expand_lessAPRI WIDGET

Cosa succede mentre dormiamo? Ce lo raccontano le neuroscienze!

Il sonno ha sempre affascinato scienziati e filosofi, portando alle più disparate teorie. 

 

Oggi lo strumento più usato per misurare i parametri fisiologici durante lo stato di sonno è la polisonnografia, basata principalmente sull’elettroencefalogramma, ma anche sull’elettromiografia, sull’elettrooculografia, sull’elettrocardiogramma e su misure della respirazione.

Generalmente, le ricerche moderne vengono svolte considerando la fase di veglia, la fase REM (rapid eye movement) e tre fasi non-REM, rispettivamente: N1, che riflette la fase di addormentamento; N2, in cui vi è un rallentamento dell’attività fisiologica; N3, che corrisponde al sonno profondo.

Un recente studio (Stevner, et al., 2019) ha utilizzato un nuovo metodo di elaborazione dei dati dell’attività cerebrale durante il sonno, estraendo gli stadi della polisonnografia tramite risonanza magnetica funzionale ed applicando poi un modello stocastico bayesiano dinamico in modo da ottenere una mappa di probabilità delle transizioni rilevanti fra i vari passaggi di stato sull’intera struttura della rete di attività cerebrale.

Lo studio

In questo modo sono stati stimati 19 stadi, raggruppati temporalmente in modo significativo nelle fasi della polisonnografia. È così stato identificato per la prima volta un ricco repertorio di dinamiche ad ampio raggio del cervello durante il sonno.

In particolare, la veglia, la fase REM, N2 e N3 sono rappresentate in modo chiaro da uno o più pattern di attività, mentre N1 non ha trovato corrispondenze in nessuno stadio del sonno definito. Questi risultati mettono in dubbio l’accuratezza di questa fase teorica, che potrebbe essere un artefatto costituito da un misto di veglia e sonno, piuttosto che corrispondere al processo di addormentamento. Inoltre, i risultati suggeriscono che il default mode network abbia una funzione “porta” nel passaggio allo stadio non-REM.

Lo studio ha inoltre dimostrato l’applicabilità di una tecnica innovativa per l’esplorazione dei cambiamenti fondamentali nel cervello, creando nuovi possibili sviluppi nella ricerca sui disturbi del sonno e, più in generale, sul funzionamento del sistema nervoso.

Terapia Cognitiva Analitica (CAT) – Report dalla conferenza internazionale di Ferrara

È stata Ferrara ad ospitare in questi giorni l’ottava conferenza internazionale di Terapia Cognitiva Analitica, che per la prima volta si svolge in una città italiana.

 

L’ottava conferenza internazionale di Terapia Cognitiva Analitica, organizzata dall’associazione italiana di terapia cognitiva analitica ITA CAT in collaborazione con l’Università di Ferrara ha accolto professionisti della salute mentale provenienti da 14 paesi. Molti gli esponenti provenienti da Australia, Finlandia e Paesi Anglosassoni, dove la terapia cognitiva analitica è molto utilizzata anche all’interno del Sistema Sanitario Nazionale.

La terapia cognitiva analitica

La terapia cognitiva analitica nasce proprio all’interno del sistema sanitario nazionale, grazie al lavoro di Antony Ryle. Si sviluppa come risposta ai bisogni di un servizio pubblico, che vuole offrire ai pazienti una psicoterapia a breve termine, che integra differenti approcci (cognitivo, analitico, costruttivista). 
Da qui la CAT si sviluppa e viene usata in molteplici contesti (dalla psicoterapia, alle supervisione, al lavoro di équipe,) rimanendo sempre un modello di psicoterapia basata su una visione del sé profondamente sociale, un modello attivo, collaborativo, che fa uso della riformulazione scritta.

Nella terapia cognitiva analitica paziente e terapeuta lavorano insieme per riformulare, riconoscere, e rivedere le procedure disfunzionali che sono all’origine della costituzione e del mantenimento del malessere e della psicopatologia. All’Interno di queste procedure un ruolo fondamentale rivestono i ruoli reciproci, concetto chiave in CAT, che rappresenta il nostro essere in relazione con gli altri e con noi stessi, esperito e interiorizzato ed agito anche nella relazione terapeutica.

La conferenza internazionale di Ferrara



La conferenza, dal titolo “Exploring and Integratic Dialogues in Cat” ha accolto gli interventi di Terapeuti Cat e non solo, ha costituito una opportunità di apertura e di dialogo tra differenti approcci psicoterapeutici.

La conferenza si è aperta con workshop precongressuali volti a fare conoscere la terapia cognitiva analitica a un pubblico prevalentemente italiano e da una lettura magistrale del Prof. Mikael Leiman. 

Louise McCutcheon, Chair di ICATA (International Cognitive Analytic Therapy association) ha dato inizio ai lavori congressuali, ricordando come la terapia cognitiva analitica sia un modello profodamente relazionale, integrato e attento alle differenze culturali ed individuali, usato in molteplici setting e sottolineando quanto sia fondamentale l’approccio dialogico, tra le diverse forme di psicoterapia.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI

Imm. 1 – Immagine dalla conferenza di Ferrara

 

Imm. 2 – Immagine dalla conferenza di Ferrara

 

Imm. 3 – Immagine dalla conferenza di Ferrara

 

Imm. 4 – Immagine dalla conferenza di Ferrara

Sono stati molti i contributi arrivati da esponenti appartenenti ad orientamenti diversi, dalle neuroscienze al costruttivismo, agli approcci più integrati, unitamente ai workshop clinici, che sono stati occasioni di scambio, confronto e riflessione. Forse proprio da questi ultimi è emerso ancora di più come il modello cat possa costituire un importante framework all’interno del quale ciascun professionista può collocare il proprio bagaglio formativo e le proprie competenze, validando ancora di più quanto l’integrazione sia importante per i nostri pazienti ma anche per noi in quanto professionisti operanti nella salute mentale.

Working to become Dementia Friendly: a Catanzaro una rete amica delle persone con demenze

Progetto nato su proposta dell’associazione “Ra.Gi.” e approvato dalla Federazione Alzheimer Italia. Iniziativa simile al percorso avviato nel borgo di Cicala conosciuto a livello nazionale per la sua capacità di inclusione

 

Catanzaro, 14 giugno 2019 – Una rete di associazioni e scuole unite per diffondere in alleanza con il Comune buone pratiche a sostegno e per l’inclusione sociale delle persone con demenze guardando anche ai bisogni delle famiglie: succede in Calabria, nella città di Catanzaro.

L’iniziativa si chiama “Catanzaro centro storico comunità amica della demenza” ed è nata su proposta dell’associazione “Ra.Gi.”, organizzazione impegnata da oltre dieci anni nel prendersi cura delle persone con patologie neurodegenerative. Il progetto, cui è stata dedicata una conferenza stampa lunedì 17 giugno, alle ore 11,30, nel palazzo comunale di Catanzaro, sala concerti di Palazzo de Nobili, riguarda in particolare il centro storico del capoluogo calabrese ed è stato approvato dalla Federazione Alzheimer Italia.

Working to become Dementia Friendly Catanzaro Centro Storico 2019: questo il nome in inglese dell’iniziativa indicato nel logo del progetto, cui aderisce con delibera di giunta del marzo scorso anche l’amministrazione comunale della città: nello specifico, la giunta si impegna in collaborazione con la “Ra.Gi.” a coinvolgere il più possibile soggetti pubblici e privati per azioni di sensibilizzazione sul territorio.

Per il via libera al progetto, inoltre, la Federazione Alzheimer Italia ha tenuto conto di una serie di condizioni rappresentate ad esempio dalla sensibilità di associazioni e scuole aderenti al comitato promotore – tra queste il Forum del terzo settore e l’Arci – e create nel tempo dall’associazione “Ra.Gi.” presieduta da Elena Sodano. Un’associazione che l’anno scorso, a Cicala, paese della presila catanzarese, ha avviato un percorso simile a quello di Catanzaro. Con il risultato che oggi Cicala è conosciuto a livello nazionale come il “borgo amico delle demenze” perché qui, in adesione a un progetto di “Dementia Friendly Community” avallato sempre da Federazione Alzheimer Italia, le persone con demenze, supportate dalle operatrici e dagli operatori della “Ra.Gi.”, vanno a fare la spesa, comprano il pane, si recano dal fioraio, vivono la piazza, sono protagoniste di una comunità accogliente e formata sulla base di mirate campagne di sensibilizzazione.

Il progetto per Catanzaro e quello per Cicala sono in linea con l’approccio umanizzante seguito dalla “Ra.Gi.” sia sul piano sociale che terapeutico per superare lo stigma, la logica dei “ghetti” e la solitudine tante volte subita dai pazienti e dalle loro famiglie.

 

About us

La “Ra.Gi.” nasce nel 2002 per intervenire su diversi fronti del sociale. La presidente è Elena Sodano, laureata in psicologia, in lettere e filosofia a indirizzo Dams e in scienze e tecniche della comunicazione, e con una specializzazione in danzaterapia. L’associazione si specializza presto nel prendersi cura delle persone con demenze.  Nel 2008, infatti, dà vita nella città di Catanzaro al suo primo centro diurno per persone con Alzheimer, Parkinson e altre forme di demenze; mentre nel 2018 nasce il centro diurno “Antonio Doria” di Cicala, borgo della presila catanzarese: in entrambi i casi ci si basa sulla dimensione sociale, relazionale, del prendersi cura, aprendo alle comunità secondo logiche inclusive, oltre lo stigma e la rassegnazione. In linea con questo approccio nasce la “Terapia espressiva corporea integrata” (Teci) messa in piedi da Elena Sodano per agire sul piano affettivo-emozionale attraverso il contatto corporeo, dando centralità al corpo inteso come depositario di una memoria fatta di emozioni, di “ricordi” emozionali, che resistono a lungo nonostante la malattia. Una terapia da cui è nato anche un libro, “Il corpo nella demenza”, scritto da Elena Sodano per Maggioli Editore. Un metodo finalizzato a favorire il più possibile la qualità di vita, il benessere, il contenimento naturale, non farmacologico, delle demenze. La Teci viene anche insegnata nell’ambito di corsi di formazione curati da Sodano sia in Calabria che fuori regione.

Working to become Dementia Friendly Catanzaro Centro Storico 2019 Elena Sodano

Imm. 1 – ELENA SODANO, presidente della Ra.Gi.

Cos’è una comunità amica delle persone con demenza? Clicca qui per saperne di più

Per saperne di più sulla RaGi e su Elena Sodano clicca qui

Ulteriori informazioni sulla “Ra.Gi.” sul sito web dell’associazione: Associazione Ra.Gi

 

La dieta persona (2018) di Tiziana Stallone – Recensione del libro

La miglior dieta è quella che riusciamo a fare! Così la dott.ssa Tiziana Stallone, Biologa Nutrizionista, presenta nel suo libro La dieta persona la tipologia di “dieta” che risulta più efficace nel lungo termine.

 

Scegliere quello che ci piace di più e che si adatta maggiormente ai nostri ritmi, ci dà modo di essere più costanti, più stimolati a proseguire e mantenere il rispetto di un equilibrio, soprattutto senza percepire restrizioni, regole, divieti e imposizioni.

La dieta persona: i pricincipi

Il volume La dieta persona poggia su tre pilastri: la considerazione dello specifico individuo, nella sua unicità psico-fisica; lo sviluppo di autoconsapevolezza dei propri punti deboli (bisogni emozionali, fragilità) così come dei punti di forza; un approccio globale all’intero stile di vita. Non è infatti possibile concepire un mantenimento a lungo termine senza agire su vari fattori che si influenzano vicendevolmente. Ecco allora la rilevanza data agli aspetti di personalità, al bisogno di dimagrire ma anche alla necessità di condividere i pasti, la convivialità, e di adattarsi alla quotidianità lavorativa e familiare.

È importante “vedere” le persone, indossare i loro panni, trovare soluzioni per alleggerire la loro vita, anche attraverso la dieta.

È così che Tiziana Stallone esprimere il concetto di “personalizzazione” del regime alimentare.

La dott.ssa Stallone sottolinea inoltre un importante concetto di prevenzione e salute:

La dieta non si abbandona mai. Non esiste il periodo in cui si sta a dieta e quello in cui la dieta finisce. A dieta si rimane sempre, tutti i giorni, tutto l’anno, per tutti gli anni della nostra vita.

Quella che può apparire una brutta notizia, in realtà fa riferimento a un modo equilibrato di alimentarsi che può essere sostenuto nel lungo periodo, nutrendo il corpo (e la psiche!) di ciò di cui ha bisogno.

La dieta persona: alimentarsi con più consapevolezza

Il termine “dieta” non assume soltanto il più noto concetto di “restrizione alimentare” ma fa riferimento al “regime salutare” a cui tutti dovremmo attenerci per mantenerci sani, forti e attivi, a prescindere dalla necessità di perdere peso.

La Dieta Persona è una strategia e tecnica di dimagrimento (ma non solo, ricordiamo infatti che il principio basilare è quello di trovare un’alimentazione sana ed equilibrata che ci consenta di restare in salute) volta a sviluppare auto-consapevolezza e conoscenza. Per poter scegliere il programma alimentare più idoneo alla nostra persona è difatti cruciale studiare i meccanismi fisiologici, biologici e genetici su cui si fonda il nostro organismo, assieme a tutti i meccanismi che ne regolano il corretto funzionamento. Acquisire nozioni di base sugli aspetti ormonali e metabolici e sui processi di assimilazione dei nutrienti ci consente di effettuare scelte autonome e stabilire ciò che meglio si adatta ad ognuno di noi. Non è infatti sufficiente ragionare “per calorie”. A parità di assunzione calorica, potremmo aver introiettato cibi “poveri” di nutrienti e a rischio di innescare processi fisiologici negativi.

Non da meno è l’autoconsapevolezza rispetto alle proprie fragilità e vulnerabilità psicologiche: siamo dei mangiatori malinconici, per cui il cibo è una coccola e un sollievo dalle fatiche quotidiane? O apparteniamo al gruppo di chi non riesce a frenare l’istinto di aprire la credenza e divorare ciò che trova al rientro dal lavoro? O ancora, non riusciamo a negarci il piacere di una buona cena in piacevole compagnia?

Il volume La dieta persona ci porta alla scoperta del nostro rapporto con l’alimentazione, e a scoprirne i lati oscuri e gli errori in cui facilmente cadiamo. Vengono offerti spunti pratici sull’organizzazione di alcuni pasti e/o spuntini, ma in sostanza il testo non vuole direzionare verso la scelta di una dieta prestabilita e rigida, quanto piuttosto alla presa di coscienza che per stare bene occorre dedicare del tempo a noi stessi e assumerci ognuno le proprie responsabilità.

Complessivamente, l’idea espressa dalla dott.ssa Stallone appare molto simile ai concetti psicologici di mindfulness e mindful eating, in cui la consapevolezza è il perno su cui fa leva tutto il possibile cambiamento duraturo e profondo della persona.

La comunicazione sessuale nella coppia influenza positivamente il suo funzionamento sessuale

Una comunicazione sessuale efficace all’interno della coppia permette di discutere con il partner sia degli aspetti positivi che di quelli negativi della relazione sessuale. Questo tipo di autoapertura rende possibile una migliore conoscenza delle preferenze sessuali del partner, aumentando la probabilità di avere rapporti sessuali soddisfacenti e il senso di intimità.

 

La comunicazione sessuale risulta un elemento critico per lo sviluppo e il mantenimento di un sano funzionamento sessuale (Masters & Johnson, 1970).

Questo tipo di scambio comunicativo è caratterizzato da un’autoapertura rispetto alla sfera sessuale, la quale implica il parlare delle proprie preferenze sessuali e del desiderio di intraprendere determinate attività sessuali, come anche dei propri valori, delle proprie esperienze passate e dei propri atteggiamenti rispetto alla sessualità.

Comunicazione sessuale e Soddisfazione sessuale

In uno studio recentemente pubblicato su The Journal of Sex Research è stata evidenziata una relazione positiva tra comunicazione sessuale e soddisfazione sessuale, specialmente per le donne. Mallory e colleghi (2019) hanno infatti condotto la prima metanalisi in cui è stata esaminata nello specifico la relazione tra comunicazione sessuale e aspetti differenti del funzionamento sessuale, tra cui desiderio, eccitamento/funzione erettile, lubrificazione, orgasmo/eiaculazione e dolore, analizzando inoltre il ruolo di possibili elementi moderatori del campione, tra cui genere, età e status relazionale.

Nella metanalisi sono stati inclusi 48 studi condotti in nazioni differenti, per un totale di 12.145 partecipanti. I risultati ottenuti hanno consentito di rilevare come la comunicazione sessuale risulti positivamente associata a tutte le componenti del funzionamento sessuale prese in esame, nonché al funzionamento sessuale in generale.

E’ stata inoltre messa in luce una relazione specifica tra comunicazione sessuale e le componenti del desiderio e dell’orgasmo femminile, la quale è risultata maggiore rispetto a quella riscontrata nei partecipanti maschili. Infine, lo status relazionale della coppia è risultato un importante moderatore della relazione tra comunicazione sessuale e soddisfazione sessuale: è stata infatti riscontrata una relazione più forte tra queste due variabili negli studi in cui i partecipanti erano sposati rispetto a studi in cui i partecipanti riportavano di avere relazioni di altro tipo.

In conclusione

Le possibili implicazioni cliniche della metanalisi condotta da Mallory e colleghi (2019) potrebbero portare allo sviluppo o al miglioramento di interventi terapeutici informati volti al miglioramento del funzionamento sessuale nella coppia, i quali includano anche la componente della comunicazione sessuale.

Uno scambio comunicativo di buona qualità rispetto alla sfera sessuale permette infatti di discutere con il partner sia degli aspetti positivi che di quelli negativi della relazione sessuale. Questo tipo di autoapertura porta a una maggiore soddisfazione sessuale in quanto rende possibile da una parte una migliore conoscenza delle preferenze sessuali del partner, aumentando la probabilità della messa in atto di pratiche sessuali che lo soddisfino maggiormente, mentre dall’altra aumenta l’intimità di coppia e, di conseguenza, il benessere sessuale.

E’ quindi possibile affermare che il funzionamento e la soddisfazione sessuale sono entrambi direttamente influenzati dall’autoapertura rispetto a tematiche sessuali con il partner, la quale può avere a sua volta un effetto protettivo rispetto a possibili disfunzioni sessuali future.

Le demenze e il Morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer è la forma più diffusa di demenza neurodegenerativa e progressiva. I primi sintomi si manifestano nel corso della settima decade di vita, ma in alcuni casi l’esordio può avere inizio già durante la mezza età.

 

Con il termine demenza senile si indica una sindrome clinica, che colpisce soprattutto i soggetti anziani, che si manifesta con cali di funzione in vari domini cognitivi tra cui la memoria, il ragionamento, il criterio di giudizio, il linguaggio, abilità visuo-spaziali, attenzione, percezione e così via. Questi cambiamenti cognitivi possono essere anche associati a cambiamenti nel comportamento o nella personalità.

Il termine demenza racchiude un ampio spettro di gravità che va da una severa menomazione ad una live disabilità. Ci sono diversi sottotipi eziologici della demenza, tra cui si distinguono le demenze neurodegenerative, le demenze vascolari e le demenze miste.

  • Demenze neurodegenerative: sono caratterizzate da un aumento sproporzionato del processo di apoptosi cellulare (morte programmata della cellula). Tra le demenze neurodegenerative quella più frequente è la demenza di Alzheimer, la seconda in ordine di frequenza è la demenza di Lewy, mentre più rara è la demenza fronto-temporale.
  • Demenze vascolari: sono determinate dal ripetersi di “ictus”, cioè continue lesioni cerebrali che si verificano in seguito ad un’alterata circolazione sanguigna. Tra le cause più comuni di demenze vascolari ritroviamo il diabete, l’aumento della pressione arteriosa e alcune malattie sanguigne e cardiache.
  • Demenze miste: si verificano in seguito all’associazione di demenze vascolari e neurodegenerative.

Il morbo di Alzheimer

Nel 1907 Alois Alzheimer descrisse, per primo, un caso di demenza che oggi porta, appunto, il suo nome. Si trattava di una donna di mezza età che presentava disturbi di memoria e un indebolimento progressivo delle capacità cognitive.

Uno dei primi sintomi che la signora presentò fu la presenza di alcuni sospetti ingiustificati circa il comportamento del marito. Con il passare del tempo le sue capacità mnestiche divennero sempre più precarie, al punto che non riusciva più a orientarsi in casa, nascondeva oggetti nel suo appartamento e, a volte, credeva perfino che il marito volesse ammazzarla. La paziente fu in seguito ricoverata in un ospedale psichiatrico dove morì cinque anni dopo l’inizio della malattia.

All’autopsia, furono ritrovati nel cervello della paziente quelli che oggi vengono descritti come i principali fattori caratterizzanti il morbo di Alzheimer, vale a dire, ammassi neurofibrillari e placche senili localizzate nel neocortex e nell’ippocampo.

Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa cronica e progressiva che si osserva nelle persone anziane. Colpisce all’incirca il 7% di soggetti che hanno superato i 65 anni e circa il 40% di quelli che hanno superato gli 80 anni. Attualmente, negli Stati Uniti, cinque milioni di persone sono affette da questo tipo di demenza e nei prossimi 25 anni si ritiene che il numero di persone malate si triplicherà.

Annualmente i costi associati al disturbo di Alzheimer sono stimati tra i 105.2 miliardi e i 160 miliardi di euro in Europa e tra i 183 miliardi e i 385 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Pertanto, allo stato attuale, in ogni società il morbo di Alzheimer costituisce uno dei principali problemi della sanità pubblica.

Nella maggior parte dei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer, i primi sintomi si manifestano nel corso della settima decade di vita, ma in alcuni casi le prime manifestazioni del disturbo hanno inizio già durante la mezza età. L’esordio è abbastanza subdolo: i familiari notano dei cambiamenti ma, di solito, non li attribuiscono mai alla malattia bensì a stress e stanchezza e anche il malato, dal canto suo, non sembra essere consapevole che tali cambiamenti sottendono una malattia. I sintomi più comuni riguardano difetti di memoria. Il paziente tende, infatti, a ripetere spesso le stesse domande e sembra non ricordare eventi avvenuti di recente; alterazioni nel linguaggio, spesso tendono a perdere il “filo del discorso”; sono presenti difficoltà nella risoluzione di problemi e nell’esecuzione di calcoli e, a volte, anche incongruenze nel comportamento. In alcuni pazienti sono presenti anche sintomi psicotici sotto forma di allucinazioni o di percezioni illusive. Il malato, nel primo periodo di insorgenza, è ancora autonomo ma con il passare del tempo perde gran parte della sua indipendenza diventando incapace di svolgere le normali attività quotidiane e lavorative fino ad arrivare agli ultimi stadi della malattia in cui non parla più ed è costretto a letto. La morte sopraggiunge, solitamente, in seguito alla presenza concomitante di altre patologie.

Le regioni cerebrali coinvolte nella patogenesi del morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer è caratterizzato da varie alterazioni che coinvolgono i neuroni di specifiche regioni cerebrali, tra cui in particolare, l’ippocampo, il neocortex, l’area entorinale, l’amigdala, il nucleo basale, la porzione anteriore del talamo e nuclei monoaminergici del tronco encefalico. La distribuzione e la diffusione di queste alterazioni presentano diverse caratteristiche che sono specifiche per ogni neurone e quindi per ogni area cerebrale.

Si pensa che le alterazioni della corteccia entorinale, dell’ippocampo e di altri circuiti della corteccia mediotemporale siano determinanti nell’insorgenza dei deficit di memoria che caratterizzano questo tipo di demenza.

Problemi legati, invece, al comportamento e agli stati emozionali che si osservano in alcuni pazienti, sono probabilmente connessi ad alterazioni della corteccia limbica, dell’amigdala, del talamo e di vari sistemi monoaminergici del tronco dell’encefalo che proiettano alla corteccia dell’ippocampo.

Le alterazioni più comuni riscontrabili nel morbo di Alzheimer sono la presenza di placche senili (o neuritiche) e matasse neurofibrillari. Le regioni cerebrali colpite dal morbo di Alzheimer, infatti, contengono diverse placche senili in cui possiamo osservare depositi extracellulari di sostanza amiloide che sono a loro volta circondati da assoni distrofici, da astrociti e dagli elementi della microglia. Il costituente principale dell’amiloide è un peptide di 4 kDa, detto amiloide Aβ . L’amiloide Aβ deriva dall’idrolisi di una proteina precursore di maggiori dimensioni detta anche proteina precursore dell’amiloide (APP). Questo tipo di placche le ritroviamo anche nel cervello di persone anziane sane ma in numero più ridotto.

L’alterazione più comune del citoscheletro è caratterizzata, invece, dalla presenza di matasse neurofibrillari, costituite da fasci di filamenti elicoidali nei corpi cellulari e nella parte prossimale dei dendriti. Le prime matasse compaiono spesso nei neuroni della corteccia entorinale per poi estendersi a tutto il neocortex. La funzione del citoscheletro è quella di garantire il mantenimento strutturale dei neuroni e gli spostamenti degli organuli intracellulari e delle proteine, compreso anche il trasporto assonale. Pertanto, è probabile che le anomalie del citoscheletro ostacolino il trasporto assonale compromettendo così le funzioni sinaptiche e la vitalità stessa dei neuroni. Infine, le cellule colpite da queste alterazioni muoiono interrompe, ovviamente, anche l’arrivo delle informazioni sinaptiche alle regioni cerebrali la cui funzione è fondamentale per lo svolgimento delle normali attività cognitive e per la memoria.

Gli interventi di riabilitazione e training cognitivo nel morbo di Alzheimer

Anche se si dovessero trovare in breve tempo farmaci più efficaci per risolvere le lesioni di ordine neurocellulare, resta comunque di grande importanza provare e predisporre interventi assistenziali e riabilitativi sempre più efficaci, che oggi risultano l’unico baluardo possibile nei diversi momenti che la malattia struttura ed impone.

L’approccio riabilitativo mira al rallentamento del declino cognitivo, al controllo del comportamento-problema, all’orientamento delle funzioni e al miglioramento del rapporto soggettivo con la propria esistenza, inoltre ha il merito di aver dato un concreto aiuto ai caregivers e ai familiari.

Tra le tecniche applicate sinora, la più conosciuta è sicuramente la Reality Orientation Therapy (ROT), proposta come metodica cognitiva-comportamentale e come intervento riabilitativo psico-sociale rivolto alla persona. Questo metodo nasce negli Stati Uniti ad opera di Folsom (1958) per i veterani di guerra, come tecnica specifica riabilitativa in pazienti confusi e, solo più tardi, fu utilizzata per i pazienti con demenza. Il presupposto della sua utilizzazione è che il paziente abbia sufficienti capacità di comunicazione verbale e gestuale. Essa, pertanto, può essere proposta solo ai soggetti con un indebolimento cognitivo lieve o moderato e con funzioni sensoriali non compromesse in modo significativo. La ROT si basa infatti sull’ipotesi che la stimolazione neurosensoriale attivi connessioni nervose scarsamente utilizzate e/o ne favorisca lo sviluppo in una sorta di vicarianza funzionale. Fornendo punti di riferimento spaziali, relazionali e temporali, la ROT permette al paziente di riappropriarsi di quegli strumenti che gli consentono di ritrovare un rapporto con se stesso e con le dimensioni spazio-temporali. Sul piano operativo prevede: attività di orientamento temporale (vengono fornite informazioni sul tempo cronologico, stagionale e metereologico); attività di orientamento spaziale (viene richiamata l’attenzione sulla sede degli incontri, percorsi abituali e luoghi familiari); attività di riappropriazione corporea (si porta il paziente a focalizzare l’attenzione sul proprio corpo attraverso tecniche di toccamento e concentrazione); attività di stimolazione sensoriale (si riporta il soggetto, in modo progressivo, a contatto con l’ambiente circostante). Nella ROT ci sono due modalità di intervento: un metodo informale, in cui stimolazioni di orientamento temporo-spaziali vengono effettuale in contatto con operatori, assistenti e caregivers, ed un metodo formale (in classe), in cui il riorientamento si svolge insieme ad altri pazienti. Anche se questo metodo viene molto utilizzato per la sua facilità di applicazione va purtroppo sottolineato che i benefici della terapia della realtà sono assicurati solo nel momento in cui si protrae l’intervento, mentre non sono stati dimostrati effetti a lungo termine.

L’altra tecnica di intervento maggiormente utilizzata è il Memory Training. Prima di esporre in cosa consiste tale tecnica, occorre distinguere, nelle demenze, tra due tipi di perdita di memoria: quella semantica, che è precoce, e quella procedurale che, invece, viene persa solo nelle fasi più avanzate della malattia. Il Memory Training si inserisce tra gli interventi di tipo cognitivo e consiste nell’utilizzare strategie esterne per rendere le attività da svolgere meno dipendenti dalla memoria. L’intervento propone due obiettivi: migliorare la memoria procedurale del paziente coinvolgendolo nelle attività di base e strumentali della vita quotidiana e formare il familiare del paziente affinché possa apprendere le tecniche di stimolazione necessarie per poter proseguire l’intervento a casa. Diverse sono le attività svolte di Memory Training tra cui: attività di cura e igiene personale, attività di cucina, attività legate all’abbigliamento e attività legate alla comunicazione con l’ambiente esterno. Tuttavia, diversi studi hanno mostrato inconsistenti i risultati ottenuti con tali tecniche e hanno ribadito la loro applicabilità solo agli stadi iniziali della malattia.

Una figura fondamentale in questo tipo di malattia è sicuramente quella del caregiver proprio perché il paziente non essendo autosufficiente ha bisogno di assistenza 24 ore su 24. Il peso dell’assistenza ha portato a definire la malattia come una “malattia familiare” ( in senso sociologico). Alcuni dei problemi a cui i caregiver vanno incontro riguardano: modificazioni della routine familiare, modificazioni della qualità delle relazioni familiari, modificazioni delle relazioni sociali, diminuzione del tempo libero e dei tempi di riposo, difficoltà sul piano lavorativo. Importanti conseguenze, potrebbero “colpire” anche i figli dei caregiver che potrebbero sentirsi trascurati o essere coinvolti loro stessi nell’assistenza al malato e potrebbero, inoltre, emergere conflitti con gli altri membri della famiglia meno coinvolti nell’assistenza. Va sottolineato che l’attività di caregiving perdura per tutto il tempo della malattia e quindi sarebbe opportuno che la famiglia non venga lasciata sola e che chieda aiuto, laddove sia necessario, a strutture e figure più competenti.

Ballate per uomini e bestie di Vinicio Capossela, imperdibile album antropologico

Vinicio Capossela, non nuovo a mitologiche imprese musicali (si pensi al visionario viaggio di Marinai, profeti e balene), è riuscito con l’ultimo disco fresco di uscita Ballate per uomini e bestie, a rappresentare magistralmente ancora una volta l’umana esistenza, nelle sue miserie, contraddizioni e slanci eroici, grazie a una serie di geniali metafore e allegorie..

 

Non sono solito recensire CD, ma in questi tempi di musica liquida usufruibile ovunque, di canzoni fast-food e di sovrabbondanza musicale di ogni genere, trovare qualcosa che si abbia voglia di ascoltare e riascoltare, addirittura approfondire, che ti incuriosisca a tal punto da cercare le fonti bibliografiche che l’hanno ispirato, che soprattutto ti faccia pensare e ripensare.. farò un’eccezione.

Vinicio Capossela, non nuovo a mitologiche imprese musicali (si pensi al visionario viaggio di Marinai, profeti e balene), è riuscito con l’ultimo disco fresco di uscita Ballate per uomini e bestie, a rappresentare magistralmente ancora una volta l’umana esistenza, nelle sue miserie, contraddizioni e slanci eroici, grazie a una serie di geniali metafore e allegorie.

Ballate per uomini e bestie: la condizione umana odierna secondo Vinicio Capossela

La condizione umana è rappresentata a partire dal concetto stesso dell’album, dove gli animali non solo rappresentano le parti più istintive dell’uomo, ma anche vizi e virtù come la lentezza (la lumaca), la leggerezza innocente (la giraffa), il trasformismo e l’opportunismo (il lupo mannaro), la sottomissione (l’orso ammaestrato). Vengono in mente le favole di Esopo dove le caratterizzazioni degli animali veicolavano messaggi di saggezza, ma anche le stupende canzoni per bambini di Bruno Lauzi (La tartaruga), anche se il livello espressivo sia in ambito testuale che di arrangiamenti è di ordine ancora superiore alla migliore tradizione cantautorale italiana. Canzoni non convenzionali per quanto riguarda la struttura, assolutamente lontane da logiche commerciali, lunghissime di sei-sette minuti, come dei cortometraggi musicali, che il Nostro ha raccontato di aver composto in sette anni e di aver registrato in un anno (tempi lunghissimi per i ritmi produttivi musicali attuali, ma la differenza si sente eccome…). Complessità che però si gode senza pesantezza, canzoni che ti tengono con l’orecchio incollato alla cassa dall’inizio alla fine, altamente perturbanti.

L’apertura del disco Ballate per uomini e bestie è con Uro (diventata al primo ascolto canzone preferita di mia figlia di cinque anni e mezzo e ormai mia condanna sonora nei viaggi in macchina), animale rupestre delle grotte di Lescaux di ventimila anni fa.

La nuova peste: internet addiction e altri mali odierni

Poi arriva La nuova peste, la prima metafora a mio avviso fortissima, della rete e del web come pandemia. Artaud parlava della “meravigliosa peste” che non guarda in faccia nessuno e che crea quella situazione di panico del “si salvi chi può”.  Vinicio Capossela pare un uomo d’altri tempi (a partire dal look), ma da persona intelligente qual è, non critica in modo oscurantista internet, ma punta il dito sul suo utilizzo indiscriminato, privo di regole, che può ferire chiunque nella più completa impunità, complice anche lo strumento perverso e virale dello “screenshot”. Così usando anche un po’ di ironia (Let’s tweet again…) arriva a denunciare il fenomeno del revenge-porn di cui è stata (non unica) vittima Tiziana Cantone, a cui è appunto dedicato il brano. Non mancano, nel brano di Ballate per uomini e bestie, i riferimenti ai nuovi monatti (Zuckemberg e compagnia bella?, certi influencer?), che speculano cinicamente sull’epidemia. L’argomento è più attuale che mai in quanto recentemente si parla moltissimo di internet addiction e alcuni studi hanno mostrato come studenti dei college americani arrivino a trascorrere fino a sei o otto ore al giorno di fronte allo smartphone o al computer. L’abilità assoluta del Nostro è quella di recuperare il mito, il racconto senza tempo e di renderlo attuale, modernizzarlo affinchè divenga occasione di riflessione collettiva. Anche perché certi mali che affliggono l’uomo cambiano nella forma ma non nel contenuto originario, anche se ogni epoca ha il suo male prevalente (nella nostra sicuramente prevale la difficoltà a darsi limiti accettabili, rispetto alla frustrazione di fronte ai divieti del secolo scorso).

L’estinzione di compassione ed empatia in Ballate per uomini e bestie

In questa operazione Vinicio Capossela recupera ad esempio una fiaba come I musicanti di Brema dei fratelli Grimm, i cui protagonisti possono essere traslati nel nostro mondo di esodati e precarietà, con una sottile critica al sistema consumismo dell’usa e getta, dove chi viene gettato, emarginato, non può fare altro che solidarizzare formando una band!

Una riflessione importante merita anche il rischio di estinzione dal nostro mondo di sentimenti importanti come la compassione, di cui si accenna nel brano Il Povero Cristo (da cui è stato tratto un bellissimo video girato a Riace). La canzone del disco Ballate per uomini e bestie descrive un Cristo sconsolato forse per il fatto che il motto “ama il prossimo tuo come te stesso”, sia stato sostituito da “prima se stessi”, poi eventualmente gli altri (quando va bene…). Sempre in ambito spirituale c’è spazio per le tentazioni di Sant’Antonio e per il discorso sulla Perfetta Letizia di San Francesco (il Santo che parlava con gli animali) messo in musica. La frequentazione caposseliana del sacro (seppure ben compensata da giuste quote di profano) è autentica, spirituale, ben lontana da altri usi strumentali del crocefisso che purtroppo ci è toccato vedere negli ultimi mesi.

Non manca una bellissima citazione di Oscar Wilde, La ballata del carcere di Reading, che ha a che fare con il bisogno di distruggere le cose che amiamo.

Vinicio Capossela ormai non è solo un musicista o un cantautore, ma un antropologo musicale che usa la canzone come strumento di ricerca. Tantissima roba…chapeau Vinicio!

 

Un luogo (stabile) per il pregiudizio

I nostri pregiudizi razziali sono frutto di atteggiamenti radicati in noi in anni e anni di esposizione a opinioni pregiudizievoli della società nella quale viviamo o sono semplici credenze che, sporadicamente e temporaneamente, si attivano e occupano la nostra mente influenzando le nostre valutazioni lasciandoci più esposti e vulnerabili alla discriminazione?

 

I pregiudizi sono considerati degli atteggiamenti di natura ostile e discriminatoria, semplicistici e spesso infondati, automatici, frutto di processi di pensiero rigidi e che tendono alla generalizzazione, che si formano all’interno di un gruppo sociale sia esso la famiglia, il gruppo amicale, la società (Fazio & Olson, 2003).

Dato il loro impatto significativo sui problemi di convivenza, quando differenti gruppi umani si trovano a dover co-abitare e ad interagire all’interno dello stesso ambiente, i pregiudizi sono stati oggetto di numerosi studi e teorie volte soprattutto a comprenderne la natura e la stabilità nel corso del tempo.

Come mai i pregiudizi razziali sono stabili nel tempo?

Attorno agli inizi degli anni 90’, le prime teorie sul pregiudizio assumevano e sottolineavano il suo carattere stabile nel tempo, rigido e non modificabile (Devine, 1989), mentre le teorie degli ultimi decenni, come quella di Lai, Hoffman & Nosek, (2013) ne affermano il carattere implicito ma più malleabile soprattutto se la persona viene sottoposta a diversi interventi come lo spostamento dell’attenzione o l’imagery mentale per ridurne l’impatto sui processi decisionali individuali.

L’evidenza più forte di questo dato di stabilità nel tempo dei pregiudizi razziali è stata mostrata dallo studio sperimentale e longitudinale di Lai e colleghi (2016), il quale prendeva in esame nove interventi aventi come obiettivo la riduzione di pregiudizi razziali impliciti, su una popolazione di studenti universitari dispersi geograficamente in vari campus in tutto il territorio americano. Lo studio in questione includeva tre fasi: una di pretest in cui venivano misurati i punteggi relativi alla presenza e all’intensità di pregiudizi razziali impliciti, una di intervento e una di post intervento con successivo follow-up a pochi giorni.

I risultati ottenuti hanno evidenziato come tutti i nove interventi volti alla riduzione dei pregiudizi razziali negli studenti fossero efficaci solo nella fase immediatamente successiva all’intervento, mentre tendevano a non persistere nella fase di follow-up.

Tali conclusioni hanno indotto i ricercatori a ritenere che questi bias razziali fossero estremamente persistenti nel tempo e rigidi anche a fronte di dati empirici che al contrario ne verificassero la pertinenza e la coerenza, come se gli individui ostinatamente, anche dopo vari interventi che ne mettessero in dubbio la loro fondatezza, tornassero di nuovo in linea con il loro pensiero pregiudizievole (Lai, Skinner, Cooley et al., 2016).

A tal proposito, il nuovo articolo di Vuletich e Payne, del dipartimento di psicologia e neuroscienze dell’University of North Carolina at Chapel Hill, suggerisce un’interpretazione alternativa ai risultati ottenuti da Lai e colleghi (2016). A loro parere infatti l’inefficacia degli interventi, riscontrata nei punteggi dei follow-up, anziché essere determinata dalla rigida consistenza e persistenza dei pregiudizi razziali a livello individuale, potrebbe essere in realtà frutto di una stabilità relativa al contesto sociale nel quale gli individui sono inseriti e non al pregiudizio in sé.

In linea con il modello del “bias della folla” di Payne, Vuletich & Lundberg (2017), Vuletich e Payne ritengono che i pregiudizi siano generati da una più facile accessibilità cognitiva a concetti legati a categorie di stereotipi sociali tale per cui le persone tendono a recuperare ed utilizzare queste categorie con una maggiore probabilità nel momento in cui processano implicitamente una certa tipologia di informazioni quando si trovano all’interno di uno specifico aggregato sociale.

Pertanto, la chiave di volta per la lettura e l’interpretazione del pregiudizio risiederebbe in tale accessibilità che varia sistematicamente in funzione della situazione in cui la persona si trova anziché essere una caratteristica individuale e stabile della persona; tale lettura è ulteriormente sostenuta dal fatto che le misure prese in considerazione riguardanti i pregiudizi hanno mostrato una loro propensione all’instabilità e alla transitorietà oltre che una bassa correlazione con misure di differenze individuali (Cameron, Brown-Iannuzzi & Payne, 2012)

L’accessibilità di un contenuto è influenzata da numerosi fattori, quali la presenza di stereotipi sociali condivisi, l’esposizione mediatica e anche il fenomeno della cosiddetta “saggezza della folla”, quello per cui le conoscenze parziali di ciascun individuo, costituente il gruppo, si aggregano con quelle di altri, dando origine ad una stima, una valutazione più stabile e accurata delle parti che la compongono. Tale stima costituisce la media del livello degli stereotipi culturali e delle iniquità strutturali degli individui facenti parte quel contesto (Payne, Vuletich & Lundberg, 2017).

L’influenza del contesto sociale e culturale sui pregiudizi

In questa nuova cornice teorica, lo studio di Vuletich e Payne (2019), ri-analizzando i dati ottenuti da Lai, Skinner, Cooley e colleghi (2016), ha voluto indagare l’influenza del contesto sociale e culturale dei campus universitari, geograficamente disposti in diversi stati degli Stati Uniti d’America, sulla stabilità degli stereotipi collettivi presenti nei punteggi individuali degli studenti riguardanti il pregiudizio razziale, considerando le ineguaglianze strutturali come potenziali fonti stabili di pregiudizi, ineguaglianze plausibilmente riscontrate in alcuni monumenti con evidenti segni storici di razzismo, nella minoranze razziali presenti nei vari campus e infine nella percentuale di studenti appartenenti alle fasce di reddito più basse.

Le analisi di Vuletich hanno suggerito come a livello individuale il pregiudizio non sia affatto un’attitudine o proprietà stabile e immutabile nel tempo come ipotizzato in precedenza, ma sia piuttosto un fenomeno sociale che come un’onda talvolta travolge gli individui aggregati in un gruppo e pertanto è passibile di cambiamento ogni qualvolta la persona si trova ad abitare un contesto con norme e condotte sociali differenti.

Tali analisi infatti, nel passaggio dalla fase di pre-test a quella post intervento, hanno riscontrato una leggera stabilità nel tempo dei punteggi individuali suggerendo come, a seguito degli interventi di riduzione del pregiudizio, i giudizi individuali si siano in parte modificati sebbene non in modo sistematico o significativo.

Ciò che invece è apparsa da subito significativa è stata la differenza tra i punteggi ottenuti dagli studenti presi nella loro individualità e quelli ottenuti considerandoli come unico corpo, gruppo aggregato e compatto, all’interno di ciascun campus universitario, differenza che si è mostrata in linea con il modello del bias collettivo preso come riferimento teorico dagli autori dello studio (Vuletich & Payne, 2019).

In conclusione

A parere degli autori, alcuni contesti sembrerebbero predisporre e incoraggiare maggiormente l’individuo a formulare pensieri o idee discriminatori, indipendentemente dai suoi peculiari processi decisionali e pertanto la soluzione o meglio l’opportunità di cambiare in modo sistematico e duraturo certi atteggiamenti di pensiero, spesso inconsapevoli, risiederebbe negli ambienti di vita anziché nella mera modifica dei singoli processi di pensiero, tramite la correzione di quegli elementi associati all’ineguaglianza strutturale che rendono maggiormente accessibile un contenuto ostile o discriminatorio.

Ben lontani dal considerarli stabili e immutabili, i ricercatori terminano lo studio con una metafora: a livello individuale potremmo considerare i pregiudizi simili al tempo meteorologico, in cui per avere una condizione diversa basta semplicemente aspettare qualche giorno per avere degli effetti diversi sebbene più labili e temporanei. Al contrario, ad un livello più contestuale, si potrebbero assimilare al clima, nel quale i processi di cambiamento sono più lenti ed impegnativi ma i suoi effetti appaiono ben più incisivi e persistenti.

Il trattamento dei disturbi di personalità con la Terapia Metacognitiva Interpersonale – Report dal convegno

Quando si partecipa ad una giornata di formazione targata TMI, c’è la consapevolezza di tornare a casa più ricchi di quanto si è partiti.

 

E quando tra i relatori si leggono nomi come Dimaggio, Gazzillo, Salvatore, sappiamo che saranno davvero tante le cose che porteremo a casa.

L’evento dello scorso 14 giugno si apre con Raffaele Popolo che saluta, introduce i lavori e presenta Carmelo La Mela che ci parla dei Sistemi Motivazionali e ci fa pensare a quel famoso bisogno o desiderio (wish, nella lingua della TMI) che apre le danze delle nostre interazioni interpersonali.

Control Master Theory e farmacologia al convegno

Cooperazione, autonomia, rango sociale, attaccamento sono solo alcune delle motivazioni umane. Molto interessante la considerazione secondo cui ogni SMI ha un proprio scopo in termini evolutivi, emozioni che ne rappresentano l’attivazione o la disattivazione e una strategia che si traduce nel sistema operativo interno che coordina tutta l’esperienza. Segue Francesco Gazzillo, stimolante come sempre. Ascolto uno degli episodi clinici che condivide con noi e non ho potuto fare a meno di rappresentarmi quell’attimo, tra lui e quella precisa paziente, come ricco di significati.

Gazzillo descrive i test secondo il modello della Control Mastery Theory ed apre un mondo di considerazioni sulla relazione tra paziente e terapeuta. Più tardi risponderà ad un intervento in cui dirà come “essere sè stessi è la condizione principale della terapia”. In effetti i test, che hanno l’obiettivo di disconfermare le credenze patogene, anche se in parte esse risultano essere adattive in considerazione delle circostanze in cui si sono create, possono essere di diversi tipi: test di transfert, associati a compiacenza o ribellione, test di capovolgimento da passivo in attivo e test osservativi. L’importanza del test sta nel fatto che, se il terapeuta riesce a superarlo, il paziente si sente maggiormente ingaggiato nella terapia e si impegna in operazioni pro plan. In tal senso, sostenere un test richiede apertura, autenticità e capacità di sintonizzazione.

La prima sessione si conclude con Iazzetta e la riflessione sul trattamento farmacologico nei disturbi di personalità, osservando come ogni meccanismo d’azione del singolo farmaco, in base al proprio principio di base, può avere degli effetti su più fattori che, interagendo tra loro, giustificano la patologia. Per il cambiamento è indispensabile la combinazione tra trattamento farmacologico e psicoterapia in alcuni casi. Questo dato è supportato dall’evidenza che il disturbo di personalità rappresenta un funzionamento complesso che chiama in gioco vari livelli della persona, in linea con il nuovo modello interpretativo del DSM 5.

Break, saluti, incontri con colleghi e amici e poi si riprendono i lavori.

Embodied Cognition, tecniche esperienziali e rescripting

Giancarlo Dimaggio, con il suo intervento, ci introduce le tecniche esperienziali ed i rescrpiting, un lavoro che va ben più in là del livello cognitivo. Ormai è cosa ben nota che, oltre alla rappresentazione cognitiva degli schemi, vi è quella procedurale, emotiva, incarnata che, assieme a quella immaginativa, giustificano la necessità di un intervento terapeutico che risponde a tale dinamicità, in direzione della zona di sviluppo prossimale. Ecco che allora comprendiamo meglio le tecniche immaginative e corporee, presentate da Antonella Centonze. La mente accede alle immagini mentali e le rielabora. In tal senso il terapeuta riattiva la scena nella mente del paziente e ne riscrive la componente incarnata. Nel fare questo è come se il corpo si attivasse in direzione del proprio wish, modificando la parte somatica e motoria dello schema. Solo successivamente ci può essere uno spazio per un’argomentazione a livello cognitivo: il lavoro bottom-up non ha urgenza di un pensiero troppo ragionato! A tal proposito le tecniche descritte da Antonella, con tanto di teoria che ne giustifica l’impiego (ad esempio Embodied Cognition e studi sul sistema mirror), ci vengono in aiuto nel comprendere prima la bidirezionalità che esiste tra corpo e mente e, successivamente, nel pianificare un intervento che modifichi l’assetto scheletrico e muscolare delle nostre azioni.

Grazie all’azione sul corpo possiamo fare varie cose: modificare aspetti procedurali, regolare l’arousal, identificare segnali enterocettivi, promuovere il cambiamento e molto altro. Basti pensare a quello che succede assumendo una posizione di forza o di espansione. Riceviamo una dimostrazione in real time quando Dimaggio racconta di un caso clinico e di come l’assumere una certa posizione abbia aiutato il paziente. Il modo migliore per descrivere la posizione è quella di ricordare il Re della Notte quando risveglia il suo esercito di Estranei e di non-morti nel Trono di Spade. Giancarlo Dimaggio la mima davvero e, nello stesso momento in cui la stava rappresentando, avevamo già costruito una nuova immagine nella nostra mente: “Dimaggio- The Night King”, pelle d’oca, freddo intorno, Estranei ovunque con occhi scintillanti, corpo che si prepara all’azione. Epico, un momento epico, da scrivere nelle cronache del ghiaccio e del fuoco…ehm, no, meglio nelle cronache della TMI. Quasi quasi dispiace un po’ per i non-nerd di Games of Thrones!

Quello che emerge da questa sessione è la necessità di una strutturazione dell’intervento che, in linea con l’albero decisionale, favorisce un cambiamento a partire da una solida formulazione del caso ed utilizzando le tecniche immaginative, corporee, esperienziali che spingono il paziente oltre il limite che lo schema definisce, avendo sempre l’occhio attento alla relazione terapeutica. A tal proposito Dimaggio chiarisce come, fondamentalmente, la terapia abbia lo scopo di costruire nuove rappresentazioni del mondo, di sé stessi e degli altri; per fare questo riattivare immagini mentali che condensano la patologia dello schema è il primo step utile per accedere alla fase di riscrittura corporea ed immaginativa, attraverso la quale affiorano stralci di parti sane, ci si muove verso la realizzazione del wish, sfidando anche i coping disfunzionali. Nel fare tutto questo è impensabile perdere di vista i correlati corporei ed emotivi: solo dopo che il corpo prova a compiere azioni diverse dal solito copione dettato dallo schema (e lo si fa prima in immaginazione, appunto), ci si può focalizzare su come ci si sente in nuovi vesti, con nuove possibilità di azione, più in là della rappresentazione procedurale.

Il pranzo, per quanto relativamente poco rilevante rispetto allo spessore del convegno, in realtà ha facilitato lo slittamento su un piano in cui abbiamo potuto sperimentare dei sistemi motivazionali molto forti: affiliazione, cooperazione, gioco sociale. Sono certa che tra i tavoli si sia attivato, per qualcuno, anche quello sessuale!

Regolazione emotiva e relazione terapeutica

La sessione pomeridiana vede Paolo Ottavi e Giampaolo Salvatore impegnati negli interventi sulle tecniche attentive per l’autoregolazione emotiva e sulla relazione terapeutica. Le strategie di coping disfunzionali costringono a mettere in atto dei tentativi per gestire il dolore schema collegato; tra di essi quelli perseverativi cognitivi che, nei disturbi di personalità, hanno un contenuto relazionale e costringono letteralmente l’attenzione a restare ancorata all’evento. Le tecniche di dislocazione dell’attenzione consentono di ri-direzionare la focalizzazione, di promuovere stati mentali funzionali, di ancorarsi al corpo e di regolarsi attivamente, favorendo così l’agency. Esistono varie modalità di intervento applicabili in seduta e fuori di essa; Ottavi ce le ha presentate al termine della sua sessione ma le ritroviamo descritte, insieme alle tecniche immaginative, drammaturgiche e corporee, nel manuale recentemente pubblicato “Corpo, immaginazione e cambiamento” (Dimaggio et al., 2019). Salvatore, invece, grazie alle video registrazioni di sue sedute, ci indirizza nell’universo della sintonizzazione emotiva e della regolazione del terapeuta focalizzando l’attenzione sulla necessità, più che possibilità, di coltivare un atteggiamento di curiosità costante verso il proprio mondo interno. È un lavoro sia top down, individuando pensieri ed emozioni nel vivo dell’interazione con il paziente, sia bottom up ascoltando tutto quello che sentiamo a livello somatico e viscerale in quanto, entrambi gli aspetti, ci fanno comprendere cosa ci stiamo rappresentando in quel momento per poterlo regolare, evitando la messa in atto di azioni anti-terapeutiche. Infatti è proprio attraverso dei frame dei suoi video che abbiamo potuto soffermarci sui markers non verbali, fondamentali perché segnalano eventuali rotture da riparare quanto prima. L’attenzione alla relazione permette di accedere ai contenuti rilevanti, ad aspetti impliciti del funzionamento del paziente e ci consente, trasversalmente, di muoverci all’interno della procedura decisionale d’intervento, decidendo quando e quale tecnica adottare. Da sfondo a tutto questo vi è la considerazione che, ancor prima delle parole, il paziente percepisce lo stato interno del terapeuta e la sua mente regolata: sarà questo a far sentire il paziente al sicuro, facilitando una rappresentazione sempre presente della relazione terapeutica della sua mente, a cui far ricorso all’occorrenza.

Possibili approfondimenti

Per quanto chi mastica TMI si aggiorni continuamente e conosca alcune tematiche di fondo, in questa giornata si è andati oltre. Basti pensare alla varietà di relatori: in casa TMI hanno messo piede uno psicoanalista, un fenomenologo ed in platea son più che certa che vi fossero colleghi di diversi orientamenti. Ciò che accomuna tante teste in una unica stanza non può essere solo l’aria condizionata in piena estate e neppure il caffè delle 11:00; ciò che avvicina è la necessità di integrare sapere e conoscenza in una prassi teorica e terapeutica in grado di rispondere efficacemente alla complessità dell’essere umano. In tal senso, anche l’utilizzo di una metodologia che integra un lavoro bottom up in modo massiccio trova la sua dimensione nella psicoterapia moderna.

Torno a casa con mille domande: i test per la CMT sono la stessa cosa dei coping per la TMI? Le tecniche attentive bypassano il wish, focalizzandosi sul processo e non sul contenuto della ruminazione? Riuscirò mai ad avere l’occhio allenato a riconoscere e riparare le rotture dell’alleanza in real time? Saprò accompagnare il paziente nei suoi viaggi sul corpo? Intanto che rispondo a queste domande, saluto Roma ed i miei amici con un aperitivo a Piazza del Risorgimento.

Pedofilia femminile: quando la donna abusa di un minore

Pedofilia femminile: non se ne parla ma esiste. Parlare di donne pedofile non è né comune né semplice; infatti, nell’immaginario collettivo, al termine pedofilia si associa automaticamente la figura di un uomo: giovane, di mezza età o anziano ma pur sempre di sesso maschile.

Giorgio Cornacchia – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

In realtà i comportamenti pedofilici sono presenti sia negli uomini che nelle donne. Il termine “pedofilia” inizia ad esser preso in considerazione in ambito psichiatrico nel 1905 su proposta dello psichiatra svizzero Auguste Forel; solo successivamente, nel 1935, è stato inserito per la prima volta nel vocabolario della lingua italiana. Deriva dal greco paìs-paidòs, “del bambino” e filìa, “amore” (Quattrini, 2015). La pedofilia, generalmente, è definita come un desiderio sessuale da parte di un adulto per i bambini e come il desiderio espresso di una gratificazione sessuale immatura con un bambino in età prepubere (Sims, Oyebode, 2009).

Pedofilia: cos’è e come si distingue dagli altri disturbi sessuali

La pedofilia risulta una delle parafilie più studiate e diverse sono state, nel corso del tempo, le interpretazioni a riguardo. Nel 1952 la prima versione del DSM (Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorder), uno degli strumenti diagnostici maggiormente utilizzato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, colloca la pedofilia nel capitolo dedicato alla sessualità patologica e viene descritta come una grave deviazione sessuale. Nel DSM II (1968) la classificazione rimane la stessa ma perde la connotazione di disturbo sociopatico, sostituita da quella di disturbo mentale non psicotico. Il DSM III (1980) e il DSM III – R (1987) inseriscono la pedofilia nel novero delle parafilie; nel DSM IV (1994) e nella successiva edizione rivisitata (DSM IV – TR, 2000) la pedofilia rientra come parafilia tra i Disturbi Sessuali e dell’Identità di Genere.

Il DSM 5 (2013) apporta, invece, notevoli modifiche per quanto riguarda i Disturbi Sessuali che non vengono presentati più come un’unica categoria diagnostica ma che vengono distinti in Disforie di Genere, Disturbi Parafilici e Disfunzioni Sessuali. All’interno della macrocategoria che tratta i disturbi parafilici troviamo, tra gli altri, anche il Disturbo Pedofilico (F65.4). I criteri diagnostici per questo disturbo sono:

  • A – Eccitazione sessuale ricorrente e intensa, manifestata attraverso fantasie, desideri o comportamenti, per un periodo di almeno 6 mesi, che comportano attività sessuale con un bambino in età prepuberale o con bambini (in genere sotto i 13 anni di età).
  • B – L’individuo ha messo in atto questi desideri sessuali, oppure i desideri o le fantasie sessuali causano marcato disagio o difficoltà interpersonali.
  • C – L’individuo ha almeno 16 anni di età ed è di almeno 5 anni maggiore del bambino o dei bambini di cui al Criterio A.

nota: non comprende un individuo in tarda adolescenza coinvolto in una relazione sessuale con un individuo di 12-13 anni.

Bisogna poi specificare: se il pedofilo è di tipo esclusivo quindi attratto solo da bambini o se è di tipo non esclusivo; se il pedofilo è attratto sessualmente da maschi, attratto sessualmente da femmine o se è attratto sessualmente da entrambi; se il comportamento sessuale di tipo pedofilico è limitato all’incesto (American Psychiatric Association, 2014).

Pedofilia femminile: recentemente sotto l’occhio di clinici e ricercatori

Sebbene le donne siano state a lungo considerate come autrici di reato nei casi di abuso fisico infantile, è solo da qualche anno che i clinici e i ricercatori hanno iniziato a considerare il problema delle donne che abusano sessualmente i bambini (Alana, Grayston e Rayleen, De Luca, 1999). Parlare di pedofilia femminile è tutt’altro che semplice anche perché alla donna viene associato l’istinto di maternità che esclude a priori l’idea dell’abuso sui bambini (Petrone, Troiano, 2010). Al contrario di quanto si è portati a pensare, la pedofilia femminile sembra essere sempre esistita al pari di quella maschile e non deve essere considerata una novità dei tempi moderni (Costantini, Quattrini, 2011). Infatti, all’epoca dell’antica Grecia, la pederastia era una pratica consueta, accettata e in questo stesso contesto non erano rari i casi di pederastia femminile. Per esempio, infatti, la famosa poetessa Saffo vissuta nel VI secolo a.C., dirigeva nell’isola di Lesbo un tìaso, nel quale le bambine erano educate a diventare donne apprendendo le arti e le scienze, la cura della persona e della casa, la danza e anche il piacere sessuale. Oltre a Lesbo, anche a Sparta e Mitilene donne adulte avevano amanti adolescenti ed era comune avere rapporti sessuali con loro, seppur limitati da severe normative a tutela del paìs, al fine della “preparazione al matrimonio” (Petrone, Troiano, 2010).

Pensare che una donna possa mettere in atto atteggiamenti erotici nei confronti di un bambino è una realtà di cui ancora oggi non si vuol avere piena consapevolezza. Nell’immaginario collettivo, quando si parla di pedofilia, di violenza e abuso a danni di un minore, si pensa subito ad un soggetto di sesso maschile. Non viene presa in esame ed è considerata come inaccettabile, inammissibile e soprattutto impensabile la possibilità che sia una donna a perpetrare la violenza. Alla donna, solitamente, è associata l’idea di maternità e la madre è considerata come una figura protettiva e rassicurante; questa viene considerata esile fisicamente e pertanto non in grado di arrecare danno ad un minore. Alla sessualità femminile, inoltre, è stata a lungo attribuita una valenza di “passività” e non sono lontani gli anni in cui la donna era vista come priva di desideri sessuali. Immaginare una donna sessualmente attiva, riconoscere l’esistenza di “perversioni femminili”, immaginare che possa essere una madre ad abusare del proprio figlio, piuttosto che tutelarlo, è una realtà negata ancora oggi da gran parte dell’opinione pubblica.

Pedofilia femminile: tipologie

Stando alle statistiche basate sui dati che ufficialmente arrivano alla magistratura o ai servizi sociali, la pedofilia femminile è più rara di quella maschile, rappresenta all’incirca il 5/7% degli abusi. Se però diamo un’occhiata alle storie personali dei pedofili, scopriamo che il 78% dei maschi pedofili riferisce di essere stato abusato da una figura femminile, in particolare dalla madre (Petrone, Troiano, 2010). Probabilmente, il problema dell’incertezza inerente il numero reale dei casi è legato al ruolo della donna nella vita del bambino, generalmente deputata al suo accudimento e quindi con maggiori possibilità di confondere e nascondere il significato delle sue azioni. Non solo, nell’immaginario collettivo quando si parla di pedofilia automaticamente si associa la figura dell’uomo, del mostro tutto al maschile, possibilmente di mezza età o anziano e probabilmente con qualche patologia psico-comportamentale. Nessuno penserebbe mai che coloro che da secoli sono considerate le protettrici dell’infanzia in realtà possano mettere in atto comportamenti simili (Costantini, Quattrini, 2011).

Nel dettaglio, la pedofilia femminile può essere classificata in: intrafamiliare, extrafamiliare e pre-pedofilia.

Proprio come quella maschile, anche la pedofilia femminile si manifesta all’interno delle mura domestiche (intrafamiliare). In queste realtà, la struttura familiare spesso è disfunzionale, rigida e con ruoli inflessibili. La famiglia incestuosa è una famiglia all’interno della quale le distinzioni generazionali sono ignorate, la famiglia è chiusa su sé stessa, si ritiene autosufficiente e circonda con il segreto ogni azione che avviene al suo interno. Solitamente quando si parla di abuso sessuale intrafamiliare, si associa immediatamente l’idea dell’incesto tra un padre e una figlia e solo raramente si pensa all’incesto tra una madre e i propri figli. La madre incestuosa esiste, anche se è difficile scoprirla in quanto spesso usa forme che vengono camuffate da abituali gesti di accudimento. Pertanto i casi di incesto materno non escono quasi mai allo scoperto e quando questo succede godono di un diverso metodo di valutazione basato sulla credenza che la madre, che ha il compito di proteggere, stia semplicemente prolungando, forse in maniera insolita, ma non colpevole, il suo precedente ruolo protettivo.

Alcune madri credono che spetti a loro iniziare i minori alla sessualità, altre se ne innamorano e ne fanno dei “mariti”; queste madri non riescono a rispettare i diritti del bambino e approfittano della dipendenza affettiva che questi hanno nei loro confronti per trarne un vantaggio sessuale. L’incesto madre figlio/a non si accompagna solitamente ad atti di violenza; le sue manifestazioni si confondono e si mescolano con gli abituali gesti di accudimento e dal cosiddetto fenomeno del confidence power, cioè una strategia seduttiva che imbriglia la propria vittima sfruttando i suoi sentimenti di confusione, di obbedienza, di devozione e di fiducia.

Pedofilia femminile fuori dalla famiglia

La pedofilia femminile extrafamiliare, invece, è caratterizzata da forte desiderio di potere, dominio ed egoismo; tutte situazioni più cruente rispetto alla pedofilia che si consuma all’interno delle mura domestiche. Questa forma di pedofilia è legata spesso al turismo sessuale, mentre altre volte si concretizza in luoghi conosciuti molto bene dalla vittima come la scuola, l’oratorio o i centri sportivi. Queste figure femminili agiscono in maniera attenta, programmando ogni movimento e ragionando su ogni scelta, poiché temono fortemente che il minore sveli il loro agito. Pertanto possono ricorrere anche a modi violenti al fine di convincere la vittima che i giochi sessuali che è costretto a fare sono divertenti, sono un segreto e non devono assolutamente essere rivelati a nessuno.

Infine, con il termine pre-pedofilia, Petrone (2010) definisce una particolare condizione di abuso, quasi esclusivamente femminile, che si caratterizza per il ruolo svolto dalla donna; in particolare essa assume una posizione marginale e passiva nell’atto pedofilico, lasciando che sia l’uomo ad avere la parte attiva. La donna non mette in atto in prima persona comportamenti pedofilici ma resta comunque “complice” di coloro che invece abusano davvero del bambino. Questo “far finta di non vedere”, caratteristico della pre-pedofilia, è un’ulteriore violenza ai danni delle piccole vittime, abusate e non protette da coloro che invece dovrebbero amarle e tutelarle. Il tradimento avviene su tutti i fronti e le piccole coscienze distrutte e i piccoli corpi martoriati vengono lasciati soli a sé stessi. Queste donne, che se pure non hanno agito direttamente l’abuso, si sono macchiate dello stesso crimine perché, proprio come il loro compagno, non hanno considerato i bambini persone, li hanno ostacolati e menomati nello sviluppo fisico e psichico, li hanno piegati alle proprie ingiustificate e insane esigenze. La pre-pedofilia può avere manifestazioni differenti: può essere, infatti, mascherata e silenziosa come nel caso delle famiglie incestuose o più evidente come nel caso di madri che offrono i propri figli ai compagni pedofili oppure il caso delle madri che osservano in silenzio l’abuso del proprio figlio. (Petrone, Troiano, 2010).

Guidati, quindi, dallo stereotipo che attribuisce alla donna un ruolo passivo e debole, pensiamo che essa sia improntata ad una maggiore sensibilità e tenerezza, soprattutto per via di quell’istinto materno che la cultura le attribuisce. Come descritto nei passaggi precedenti, la realtà dei fatti ci mette dinanzi ad un femminile perverso e abusante, capace di azioni terribili nei confronti dei più piccoli, appropriandosi di quelle aberrazioni di cui si pensa sia capace solo l’uomo. La pedofilia, invece, è anche donna ed essa come quella maschile rappresenta sicuramente un evento sconvolgente e fortemente traumatico per chi lo subisce e le modalità con le quali esso viene perpetrato vanno ad influenzare la gravità delle conseguenze per la vittima.

Il sistema di accudimento: di cosa si tratta, quali sono le sue caratteristiche e come influenza il nostro comportamento?

Il sistema di accudimento ci guida nel fornire protezione e supporto ad altri individui che si trovano in uno stato di bisogno (Bowlby, 1982-1969).

 

Il sistema di accudimento si attiva quando si è in presenza di qualcuno che sperimenta sofferenza o necessita di cure e protezione (Canterberry & Gillath, 2012; Gillath et al., 2005b). Per questo motivo il sistema di accudimento è considerato complementare al sistema di attaccamento in quanto motiva le persone ad offrire aiuto, conforto e sostegno in risposta ai segnali generati dallo stato di bisogno di un’altra persona (Canterberry & Gillath, 2012, Karantzas & Simpson, 2015).

Le emozioni derivanti dall’attivazione di questo sistema sono ansia, compassione, tenerezza protettiva o colpa per il mancato accudimento. Il sistema si disattiva alla cessazione delle condizioni attivanti, quindi alla percezione di segnali di sollievo e sicurezza da parte dell’altro.

La relazione tra sistema di accudimento e sistema di attaccamento

Madre e bambino hanno entrambi un ruolo attivo nell’instaurare una relazione: essi sono alla costante ricerca di interazione, in particolar modo nelle prime fasi di sviluppo. Tale interazione è molto importante in quanto influenza lo sviluppo emotivo, cognitivo e quella che sarà la personalità adulta dell’infante. Come ogni altro tipo di interazione, le distinte attività dei partecipanti devono coordinarsi tra di loro ed è quindi necessario il contributo di entrambi per la buona realizzazione della stessa.

La relazione madre-figlio è essenziale dal punto di vista evolutivo in quanto salvaguarda la sopravvivenza del cucciolo e la conservazione della specie in generale per tutta la categoria dei mammiferi, ed è inoltre necessaria all’individuo umano in quanto struttura un pattern di relazione sociale che potrà essere adattato nelle fasi successive dello sviluppo nell’interazione con gli altri membri della stessa specie.

Entrambe le parti della diade nella relazione madre-figlio svolgono ruoli attivi nell’ambito della loro relazione. Studi recenti, hanno dimostrato la presenza di determinati meccanismi fisiologici che permettono al bambino di richiamare, in maniera quasi automatica, l’attenzione della madre (o caregiver) che a sua volta ha meccanismi fisiologici che, sempre automaticamente, le consentono di rispondere ai richiami e ai segnali del bambino.

Il bambino ha un ruolo attivo nell’instaurare una relazione grazie ad una dotazione genica, ovvero a schemi di comportamento innati, efficaci sin dalla nascita nel promuovere vicinanza e contatto con la madre. Data questa osservazione, l’attaccamento può essere considerato come una motivazione primaria del bambino, nonché un suo bisogno primario e non più una conseguenza del soddisfacimento di bisogni alimentari o fisici (Lis et al., 1999).

Anche la predisposizione all’ accudimento da parte degli adulti nei confronti dei bambini piccoli sarebbe legata a specifici patterns di attivazione cerebrale: recenti studi hanno dimostrato la presenza di meccanismi fisiologici innati, biologicamente basati, e reciproci che si attivano in maniera automatica nella madre, che risponde ai segnali del piccolo ma anche nel bambino che richiama la sua attenzione e vicinanza.

Nella specie umana, i bambini nascono in uno stadio di sviluppo meno avanzato rispetto ad altri animali, pertanto nei primissimi mesi, sono le madri a contribuire notevolmente a far sì che i piccoli rimangano vicini: siccome appunto il piccolo non è in grado di aggrapparsi, esse lo sorreggono offrendo in questo modo un contatto fisico, che fornisce a sua volta calore e affetto. Numerosi studi hanno evidenziato che questo contatto fisico (carezze, abbracci ect.) contribuisce, sin dalla nascita, allo sviluppo di attività come la respirazione, la vigilanza, le difese immunitarie, la socievolezza e il senso di sicurezza essenziali per un regolare sviluppo sessuale oltre che per la salute mentale del piccolo (Anzieu, 1985). Altro effetto sul funzionamento corporeo della relazione madre-figlio, dovuto al contatto fisico, è l’aspetto di termoregolazione: una madre riesce a mantenere la temperatura corporea del suo piccolo al pari di apparecchi da riscaldamento altamente tecnologici, nel momento in cui il figlio nudo ed asciutto viene posizionato pelle a pelle sul suo petto (Christensson, 1992).

Per quanto riguarda il bambino, seppur non abbia la capacità motoria di avvicinarsi alla madre o mantenersi presso di essa, viene al mondo dotato di numerosi strumenti che, fin dalla nascita, hanno la funzione di mostrare certi segnali differenziati che inducono in modo peculiare particolari tipi di risposta da parte di chi li cura: i più evidenti sono il pianto e il sorriso (Schaffer, 1998). Queste due forme di comportamento, che hanno l’effetto di far avvicinare la madre al bambino, vengono raggruppate da Bowlby, nella classe dei “comportamenti di segnalazione” in cui possiamo trovare anche altri comportamenti quali il richiamo e tutti i gesti classificabili come segnali sociali. Un episodio di pianto è uno stimolo in grado di attivare il Sistema Nervoso Centrale sia del bambino che lo produce sia dell’ascoltatore, creando uno stato di attenzione reciproca (Esposito e Venuti, 2009). Inoltre, rappresenta una ‘sirena biologica’ che, operando in larga misura come un rinforzo negativo (Barr et al.,2006; Soltis, 2004), riesce a modificare e attivare lo stato funzionale dei genitori, promuovendo prossimità e contatto con essi e in particolar modo con la madre, attivando il suo comportamento di accudimento (Bell and Ainsworth, 1972) e motivandola a rispondere prontamente e in maniera adeguata nutrendo il piccolo, proteggendolo o confortandolo (Venuti e Esposito, 2007).

La capacità materna di mettere in atto comportamenti di accudimento in risposta ai segnali del bambino promuove lo sviluppo della comunicazione: i bambini che piangono meno all’età di un anno, appunto grazie alla sensibilità delle loro madri, hanno maggiore probabilità di sviluppare altre strategie comunicative, quali ad esempio le espressioni facciali, gesti corporei e vocalizzazioni rispetto a quelli che piangono di più. Inoltre la reattività di un caregiver, svolge un ruolo importante nello sviluppo della personalità, temperamento e capacità cognitive e linguistiche del bambino (Esposito e Venuti, 2009).

E’ stato dimostrato che la risposta materna si attiva in maniera automatica e, per tale ragione, è possibile ipotizzare che l’evoluzione abbia permesso di sviluppare nelle donne, in particolare quelle in età fertile, particolari meccanismi fisiologici per percepire e rispondere appropriatamente al pianto.

Un recente studio ha evidenziato che nei padri che vedono i loro bambini in difficoltà, i livelli di testosterone si abbassano facendo risultare gli uomini, di fatto, maggiormente sensibili e pazienti: ne consegue uno stile di parenting associato ad un miglior sviluppo sociale, emotivo e cognitivo del bambino. Infatti, ridotti livelli di testosterone faciliterebbero l’ accudimento dei figli da parte del padre. Evolutivamente parlando, questo meccanismo sarebbe utile ad incrementare la risposta di accudimento del padre. Livelli di testosterone elevati, infatti, correlano con una maggiore propensione a mettere in atto comportamenti aggressivi, potenzialmente dannosi per l’incolumità fisica ma anche psicologica del bambino.

Come lo stile di attaccamento influenza l’ accudimento

Mikulincer e Shaver hanno suggerito che le differenze individuali nel sistema di accudimento possono anche essere concettualizzate come modelli di iperattivazione o disattivazione del sistema. Attraverso vari studi, hanno dimostrato che l’iperattivazione o la disattivazione del sistema di caregiving è associata a problemi nella regolazione di emozioni, impulsi e azioni dirette agli obiettivi e mette una persona a rischio di problemi emotivi e disadattamento (ad esempio, essere meno utili o mostrando minore cura e maggiore disagio nei vari contesti assistenziali).

Sebbene l’ accudimento e l’attaccamento siano sistemi comportamentali separati, e ogni sistema influisce sul comportamento in modo univoco, i due sistemi interagiscono nel modellare il comportamento delle persone ((Bowlby, 1969/1982; George & Solomon 2008; Mikulincer & Shaver, 2009).

Mentre esiste una tendenza naturale a fornire assistenza o dipendere dagli altri, l’interazione tra i due sistemi (Canterberry & Gillath, 2012; Gillath et al., 2005b) può far sì che le tendenze all’ accudimento vengano ignorate o soppresse dall’insicurezza degli attaccamenti (Kunce & Shaver, 1994). Pertanto, si ritiene che lo stile di attaccamento di una persona (cioè sicuro o insicuro) o di stato (significato di sicurezza o insicurezza) influenzi l’interazione tra i due sistemi comportamentali e i risultati di questa interazione (ad esempio, fornendo aiuto o meno).

L’interazione tra i due sistemi è ancora più complicata in quanto un caregiving (principalmente durante l’infanzia) può influenzare lo sviluppo dello stile di attaccamento. Pertanto, la cura sensibile e di supporto per i caregiver primari è probabile che si traduca in un attaccamento sicuro, che può facilitare la capacità di un individuo di mettere in atto un accudimento sensibilie e supportivo. Viceversa, scarsi sensibilità e supporto possono portare a uno stile di attaccamento insicuro, che è noto per essere associato a scarsa capacità di accudimento nell’età adulta. Come risultato, gli individui sviluppano un modello di comportamento che riflette la scarsa sensibilità del caregiving, imparando a fornire aiuto con una modalità distante e fredda, o controllante e invadente (Collins & Feeney, 2000; Kunce & Shaver, 1994). Nello specifico, l’attaccamento sicuro facilita uno stile di caregiving caratterizzato da elevata prossimità, sensibilità e reattività; uno stile di caregiving evitante invece predispone a un accudimento più controllato e distante caratterizzato da scarsa prossimità e sensibilità; e infine uno stile di caregiving ansioso è collegato a uno stile di accudimento compulsivo, invadente e incoerente, scarsamente sensibile al reale bisogno dell’altro. Ciò suggerisce un legame evolutivo tra attaccamento e caregiving (ad esempio, Kestenbaum et al., 1989).

L’ accudimento invertito

Nell’uomo, secondo Bowlby (1969, 1973, 1979, 1980, 1988), esiste una tendenza innata a ricercare la vicinanza con la figura d’attaccamento in situazioni di pericolo, stress e solitudine. Il comportamento d’attaccamento si attua come ricerca attiva della figura di riferimento che accudisce e protegge. Nel tempo le modalità con le quali si entra in relazione con le figure d’attaccamento, inizialmente la madre, si stabilizzano e tendono a generalizzarsi, formando schemi cognitivi interpersonali, che Bowlby chiama Modelli Operativi Interni (MOI). Queste rappresentazioni apprese di sé, della relazione con l’altro e delle figure d’attaccamento s’innestano sulle componenti innate del sistema e costituiscono una caratteristica individuale che modella le relazioni interpersonali, portando alla strutturazione di uno specifico stile di attaccamento: sicuro, insicuro evitante, ansioso-ambivalente, disorganizzato.

Nell’ accudimento invertito il sistema di attaccamento subisce una distorsione patologica: i ruoli della madre e del figlio si invertono ed è la madre che riceve cure e protezione dal figlio. L’ accudimento invertito è comune nei casi in cui uno o entrambi i genitori vivono condizioni di sofferenza psicologica tale da ridurre la capacità di prendersi cura dei figli, come può accadere nel disturbo depressivo, nel disturbo bipolare o nella dipendenza da sostanze. In questi casi il bambino si ritrova ad essere premuroso, eccessivamente responsabile e accudente nei confronti del genitore sofferente.

L’ accudimento invertito è quel tipo di accudimento che Bowlby aveva già descritto negli anni ’50, in cui il bambino si “genitorializza”, comprende quali sono i bisogni del genitore e realizza che andare incontro ad essi, prendendosi cura dell’altro, è l’unico modo per essere pensato dalla figura di attaccamento. Tuttavia il costo di tale strategia si presenta sempre, nel presente o nel futuro, poiché la rabbia, la paura, la tristezza, vengono dissociate o negate in nome di uno scopo più alto, la salvezza del legame di attaccamento. Questa forma di auto contenimento difensivo (Winnicot, 1988) fa affrontare ai bambini che l’hanno sperimentato tutte le emozioni più dolorose o difficili da soli e conferma che è bene non fidarsi degli altri.

La felicità di un bambino passa attraverso il soddisfacimento, fin dai primi anni, dei suoi bisogni emotivi primari, che vanno dall’amore incondizionato dei genitori al rispetto del suo essere, dal riconoscimento di chiare gerarchie familiari al supporto nell’esplorazione del mondo esterno, dalla protezione all’empatia.
Tutti questi bisogni sono di solito assicurati dai genitori e dai familiari più stretti che forniscono al bambino una “solidità” di base che lo aiuterà ad affrontare la vita ed il mondo circostante senza eccessive paure.

È evidente che nel fenomeno dell’ accudimento invertito questi aspetti vengono del tutto o in parte disattesi: i ruoli del genitore e del figlio si invertono e sarà il bambino a fornire cure e protezione al genitore più debole.

I bambini che sperimentano tale forma di accudimento sono spesso percepiti all’esterno come “mini-adulti”, molto responsabili e attenti ai bisogni dei genitori. Spesso non destano preoccupazione e apparentemente l’infanzia sembra procedere per il meglio; tuttavia, negli anni, potranno manifestarsi sintomi anche gravi di ansia e depressione. La forza di questi sintomi sarà direttamente proporzionale al periodo di accudimento invertito: più breve sarà e maggiori saranno le possibilità che il bambino torni a funzionare secondo le modalità tipiche della sua età cronologica; più lungo sarà il periodo e maggiore sarà la possibilità di uno sviluppo distorto della sua personalità.

Un bambino in questa condizione può pensare che raccontare le proprie emozioni possa ferire in qualche modo i genitori, in quanto è per lui chiaro quanto essi non sia in grado contenerle e si sente quindi costretto all’autosufficienza, all’autonomia forzata, illudendosi o costringendosi a pensare di non avere bisogno degli altri.

A questo senso di onnipotenza contrappone una rappresentazione dell’altro non necessariamente malvagio, ma freddo e assente, poco affidabile e, soprattutto, immodificabile.

Lo schema disfunzionale primario tipico dell’ accudimento invertito è il seguente: “se desidero essere visto e ricevere cure, l’altro mi trascurerà e mi maltratterà e in questo caso sperimento un profondo senso di tristezza e solitudine”. L’immagine di sé che sottostà è quella di essere solo, non meritevole di cure e attenzioni, insignificante. Il coping conseguente è di autosacrificio: “nella vita per non sentirmi più così mi occupo degli altri, così forse potrò ricevere amore e cure”.

L’ accudimento invertito, che all’inizio è soltanto una difesa, un sistema di sopravvivenza funzionale alla miglior relazione possibile con l’adulto di riferimento, ben presto diviene un piano di vita: il piano di vita controllante, caratterizzato da ipermonitoraggio degli stati interni, rimuginio, perfezionismo, rigidità su regole di comportamento, controllo relazionale e diffidenza.

L’accettazione dei genitori e la formazione di rappresentazioni integrate di essi, è il solo passo che può permettere la formazione di un autoimmagine scevra dal senso di onnipotenza e piena della consapevolezza che tutti noi siamo umani imperfetti e, in quanto tali, abbiamo bisogno degli altri.

Strategia controllante-accudente e disorganizzazione dell’attaccamento

Numerose ricerche (Levendosky et al., 2006; Lyons-Ruth et al., 2005; Huth-Bocks et al., 2004) evidenziano che i bambini cresciuti in ambienti familiari violenti, testimoni di abusi perpetrati ai danni delle proprie madri, tendono a essere maggiormente esposti al rischio di subire violenze in età adulta.
 Alla base di tale associazione sono identificabili diversi fattori causali.

In primo luogo, interagire con una madre picchiata e maltrattata, psicologicamente disorganizzata, costituisce un’esperienza traumatica per il bambino. La relazione genitore-figlio si realizza attraverso una serie di comportamenti contraddittori: la figura d’attaccamento è al contempo spaventata e spaventante. In una simile relazione il bambino non può far altro che strutturare rappresentazioni mentali incompatibili del genitore, fonte allo stesso tempo di protezione e di pericolo o paura (per pericoli esterni e invisibili). A queste rappresentazioni del genitore corrispondono rappresentazioni del Sé altrettanto molteplici e incompatibili. Per descrivere le possibili combinazioni di tali modelli operativi interni di Sé e dell’Altro molteplici, segregati o dissociati, Liotti utilizza il concetto di “triangolo drammatico” di Karpman, per cui in un rapporto diadico i due attori si scambiano i ruoli di vittima, persecutore e salvatore.

Il bambino in relazione con una madre abusata tenderà infatti a percepirsi, di volta in volta, come persecutore, ossia responsabile della paura o aggressività manifestate dalla figura di attaccamento; come vittima terrorizzata e impotente dell’aggressività del genitore; come salvatore, il bambino è un conforto e un’ancora di salvezza per la madre. L’attivazione di modelli operativi interni (MOI) contraddittori e incompatibili ostacola gravemente la sintesi mentale di un senso di sé unitario e coerente, impedendo anche il monitoraggio cognitivo delle emozioni relative a questi molteplici MOI, che restano segregati o dissociati dalla coscienza.

Altrettanto importante è il fatto di dover crescere con una madre violentata e traumatizzata, incapace di esercitare in maniera adeguata la propria funzione genitoriale. Le madri abusate si sentono donne inette e vulnerabili e presentano una forte disorganizzazione a livello psicologico. Tale visione negativa di sé le induce a considerarsi anche madri inadeguate, incapaci di gestire il proprio bambino e le spinge ad allontanarsi dalla relazione con il piccolo, a ritrarsi sul piano emotivo e ad agire comportamenti scarsamente responsivi rispetto ai bisogni espressi dal figlio. Uno stile parentale così trascurante spinge il bimbo alla strutturazione di un accudimento invertito nei confronti di queste madri così sofferenti.

Il bambino che si trova a interagire con una madre abusata non è pertanto messo nelle condizioni di potersi percepire come un soggetto competente e degno d’affetto; al contrario tende a maturare un’idea fortemente negativa di Sé, a vedersi come un individuo non amato e non amabile. In maniera complementare, il caregiver e l’altro tenderanno a essere visti come rifiutanti, trascuranti, non accessibili sul piano emozionale. Tali rappresentazioni di sé e del mondo rendono il bambino più vulnerabile alla violenza esponendolo al rischio di essere coinvolto in relazioni con partner abusanti in età adulta.

Due sistemi psicobiologici sembrano inevitabilmente coinvolti nella risposta al trauma: il sistema di difesa e il sistema di attaccamento.
 La disorganizzazione dell’attaccamento infatti può essere spiegata dal conflitto tra questi due sistemi motivazionali interpersonali (SMI).
 Questi due SMI in situazioni di pericolo, come l’esposizione ad un evento traumatico, agiscono in sinergia: nel momento in cui la protezione è garantita, il sistema di attaccamento si attiva con successo inibendo quello di difesa; in caso contrario l’attivazione del sistema di difesa sarà abnormemente protratta provocando l’alterazione della regolazione delle emozioni e dei significati personali, nonché sintomi dissociativi e la formazione di Modelli Operativi Interni (MOI) insicuri o meglio multipli caratterizzanti l’attaccamento disorganizzato.

Nell’attaccamento disorganizzato il sistema di difesa e quello di attaccamento entrino in conflitto, creando una situazione di fright without solution (paura senza sbocco). Di conseguenza la Figura di Attaccamento (FdA) è tanto fonte quanto soluzione della paura del bambino e viene rappresentata allo stesso tempo come vulnerabile, minacciosa e protettiva. Analoga è la rappresentazione di sé: salvatore, persecutore e vittima della FdA, ma anche salvato da essa. Emerge dunque una frammentazione delle rappresentazioni di sé-con-l’altro (compartimentazione) e un’esperienza cosciente di tipo dissociativo (alienazione).

Ma il dato scientifico ancor più interessante riguarda lo sviluppo intorno ai 3-6 anni di età delle cosiddette strategie controllanti, create per proteggersi, nella relazione, da caos, impotenza e paura che caratterizzano la disorganizzazione (Liotti e Farina, 2011b).
 Mediante la strategia controllante-punitiva i bambini cercano di organizzare i comportamenti di relazione col caregiver attraverso atteggiamenti ostili, coercitivamente dominanti o sottilmente umilianti. Risulta evidente come in questo caso si attivi il sistema motivazionale di rango al posto del sistema di attaccamento (Solomon, George, 2011).

Nella strategia controllante-accudente il bambino mostra, al contrario, condotte apertamente consolatorie e protettive nei confronti del genitore vulnerabile e palesemente sofferente per traumi o lutti irrisolti. In tal caso, appare chiaro come si attivi il sistema di accudimento in sostituzione del sistema di attaccamento (attaccamento invertito) (Solomon, George, 2011).
 Infine, esisterebbero altre possibili varianti in cui è il sistema sessuale a vicariare le funzioni del sistema di attaccamento e altre in cui la strategia controllante-accudente richiede l’assunzione di un ruolo subordinato nel sistema di rango (Liotti, 2011). Tali strategie controllanti possano essere considerate delle strategie “difensive”, poiché riducono la possibilità che il MOI disorganizzato emerga alla coscienza nella maggior parte delle situazioni quotidiane che possono risvegliare il sistema di attaccamento, preservando in tal modo il bambino dall’esperienza dissociativa. Tuttavia, di fronte a un’intensa attivazione del sistema di attaccamento, si assiste ad un collasso delle strategie difensive e al riemergere del MOI frammentato e drammatico e quindi della dissociazione (Liotti, 2004, 2011). Gli eventi che inducono il collasso delle strategie controllanti sono gli antecedenti relazionali della comparsa di sintomi dissociativi nell’adulto che viene da una storia di attaccamento disorganizzato e di trauma complesso.

Scala del sistema di accudimento

Per valutare il sistema di attaccamento è possibile utilizzare anche questionari self report; di seguito ne riportiamo un esempio al fine di esplicitare le domande volte a valutare le caratteristiche di questo sistema nell’individuo. Gli items sono classificati su una scala di tipo Likert a 7 punti che va da: 1 = Forte disaccordo a 7 = Molto d’accordo.

Nel seguente questionario, siamo interessati al modo in cui di solito ti senti, pensi e agisci quando sei coinvolto nell’aiutare altre persone. Si prega di leggere ogni dichiarazione e indicare la misura in cui si è d’accordo con esso.

Elementi di disattivazione
1. Quando vedo persone in difficoltà, non mi sento a mio agio nel saltare per aiutare.
3. A volte sento che aiutare gli altri è una perdita di tempo.
5. Spesso non presta molta attenzione al disagio o al disagio delle altre persone.
7. Non investo molta energia cercando di aiutare gli altri.
9. Pensare di aiutare gli altri non mi eccita molto.
11. Non sento spesso l’impulso di aiutare gli altri.
13. Non ho problemi ad aiutare le persone che sono in difficoltà o in difficoltà.
15. Quando noto che qualcuno sembra aver bisogno di aiuto, spesso preferisco non essere coinvolto.
17. È difficile per me avere un grande interesse nell’aiutare gli altri.
19. Mi sento a disagio quando mi viene richiesto di aiutare gli altri.

Elementi di iperattivazione
2. Quando aiuto le persone, sono spesso preoccupato che non sarò bravo a farlo.
4. Quando non sono in grado di aiutare una persona in difficoltà, mi sento inutile.
6. Mi sento male quando gli altri non vogliono il mio aiuto.
8. A volte cerco di aiutare gli altri.
10. Quando le persone non vogliono il mio aiuto, mi sento ancora costretto ad aiutare.
12. Spesso mi preoccupo quando penso che nessuno abbia bisogno del mio aiuto.
14. Sono spesso preoccupato di avere successo quando cerco di aiutare gli altri che hanno bisogno di me.
16. Quando decido di aiutare qualcuno, mi preoccupo di non essere in grado di risolvere il problema o di alleviare il disagio della persona.
18. A volte mi preoccupo che cercherò di aiutare gli altri.
20. A volte sento di intromettermi troppo mentre cerco di aiutare gli altri.

L’assenza che diventa presenza. Logica dell’oggetto transizionale e suo impatto nella scuola dell’infanzia

L’ oggetto transizionale ha di solito un potere calmante per il bambino ed egli vi fa ricorso per rilassarsi e dormire. Dalla suzione del pollice alla comparsa (tra i 4 e i 18 mesi) di un singolo oggetto, vi sono molte altre attività (esempio produrre suoni, cantilene, manipolare pezzi di lenzuolo ecc.) che descrivono la progressiva capacità del neonato di maneggiare oggetti non-me e che si collocano tra il pollice e “l’orsacchiotto”..

 

Il concetto di oggetto transizionale è stato introdotto nel 1951 dal pediatra e psicoanalista britannico Donald Winnicott ed è uno dei cardini della sua elaborazione teorica.
Con esso si intende indicare un oggetto che entra in gioco in una particolare fase dello sviluppo psichico del bambino, ovvero il passaggio dal mondo soggettivo, caratterizzato da spinte pulsionali narcisistiche, al mondo oggettuale esterno. Questa transizione è resa tanto più delicata dalla questione della progressiva separazione del bambino dall’agente delle cure primarie, tipicamente, ma non solo, la madre.

In una prima fase di sviluppo, infatti, il bambino si trova in una posizione di totale dipendenza dalla madre, insieme alla quale forma una diade che, nel suo psichismo, costituisce un tutt’uno: non c’è separazione tra me e non-me. In una scena idilliaca, la madre soddisfa prontamente i bisogni del piccolo, che, in questo modo, si sente “onnipotente”, come se i suoi desideri evocassero direttamente gli oggetti di soddisfacimento.

Nelle successive fasi dello sviluppo però questa situazione si evolve e si modifica: affinché la psiche del bambino si strutturi correttamente è necessario che il bambino percepisca che lui e la madre sono entità separate e che il mondo esterno è fatto di oggetti, madre compresa, che non sempre può raggiungere e ottenere.

E’ in questa fase di progressivo scioglimento del legame simbiotico madre-bambino che si inserisce gli oggetti transizionali, i quali si configurano come sostituti della madre stessa.

Questi oggetti possono essere sia oggetti reali, tra i più tipici possiamo ricordare bambole, orsacchiotti e copertine, sia oggetti immateriali, come canzoncine o parole, e costituiscono il primo possesso del bambino, il primo oggetto non-me. Oggetti che danno conforto, che permettono di mantenere illusoriamente il legame con la madre anche quando essa non c’è.

Un oggetto può assumere la qualità di oggetto transizionale solo se il bambino può rivedere in esso la sua principale figura di riferimento e se può farlo sentire in unione con essa.

Il paradosso di questi oggetti riguarda il fatto di collocarsi a metà tra il simbolico e il reale, nel senso che il bambino sa benissimo che essi non sono la mamma, ma, inconsciamente, li usa proprio come se invece lo fossero.

Ma come si traduce tutto ciò nella vita quotidiana dei bambini?

Come emerge il ruolo dell’ oggetto transizionale nella scuola dell’infanzia, che spesso costituisce il primo grande agente separatore tra bambino e ambiente familiare?

Carla ha circa 2anni e mezzo, è il primo giorno di scuola, sezione primavera. Entra sorridente in aula. Mamma e papà la accompagnano, ma tra loro qualcun altro è presente. Una simpatica mucca fucsia che ha una zampina nella manina di Carla e l’altra in quella della sua mamma… camminano insieme. “Buongiorno stellina!” saluta la maestra. “Questa è Camilla!”, risponde prontamente la bimba mostrando la mucchina. Camilla la accompagnerà per tutto l’anno scolastico e anche per tutto il successivo. I genitori raccontano che Camilla è proprio un membro di famiglia ormai, è presente in tutti i momenti della giornata della bimba, in tutti gli spostamenti, da casa, scuola, dai nonni, durante le passeggiate e se per caso la dimenticano, la piccola Carla ha una vera e propria crisi di pianto e sconforto.

Flavio, 3anni e 5mesi. Da poco nella nostra città, si è trasferito per il lavoro del papà. Arriva da un’altra scuola, siamo a gennaio. E’ molto spaventato, timido, stringe forte la mano della mamma, e nell’altra stringe a sé un pannetto di morbida ciniglia. La mamma ci racconta che lo usavano per il bagnetto, e crescendo è come se ne “fosse rimasto affezionato e non c’è alcun verso di distaccarlo da esso” aggiunge rassegnata “Maestra abbiate pazienza!”.

Roberta, 4 anni, è nei medi, al suo secondo anno di scuola dell’infanzia. Ha frequentato l’asilo nido per i 2 anni precedenti. I genitori lavorano entrambi e prima di inserirla al nido, è cresciuta con una babysitter. E’ sorridente, in apparenza molto socievole, affettuosa, ricerca il contatto fisico e quando incontra qualcuno per la prima volta, gli canta la sua speciale canzoncina. La canticchia nei momenti di noia, di frustrazione, quando si fa l’ora di tornare a casa, quando viene sgridata e soprattutto all’ora di pranzo, durante la refezione scolastica.

L’ oggetto transizionale ha di solito un potere calmante per il bambino ed egli vi fa ricorso per rilassarsi e dormire. Dalla suzione del pollice alla comparsa (tra i 4 e i 18 mesi) di un singolo oggetto, dice Winnicott, vi sono molte altre attività (esempio produrre suoni, cantilene, manipolare pezzi di lenzuolo ecc.) che descrivono la progressiva capacità del neonato di maneggiare oggetti non-me e che si collocano tra il pollice e “l’orsacchiotto”.

Osservatori privilegiati di questo fenomeno sono genitori e insegnanti di asilo nido e scuola dell’infanzia. Laddove il distacco dai genitori è netto e faticoso, è decisamente semplice notare un “qualcosa” di caratteristico che accompagna i piccoli all’ingresso della scuola e talvolta durante tutto l’orario scolastico, specialmente nei primi mesi di frequenza: pupazzetti, ciucci e copertine gli oggetti più frequenti.

Verso i 4 anni, di solito con l’inizio del secondo anno di scuola dell’infanzia, tuttavia, le aspettative sociali iniziano a spingere affinché il bambino diventi capace di sopportare l’assenza dei genitori, non sia più turbato dalle novità e di conseguenza sia pronto a liberarsi da questi oggetti. I genitori cercano di convincere il bambino a separarsene, a non prenderlo sempre con sé a non “fare una tragedia” in caso di perdita o dimenticanza. Analogamente in molte scuole dell’infanzia, e persino durante l’ultimo periodo al nido, è sempre meno consentito al bambino portare con sé questo genere di oggetti. Accanto alle ragioni di ordine pratico (evitare di gestire e ritrovare gli affetti personali di ogni bambino ogni giorno) la ragione pedagogica di questa nuova istanza è riconducibile alla volontà e all’attesa di coinvolgere maggiormente il bambino negli scambi relazionali e di favorire la sua autonomia affettiva rispetto alla famiglia. In questa prospettiva allora l’ oggetto transizionale non è più d’aiuto ma può rappresentare addirittura un ostacolo che sembra favorire l’isolamento del bambino nel suo mondo interiore.

In realtà il suo significato per il bambino non cambia e oltretutto si intensifica l’atteggiamento fedele e premuroso di protezione. L’ oggetto transizionale comincia a duplicarsi, sdoppiarsi, circondarsi di una famiglia di oggetti simili (come le famose attualissime bamboline Lol, i piccoli Mini Pony, automobiline…). Le funzioni inizialmente tutte svolte da un unico oggetto cominciano a differenziarsi e ad essere assegnate ciascuna a un nuovo oggetto. Questo permette al bambino di non rimanere sprovvisto di un valido strumento per gestire le sue emozioni, svincolarsi dall’esigenza della presenza concreta dei suoi riferimenti affettivi, costruire un sentimento d’unità personale, vivere nuove relazioni e di conservarne la memoria, senza dover tuttavia dipendere da un unico oggetto.

Alla scuola dell’infanzia si può allora notare come il bambino porti ogni giorno con sè da casa un oggetto diverso che, oltre tutto, diventa strumento per attirare l’attenzione dei compagni, strumento di scambio, stimolatore di giochi comuni ma anche provocatore di invidie ed esclusioni.

Questi oggetti, senza i quali il bambino pare non tranquillizzarsi, vanno tolti o lasciati? Qual è il loro significato? E’ giusto che il bambino li porti da casa a scuola, o bisogna liberarlo da queste forme di attaccamento? Sono questi alcuni gli interrogativi più pressanti delle famiglie.

In genere, ad un certo punto, la società fa ricorso a condotte contraddittorie e ambivalenti, a volte persino di scherno, rispetto all’oggetto tanto amato dal bambino. Uno sgarbo, una disattenzione, un’offesa all’oggetto possono favorire autentici fenomeni di sofferenza, anche fisica. Le situazioni più ricorrenti?

Toccare sgarbatamente l’oggetto, farlo cadere, riporlo con noncuranza, guardarlo come se fosse una cosa brutta, fingere di gettarlo via, nasconderlo per far finta che sia andato perso, rimproverarlo dirottando su di lui quanto si vorrebbe dire al bambino…
Se tenessimo a mente che bambino e oggetto sono nient’altro che una realtà intera, agiremmo con la dovuta consapevolezza e la necessaria cautela.

Per questo è importante una stretta collaborazione tra genitori e operatori del nido/scuola dell’infanzia, in modo tale che quest’ultimi possano conoscere e chiarire gli eventuali dubbi della famiglia, affinché anch’essa prenda coscienza della positività del decorso dell’esperienza transizionale. Essa sta proprio nel suo lento, fisiologico, naturale superamento: il bambino via via accetta di distaccarsi dai contenuti simbolici dell’oggetto privilegiato e dalle pratiche ad esso congiunte e trasferisce i suoi investimenti pulsionali, affettivi, cognitivi su zone più ampie arricchendo e variando le modalità di relazione.

Dunque non è utile imporre al bambino una separazione se non per ottenere un attaccamento più ansioso e ossessivo.
Ad esempio, il genitore o l’educatore, potrebbero aiutarlo con i gesti e le parole a prendersi cura del suo “oggetto”, ricercando la complicità del bambino.

Carla, secondo me, questa mucchina soffre a stare qui a scuola con tanti bimbi che la spupazzano! Non pensi che le piacerebbe starsene tranquilla ad aspettarti a casa? Oppure magari al sicuro nel tuo zainetto?

Col tempo, d’altronde, fisiologicamente l’ oggetto transizionale viene gradualmente disinvestito e da adulti ne avremo solo un dolce ricordo.

Il ruolo della memoria nel Disturbo da accumulo

Secondo il DSM 5 la caratteristica essenziale del disturbo da accumulo (Hoarding Disorder) è la persistente difficoltà di gettare via o separarsi dai propri beni, a prescindere dal loro valore reale.

 

Disturbo da accumulo: credenze e conseguenze

Le principali ragioni addotte per giustificare questa difficoltà sono: l’utilità percepita o il valore estetico degli oggetti oppure il forte legame affettivo con i beni. Gli oggetti più comunemente conservati sono giornali, riviste, vecchi vestiti, borse, libri, posta, e documenti, ma potenzialmente qualsiasi oggetto può essere conservato.

Gli individui con disturbo da accumulo conservano di proposito i propri beni e sperimentano un disagio di fronte alla prospettiva di gettarli via; accumulano grandi quantità di oggetti che riempiono ed ingombrano gli spazi vitali al punto che l’uso previsto non è più possibile.

Le persone affette da disturbo da accumulo hanno gravi difficoltà a buttare le cose in loro possesso, di conseguenza le loro stanze diventano così ingombrate nel tempo che gli spazi di vita non sono più utilizzabili.. Avere problemi di hoarding influenza negativamente la vita delle persone, poiché la loro casa risulta inagibile, le condizioni igieniche diventano precarie e si manifestano diversi problemi nelle relazioni affettive e lavorative.

Il disordine domestico può essere pericoloso e rappresenta un rischio per la salute della persona, ad esempio può bloccare le uscite di emergenza, causare inciampi e cadute. Il trattamento principale per tale disturbo risulta essere la terapia cognitivo-comportamentale, il cui scopo sarà quello di capire e modificare i pensieri, le credenze e i comportamenti che sono alla base della difficoltà nel buttare via le cose e dell’accumulo.

Hoarding, trauma e memoria: come le immagini intrusive potrebbero mantenere il disturbo

Lo studio, condotto dall’Università di Bath, pubblicato sul Journal Behavior Therapy, vuole indagare il ruolo della memoria delle persone affette da hoarding e vedere quali sono i ricordi che si associano agli oggetti accumulati.

Da ricerche precedenti si è visto che i traumi spesso accompagnano le storie degli individui con problemi di hoarding.

Il campione era composto da 27 soggetti con disturbo da accumulo e 28 soggetti sani (gruppo di controllo). Ai partecipanti veniva chiesto quali fossero le immagini intrusive che accompagnavano le loro esperienze quotidiane e se queste immagini si palesassero nella loro mente quando scartavano beni di scarso e di basso valore.

Confrontando i due gruppi, quello con hoarding presentava immagini intrusive più frequenti, con una valenza negativa maggiore, che si associavano a maggiori interferenze nella vita quotidiana e a tentativi di evitarle.

I risultati hanno mostrato che i partecipanti con hoarding disorder riportavano esperienze negative di immagini intrusive, rispetto al gruppo di controllo, quando dovevano scartare oggetti di scarso valore soggettivo. Inoltre, il gruppo di controllo ha riportato un maggiore evitamento delle immagini quando si trattava di scartare un oggetto di alto valore.

In futuro sarebbe interessante vedere se sviluppando un’immagine alternativa questa potesse “competere” con quella che causa difficoltà. Lo scopo dell’immagine alternativa è appunto quello di evidenziare le conseguenze positive che si possono ricavare scartando un oggetto.

 

Come il monitoraggio e l’anticipazione (non) ci tutelano dall’impensabile

Nella vita impariamo che il controllo e la capacità di anticipare gli eventi ci aiutano a vivere bene. Ma è proprio così? La vita troppo spesso manca di certezze.. imparare a “stare” in queste condizioni può rivelarci uno scenario infinito di possibilità che non avevamo nemmeno mai pensato!

 

A volte accadono cose per cui non siamo pronti. A volte la vita ci coglie impreparati. La maggior parte delle volte, in realtà. Ci siamo preparati per anni alle delusioni, ai fallimenti, agli abbandoni, ai pericoli, alle brutte notizie. Ma sostanzialmente non siamo pronti. Siamo (stati) preparati, ma non pronti. Siamo pugili con la guardia alta, ma ci dimentichiamo che l’unico modo sicuro per non prendere neanche un cazzotto è stare giù dal ring, in platea.

Succede a volte che un po’ il temperamento, un po’ le esperienze di vita, un po’ gli apprendimenti espliciti o impliciti ci portino a fare della guardia alta la nostra priorità di vita, nell’illusione che quella posizione voglia dire non prendere cazzotti.

Cosa vuol dire tenere la guardia alta? Vuol dire stringere le mani a pugno, portare le braccia con una certa angolazione dei gomiti, irrigidire le spalle, stare sugli avampiedi. Faticoso, molto. Vuol dire la testa abbassata, il mento coperto ma gli occhi ben dritti. Vuol dire essere innanzitutto vigili, ipervigili, e poi reattivi. Vuol dire decodificare ogni possibile movimento dell’avversario, capire da questo le sue intenzioni e anticiparle per non andare a tappeto. Tre cose, quindi: monitoraggio (dell’avversario), controllo (di sé) e anticipazione (del movimento).

Scendiamo un attimo dal ring. Proviamo ad andare nel contesto iper-allargato di tutti i giorni. Cosa ci insegnano da bambini i diversi ambiti di vita? Che se vuoi, puoi. Che se ti impegni abbastanza le cose belle succedono, e (come corollario), le cose brutte succedono se non ti impegni abbastanza: se non stai abbastanza attento, se non prevedi qualcosa che a pensarci un attimo meglio saresti riuscito a prevedere, se non anticipi possibili catastrofi, se non cogli i segnali. E noi, giustamente, a queste cose ci crediamo.

Crescendo, riceviamo un sacco di rinforzi per la nostra capacità di prevedere, per il nostro monitoraggio, per il nostro livello di controllo su di noi e sull’ambiente. Ho notato quale argomento era più caro al prof di filosofia e l’ho studiato meglio, così ho previsto come sarebbe andata l’interrogazione, non mi sono fatto cogliere impreparato e ho preso 10. Ho tenuto d’occhio le priorità del capo, mi sono focalizzato e speso su quelle e ho ottenuto una promozione. Ho capito cosa piace alla ragazza che mi piace, le ho attaccato bottone parlando di quello e ci sono uscito assieme. Rinforzi su rinforzi, e la strategia si mantiene.

Controllo e anticipazione: delle strategie di vita

Ma che cos’è che stiamo esattamente evitando con questa nostra strategia? Qual è la sensazione che non vogliamo provare? Non vogliamo sentirci vulnerabili. Ognuno di noi ha un particolare tipo di cazzotto che non vuole ricevere: per qualcuno ha a che fare con il rifiuto, per altri con il mancato riconoscimento del proprio valore personale, per altri ancora con la percezione di essere colpevole. Ed ecco l’avversario.

Teniamo alta la nostra guardia fatta di anticipazione e controllo per non permettere a noi stessi di percepire questo stato intollerabile per noi, anche alla luce della pochissima esperienza che ne abbiamo fatto (grazie alla nostra strategia, appunto, e qui la storia si ripete).

Ma cosa succede quando queste strategie non funzionano più?

A volte, però, succede qualcosa. Sei sul ring e un forte rumore ti distrae, qualcuno sbatte la porta, giri gli occhi per un nanosecondo e sei al tappeto. Tutto il castello di carte costruito fino a quel momento, tutta la strategia rodata ancora e ancora, tutta l’onnipotenza che portava in sé pensare di avere una strategia che ti avrebbe sempre difeso, tutto a quel paese. Sei per terra. Non ci sei mai stato. Allora succedono cose nuove.

Innanzi tutto, vedi le cose da una prospettiva inedita. In secondo luogo, è da quella prospettiva che si possono considerare cambiamenti di strategia. Eh sì, perché va da sé che la mia strategia di controllo e anticipazione, con tutto il costo che si porta dietro (la questione della rigidità muscolare e degli avampiedi), si rivela anche a tratti fallimentare, come direbbe Darwin (circa), ma chi me lo fa fà?

Ecco, qui in quanto esseri umani tendiamo a incastrarci. Perché una strategia che ha funzionato per anni e che ci dà una parvenza di controllabilità e anticipazione è difficile da mollare. Non posso certo accettare di stare nell’incontrollabile e nell’imprevedibile, ma ci mancherebbe altro!

Allora prima di dire che la mia strategia non ha funzionato, mi dico che non è colpa mia, che io ho previsto tutto alla perfezione, ma qualcosa nel contesto intorno mi ha fregato. È colpa di qualcun altro, che peraltro è giusto che paghi per questa mia caduta. Non sono io vulnerabile, è il contesto cattivo, malintenzionato, meschino, ingiusto, chi più ne ha più ne metta. E qui arriva il primo incastro. Ci incastriamo in una sorta di impensabilità. Non posso pensarmi vulnerabile (nelle sue declinazioni), fallace, sbagliato. Non dopo tutti questi anni. Quindi mi rialzo, impreco contro tutti e mi rimetto in posizione. E qui arriva il secondo incastro: la posizione. Visto che non è responsabilità mia, ma del caso, perché cambiare qualcosa? È una posizione che mi ha protetto così tante volte, io me la riprendo!

Uscendo dalla metafora, il mio modo di affrontare le cose, monitorando e anticipando eventuali difficoltà, si dimostra molto costoso in termini di risorse personali (l’attenzione come la guardia sempre altissima, la lettura di quella che penso essere l’intenzione altrui) e comunque (come tutti i modi possibili) fallace. Ma io non lo mollo, anzi. A partire da quello che ho imparato, cerco di farlo ancora meglio. Starò più attento, starò più in guardia, niente mi farà più cadere.

Ed ecco che mi rifiuto di ascoltare l’insegnante più importante: l’esperienza. L’esperienza mi ha fatto sentire vulnerabile, e invece di imparare che, come tutti gli esseri umani, sono anche io vulnerabile, imparo che devo essere più attento e riuscirò così facendo a essere intangibile. Il superpotere illusorio dell’invulnerabilità che conquisto vestendo il mantello del controllo.

Ma perché perseverare in questo modo così anti-evoluzionistico reiterando una strategia che comunque non ha funzionato? Perché accettare l’alternativa è troppo difficile, ci fa troppa paura. L’alternativa si chiama caos, a un certo livello. Caos nel senso di imprevedibilità, di improvvisazione forzata. Caos soprattutto nel senso di accettazione di avere situazioni in cui (a tratti) ci sentiamo vulnerabili. Che qualcuno ci deluderà, qualcun altro non ci vorrà con sé. Accettare che le persone non ci stimeranno, che il capo sceglierà qualcuno di diverso perché ritenuto più bravo.

Lasciare andare il controllo ossessivo significa dover fare i conti con le conseguenze, anziché con le causa. Significa gestire il dopo e non il prima. Roba da grandi, difficile. Invece no. Semplicemente, cose che non siamo abituati a fare perché, a forza di anticipare, raramente abbiamo dovuto fare i conti con le cose andate male, e non facendone abbastanza esperienza abbiamo continuato a vederle come intollerabili. Si vede, durante la psicoterapia. Sono quelle cose che i pazienti rifiutano di sentire, quelle cose a cui non vogliono pensare. Non può aver promosso lui perché lo ha valutato come migliore di me, ci deve essere un altro motivo. Non può avermi lasciato per un altro, anzi, sono io che non la volevo più. Non posso aver sbagliato, è stato il mio collega a passarmi male le consegne.

E così, come bambini che non vogliono ricevere una punizione, ci priviamo della possibilità più importante, la possibilità di imparare. Che significa imparare che restiamo sostanzialmente amabili anche se qualcuno ci rifiuta, restiamo validi anche se qualcun altro viene riconosciuto più di noi, restiamo “bravi” anche se commettiamo degli errori. Ci precludiamo la possibilità di imparare che il mondo va avanti lo stesso anche senza il nostro controllo, che domattina ci alzeremo lo stesso anche senza la nostra continua anticipazione, forse solo con meno male alle braccia e con i muscoli più riposati. Continuiamo, esausti, a stare sul ring combattendo contro la nostra vulnerabilità, senza capire che siamo nella stessa squadra e che l’unico modo di vincere è vincere assieme. Toglierci i guantoni e il paradenti, scendere dalla punta dei piedi e ritornare a respirare. Ringraziare quello che ci sembra un fallimento, perché usando le parole di Pavese, “non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola”.

L’anziano istituzionalizzato: il vissuto psicologico e l’importanza di attività cognitive e relazionali

Per gli anziani l’ingresso in una struttura, come in una casa di riposo, è uno degli eventi più delicati e difficili dell’intera vita, sia per le ripercussioni sull’equilibrio della persona, che ricorre a questa soluzione per fronteggiare una situazione di bisogno, spesso non per una scelta personale, sia perché rappresenta un cambiamento radicale di vita sia per l’ anziano che per la famiglia.

Federica Aloisio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Recenti statistiche hanno confermato un dato già da tempo noto all’opinione pubblica: la popolazione italiana sta rapidamente e progressivamente invecchiando. I dati statistici evidenziano che, ad oggi, gli ultrasessantacinquenni costituiscono il 22% della popolazione italiana ed è in aumento anche il numero dei “grandi anziani”, cioè di coloro che si avvicinano al secolo di vita (Pugliese, 2011).

Il progressivo invecchiamento della popolazione ha inevitabilmente portato la ricerca scientifica e quindi anche quella psicologica, a concentrarsi su questa fase della vita, con l’obiettivo di contrastare l’eccessiva medicalizzazione dell’invecchiamento.

Questo significativo cambiamento a livello demografico richiede infatti di rivedere il problema dell’invecchiamento della popolazione non solo in chiave economica e assistenziale, ma anche educativa, in particolare di coloro che, per necessità o per scelta, vivono in strutture di accoglienza (Censi et al., 2013). Sono infatti molti gli anziani non più autosufficienti che non possono vivere senza assistenza e che per ragioni diverse essa non può essere fornita direttamente dai familiari. Pertanto un numero crescente di famiglie si rivolge ai servizi domiciliari, residenziali o semi-residenziali per la cura di un familiare anziano; ciò fa sì che le strutture che erogano tali servizi sono destinate ad ampliarsi, trasformarsi e qualificarsi.

Entrare in casa di riposo: gli effetti dell’istituzionalizzazione sugli anziani

Quando si parla di istituzionalizzazione si intende la necessità di ricoverare l’ anziano in strutture residenziali assistenziali e/o di cura a lungo termine.

L’ingresso di un anziano in una struttura, come in una casa di riposo, è uno degli eventi più delicati e difficili dell’intera vita, sia per le ripercussioni sull’equilibrio della persona, che ricorre a questa soluzione per fronteggiare una situazione di bisogno, spesso non per una scelta personale, sia perché rappresenta un cambiamento radicale di vita sia per l’ anziano che per la famiglia.

Il trasferimento in una collettività risulta stressante anche laddove ci sia una diretta scelta della persona e anche quando le nuove condizioni di vita siano migliori di quelle che vengono lasciate dietro alle spalle. Infatti, occorre tenere in considerazione che molti anziani prima dell’ingresso nella residenza vivono da soli, in condizioni di forte disagio e di solitudine estrema: in questi casi le conseguenze dell’istituzionalizzazione non sono solo di carattere negativo, come troppo spesso viene immaginato. In questi casi l’ingresso a medio e lungo termine in una casa di riposo può essere vissuto in modo positivo dall’ anziano, con un senso di sicurezza dato sia dall’assistenza sanitaria che da nuove occasioni di contatti sociali, e che tutto questo favorisce il miglioramento generale dello stato di salute.

In generale però l’entrata in una struttura per anziani può comportare una perdita di autonomia dello spazio decisionale della persona e delle sue motivazioni che, sommata alla serie di perdite fisiologiche dovute all’ invecchiamento, può innescare una serie di reazioni a catena in senso peggiorativo.

Inserirsi in una struttura per anziani comporta reazioni psicologiche diverse in base a numerosi fattori personali ed oggettivi. Il vissuto psicologico durante l’istituzionalizzazione può essere suddiviso in tre fasi (Pedrinelli Carrara, 2016):

  1. il ricovero: in questa fase, le ripercussioni psicologiche sono strettamente collegate alla causa e al modo attraverso il quale l’ anziano è entrato nella struttura.
  2. la sindrome del primo mese: si riferisce ad un problematico adattamento dell’ anziano nella nuova residenza (il tempo di un mese è indicativo). Può succedere che egli abbia determinate reazioni come la confusione mentale, l’agitazione, l’apatia, il rifiuto e l’ostilità per la perdita del proprio ambiente di vita nel vedere limitata la propria libertà individuale. I vissuti emotivi negativi legati all’adattamento nella struttura, quindi, possono influenzare le prestazioni cognitive dell’ anziano producendo uno stato di confusione e rallentamento mentale.
  3. l’accomodamento: dopo la crisi del primo mese, si può osservare nell’ anziano un recupero delle condizioni di salute antecedenti il ricovero oppure un progressivo deterioramento.

Possibili fattori di stress

Tra i fattori che nell’insieme possono innescare il deterioramento ci sono: l’inadeguatezza dell’assistenza e il contesto ambientale, i conflitti familiari, le caratteristiche di personalità dell’ anziano, il vissuto psicologico circa le compromissioni a livello fisico e/o mentale, la tipologia e la severità delle patologie presenti. Al contrario, una personalità ottimista, reattiva, socievole e facilmente adattabile, con una buona tolleranza dei propri limiti psicofisici e di quelli dati dai deficit organici, in un contesto comunitario ben organizzato e con buone relazioni familiari, avrà con maggiore probabilità un accomodamento positivo (Pedrinelli Carrara, 2016).

I fattori principali che possono rendere il trasferimento in una struttura come un evento stressante sono: la minaccia allo spazio personale dell’individuo; la rottura non solo dell’attaccamento a un luogo ma anche delle relazioni familiari, amicali e di vicinato; la possibile compresenza di altre fonti di stress, come la vedovanza e l’insorgere di malattie d’invalidità; la socializzazione forzata con gli altri ospiti e la mancanza di controllo sulle proprie attività, a cominciare dagli orari delle normali routine quotidiane.

Anche per il familiare la fase di inserimento di un proprio caro in una struttura non è certamente facile: il problema principale è il senso di colpa che spesso provano come se si trattasse di un abbandono a danno dell’ anziano. Tutto ciò va affrontato affinchè venga facilitato l’adattamento dell’ anziano in struttura: gli elementi positivi apportati dal ricovero non devono essere percepiti solo dall’ anziano, ma anche dai suoi familiari, che devono considerare la struttura come una fonte di stimoli e come un’occasione per conferire al proprio caro una ritrovata dignità personale.

Come facilitare l’ingresso dell’ anziano in casa di riposo

È necessario quindi far comprendere all’ anziano e ai familiari che il trasferimento all’interno di una struttura residenziale non comporta la perdita né della propria autonomia, né della propria identità.

È importante, per quanto possibile, anticipare all’ anziano le informazioni relative alla struttura in cui andrà ad inserirsi, mostrandogliela, al fine di fargli comprendere lo stile di vita che adotterà, con regole, orari, attività e spazi differenti (Baroni, 2010).

Per facilitare l’ingresso dell’ anziano e favorire un buon adattamento, a medio e lungo termine, le residenze per anziani devono avere delle caratteristiche decisive. Ad esempio dovrebbero avere dimensioni contenute allo scopo di favorire il mantenimento di rapporti interpersonali di tipo familiare e il rispetto delle esigenze individuali dei singoli ospiti; è necessario inoltre per l’ anziano che l’ambiente risponda ai suoi bisogni, ovvero che sia un ambiente facilitante, al fine di rispondere alle necessità del soggetto.

Alcuni autori sostengono che buoni fattori di adattamento all’interno di una casa di riposo sono la soddisfazione residenziale, nei suoi aspetti fisici e sociali; il senso di autonomia; il supporto ambientale; la percezione del proprio stato di salute. Per sostenere tali fattori, sarà necessario creare spazi di privacy e semiprivacy, al fine di creare un ambiente protetto e intimo (Nenci, 2003).

Risulta, inoltre particolarmente importante l’aspetto architettonico della struttura, considerando sia l’interno che l’esterno dell’ambiente. Per l’interno può essere importante per l’ anziano il poter personalizzare la propria stanza da letto, al fine di favorire il mantenimento di una propria identità in un’abitazione inizialmente sconosciuta. Va ricordato a tal proposito che “all’interno di una struttura residenziale, in cui gli spazi sono utilizzati in maniera comunitaria, lo spazio privato rappresenta per l’ anziano il proprio domicilio” (Nenci, 2003).

Gli elementi sociali che influiscono su una buona valutazione residenziale comprendono la percezione di un supporto sociale e di relazioni affettive di aiuto, garantito sia dalle interazioni che l’ anziano riesce a sviluppare con gli altri residenti, sia con il personale della stessa struttura.

È inoltre particolarmente importante il costante supporto della famiglia e la continuità delle altre relazioni preesistenti con l’esterno: l’ anziano non deve sentirsi abbandonato dal caregiver e dai propri affetti, ma deve essere accompagnato in questa fase delicata della propria vita.

Per supplire il più possibile ai limiti dell’istituzionalizzazione, diventa necessario rispondere non soltanto ai bisogni assistenziali, ma anche a quelli socio-culturali, ricreativi ed educativi, organizzando attività di mantenimento cognitivo nonché momenti ludici, creativi e terapeutici. La persona anziana istituzionalizzata ha bisogno di ritrovare stimoli diversi, di essere sollecitata agli scambi sociali, di trovare un momento per sé da condividere con gli altri, di vivere momenti allegri insieme agli altri ospiti e ai familiari (Pedrinelli Carrara, 2013).

Alla luce di queste riflessioni negli ultimi anni stiamo assistendo infatti all’abbandono del modello assistenzialistico nelle strutture destinate agli anziani: si punta sempre più sull’invecchiamento attivo, sulla prevenzione, sul mantenimento delle autonomie, sulla riabilitazione che impedisce l’aggravamento di alcuni stati psico-fisici, sul mantenimento delle relazioni sociali e delle capacità creative.

Quali attività proporre agli anziani e perché

Sono numerose le attività che si possono proporre all’interno delle residenze per anziani: attività espressivo-relazionali, attività informativo-culturali, manuali e di vita quotidiana, attività di stimolazione cognitiva (Presenti, 2013).

Le attività con gli anziani sono principalmente di gruppo, in quanto tale relazione stimola la socializzazione e la cooperazione.

Le attività, per essere efficaci, devono essere personalizzate, cioè adattate alla necessità del singolo utente, al suo modo di essere, di pensare, alle sue possibilità e capacità cognitive (Taddia, 2012).

L’obiettivo principale è il potenziamento e/o il mantenimento delle abilità e delle risorse residue: per tale motivo ogni attività non è fine a se stessa, ma è determinata a stimolare abilità cognitive quali il linguaggio, l’attenzione, la percezione, la memoria e il ragionamento.

L’area affettiva relazionale viene promossa attraverso una serie di attività sociali (giochi, feste, incontri) che prevedono l’interazione, la socializzazione e la collaborazione fra i diversi soggetti coinvolti, al fine di stabilire un legame con le persone e allo stesso tempo mirando al miglioramento delle capacità cognitive della persona.

Un principio cardine per chi lavora in queste strutture per anziani e svolge attività cognitive e relazionali rivolte a questa fascia di età è quello di considerare la persona anziana nella sua globalità e unicità della sua storia, al fine di poter offrire ad ognuno un adeguato livello di cura e assistenza. Tali aspetti non vanno considerati separati dalla condizione fisica, psichica e relazionale: ogni intervento deve essere pensato e attuato attraverso un’ottica multidimensionale e multifattoriale.

Ad incrementare la qualità del lavoro presso una struttura per anziani è la presenza di varie figure professionali che interagiscono con l’anziano ospite. La figura dello psicologo che opera all’interno delle residenze per anziani costituisce una risorsa nella prospettiva di un’assistenza che pone la persona al centro dell’organizzazione promuovendo sia i bisogni sanitari che sociali, emotivi e relazionali. In particolare, lo scopo del servizio psicologico è quello di favorire e promuovere il “ben-essere” e lo “stare bene” degli ospiti anziani. Nel perseguire questi obiettivi lo psicologo può intervenire con diverse competenze: valuta gli aspetti cognitivi (memoria, attenzione, ragionamento, linguaggio…) che possono essere investigati mediante l’uso di strumenti diagnostici che consentano di programmare un intervento di sostegno e mantenimento delle abilità cognitive e relazionali e, al contempo, fornisce uno spazio di accoglienza, aiuto ed ascolto per l’ anziano. Indirettamente il lavoro dello psicologo presso una struttura per anziani coinvolge sia i familiari sia gli operatori della struttura stessa agevolando, così, il lavoro interprofessionale.

Vincere le ossessioni (2018) di Gabriele Melli – Recensione

Vincere le ossessioni è un libro che invita alla speranza di potersi liberare dal DOC (disturbo ossessivo-compulsivo) attraverso l’informazione dettagliata sulle caratteristiche del disturbo e sulle possibilità terapeutiche per superarlo.

 

Precedentemente inserito nel capitolo dei disturbi d’ansia, oggi, con l’aggiornamento del Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-5), il DOC è stato inserito in una nuova categoria che comprende anche il disturbo da dismorfismo corporeo, il disturbo da accumulo, il disturbo da escoriazione e la tricotillomania.

Vincere le ossessioni: struttura del libro

Il testo, di Gabriele Melli, si rivolge non solo ai professionisti della salute mentale ma soprattutto alle persone che vivono direttamente l’esperienza del DOC ed ai loro familiari. Conoscere i meccanismi del DOC può aiutare a prendere consapevolezza del problema, e a trovare strategie efficaci per fronteggiarlo secondo le preziose indicazioni fornite dal manuale. Ecco perché, nella prima parte del libro, l’autore ci illustra i processi psicologici che avvengono in presenza del DOC, fornendo delle informazioni anche sulla varietà delle tipologie di disturbo ossessivo-compulsivo e sulla diagnosi differenziale con altri disturbi che hanno sintomi ad esso sovrapponibili. Questa descrizione restituisce al lettore una chiarezza sulle caratteristiche fondamentali del disturbo, oltre a fornirlo degli strumenti concreti per identificarlo. Il testo prosegue nella sua seconda parte con la descrizione di un programma di trattamento dettagliato che fonda le sue basi sulla terapia cognitivo-comportamentale, risultando essere quest’ultima, l’orientamento d’elezione per la cura del DOC.

Vincere le ossessioni: cosa prevede nello specifico il programma di trattamento

Il trattamento prevede delle fasi ben precise che sono una propedeutica all’altra: per prima cosa è importante che il paziente faccia un’autovalutazione, con l’ausilio di questionari in autosomministrazione, al fine di prendere consapevolezza dei propri sintomi e identificare il sottotipo di DOC di cui soffre; si prosegue con un intervento educativo sul disturbo, al fine di dare chiarezza sulla differenza tra le preoccupazioni normali e i pensieri a carattere ossessivo; si mette in atto il trattamento vero e proprio, che consiste nell’utilizzo di tecniche di esposizione graduata e prevenzione della risposta; si conclude con la condivisione di suggerimenti e indicazioni che mirano a prevenire la ricaduta, in quanto il DOC è un disturbo ad alto tasso di recidiva.

L’ultima parte del libro Vincere le Ossessioni rappresenta un elogio alla collaborazione con i familiari e le persone più vicine al paziente, che spesso si trovano impreparati e impotenti di fronte al malessere del proprio caro. Per questo motivo, il testo offre un elenco dettagliato di consigli pratici e stategie efficaci per gestire le situazioni di crisi del congiunto e aiutarlo a superarle.

La semplicità espositiva e lo stile fluido utilizzato da Gabriele Melli, psicoterapeuta e docente presso l’Università di Pisa, permette una lettura e una comprensione immediata anche a chi non è del settore.

Insomma, il DOC colpisce ancora, ma Gabriele Melli ci conferma che la guarigione oggi è reale e raggiungibile.

Realtà Virtuale: se il carnefice diventasse la vittima

Seinfeld e colleghi (2018) hanno sfruttato la realtà virtuale immersiva per valutare la sensibilizzazione al riconoscimento emotivo in uomini perpetratori di violenza domestica.

 

Realtà virtuale immersiva ed empatia

L’ empatia viene spesso definita come la capacità di mettersi nei panni dell’altro, questo a livello cerebrale richiede il coinvolgimento di diverse zone del cervello: alcune deputate alla gestione dell’ empatia cognitiva ed altre deputate alla gestione dell’ empatia affettiva. L’ empatia cognitiva è la capacità di comprendere gli stati mentali delle persone, mentre l’ empatia affettiva è la capacità di riconoscere e rispondere alle emozioni altrui.

Grazie alla creazione di nuove tecnologie, come quelle della realtà virtuale immersiva (RVI), immedesimarsi in altre persone e calarsi nei più svariati contesti diventa molto semplice. Difatti, grazie all’ausilio di un visore, il soggetto in questione può facilmente identificarsi con un avatar virtuale per mezzo della sincronizzazione dei movimenti corporei e della visione di prospettiva in prima persona.

Realtà virtuale immersiva e violenza domestica: uno studio sugli abusanti

A tal proposito, Seinfeld et al., (2018) hanno sfruttato la realtà virtuale immersiva per valutare la sensibilizzazione al riconoscimento emotivo in uomini perpetratori di violenza domestica. Il campione è composto da 20 uomini condannati dal sistema giudiziale spagnolo per aver compiuto violenza contro una donna. Il gruppo di controllo è composto da 19 uomini incensurati corrispondenti per sesso, età, istruzione e status professionale al campione dei detenuti.

Prima e dopo l’esperienza di realtà virtuale è stato somministrato il test di riconoscimento delle emozioni, il Face-Body Compound (Kret et al., 2013), che assembla volti, caratterizzati da tre diverse espressioni emotive (felicità, rabbia o paura), ad espressioni corporee congruenti o incongruenti all’emotività facciale. L’esperienza di realtà virtuale immersiva è caratterizzata dall’ identificazione del partecipante con un avatar femminile, della quale si possiede la prospettiva in prima persona e la sincronizzazione dei movimenti corporei. Inizialmente, i partecipanti si trovano all’interno di una stanza ove possono vedere il proprio avatar riflesso nello specchio, per aumentare il senso di percezione corporea; successivamente nella stanza vedono comparire un uomo che aggredisce verbalmente l’avatar femminile tenendo lo sguardo fisso nei suoi occhi, le scaraventa vicino un oggetto presente nella stanza ed infine invade il suo spazio personale. Al termine dell’esperienza virtuale, viene risomministrato il Face Body Compound ai partecipanti, per valutare possibili modifiche nel riconoscimento emotivo e quindi nella sensibilizzazione empatica.

La compilazione del Face Body Compound, precedente all’esperienza virtuale, evidenzia nei detenuti sia una minor sensibilità nel riconoscere in maniera accurata le emozioni facciali di uomini e di donne, rispetto ai controlli, sia una maggiore propensione ad interpretare come felici i volti che in realtà esprimono paura. Successivamente, il secondo Face body Compound (post realtà virtuale immersiva ) evidenzia una maggiore capacità di riconoscimento delle emozioni, in particolare un miglioramento nel rilevare i volti timorosi delle donne.

In conclusione, si può notare come assumere la prospettiva in prima persona della vittima, durante un episodio di aggressione verbale, possa migliorare le abilità empatiche di riconoscimento emotivo negli uomini violenti. Nonostante la ridotta numerosità del campione, questo studio, insieme ad altri (Peck et al., 2013) condotti in ambiti diversi, offre un importante spunto di riflessione che sottolinea l’utilità dell’applicazione della realtà virtuale immersiva in ambito clinico. Tuttavia, sarebbero necessarie ulteriori ricerche per meglio ampliare le nostre conoscenze in tale ambito.

 

Il disturbo da uso di sostanze come disturbo dell’attaccamento

Studi recenti suggeriscono la presenza di un collegamento sostanziale tra l’organizzazione dell’ attaccamento in adolescenza e la salute mentale (Schindler et al., 2007; Schindler & Bröning, 2015) e che l’attaccamento tra il bambino e le sue figure di accudimento gioca un ruolo cruciale nello sviluppo sano. 

 

Studiando adolescenti gravemente disturbati si è riscontrato, in misura significativa, un tipo di attaccamento insicuro, con una prevalenza di stati della mente insicuri-irrisolti in gran parte di essi (Allen, Hauser & Borman-Spurrell, 1996; Wallis & Steele, 2001).

Per quanto riguarda le relazioni fra stili d’attaccamento adulto e psicopatologia, le ricerche hanno mostrato come l’attaccamento sicuro sia un importante fattore protettivo contro lo sviluppo dei disturbi mentali, mentre gli stili non sicuri siano associati al loro sviluppo (Rosenstein & Horowitz, 1996; Nakash-Eisikovits, Dutra & Westen, 2002).

Rispetto all’uso di sostanze, l’ attaccamento insicuro sembrerebbe essere un fattore di rischio per lo sviluppo in adolescenza di abuso e dipendenza da sostanze ed è stata sottolineata una generale connessione tra stile di attaccamento insicuro e problematiche di abuso di sostanze (Schindler et al., 2005; Kassel, Wardle & Roberts, 2007). Non solo gli abusi fisici, psicologici e sessuali, ma anche la trascuratezza, ha un impatto profondo e persistente su uno sviluppo cognitivo ed emotivo sano, predisponendo l’individuo allo sviluppo di disturbi da uso di sostanze (Trickett et al., 2009; Trickett, Kim & Prindle, 2011).

Disturbo da uso di sostanze e Attaccamento

Il disturbo da uso di sostanze come disturbo dell’ attaccamento risulta essere in relazione con due costrutti interdipendenti tra loro: la disregolazione emotiva e le difficoltà dei rapporti interpersonali.

La capacità di regolazione emotiva è un processo che si sviluppa nei primi anni di vita nella relazione con i caregiver e la sua assenza risulta essere un fattore estremamente rilevante nell’insorgere di diversi tipi di disturbi, tra cui anche l’ abuso di sostanze stupefacenti. Nel disturbo da uso di sostanze sembra avere un ruolo fondamentale la mancanza di consapevolezza delle proprie emozioni e, di conseguenza, una gestione inefficace di queste, che porta a sperimentare sostanze psicoattive per tentare di regolare gli stati affettivi o inibire le emozioni percepite come negative.

Studi recenti hanno evidenziato come le relazioni primarie incidano in modo significativo, seppur non determinante, sui disturbi dell’umore, sugli affetti negativi e sui comportamenti impulsivi, che sono tra i possibili fattori di rischio per l’insorgenza del disturbo da uso di sostanze (Windom, DuMont & Czaja, 2007; Caretti & La Barbera, 2010). I neonati che si relazionano con madri non responsive e non sensibili ai loro bisogni manifestano, a livello neurobiologico, un’elevata produzione di cortisolo, una maggiore sensibilità allo stress, decifit cognitivi e problemi socio emotivi (Bugental, Martorell & Barraza, 2003); i fattori precedentemente elencati determinano una certa vulnerabilità che può fare da base allo sviluppo successivo della dipendenza da sostanze (Duval et al., 2006).

Le esperienze di trascuratezza emotiva, proprie di un attaccamento insicuro e disorganizzato, dove non è presente la reciprocità emotiva, finiscono per compromettere nel corso dello sviluppo la capacità di identificare i propri stati emotivi (Schimmenti, 2008), impedendo una consapevole elaborazione delle esperienze e dei vissuti, oltre ad attuare modalità di scambio intersoggettivo disfunzionali. Ciò avviene poiché le competenze legate all’autoregolazione e alla regolazione interattiva degli affetti si sviluppano proprio nei primi anni di vita nella relazione tra il bambino e le sue figure di accudimento (Caretti, Capraro & Schimmenti, 2006).

I genitori capaci di sintonizzarsi emotivamente con il proprio figlio e che possiedono un’acuta sensibilità alle sue espressioni e manifestazioni emotive favoriscono nel bambino la capacità di regolazione emotiva. Attraverso la responsività del genitore il bambino impara a modulare ed a gestire le proprie emozioni e la competenza genitoriale di riuscire ad identificare correttamente le attivazioni fisiologiche del bambino e collegarle a specifici stati affettivi risulta essere fondamentale affinché il piccolo riesca ad integrare i processi affettivi e cognitivi (Fonagy & Target, 2001). Anche la capacità di regolazione affettiva nell’adolescente è strettamente legata alla competenza nel rispecchiamento degli stati emotivi che il caregiver è in grado di manifestare.

La dipendenza patologica, d’altronde, può nascere da qualsiasi esperienza la cui sensorialità abbia la funzione di alleviare il dolore, l’ansia e/o stati emotivi sgradevoli attraverso una diminuzione della coscienza o l’innalzalmento della soglia della sensibilità. Gli studi clinici di Khantzian (1993) suggeriscono che i problemi legati alla regolazione affettiva sono da ricondurre essenzialmente a relazioni disfunzionali nei primi anni di vita che provocano l’arresto dello sviluppo affettivo, che si manifesterà nell’arco della vita con la sensazione di non riuscire a controllare le proprie emozioni o con il non saperle affatto riconoscere.

Nello sviluppo sano è fondamentale che la figura di accudimento faccia attenzione alle emozioni del bambino e riesca a sintonizzarsi emotivamente con lui, poiché proprio questa sensibilità alla co-regolazione nella relazione diadica diventerà la base delle modalità di compartecipazione intersoggettiva degli stati affettivi che il bambino accrescerà nel corso del suo sviluppo e, dunque, uno dei più significativi fattori di protezione per l’insorgere dell’abuso di sostanze (Caretti, Capraro & Schimmenti, 2006).

Facendo ora riferimento alle difficoltà interpersonali si evince che l’ uso di sostanze che, all’inizio, nasce come modo che attua l’individuo per gestire le difficoltà nelle relazioni interpersonali, gradualmente compromette una capacità già molto fragile di stabilire sani legami di attaccamento; di conseguenza, le competenze sociali e le abilità interpersonali di chi soffre del disturbo con il tempo si affievoliscono e con l’intensificarsi della condotta dipendente diminuiscono sempre di più. Gestire le relazioni diviene sempre più difficile portando a fare sempre maggiore affidamento sulle sostanze e ad un deterioramento delle funzioni neuropsicologiche e rinforzando modelli di risposta dipendenti (ibidem).

Quanto affermato risulta essere significativo soprattutto per gli adolescenti che molto spesso fanno uso di sostanze psicoattive in quanto queste divengono un facilitatore sociale, che permette di sperimentare benessere, apertura nel gruppo dei pari e facilita la comunicazione e la condivisione di sentimenti ed esperienze, ma che a lungo andare porta a un deterioramento della capacità di instaurare relazioni significative e profonde (Schlaadt & Shannon, 1994).

In conclusione

La teoria dell’attaccamento sostiene che è biologicamente impossibile per gli esseri umani regolare completamente da soli i loro stati affettivi (Lewis, Amini & Lannon, 2000). Di conseguenza, risulta fondamentale per chi fa uso di sostanze apprendere altre modalità relazionali improntate sulla reciprocità e sviluppare la capacità di regolare in modo sano le proprie emozioni, abbandonando l’uso compensatorio di droghe per alleviare il senso di inadeguatezza e l’incapacità relazionale.

L’effetto delle sostanze psicoattive è dunque un ostacolo e un sostituto della relazione interpersonale, un modo per regolare gli affetti e il modo per non percepire l’incapacità di entrare in intimità (ibidem).

In sintesi, gli stili di attaccamento sicuro contribuiscono ad un sano sviluppo nella regolazione delle emozioni e nelle relazioni interpersonali, capacità fondamentali soprattutto in periodi di transazione, come l’adolescenza; gli studi attuali considerano la disregolazione emotiva e le difficoltà interpersonali come mediatori della relazione tra attaccamento insicuro e problemi con l’abuso di sostanze (Goldstein et al., 2018).

cancel