 1999; Nolen-Hoeksema & Davis, 1999), il presente studio sembra supportare il ruolo di tale tipo di ruminazione cognitiva anche nelle problematiche di natura sessuale, in questo caso della vulvodinia femminile. Precedenti studi rilevavano un outcome relativamente positivo nel ricorso alla ruminazione che ricerchi le implicazioni pratiche di un evento, come via di guarigione dal trauma (Watkins, 2008; Calhoun & Tedeschi, 2004). Tuttavia, contrariamente a quanto prospettato, lo studio di Maheruh et Al (2019) sembra suggerire che tale tipo di ruminazione, mediato dal fattore temporale, potrebbe in realtà elicitare un’attivazione fisiologica che alimenti troppo a lungo lo stato di stress del sistema (facendo riferimento al modello del Perseverative Cognition Model esposto in precedenza), risultando nell’insorgenza e il mantenimento della vulvodinia.

Ricerche future, volte ad ampliare le conoscenze circa i meccanismi sottostanti le sindromi genitali dolorose sono necessari non solo per comprendere la complicata interconnessione tra il dominio cognitivo e la risposta fisiologica del nostro corpo, ma per guidare l’azione terapeutica che si prepone di migliorare la qualità della vita delle donne che soffrono di questa condizione. Screening precoci sui modelli di ruminazione mentale a seguito di eventi traumatici o abusi subiti potrebbero essere utilizzati come protocolli preventivi contro l’insorgenza della vulvodinia, nonché come come indicatori di uno stile cognitivo disfunzionale che può avere conseguenze sulla salute complessiva dell’individuo.

Gli stati di coping nel disco “Three Friends” dei Gentle Giant

Mentre le strategie di coping sono tutto ciò che il soggetto fa nel pratico per gestire un dolore interno, gli stati di coping sono delle disposizioni mentali storicizzate, degli assetti interni consolidati in cui il soggetto si muove, che servono per proteggersi o evitare di sperimentare gli stati somatici o le immagini di sé negative che in certi momenti possono emergere e causare sofferenza intensa e inaccettabile.

 

Si suggerisce l’ascolto dell’album “Three Friends” (Gentle Giant, 1972) durante la lettura.

In questo articolo parlerò degli stati mentali secondo la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) prendendo come spunto un disco dei Gentle Giant. Particolare attenzione sarà dedicata agli stati mentali di coping. Gli stati di coping rappresentano tutto ciò che il soggetto fa per proteggersi da stati interni dolorosi e temuti (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013) o per evitare esperienze che possono causare sofferenza. Quando diventano rigidi e ripetitivi, possono portare alla patologia (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019).

I Gentle Giant

I Gentle Giant sono stati una band inglese di rock progressivo, attiva dal 1970 al 1980. Hanno inciso 12 album. La loro musica è molto particolare: grande virtuosismo tecnico ma con costante attenzione alla melodia, tempi ritmici pluricomposti combinati a incursioni barocche, contrappunto e tempi fugati, sonorità rinascimentali, musica classica, folk, jazz e hard rock sanguigno. Tutti eccellenti pluristrumentisti, si scambiavano e suonavano vari strumenti con eguale maestria. Qualcuno all’epoca definì la loro musica: “Baroque ‘n’ Roll”.

Nonostante la grande fama negli anni ’70 (In Italia e negli USA in particolare, facevano sempre il tutto esaurito ai loro concerti) dopo lo scioglimento, avvenuto nel 1980, sono scivolati lentamente nel dimenticatoio, questo per vari motivi. Il primo è che non hanno mai avuto un singolo di successo (i loro dischi si dovevano ascoltare e apprezzare nella loro interezza), poi perché a differenza di tante altre band dell’epoca, non hanno mai fatto parlare di sé per atteggiamenti trasgressivi o eccessi da rock star. Non facevano poi un genere molto commerciale. Il motivo principale però, sta nel fatto che dopo il loro scioglimento, non ci sono mai state reunion e nessuno dei singoli membri ha continuato a fare musica a livello professionale. Quindi a differenza di altre band di successo degli anni ’70 che hanno continuato tra alti e bassi anche nei decenni successivi a fare musica (Pink Floyd, Yes, Queen, Deep Purple, Jetro Tull, ecc.), che si sono sciolte e poi riformate varie volte nel corso degli decenni (PFM, King Crimson, Van Der Graaf Generator, Emerson Lake and Palmer, ecc) o i cui singoli membri hanno continuato a fare musica spesso diventando delle celebrità (esempi lampanti sono Phil Collins e Peter Gabriel dei Genesis ma anche Sting dei Police), nel caso dei Gentle Giant non è avvenuto nulla di tutto questo. Con grande coerenza si sono sciolti nel 1980 di comune accordo e mai più si sono riformati, nonostante a tutt’oggi, siano ancora tutti vivi e stiano abbastanza bene.

Il disco “Three Friends” e la storia dei tre amici

Nel 1972 i Gentle Giant realizzarono il loro terzo disco e lo chiamarono “Three Friends”. È uno dei dischi più riusciti della band e più amati dai fans. È un concept album che racconta la storia di tre amici dall’età della scuola elementare alla maturità adulta (per concept album si intende quando tutte le canzoni di un disco sono legate tra loro e, come capitoli di un libro, trattano un unico argomento o raccontano una lunga storia. Esempi sono: “Tommy” degli WHO, “The Lamb Lies Down on Broadway” dei Genesis, “Felona e Sorona” de Le Orme, “Darwin” del Banco del Mutuo Soccorso, “YS” del Balletto di Bronzo o il più famoso “The Wall” dei Pink Floyd).

Il disco si apre con il brano “Prologue” che, come l’abstract di un articolo scientifico, preannuncia cosa succede nel disco. Il testo racconta di come dopo anni passati assieme tra lacrime e risate (“Three friends are made, three lives are laughs and tears”), questi bambini, da un giorno all’altro diventano adulti, il futuro arriva all’improvviso (“As time stands still the days change into years, and future comes without a care”) e non lascia scampo. Dopo decenni di separazione i tre amici si rincontrano e si raccontano le loro vite, quasi per spiegarsi, scusarsi o giustificarsi l’uno con l’altro (“Three boys are men their ways have drawn apart, they tell their tales to justify”). Il secondo brano, “Schooldays”, è una ballata delicatissima ed eterea, la musica evoca in modo sublime l’atmosfera celestiale e impalpabile dell’infanzia, dove il tempo e lo spazio sembrano coesistere e non esistere, un giorno è un anno e viceversa, le sensazioni sono intense e perduranti. La canzone racconta gli anni spensierati e felici trascorsi assieme. Il legame solido, morboso, quasi patologico dei tre amici ma anche la rottura drammatica e improvvisa della loro amicizia (“We made vows, they’re gone now, we made friends, we broke friends, no more friends”). Dopo questi due brani introduttivi si entra nel vivo della storia, le canzoni successive raccontano le vite dei tre protagonisti e degli specifici stati di coping da loro messi in atto nel corso della loro vita. Prima però, al fine di aiutare la comprensione, una breve esposizione degli stati mentali ricorrenti secondo la TMI.

Gli stati mentali secondo la TMI

I soggetti con disturbi o tratti rigidi di personalità possono oscillare costantemente tra varie forme di esperienze soggettive interne, stati mentali ricorrenti caratterizzati da pensieri, credenze, emozioni, attivazioni somatiche, idee, comportamenti o atteggiamenti rigidi, stereotipati e spesso non consapevoli (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013; Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Gli autori ne distinguono tre tipologie.

Gli stati dolorosi o temuti sono quelli che si possono presentare sotto forma di emozioni negative, risposte corporee di vario tipo (iperarousal o ipoarausal, sintomi fisici, d’ansia, depressivi, ecc) credenze e immagini negative di sé molto radicate e rigide. Ovviamente, dato che sono carichi di sofferenza, il soggetto fa di tutto per proteggersi ed evitarli (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Alcuni esempi possono essere il senso di indegnità, il sentirsi invisibili o inesistenti, non amabili, inadeguati o senza valore, colpevoli, cattivi o egoisti, soli o abbandonati, vulnerabili o in pericolo. Spesso quello che il soggetto fa per fronteggiarli è disfunzionale e peggiorativo (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Si tratta quindi di stati dolorosi che si possono riattivare in specifiche situazioni interpersonali (un litigio o un’incomprensione con un caro, una situazione sociale spiacevole, ecc.) o essere ininterrottamente presenti nella mente delle persone. Possono presentarsi sia sotto forma di idee, cognizioni su di sé che sotto forma di sensazioni fisiche, viscerali, somatiche ed emotive (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Spesso sono originati da esperienze relazionali precoci dolorose, traumi o altre relazioni interpersonali negative ripetute e continuative.

Gli stati di coping invece sono delle condizioni mentali, automatizzate, procedurali oppure consapevoli che i soggetti mettono in atto nel corso dell’intera vita o davanti a situazioni specifiche per proteggersi o gestire gli stati dolorosi reali, temuti o anche solamente percepiti. Gli stati di coping servono per proteggersi o evitare di sperimentare gli stati somatici o le immagini di sé negative che in certi momenti possono emergere e causare sofferenza intensa e inaccettabile. Quindi, mentre le classiche strategie di coping sono tutto ciò che il soggetto fa nel pratico per gestire un dolore interno (abbuffarsi, ubriacarsi, sesso compulsivo, attività fisica esagerata, pensieri perseverativi, ricerca di rassicurazioni, ecc), gli stati di coping, come dice stesso la parola, sono degli stati stabili, delle disposizioni mentali storicizzate, degli assetti interni consolidati in cui il soggetto si muove, uno specifico adattamento messo in atto quando sta per arrivare il dolore. Ad esempio, mi sento solo e abbandonato (stato mentale doloroso), vado in uno stato di coping di stordimento o di vuoto devitalizzato in cui mi abbuffo per stare meglio (strategia di coping). Oppure, altro esempio, il mio capo mi dà un compito nuovo, mi percepisco incapace e di poco valore (stato mentale doloroso), comincio a ruminare sul compito e cado in uno stato mentale di coping di workaholism e perfezionismo che mi spinge a svolgere straordinari, lavorare anche nei festivi e a pensare e ripensare alla riuscita del compito (strategia di coping).

Terzo gruppo, gli stati egosintonici ricercati, sono il risultato adattivo degli stati di coping e delle strategie. Rappresentano come vogliamo sentirci e percepirci. È quello che il soggetto ricerca per definire la sua identità e sperimentare stati mentali positivi (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Diventano nel corso del tempo dei valori, degli ideali da perseguire e mantenere (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Esempi possono essere il vedersi migliori degli altri (da un punto di vista morale, sessuale, economico, intellettivo, fisico, ecc), oppure percepirsi destinati a grandi cose o in diritto di accedere a posti di potere, di meritare sempre di divertirsi, provare piacere o gratificazione a ogni costo, ecc. Vediamo ora come si declinano gli stati mentali, con particolare attenzione a quelli di coping nelle storie dei nostri tre personaggi.

Tre vite, tre coping

Il terzo brano del disco, “Working all day”, racconta la storia del primo dei tre amici. Si tratta di un operaio intrappolato nel suo ruolo. La sua vita è ripetitiva e monotona, 30 anni è come se fossero 5. La musica evoca in modo perfetto questa tediosità quotidiana nonché il clima monotono da catena di montaggio tipico del lavoro operaio. È deluso, rassegnato e oppresso ma con la rabbia interna di chi ha subito un’ingiustizia o non può ribellarsi per cambiare le cose. Il protagonista aveva speranze di successo da giovane, ma ostacolato e scoraggiato dal padre, ha dovuto rinunciare ai suoi obiettivi (“When I was young I used to have illusions, dreams ain’t enough, papa was rough, he didn’t care for learning, hell life is tough”). Queste rinunce hanno prodotto tanta rabbia, amarezza e senso di ingiustizia. Lo schema interpersonale secondo la TMI (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019) potrebbe essere allora il seguente: “Sono capace ma non supportato, quindi bloccato, desidero autonomia, sostegno, apprezzamento ma se manifesto a mio padre (e ora a me stesso) i miei desideri lui potrebbe giudicare, scoraggiare, avere un atteggiamento pessimistico, colpevolizzare. Questo mi provoca tanta tristezza, senso di colpa e senso di oppressione”. Per non scivolare in uno stato mentale doloroso di indegnità, non amabilità o di colpa persistente, sviluppo come stato di coping rabbia autoprotettiva, disillusione, diffidenza e sottomissione rabbiosa rassegnata. Lo stato mentale egosintonico in questo caso è la superiorità morale, il disprezzo verso gli illusi, gli idealisti che credono nell’uguaglianza (“Easy to say that everybody’s equal then look around and see it ain’t true”) o verso il proprio capo e la vita stessa (“I eat the dust, the boss gets all the money, life ain’t just”). È più facile e meno doloroso per l’immagine di sé colpevolizzare gli altri e il destino che se stesso o il padre.

Il brano successivo, “Peel the paint” racconta la storia del secondo amico. Lui è diventato un pittore e vive isolato dal mondo, distaccato, chiuso tra le sue quattro mura a dipingere ma sostanzialmente infelice. Utilizza l’arte per modulare le emozioni, sia quelle positive che quelle negative, non si lascia andare ad esse, tutto è fermo, il tempo e lo spazio sono cristallizzati sulla tela e nel silenzio solitario (“Finding the pleasure and the pain in his art, lost in the hush, no need to rush, time waits for him”). L’atmosfera musicale del brano all’inizio è rarefatta, incorporea, impalpabile e sussurrata, proprio come l’animo dell’artista. Si comprende però che nemmeno l’arte basta a soddisfare il bisogno di risposte, a calmare le preoccupazioni, a sanare la sofferenza dei sogni infranti. Infatti ad un certo punto la musica cambia, diventa selvaggia, rock duro, il testo del brano dice la verità e mette in guardia il protagonista, sotto la “pittura” c’è la ancora la vecchia bestia (“You peel the paint, look underneath, you’ll see the same, the same old savage beast”). Tutto questo tentativo di proteggersi non è servito a nulla e il rischio di sprofondare è sempre in agguato (“Nothing’s been learned, no nothing at all, you don’t be fooled, get up before you fall”). Ci troviamo qui davanti a degli stati di coping di evitamento/isolamento protettivo e di vuoto devitalizzato (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Al fine di proteggersi dal mondo esterno e dagli altri, percepiti in qualche modo come malevoli o non rispondenti ai suoi bisogni di cura, apprezzamento, sicurezza, appartenenza o altro, il protagonista: “Sente il bisogno di isolarsi fisicamente e mentalmente con il fine di far cessare la sofferenza relazionale. Il paziente sperimenta paura e vergogna quando si allontana mentre prova transitoriamente sicurezza e riduzione dell’ansia quando evita la relazione” (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013, pag. 32) nella sua tana nascosta si sente al sicuro (Procacci, Popolo, Marsigli, 2011). Il dolore di questo personaggio è “sordo”, vive una sorta di anestesia esistenziale, è lontano dalle emozioni, lontano dalla vita e lontano dagli altri. Non comprende le intenzioni degli altri, non capisce se l’altro è disponibile o meno, se una battuta scherzosa di un amico è ironica o malevole, allora abbandona la partita e si isola perché non comprende le regole del gioco, “disaderisce” dagli altri (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017) e si rinchiude nel suo mondo solitario di colori, tele, quadri e pennelli.

L’ultimo personaggio è un uomo di successo, il classico “colletto bianco”. La canzone si intitola: “Mister Class And Quality?”. È diventato un uomo ricco, arrogante, presuntuoso (“See the prizes I have showing”), manipolatore (“Choose my friends for my own ends”), borioso e vanaglorioso (“The world needs steady men like me to give and take the orders”), insensibile e disprezzante anche verso gli stessi suoi amici protagonisti di questa storia (“Never understood the artist or the lazy workers”). Il suo è un successo pianificato, studiato a tavolino (“Working hard to build my life and plan the way I’m going”), ha ottenuto il massimo dalla vita grazie alla sua astuzia (“House and car and pretty wife, they’ve all been won by knowing”). La musica del brano è molto dinamica, con ritmo veloce, lineare e sostenuto, rispecchia in pieno la determinazione altezzosa del personaggio. Lo schema interpersonale è chiaro, il soggetto è minacciato dall’idea di essere una nullità o di apparire piccolo e insignificante, il desiderio invece è quello di essere visto e apprezzato, in modo da essere riconosciuto nella propria identità. La paura che gli altri possano invalidarlo, disprezzarlo, non essere interessati a lui gli genera angoscia, senso di fallimento, umiliazione. Allo scopo di evitare questi stati dolorosi, il soggetto sviluppa un coping basato sul perfezionismo e sul workaholism, tutto va fatto nel migliore dei modi e ogni fine giustifica i mezzi, tutto è concesso al fine di raggiungere il proprio traguardo. Le uniche emozioni espresse sono la rabbia e il disprezzo (per proteggersi dall’angoscia del vuoto, dalla vergogna o dal senso di colpa), non c’è empatia, non c’è coinvolgimento affettivo o amoroso, l’altro deve stare a distanza o peggio ancora, essere manipolato a proprio piacimento e per i propri scopi (Dimaggio, 2016). Gli stati egosintonici desiderati sono la grandiosità, il consolidamento del potere, la superiorità da ogni punto di vista e un edonismo individuale materialistico e strumentale. Nonostante il successo, le donne e i soldi, come gli altri due amici, anche lui è solo.

Non bastano la rassegnazione rabbiosa dell’operaio, l’isolamento protettivo dell’artista e neanche i successi di Mister Class, erano bambini uniti e felici, adesso sono uomini soli e spenti. Nell’ultimo brano, quello che dà il titolo all’album: “Three friends”, avviene, almeno per una sera, il miracolo. La musica è avvolgente, corale, c’è un atmosfera drammatica ma calda e accogliente. I tre amici si rivedono dopo anni ed è un incontro dolce nella sua tristezza (“Sweet in sadness”). Tuttavia la gioia di rivedersi è tanta da andare oltre il passare del tempo e le differenze di classe (“In the end, full of gladness, went from class to class”). Lo stare assieme, di nuovo uniti, complici, vicini, permette loro di ritrovare quell’armonia, quella sintonizzazione reciproca, forse mai più sperimentata dai tempi dell’infanzia. Possono finalmente, essere se stessi, senza sovrastrutture, senza maschere, senza corazze protettive. Possono abbassare le difese, lasciare le strategie di coping, uscire dagli stati mentali in cui da decenni sono intrappolati e ritrovare almeno per una sera una sincera autenticità e vicinanza affettiva.

L’anedonia: cause e caratteristiche – Come è possibile perdere il piacere?

In maniera abbastanza ampia potremmo dire che l’ anedonia consiste nell’incapacità di desiderare la gratificazione. Infatti, i pazienti anedonici sarebbero tutti accomunati da una modalità inadeguata di rapportarsi all’ambiente, che si manifesterebbe anche con la tendenza all’isolamento.

 

Il termine anedonia è stato inventato alla fine dell’800 per descrivere un’insensibilità patologica al provare piacere, propria di alcune malattie psichiatriche.

L’ anedonia è, dunque, l’incapacità di provare piacere. Certamente, la mancanza o la perdita totale della capacità edonica non è l’aspetto più comune, tuttavia il termine è ormai largamente impiegato anche quando la perdita o l’assenza è solo parziale. L’incapacità di provare piacere può essere non soltanto un’esperienza pervasiva, ma anche limitata, confinata a un solo ambito (o a un numero limitato di ambiti), come quello del cibo o del sesso, delle interazioni sociali o delle relazioni, etc. 
L’ anedonia può essere, dunque, inquadrata come una forma di appiattimento dello stato emotivo, una sorta di coartazione generale dell’espressività emotiva.

In ambito psicopatologico è importante quindi considerare l’ anedonia un sintomo e non come un disturbo, poiché viene riscontrata in moltissime condizioni mediche e psichiatriche, dalle malattie neurodegenerative a disturbi psichiatrici come ad esempio i disturbi dell’umore, alcuni disturbi della personalità, i disturbi psicotici, i disturbi da uso di sostanze, etc.

Anedonia: tra sintomo e disturbo

Anzitutto l’ anedonia è una condizione riscontrabile nella depressione e nei disturbi dell’umore ed è fondamentale distinguere il sintomo dell’ anedonia dalla depressione intesa come disturbo. Infatti la depressione è costituita, oltre dall’ anedonia da una costellazione di sintomi variegati; viceversa il sintomo dell’ anedonia non implica necessariamente l’esperienza frequente e intensa di sentimenti di tristezza e autosvalutazione, ma implica la sensazione di aver perso la capacità di provar piacere per ciò che per l’individuo, prima, era fonte di piacere.

Tale condizione di anedonia è riscontrabile anche in altre aree psicopatologiche fra cui la schizofrenia e i disturbi psicotici. Nell’ambito dei disturbi psicotici, un aumentato rischio per lo sviluppo di episodi psicotici è stato correlato con l’ anedonia di tipo “sociale” da Chapman et al (1994). In uno studio longitudinale di follow-up, l’ anedonia sociale – intesa come la progressiva perdita dell’interazione sociale, e la mancata elaborazione dell’esperienza interpersonale predisporrebero l’individuo ad un aumentato rischio di psicosi. Altri ricercatori (Blanchard et al, 1998) hanno dimostrato maggiori livelli di anedonia fisica in pazienti schizofrenici rispetto ai soggetti normali e una correlazione positiva dell’ anedonia sociale con affettività negativa nel campione patologico.

Nell’ambito dell’abuso di sostanze alcuni autori (Koob, 1997) attribuiscono all’ anedonia il ruolo di “rinforzo negativo” nell’astinenza da sostanze d’abuso, che si fonderebbe su di una “disregolazione omeostatica edonica” di origine dopaminergica.

L’ anedonia rientra anche in diversi disturbi neurologici; ad esempio nel quadro clinico della patologia di Parkinson, è spesso in correlazione con acinesia, anedonia e disturbi cognitivi, associando inoltre il quadro clinico con un diminuito turnover dopaminergico nei gangli della base.

A livello teorico e clinico quindi può essere definita sia come tratto sia come stato. Quando ci si riferisce al tratto si intende un’incapacità permanente di provare piacere che può essere presente fin dall’infanzia ed è riconosciuta anche dal paziente stesso. Mentre, lo stato può essere definito come una pervasiva, non reattiva, compromissione della capacità di provare piacere per cose specifiche in un determinato momento.

Anedonia sociale VS Anedonia fisica

È possibile distinguere principalmente tra due tipologie di anedonia: l’ anedonia sociale, tale per cui l’individuo manifesta un significativo disinteresse e mancanza di piacere verso le relazioni sociali, con anche comportamenti di evitamento e isolamento sociale; l’ anedonia fisica, che include in particolare l’assenza di piacere e il disinteresse verso il cibo e verso altri tipi di attività.

In maniera più ampia possiamo dire che l’ anedonia consiste nell’incapacità di desiderare la gratificazione. Infatti, i pazienti anedonici sarebbero tutti accomunati da una modalità inadeguata di rapportarsi all’ambiente, che si manifesterebbe anche con la tendenza all’isolamento.

In particolare la funzione psicologica dell’esperienza del piacere e della gratificazione è quella di segnalare all’individuo il soddisfacimento di un bisogno e quindi di sottolineare quali comportamenti sono associati alle ricompense e alla soddisfazione dei bisogni dell’individuo. Pertanto la sensazione di gratificazione e piacere sono dei “marcatori” che segnalano quali comportamenti sono rilevanti per gli individui in termini di benessere e sopravvivenza. È l’esperienza del piacere che induce ad apprendere questi comportamenti e a rimetterli in atto di fronte a stimoli che ne rievocano l’esperienza.

Restano, tuttavia, ancor oggi non del tutto chiari i meccanismi eziopatogenetici alla base dell’insorgenza dell’ anedonia. Assodando che le vie dopaminergiche non sono gli unici circuiti cerebrali ad essere coinvolti, pare che a determinare la complessità psicopatologica del sintomo vi sarebbero diversi e molteplici fattori causali (genetici, ambientali, culturali, sociali), i quali, interagendo tra loro, contribuerebbero (tutti assieme) alla sua insorgenza clinica.

Anedonia e Apatia

In termini differenziali è importante distinguere l’ anedonia dall’apatia, seppure siano sintomatologie spesso co-occorrenti. Per apatia si intende la perdita o la riduzione della motivazione rispetto ad uno stato precedente, associato ad un decremento dei comportamenti goal-directed, dell’attività cognitiva ed emotiva; gli individui affetti da apatia hanno difficoltà nell’intraprendere nuovi comportamenti o iniziative. Invece, come già descritto precedentemente, l’ anedonia consiste in una marcata e consistente diminuzione dell’interesse o piacere per la maggior parte delle attività quotidiane; gli individui smettono di provare piacere per alcune attività o smettono di ricercare attività piacevoli come se mancassero di motivazione (Husain & Roiser, 2018).

Sia l’apatia che l’ anedonia sono sintomi co-occorrenti in diversi disturbi come il morbo di Alzheimer e di Parkinson, la schizofrenia e il disturbo depressivo maggiore (Pelizza & Ferrari, 2009).

Sia l’ anedonia che l’apatia possono essere misurate attraverso specifiche scale cliniche in grado di quantificarle (Kaiser, Lyne et al., 2017; Bischof, Obermann et al., 2016) come ad esempio la scala per l’ anedonia fisica e sociale, la Snaith-Hamilton Pleasure scale (SHAPS; Nakonezny, Carmody et al., 2010).

I processi neuropsicologici dell’ anedonia

Secondo alcuni ricercatori (Husain & Roiser, 2018) a livello neurocognitivo l’ anedonia, e anche l’apatia possono essere concettualizzate come deficit a seguito di interferenze nei meccanismi neurali che processano la ricompensa; in particolare il deficit risiederebbe nei processi che motivano l’individuo o l’animale a mettere in atto un’azione o un comportamento – come i potenziali benefici o ricompense per il comportamento vengono valutati dal sistema rispetto al costo dello sforzo richiesto per raggiungerli.

A livello di funzionamento cerebrale è da sottolinearsi che l’esperienza del piacere implica l’attivazione di un complesso insieme di processi neurochimici e di diversi pattern di aree cerebrali. Nella fase anticipatoria della sensazione di piacere, si riscontra l’attivazione delle aree dopaminergiche, mentre il coinvolgimento degli oppiodi endogeni entra in gioco durante l’esperienza stessa del piacere.

A livello neurale (neuroanatomico e neurotrasmettitoriale), diversi studi hanno tentato di analizzare il complesso meccanismo psicologico della ricompensa e dell’ anedonia; tali ricerche sono principalmente studi su animali da laboratorio, studi anatomo-patologici post-mortem, e studi di neuroimaging sull’uomo. Un significativo corpus di studi indica quindi come circuiti neuronali principalmente coinvolti nella ricompensa siano quelli appartenenti al sistema mesocorticolimbico.

Partendo da paradigmi comportamentali, nasce quindi l’ipotesi dopaminergica della ricompensa e dell’ anedonia di Wise che sostiene che le caratteristiche di rinforzo di stimoli incondizionati, quali il cibo, l’acqua, il sesso ed alcune droghe d’abuso, ed il piacere condizionato elicitato da rinforzi secondari, sarebbero mediati da cellule del sistema dopaminergico mesocorticolimbico, in particolare mesencefalico (corpi cellulari originatisi nell’Area Ventro-Tegmentale, le cui proiezioni terminano nel Nucleus Accumbens e nella corteccia prerfrontale). Infatti, in particolare sembrano coinvolte nella capacità di provare piacerre aree come i gangli basali cortico-ventrali, che includono la corteccia orbitofrontale, la corteccia anteriore cingolata, il corpo striato ventrale, il nucleo pallido ventrale, l’area ventrale tegmentale, il nucleo accumbens e la corteccia prefrontale mediale.

In tal senso questo complesso sistema di aree e di vie neurali, con il coinvolgimento anche di aree corticali, sono alla base della pianificazione e motivazione per l’attuazione di specifiche condotte orientate verso degli scopi: il sistema sdella ricompensa è quel sistema che consente quindi la promozione della motivazione per attuazione di condotte finalizzate al raggiungimento della gratificazione e del piacere.

Alcune evidenze scientifiche sottolineano in particolare che nel caso dell’ anedonia vi sarebbe una disfunzionalità a carico della corteccia prefrontale mediale.

Nel complesso fenomeno dell’ anedonia, tuttavia le vie dopaminergiche non sono le uniche ad essere coinvolte per quanto riguarda gli aspetti neurofunzionali. È palusibile ipotizzare che la complessità neurochimica che caratterizza l’ anedonia rifletta l’esistenza di un’eziopatogenesi complessa e caratterizzata da diversi fattori (ambientali, sociali, genetici), che interagiscono contribuendo all’insorgenza di tale condizione.

Approcci computazionali alla comprensione dell’ anedonia

Accanto alle neuroscienze, approcci alternativi che recentemente stanno guadagnando popolarità per la comprensione dei processi sottostanti l’ anedonia sono i modelli computazionali (Adams, Huys & Roiser 2015) che sfruttano la ricchezza dei dati osservati (ad esempio tramite modelli di comportamento che basano su prove per errori) per fornire informazioni su quei processi che sottostanno le differenze individuali.

Per esempio, un compito percettivo detto “responsività alla ricompensa” (rewar responsiveness; Henriques, Glowacki et al., 1994) che misura i bias verso la selezione di stimoli più frequentemente associati con le ricompense, somministrato sia ad un gruppo di controllo che ad un gruppo clinico di individui affetti da depressione, ha evidenziato delle differenze nelle risposte al test tra i due gruppi. L’applicazione dei modelli computazionali ai dati raccolti ha evidenziato come i sintomi dell’ anedonia non siano associati alle differenze nella discriminazione percettiva o nell’apprendimento per errori ma siano al contrario associati con un brusco abbassamento del valore atteso della ricompensa al momento della decisione (Huys, Pizzagalli, Bogdan & Dayan, 2013).
In aggiunta, questi modelli, dal momento che aiutano a differenziare i processi cognitivi che sono coinvolti nei compiti legati alla ricompensa, mostrano che l’apprendimento apparentemente è risparmiato nell’ anedonia e che le differenze nei comportamenti legati alla motivazione e alla ricompensa sono associati ad altri processi di tipo neurotrasmettitoriale.

Uno studio di Le Bouc e colleghi (2016) ha evidenziato come i miglioramenti nei sintomi dell’ apatia da parte dei pazienti affetti da morbo di Parkinson, in cura dopaminergica, fossero associati con un aumento della sensibilità alla ricompensa, mentre uno studio di Meyniel, Goodwin e colleghi (2017) ha mostrato come soggetti non patologici mostrassero un maggior sforzo a seguito della somministrazione di SSRI e quindi dell’aumento della serotonina, come se in loro si fossero ridotti i costi degli sforzi per raggiungere la ricompensa.

Esperienza artistica e mente incarnata – Il dare forma in Terapia espressiva

Nella pratica delle Terapie Espressive la creazione artistica aiuta a dare forma e parola all’esperienza interna, facilitando l’incontro e il confronto con la realtà affettiva, incarnata, della propria e altrui mente.

Lorena Garzotto

 

Un intervento integrato di Arte Terapia e Danzamovimento Terapia sostiene i pazienti con difficoltà di regolazione emotiva a contattare stati emotivo-sensoriali perturbati e frammentati, a oggettivarli, tollerarli, e infine a modularli, rinforzando il senso di sé e la capacità di pensare e sentire allo stesso tempo.

Keywords: terapia espressiva, gruppo, mente, disregolazione, borderline

 

Terapie espressive e mente incarnata

Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev’essere l’immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l’inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma… (Proust, Alla ricerca del tempo perduto. La strada di Swann: Combray)

Le parole dei poeti sanno comunicare l’intensità e le sfumature dell’esperienza interiore. Perché è talvolta difficile descrivere l’inafferrabile turbinio dei colori smossi, dare voce e forma a ciò che accade internamente: immagini, frammenti di pensiero, sensazioni, stati fisici e mentali, non sono sempre facili da districare e definire. Ciò è particolarmente problematico per le persone emotivamente disregolate (che possono avere una diagnosi di disturbo borderline, disturbo post-traumatico, disturbo dissociativo), ma le loro reazioni estreme ci aiuteranno a chiarire e comprendere i processi attivi in ognuno di noi. Sostengo qui che le forme estetiche della creazione artistica, legate al corpo e ai sensi, alle forme primitive del mentale, all’esperire in prima persona (Varela et al., 1991), possono costituire un mezzo privilegiato di accesso alla mente e al sentire, per trovare una maggiore distanza e capacità di pensare, per organizzare e comunicare la propria esperienza interiore in modi più articolati e mentalizzati. I linguaggi espressivi, ricchi di sensorialità ma anche di ‘senso’, rispecchiano l’incerto, lo sfumato, e aiutano a connettere il sentire e il pensare; contemporaneamente offrono materiale per la narrazione di sé (Robbins, 1998; Della Cagnoletta, 1998) e sostengono quindi la capacità riflessiva.

Benchè ci proviamo da lungo tempo è infatti complicato capire cosa c’è nella mente (Allen e Fonagy, 2006): poiché la conosciamo attraverso la nostra stessa mente, essa non può essere “oggettivo” oggetto di studio, ma porta sempre tracce della nostra soggettività. Conosciamo allo stesso modo le menti altrui, di cui dobbiamo inferire intenzioni e convinzioni, soprattutto quando funzionano in modo molto diverso dalle nostre:

in quanto clinici a orientamento psicodinamico noi mentalizziamo continuamente […]. Questo rende particolarmente difficile la comprensione di quelle persone che hanno una capacità di mentalizzazione limitata, che non utilizzano la loro capacità per comprendere gli altri in quanto entità mentali distinte, o che costruiscono rappresentazioni distorte, confuse e che confondono gli stati mentali propri e degli altri (Bateman e Fonagy, 2004, p. 73).

La mente qui non viene intesa come funzione meramente cognitiva ma come realtà incarnata, emergente dalla sensorialità, dall’affettività intersoggettiva. E se partiamo dal presupposto che essa è

il risultato delle esperienze evolutive del corpo (Allen e Fonagy, 2006, p. 14)

incorporata nell’intero organismo e radicata nel mondo (Damasio, 1999), il corpo ci può aiutare a trovare una strada per conoscerla, rinsaldarla, e per riacquistare fiducia nelle sue capacità. Le neuroscienze usano la bella espressione psiche incarnata, embodied, e mettono in risalto la centralità del corpo nell’esistere e nel pensare, come anche la sua funzione regolatrice dell’esperienza sensomotoria, delle emozioni, e della cognizione (Gallese, 2009; Schore, 2003).

Conosciamo e riconosciamo bottom up: sensazioni, percezioni, ritmi, gesti precedono il pensiero e il linguaggio e li fondano (Iacoboni, 2008), informandoci rispetto a un modo possibile di intendere il mondo e attribuire significati e valori (Macagno, 2013, p. 9).

Gesti come l’afferrare (un oggetto, un concetto) ci mettono in rapporto al mondo prima del pensiero e della parola, permettendoci di incorporarlo.

Terapie espressive psicodinamiche e processo del dare forma

In questa prospettiva le Terapie Espressive (TE) (2) offrono strumenti preziosi per contattare l’esperienza del paziente, e per ripercorrere o ricreare quel passaggio così indefinito tra esperienza e pensiero, tra corpo e mente: esse facilitano il processo di creazione attraverso linguaggi che appartengono a quel limitare, che sono in contatto con l’informe, il disorganizzato, il vuoto, ma hanno anche la capacità di organizzare, attraverso il corpo e le immagini, il flusso di impressioni, di stati indifferenziati, impulsi, verso una forma significativa e condivisa. Le parole di Proust raccontano mirabilmente quegli stati intermedi, i percorsi sensoriali del nostro essere-nel-mondo, carico di memorie, percezioni, emozioni: percorrere quei sentieri è un modo di lasciare che qualcosa emerga, “tocchi la superficie” e arrivi alla coscienza. L’arte espressiva, integrando esperienza e sua rappresentazione e comprensione, tiene insieme diverse modalità di pensiero. Perché ogni linguaggio, come la danza, la pittura, il teatro, la musica, la poesia, ha un doppio registro, quello cognitivo-conoscitivo, più verbale, narrativo, e quello più immaginativo, sensoriale, emotivo, collegato all’inconscio corporeo. Un atto artistico-creativo può dare accesso a livelli profondi, intuitivi, a forme di conoscenza di sé, della propria storia e anche della propria sofferenza psichica (Alessandrini, 2010), una conoscenza incarnata, quindi integrata. Schore (2011) sottolinea come “l’intuizione è collegata all’inconscio, ed è spesso affidabile ed accurata. Deriva da rappresentazioni implicite immagazzinate, come immagini, sentimenti, sensazioni fisiche, metafore (notare la somiglianza con cognizione del processo primario). L’intuizione è espressa non in linguaggio letterale, è incarnata in un ‘sentire di pancia’” (p. 88, mia trad.).

Terapie espressive: il valore dell’integrazione

Questa integrazione di diversi livelli di esperienza è da sempre patrimonio delle Terapie Espressive (TE). Arte terapia, Danzamovimento Terapia, Teatroterapia, Musicoterapia, ecc., mettono insieme il creare con il sentire, il riflettere, l’ascoltare. Affondano le radici nel bisogno antichissimo dell’essere umano di conoscere il mondo e di crearne di nuovi, di parlare di sé, di creare bellezza e di goderne, e di condividere nel gruppo. Nelle danze tribali e nelle caverne, nel grezzo contenitore decorato di piccoli segni belli la mente umana ha sempre creato e rappresentato se stessa e la propria visione del mondo prima ancora del linguaggio (Boccalon, 2010). Questo bisogno di esprimere e creare è stato integrato nella pratica teorico-clinica delle Terapie Espressive come potenziale terapeutico e riabilitativo, e il mezzo artistico-espressivo è diventato strumento di relazione terapeutica, di analisi e intervento. L’espressione grafico-pittorica, corporea, sonora, permette di esprimere qualcosa senza averla già chiara in mente (Waller, 1993), e aggirando le difese del codice verbale, offre una forma a contenuti mentali ancora privi di lessico. E’ quindi un oggetto esterno, di cui si può parlare in quanto accessibile ai sensi e alla coscienza. La creazione, osservata insieme, interrogata nella concretezza della sua estetica (forma, energia, intensità, colore, tratto, spazialità), è un polo che sollecita risonanze, pensieri, ulteriori esplorazioni e possibili trasformazioni: l’immagine, come la danza, ha infatti caratteristiche del reale, ma è anche non reale, e può essere modificata (Luzzatto, 2009, p. 138). Stando dove i pazienti si trovano, cercando di sentire, accogliere, contenere il paesaggio sovraccarico, o apparentemente vuoto, il terapeuta espressivo esplora insieme a loro la possibilità di esprimere creativamente in modo essenziale e tollerabile ciò che sentono, delineandone così i confini. Perché in fondo, anzi in principio,

dare e prendere forma è un bisogno primario del Sé in quanto espressione della sua tensione alla permanenza e della sua personale ricerca di equilibrio tra essere e divenire, tra stabilità e cambiamento (Belfiore, 1998, p. 19).

Il fare delle Terapie Espressive comporta il muoversi nello spazio, il dare origine a qualcosa, comporta il sentire, il pensare, l’emozionarsi: l’offerta di esperienze, di materiali artistici, di oggetti, porta attenzione al sentire attraverso il creare, piuttosto che al prodotto, è al servizio del processo di sperimentazione di sé e di autoconoscenza. Il fare esperienze, siano esse quotidiane, o spirituali, emotive, cognitive, fisiche, interpersonali, avviene nel corpo, col corpo, ed ha a che fare col qui e ora. Il corpo è il luogo in cui tutto avviene, è una trama sottesa a tutte le interazioni e le creazioni: anche l’utilizzo di materiali artistici, o materiali usati “artisticamente”, di suoni, permette di “danzare”, di esprimere una certa attitudine, di parlare di sé, nel guardarli, nello sceglierli, nel raggiungerli, nel lasciare tracce, nel manipolarli, nel respingerli, nel passarli ad altri. Gesti e ritmi, il modo in cui il paziente si rapporta allo spazio della stanza e del foglio, ai materiali, agli altri, a sé, costituiscono già una narrazione, un’informazione. La metodologia delle Terapie Espressive si può sintetizzare con: fare esperienza sentita attraverso il corpo-movimento, i materiali, osservare/osservarsi, riflettere, interrogarsi condividendo. In un ambiente “sufficientemente buono”, che accoglie e contiene, il creare forme estetiche attiva la sensazione di esistere radicata nel corpo che precede il senso di sé (Winnicott, 1965), e rinforza il sé agente (Stern, 1985, Allen e Fonagy, 2006). Il processo creativo può essere trasformativo in modo subliminale, preconscio, in quanto le forme che emergono aprono di per sé possibilità espressive nuove; ma qui mi soffermerò in particolare sulla funzione mentalizzante (come capacità di accedere alla propria e altrui mente) delle Terapie Espressive con pazienti che presentano dei deficit in questa capacità. Presenterò esperienze di gruppo (3), che cercano di integrare la visione psicodinamica attenta agli stati primitivi, al simbolico, alla consapevolezza, e alla relazione, con apporti cognitivisti.

Terapie espressive: uno degli obiettivi è la mentalizzazione

Come osserva Gabbard, uno dei compiti della psicoterapia è creare un senso della mente nel paziente (2006): da questo punto di vista le Terapie Espressive a indirizzo psicodinamico hanno una posizione speciale, per la loro capacità di muoversi tra processi inconsci e consapevolezza, tra corporeità e pensiero, e di facilitare l’incontro col mentale, non solo osservandolo, ma ‘vedendolo all’opera’. La consapevolezza è il sentire, o riconoscere, che qualcosa sta succedendo dentro il proprio corpo, quella che Damasio chiama “the feeling of what happens” (1999), capacità che chiede un testimone interno per osservarsi. Mentalizzare ha a che fare con

una comprensione ‘vissuta’ dei propri sentimenti, che includa e superi la consapevolezza intellettiva (Allen e Fonagy, 2008, p. 8)

un’attitudine non puramente “mentalista”, perché coltiva l’essere presenti, essere osservatori e agenti del processo di creazione, stando contemporaneamente nel flusso dell’esperienza.

Terapie espressive: esperienze vissute

Una giovane paziente, Michela, comunica sia verbalmente sia col corpo (piedi incrociati, gambe chiuse, braccia davanti all’addome, kinesfera 4 ristretta) il suo grande disagio rispetto allo stare in gruppo e a muoversi. Dopo aver parlato brevemente di come il corpo racconti le nostre storie, i nostri blocchi, e dopo che le altre hanno espresso difficoltà nella sua accettazione, e hanno nominato il chiudersi, proviamo a fare un (apparentemente) semplice lavoro di ascoltare e sentire il corpo nella sua fisicità: prestando grande attenzione alla tollerabilità di questa esperienza diretta propongo prima di percepire la propria postura da seduti, poi una camminata per sentire piedi, ginocchia, lo spostamento del peso, delle anche. Lavoriamo quindi sul chiudere-aprire della testa, delle spalle, della spina dorsale, e chiedo di associare a stati d’animo, pensieri, immagini. Infine metto una musica su cui possibilmente a occhi chiusi, per evitare sguardi facilmente percepiti come giudicanti, i pazienti possono creare individualmente i propri movimenti di chiusura-apertura. Notando la bella intensità della loro danza chiedo se si sentono di guidare il gruppo scegliendo una piccola sequenza, questa volta naturalmente guardandosi, quindi esponendosi. Nel dover scegliere un pezzo e riproporlo si attiva la loro capacità di creare e osservarsi, di stare dentro all’esperienza ma anche di mentalizzarla. Nel guidare le danze nel gruppo si crea uno scambio sentito, di movimenti autentici, che mi emozionano. Ma una cosa interessante è che Michela esprime solo la polarità dell’estrema chiusura, si accuccia a terra e nasconde la testa tra le ginocchia. Senza sofferenza, ma con intenzione consapevole, come vedremo poi nella riflessione finale, quando validata su questa scelta, dirà che aveva paura che fosse sbagliato quello che faceva, ma era quello che sentiva. Sentire di che cosa il nostro corpo-mente ha bisogno è un grande passaggio di consapevolezza, permettersi di seguirlo è una grande validazione di sé, nel segno della fiducia. La danza di Michela, il suo gioco, hanno chiarito un suo bisogno, e hanno dato occasione al gruppo di riflettere sull’importanza di concedersi ascolto, accettazione, e scelta.

Terapie espressive: dalla concretezza dell’esperienza al pensare.

In un tempo di feconde connessioni tra diverse branche del sapere, tra neuroscienze e psicologia, corpo e mente, filosofia e scienze sociali, questo articolo nasce dal fascino che esercita su di me il tema del confine, delle trasformazioni, dei passaggi tra sensorialità e mente, delle diverse forme che può assumere il mondo interno nel suo rappresentarsi artistico. Ma definire il modo in cui avviene il passaggio al simbolico nel lavoro con le Terapie Espressive, inciampa in enormi difficoltà linguistiche. Il linguaggio, pur generato

da memorie procedurali di esperienze radicate nell’esperienza corporea (Fonagy e Target, 2007, p.19)

reifica infatti l’immediatezza del sentire e se ne distanzia necessariamente: dalle strutture corticali, più ‘alte’ ed elaborate, stenta a rendere la vaghezza dell’esperienza soggettiva, balbetta nel dare parola all’ineffabile/sfuggente del protomentale, alle esperienze sensomotorie, alle variazioni degli stati di coscienza di cui è fatto il vivere, in normalità e in patologia. Nell’indagare il passaggio tra corpo vissuto e mente, il pensiero logico astratto forse aiuta poco, il racconto dell’esperienza offre un sentiero. Tratto quindi il tema della funzione dei linguaggi espressivi come accesso al mentale anche attraverso esempi di lavoro integrato di Arte e Danzamovimento terapia con gruppi di pazienti che presentano gravi deficit nella capacità di riconoscere gli stati mentali, di stare in contatto con sé, con gli altri, con il corpo, e utilizzano modalità disadattive per gestire stati estremi di attivazione emotiva, come già raccontato con Michela.

In una proposta in cui i pazienti potevano creare una forma (senza altre indicazioni) a partire da materiali di vario genere, una paziente, che mi colpiva per certe sue attitudini corporee sconnesse, frammentate, prive di un centro corporeo organizzatore, scelse del filo di ferro per realizzare una matassa aggrovigliata, su cui poi a fatica cercava di applicare dei fermagli aperti con la punta rivolta all’esterno. Disse che la matassa doveva difendersi dal mondo. Mi sembrava la metafora di un sé che cercava una forma che lo organizzasse e un materiale che lo proteggesse, ma che nell’avvilupparsi si manifestava pieno di aperture, impossibile da difendere. Era probabilmente la rappresentazione di una difesa da vissuti di intrusione legati ad abusi precoci, subiti in una relazione primaria di tipo neglect e abusante, con cui la paziente stava entrando in contatto a frammenti. Non è stato possibile affrontare il tema portato in quel momento per la brevità del ricovero e la mancanza di sufficienti continuità e fiducia per lavorarci, ma osservo che una rappresentazione sintetica e significativa come questa può aprire molte possibilità di riflessione e di consapevolezza, vicine al ‘senso’ del paziente. Nel rappresentare qualcosa che neppure lei conosceva, la paziente aveva dato vita ad una forte immagine personale, perché, come dicono Allen e Fonagy (2006), la mente è fondamentalmente immaginativa […] e il mentalizzare è una forma di attività immaginativa, […] che ci introduce in un regno che sta tra la realtà oggettiva e la fantasia” (p. 51).

Terapie espressive: disregolazione emotiva e funzione riflessiva

Mi dondolavo chiusa
come conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
e staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
è un’arte, come ogni altra cosa

(Sylvia Plath, Lady Lazarus 1981)

Vivere, e sentire, può essere così intenso da fare male a chi è senza “pelle emotiva” (Linehan, 1993). Possono bruciare uno sguardo, una parola, o la loro mancanza. Rapidamente travolti dagli stati emotivi e dall’incandescenza delle sensazioni, i pazienti con grave disregolazione emotiva, spesso diagnosticati come borderline, non riescono a rappresentare e comunicare verbalmente gli stati mentali, e li gestiscono con comportamenti impulsivi, autolesivi o disorganizzati. Anche modalità di funzionamento più evolute possono regredire verso reazioni più disadattive nei momenti accesi. I pazienti con PTSD (disturbo da stress post-traumatico) possono passare dall’evitamento più totale di emozioni, ricordi, sensazioni, legati a eventi traumatici, per paura di tornare a riviverli, all’esserne completamente travolti al punto da non riconoscere che sono avvenuti nel passato. E’ molto importante per loro acquisire abilità di riconoscimento, distanza, gestione, come anche accettazione e non giudizio, perché la loro reazione è stata adattiva, la migliore che hanno saputo trovare allora. L’espressione artistica che non è valutata per il prodotto ma per quello che racconta di sé, ha una grande valenza da questo punto di vista.

Regolare le emozioni, in particolare gestire affetti intensi, è fondamentale per avere accesso alla funzione riflessiva (Garzotto, 2016). Questo implica concepire se stessi e gli altri come dotati di stati mentali, cioè credenze, bisogni, desideri, sentimenti: compito complesso per gli esseri umani, ma necessario per coltivare l’attenzione, l’autoregolazione e la competenza sociale (Bateman e Fonagy, 2004), per comprendere il comportamento proprio e altrui e vivere in modo adattivo. La mente è una costruzione intersoggettiva, una conquista evolutiva, che coinvolge profondamente il corpo nei suoi aspetti simbolici e presimbolici. La prima tappa della sua formazione è già nel neonato: la capacità di discriminare per somiglianze e differenze, di costruire schemi sensomotori, scoprendo, attraverso la risposta contingente del care giver, l’effetto delle proprie azioni sul mondo fisico. Attraverso vie transmodali (sensorialità tattile, gestuale, visiva cinestesica) (Stern, 1985), che sono anche neuronali (Gallese, 2009), all’interno della relazione primaria emerge l’embrione del sé corporeo separato, dell’intenzionalità, e della mente (Stern, 1985; Bateman e Fonagy, 2004). Il bambino inizia precocemente a fare ipotesi su di essa sulla base sicura di un care giver che tiene a mente (Allen e Fonagy, 2006). La storia di accudimento carente o disorganizzato che troviamo spesso nell’anamnesi dei pazienti disregolati, si correla a gravi deficit nella capacità riflessiva. Per Bateman e Fonagy (2004) la

presenza latente di un’espressione più primitiva della soggettività governata da modalità di rappresentazione di stati interni e da un tipo di relazione tra l’interno e l’esterno che è possibile osservare normalmente nel funzionamento mentale dei bambini piccoli, […] insieme a una disorganizzazione profonda della struttura del Sé, spiegano molte caratteristiche della personalità borderline (p. 133).

La mancanza o la labilità di un filtro che consenta di contenere ed elaborare le esperienze spiega a loro avviso l’intenso transfert, la forte impulsività, soprattutto autodiretta, gli stati di disforia, la disregolazione, e il fallimento della mentalizzazione: tutti aspetti che costituiscono un problema per il paziente e una sfida per i clinici. Per le neuroscienze in tale fallimento è coinvolta la disconnessione della corteccia prefrontale, che presiede alla valutazione, alla decisione, al controllo, per cui i pazienti restano in balia di attivazioni sensoriali e di sequestri emozionali. La capacità di prestare attenzione in modo intenzionale è una delle funzioni colpite dal trauma interpersonale, per cui i pazienti perdono la capacità di stare nel corpo, vivono solo nell’esterno, in uno stato di sovraeccitazione, oppure si perdono dentro, si isolano, si deprimono (A. Grey, comunicazione personale).

Ma superando una visione strettamente psicopatologica, possiamo dire che il disturbo borderline non rappresenta solo una patologia individuale: le sue manifestazioni disregolate e impulsive rispecchiano un profondo disagio sociale delle cosidette civiltà avanzate, che si esprime nell’ “isterizzazione” del vivere contemporaneo, dei legami, del comunicare, in cui la ricerca di eccitazione, di riempimento, prevale su ascolto, tenerezza, relazione, sul vuoto buono che permette di soffermarsi e pensare (Correale, 2007).

Nella clinica, il vissuto del vuoto che spesso caratterizza i pazienti borderline richiama la mancanza di buoni oggetti interni, la carente funzione di simbolizzare, di sentire se stessi come dotati di una mente che con-tiene. Un lavoro sensomotorio, in direzione bottom-up, in questi ultimi anni viene sempre più considerato necessario per accedere a funzionamenti primitivi, difficilmente raggiungibili dalla parola (Ogden, 2006). Nel vuoto di un lessico smarrito o mai nato, in Terapia Espressiva portare attenzione alla sensorialità, lasciare un segno, o far parlare il proprio corpo in una danza, una forma, attiva uno spazio mentale per sentire, sentirsi, pensare, prestare attenzione. Il fare della creazione artistica è una dimensione potente, perché coinvolge tutte le aree della persona.

Terapie espressive: il potere delle relazioni e del rispecchiamento

Nella relazione terapeutica il rispecchiamento e il gioco hanno una parte fondamentale, costituiscono materiale di ‘prima mano’ nel lavoro in TE: nel rispecchiare attraverso la sintonizzazione intermodale (Stern, 1985) il terapeuta intenzionalmente ma anche attraverso intuizioni della sensibilità somatica incontra l’altro nel luogo in cui si trova, nei materiali, nei segni e nei gesti, nella postura, nello sguardo, nel silenzio, nel respiro, nella direzione del corpo nello spazio, nella qualità del movimento, nella parola incarnata, che diventano potente validazione emotiva. E’ la presenza di una mente che dà credito alla mente dell’altro:

Possiamo considerare la sensibilità a espressioni facciali comunicative come una forma prototipica di mentalizzazione implicita (Bateman e Fonagy, 2004, p. 98).

Il rispecchiamento, pratica elettiva delle Terapie Espressive confermata dalle scoperte delle neuroscienze (Berrol, 2006), offre l’esperienza di essere visti e ascoltati, da una distanza che rispetta la separatezza, e un modello per gestire e modulare stati potenzialmente destabilizzanti. La sintonizzazione affettiva in terapia e nello sviluppo modula le emozioni negative, ma ha anche l’importante funzione di generare e amplificare emozioni positive (Schore, 2003). Fiducia ed empatia si basano su sistemi di autoregolazione basilari nelle relazioni, il flusso di forma e di tensione5, usati in Danzamovimento terapia per sintonizzarsi attraverso le variazioni della forma del corpo (adjustment), che sostiene la fiducia reciproca (Kestenberg, 1990), e del tono muscolare (attunement) che sostiene l’empatia. Dal proporsi “simile a te” vengono poi introdotte eventualmente variazioni, che portano possibilità nuove di movimento ed espressione.

Il fare arte è un’attività profondamente legata al gioco, attività umana primaria nel processo di dare origine alla mente; la dialettica tra mondo interno ed esterno (Stern, 1985; Belfiore e Colli, 1998) che prende forma nell’area transizionale (Winnicott, 1971) permette nel corso dello sviluppo di arrivare a differenziare la realtà dal fare finta (Bateman e Fonagy, 2004). Ma c’è qualcosa di più, che avviene a livello neuronale e ci accompagna in tutta la nostra vita di relazione. Il neuroscienziato Stephen Porges (2013) nella teoria polivagale parla di funzione sociale e regolatoria del gioco, “esercizio neurale” di co-regolazione dello stato fisiologico e dell’ingaggio sociale, caratterizzato da reciprocità, vocalizzazioni prosodiche, vicinanza e contatto fisico, dall’alternarsi di movimento e immobilità, dalla presenza di pause dinamiche caratteristiche degli scambi madre-neonato ma anche della danza. In particolare la sua dimensione “faccia a faccia” ha la capacità di ridurre le primitive reazioni difensive attacco-fuga, o lo spegnimento (che ci accomunano agli altri animali nell’ancestrale cervello rettiliano), e di rassicurarci di essere al sicuro, di poter entrare nella dimensione sociale dell’immobilità senza paura. La muscolatura del viso, dell’orecchio, lo sguardo, ci permettono di comunicare e di ricevere informazioni sulla sicurezza dell’ambiente umano che ci circonda. La capacità di giocare appare molto ridotta nelle persone con patologia psichica, e la relazione terapeutica, per le sue caratteristiche simili a quelle del gioco, può aiutare a riattivarla (Porges, 2013): la Terapia Espressiva ha una carta in più nel recupero del come se, nel creare forme, danze, suoni, nell’offerta di uno spazio per sperimentare, per mettersi in gioco creando cambi di prospettiva, nuovi collegamenti, possibilità espressive, aperture di senso, trasformazioni. E possibilità di riconoscere e validare i propri bisogni adattivi.

Terapie espressive: dare un posto alle emozioni

I pazienti si mettono in gioco, sperimentano, con tutta l’incertezza del non conosciuto, ma con il senso di creare. Le Terapie Espressive (TE) rispetto al solo codice verbale offrono strumenti attivi per affrontare tematiche relazionali e blocchi, come la difficoltà ad esporsi, a esprimere e gestire emozioni, a organizzare le azioni, a prendere iniziative. Nel cerchio iniziale di un gruppo, che è un momento di accoglienza, di raccolta e definizione di stati d’animo, Petra, Laura, Carla, Giovanna, nominano stanchezza, chiusura, fatica, stati confermati dall’ascolto-osservazione del linguaggio corporeo da parte della terapeuta. Francesca racconta del proprio abuso di sostanze, e osserva con disinvolta leggerezza, e un atteggiamento di negazione, che le altre sono molto giù, mentre lei non prova mai tristezza, è dipendente, passa da una dipendenza all’altra. Non si identifica nella sofferenza delle compagne:

Forse in questo ricovero sono nel posto sbagliato, mi sento inadeguata, sono euforica. Io non mi sento mai triste, piango perché mi sono abbuffata, non per un vero motivo.

Ha una storia durissima: nata dopo due sorelline morte, si è fatta carico della madre depressa, senza trovare una sponda sicura di sostegno e accudimento per sé, con la loro ombra sulle spalle e la richiesta implicita di riparare il lutto materno. Questo suo scenario interiore lo porta nel gruppo e in reparto, dove è molto sensibile agli stati altrui, e se ne prende cura. Dopo essere stata una bravissima bambina, a quattordici anni ha iniziato ad assumere sostanze e a fare vita sregolata. Le compagne, dai labili confini interpersonali, per contagio emotivo si irrigidiscono e si chiudono (flusso di forma e della tensione bloccati, sguardi fissi; v. nota 5) di fronte alle uscite della ragazza, che richiamano dolorose storie personali. Appare subito evidente che non sono per nulla disposte ad aprirsi alla sperimentazione, a coinvolgersi su una minima proposta di lavoro, come succede spesso con questo tipo di pazienti di fronte a temi sofferti e attivanti, né sono in grado di riflettere su quanto sta accadendo nella propria mente o nel corpo. Invitate a farlo, con fatica riescono a rintracciare e nominare, tra tanti stati emotivi indefiniti, il fastidio, la rabbia, la voglia di tagliarsi, l’ansia e il dolore che in loro si sono risvegliati. E già il nominare questi stati le attiva ancora di più. Il freezing è una delle reazioni tipiche di questi pazienti, insieme all’attacco, alla fuga, o allo spegnimento (Ogden, 2006), che comunque sono reazioni fisio-psicologiche che accomunano tutti gli esseri umani con diverse gradazioni.

Nella congelata e rabbiosa immobilità del gruppo sento e penso che un lavoro corporeo attivo possa entrare in sintonia con i loro stati mentali, e nello stesso tempo possa aiutare a trasformarli, riducendo lo stato di attivazione e rimettendo in circolazione energia costretta. Forse può anche riaprire lo scambio tra le persone e creare spazio riflessivo. Ricorro a un oggetto che faccia da tramite, che permetta di restare separati ma metta anche in relazione, a un gioco che in questo sovraccarico non chieda impegno mentale, e che possa esprimere l’aggressività sottostante in modo ludico: opto per i lanci tra le partecipanti di un elenco telefonico, uno degli “strumenti” che ogni tanto mi capita di proporre. So che con il suo peso sollecita trasformazioni nell’uso pieno del corpo, nell’adattamento della postura, del tono muscolare, del respiro, crea movimento nell’immobilità e dinamiche comunicative e reazioni. E in effetti si aprono gesti, corpi, sorrisi, intenzioni. Gli oggetti sono importanti in interazioni come queste, perché distolgono l’attenzione diretta dal corpo, fonte spesso di disagio, e la portano fuori, allo scambio con gli altri, e alla concretezza dei sensi.

Oltre al gioco, alla vitalità, alla relazione (ma Petra quando ci siamo alzate in piedi se n’era andata: nella seduta successiva riuscirà a collegare la postura eretta alla rabbia provata poco prima al bar rispetto al cibo, suo grande problema di gestione emotiva. Per lei, bambina abusata, è molto difficile esporsi, esserci, agire in modo aggressivo, diretto, come nel lanciare, e tende a ritirarsi, a rivolgersi contro di sé), l’esperienza suscita in Carla anche un’inaspettata reazione emotiva nell’essere sfiorata sul viso dalle pagine dell’elenco, come noto da una sua sospensione del corpo e in un’espressione sorpresa e incuriosita. Nella condivisione finale si dice stupefatta dal piacere e dal desiderio di essere colpita ancora, che collega onestamente al sesso. Anche Francesca fa un suo collegamento spontaneo, il ricordo delle botte da parte del fratello quando si comporta male, come anche dai suoi fidanzati: su questa considerazione scoppia in pianto. Ha bisogno di essere picchiata, afferma tristemente, è l’unico modo che ha di sentire che uno la ama, ne combina di tutti i colori e vuole essere punita per essere sicura che uno ci tiene a lei. Ora piange su di sé, su questa cosa che la sua mente sa essere sbagliata, perché non difende il diritto delle donne, dice, perché è sottomessa, ma non può farne a meno. Singhiozza desolata, la testa china, con un dolore che si tocca, la tristezza non più negata. Un’emozione viva, pulsante, e nel gruppo l’accogliamo in silenzio. Mi lancia solo uno sguardo tra le lacrime e i lunghi capelli, un contatto cercato, che sento importante, e che ricambio. Uno scambio esperienziale in uno spazio gruppale protetto ha attivato ricordi ed emozioni, ha offerto occasione di espressione consapevole e di trasformazione dei vissuti, e di incontro tra diverse menti. L’azione creativa, spontanea e non pensata, rimanda ad altri livelli di realtà, a motivazioni, desideri, pensieri emozioni e sensazioni, che da automatici e impliciti diventano così oggetto di riflessione e di conoscenza. Creando collegamenti, l’esperienza estetica (come forma, sensorialità, come sentire) attraverso la mediazione terapeutica, apre la porta all’affettività mentalizzata.

Terapie espressive: riparare con il corpo

Come dicevo la capacità di giocare sostiene la funzione riflessiva, perché permette di stare dentro all’azione, alla relazione, anche divertendosi a volte, e di regolare nelle interazioni gli stati di attivazione fisica, i comportamenti e le emozioni (Skarderug, 2009). L’autoregolazione è la capacità di controllare gli impulsi, di rimandare l’azione o iniziarla, ma anche di modulare, calmare le risposte sensomotorie, somatiche, emotive, che influiscono sul funzionamento affettivo e cognitivo (Schore, 2009). I processi attentivi giocano un ruolo cruciale fin dai primi anni di vita, quando il care giver aiuta a controllare lo stress eccessivo, ad es. distogliendo il bambino dal proprio disagio e spostando l’attenzione su altro (Bateman e Fonagy, 2004). Una buona sintonizzazione nella relazione primaria permette lo sviluppo della capacità di controllo volontario, necessario per la vita sociale.

Le esperienze sensomotorie e grafiche utilizzate nelle Terapie Espressive possono essere usate per distrarre l’attenzione dall’incandescenza del troppo sentire per riorientarla sul concreto del foglio, del corpo, dell’azione, del colore e del materiale: toccare, prendere, dirigere il pennarello, premere, sentire il foglio in mano, spostarsi nello spazio, fare un’azione con uno scopo in mente, possono creare momenti meno accesi per fare spazio ad esperienze nuove ed al pensare. I materiali, le immagini, la danza, come elemento esterno, aiutano a organizzare e trasformare gli stati mentali, rinforzandone la consapevolezza, la capacità di osservarli e gestirli. In Danzamovimento terapia, pratica olistica e integrata, cercare una posizione piacevole, di autoaccudimento, invece di lasciarsi pervadere dalla passività dolente e ritirata, trasformare la tensione rabbiosa e inibita in movimenti che portino fuori, come lo scuotere insieme un grande telo, o ‘danzare la rabbia’ quando è possibile e tollerabile, oppure trovare modi diversi di attraversare la stanza, offrono la possibilità di nuove espressioni, a volte consapevoli e controllate, a volte più spontanee, che permettono di sottrarsi alla trappola del silenzio, dell’isolamento, della paura, della ripetizione, del congelamento emotivo, dell’informe incomunicabile. Usare il colore, immaginare e rappresentare un paesaggio, dare forma grafica alle emozioni sentendole-ricordandole prima nel corpo, sono potenti mezzi per diventare consapevoli della propria interiorità-mente. Le pratiche (immaginative, artistiche, corporee) che si muovono tra interno ed esterno sono profondamente riparative, aiutano a incuriosirsi di sé, a validare la propria esperienza superando il giudizio, l’autosvalutazione, che sempre tormentano questi pazienti.

Il lavoro sui processi corporei bottom up è di fondamentale importanza per aiutare a stabilizzare le reazioni, per restare all’interno della finestra di tolleranza (Ogden, 2006)6. L’obiettivo delle Terapie Espressive con questi pazienti non è quindi la libera espressione catartica, quanto ristabilire una forma di fiducia e controllo sulle espressioni-reazioni del corpo, un senso di sicurezza e di autocura (Herman 1992), che in seguito permetteranno di sperimentare gli stati di arousal evitando di ricorrere a modalità autodistruttive (Ogden, 2006). Il movimento può abbassare l’arousal, raffreddare l’attivazione, per riprendere poi a pensare su quanto accaduto nel corpo-mente (Allen e Fonagy, 2006): non si riesce a pensare o a prendere decisioni quando si è troppo attivati emotivamente. Movimenti intensi o tranquillizzanti possono aiutare a regolare in modi diversi la tensione e l’agitazione, mentre movimenti attivanti permettono di uscire dall’ottundimento dell’ipoarousal; pratiche di respirazione e radicamento, camminate consapevoli sono utili per ricentrarsi e stare nel presente. Danzare con una musica aiuta a stare con se stessi, a essere spontanei, a non rimuginare, a lasciar fluire, a permettersi piccoli assaggi di spontaneità; proporre una breve sequenza agli altri permette di acquisire consapevolezza degli stati legati all’esporsi, al giudizio, all’immagine corporea, all’autostima. Esperienze che i pazienti vengono invitati ad ascoltare e gestire tollerando i disagi.

La capacità riflessiva e regolativa di ognuno di noi si modifica nel contesto, diminuisce con un sovraccarico emozionale, o con l’attivazione del sistema di attaccamento; in Terapia Espressiva la stessa espressione artistica, e soprattutto il movimento spontaneo, la danza, possono attivare stati vicini all’inconscio corporeo (Robbins, 1998; Boccalon, 2010), talvolta unheimlich, perturbanti. Come già detto può essere utile spostare l’attenzione dal corpo, spesso investito negativamente, attraverso l’utilizzo di attività grafiche, oltre che di oggetti. Ma anche questo può essere destabilizzante per la tipica labilità emotiva di questi pazienti, che possono fare un disegno e poi esserne turbati, oppure come è successo con una foto di radici che spuntavano dalla terra, scelta da una ragazza, che ha suscitato forti emozioni di dolore e rabbia associate al passato, alle radici che sentiva di non aver avuto. Quindi per il terapeuta espressivo è importante riconoscere, accogliere, monitorare e modulare continuamente le reazioni del gruppo. Nei momenti in cui i gravi pazienti borderline perdono la capacità di prestare attenzione agli stati mentali come difesa da uno stato di sofferenza, invitarli a osservare e sentire insieme il linguaggio del corpo (quando è possibile, quando c’è lo spazio mentale per farlo) aiuta a cogliere le reazioni di disagio, a non lasciarle inosservate nell’implicito, quindi a mentalizzarle e regolarle (Schore, 2008; Gallese, 2009). Focalizzare sulle sensazioni aiuta a uscire dal pensiero catastrofico e giudicante. E’ diverso infatti dirsi “sento una pressione, calore al petto, un tremito”, da “sono in ansia, sono terrorizzata, non finirà più”. Un lavoro esperienziale aiuta anche ad essere consapevoli dei piccoli momenti di piacere sensoriale, che spesso ci sfuggono, orientati come siamo a cogliere il negativo, la difficoltà. Con pazienti disregolati è quindi utile un holding attivo (v. Migone, 1991; Allen e Fonagy, 2006) che incoraggia a stare dentro l’esperienza, a tollerarla, a focalizzare, a prendere le distanze, definire, nominare; che amplia o restringe i temi di ricerca, propone alternative, sostiene il fragile sé nel reggere la sofferenza, o pensa per i pazienti raccontando cosa succede (Correale, 2009). O che aiuta a risvegliare dall’ottundimento, fungendo da ‘compagno vivo’ nel richiamare a vita, come bene descrive Anne Alvarez (1999). Una modalità attiva e recettiva (Robbins, 1987), flessibile alle situazioni cangianti ed emotivamente cariche, all’alternanza rapida degli stati di incandescenza, frammentazione, e pervasivo senso di vuoto, è fondamentale nel lavoro con questi pazienti. Il radicarsi, pensare col corpo (Laban, 1950) aiuta il terapeuta espressivo a reggere le forti emozioni senza perdersi, a tenere uno spazio in modo molto fisico; attraverso l’attitudine corporea e la rappresentazione interna di uno spazio mentale contenitivo, gli consente di mantenere aperto il contatto tollerando il non conosciuto e l’incertezza, come pure i fallimenti comunicativi e di sintonizzazione. La riparazione delle rotture è ancora più importante del mantenimento di un continuo livello di comunicazione-interazione, sostiene Tronick (2007), sia nello sviluppo che in terapia: esperienze di recupero dal disagio costruiscono fiducia nell’altro e nella propria efficacia di regolazione. Gli strumenti del terapeuta espressivo sono l’empatia somatica e il rispecchiamento, la familiarità con le immagini, con stati psico-corporei primitivi, col testimone interno (J. Adler, 2006), con l’osservazione dei parametri di movimento Laban-Kestenberg per cogliere livelli di competenza, difficoltà, bisogni dei pazienti, e tollerabilità dell’esperienza. Nell’accogliere e sostenere, regolare gli stati debordanti, la sofferenza, le oscillazioni emotive dei pazienti, è fondamentale che il terapeuta si prenda cura di sé, del proprio benessere, della propria integrità, della proprio disagio o impotenza.

Terapie espressive: regolare le emozioni attraverso il corpo

Da notare che a causa dei gravi disordini nell’attaccamento di questi pazienti (v. Liotti, 2006) nello spazio gruppale è ridotta la valenza carica di aspettative e possibili minacce di una relazione diadica. Nel cerchio finale quando si osservano, si interrogano le cose create, il momento di attenzione congiunta muove spesso un’attitudine quasi rituale di ascolto, rispetto, curiosità, di interesse per la mente dell’altro: punti di vista e alternative e possibili (“Io pensavo che lei fosse agitata, ma ho capito che era in pena”), sguardi che si orientano insieme. Il semplice stare nel cerchio finale sul pavimento, a condividere osservazioni, immagini, pensieri, è un’esperienza di scambio, ascolto, di menti in contatto. Il messaggio è che si possono vivere le proprie reazioni senza esserne travolti, che

le parole, i pensieri e il dialogo sono strumenti di comunicazione notevolmente più efficaci dell’azione”, e che la relazione è un luogo in cui “è possibile giocare con le idee (Bateman e Fonagy, 2004, p. 253);

che si può reggere il dolore, la tristezza, la rabbia. Un atteggiamento terapeutico di curiosità, ascolto, scoperta, che costruisce ipotesi e le modifica insieme ai pazienti, è di fondamentale importanza per sostenere la funzione esplorativa, riflessiva, regolativa.

La mamma è sempre la mamma… o forse no? Come i pensieri attuali possono modificare i nostri ricordi affettivi

Un recente studio pubblicato su Clinical Psychological Science ha evidenziato che, quando i nostri ricordi cominciano a diventare meno definiti, tendiamo ad affidarci alla valutazione attuale che facciamo di una persona per ricordare quali emozioni provassimo nei suoi confronti in passato.

 

Per quanto disturbante, tale tendenza risulta reale anche per persone di fondamentale importanza nel corso dell’arco di vita: le figure genitoriali.

Memoria: come viene influenzata da pensieri ed emozioni

Numerose ricerche hanno dimostrato come la memoria non permanga inalterata nel tempo ma venga costantemente ricostruita da una combinazione di tracce di ricordi e pensieri attuali (per una review si veda Loftus, 2005). E’ stato più volte messo in luce che questa malleabilità permette l’impianto in memoria di fatti mai avvenuti durante l’infanzia (falsi ricordi) tramite informazioni suggestive, ripetizioni o tecniche immaginative guidate. Una distorsione mnestica più sottile e meno nota, che riveste una forte rilevanza soprattutto all’interno del setting terapeutico, è legata alla memoria delle emozioni.

I pensieri attuali non influenzano solo il ricordo di emozioni semplici, ma anche quello di emozioni complesse, quali il dolore legato a un lutto (Safer, Bonanno, & Field, 2001).

Memoria e ricordi sulla mamma: lo studio

Patihis e colleghi (2019) hanno voluto indagare se anche il ricordo di un’emozione complessa come l’amore provato nei confronti della propria madre durante l’infanzia possa essere modificato da una valutazione attuale della sua figura. Durante il primo esperimento dello studio sono stati reclutati online 301 partecipanti, i quali sono stati assegnati alla condizione sperimentale o a un gruppo di controllo. Ad alcuni soggetti del gruppo sperimentale è stato richiesto di riportare in forma scritta caratteristiche positive delle proprie madri, quali la capacità di dimostrare calore, generosità, competenza e di fornire una guida. Ai restanti soggetti è stato invece richiesto di riportare in forma scritta la mancanza nelle proprie madri di tali caratteristiche. I partecipanti del gruppo di controllo hanno riportato alternativamente caratteristiche delle proprie insegnanti o non hanno ricevuto istruzioni in tal senso. In seguito, i partecipanti di entrambi i gruppi hanno compilato un’inchiesta che andava a valutare i pensieri attuali dei partecipanti rispetto ad alcune caratteristiche delle proprie madri, quali la capacità di dimostrare calore e generosità. Infine i soggetti hanno compilato il Memory of Love Towards Parents Questionnaire (MLPQ), il quale andava ad indagare l’affetto che i partecipanti ricordavano di aver provato nei confronti delle proprie madri durante differenti periodi del proprio sviluppo (in particolare prima elementare, prima media e prima liceo), oltre ai sentimenti attuali nei confronti della figura materna. Gli individui hanno ricompilato tale questionario a due settimane e a quattro settimane dalla sessione iniziale.

Memoria, pensieri attuali ed emozioni: i risultati dello studio

Al termine dell’esperimento è emerso che l’aver riportato in forma scritta la presenza o l’assenza di caratteristiche materne positive ha influenzato sia i sentimenti attuali dei partecipanti, sia i loro ricordi affettivi: infatti coloro che hanno riportato la presenza di caratteristiche materne positive hanno anche ricordato di aver provato maggiore affetto nei confronti della propria madre durante la prima elementare, la prima media e la prima liceo, rispetto ai partecipanti che avevano riportato l’assenza di tali caratteristiche nella propria madre. Tali effetti sono stati riconfermati al follow-up a quattro settimane per quanto riguarda i ricordi relativi al periodo della prima elementare, ma non hanno trovato conferma per i ricordi relativi ai due periodi successivi dello sviluppo. I ricercatori hanno condotto un secondo esperimento, a cui hanno partecipato online altri 302 partecipanti, che ha confermato gli stessi risultati del primo. Tale esperimento ha inoltre evidenziato che i partecipanti non mostravano differenze significative nella valutazione attuale delle proprie figure materne prima di ricevere la richiesta di riportare in forma scritta la presenza o l’assenza di loro determinate caratteristiche positive.

Questo sottolinea che l’effetto del compito non era da imputarsi alla presenza di differenze preesistenti tra i partecipanti. Infine, gli effetti legati alla procedura applicata al gruppo sperimentale non sono stati riconfermati al follow-up a otto settimane eseguito dai ricercatori. Lo studio esaminato riveste particolare importanza in quanto ha messo in luce come la nostra valutazione attuale di coloro che ci circondano, anche di figure centrali come quelle genitoriali, possa modificare il ricordo dell’amore provato nei loro confronti durante l’infanzia. Tali ricordi rivestono fondamentale importanza all’interno della memoria autobiografica dell’individuo, e la consapevolezza che anche ricordi affettivi così centrali a livello identitario possano essere malleabili, per quanto disturbante, è fondamentale per la prevenzione di questo tipo di distorsione mnestica, soprattutto all’interno del setting terapeutico.

L’interazione della cannabis terapeutica con le benzodiazepine

Un recente studio preliminare ha mostrato che pazienti in cura farmacologica con benzodiazepine, ai quali era stata prescritta parallelamente l’utilizzo di cannabis terapeutica, hanno interrotto la preesistente terapia con benzodiazepine.

 

Le benzodiazepine sono una classe di psicofarmaci aventi proprietà sedative, utilizzati prevalentemente per curare i sintomi legati all’ansia.

Inoltre, risultano essere fra le sostanze psicoattive maggiormente prescritte, nella popolazione generale, a fronte della rapida potenza di azione. Tuttavia, non esulano da effetti indesiderati che predispongono facilmente allo sviluppo di una dipendenza fisica e psicologica (Trinka & Brigo, 2015). Questo studio si pone l’obiettivo di indagare la relazione presente fra assunzione di benzodiazepine e utilizzo di cannabis terapeutica.

Cannabis terapeutica e benzodiazepine: lo studio

Per la realizzazione del presente studio sono stati reclutatati 207 partecipanti da una clinica medica canadese, specializzata nella prescrizione di cannabis terapeutica per la cura di varie condizioni mediche. Al momento del reclutamento i pazienti stavano assumendo benzodiazepine e si è proseguito con la prescrizione, parallela, di cannabis terapeutica. Per monitorare la relazione fra benzodiazepine e cannabis è stato chiesto ai pazienti di presentarsi a tre visite di follow-up entro i sei mesi successivi. Dei 207 pazienti, solo 146 si sono sottoposti alle tre visite di follow up, permettendo la realizzazione del presente studio.

Cannabis terapeutica e benzodiazepine: i risultati

Dai risultati è emerso che: alla prima visita di follow up ben 44 pazienti (30,1%) avevano interrotto la terapia con benzodiazepine; alla seconda visita, ulteriori 21 pazienti avevano interrotto l’assunzione di benzodiazepine, per un totale di 65 pazienti (44,5%); alla terza visita un altro paziente, 66 pazienti totali (45,2%) aveva sospeso l’assunzione delle benzodiazepine. Dunque, i pazienti che avevano avviato una terapia con cannabis medica hanno mostrato consistenti tassi di interruzione delle benzodiazepine nel corso delle tre visite di follow up.

Trattandosi di uno studio preliminare è bene sottolineare che: non sono stati indagati i meccanismi fisiologici alla base di questi risultati; non si può parlare di causalità diretta fra prescrizione di cannabis e interruzione della terapia con benzodiazepine; non si intende suggerire che la cannabis possa essere usata come alternativa alla terapia con benzodiazepine. Tuttavia, i consistenti risultati di questo studio non possono essere ignorati e le sopracitate limitazioni potrebbero porre le basi per lo sviluppo di ricerche future che indaghino il valore terapeutico della cannabis.

L’assemblea annuale della Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale

Si è ritrovata mercoledì 27 maggio, l’assemblea annuale della Consulta delle scuole di psicoterapia cognitiva e comportamentale, l’organo che intende rappresentare gli interessi e i progetti di questi istituti.

Inaugurata dal presidente Paolo Michielin, l’assemblea ha proposto una mattinata rievocativa, un bilancio del tempo trascorso con la partecipazione di Fulvio Giardina, Nicola Piccinini, Mario Bertini e Nino Dazzi che hanno raccontato le vicissitudini storiche del processo di istituzionalizzazione delle scuole di psicoterapia. Istituzionalizzazione che ha potato un mercato selvaggio e lussureggiante: prima della legge del 1989 c’erano più di mille scuole non regolamentate. Rischio però risorgente, visto che al giorno d’oggi il numero delle scuole sta di nuovo moltiplicandosi: si tocca la cifra di quattrocento istituti riconosciuti!

Il manuale di accreditamento tra pari

In tarda mattinata è passati alla parte operativa. Roberta Stoppa, Fabio Giommi e Susanna Pizzo hanno esposto l’esperienza di elaborazione e collaudo di un manuale di accreditamento tra pari, ovvero tra scuole di psicoterapia. L’operazione è importante perché introduce un elemento di selezione e qualificazione delle scuole che si aggiunge alle forze spontanee del mercato. Purtroppo queste forze, come giustamente aveva notato il prof. Dazzi nella sua presentazione, sono insufficienti e stanno portando a un inarrestabile moltiplicazione delle scuole. Un modo per limitare il rischio di crescita tumorale delle scuole sono le procedure di controllo di qualità, tra le quali l’accreditamento.  Gli istituti che hanno partecipato a questa  operazione sono il Nous di Milano, Studi Cognitivi e Psicoterapia Cognitiva e Ricerca anch’essi di Milano, l’ITCC di Padova, la SCINT di Roma e l’Istituto Miller di Genova e Firenze.

Organizzazione dei Tirocini per le Scuole di Specializzazione in Psicoterapia

Negli interventi successivi Carla Maria Vandoni e Giuseppe Romano hanno discusso i problemi di organizzazione dei tirocini, nota dolente data la nota difficoltà a reperire questo tipo di servizi per gli allievi. Nell’ultimo intervento Cecilia Volpi e Giuseppe Romano hanno illustrato le ricerche effettuate in questi anni sul livello di soddisfazione personale ed economica incontrato dagli allievi nella loro carriera come psicoterapeuti. I risultati positivi confortano sula bontà dello sforzo di professionalizzazione in atto dal 1989, anno ufficiale di nascita dell’attuale legislazione delle scuole di psicoterapia.

Nella discussione finale la Consulta ha ricevuto apprezzamento per il lavoro svoto e ulteriore incoraggiamento a proseguire il suo sforzo di rappresentanza degli interessi della psicoterapia cognitiva e comportamentale in Italia.

 

Ironia: alla scoperta della comunicazione ironica – Introduzione alla Psicologia

Il linguaggio è un fenomeno comunicativo sociale caratterizzato dalla presenza di diverse forme pragmatiche tra cui le metafore, gli idiomi e anche l’ ironia (Vidal, 2006).

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Comunicare in maniera ironica consente di esprimersi in maniera persuasiva, in quanto mostra ciò che nasconde e nasconde ciò che dice (Anolli, Ciceri, & Infantino, 2000).

Ironia: cos’è

L’ ironia è una comunicazione obliqua che deriva dalla sinergia del codice verbale e di quello non verbale nel processo di produzione di un significato comunicativo. L’ ironia è veicolata da strategie aventi come scopo una comunicazione implicita, non volta a nascondere, ma a mostrare contenuti in maniera velata (Anolli, Ciceri, & Infantino, 2000). Il messaggio ironico deve essere chiaro, ma non evidente (Muecke, 1969; Muecke, Irony. critical idiom series, 1970), ed è tipicamente usato in abito umoristico o per addurre alla comunicazione un effetto emotivo.

La flessibilità semantica delle lingue naturali ha permesso all’ ironia di svilupparsi come metodo per la gestione graduale degli stati interni, preservando un’immagine di sé di un certo tipo, e per giocare con la natura multimodale del linguaggio (Bachtin, 1975; Ducrot, 1972; Mizzau, 1984).

Nel processo vocale ironico le frasi possono essere più nasali, la velocità del discorso diminuisce, le parole sono allungate, le sillabe sono pronunciate in modo esagerato, gli accenti sono più energici e vi è una forte caricatura empatica della comunicazione (Cutler, 1974) (Haverkate, 1990) (Kreuz & Roberts, 1995).

Secondo la pragmatica, l’ ironia è un commento contestuale che rompe una regola sociale, esprimendo non solo un’idea, ma anche un’attitudine verso quell’idea (Wilson & Sperber, 1992; Sperber & Wilson, 1981).

L’ ironia, dunque, non è un costrutto omogeneo, ma può essere divisa in base alle sue qualità, ovvero per cosa è stata usata. E’ possibile infatti prendere in giro una persona usando parole positive (ironia sarcastica) (McDonald & Pearce, 1996) o fare complimenti con parole negative (ironia gentile). La prima può essere considerata una forma socialmente corretta di aggressione, in cui non vi è una perdita di controllo, mentre la seconda è più una strategia di affiliazione (Knox, 1961).

Un’altra divisione può essere compiuta in base al codice verbale o a quello vocale (Wakusawa, et al., 2007; Shibata, Toyomura, Itoh, & Abe, 2010), da cui deriva una congruenza o meno tra forma e significato (Herbert & Gerrig, 1984). Un’altra variabile è la forza semantica e contestuale, ovvero quando il significato si evince principalmente dal testo e quando invece può essere derivato dal contesto. L’ ironico sceglierà una modalità fra le diverse strategie per raggiungere il suo obiettivo, modificandole sulla base del complesso gioco relazionale in atto tra due o più interlocutori (Anolli, Ciceri, & Infantino, 2000).

La “sequenza ironica”  può andare a buon fine quando gli interlocutori mostrano una certa quantità di background condiviso e conoscono l’evento focale oggetto dell’ ironia. A questo punto la frase ironica può essere espressa con intenti comunicativi. Una mancata ricezione del messaggio ironico può derivare dal malinteso che si crea o dal fingere di non capire l’ ironia della comunicazione (Anolli, Ciceri, & Infantino, 2000). Ciò prevede buoni processi emotivi e di mentalizzazione atti all’integrazione di processi sociali (Bohrn, Altmann, & Jacobs, 2012).

Inoltre, le aree cerebrali che sottendono questo processo sono la corteccia prefrontale dorsomediale e rostromediale, il giro frontale inferiore e il giro temporale superiore, convolte in una rete che permette l’attivazione semantica (nelle regioni parietali), l’integrazione dei significati (nelle regioni temporali), e nelle regioni frontali (Reyes-Aguilar, Valles-Capetillo, & Giordano, 2018).

Comunicazione ironica e variabili demografiche

In sostanza, la comunicazione ironica può essere utilizzata come termine ombrello che racchiude al suo interno numerosi stili di comunicazione ben diversi l’uno dall’altro. A tal proposito, uno studio recente (Ruch et al., 2018) attesta la presenza di otto stili comici diversi: divertimento, umorismo, sciocchezza, arguzia, ironia, satira, sarcasmo e cinismo, suddivisibili empiricamente. Le persone utilizzano una comunicazione ironica che può variare sia quantitativamente (es: utilizzo di più o meno umorismo) che qualitativamente (diverse forme di umorismo). Inoltre, è interessante evidenziare come alcune caratteristiche demografiche come sesso, età e livello di scolarizzazione possano influenzare qualitativamente la scelta dei vari stili comici. Per quanto riguarda il sesso, è stato visto che le donne rispetto agli uomini tendono ad usare maggiormente l’umorismo mente gli uomini la satira, il cinismo ed il sarcasmo. Per quanto riguarda l‘età, gli anziani rispetto ai giovani tendono ad usare maggiormente l’umorismo, mentre i giovani utilizzano maggiormente sarcasmo, cinismo. Infine sembrerebbe che ad un più alto livello di scolarizzazione corrisponderebbe un maggior utilizzo di ironia (Ruch et al., 2018).

Ironia: le funzioni psicologiche

La comunicazione ironica assolve a diversi processi psicologici:

1.  Rispetto delle convenzioni:  il commento ironico permette di evitare la critica degli altri, affrontando contenuti che, altrimenti, andrebbero taciuti.

2.  Confine per proteggere lo spazio personale: l’ ironia consente di conservare dignità e contegno, per tutelare il proprio spazio personale

3. Ambiguità relazionale nel rinegoziare i significati: la comunicazione ironica si basa sul presupposto che per essere compresi al meglio è necessario essere fraintesi.

4. Intonazione della voce: la comunicazione ironica si fonda su un gioco vocale caratterizzato da contrasti fra aspetti linguistici e paralinguistici. A differenza della menzogna, in cui le parole sono false, nell’ ironia le parole sono finte, cioè negano palesemente ciò che appare. L’ ironista non vuole ingannare, ma essere chiaro senza essere evidente ed esplicito.

5. Copione: la comunicazione ironica è un gioco tra parti che interagiscono all’interno di un copione, composto da 4 fasi:

  • Premessa: grazie a conoscenze reciproche interpersonali condivise dagli interlocutori, definisce la cornice di riferimento all’interno del quale si colloca lo scambio ironico.
  • Evento focale: l’oggetto del commento ironico, costituisce il fulcro attorno al quale si articola l’intera conversazione.
  • Commento ironico, costituisce l’intento della comunicazione ironica avente scopi comunicativi diversi.
  • Effetto ironico: interpretazione del commento da parte del destinatario che potrebbe essere frainteso, non capito nel suo reale significato, disconosciuto; si comprende il significato ma non si condivide
  • Touché, l’ ironia è colta e il destinatario si mostra divertito o ferito e risponde a sua volta a seconda della circostanza.

Ironia e mentalizzazione

Per comprendere la comunicazione ironica è necessario che il ricevente sappia distinguere ciò che l’emittente dice letteralmente, da ciò che intende trasmettere sulla base del contesto di riferimento (Champagne-Lavau e Stip, 2010). Dunque, l’ ironia può essere definita come un esercizio di mentalizzazione che si affida alla capacità di elaborazione del contesto (Schnell et al.,2016). Secondo alcuni autori, a deficit di elaborazione del contesto spesso sono legati deficit di mentalizzazione (Baez et al., 2013).  Difatti, un recente studio ha mostrato come pazienti affetti da disturbi dello spettro della schizofrenia manifestino deficit di mentalizzazione e di elaborazione del contesto che sono evidenti in compiti di comprensione dell’ ironia (Del Goleto et al., 2016). Parallelamente, individui affetti da disturbi dello spettro autistico, aventi una ridotta capacità di interpretare i segnali comunicativi in termini di stati mentali, sembrerebbero avere un deficit di comprensione della comunicazione ironica. Questo deficit sarebbe spiegato dall’incapacità di saper leggere l’incongruenza fra segnali verbali e non verbali (Nuber et al., 2018).

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Il Legame e il dono – Dall’individualità alla coppia

Abbiamo visto in precedenza, e le teorie sono quasi tutte d’accordo, che il dono serve ed è necessario a creare legami tra gli individui e/o tra i gruppi.

 

Il termine legame deriva dal verbo latino “ligare” che nella sua indicazione neutra diventa, “ligame”.

L’etimologia di legare vuol dire stringere con una fune, catena e/o vincolo. Non vi è dubbio che nell’accezione del dono è quest’ultimo significato che ci dà la dimensione del legame come modalità di vincolo.

Il dono, infatti, crea un vincolo tra donante e ricevente.

Dono: i legami nella coppia come nella chimica

In chimica, la scienza che ha studiato in maniera approfondita i legami della materia, si distinguono due tipi di legami:

  • Legami forti, primari o intermolecolari in cui una forza elettrostatica tiene uniti più atomi creando una molecola;
  • Legami deboli, secondari o intramolecolari sono quelli che si formano tra molecole creando cristalli ionici o cristalli di tipo metallico.

Il legame chimico si forma attraverso l’interazione con cariche elettriche complementari (legame ionico) e/o attraverso la cessione di elettroni con cariche equivalenti e con cariche di elettronegatività bassa (legame covalente).

E’ importante rilevare che in chimica il legame è frutto di un’interazione tra atomi che si scambiano elettroni nelle loro orbite esterne. Un altro importante presupposto del legame chimico è la lunghezza: ovvero la forza del legame è direttamente proporzionale alla sua distanza.

I legami umani presentano parecchie similitudini e analogie con ciò che avviene alla materia cosi come analizzato e studiato nei processi chimici. Anche nella società umana troviamo legami forti e primari che sono costituiti dalla famiglia che è unita da vincoli di pathos ed ethos (la coppia) e assumono le caratteristiche di un legame covalente nella generatività. Lewis, a proposito del legame covalente, sostiene che gli atomi formano legami perdendo, acquistando o mettendo in comune un numero sufficiente di elettroni, in modo da raggiungere, se possibile la configurazione elettronica dei gas nobili.

Anche per formare una famiglia si perde, si acquista e si mette in comune. Minuchin sostiene che per realizzare i compiti specifici che spettano loro, i coniugi necessitano di capacità di complementarità e reciproco accomodamento, cioè devono sostenere il modo d’agire dell’altro in molti campi, cedendo parte del loro individualismo per riguadagnarlo nel rapporto di coppia. Possono favorire reciprocamente la creatività, l’apprendimento e la crescita. Sostanzialmente per arrivare al noi (acquistare) i membri della coppia devono praticare la complementarietà (mettere in comune) e cedere una parte di se stessi (perdere). Il concetto di complementarietà ci porta al legame ionico che appunto prevede l’interazione tra cariche elettriche complementari.

Dono: il legame di coppia nella comunicazione

Watzlawick, in Pragmatica della comunicazione umana, come quinto assioma della comunicazione fa riferimento a relazioni simmetriche e complementari. Secondo quest’autore la comunicazione e, quindi, la relazione può essere basata sull’uguaglianza o sulla differenziazione. Nella relazione complementare i partecipanti al processo comunicativo assumono posizioni diverse definite one-up e one-down, che non hanno nessuna connotazione forte – debole, ma indicano semplicemente la posizione in cui si trovano i comunicanti. La relazione si interrompe nel momento in cui nelle relazioni simmetriche e complementari, si inseriscono messaggi di squalifica e disconferma. Infatti, la relazione simmetrica (comunicazione tra pari) è funzionale fino a quando ambedue i partecipanti confermano l’altro nella sua posizione. Al contrario, se si tende a sconfermare l’altro, ponendosi in posizione di superiorità , si arriva all’escalation simmetrica poiché l’altro tende a recriminare e a porsi in posizione ancora più avanzata. L’escalation simmetrica segue la legge del “tanto più tanto più” ovvero più tu mi sconfermi nella mia posizione tanto più io non riconosco la tua. La stessa cosa avviene nella complementarietà, se i due comunicanti vogliono assumere, ambedue, la posizione one-up poichè è più complicato che vogliano assumere, come si può facilmente intuire, la posizione one-down. La relazione, quindi, è funzionale quando avviene uno scambio tra pari o quando i partecipanti si scambiano o riconoscono le posizioni in maniera complementare.

Vorrei ricordare a questo proposito, che a metà degli anni ’70 Sciascia, in un’intervista al Corriere della Sera, disse, ricevendo non so quante critiche e alcuni arrivarono addirittura a gridare allo scandalo, che la società siciliana è tipicamente matriarcale. Com’è possibile che nella terra della mafia in cui le donne, secondo l’iconografia classica data dai mass media, stanno in una posizione dimessa sempre vestite di nero, siano il fulcro della famiglia? Dice Dacia Maraini, a questo proposito

Una volta abbiamo discusso pubblicamente con Sciascia, sui giornali, sopra quello che lui chiamava il “matriarcato” delle donne siciliane. La sua idea era che sotto questo grande sventolio di pistole, fucili, carabine, ci fosse un fermo disegno di ordine, tenuto stretto alle basi (e quindi nella struttura familiare) da esperte mani di donna.

La visione di Sciascia sta proprio all’interno della complementarietà della comunicazione e della relazione. Non necessariamente per determinare il processo comunicativo bisogna stare in posizione one-up: le donne siciliane erano o sono talmente abili che riuscivano e riescono a determinare la relazione “scegliendo” di stare one-down. La complementarietà comunicativa non è una lotta per il potere, ma semplicemente un modo per far funzionare il sistema. Quando la comunicazione diventa lotta per il potere entriamo nell’area della disfunzionalità e il rischio è di rompere la relazione.

Dono e relazione di coppia: il punto di vista di Freud

In sostanza, per legare la famiglia (mettere in comune) si deve perdere, anche assumendo posizioni complementari, nella consapevolezza che perdendo si acquista. E’ ciò che fa l’atomo per formare la molecola: cede i suoi elettroni in modo da poter acquistare un nuovo stato. E’ ciò che succedeva nel potlach descritto da Mauss: cedo i miei beni, donandoli, per entrare in relazione con gli altri al fine di far comunità. Il problema nell’atto del donare non è tanto, quindi, l’obbligo di restituzione, su cui tanto si è dibattuto, ma come ci insegna anche la chimica, il fine o lo scopo ovvero il cedere con la consapevolezza di acquistare un nuovo status in cui il legame diventa vincolo reciproco.

In effetti, in chimica gli atomi, pur mantenendo le loro specificità, si fondono per creare una nuova sostanza. Due atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno si fondono al fine di creare l’acqua. Allo stesso modo, due individui mettono insieme le loro storie generazionali per formare una nuova coppia, una nuova famiglia. Cancrini e Harrison, propongono un particolare ciclo vitale della coppia in tre fasi:

  • Nella prima fase, di unione-fusione, si ha la fusione dei due e l’individuazione della coppia rispetto al resto del mondo.
  • Nella seconda fase, che è tipica della quotidianità, c’è un confine permeabile tra la coppia e l’esterno, ed è il momento in cui si creano le regole e si stabilizza la relazione.
  • Nella terza fase, si ha la separazione.

Per Freud la scelta del partner riflette e tende a duplicare la relazione simbiotica tra madre e bambino. La fusione di cui parla Cancrini è possibile mutuarla da ciò che Freud scrive a proposito dell’innamoramento. L’amore per Freud è una patologia che svuota l’io di libido per rivolgerla a un altro: l’io non vive più per se stesso ma appoggiandosi all’altro che, come scrive in Introduzione al Narcisismo, è il risultato della proiezione di ciò che si vorrebbe essere. Con il concetto di narcisismo primario, nella coppia non ci sarebbe nessuna reciprocità poiché ognuno ama ciò che ha proiettato di se stesso nell’altro. Infatti, in Introduzione alla Psicoanalisi, egli sostiene che l’uomo non ama una persona reale ma un essere ideale inesistente. In questo modo la fusione avviene solo con elementi intrapsichici e, in effetti, non vi è nessuna reciprocità perché l’altro è visto come un contenitore su cui proiettare l’ideale di sé o del genitore di sesso opposto. L’atto di reciprocità si ha solo nella sessualità poiché l’altro diventa oggetto d’investimento della pulsione sessuale. Il legame, però, diventa duraturo nel momento in cui la pulsione sessuale è inibita alla meta. Per Freud la pulsione nell’atto sessuale si scarica immediatamente dopo, mentre la pulsione inibita non può, per fattori culturali e sociali, essere investita. L’innamoramento e l’amore sono un misto tra pulsione alla meta e pulsione inibita.

Dono nella coppia: perdere per guadagnare

Lalli, sostiene che il narcisismo primario è una pura invenzione di Freud. In effetti, l’uomo è un “dividuo” che per completarsi ha bisogno di un’altra persona, cioè ha bisogno di formare una coppia che riproduca quella madre-bambino. La differenza con Freud è significativa poiché madre- bambino formano una coppia e non vivono in simbiosi . Altra differenza significativa nelle teorizzazioni di Lalli è data dall’affermazione che la coppia è formata da due soggetti che mettono in gioco i loro bisogni di sicurezza, di riconoscimento reciproco, di esaudimento dei bisogni e dei desideri. Egli non mette in dubbio che su questo processo influiscono motivazioni e istinti consci e inconsci, ma esiste una complementarietà e una reciprocità. In questo modo entra in conflitto anche con i sostenitori delle relazioni oggettuali i quali vedono il legame di coppia come, per dirla con Dicks , “l’incastro di due mondi interni” o con Sandler “un’attualizzazione delle relazioni di ruolo”. Zavattini , sostiene che il matrimonio o un legame significativo e duraturo può essere interpretato, in senso regressivo o propulsivo, come il tentativo di risolvere le tematiche interne individuali. In questo senso vi sarebbe un affido reciproco di aspetti del proprio mondo interno che, in maniera propulsiva, serve a conoscersi, a crescere e, in maniera regressiva, può portare a processi deliranti. Ancora una volta si perde per acquistare.

Lalli, comunque, va la di là di queste definizioni e nella reciprocità e nella complementarietà del rapporto di coppia inserisce il concetto di riconoscimento reciproco, di cui ho parlato nel capitolo precedente quando Caillè nel processo del donare fa rifermento appunto all’esigenza di farsi riconoscere attraverso il dono. Il bisogno di riconoscimento porta ad affidarsi (donarsi) e ricevere, in contraccambio, il dono del riconoscimento in un processo che per definizione è circolare o, di scambio reciproco. In sostanza, il riconoscimento comporta il conoscere e donare il riconoscimento. Honneth sostiene che il bisogno umano di riconoscimento attiene alla sfera antropologica e il suo esplicarsi in aspettative di riconoscimento è determinato storicamente . Ricoeur, afferma che il problema del riconoscimento sta nella complementarietà dei termini riconoscere ed essere riconosciuti e trova la sua definizione all’interno del riconoscimento reciproco. Riconoscere si collega al problema dell’identità e si manifesta attraverso una serie di passaggi graduali che vanno dal riconoscere qualche cosa in generale, al riconoscere qualcuno, al riconoscere se stessi e, infine, al riconoscimento reciproco. E’ nel riconoscimento reciproco, quindi, che l’uomo ritrova la sua identità poiché ci conosciamo (riconoscere se stessi) solo attraverso il riconoscimento reciproco. Quest’ultimo, comunque, non deve essere inteso in senso hegeliano per cui s’instaura una relazione schiavo-padrone ma, piuttosto, nell’accezione di G.H. Mead che, in Mente, sé e società, mette in risalto come la conoscenza di se stessi è possibile solo attraverso l’acquisizione e l’esperienza dell’altro . In questo modo il riconoscimento reciproco presuppone una relazione simmetrica ovvero a pari a pari. Per Ricoeur, così come descritto in un articolo precedente, il riconoscimento reciproco trova significazione nell’atto del donare libero e gratuito.

Adolescenti e Dipendenza da internet (2018) di Marino S. – Recensione del libro

Attraverso le storie di Elena, Marco, Silvia, Giulia, Giuseppe e Chiara, l’autrice di Adolescenti e dipendenza da internet fornisce al lettore esempi pratici che consentono di uscire da una dimensione puramente teorica nell’approcio al problema della dipendenza da internet, guidandolo nella comprensione della complessità di questo problema che affligge giovani ed adulti.

 

In Adolescenti e dipendenza da internet, attraverso un linguaggio semplice e chiaro, la dottoressa Santina Marino, psicologa e membra di unità nazionale italiana di tecniche autogene, ci accompagna in un viaggio complesso. La complessità di questo viaggio è data da due aspetti principali: da un lato si riscontra l’imprevedibilità del periodo adolescenziale, caratterizzato da una molteplicità di cambiamenti sia a livello biologico sia a livello cognitivo; l’altro elemento che rende complesso questo percorso, è la dipendenza da internet.

Adolescenti e dipendenza da internet nasce da un genuino interesse nei confronti della nuova società, dominata dal capitalismo e da un netto impoverimento del mondo interiore dell’individuo, caratterizzato quest’ultimo da un crescente bisogno di conferme, da un’incapacità di tollerare la frustrazione e da una difficoltà ad elaborare il lutto.

Adolescenti e dipendenza da internet: contenuti e struttura del libro

Gli obiettivi che si pone l’autrice sono: in primo luogo, quello di fornire gli strumenti per ad un pubblico vasto (psicologi, assistenti sociali, educatori ed insegnanti) per il trattamento di condizioni di lieve gravità di dipendenza da internet. In secondo luogo, attraverso le storie di Elena, Marco, Silvia, Giulia, Giuseppe e Chiara, l’autrice ha fornito al lettore degli esempi pratici per evitare che il libro Adolescenti e dipendenza da internet venga percepito come un agglomerato o un insieme di nozioni teoriche, ma anche per far comprendere, a livello pratico, la complessità di questo problema che affligge giovani ed adulti.

Nella prima parte è stata trattata la storia di internet, com’è nato e a cosa serve; ha inoltre differenziato i social media dai social network, elencandone le caratteristiche distintive e i vantaggi e gli svantaggi del loro utilizzo. Infine, l’autrice chiude questa prima parte descrivendo la Net Generation ed annoverando i principali sintomi della dipendenza da internet, con un rimando ai principali studiosi che hanno analizzato questa New Addiction.

Nel secondo capitolo, viene invece descritta l’adolescenza, intesa come un momento complesso e caratterizzato da diversi cambiamenti attraverso l’analisi e il contributo di diversi autori. Nel presente capitolo, attraverso un rimando alle principali teorie, la dottoressa Marino è riuscita ad intrecciare le fasi dello sviluppo cognitivo con l’utilizzo di internet. Da questo intreccio l’autrice è riuscita a far comprendere ai lettori in modo semplificato la complessità di questo fenomeno.

Nella penultima parte, viene fornita la definizione di new addiction e nello specifico viene posta una particolare enfasi alla dipendenza da internet e ai sintomi connessi a questa condizione, quali sono gli aspetti eziologici ed il trattamento di questa dipendenza.

Infine, nell’ultima parte di Adolescenti e dipendenza da internet, l’autrice fornisce gli strumenti, ad insegnanti, agli educatori ed ai genitori, su come individuare e trattare sia le forme “lievi” di dipendenza, sia le forme più “gravi”, con l’obiettivo di saperle distinguere e saperle trattare e nel caso in cui si dovessero presentare forme di dipendenza da internet gravi, procedere con l’invio da uno specialista.

 

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