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You (2018) La lettera di Beck – La violenza di genere inizia prima di uno sguardo ammiccante

Attenzione: l’articolo contiene spoiler su tutta la stagione

You è una produzione Netflix del 2018, che fa parlare di sé, ma sopratutto di stalking e dipendenza relazionale.

 

Molti ne hanno scritto una disamina in chiave psicologica e psicopatologica, concentrandosi sull’interessante personaggio di Joe, bibliotecario affascinante e premuroso all’apparenza.

Altri si sono concentrati, a mio avviso in modo molto interessante, sul meccanismo perverso attraverso il quale lo spettatore, sconfinando in una voyeuristica “pornografia della morte”, sviluppa in modo del tutto imprevisto quello che Diego Castelli descrive come

l’ossessione seriale verso la prosecuzione di una storia, indipendentemente dalle vittime che essa porterà con sé

la serie deve continuare, dunque non solo è necessario che Beck muoia, ma che muoia anche Candice.

You: storia di una trentenne come tante

Guardo la serie d’un fiato. Lo chiamano Binge Watching.

E a me colpisce qualche altra cosa. A me colpisce Beck, la seducente protagonista femminile. Letteralmente, un pugno nello stomaco ben assestato.

Beck sei tu. Sono io. Siamo noi.

Eravamo lì, senza sentirci osservate. Nel labirinto di scaffali, alla ricerca di un titolo a cui affidarci. Mentre Joe, vestito della luce tenue della libreria appoggiava lo sguardo sui nostri gesti, leggendo traiettorie, ragioni, frammenti di identità. Appellandosi al suo romantico glossario narcisistico. Noi, belle come tutto ciò che è inconsapevole e sofisticato. Sottobraccio all’insaziabile amica di sempre: l’urgente, incommensurabile desiderio di piacere. Dunque esistere.

Beck è la trentenne che ciascuna di noi è, è stata, o ha conosciuto. Un lavoro che la appassiona ma la mette a contatto con la competizione, la frustrazione e l’inconcludenza. Beck scrive poesie. Non tutti la capiscono, non tutti condividono la sua scelta. In Beck rivedo ogni donna degli anni 2000, alle prese con il futuro più incerto e accessoriato che potessimo immaginare. Ci chiamano millennials. La realtà suona meno affascinante del nome: molti mezzi, pochi modelli a cui ispirarsi, nessuna certezza, molta, moltissima libertà.

E se fosse una trappola? L’assenza di solide impalcature attorno alle quali svilupparsi, avvilupparsi come edera affamata di sole? La nostra protagonista femminile vive il dramma di ogni donna che si chiede dove debba mettersi: in mostra con il rischio di essere fraintesa da un viscido professore di letteratura? Oppure nell’ombra, aspettando in eterno di mettere la firma a una pubblicazione soddisfacente? Oppure ancora rinunciare e seguire sogni più semplici? Bere un margarita? Beck non cerca un uomo. Beck cerca una direzione.

You: come cavarsela tra realizzazione personale e relazioni

Dilaniata dal dramma di una prolungata dipendenza economica dal padre, si presta alla recita che egli le impone. Lo raggiunge a un festival tematico dove si presenta stretta in un abito vittoriano ed è probabilmente la scena che mi turba di più in tutta la serie: non le violenze, gli omicidi, l’inquietante intuito di Joe, i pedinamenti e i flashback, no. Beck deliziosamente fasciata in un abito che non ha scelto e paga il suo prezzo, al padre, alla famiglia, al mondo intero.

Il pizzo estorto a chi ha sogni ingombranti?

Nello sguardo malinconico di Beck rivedo ciascuna di noi, nell’orribile parata della crescita, in un contesto socioculturale dalle pareti basse, un’Alice talvolta troppo grande, talvolta minuscola, mai adeguata alle richieste del mondo.

Rivedo me stessa a 8 anni. Triste e annoiata nell’abito da ninja quanto in quello da principessa, in una festa di carnevale dove ogni muscolo di plastica e ogni corona di fiori mi pareva più convincente di me.

Tutti i personaggi della serie appiccicano una maschera sul volto della nostra bellissima Beck. Il professore la vuole languida e disponibile, il fidanzato cerca invece un secchio dove svuotare le sue frustrazioni, i suoi dubbi, vuole parlare, non ascoltare. Vuole uno specchio d’acqua che ne rifletta l’ego. Vuole vedere se stesso, bonificato nei suoi occhi verdi.

Peach vuole che Beck sia la principessa del suo castello, inseparabile amica saffica, dolce bambola da possedere se non cannibalizzare.

Come in una giostra i personaggi si avvicendano e si affannano nell’imporre il loro copione. Nessuno chiede a Beck cosa voglia. E Beck impara presto a non domandarselo più e a lasciarsi scegliere, seduttiva per forza, nella giostra frenetica dei legami, accettando briciole di attenzione e credendole pane.

You: la violenza di genere

Joe è solo un burattinaio più scaltro. Ma di lui hanno scritto in tanti.

Mi limito a riconoscere nel suo attaccamento a Beck la disperata ricerca di un contenitore per il disprezzo che ha dentro. Joe deposita il suo male dentro Beck per poterlo governare, affinché non lo consumi (Fonagy, 2001).

In un magistrale tocco di regia, il protagonista chiude la donna proprio nel magazzino dove da piccolo veniva segregato per ore e giorni e settimane, ostaggio impotente del padre adottivo, a espiare l’”errore” dell’ignoranza, in una routine drammatica che Giovanni Liotti definirebbe trauma cumulativo complesso.

Come sei finita qui? Ti sei sempre avvolta nelle favole come in una coperta, ma era il freddo che amavi, i brividi quando scoprivi i cadaveri delle mogli di Barbablù, la dolce pelle d’oca quando il principe azzurro infilava i tuoi piedini nella scarpetta di cristallo, che calzava perfettamente. Nel cortile della scuola le vere principesse ti fluttuavano accanto nel vento autunnale, hai visto il divario tra te e le ragazze ricche e hai giurato di smettere di credere nelle favole, ma le storie erano dentro di te, profonde come un veleno. Se il principe azzurro era reale, se poteva salvarti, tu dovevi essere salvata da tutta quella ingiustizia. Quando sarebbe arrivato? La risposta era una crudele alzata di spalle in centinaia di momenti fugaci. il ghigno sulla faccia di Steve Smith quando ti chiamava Vacca grassa. La mano dello Zio Jeff che ti strizzava il c*** in cucina alla festa del Ringraziamento, lo sguardo di accusa di tuo padre quando gli raccontavi cos’era successo. Da ogni ragazzino mascherato da uomo che hai fatto entrare nel tuo corpo e nel tuo cuore hai imparato che non possedevi la magia che trasforma una bestia in un Principe. Ti sei circondata delle ragazze che avevi sempre detestato, sperando di condividere il loro potere. E odiavi te stessa, cosa che ti ha sminuito ancora di più. E poi? Proprio quando pensavi di poter semplicemente sparire, Lui ti ha visto. E da qualche parte dentro di te lo sapevi che era troppo bello per essere vero ma ti sei lasciata trascinare perché lui era il primo forte forte abbastanza da sollevarti. Ora, nel suo castello, hai capito che il principe azzurro e Barbablu sono lo stesso uomo e non ci sarà un lieto fine, a meno che tu non li ami entrambi. Non volevi questo, non volevi essere amata e che lui ti incoronasse. Non te la sei cercata, non te la sei cercata, non te la sei cercata? quindi ora di’ che vuoi vivere così, di’ che lo ami, di’ grazie, di’ qualunque cosa eccetto che la verità! E se non puoi ricambiare il suo amore?

Nella sua prigione Beck comprende. E scrive.

Come sei finita qui?

Beck lo realizza nella sua cella, con la drammatica lucidità di chi sa che non c’è via di uscita. E parla a noi, madri e padri di figlie a cui abbiamo il dovere di mostrare altri paesaggi.  E assumendosi la responsabilità di un amore che non avrà il tempo di conoscere, richiama tutti all’esercizio della medesima arte.

Insegniamoci l’amore per noi stesse in un mondo che ci vuole bambole tristi per l’altrui commedia. Facciamone assaggiare piccoli sorsi. Gustiamone il sapore per essere abili nel riconoscerlo. Per non confonderlo con il veleno.

Perché la violenza di genere, quella vera, inizia prima, molto prima che quello sguardo ammiccante ci giunga lieve, tra gli scaffali di una libreria.

Beck elenca i suoi carnefici in un macabro testamento.

Parla anche di noi?

Stress, supporto sociale e utilizzo dei social network

Secondo un recente studio, elevati livelli di stress quotidiano sono associati ad un maggior utilizzo di Facebook. In particolare, questa associazione sembrerebbe rafforzarsi per i soggetti aventi un basso livello di supporto sociale nella vita reale, che li porterebbe a ricercare virtualmente tale supporto.

 

Quando si è stressati ricevere conforto da parte di amici virtuali, presenti sui social network, può essere una vera e propria fonte di conforto. Tuttavia, se al supporto virtuale” viene a mancare un “supporto reale”, dato da relazioni face to face, il soggetto potrebbe addirittura sviluppare una dipendenza da social network. Questo è il risultato di uno studio condotto da un team di ricercatori tedeschi presso l’università della Ruhr.

Lo studio

Il campione dello studio era composto da 309 soggetti di età compresa tra i 18 e i 56 anni che, al momento dello studio, possedevano un account Facebook. Attraverso questo social network i soggetti hanno compilato un sondaggio online che ha permesso ai ricercatori di valutare il loro livello di stress e la percezione che essi avevano del supporto sociale sia virtuale (tramite i social network) sia reale (attraverso le relazioni face to face). Inoltre, è stata indagata l’intensità dell’utilizzo di Facebook (frequenza di utilizzo, durata dell’uso in minuti e interazione dell’uso di Facebook sulla vita reale) ed il livello di FAD (Facebook Addiction Disorder) attraverso l’utilizzo dello strumento BFAD (Bergen FAcebook Addiction Disorder; Andreassen et al., 2012) un questionario self report che indaga i criteri principali della dipendenza da Facebook (salienza, tolleranza, modifica dell’umore, recidiva, ritiro e conflitto).

I due risultati più significativi che emergono da questo studio sono:

  • Elevati livelli di stress quotidiano sono associati ad un maggior utilizzo di Facebook. In particolare, questa associazione sembrerebbe rafforzarsi per i soggetti aventi un basso livello di supporto sociale nella vita reale che li porterebbe a ricercare virtualmente tale supporto. Al contrario, l’associazione, tra stress e utilizzo di Facebook, sembrerebbe diminuire per quei soggetti che nella vita reale percepiscono maggior supporto.
  • Un intenso utilizzo di Facebook può predisporre maggiormente a sviluppare una dipendenza da esso, specialmente nel caso in cui il social si fa portatore di supporto sociale.

In conclusione

Stando ai criteri di dipendenza individuati da Andreassen e colleghi (2012), questi risultati potrebbero fornire delle linee guida per un’azione preventiva, oltre che terapeutica, nei casi di soggetti aventi problematiche di dipendenza da social network. Tuttavia, è bene ricordare che sebbene i criteri individuati da Andreassen e colleghi (2012) erano già stati usati in passato per descrivere altre tipologie di dipendenze comportamentali (Griffiths, 2005), il FAD non rientra nell’attuale DSM 5, quindi è opportuno leggere questi risultati con estrema cautela. Inoltre, considerando il minor utilizzo di Facebook da parte dei giovani negli ultimi anni, sarebbe interessante riproporre il medesimo studio sul social network Instagram che, ad oggi, sembrerebbe essere maggiormente popolare fra i giovani.

I malati di mente e la morte pubblica – Una riflessione a partire dal caso di Noa Pothoven

Di fronte al caso della morte di Noa Pothoven e all’effetto mediatico che ha avuto, come professionisti della salute mentale non possiamo tacere! Anzi, è importante che difendiamo un modello di intervento attivo a tutela della salute mentale.

 

La morte di Noa Pothoven, una ragazzina di 17 anni, suscita un’emozione intensa. È facile reagire in modo istintivo, identificare in modo un po’ paranoico avversari politici e sociali. Occorre invece contenere o comunque sospendere l’esperienza soggettiva di un confronto con le forze del male, l’impulso a dichiarare guerra alle forze politiche e sociali che propugnano e diffondono la morte come risposta ai drammi della vita umana. Per questo ci sono e ci saranno altri luoghi (politici e culturali) ed altri tempi (la lunga durata della storia, non certo l’istante della cronaca)

Voglio invece qui attenermi ad una riflessione per quanto possibile razionale e civile ispirata ai principi delle scienze umane (sociologia, antropologia culturale) e della branca della psicologia nel cui alveo mi sono formato, cioè la psicoanalisi.

Morte pubblica: una lettura psicoanalitica del caso di Noa Pothoven

La morte pubblica ha avuto sempre un ruolo centrale nell’organizzazione delle culture umane. Nel mondo Greco storico i sacrifici umani sono un ricordo. Come osserva René Girard (La violenza e il sacro) una vittima umana è al centro dei miti eziologici della maggior parte dei sacrifici animali a noi noti nel sistema rituale Greco. Dai romanzi arturiani sappiamo che il sangue di Merlino era destinato a risanare le sempre precarie fondamento della fortezza di re Vortigern. Il vate britannico seppe sottrarsi a questa prova. È invece l’Altissimo in persona a porre fine per sempre ai riti omicidi agli albori della storia ebraica.

Sacrificano ancora massivamente i celti di epoca storica. Cesare racconta come i galli riempissero di prigionieri enormi simulacri di figure divine per poi ardere spietatamente uomini e fantocci. Dai primi conquistadores della americhe (cfr. Bernal del Castillo, La verdadeae historia de la conquista de la Nueva España). Sappiamo che le piazze delle principali città dell’attuale Messico ospitavano immensi cumuli di teschi. Le macabre procedure sacrificali adottate dai popoli amerindi sono ben note al pubblico per note trasposizioni cinematografiche.

Gli europei inorridivano e tuttora inorridiscono di fronte a questi riti selvaggi. Ma le uccisioni pubbliche sono continuate fino ad una storia recente. Del resto i romani amavano le sanguinose lotte tra gladiatori. Un patibolo ornava ovunque le piazze di ogni città medievale. La laicissima Parigi rivoluzionaria appagava un pubblico curioso ed entusiasta con offerte di teste nobili e fiumi di sangue blu. Morte pubblica e ancor più sacralizzata attendeva eretici, musulmani ed ebrei al termine dell’auto da fe della Spagna controriformista.

In tutte le culture l’omicidio pubblico ha svolto un ruolo molto rilevante. Burkert (Homo Necans: Interpretationen Altgriechischer Opferriten und Mythen) parla di homo necans, di un bisogno umano di uccidere a cui la società trova una risposta ritualizzata. Il problema delle origini dell’aggressività umana è stato a lungo dibattuto in ambito psicoanalitico. L’antropologia freudiana è dominata inizialmente dal principio del piacere. La scoperta dell’intensità dei desideri aggressivi in concomitanza con il dramma della prima guerra mondiale lo porta ad ipotizzare un istinto specifico che giustifichi i comportamenti aggressivi (Al di là del principio di piacere). Questo modello avrà molta influenza sul modello kleiniano della mente inconscia.

Psicoanalisti più attenti alle problematiche sociali proporranno invece nel dopoguerra modelli in cui l’aggressività umana è interpretata come una reazione in qualche modo inevitabile alle tensioni e a conflitti sociali (Fromm, Anatomia della distruttività umana). Più modernamente possiamo oggi concettualizzare il sadismo come un modo per negare e proiettare nella vittima i sentimenti di impotenza e disagio che sono ampiamente diffusi nella società e negli individui. In sintesi, l’uomo medio è carico di frustrazione e rabbia e gode di situazioni sociali in cui altri sperimentano emozioni negative in cui può gradevolmente identificarsi.

Questi meccanismi sono naturalmente attivi oggi come ieri, in tutti i climi ed in tutte le latitudini. Perché allora la morte pubblica declina progressivamente? In effetti nel corso dell’800 compare una sorta di pudore. Nei paesi più illuminati si cercano nuove forme di supplizio. Le procedure assumono forme meno clamorose, compare un’esplicita preoccupazione per il dolore delle vittime. Le esecuzioni vengono via via sottratte alla curiosità diretta delle masse. Si svolgono in luoghi appartati. Nel ‘900 la pena di morte va rarefacendosi. Nel dopoguerra scompare del tutto in Europa occidentale.

Senza dubbio a questo processo ha contribuito in modo rilevante l’orrore per l’autorità. Il secolo scorso è stato segnato da un autentico orrore per qualsiasi manifestazione di un paternalismo fallico. La rappresentazione moderna dello stato castrato ed impotente è incompatibile con l’esecuzione di pene severe e inflessibili.

Eppure l’uomo ha ancora sete di morte. Nel passato recente vari governi tirannici hanno spento milioni di vite umane al di fuori di qualsiasi scontro civile o bellico. I nomi di Stalin, Hitler, Pol Pot fanno gelare il sangue a chiunque possieda un po di umanità.
Proprio nell’ambito del nazismo i progetti di sterminio si sono estesi a disabili e malati di mente. A quell’epoca l’eliminazione fisica di queste sottopopolazioni veniva propagandata ed attuata con prevalente finalità sociale. Occorreva liberare la società dai membri inadatti o pericolosi. Da qualche decennio l’uccisione dei soggetti con problemi psichiatrici viene proprio con finalità differenti. Si invoca l’analogia con i pazienti oncologici terminali. Ci si ammanta di desiderio filantropici. Ci si preoccupa di liberare i pazienti da inutili sofferenze.

Credo che in questo momento siamo tutti chiamati a difendere i diritti dei nostri malati. Non tutti i pazienti con impulsi suicidari possono essere salvati. il caso della povera Noa Pothoven era senza dubbio molto impegnativo. È davvero difficilissimo comunicare con certe gravi anoressiche. Ma qualsiasi psichiatra con una certa esperienza sa che un intervento in ambiente per acuti è quasi sempre in grado di sottrarre un paziente ad un immediato rischio suicidario. E che un prolungato inserimento in un ambiente comunitario, anche se in qualche forma coatto, riesce quasi sempre a spezzare o almeno ad allentare gli invischiamenti simbiotici che caratterizzano queste gravi forme di disturbi alimentari.

Come professionisti non possiamo tacere. Dobbiamo difendere un modello di intervento attivo a tutela della salute mentale.

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Parte I: le basi neurali della cognizione sociale nel Disturbo Bipolare

Studi di neuroimaging su pazienti con disturbo bipolare e campioni di controllo durante l’elaborazione delle emozioni facciali evidenziano, nel campione clinico, un’attivazione complessiva anomala in numerose aree cerebrali implicate nel riconoscimento delle emozioni, abilità alla base della cognizione sociale e implicata in molte delle difficoltà dei pazienti bipolari nell’interazione sociale.

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Le basi neurali della cognizione sociale nel Disturbo Bipolare (Nr. 1)

 

Il Disturbo Bipolare è caratterizzato da una fasica oscillazione del tono dell’umore che si può fissare nella fase depressiva o in quella ipo/maniacale, ma anche da instabilità timica, maggiore intensità e labilità affettiva, alterazioni della psicomotricità e del sistema neurovegetativo, nonché da difficoltà nel funzionamento a livello sociale ed interpersonale.

È un disturbo molto più diffuso (prevalenza lifetime di circa il 3%) di quello che sembra e spesso ha una difficile e tardiva identificazione diagnostica e di trattamento. Solo recentemente l’attenzione della ricerca si sta concentrando su più domini eziopatogenetici, ed in particolare sul ruolo giocato dalla comprensione emotiva che sembra di rilevante importanza.

Cognizione Sociale e Psicopatologia

Vi è ormai ampia letteratura che evidenzia come le difficoltà a livello interpersonale possano essere ricondotte ad una compromissione nel dominio della cognizione sociale, un complesso costrutto multidimensionale (Couture et al, 2006). La capacità di riconoscere le emozioni attraverso il volto dell’altro è infatti di fondamentale importanza nella dimensione interpersonale e difficoltà in questo senso sono state riscontrate in letteratura per quanto riguarda diverse psicopatologie: Disturbo Bipolare, Depressione, Disturbi d’ansia, Schizofrenia, Autismo, Disturbo borderline di personalità (Fusar-Poli et al., 2009).

Il substrato neurale sottostante tale capacità comprende l’interazione fra aree visive, limbiche, temporali, temporo-parietali, prefrontali, subcorticali e cervelletto, e la capacità di trasformare la percezione emotiva in comportamenti e stati affettivi riguarda il saper valutare ed identificare l’emozione, produrre uno stato affettivo in risposta a questo stimolo, regolare lo stesso ed il comportamento correlato. Alcuni recenti modelli ipotizzano la regolazione emotiva come frutto di una complessa interazione tra processi bottom-up, soprattutto limbico-subcorticali, di valutazione dello stimolo emotivo, e processi top-down, di controllo cognitivo a carico delle regioni corticali prefrontali dorsali e mediali (vds. Turchi et al. 2016).

Disturbo Bipolare e Cognizione Sociale

La ricerca di neuroimmagine che riguarda il confronto fra pazienti bipolari e campioni di controllo durante l’elaborazione delle emozioni facciali evidenzia, nel campione clinico, una complessiva e differenziata anomala attivazione nelle regioni sottocorticali, soprattutto limbiche e nel giro frontale inferiore, insieme ad una ridotta attivazione nella regione ventrale della corteccia prefrontale, deputata al controllo cognitivo, nel giro frontale e bilaterale, nell’insula destra, nel giro fusiforme destro e nel giro occipitale bilaterale, cuneo e precuneo, evidenziando la presenza di un deficit di controllo corticale sulle strutture limbiche, le quali appaiono invece iperattivate durante le interazioni sociali, e che sembrano essere il substrato neurobiologico sotteso alla compromissione nel riconoscimento delle emozioni.

L’aspetto più recente e interessante è che tale alterazione è presente non solo durante le fasi di malattia, dato che in qualche misura poteva essere atteso anche se non scontato, ma anche durante le fasi di eutimia (Turchi et al., 2016; Cusi et al.2012), in cui diremmo che il paziente è “guarito”, spostando l’interesse anche sul funzionamento e sui sintomi residui in questo tipo di disturbi.

Per quanto riguarda la fase depressiva gli studi mostrano un’iperattivazione delle strutture limbiche a stimoli emotivi espressi dai volti ed una minor attivazione delle principali aree sottese alle funzioni cognitive superiori di controllo emotivo, in senso mood congruent rispetto al tono dell’umore, la quale costituisce il substrato neurale della maggior risonanza emotiva osservata nelle fasi di malattia. Risultati sostanzialmente confermati anche da studi che hanno usato paradigmi comportamentali i quali evidenziano compromissioni, sempre nel campione clinico, nel riconoscere emozioni congrue con il tono dell’umore, le quali si riflettono in una tendenza ad interpretare volti emotivamente neutri come tristi e volti che esprimono felicità come arrabbiati, nonché in una maggior difficoltà nel riconoscere la gioia, la quale aumenta con l’aumentare della gravità dei sintomi depressivi.

Congruentemente agli studi sulla fase depressiva, anche quelli sulla fase maniacale mostrano anomalie funzionali nell’attivazione delle regioni neurali coinvolte nel riconoscimento delle emozioni e nella patofisiologia dei disturbi dell’umore durante task di elaborazione delle emozioni a valenza negativa, come tristezza e paura, con iperattivazione dell’attività subcorticale e limbica nelle regioni coinvolte nell’elaborazione emotiva ed ipoattivazione delle regioni corticali prefrontali che si occupano del loro controllo. In linea, da un punto di vista comportamentale, i pazienti bipolari in fase maniacale mostrano difficoltà nel riconoscimento delle espressioni facciali di disgusto, paura e tristezza, in quest’ultimo caso correlata alla gravità dei sintomi maniacali.

Tale meccanismo “mood congruity effect” è da tempo considerato un meccanismo di amplificazione e di mantenimento degli episodi di malattia nel Disturbo Bipolare: un paziente in fase depressiva tenderà ad identificare meglio ed entrerà maggiormente in risonanza emotiva con l’emozione di tristezza, la quale andrà verso l’intensificazione e non sarà adeguatamente modulata dai controlli cognitivi top-down, a causa dei deficit di attivazione corticale e di connettività cortico-limbica sopra esposti. A tal proposito Phillips et al. (2014) postulano come la disregolazione dell’amigdala in risposta alle emozioni espresse dai volti, in particolare felici, possa essere l’espressione di una distorsione attentiva nell’elaborare stimoli a valenza positiva che potrebbe influire nel viraggio ipo/maniacale.

Dal momento che complessivamente la letteratura sottolinea una deficitaria capacità di inibizione delle strutture corticali su quelle limbiche, iperresponsive, deputate all’elaborazione delle emozioni facciali, questa potrebbe giocare un ruolo nell’instabilità emotiva caratteristica del disturbo, costituire un potenziale biomarcatore di tratto della patologia anche in considerazione che tali caratteristiche sono presenti anche in fase eutimica e non risultano presenti nei pazienti con Depressione Maggiore. Un’ulteriore e importante prova è che le stesse alterazioni si ritrovano nei campioni costituiti da parenti sani di primo grado di pazienti bipolari (per una revisione della letteratura vds. Turchi et al., 2016 e Cusi et al., 2012) e sembrano sottendere al deficit nelle funzioni metacognitive (Semerari et al, 2003; Carcione et al, 2010) osservato.

In conclusione

In considerazione della concordanza della letteratura e del fatto che da un punto di vista dell’intervento psicoterapeutico tale aspetto non è stato ancora adeguatamente attenzionato, a differenza di altri disturbi comunque cronici, risulterebbe estremamente utile sviluppare un dibattito ed estendere i lavori di ricerca scientifica anche a questo aspetto, soprattutto in considerazione del fatto che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ed il trattamento psicofarmacologico esercitano effetti diversi sui circuiti neurali coinvolti nel riconoscimento delle emozioni, così come approfondire il ruolo di altre variabili della cognizione sociale.

Nello specifico, potrebbe risultare utile e stimolante per il nostro lavoro inserire nel trattamento psicologico del Disturbo Bipolare elementi e tecniche che considerino questi aspetti e studiarne l’impatto sulle fasi di malattia, sulla riduzione della sintomatologia residua e, in futuro, sulla prevenzione delle ricadute, senza tralasciare il miglioramento della qualità di vita grazie al lavoro sulle abilità sottostanti ad un adeguato funzionamento sociale.

 

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore:

Gli adolescenti si fanno male – La serie podcast che unisce narrazione e informazione scientifica

Gli adolescenti si fanno male è una delle prime serie podcast italiane a unire narrazione e informazione scientifica. La serie è condotta da Furio Ravera

 

Psichiatra e psicoterapeuta, Ravera è direttore sanitario della comunità terapeutica CREST di Milano e co-direttore presso la casa di cura Le Betulle nel reparto adibito all’osservazione e diagnosi delle patologie psichiatriche gravi e delle tossicomanie.

Gli adolescenti si fanno male: l’esperienza di Ravera

La ricerca di Ravera, concentrata soprattutto a cogliere la relazione tra disagi adolescenziali e dipendenze di natura diversa (droga, alcol, legami disfunzionali) lo ha ispirato nella scrittura de Gli Adolescenti si fanno male, un saggio presto disponibile in formato e-Book su Amazon Kindle.

Furio Ravera così riassume il suo lavoro:

È il racconto di tante vite. Dolori, gioie, abbandoni, ricongiungimenti, nascite, morti, successi, insuccessi formano, nel loro combinarsi, mosaici diversi che danno a queste vite il senso di una esperienza unica ed irripetibile. I racconti dei giovani sono brevi, perché è poco il tempo che hanno vissuto ma, ciononostante, sono molto coinvolgenti per le vicissitudini legate alla loro crescita e per le intense emozioni che le accompagnano.

Le storie racchiuse nel saggio, rintracciabili nell’esperienza professionale di Ravera, forniscono la “materia prima” per gli episodi del podcast: ogni puntata contrappone infatti la voce di un giovane paziente di Ravera, interpretato da un attore, ai commenti del dottore, che a distanza dalla conclusione del caso ripercorre le tappe salienti della storia.

Gli adolescenti si fanno male: storie diventate podcast

I pazienti, che vivono momenti di intensità e dolore all’interno dello studio del terapeuta, diventano personaggi grazie alle interpretazioni di attori e attrici che hanno studiato e studiano nelle migliori accademie di teatro italiane.

Gli Adolescenti si fanno male esce a cadenza settimanale ogni giovedì su GliAscoltabili.it . La serie è disponibile a questo link.

 

Gli Ascoltabili

Gli Ascoltabili è una piattaforma gratuita di podcast originali realizzata da un team guidato da Giacomo Zito, autore e produttore radiofonico, e da Simone Spoladori, esperto di cinema e new media. Zito è stato ideatore e conduttore di Destini Incrociati – uno dei programmi radio di narrazione più seguiti degli ultimi anni e vincitore del Premio Internazionale Ennio Flaiano come miglior programma culturale – e Spoladori uno degli autori di punta.

Gli adolescenti si fanno male - Podcast di storie raccolte da un terapeuta

I podcast oggi

Con oltre sessantasette milioni di utenti negli Stati Uniti oggi il podcast sta diventando il futuro della radiofonia e anche in Italia gli ascoltatori sono in continua crescita, il nostro paese è oggi il quinto nel mondo per ascolto di podcast con il 14% di fruitori (Fonte: Prima Comunicazione, novembre 2018) passando da 850.000 nel 2015 a 2.700.000 a fine 2018 con un aumento del 217%. Su queste basi per la fine del 2019 si stimano circa 5.000.000 di ascoltatori (Fonte: Dailyonline-Nielsen).

È utile qualsiasi tipo di supporto sociale?

Una nuova ricerca sulle neuroscienze dimostra l’effetto neurofisiologico di diverse tipologie di supporto sociale all’esperienza di esclusione sociale

Rosalba Morese

 

Il supporto sociale può cambiare il modo in cui percepiamo una situazione spiacevole, ma alcuni tipi di supporto sembrano più efficaci di altri.

Un team internazionale guidato da Giorgia Silani che ha coinvolto colleghi dell’Università di Vienna, l’Università della Svizzera italiana di Lugano e l’Università di Torino, ha dimostrato che i sentimenti negativi e le risposte cerebrali sono modulati dal tipo di sostegno sociale che riceviamo dopo essere stati socialmente esclusi. I risultati dello studio sono stati recentemente pubblicati sulla rivista scientifica Social Cognitive and Affective Neuroscience (SCAN).

Esclusione sociale: lo studio per capire cosa può farci stare meglio

L’ esclusione sociale minaccia il bisogno umano di appartenenza sociale, con conseguenze negative su cognizione, emozioni e comportamento. Le risposte a questo tipo di dolore sociale, come il sentirsi arrabbiati o evitare un gruppo dopo essere stati respinti, possono portare a una gestione meno efficace e ad un isolamento sociale a lungo termine. Comprendere i meccanismi che possono alleviare queste conseguenze negative è diventato un importante obiettivo di ricerca degli ultimi anni. A tale riguardo, il supporto sociale è stato identificato come un possibile meccanismo di coping che può migliorare le risposte individuali e il benessere generale. Rosalba Morese, primo autore della ricerca, ora all’Università Svizzera italiana di Lugano, sottolinea

il nostro studio è il primo ad indagare gli effetti dei diversi tipi di supporto sociale – come diverse tipologie possano modulare i correlati neurali dell’esperienza di esclusione sociale.

Lo studio recentemente pubblicato su SCAN mostra che, a seconda del tipo di sostegno sociale ricevuto, i partecipanti hanno sperimentato sia il sollievo, sia un peggioramento delle loro emozioni negative associate all’essere stati esclusi. Ciò è inoltre associato a specifiche risposte neurali.

Esclusione sociale: contatto fisico ed emotivo aiutano di più delle spiegazioni

Il team internazionale per condurre questo studio ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per capire in che modo il supporto sociale può alleviare le conseguenze negative dell’ esclusione sociale. 71 partecipanti di sesso femminile sono state sottoposte a due sessioni fMRI durante un gioco virtuale di lancio della palla (Cyberball) durante il quale sono state escluse da altri due giocatori virtuali. Tra le due sessioni di esclusione, le partecipanti sono state suddivise in due gruppi sperimentali che hanno ricevuto supporto sociale o sotto forma di un tocco gentile della mano (supporto emotivo), o sotto forma di messaggi di testo con contenuto informativo, utili per comprendere la situazione (supporto di valutazione). Entrambi i tipi di supporto sono stati forniti da un’amica.

Gli scienziati hanno scoperto che l’esperienza dell’ esclusione sociale è modulata dal tipo di supporto ricevuto. In particolare, il fatto di essere toccati delicatamente ha diminuito le emozioni negative, mentre essere informati sulla situazione ha aumentato la percezione di emozioni negative con la concomitante riduzione o aumento dell’attivazione di aree del cervello dedicate. Questi effetti divergenti del supporto sociale indicano che

è molto importante capire in quali condizioni (il contesto, la persona, la modalità, ecc.) il sostegno sociale può rappresentare una risorsa efficace e positiva per alleviare le conseguenze negative dell’ esclusione socialespiega Giorgia Silani, dell’Università di Vienna, leader del gruppo di ricerca – il nostro lavoro evidenzia che essere toccati fisicamente ed emotivamente da un altro vicino può essere un modo molto potente e diretto per aiutarci ad affrontare le nostre emozioni negative – molto più che fornire una spiegazione razionale della situazione in cui ci troviamo.

Inquinamento atmosferico: gli effetti sulla presenza di sintomi ansiosi nei preadolescenti

Negli ultimi anni è emerso come anche il sistema nervoso centrale risulti particolarmente sensibile ad elevati livelli di inquinamento atmosferico, il quale potrebbe avere un ruolo nell’eziologia di alcuni disturbi mentali, tra cui sintomi di ansia generalizzata.

 

L’ inquinamento atmosferico è stato riconosciuto da tempo come un problema sanitario globale in quanto ogni anno è causa di circa 3.3 milioni di decessi prematuri (Lelieveld et al., 2015). L’esposizione ad elevati livelli di inquinamento atmosferico ha infatti un impatto negativo su pazienti affetti da disturbi respiratori, come l’asma, e da problematiche cardiovascolari, in particolare a elevato rischio di ictus.

Negli ultimi anni è emerso come anche il sistema nervoso centrale risulti particolarmente sensibile a tale agente patogeno, il quale potrebbe avere un ruolo nell’eziologia di alcuni disturbi mentali. In particolare, un recente studio condotto dall’Università di Cincinnati e dal Children’s Hospital Medical Center di Cincinnati è andato ad approfondire nello specifico la relazione esistente tra inquinamento atmosferico dovuto al traffico (Traffic Related Air Pollution, TRAP) e ansia infantile tramite la valutazione di alterazioni metaboliche a livello cerebrale.

Lo studio

I ricercatori hanno sottoposto 145 ragazzi di età media di dodici anni a risonanza magnetica spettroscopica, una specifica tecnologia MRI, con l’obiettivo di valutare la presenza di variazioni nella concentrazione di mio-inositolo a livello della corteccia cingolata anteriore. Il mio-inositolo è un metabolita naturalmente presente in specifiche cellule cerebrali, definite cellule gliali. Un aumento dei livelli di mio-inositolo correla solitamente con un aumento nella popolazione delle cellule gliali, condizione che spesso si verifica durante gli stati di infiammazione cerebrale.

Brunst e colleghi hanno rilevato che i preadolescenti esposti a maggiori livelli di TRAP durante i 12 mesi precedenti alla visita presentavano livelli superiori di mio-inositolo a livello cerebrale rispetto a coloro che erano stati esposti nello stesso periodo a livelli inferiori di TRAP. Inoltre è stato messo in luce che a una maggiore concentrazione di mio-inositolo a livello cerebrale corrispondevano maggiori sintomi riportati di ansia generalizzata: infatti il gruppo che risultava essere stato esposto a maggiori livelli di TRAP presentava una aumento del 12% di sintomi di ansia generalizzata rispetto agli altri partecipanti.

In conclusione

L’aumento osservato dei sintomi ansiosi è stato di piccola entità, e risulta quindi improbabile che possa portare alla presenza di un effettivo quadro psicopatologico. Ciò nonostante lo studio condotto ha evidenziato che l’esposizione a elevati livelli di inquinamento atmosferico può avere un impatto significativo sulla salute della popolazione, in quanto in grado di causare stati di infiammazione a livello cerebrale, come evidenziato dall’aumento della concentrazione di mio-inositolo nella corteccia cingolata anteriore dei partecipanti.

Efficacia dell’Ipnosi di Gruppo per la Sindrome da Intestino Irritabile

L’uso dell’ ipnosi nel trattamento della Sindrome da Intestino Irritabile consente a chi soffre di questa condizione di ottenere non solo un maggior sollievo sul piano dei sintomi fisici, ma di vedere aumentare anche i propri spazi di libertà. In molti riferiscono miglioramenti sul piano dell’umore e, più in generale, del loro livello di benessere globale.

 

La Sindrome da Intestino Irritabile (IBS) è un disturbo funzionale gastrointestinale caratterizzato da ripetuti episodi di dolore o fastidi addominali, di alterazione della normale funzionalità intestinale in assenza di cause strutturali o biochimiche. Tale condizione può avere conseguenze rilevanti per la vita di chi ne soffre. Numerosi studi hanno infatti evidenziato come, oltre a produrre conseguenze invalidanti per la vita emotiva, sociale e professionale, la IBS implichi un costo notevole per i sistemi sanitari.

Se a questo aggiungiamo che i rimedi farmacologici raramente producono effetti soddisfacenti diventa chiaro il bisogno di trovare strategie di intervento che possano contribuire a migliorare la qualità di vita dei pazienti che ricevono tale diagnosi.

L’efficacia dell’ ipnosi nel trattamento della Sindrome da Intestino Irritabile: uno studio sperimentale

Nella mia esperienza di clinica sono stata testimone diretta dei benefici che l’ ipnosi può portare a chi soffre a causa della Sindrome da Intestino Irritabile. I pazienti riportano maggior sollievo sul piano dei sintomi e tali risultati tendono a mantenersi stabili a lungo termine. Insieme all’attenuarsi della sintomatologia fisica, le persone vedono aumentare i propri spazi di libertà, riportano miglioramenti sul piano dell’umore e, più in generale, del loro livello di benessere globale.

Uno studio recente (Flik et al., 2019), dopo aver passato in rassegna i dati prodotti dalla letteratura scientifica precedente, ha indagato gli effetti dell’ ipnoterapia (terapia condotta attraverso l’utilizzo dell’ ipnosi) in un protocollo di ricerca molto rigoroso.
Lo studio, apparso quest’anno su The Lancet, Gastroenterology & Hepatology, ha coinvolto più di 400 pazienti provenienti da 11 ospedali dislocati sul territorio Olandese. Nonostante l’interesse verso questo tipo di approccio fosse già presente a partire dagli anni ‘80 e nel corso del tempo si siano accumulate varie prove di efficacia, l’applicazione dell’ ipnosi nel trattamento dell’IBS non si è diffuso probabilmente a causa di alcuni limiti nei metodi di indagine insieme all’idea che il suo utilizzo complicherebbe le consolidate pratiche cliniche e porterebbe ad un aumento dei costi per le strutture sanitarie.

Lo studio di Flik e colleghi, oltre ad indagare l’efficacia della metodica attraverso un solido impianto sperimentale, ha puntato a verificare se gli stessi risultati potessero essere ottenuti in contesti di gruppo. In altre parole: c’è una differenza in termini di efficacia tra l’ ipnosi utilizzata in sedute individuali rispetto a quella utilizzata in sedute di gruppo?

Gli autori hanno suddiviso il campione – popolato da pazienti con diagnosi di IBS farmaco-resistente che non soffrissero di altre patologie fisiche o psichiatriche che avrebbero potuto confondere i risultati – in tre gruppi: a) ipnoterapia individuale; b) ipnoterapia di gruppo; c) gruppo di controllo.

Nel gruppo di ipnoterapia individuale i partecipanti hanno partecipato a 6 sessioni di ipnosi della durata di 45 minuti ad intervalli bisettimanali durante le quali venivano utilizzate suggestioni pensate per ridurre dolori e fastidi aumentando il senso di benessere generale.

I partecipanti assegnati al secondo gruppo hanno preso parte a 6 sessioni della durata di 60 minuti, sempre ad intervalli bisettimanali, rivolte ad un pubblico di 6 persone per volta. I contenuti delle induzioni ipnotiche erano identici a quelli utilizzati per le sessioni individuali.

Infine, al terzo gruppo di pazienti – il gruppo di controllo – sono state offerte 6 sessioni di gruppo della durata di 60 minuti nelle quali venivano fornite loro informazioni relative alla sindrome, ai comportamenti ed agli schemi mentali disfunzionali che tendono ad instaurarsi come conseguenza della diagnosi, alla dieta ideale da seguire, ai benefici dell’esercizio fisico ed ad altre aree di interesse clinico.

Nonostante i partecipanti di tutti e tre i gruppi abbiano mostrato miglioramenti su aree come il benessere emotivo e psicologico, al termine dei 3 mesi di trattamento i pazienti assegnati alla ipnoterapia, sia individuale che di gruppo, hanno riportato maggior sollievo dai sintomi tipici della Sindrome da Intestino Irritabile rispetto al gruppo di controllo.

Confrontando l’intervento ipnotico individuale con quello di gruppo, i ricercatori hanno osservato come non vi fossero differenze significative in termini di efficacia, dato importante dal punto di vista dell’ottimizzazione delle risorse disponibili per le strutture cliniche.

Lo studio descritto rappresenta, ad oggi, il trial randomizzato più ampio in questo campo e aggiunge un tassello al complesso quadro del trattamento della Sindrome da Intestino Irritabile che, secondo stime recenti, sta venendo diagnosticata sempre più spesso e che, in alcune nazioni, arriva a colpire una persona su 10 (Card, Canavan, & West, 2014).

Senescenza, attività motorio-sportiva e benessere: gli aspetti psicofisiologici e neurobiologici

È importante far capire agli anziani le ripercussioni positive che uno stile di vita attivo ha sulla qualità della vita e sul mantenimento dell’autonomia personale attraverso un programma di educazione alla salute che parte innanzitutto dal medico di base.

 

Il numero delle persone anziane sta aumentando in maniera consistente nelle società occidentali. La senescenza è un periodo della vita, nel quale, per una serie di ragioni di ordine fisico e psicologico, la sedentarietà prende il sopravvento su di uno stile di vita più attivo. A questo riguardo bisogna sollecitare gli anziani a cambiare il loro modo di condurre la vita, adottando dei comportamenti più salutari, come il seguire un programma motorio – sportivo adatto alla loro età. Di fatto, diverse evidenze empiriche suggeriscono che l’attività motorio – sportiva ha un ruolo fondamentale nel benessere durante la senescenza, apportando vantaggi sia fisici che psicologici.

Keywords: senescenza, attività motorio – sportiva, benessere

Perchè fare educazione alla salute agli anziani?

Il numero delle persone anziane sta aumentando in maniera consistente nelle società occidentali. La senescenza è un periodo della vita, nel quale, per una serie di ragioni di ordine fisico e psicologico, la sedentarietà prende il sopravvento su di uno stile di vita più attivo. A questo riguardo bisogna sollecitare gli anziani a cambiare il loro modo di condurre la vita, adottando dei comportamenti più salutari, come il seguire un programma motorio – sportivo adatto alla loro età.

Secondo le indicazioni riportate nelle Linee Guida per la lotta alla sedentarietà e promozione dell’attività fisica (Cipriani, Baldasseroni e Franchi, 2011), per i soggetti anziani bisognerebbe predisporre un programma motorio settimanale, che preveda 30 minuti di attività fisica moderata per almeno cinque volte alla settimana o, in alternativa, tre sedute settimanali di attività fisica più intensa per circa 20 minuti. Qualsiasi programma motorio approntato deve contenere due sedute dedicate a rinforzare i principali muscoli del corpo. Inoltre, in tale contesto devono essere inseriti degli esercizi finalizzati al miglioramento delle capacità di equilibrio e della mobilità articolare, abilità che con il passare del tempo tendono a peggiorare. È importante far capire agli anziani le ripercussioni positive che uno stile di vita attivo ha sulla qualità della vita e sul mantenimento dell’autonomia personale. Queste opere di counseling e di educazione alla salute devono essere svolte, in primo luogo, dal medico di base, che ha in cura il soggetto anziano.

Laddove l’ anziano è restio a cominciare un programma motorio – sportivo ben delineato, è opportuno convincerlo ad incrementare le attività motorie non strutturate, ovvero servirsi quotidianamente delle scale per raggiungere la propria abitazione, piuttosto che utilizzare l’ascensore; usare il meno possibile l’auto per gli spostamenti in città e, quindi, implementare le passeggiate a piedi; aumentare il tempo dedicato a differenti attività, quali, ad esempio, la cura delle piante sul proprio balcone e tutte le attività di bricolage.

I benefici dell’attività fisica negli anziani

L’attività fisica ha effetti positivi sulla salute globale dell’ anziano. Infatti, essa determina un’ipertrofia delle fibre muscolari, un potenziamento della capacità ossidativa dei mitocondri muscolari e un incremento della vascolarizzazione delle fibre muscolari. Inoltre, a carico del cuore, migliora la vascolarizzazione e aumenta i processi fibrinolitici, cosa che previene l’infarto del miocardio. In aggiunta, diminuisce i processi osteoporotici nelle ossa (Cristianini, 2013; Grezzana e Grezzana, 2013).

L’attività fisica svolge un ruolo importante anche dal punto di vista psicofisiologico e neurobiologico. Le ricerche di Larson e Bruce (1987) e di Hatziandreu e al. (1988) hanno dimostrato che la regolare attività fisica migliora le abilità cognitive dei soggetti anziani. In più, essa determina un incremento del volume cerebrale in toto (Colcombe e al., 2006) e della sostanza grigia nello specifico (Erickson e al., 2014). Ancora, la ricerca di Szabo e al. (2011) ha evidenziato che nei soggetti anziani l’attività motoria implementa il volume dell’ippocampo. Lo studio effettuato da Voss e al. (2010), utilizzando la risonanza magnetica funzionale, ha messo in evidenza, in soggetti anziani che praticavano da un anno un’attività fisica regolare, un potenziamento del funzionamento dei circuiti cerebrali frontali. La ricerca di Boraxbekk e al. (2016) ha dimostrato, negli anziani che seguivano da 10 anni un’attività fisica, un rafforzamento della connessione funzionale fra i nuclei della regione cingolata posteriore. Secondo Burzynska e al. (2015) il miglioramento della funzionalità cerebrale sarebbe imputabile ad una maggiore velocità nel trasporto dell’ossigeno. Un’ultima ricerca di McGregor e al. (2018) ha assodato, attraverso la risonanza magnetica funzionale, che basta seguire un programma motorio di tre mesi per migliorare nei soggetti anziani la connessione funzionale fra i differenti nuclei della corteccia motoria primaria.

In conclusione, l’attività motorio – sportiva ha un ruolo fondamentale nel benessere durante la senescenza, apportando vantaggi sia fisici che psicologici. In virtù di ciò, gli anziani devono essere sollecitati a cambiare il loro stile di vita, emancipandosi dalla sedentarietà che, sovente, caratterizza la loro quotidianità.

Attacchi di Panico. Come uscirne: La potenza della Terapia Cognitivo Comportamentale (2017) di Enrico Rolla – Recensione del libro

Il libro Attacchi di Panico, dello psicologo e psicoterapeuta Enrico Rolla, approfondisce l’argomento a partire da esperienze di vita personale usando la prospettiva di chi in prima persona ha lottato nel contrastare le trappole che possono facilitare l’instaurarsi di un disturbo di panico. Il libro, oltre a fornire informazioni circa il disturbo da attacchi di panico, è arricchito da casi clinici e da informazioni circa i protocolli di intervento.

 

“Perché mi succede?”
“È possibile uscire da questa situazione?”
“Riuscirò a liberarmi?”
“In quanto tempo riuscirò a superare i miei problemi?”

Il tentativo di dare risposte a domande come quelle sopra citate è un aspetto frequentemente riscontrabile in persone che a seguito di un episodio di attacchi di panico, ha cominciato a soffrire d’ansia. All’interno di Attacchi di Panico, il professor Enrico Rolla offre una ricca e dettagliata spiegazione sia delle caratteristiche del disturbo, che della potenza della terapia cognitivo comportamentale che, attraverso le sue strategie e tecniche, è in grado di aiutare la persona a risolvere il problema.

Attacchi di Panico, Agorafobia: perché?

Disturbo da attacchi di panico e/o Agorafobia, sono l’esempio caratteristico di come il disagio psichico possa generarsi, mantenersi, esprimersi e coinvolgere aspetti fisiologici, cognitivi, emotivi e comportamentali. Cercare di capire, controllare, evitare che l’accaduto possa verificarsi di nuovo, in termini di sensazioni fisiche, e cercare rassicurazioni sono le prime strategie disfunzionali che le persone mettono in atto nel tentativo di risolvere il loro problema.

All’interno di Attacchi di Panico, il professore Enrico Rolla, psicologo e psicoterapeuta ad indirizzo cognitivo comportamentale, direttore del Centro di Psicoterapia e Scuola di Specializzazione di Terapia Cognitivo Comportamentale, l’Istituto Watson di Torino dal 1979, e autore di diverse opere di matrice cognitivo comportamentale rivolte all’ampio pubblico, approfondisce l’argomento a partire da esperienze di vita personale usando la prospettiva di chi in prima persona ha lottato nel contrastare le trappole che possono facilitare l’instaurarsi di un disturbo di panico, facendo riferimento anche all’agorafobia del padre, per non mancare poi il suo prezioso contributo come terapista cognitivo comportamentale. Il libro, oltre a fornire informazioni circa il disturbo, è arricchito da casi clinici e da informazioni circa i protocolli di intervento.

Conoscere, comprendere, accettare il problema per poterlo affrontare sono passaggi importanti ma non esclusivi per potere risolvere un Disturbo da attacchi di panico.

Il Disturbo da attacchi di panico infatti, è caratterizzato da un corteo di sintomi fisici come ad esempio l’accelerazione del battito cardiaco, respiro affannato, vertigini, formicolio agli arti, sensazioni sostenute e mantenute dal circuito della paura. Ma mentre tale emozione primaria (la paura), di fronte ad un pericolo reale giustificherebbe la tipica risposta di attacco, fuga o freezing, in assenza di una reale minaccia la mente della persona processando la risposta come inadeguata, comincia per l’appunto ad avere paura della paura, procedendo con ciò che mantiene e peggiora il quadro ossia l’ansia anticipatoria, l’evitamento di tutte le situazioni e circostanze potenzialmente pericolose e la messa in atto di comportamenti protettivi.

Enrico Rolla spiega come la terapia cognitivo comportamentale aiuta la persona ad imparare a modificare i pensieri non funzionali cioè quelli che inducono alla fuga e all’evitamento, a gestire e non temere le risposte emozionali della paura e a modificare i comportamenti messi in atto fino a quel momento. Un lavoro articolato su pensieri, emozioni e comportamenti e da dove partire sarà la specifica situazione presentata dalla persona in studio che lo determinerà.

Ma cosa causa un attacco di panico?

I fattori possono essere molteplici ma ciò che si rivela con costanza è la tendenza ad interpretare anche lievi sensazioni fisiche come potenzialmente pericolose e catastrofiche. Anche se la ragione arriva a dare delle risposte la persona, spiega Enrico Rolla, al minimo percepire di una sensazione come ad esempio battito cardiaco accelerato, fa scattare il segnale di allarme che potrebbe sfociare fino ad un attacco di panico. La persona inoltre tenderà a vivere in uno stato di ansia esasperata e nel tentativo di tranquillizzarsi opterà per evitare tutte le situazioni considerate potenzialmente pericolose.

Non pensare all’elefante rosa.

“Sta per venirmi un infarto; devo controllare i miei battiti; non devo pensare a queste cose”, ma è impossibile non pensare! L’autore, ironicamente, con l’esercizio del “non pensare l’elefante rosa” dimostra ai suoi pazienti in studio, come il divieto automaticamente porta la mente a porre l’attenzione su ciò che non vorremmo.

Obiettivi terapeutici

All’interno del libro non mancano schede di valutazione e questionari su pensieri catastrofici, evitamenti, comportamenti di fuga e pensieri scoraggianti legati ad un senso di potenza e inadeguatezza rispetto a quelle sensazioni fisiche tanto temute, che consentono di mettere a fuoco, secondo l’autore, le variabili sulle quali intervenire e monitorare il viaggio terapeutico dalla partenza all’arrivo all’obiettivo finale.

In riferimento agli obiettivi terapeutici, l’autore utilizza l’acronimo SMART:

  • Specifico (ad esempio voglio riuscire a camminare per strada da sola);
  • Misurabile
  • Che porti all’Azione, riuscendo a visualizzare anche mentalmente l’intero percorso con gli obiettivi a breve, medio, lungo termine che lo compongono;
  • Realistico;
  • Definito nel Tempo.

La definizione chiara, realistica degli obiettivi da raggiungere in tutti i loro passaggi è una parte essenziale del lavoro terapeutico e una volta stabiliti questi si passa all’azione.

La Terapia Cognitivo Comportamentale in azione

L’ultima parte del libro è ricca di riferimenti a tecniche come ad esempio il rilassamento muscolare, la respirazione diaframmatica, l’ipnosi, come utili strumenti terapeutici ai quali si può fare ricorso, ed ancora l’aspettativa del peggio, caratterizzata dal fare ripetere al paziente più volte al giorno le proprie paure (pensando volontariamente al pensiero temuto) ed ancora l’esposizione enterocettiva, caratterizza dall’induzione del sintomo come ad esempio aumentare volontariamente il battito cardiaco, tecnica estremamente efficace per superare le paure.

Un’altra tecnica ampiamente descritta accompagnata da casi clinici è la tecnica della desensibilizzazione sistematica in vivo e/o in immaginazione. In questo caso, passaggi importanti diventano riuscire a raggiungere uno stato di rilassamento profondo, costruire una gerarchia di stimoli ansiogeni rispetto alla situazione temuta e partire dalla situazione che genera meno ansia, alternando, nel caso della desensibilizzazione sistematica in immaginazione, momenti in cui si immagina lo scenario temuto a momenti dove si applica la tecnica del rilassamento, al fine di ridurre la risposta ansiogena allo stimolo, per poi passare ad un nuovo livello della scala gerarchica realizzata insieme al paziente, di difficoltà crescendo ma solo dopo aver superato il precedente.

In conclusione

Attacchi di Panico è un valido libro per gli addetti ai lavori e non, dunque che rende l’idea sul modus operandi della Terapia Cognitivo Comportamentale, che attraverso la ricchezza di tecniche e strategie fornisce alla persona validi strumenti per vincere le sue paure, affrontandole e sfidandole e non evitandole.

Poliamore: one’s company, two’s a crowd, and three’s a party (Andy Warhol)

Nel poliamore, a differenza delle relazioni adulterine, tutte le parti coinvolte hanno consapevolezza del tipo di relazione che intercorre tra di loro ed acconsentono che i bisogni del proprio partner possano venire soddisfatti da una o più persone esterne alla coppia.

 

“The Dreamers” (2003), “Vicky, Cristina, Barcellona” (2008), “You, Me, Her” (2016) e la lista potrebbe continuare: la rappresentazione nei media della cultura poliamorosa ha conosciuto negli ultimi anni una fortuna senza precedenti. Tuttavia, il fenomeno del poliamore è tutt’altro che un nuovo trend, intrattenere relazioni parallele con altri individui, talvolta risultando nella nascita di figli e di intere nuove famiglie, è stata una pratica molto comune nelle società dell’Antica Roma e dell’Antica Grecia, così come nella cultura popolare e nella narrativa di ogni epoca storica sono riportate storie di individui che hanno scelto di condividere la propria vita con più di un compagno.

Storicamente, la virata collettiva verso un modello di relazione di tipo monogamico è stata fortemente influenzata dalla necessità di stabilire linee chiare di successione alla morte di un padre di famiglia; infatti la presenza di svariate mogli ed eventuali figli avrebbero potuto costituire un pretesto per creare contenziosi potenzialmente sanguinosi per motivi di eredità e rischiando di frammentare i possedimenti del defunto. Dal principio l’obbligo di monogamia vigeva come una legge imposta solo sulla donna, la quale doveva assicurare di partorire solo figli legittimi, mentre un atteggiamento più permissivo è stato riservato alla controparte maschile, che ha goduto nei secoli di maggiori gradi di libertà.

Nel poliamore, a differenza delle relazioni adulterine, tutte le parti coinvolte hanno consapevolezza del tipo di relazione che intercorre tra di loro ed acconsentono che i bisogni del proprio partner possano venire soddisfatti da una o più persone esterne alla coppia. Diversi studi si sono proposti di indagare le peculiarità della conformazione poliamorosa, tra questi una ricerca di Balzarini, Dharma & Kohut (2019) ha messo a confronto la popolazione poliamorosa e quella monogama rispetto a due bisogni fondamentali che le relazioni intime sono (in misura variabile) chiamate a soddisfare: il bisogno di erotismo e di cure amorevoli (Sexual Configuration Theory), come postulato da Van Anders (2005), secondo la quale gli individui ricercano la soddisfazione di tali bisogni congiuntamente o disgiuntamente in una o più relazioni intime.

Poliamore: tra bisogno di cure ed erotismo

Lo studio di Balzarini et al.(2019) si è dedicato ad ampliare le nostre conoscenze circa l’assetto interno delle relazioni poliamorose, nella fattispecie riguardo alla ripartizione dell’esperienza erotica e di cura all’interno delle diadi, confrontando tale esperienza con i dati provenienti dalla popolazione monogama.

Le varie fasi di una relazione intima poggiano su delle logiche premesse evoluzionistiche circa la nostra specie: inizialmente la formazione di un legame in età adulta richiede che venga speso del tempo in prossimità fisica reciproca, generalmente caratterizzata da desiderio sessuale e voglia di vicinanza. A questa fase, della durata stimata attorno ai due anni ± 6mesi (Tennov, 1979), seguirebbe una lenta e progressiva costruzione di un legame di cura (esordio tra 1,5 e 3 anni) , che richiederà lungo tempo per consolidarsi e maturare (Winston, 2004). Mitchell (2002) e Perel (2007) hanno suggerito che i limiti imposti dalle coppie stesse sulla propria libertà sessuale come individui (monogamia), possano avere come rovescio della medaglia a fronte di minore insicurezza, quello di scadere nella monotonia, disponibilità e familiarità, che rappresentano grossi ostacoli nel mantenimento dell’interesse e curiosità sessuali.

L’ipotesi su cui si poggia l’indagine di Balzarini et al. (2019) è che gli individui coinvolti nelle relazioni poliamorose possano ovviare a questo “effetto collaterale” della costruzione di un affettuoso e appagante rapporto intimo, ricercando di compensare la minor soddisfazione nel dominio erotico stringendo relazioni parallele con ennesimi partner(s). I 1168 partecipanti allo studio sono stati reclutati online tramite sottogruppi di Reddit e gruppi di discussione dedicati al poliamore, identificandosi come poliamorosi (“frequentando diversi individui su conoscenza e accettazione di tutte le parti coinvolte”) e dichiarandosi impegnati da almeno due anni, in almeno due relazioni nello stesso lasso di tempo. Conformemente alle aspettative dei ricercatori, la relazione definibile “primaria” nel contesto dell’assetto poliamoroso, caratterizzata generalmente anche da durata maggiore, era connotata da maggior cura amorevole rispetto alla relazione “secondaria”, la quale invece riportava un focus erotico maggiore della “primaria”. Compatibilmente, il fattore della durata della relazione, correlava sia per quanto riguarda le relazioni “primarie” che quelle “secondarie” con una maggiore cura. Se confrontati con la popolazione monogama, gli individui in una diade “primaria” di un assetto poliamoroso risultavano riservare al proprio partner maggiori cure amorevoli, ma riferivano anche livelli più bassi di erotismo. I “partner secondari” registravano livelli di cure amorevoli più basse rispetto alla popolazione monogama, compensando tuttavia con maggiori punteggi di erotismo nella relazione. Rispetto alla popolazione poligama, l’assetto monogamo sembra risentire maggiormente della variabile della durata della relazione, sia per quanto riguarda le cure amorevoli che per quanto riguarda l’erotismo.

L’assunzione che la monogamia sia l’unica forma di contratto relazionale su cui la nostra società debba essere fondata è largamente data per scontata, influenzando inoltre le teorizzazioni e la pratica clinica. Uno sguardo più aperto verso nuove forme di relazioni amorose potrebbe fornire una valida lezione: come i risultati di Balzarini et al. (2019) sembrano supportare, la monogamia potrebbe giovare dall’iniziare a fare outsourcing (“appaltare”,”prendere da fuori”) concedendo a qualcun altro, al di fuori della coppia, di sopperire all’inevitabile prevedibilità di una relazione di lunga data (Conely & Moors, 2014; Conely, Matsick, Moors & Ziegler, 2017).

Un’adolescente di 17 anni olandese si suicida

Al di là delle tradizioni libertarie in materia fine vita (che personalmente ed in linea generale condivido) è giusto o meno concedere la possibilità di scelta, e di questo genere di scelta, ad una persona con problematiche psicologiche severe e soprattutto minorenne? 

Luigi D’Elia

Ne abbiamo sentito parlare in questi giorni. Questa notizia, nella sua ordinaria drammaticità, assume un particolare e fastidioso clamore per una serie di ragioni incrociate:

1. Viene diffusa nella stampa italiana in modo impreciso lasciando passare l’idea di un’approvazione, mai avvenuta, dello Stato olandese.

2. Si suicida, a quanto pare, con il consenso della famiglia, annunciando e rendendo pubblico il proprio suicidio.

3. Si suicida, lasciandosi morire per inedia, perché sofferente di alcune psicopatologie che le rendono difficile, anzi impossibile, la vita: disturbo, post traumatico, anoressia in cima a tutte.

Come succede spesso, il rumore dovuto a questo clamore mediatico, con le prevedibili, chiassose e noiose polarizzazioni tra i pro-vita e i pro-eutanasia, offusca la questione eticamente (almeno a mio parere) centrale. E cioè: al di là delle tradizioni libertarie in materia fine vita (che personalmente ed in linea generale condivido) è giusto o meno concedere la possibilità di scelta, e di questo genere di scelta, ad una persona con problematiche psicologiche severe e soprattutto minorenne?

Perché la società non concede la stessa possibilità di decidere riguardo altre forme di responsabilità civile e sociale ad esempio riguardo al voto, oppure all’imputabilità di molti reati, e invece dovrebbe farlo per una decisione del genere? Essere minori è ancora un discrimine socialmente condiviso? E perché dovrebbe esserlo o non esserlo?

Ed ancora, una persona minorenne e parte di un sistema sofferente (visto che la famiglia ha rinunciato ad opporsi alla sua scelta, qualcuno sostiene che l’approva) è in grado di stabilire se la propria condizione non ha alcun futuro? Quale clinico in scienza e coscienza è oggi in grado di sostenere che a 17 anni (17 anni!) una persona, seppure gravemente sofferente, non ha alcun futuro? Quale scelta etica risiede dietro la decisione di rinunciare a tentare le strade della cura dopo solo pochi anni di tentativi?

Mi domando se il problema che questo terribile caso solleva non sia anche e soprattutto, ma in maniera del tutto inconscia, il costo sociale di questi tentativi. Fare ulteriori tentativi di cura è a volte estenuante e ingrato di risultati, richiede risorse economiche, umane, a volte immense. Forse dovremmo cominciare anche a pensare che il peso sociale è un’ulteriore variabile, neanche secondaria, da considerare in certe decisioni. Una sorta di autoeliminazione stile lemmings per ridurre l’impatto eco/logico/nomico sul proprio ambiente della propria difficile condizione.

Ma il punto ancor più rilevante che sia una minorenne a imporre una decisione sul proprio suicidio, facendolo assomigliare il più possibile ad una eutanasia, non è dettaglio secondario, anzi, pone a livello etico e sociale la questione come centrale.

Oltre a considerare la stessa scelta di un suicidio, e per di più esibito, un fatto totalmente spiazzante, ciò che più di ogni altra cosa questo episodio solleva è la saldatura, a mio parere impropria (almeno in questo caso) tra determinazione di una adolescente, avallo, attivo o passivo, della famiglia, e cultura del diritto alla morte.

Se un’adolescente è in grado di con-vincere tutti al proprio suicidio, dove possiamo collocare il confine tra mondo adulto e mondo adolescenziale? Dove risiede il concetto di tutela e protezione di un mondo sull’altro? Qual è il confine tra legittima autodeterminazione di una ragazzina a scegliere per sé e responsabilità del mondo adulto nel proteggerla da decisioni autolesive? Qual è il confine tra il rischio di scivolamento in prassi biopolitiche disciplinari e autoritarie di foucaultiana memoria e doverosa responsabilità vicaria verso un minore?

Sembrerebbe proprio che questa famiglia si sia dovuta rassegnare alla decisione della figlia dovendo riconoscersi implicitamente impotente, lei con tutti il mondo adulto, nell’offrire alternative credibili e altre possibili risposte. Il tutto dentro una cornice sociale, quella olandese, che tradizionalmente approva l’autodeterminazione al fine vita che, intendiamoci, in se stessa è una cosa sacrosanta, ma che in questo caso mostra il fianco ad una evidente falla ideologica.

La società e il mondo degli adulti hanno di fatto risposto a questa adolescente rinunciando ad assumersi la responsabilità vicaria, la responsabilità di un adulto verso una figlia che promette e mantiene la possibilità di una vita vivibile, mistificando un preteso diritto di autodeterminazione come foglia di fico di un’impotenza e un’irresponsabilità a garantire ad ella un futuro almeno decente.

Ma se i minori possono autodeterminarsi su tutto, ne consegue che gli adulti, come categoria della mente e del sociale, non solo non servono più a nulla, ma di fatto si dimettono da se stessi e rinunciano collusivamente a garantire alcunché ai loro figli.

Già qualche sentore di questa “dimissione” degli adulti dalle proprie funzioni lo avevamo avuto osservando le recenti difficoltà di transito nei passaggi dei cicli vitali delle ultime generazioni, ma anche osservando la diffusione su larga scala delle dinamiche di partnership emotiva tra le generazioni, con genitori sempre più fragili e emotivamente esposti e sempre più appiattiti sui registri affettivi dei figli e di fatto omologati ad essi per la maggior parte dei loro bisogni. Un miasmatico appiattimento intergenerazionale socialmente assistito.

La scena di questo suicidio socializzato diventa perciò una scena distopica e angosciante alla quale nessuno di noi, ancora residualmente e orgogliosamente adulto, può sottrarsi, e rischia di annunciare un preoccupante e peggiorativo cambiamento di rapporto tra mondi adulti e mondi infantili e adolescenti.

Il fenomeno del Bullismo: come riconoscerlo all’interno del nucleo familiare

Il fenomeno del bullismo, purtroppo, si sta diffondendo sempre di più e non solo nel nostro paese. Sono sempre più numerosi i genitori, sia delle piccole vittime che dei bulli, che si rivolgono agli specialisti dell’età evolutiva, quali gli psicologi, per poter chiedere consigli o addirittura come fare per poter capire se il minore è vittima o meno di questo tipo di fenomeno.

Alessia Micoli

 

Riuscire ad individuare le possibili cause, poi, è relativamente facile mentre più difficile è la terapia.

Bullismo: i campanelli d’allarme a cui fare attenzione

Spesso il minore che è vittima di comportamenti di bullismo da parte di coetanei ha difficoltà nel parlare con i propri genitori per svariati motivi, uno tra i tanti è la paura che questi possano aggravare la situazione, possano arrabbiarsi con i professori, possano andare dal dirigente scolastico, oppure semplicemente per evitare di far soffrire i genitori o per semplice vergogna.

Questi minori affrontano il tutto con la speranza che la situazione problematica si risolva presto e che tutto divenga un vecchio ricordo in modo tale da poter riprendere la propria vita in maniera tranquilla.

La qualità della relazione tra il genitore ed il figlio ha un ruolo fondamentale in quanto offre la possibilità di non sentirsi soli e riuscire ad affrontare il problema giungendo ad una soluzione effettiva.

Un genitore attento è in grado di rendersi conto, anche quando mancano le parole, che vi è qualcosa che turba il figlio poiché i campanelli di allarme che vengono trasmessi sono svariati: il figlio/a diviene agitato, preoccupato, cerca di ritardare l’orario dell’entrata a scuola; inizia a sviluppare una sintomatologia fisica cioè comincia con il soffrire di mal di testa o mal di pancia, dolori che scompaiono durante le vacanze; torna a casa con ematomi in diverse parti del corpo o con libri o quaderni stracciati, riceve delle telefonate o dei messaggi che lo rendono ansioso e si chiude in se stesso.

Possono esservi dimostrazioni di labilità emotiva come lo scoppiare in pianti improvvisi; oppure non viene mai invitato dai compagni ad uscire il pomeriggio o alle feste; mostra un calo nel rendimento scolastico; diviene evasivo circa le domande inerenti il proprio stato umorale; comincia a mettere in atto degli agiti di regressione, cioè inizia a comportarsi come un bambino più piccolo dell’età che ha e ciò per attirare l’attenzione delle figure di riferimento; a volte può far uso di alcol o di droga.

Una volta osservati è fondamentale fare in modo che il minore non si senta né solo nel vivere questa situazione né impotente, il genitore deve fare in modo di trovare la forma di comunicazione migliore per poi arrivare a condividere ogni azione assieme.

Bullismo: famiglia e scuola possono fare tanto

I figli hanno bisogno di essere ascoltati e di poter esprimersi per trovare la propria identità, è fondamentale l’educazione familiare.

A volte non basta parlare del bullismo per affrontarlo, occorre analizzare assieme tutte le forme di violenza e di trasgressione, riuscendo a discutere di violenza scolastica di cui vengono a conoscenza ed analizzare quegli episodi che portano a scoprire la causa e l’effetto.

I genitori dovrebbero ispirarsi all’approccio danese, in Danimarca il bullismo non è considerato come una responsabilità, oppure come una colpa individuale. E’ visto come una conseguenza di una minore tolleranza e quindi come effetto delle dinamiche gerarchiche del gruppo.

I genitori devono creare una forza attiva con la scuola, perché è all’interno della classe che il minore porterà il suo bagaglio educativo ed inizierà a maturare la sua personalità.

Inglese e DSA: 8 indicazioni pratiche per gli insegnanti

I bambini con DSA possono avere una serie di difficoltà durante lo studio dell’ inglese che sono riscontrabili anche in altre materie. Alcune difficoltà sono caratteristiche dei disturbi dell’apprendimento in generale (legate alla stanchezza, ai tempi di concentrazione, al sovraccarico sensoriale, alla memorizzazione), altre invece sono specifiche dello studio della lingua inglese ed è quindi importante promuovere interventi mirati.

 

I bambini e ragazzi con DSA presentano spesso problematiche importanti nell’apprendimento ed acquisizione delle lingue, e la lingua inglese a causa di alcune caratteristiche a livello fonetico, grammaticale e sintattico risulta particolarmente ostica per un discente italofono con DSA.

In questo articolo vorremmo analizzare alcune delle problematiche più frequenti e dare indicazioni concrete ai docenti per affrontarle. Particolarmente, il focus di questo articolo è sulla didattica inclusiva: come in altri contesti, una didattica strutturata, basata su un attento “scaffolding” ma anche su attività motivanti e coinvolgenti è di vantaggio non solo per gli studenti con disturbi di apprendimento, ma per tutti gli alunni.

Gli italiani e l’ inglese: i motivi di una difficoltà generalizzata

Gli italiani sono fanalini di coda per quanto riguarda le competenze in lingua straniera, assieme ad altri paesi dell’Europa meridionale. I motivi di questa difficoltà sono molteplici e riguardano molti bambini (non solo quelli che hanno difficoltà scolastiche):

  • Le lingue italiana ed inglese sono profondamente diverse. È vero che la lingua inglese ha circa un 20% di parole con origine latina, ma spesso queste parole appartengono al registro colto e non sono usate nella vita di tutti i giorni. Tuttavia, non è quella lessicale la differenza più marcata, bensì la differenza strutturale. L’italiano è una lingua flessiva, mentre l’ inglese ha una componente flessiva molto più ridotta.
    Questo spesso passa come uno dei motivi per cui l’ inglese “è facile” (meno regole da ricordare), ma in realtà ciò va a creare non pochi problemi di comprensione del testo (per esempio, in italiano ogni voce verbale ha una desinenza che marca la persona ed il numero, mentre in inglese solo la terza persona singolare del simple present ha il marcatore -s. Ciò significa che quando leggiamo o ascoltiamo l’ inglese abbiamo “meno indizi” per capire chi sta compiendo l’azione). Non esistono lingue piu o meno difficili in sé, ma noi facciamo tanta piu fatica ad imparare una lingua quanto piu distante e diversa è dalla nostra. Per un parlante italofono imparare l’ inglese vuole dire misurarsi con una lingua piuttosto diversa dalla propria, e questa è una difficoltà che hanno tutti.
  • Gli italiani non sono esposti all’ inglese con regolarità: in Italia esiste una solida tradizione di doppiaggio, per cui i nostri bambini non sono abituati ad ascoltare la TV in inglese. Al contrario, nei Paesi del Nord Europa o in ex colonie britanniche come Malta, la televisione proietta regolarmente film, cartoni e programmi in inglese (se l’ inglese è la lingua originale), eventualmente con sottotitoli nella lingua locale. I bambini italiani spesso hanno modo di ascoltare l’ inglese solo a scuola, e quindi non riescono ad apprendere ed automatizzare le forme della lingua. Al contrario, i bambini che crescono ascoltando l’ inglese su base regolare normalmente apprendono ed acquisiscono la lingua molto più facilmente.
  • Questa diversità non riguarda solo la generazione dei nostri figli, ma anche la nostra. Non solo i bambini non sono abituati ad ascoltare l’ inglese, ma anche i genitori sono cresciuti con il doppiaggio e quindi hanno poca dimestichezza con la lingua. Uno studio commissionato da EF ha rilevato che i bambini danesi (i migliori al mondo nella competenza in inglese come lingua straniera) vivono in un contesto familiare e sociale nel quale l’ inglese è normale. I genitori danesi fanno molte più ricerche in internet usando la lingua inglese rispetto ai genitori italiani o francesi. In casa i bambini danesi trovano piu facilmente riviste o romanzi in inglese, vedono i film in lingua originale con la famiglia. Ciò su cui voglio attirare l’attenzione qui non è solo il fatto linguistico, di esposizione allo stimolo in lingua, ma alla componente relazionale e affettiva, la normalità e la familiarità connesse con la fruizione dell’ inglese (ove, nella maggioranza dei casi, per gli italiani l’ inglese è esclusivamente connesso alla scuola o al lavoro).

Acquisizione e apprendimento

In linguistica, si distingue tra acquisizione e apprendimento di una lingua, come due meccanismi diversi per impararla. Naturalmente, i due fenomeni non sono “puri”, ma integrati insieme, tuttavia la suddivisione è molto importante per capire come creare situazioni virtuose di acquisizione e apprendimento con bambini e ragazzi in difficoltà:

Definiamo Acquisizione tutti quei fenomeni che ci portano ad imparare la lingua senza sforzo cosciente di studio o memorizzazione. Ciò che acquisiamo lo impariamo senza studiare e senza percepire consapevolmente che stiamo imparando: è il modo in cui imparano i bambini piccoli. Ciò che abbiamo acquisito viene immagazzinato nella memoria procedurale, e quindi non viene dimenticato. Tipicamente, vengono acquisite le regole sintattiche e grammaticali che ci permettono di comprendere le frasi e produrre frasi comprensibili (in lingua madre in una lingua nella quale siamo fluenti). Alla stessa maniera, vengono acquisiti gli schemi articolatori che ci permettono di recepire e produrre i fonemi (della lingua madre o una lingua in cui siamo fluenti).

Definiamo Apprendimento tutti quei fenomeni che ci portano ad imparare la lingua con uno sforzo cognitivo cosciente, di studio e memorizzazione. Quando studiamo una lista di parole, usando varie strategie, può restare impressa nella nostra memoria a lungo termine. Questi meccanismi sono utilizzati sia per la lingua madre che per la lingua straniera durante tutto il corso della vita (anche in tarda età apprendiamo parole nuove nella nostra lingua)

Una regola grammaticale è naturalmente appresa. Quando applichiamo consapevolmente una regola grammaticale per formare una frase corretta, stiamo “apprendendo” a formare la frase e usando la corteccia in uno sforzo cognitivo consapevole. Quando parliamo o scriviamo in una lingua in cui siamo fluenti, non pensiamo alla regola (che è una procedura automatica). Naturalmente il primo processo è più lento e passibile di errori rispetto al secondo. Con l’uso e il costante feedback da parte degli interlocutori (in linguistica si definisce “funzione di monitor”), le regole grammaticali apprese possono automatizzarsi: quindi ciò che è stato appreso può essere acquisito.

Acquisizione e apprendimento dell’inglese nei soggetti con DSA

Come per tutti gli apprendimenti scolastici, i bambini con DSA possono avere una serie di difficoltà durante lo studio dell’ inglese, legati alla stanchezza, ai tempi di concentrazione, al sovraccarico sensoriale, alla memorizzazione o a difficoltà specifiche legate alla letto-scrittura. Sono difficoltà che possono riscontrarsi nello studio di tutte le materie scolastiche. Qui però vorremmo soffermarci su difficoltà tipiche legate proprio allo studio della lingua inglese.

  • Difficoltà nella discriminazione dei fonemi: teniamo conto che i fonemi della lingua inglese sono 44, mentre quelli della lingua italiana sono 30. Ciò significa che quando siamo esposti all’ inglese abbiamo a che fare con ben 14 fonemi che non ci sono nella nostra lingua e che quindi non siamo addestrati a riconoscere, discriminare e riprodurre.
  • Difficoltà nell’apprendimento della nuove parole: i bambini con DSA potrebbero avere problematiche nell’apprendere le nuove parole, o nel richiamarle efficacemente alla memoria nel momento in cui ne hanno bisogno (disnomia).
  • Difficoltà nell’articolazione dei fonemi e delle parole: spesso accade che i bambini con DSA abbiano problematiche nella programmazione motoria, il che può ripercuotersi nell’articolazione dei fonemi della lingua straniera. Inoltre, la lingua inglese rispetto alla lingua italiana ha un ritmo molto piu veloce, poiché le vocali sono piu brevi, e questo può portare ulteriori difficoltà nell’articolazione.
  • Difficoltà nell’automatizzazione delle regole: i bambini con DSA potrebbero avere delle difficoltà nell’automatizzare le regole grammaticali e sintattiche. Questo potrebbe richiedere più esercizio o maggiore insegnamento esplicito.
  • Difficoltà nello spelling e nella lettura: la fonetica inglese è complessa, ha regole difficili, non c’è corrispondenza diretta tra il suono e la lettera (ad un suono possono corrispondere combinazioni di due o piuì lettere) e ci sono svariate eccezioni ed omofoni. Per questo decifrare da grafema a fonema può risultare laborioso e difficile (talvolta anche per i nativi!).
  • Difficoltà nella comprensione del testo: la lingua inglese è “semi-isolante” ovvero utilizza la posizione della parola nella frase per esprimere funzioni logiche e sintattiche che nella lingua italiana vengono espresse con le preposizioni. Facciamo un esempio “La copertina del libro” vs “The book cover”. La parola book tra articolo e sostantivo ha la funzione del complemento di specificazione, che in italiano è esplicitata dall’uso della preposizione “del”. Ciò non facilita affatto il compito di capire la frase ad una persona che non è un parlante nativo. Inoltre, in inglese la stessa parola può essere usata nella funzione di sostantivo o verbo (ad esempio: “This is my pencil” vs. “I pencil my name”): anche questo non aiuta. Sono molti gli usi “sintetici” della lingua che creano confusione nel lettore non nativo e non esperto.

8 regole pratiche per l’insegnamento inclusivo dell’ inglese

Date queste particolarità ed informazioni, vorremmo restare sul pratico e dare agli insegnanti 8 consigli concreti su come insegnare inglese in modo inclusivo. Le buone pratiche inclusive sono spesso favorevoli per tutta la classe. Al di là delle difficoltà e disturbi specifici, infatti, come abbiamo spiegato la situazione culturale in Italia comporta una scarsa dimestichezza di tutti i bambini con la lingua. E, in situazione di scarsa dimestichezza, un insegnamento strutturato ma coinvolgente (aggettivi che sono poi la cifra dell’inclusività) è davvero il più utile ed efficace per tutti:

  1. Curate il setting: le classi sono spesso rumorose e anche l’illuminazione raramente è curata. Eppure, sappiamo che lo stress sensoriale può fare molto male ai bambini con DSA, ma in generale disturba tutti, aggravando la stanchezza, l’iperattività e la distrazione. Si può evitare lo stridio dei tavoli e delle sedie con dei feltrini o infilando le palline da tennis sulle gambe dei tavoli e delle sedie, come fanno nelle scuole senza zaino. Anche la illuminazione va curata: verificate che tutti i bambini abbiano una buona luce naturale dalla loro posizione e che vedano la lavagna. Tenete d’occhio lo strane posture perché spesso sono indice di cattive abilità di visione. Impugnature contratte anche sono spie di allarme che vanno segnalate, perché segnali di qualche cosa che non va. Abituate i bambini a fare esercizi di rilassamento visivo (basta allontanare gli occhi da foglio e guardare lontano per alcuni secondi ogni 10-15 minuti), ma anche stretching almeno una volta nella mattinata.
  2. Cercare di creare situazioni di immersione linguistica: sappiamo che solo con una alta quantità di input si attivano i meccanismi dell’acquisizione, quindi può essere una buona idea concordare con i genitori un repository online (come un drop box) dove invierete canzoni e video. Consigliate ai genitori di esporre i bambini alle canzoni e video almeno 3 volte alla settimana, per 10-15 minuti, con regolarità. È importante creare in qualche modo delle routines per le quali l’ inglese entri nella vita dei bambini.
  3. Non traducete, piuttosto strutturate e semplificate. Se traducete, sarà naturale per i bambini ascoltare solo la frase e la parola in italiano. È chiaro che tenere la lezione completamente in inglese è difficile e può essere scoraggiante per alcuni alunni. Per questo può essere una buona idea semplificare e strutturare la situazione, in modo che i bambini abbiano un’altra chiave per capire ciò che non colgono verbalmente. Se siete alle primarie suddividete le lezioni in parti, organizzando una routine regolare, ad esempio sigla/circle times—review della lezione precedente–presentazione del nuovo materiale—gioco e attività—esercizio di rilassamento –circle time–saluti. Ogni parte della lezione deve avere una cornice comprensibile come una sorta di sigla o frasi o gesti rituali che permettano ai bambini di avere una sorta di mappa di ciò che sta succedendo. Potete anche fare visualizzare la routine della lezione creando un cartellone, in modo che i bambini sappiano sempre cosa si sta facendo e a che punto sono. Non abbiate paura di essere ripetitivi! I bambini imparano bene con format ripetuti, nei quali si riprendano spesso le stesse parti: il che permette loro di impossessarsi della materia e cominciare a manipolarla in modo autonomo.
  4. Date elementi testuali e contestuali ridondanti: per capire veramente un testo (orale o scritto) è necessario dare tanti elementi, alcuni testuali (significato delle parole, conoscenza delle forme sintattiche e grammaticali usate), altri contestuali (identità ed intenzione comunicativa dell’autore, informazioni sul contesto e sul destinatario del messaggio). Siate ridondanti, date agli scolari le informazioni che possono necessitare per capire. Quando noi parliamo la nostra lingua, abbiamo una serie di elementi culturali, oltre che linguistici, che ci aiutano ad anticipare il significato della frase. Dobbiamo offrire un set anche piu ricco di informazioni se stiamo parlando in una lingua straniera.
  5. Siate multisensoriali: se i bambini devono capire senza che voi traduciate, è necessario non affidare completamente il messaggio alla sola parola, ma usate tutti i canali sensoriali. Usate la vista: cartelloni, illustrazioni da libro o flashcards, video, mappe mentali… Usate l’udito: canzoni, rime, conte, ritmi, narrazioni. Usate il canale tattile e cinestesico: gesti, mimi, mimica facciale, azioni fisiche, manipolazione del materiale, scrittura alla lavagna… Usate spesso piu input sensoriali associati, in modo che i ragazzi possano avere l’informazione contiguamente su due canali sensoriali. Ad esempio, un audiobook è molto utile perché puoi leggere mentre ascolti, questo migliora sia la comprensione del testo che la consapevolezza metafonologica. Una action song è molto utile perché associ il mimo alla parola che stai cantando o ascoltando.
  6. Fate metacognizione: incoraggiate gli studenti a riflettere se stanno imparando e come imparano meglio: ad esempio, se hanno imparato meglio una parola perché ne ricordano la forma scritta, o se li aiuta scriverla su un quaderno o riascoltarla mentalmente. Spronateli ad esplorare varie strategie per ricordare e a trovare ciò che funziona meglio per loro.
  7. Fate fonetica: la fonetica inglese è difficile per questo va affrontata in modo esplicito. Fate esercizio per abituare i bambini all’ascolto dei suoni e dei suoni fonetici, fate giochi di competenza metafonologica per aiutarli a riconoscere, discernere e riprodurre i singoli suoni della lingua e poi fare “blending”. Non serve solo per pronunciare “come gli inglesi” ma anche e soprattutto per capire. È anche indispensabile per la lettoscrittura.
  8. Siate pratici: i bambini devono potere usare ciò che imparano. Vanno bene tutti gli esercizi (drammatizzazioni, role plays, presentazioni) che consentano loro di applicare ciò che stanno imparando, manipolare le informazioni che ricevono e vedere un lato concreto e utile in ciò che stanno facendo.

Percorso formativo per insegnare inglese ad alunni con DSA:

Per il mese di Giugno 2019 abbiamo creato un percorso formativo per insegnanti, dedicato ai docenti delle scuole primarie e secondarie di I grado, incentrato proprio sulle strategie da adottare per insegnare inglese agli alunni con DSA.

La formazione si articola in tre moduli:

  • Insegnare inglese agli alunni con DSA 1 livello
  • Insegnare inglese agli alunni con DSA 2 livello
  • Multisensory English

Il punto di questa formazione si può riassumere cosi:

  • La formazione ha una durata di 60 ore, di cui 24 in presenza, ed è completamente gratuita.
  • 18,19, 20 Giugno: S. Bonifacio (VR)

Per informazioni sulla formazione gratuita per docenti di scuola primaria e secondaria, potete contattare Open Minds.

Il dono nel legame di coppia

Se la coppia si forma come un riconoscimento reciproco, essa presuppone il donare ovvero un legame che obbliga donante e ricevente insito nell’atto stesso dello stare insieme del fare coppia come significato antropologico e culturale.

 

Ciò vuol dire cambiare oggetto di studio: la coppia non è più il frutto della “coazione a ripetere” che tende a replicare il rapporto figlio-genitore dell’altro sesso e, in particolare, della madre. Non è più il frutto della proiezione di contenuti interni sul partner. Per certi versi non è più neanche il frutto delle relazioni oggettuali ma del legame inteso come una struttura inconscia che lega due o più soggetti.

Coppia e famiglia secondo la psicoanalisi

Ciò che è messo in risalto, oltre al legame, è la reciprocità nel rapporto di coppia insieme ad un tema nuovo ovvero gli influssi intergenerazionali. Per la prima volta questi temi furono posti al I congresso internazionale di psicoterapia di coppia e della famiglia, tenuto a Napoli nel 2000, da un gruppo di psicoanalisti italiani tra cui Nicolò, Lucarelli, Torso e Tavazza. Essi misero in risalto, così come riportato dagli autori di “Famiglie in trasformazione” (2015), che bisogna curare il legame come “terzo neoformato”. La famiglia, in quest’ambito, è un “sistema interiorizzato di legami” , costituisce “la matrice dell’identità individuale” ed è “un sistema interattivo” dotata di un “sistema intergenerazionale”. Ecco la novità, la lettura e l’interpretazione dei legami familiari si spostano dall’interazione tra i membri alla loro storia generazionale:

il punto focale di tale approccio è lo studio del continuo reciproco intreccio tra il mondo intrapsichico del singolo membro e il funzionamento interpersonale della famiglia a cui il singolo appartiene (Nicolò 1998 ).

Kaes (2015), nel tentativo di spiegare la fusione di coppia e il mantenimento della stessa, rende evidente il lavoro psichico

richiesto dall’incontro con l’altro e più- di-un-altro perché la psiche, o parti di queste, si associno e si assemblino, perché si sperimentano nelle loro differenze e si mettano in tensione, si regolino.

Il suddetto lavoro deve rispondere a quattro esigenze riguardo al legame intersoggettivo:

  • “L’obbligo per il soggetto di investire il legame e gli altri con la propria libido narcisistica e oggettuale, al fine di ricevere in cambio da questi gli investimenti necessari per essere riconosciuto come soggetto membro del legame”. Il soggetto nell’atto dell’investimento libidico dona al fine di stabilire il legame e nello stesso tempo riconoscersi, in senso antropologico, nel legame;
  • “La messa in latenza, la rimozione, la rinuncia o l’abbandono di alcune formazioni psichiche proprie del soggetto”. Si tratta di abbandonare, modificare e , alcune volte, ampliare i nostri pensieri o il nostro sistema di credenze per aderire a un nuovo progetto condiviso. Ritorna ancora una volta il perdere, il rinunciare per acquisire, per trasformarsi in un nuovo aggregato;
  • “la necessità di mettere in opera operazioni di rimozione, di diniego o di rigetto, affinchè si formino le congiunzioni di soggettività e i legami si mantengano”. Il legame diventa una realtà psichica che ha una vita propria e che mette in atto i dispositivi metadifensivi necessari alla sua autoconservazione. Alcuni hanno parlato, a questo proposito, di alleanze inconsce difensive.
  • L’articolare “gli interdetti fondamentali nei loro rapporti con il lavoro di civilizzazione e i processi di simbolizzazione”. Le alleanze inconsce difensive sono una necessità non solo soggettiva o funzionale al mantenimento del legame, ma anche un’esigenza transgenerazionale.

L’esigenza transegnerazionale è la base del mantenimento dell’ordine e risponde a esigenze di giustizia e proprio per questi suoi principi può essere ascritta alle esigenze antropologiche dell’uomo. Tant’è che Kaes nelle sue teorizzazioni cliniche traccia una realtà psichica senza soggetto che trova i suoi spazi nell’intersoggettività e nell’intrasoggettività. Se lo spazio intersoggettivo, ammesso che si possano separare, trova la sua rappresentatività nel legame di coppia, l’intrassoggettività concerne i passaggi generazionali. Chiaramente inter e intra soggettività si sovrappongono nelle progressioni e trasformazioni culturali. Nicolò (2015), riferendosi alla clinica, individua la intrasoggettività nei miti che le varie generazioni si tramandano e che sono una fonte inesauribile da cui ricavare informazioni sulla forza e qualità dei legami. Rigamonti e Taccani ( 2015) in questi spazi psichici inseriscono il segreto facendo rilevare che a livello intrapsichico svolge una funzione protettiva per il legame di coppia, mentre a livello intrasoggettivo (segreto di famiglia) serve a ripararci da traumi psichici vissuti da generazioni precedenti che sono stati incapaci di elaborarli e simbolizzarli trasmettendoli come tracce che spesso disorientano e confondono. Abraham e Torock (1987), così come riportato da Nicolò e Trapanese in Quale Psicoanalisi per la famiglia?, individuano un “inconscio artificiale” che assume la forma di una cripta i cui contenuti sono costituiti da elementi traumatici, bizzarri e alieni appartenenti a generazioni precedenti. Sembrerebbe il luogo, dove si nasconde e nasce il dono avvelenato e negativo.

Sempre Kaes (op. cit) inserisce all’interno degli spazi inter e intra soggettivi una serie di alleanze che possono essere contraddistinte come di piacere condiviso, d’illusione e creatività e d’amore e di odio. Egli definisce queste alleanze come strutturanti primarie e secondarie. La prima alleanza strutturante primaria, riprendendo Introduzione al narcisismo (1914) di Freud, è quella narcisistica che

definisce un contratto di filiazione: è al servizio degli investimenti di autoconservazione del gruppo e del soggetto e del soggetto di questo gruppo e riconosce il bambino come membro di questo gruppo, esigendo da questi che riconosca il gruppo come ciò che lo precede e ciò che deve prolungare.

Ecco l’affacciarsi del dono della vita come esigenza antropologica e simbolica che si compone, ancora una volta, come perdita per acquistare.

Coppia e famiglia: legami negli spazi intersoggettivi

Il mantenimento dell’ordine e della giustizia è frutto delle alleanze strutturanti secondarie che fanno riferimento allo spazio intersoggettivo. Riprendendo Freud che nel 1929 sostenne che, affinché si realizzasse una società di diritto, il soggetto deve rinunciare alle esigenze pulsionali distruttive, Kaes sostiene che tale rinuncia garantisce uno spazio condiviso in cui l’Io si può realizzare:

sono i garanti dell’interdetto, dell’incesto e dell’assassinio e per questo assicurano la trasmissione della vita psichica tra le generazioni.

Lacan, nel seminario XX, indica il luogo dell’altro nell’intersoggettività e, assumendo l’idea hegeliana, afferma che il soggetto ha bisogno dell’altro per esistere. Il luogo dell’altro è quello materno e quello paterno, ma anche quello dell’altro sesso. La madre, attraverso le cure, è il luogo del linguaggio che permette di comunicare con gli altri. Il padre invece è il luogo della legge e dell’ordine essendo “un significante in relazione con i significanti”. Lacan da grande rilievo al “Nome del Padre” poiché se esso manca non ci può essere il luogo del “grande altro”. Addirittura, sul piano clinico, ritiene che se manchi il “Nome del Padre” non ha senso mettere uno psicotico sul lettino poiché quest’ultimo, relazionandosi con un mondo immaginario, sarà costretto a confrontarsi con un buco, con un cratere, con una voragine, insomma con l’assenza del luogo dell’altro.

Lo spazio intersoggettivo mi piace immaginarlo come il luogo dello scambio di elettroni tra atomi che permettono il formarsi del legame e la comparsa di una nuova sostanza: nell’acqua attraverso un legame covalente, nel sale attraverso un legame ionico. Lewis (op. cit.) attraverso la regola dell’ottetto ci informa che gli atomi sono particolarmente stabili nello stato di valenza quando hanno all’esterno otto coppie di elettroni come i gas nobili. La stessa regola presuppone che quando gli atomi si avvicinano per formare un legame solo gli elettroni più esterni partecipano all’operazione. Infatti, gli elettroni dello strato più esterno sono chiamati elettroni di valenza o di legame. Nel caso dell’acqua due atomi di idrogeno mettono due coppie di elettroni e un atomo di ossigeno sei coppie di elettroni. Il Cloruro di sodio (sale), attraverso il legame ionico, forma otto coppie di elettroni unendo l’unica coppia del sodio a carica positiva con i sette del cloro a carica negativa. Il legame, quindi, può esserci solo nella misura in cui l’atomo è disponibile o a cedere i suoi elettroni di valenza o a patto che essi siano caricati in maniera complementare. Infatti, gli atomi per formare un legame devono reinterpretare e mettere in comunione all’interno di regole certe (perdere, acquistare e mettere in comune) i propri elettroni di valenza, lasciando invariato il proprio nucleo. I chimici considerano gli spazi, dove si formano i legami, come spazi vuoti.

Coppia e famiglia nell’Antico Testamento

E’ nello spazio interpsichico che si formano i legami che possono essere covalenti e/o ionici ovvero che possono essere più o meno forti. La forza dei legami si misura in base all’energia necessaria alla rottura del legame. L’energia necessaria per la rottura del legame potrebbe essere ad esempio il calore. In base all’energia il legame covalente è più forte di quello ionico poiché in questo legame c’è una condivisione quasi con la stessa forza degli elettroni di legame, quindi nessuno dei due atomi della molecola tira di più. Nel legame ionico, data la differenza di elettronegatività e quindi della forza di uno dei due atomi a tirare gli elettroni di legame, l’atomo più elettronegativo ha gli elettroni di legame molto vicini al suo nucleo e basta una piccolissima forza per rompere il legame, che è labile.  Per fare un esempio, il sale (legame ionico) scioglie a 800 gradi circa, mentre il diamante (legame covalente) a 4000 gradi circa. Ciò significa che è più semplice subire attacchi al legame man mano che ci si avvicina al nucleo piuttosto che nello spazio interpsichico. Se ipotizziamo che il nucleo rappresenta la soggettività man mano che ci allontaniamo da essa, il legame diventa più forte come spazio della condivisione e della reciprocità. In sostanza, in questo spazio interpsichico senza soggetto ci riconosciamo in un nuovo soggetto che non necessariamente corrisponde alla soggettività, anzi, l’influsso di quest’ultima può attaccare il legame proiettando su di esso contenuti distruttivi. Inoltre, nei legami umani lo spazio interpsichico non occupato dai legami non è vuoto essendo riempito dalla cultura, dai contenuti antropologici, dal simbolismo e dal sacro.

Vorrei ricordare a questo proposito che nell’Antico Testamento ad Abramo per legarsi a Dio viene richiesta la rinuncia. Deve rinunciare alla sua casa e alla sua terra affinché possa avere in cambio:

  1. una numerosa discendenza;
  2. la benedizione, tramite lui, di tutti i popoli della Terra;
  3. un territorio per la sua discendenza.

Abramo rispose obbedisco: rinunciare per acquistare la discendenza e, nel frattempo, fare legame con Dio. Abramo, in effetti, si sposta ed ebbe la terra promessa così come il discendente Isacco. Ancora, una volta Dio lo chiama e gli chiede di rinunciare al suo unico figlio per offrirlo in sacrificio. Ancora una volta Abramo risponde obbedisco. Sappiamo tutti che il sacrificio di Isacco non fu necessario, ma Abramo era disponibile a rinunciare alla sua soggettività pur di fare legame con Dio. Tra l’altro e ne parleremo dopo, ciò è la dimostrazione che i figli non sono una nostra proprietà privata, ma appartengono alla comunità, alla cultura e al sacro.

Il dono come modalità di legame, ancora una volta, vuol dire rinunciare al fine di conquistare una nuova identità all’interno di una nuova relazione.

Dalla coppia alla famiglia: i legami con i figli

Kaes, come abbiamo detto in precedenza, nell’ambito delle alleanze strutturanti primarie indica la filiazione come sistema di autoconservazione per il gruppo e per il soggetto. Ricoeur (op. cit.) a proposito del riconoscimento del sé in seno alla scala genealogica arriva alla conclusione che “riconoscersi nella filiazione” vorrebbe dire “riconoscimento” come “luogo di un debito senza colpevolezza”.

La famiglia, infatti, non è solo la coppia ma sono presenti anche i figli. Per richiamarci alla formazione dei composti chimici, il legame è anche determinato dalla lunghezza. Da questo punto di vista è piuttosto semplice e ovvio osservare che i legami più forti sono nella rete parentale e, restringimento ancora di più il campo, anche all’interno della stessa cerchia dei familiari. Il rapporto madre-figlio è senza dubbio, almeno nei primi anni di vita del bambino, più forte del legame tra gli stessi genitori così come quello tra marito- moglie e maggiore di quello con le rispettive famiglie di origine. Allo stesso modo, gli individui investono e legano all’inizio della loro vita con i propri genitori e, solo durante l’adolescenza, tendono a investire e legare con i propri pari età. Il legame, infatti, in psicologia è stato studiato prevalentemente nell’ambito dei processi socializzativi ed evolutivi sia inter sia intragenerazionali. La psicologia e, in particolare, la psicoanalisi hanno prestato attenzione ai rapporti madre-figlio (caregiver materno) come elemento essenziale per lo sviluppo futuro.

La connessione mente-corpo nei pazienti psichiatrici

Un recente studio ha mostrato come l’utilizzo di un programma di educazione alimentare e di esercizi fisici strutturati migliorino il tono dell’umore e lo stato di benessere percepito in pazienti psichiatrici.

 

Dunque, questa ricerca ha voluto testare se lo svolgimento di esercizi fisici e la somministrazione di una dieta alimentare strutturata potessero fungere, unitamente alla psicoterapia, da strategie di coping per pazienti con patologie psichiatriche. In particolare, sembrerebbe che il programma fisico-alimentare somministrato abbia agito positivamente sull’umore e sul benessere percepito dai pazienti.

Lo studio

Il campione dello studio (N=100) è stato reclutato dal reparto di psichiatria del centro medico appartenente all’università del Vermont. Ai pazienti sonno state diagnosticate, da DSM 5, problematiche psichiatriche (depressione, disturbo bipolare, ansia generalizzata, disturbo schizoaffettivo, psicosi) e disturbi di personalità. Lo studio è durato 12 mesi e i partecipanti, volontariamente, hanno aderito ai programmi di allenamento e di educazione nutrizionale della durata di 60 minuti, che venivano svolti quattro volte alla settimana.

Per valutare l’efficienza del programma, ai pazienti sono stati somministrati questionari self report che valutassero l’autostima, l’umore e l’immagine di sé, prima e dopo ogni sessione di allenamento.

Risultati

Al termine dello studio, più del 90% dei pazienti ha riportato sia un miglioramento del tono dell’umore, sia feedback positivi rispetto alla percezione del proprio corpo. Inoltre, dall’analisi del questionario di soddisfazione è emerso che il 97,6% dei partecipanti si è mostrato interessato alla possibilità di poter proseguire il programma fisico-alimentare.

In conclusione, l’esercizio fisico e l’educazione nutrizionale potrebbero rappresentare una valida strategia di promozione del benessere psicofisico nei pazienti psichiatrici. Tuttavia, è bene sottolineare che tale approccio risulta essere funzionale se concomitante ad un percorso di psicoterapia e, qualora fosse necessario, ad una terapia farmacologica. Dunque, un approccio multidisciplinare che promuove la connessione mente-corpo sembrerebbe utile a stimolare sia lo sviluppo di strategie cognitive che somatosensoriali dinamiche ed adattive.

L’effetto delle esperienze avversive precoci sull’alterazione dell’espressione genica con conseguenze sulla salute mentale adulta: cronicità ed effetto recency quanto impattano? – FluIDsex

Secondo alcuni ricercatori, gli effetti di esperienze avversive precoci e ripetute aumentano in base al numero di esperienze avute, con un’ipotesi di recency, in cui si ipotizza che gli effetti delle avversità siano più forti quando gli eventi si sono verificati di recente.

 

Uno studio del Massachusetts General Hospital (MGH) ha indagato la vulnerabilità dei bambini minori di tre anni agli effetti delle avversità precoci. La vulnerabilità a tali esperienze avversive precoci è stata indagata nei profili epigenetici di questi bambini, ovvero nell’alterazione dell’espressione genica in seguito ad esperienze di povertà, abuso, instabilità familiare.

Il principale ricercatore dedicatosi allo studio è Erin Dunn, assistente professore di Psicologia presso il dipartimento di Psichiatria della Harvard Medical School.

Gli effetti delle esperienze avversive precoci sul DNA

Studi condotti sia su animali sia su esseri umani hanno svelato come esperienze avversive precoci possono avere effetti duraturi sull’epigenetica. Tali studi hanno riportato differenze nella metilazione del DNA di persone che hanno vissuto esperienze avversive stressanti precoci o meno.

In particolare, il presente studio è stato progettato con l’obiettivo di verificare l’ipotesi che ci siano periodi sensibili durante i quali le eventuali avversità di vita siano associate a cambiamenti significativi nella metilazione del DNA. Inoltre, i ricercatori dello studio hanno confrontato l’ipotesi di accumulo di esperienze avversive precoci, in cui gli effetti degli eventi stressanti aumentano in base al numero di esperienze, con un’ipotesi di recency, in cui si ipotizza, invece, che gli effetti delle avversità siano più forti quando gli eventi si sono verificati di recente.

I dati utilizzati nel seguente studio sono quelli raccolti per il Longitudinal Study of Parents and Children, uno studio inglese iniziato negli anni ’90. In questo studio, i partecipanti genitori hanno riportato regolarmente molti aspetti relativi alla salute e alle esperienze di vita dei propri figli, reclutati come partecipanti allo studio prima della propria stessa nascita. Attualmente i dati riguardano un sottogruppo di oltre 1000 coppie madre-bambino, selezionate casualmente, e da cui erano stati eseguiti profili di metilazione del DNA dei bambini alla nascita e all’età di 7 anni.

Nella selezione del campione oggetto di studio furono ritenute esperienze avversive precoci e dunque come tali vennero registrate, l’esposizione ripetuta nel tempo alle seguenti esperienze stressanti: abuso da parte di un genitore, di un altro caregiver o di chiunque altro; la malattia mentale di una madre; vivere in una famiglia monoparentale; l’instabilità familiare; lo stress finanziario familiare; svantaggio della zona o povertà.

È emerso che la maggior parte dei cambiamenti nella metilazione erano associati a quando l’esperienza stressante aveva avuto luogo. Inoltre, le avversità prima dei 3 anni hanno avuto un impatto significativamente maggiore sulla metilazione rispetto alle avversità nelle età da 3 a 5 o da 5 a 7.

Gli eventi più impattanti furono i seguenti: svantaggio della zona, seguito dallo stress finanziario della famiglia, dall’abuso sessuale o fisico e dal vivere in una famiglia monoparentale.

Sebbene le esperienze della prima infanzia avessero i maggiori effetti, le avversità in età avanzata non furono prive di impatto. I risultati più significativi riguardano alterazioni nel “periodo vulnerabile” (fino ai 3 anni), ma non vengono esclusi effetti correlati alla cronicità/accumulo delle esperienze e di recency, infatti dai risultati emerge che due dei siti in cui la metilazione risultava alterata erano associati alla frequenza delle esperienze avversive e al loro essere recenti.

In conclusione

I risultati del presente studio suggeriscono che i primi tre anni di vita possono essere un periodo particolarmente importante per plasmare i processi biologici che danno luogo a condizioni di salute mentale. Quando tali risultati vengono replicati, essi implicano che dedicare interventi a bambini che hanno sperimentato avversità nei primi tre anni, possono aiutare a ridurre il rischio a lungo termine di problemi, quali depressione.

Sostiene Dunn, sottolineando l’importanza del fatto che altri ricercatori possano replicare lo studio:

Sarebbe inoltre interessante esaminare l’interazione di effetti di accumulo e recency con i tempi di esposizione ed effettuare la raccolta e l’analisi dati su un numero più alto di partecipanti.

Indubbiamente un maggior numero di informazioni a riguardo potrà arricchire le conoscenze sull’argomento e guidare la progettazione di un più solido canale preventivo.


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Crisi adolescenziale, teorie e ricerca del proprio ruolo

Secondo Erikson il processo di costruzione dell’ identità non si esaurisce in un periodo circoscritto che può essere quello dell’ adolescenza, ma si protrae per tutta la vita e la crisi di identità può manifestarsi in modo più o meno violento anche in relazione al momento storico che ci si trova a vivere.

 

Il passaggio dall’infanzia all’età adulta è normalmente caratterizzato da quella fase definita come crisi adolescenziale. Giovanna Racchetti, psicologa, nel suo libro “Il genitore nascosto” ci descrive un’ adolescente che si sente intrappolato in un tempo da cui teme di non uscirne mai più, un adolescente che soffre la perdita di punti di riferimento e non è ancora in grado di godere delle sue nuove conquiste e della sua nuova identità. Deve elaborare il lutto verso gli oggetti di investimento infantili, in primo luogo verso le figure genitoriali, per potersi rendere autonomo da loro ma, allo stesso tempo, ha segretamente bisogno del riconoscimento dell’adulto per sentirsi veramente autonomo. Questa necessità dà luogo a comportamenti contraddittori che vanno da moti di indipendenza e ribellione all’autorità degli adulti, a richieste regressive di attenzione.

Adolescenza e costruzione dell’ identità: la voce degli autori

Winnicott parla dell’ adolescenza come di un atto aggressivo. Crescere significa prendere il posto dei genitori e questo implica che le figure genitoriali vengano idealmente “uccise” perché l’ adolescente possa subentrare al loro posto: “se il bambino deve diventare adulto, questo avviene sul cadavere di un adulto”.

Sul tema del lutto torna Erikson, che ci parla di un adolescente che si trova a dover riconsiderare le sue certezze infantili e quello in cui si identificava, per operare una selezione in base ai suoi bisogni e alle sue capacità in modo da poter creare una sua propria identità che gli permetta di trovare uno spazio nel contesto sociale. In questa ricerca l’ adolescente va alla ricerca di modelli in cui identificarsi e che gli indichino la strada da percorrere, ma la sua insicurezza lo porta spesso a cercare e sovrapporre modelli differenti creando una confusione di ruoli generatrice di ansie.

Interessante teoria su questo tema è quella esposta da Viktor Frankl, neurologo e psichiatra, che per primo introduce nel campo della psicologia il concetto di “senso delle vita” che era precedentemente esclusiva dell’ambito filosofico. Frankl è riconosciuto come il fondatore della logoterapia, che si pone come obiettivo primario la riscoperta del significato dell’esistenza dell’essere umano. Proprio la ricerca del senso della vita si troverebbe alla base del passaggio dall’infanzia all’età adulta; la faticosa ricerca di un significato diventa generatrice di quella frustrazione che viene percepita dai giovani nel tentativo di realizzarsi definendo il loro significato e il loro scopo. La motivazione al cambiamento è data dalla direzione che ci si è prefissata e dalla meta che si vuole raggiungere. Trovare il proprio significato vuol dire trovare il proprio posto nel mondo e indirizzare i propri sforzi a perseguire quell’obiettivo che dà un senso alla propria vita. In accordo con questa teoria è anche Erikson per il quale sapere “dove si va” fornisce l’intima sicurezza di avere un proprio posto nel mondo, accettato, riconosciuto, e quindi legittimato, dagli altri.

Così dice Allport a questo proposito:

Il senso dell’io raggiunge la sua completezza quando l’ adolescente comincia a fare dei progetti, a porsi delle finalità ad ampio raggio.

Sempre secondo Erikson, il processo di costruzione della propria identità non si esaurisce in un periodo circoscritto che può essere indicato dal termine adolescenza, ma si protrae per tutta la vita e la crisi di identità può manifestarsi in modo più o meno violento anche in relazione al momento storico in cui ci si trova a vivere.

Tornando alle teorie di Frankl, un ulteriore approfondimento ci arriva leggendo “Giovani, identità e senso di vita” della dottoressa Del Core, docente e psicologa, che mediante una ricerca sperimentale arriva a concludere che la costruzione di una propria identità si basa sull’elaborazione di una scelta di vita che determina l’indirizzo degli impegni e degli decisioni che si deciderà di assumersi. Alla costruzione del senso di sé contribuiscono anche la percezione delle proprie possibilità e l’esistenza di un modello di vita (anche qui ci ricolleghiamo ad Erikson) che fornisca punti di riferimento. Oggi la definizione di una propria identità risulta più difficile e, può sembrare un paradosso, ciò avviene proprio in relazione al numero crescente di opportunità professionali e personali che la società offre ma a fronte delle quali manca un’effettiva possibilità di realizzazione delle stesse (si pensi alle innumerevoli proposte formative tra cui i giovani si trovano a scegliere e alla difficoltà di reali sbocchi nel mondo lavorativo).

I due grandi problemi dell’ adolescenza sono: trovarsi un posto nella società e, allo stesso tempo, trovare se stessi. (Bruno Bettelheim)

Le ricerche esposte dalla professoressa Del Core, condotte mediante interviste, evidenziano come il “senso di identità” e il “senso della vita” tendano a sovrapporsi in questo periodo evolutivo in cui si affrontano cambiamenti generali riferibili sia alle relazioni con la famiglia e con tutto l’ambiente circostante, sia con l’immagine e l’idea che si ha di sé, sia ai propri progetti e ai propri valori. Il processo di rielaborazione dei valori è ancora limitato perché è ancora molto forte la dipendenza dalla famiglia e dai coetanei. Proprio in questi ultimi, gli adolescenti trovano un termine di confronto per sperimentare i cambiamenti in atto. L’educazione dovrebbe, secondo la Del Core, farsi carico di accompagnare gli adolescenti a realizzare una progettualità all’interno e nonostante la propria identità non ancora ben definita e un ambiente che non fornisce punti di riferimento certi.

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