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L’anziano istituzionalizzato: il vissuto psicologico e l’importanza di attività cognitive e relazionali

Per gli anziani l’ingresso in una struttura, come in una casa di riposo, è uno degli eventi più delicati e difficili dell’intera vita, sia per le ripercussioni sull’equilibrio della persona, che ricorre a questa soluzione per fronteggiare una situazione di bisogno, spesso non per una scelta personale, sia perché rappresenta un cambiamento radicale di vita sia per l’ anziano che per la famiglia.

Federica Aloisio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Recenti statistiche hanno confermato un dato già da tempo noto all’opinione pubblica: la popolazione italiana sta rapidamente e progressivamente invecchiando. I dati statistici evidenziano che, ad oggi, gli ultrasessantacinquenni costituiscono il 22% della popolazione italiana ed è in aumento anche il numero dei “grandi anziani”, cioè di coloro che si avvicinano al secolo di vita (Pugliese, 2011).

Il progressivo invecchiamento della popolazione ha inevitabilmente portato la ricerca scientifica e quindi anche quella psicologica, a concentrarsi su questa fase della vita, con l’obiettivo di contrastare l’eccessiva medicalizzazione dell’invecchiamento.

Questo significativo cambiamento a livello demografico richiede infatti di rivedere il problema dell’invecchiamento della popolazione non solo in chiave economica e assistenziale, ma anche educativa, in particolare di coloro che, per necessità o per scelta, vivono in strutture di accoglienza (Censi et al., 2013). Sono infatti molti gli anziani non più autosufficienti che non possono vivere senza assistenza e che per ragioni diverse essa non può essere fornita direttamente dai familiari. Pertanto un numero crescente di famiglie si rivolge ai servizi domiciliari, residenziali o semi-residenziali per la cura di un familiare anziano; ciò fa sì che le strutture che erogano tali servizi sono destinate ad ampliarsi, trasformarsi e qualificarsi.

Entrare in casa di riposo: gli effetti dell’istituzionalizzazione sugli anziani

Quando si parla di istituzionalizzazione si intende la necessità di ricoverare l’ anziano in strutture residenziali assistenziali e/o di cura a lungo termine.

L’ingresso di un anziano in una struttura, come in una casa di riposo, è uno degli eventi più delicati e difficili dell’intera vita, sia per le ripercussioni sull’equilibrio della persona, che ricorre a questa soluzione per fronteggiare una situazione di bisogno, spesso non per una scelta personale, sia perché rappresenta un cambiamento radicale di vita sia per l’ anziano che per la famiglia.

Il trasferimento in una collettività risulta stressante anche laddove ci sia una diretta scelta della persona e anche quando le nuove condizioni di vita siano migliori di quelle che vengono lasciate dietro alle spalle. Infatti, occorre tenere in considerazione che molti anziani prima dell’ingresso nella residenza vivono da soli, in condizioni di forte disagio e di solitudine estrema: in questi casi le conseguenze dell’istituzionalizzazione non sono solo di carattere negativo, come troppo spesso viene immaginato. In questi casi l’ingresso a medio e lungo termine in una casa di riposo può essere vissuto in modo positivo dall’ anziano, con un senso di sicurezza dato sia dall’assistenza sanitaria che da nuove occasioni di contatti sociali, e che tutto questo favorisce il miglioramento generale dello stato di salute.

In generale però l’entrata in una struttura per anziani può comportare una perdita di autonomia dello spazio decisionale della persona e delle sue motivazioni che, sommata alla serie di perdite fisiologiche dovute all’ invecchiamento, può innescare una serie di reazioni a catena in senso peggiorativo.

Inserirsi in una struttura per anziani comporta reazioni psicologiche diverse in base a numerosi fattori personali ed oggettivi. Il vissuto psicologico durante l’istituzionalizzazione può essere suddiviso in tre fasi (Pedrinelli Carrara, 2016):

  1. il ricovero: in questa fase, le ripercussioni psicologiche sono strettamente collegate alla causa e al modo attraverso il quale l’ anziano è entrato nella struttura.
  2. la sindrome del primo mese: si riferisce ad un problematico adattamento dell’ anziano nella nuova residenza (il tempo di un mese è indicativo). Può succedere che egli abbia determinate reazioni come la confusione mentale, l’agitazione, l’apatia, il rifiuto e l’ostilità per la perdita del proprio ambiente di vita nel vedere limitata la propria libertà individuale. I vissuti emotivi negativi legati all’adattamento nella struttura, quindi, possono influenzare le prestazioni cognitive dell’ anziano producendo uno stato di confusione e rallentamento mentale.
  3. l’accomodamento: dopo la crisi del primo mese, si può osservare nell’ anziano un recupero delle condizioni di salute antecedenti il ricovero oppure un progressivo deterioramento.

Possibili fattori di stress

Tra i fattori che nell’insieme possono innescare il deterioramento ci sono: l’inadeguatezza dell’assistenza e il contesto ambientale, i conflitti familiari, le caratteristiche di personalità dell’ anziano, il vissuto psicologico circa le compromissioni a livello fisico e/o mentale, la tipologia e la severità delle patologie presenti. Al contrario, una personalità ottimista, reattiva, socievole e facilmente adattabile, con una buona tolleranza dei propri limiti psicofisici e di quelli dati dai deficit organici, in un contesto comunitario ben organizzato e con buone relazioni familiari, avrà con maggiore probabilità un accomodamento positivo (Pedrinelli Carrara, 2016).

I fattori principali che possono rendere il trasferimento in una struttura come un evento stressante sono: la minaccia allo spazio personale dell’individuo; la rottura non solo dell’attaccamento a un luogo ma anche delle relazioni familiari, amicali e di vicinato; la possibile compresenza di altre fonti di stress, come la vedovanza e l’insorgere di malattie d’invalidità; la socializzazione forzata con gli altri ospiti e la mancanza di controllo sulle proprie attività, a cominciare dagli orari delle normali routine quotidiane.

Anche per il familiare la fase di inserimento di un proprio caro in una struttura non è certamente facile: il problema principale è il senso di colpa che spesso provano come se si trattasse di un abbandono a danno dell’ anziano. Tutto ciò va affrontato affinchè venga facilitato l’adattamento dell’ anziano in struttura: gli elementi positivi apportati dal ricovero non devono essere percepiti solo dall’ anziano, ma anche dai suoi familiari, che devono considerare la struttura come una fonte di stimoli e come un’occasione per conferire al proprio caro una ritrovata dignità personale.

Come facilitare l’ingresso dell’ anziano in casa di riposo

È necessario quindi far comprendere all’ anziano e ai familiari che il trasferimento all’interno di una struttura residenziale non comporta la perdita né della propria autonomia, né della propria identità.

È importante, per quanto possibile, anticipare all’ anziano le informazioni relative alla struttura in cui andrà ad inserirsi, mostrandogliela, al fine di fargli comprendere lo stile di vita che adotterà, con regole, orari, attività e spazi differenti (Baroni, 2010).

Per facilitare l’ingresso dell’ anziano e favorire un buon adattamento, a medio e lungo termine, le residenze per anziani devono avere delle caratteristiche decisive. Ad esempio dovrebbero avere dimensioni contenute allo scopo di favorire il mantenimento di rapporti interpersonali di tipo familiare e il rispetto delle esigenze individuali dei singoli ospiti; è necessario inoltre per l’ anziano che l’ambiente risponda ai suoi bisogni, ovvero che sia un ambiente facilitante, al fine di rispondere alle necessità del soggetto.

Alcuni autori sostengono che buoni fattori di adattamento all’interno di una casa di riposo sono la soddisfazione residenziale, nei suoi aspetti fisici e sociali; il senso di autonomia; il supporto ambientale; la percezione del proprio stato di salute. Per sostenere tali fattori, sarà necessario creare spazi di privacy e semiprivacy, al fine di creare un ambiente protetto e intimo (Nenci, 2003).

Risulta, inoltre particolarmente importante l’aspetto architettonico della struttura, considerando sia l’interno che l’esterno dell’ambiente. Per l’interno può essere importante per l’ anziano il poter personalizzare la propria stanza da letto, al fine di favorire il mantenimento di una propria identità in un’abitazione inizialmente sconosciuta. Va ricordato a tal proposito che “all’interno di una struttura residenziale, in cui gli spazi sono utilizzati in maniera comunitaria, lo spazio privato rappresenta per l’ anziano il proprio domicilio” (Nenci, 2003).

Gli elementi sociali che influiscono su una buona valutazione residenziale comprendono la percezione di un supporto sociale e di relazioni affettive di aiuto, garantito sia dalle interazioni che l’ anziano riesce a sviluppare con gli altri residenti, sia con il personale della stessa struttura.

È inoltre particolarmente importante il costante supporto della famiglia e la continuità delle altre relazioni preesistenti con l’esterno: l’ anziano non deve sentirsi abbandonato dal caregiver e dai propri affetti, ma deve essere accompagnato in questa fase delicata della propria vita.

Per supplire il più possibile ai limiti dell’istituzionalizzazione, diventa necessario rispondere non soltanto ai bisogni assistenziali, ma anche a quelli socio-culturali, ricreativi ed educativi, organizzando attività di mantenimento cognitivo nonché momenti ludici, creativi e terapeutici. La persona anziana istituzionalizzata ha bisogno di ritrovare stimoli diversi, di essere sollecitata agli scambi sociali, di trovare un momento per sé da condividere con gli altri, di vivere momenti allegri insieme agli altri ospiti e ai familiari (Pedrinelli Carrara, 2013).

Alla luce di queste riflessioni negli ultimi anni stiamo assistendo infatti all’abbandono del modello assistenzialistico nelle strutture destinate agli anziani: si punta sempre più sull’invecchiamento attivo, sulla prevenzione, sul mantenimento delle autonomie, sulla riabilitazione che impedisce l’aggravamento di alcuni stati psico-fisici, sul mantenimento delle relazioni sociali e delle capacità creative.

Quali attività proporre agli anziani e perché

Sono numerose le attività che si possono proporre all’interno delle residenze per anziani: attività espressivo-relazionali, attività informativo-culturali, manuali e di vita quotidiana, attività di stimolazione cognitiva (Presenti, 2013).

Le attività con gli anziani sono principalmente di gruppo, in quanto tale relazione stimola la socializzazione e la cooperazione.

Le attività, per essere efficaci, devono essere personalizzate, cioè adattate alla necessità del singolo utente, al suo modo di essere, di pensare, alle sue possibilità e capacità cognitive (Taddia, 2012).

L’obiettivo principale è il potenziamento e/o il mantenimento delle abilità e delle risorse residue: per tale motivo ogni attività non è fine a se stessa, ma è determinata a stimolare abilità cognitive quali il linguaggio, l’attenzione, la percezione, la memoria e il ragionamento.

L’area affettiva relazionale viene promossa attraverso una serie di attività sociali (giochi, feste, incontri) che prevedono l’interazione, la socializzazione e la collaborazione fra i diversi soggetti coinvolti, al fine di stabilire un legame con le persone e allo stesso tempo mirando al miglioramento delle capacità cognitive della persona.

Un principio cardine per chi lavora in queste strutture per anziani e svolge attività cognitive e relazionali rivolte a questa fascia di età è quello di considerare la persona anziana nella sua globalità e unicità della sua storia, al fine di poter offrire ad ognuno un adeguato livello di cura e assistenza. Tali aspetti non vanno considerati separati dalla condizione fisica, psichica e relazionale: ogni intervento deve essere pensato e attuato attraverso un’ottica multidimensionale e multifattoriale.

Ad incrementare la qualità del lavoro presso una struttura per anziani è la presenza di varie figure professionali che interagiscono con l’anziano ospite. La figura dello psicologo che opera all’interno delle residenze per anziani costituisce una risorsa nella prospettiva di un’assistenza che pone la persona al centro dell’organizzazione promuovendo sia i bisogni sanitari che sociali, emotivi e relazionali. In particolare, lo scopo del servizio psicologico è quello di favorire e promuovere il “ben-essere” e lo “stare bene” degli ospiti anziani. Nel perseguire questi obiettivi lo psicologo può intervenire con diverse competenze: valuta gli aspetti cognitivi (memoria, attenzione, ragionamento, linguaggio…) che possono essere investigati mediante l’uso di strumenti diagnostici che consentano di programmare un intervento di sostegno e mantenimento delle abilità cognitive e relazionali e, al contempo, fornisce uno spazio di accoglienza, aiuto ed ascolto per l’ anziano. Indirettamente il lavoro dello psicologo presso una struttura per anziani coinvolge sia i familiari sia gli operatori della struttura stessa agevolando, così, il lavoro interprofessionale.

Vincere le ossessioni (2018) di Gabriele Melli – Recensione

Vincere le ossessioni è un libro che invita alla speranza di potersi liberare dal DOC (disturbo ossessivo-compulsivo) attraverso l’informazione dettagliata sulle caratteristiche del disturbo e sulle possibilità terapeutiche per superarlo.

 

Precedentemente inserito nel capitolo dei disturbi d’ansia, oggi, con l’aggiornamento del Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-5), il DOC è stato inserito in una nuova categoria che comprende anche il disturbo da dismorfismo corporeo, il disturbo da accumulo, il disturbo da escoriazione e la tricotillomania.

Vincere le ossessioni: struttura del libro

Il testo, di Gabriele Melli, si rivolge non solo ai professionisti della salute mentale ma soprattutto alle persone che vivono direttamente l’esperienza del DOC ed ai loro familiari. Conoscere i meccanismi del DOC può aiutare a prendere consapevolezza del problema, e a trovare strategie efficaci per fronteggiarlo secondo le preziose indicazioni fornite dal manuale. Ecco perché, nella prima parte del libro, l’autore ci illustra i processi psicologici che avvengono in presenza del DOC, fornendo delle informazioni anche sulla varietà delle tipologie di disturbo ossessivo-compulsivo e sulla diagnosi differenziale con altri disturbi che hanno sintomi ad esso sovrapponibili. Questa descrizione restituisce al lettore una chiarezza sulle caratteristiche fondamentali del disturbo, oltre a fornirlo degli strumenti concreti per identificarlo. Il testo prosegue nella sua seconda parte con la descrizione di un programma di trattamento dettagliato che fonda le sue basi sulla terapia cognitivo-comportamentale, risultando essere quest’ultima, l’orientamento d’elezione per la cura del DOC.

Vincere le ossessioni: cosa prevede nello specifico il programma di trattamento

Il trattamento prevede delle fasi ben precise che sono una propedeutica all’altra: per prima cosa è importante che il paziente faccia un’autovalutazione, con l’ausilio di questionari in autosomministrazione, al fine di prendere consapevolezza dei propri sintomi e identificare il sottotipo di DOC di cui soffre; si prosegue con un intervento educativo sul disturbo, al fine di dare chiarezza sulla differenza tra le preoccupazioni normali e i pensieri a carattere ossessivo; si mette in atto il trattamento vero e proprio, che consiste nell’utilizzo di tecniche di esposizione graduata e prevenzione della risposta; si conclude con la condivisione di suggerimenti e indicazioni che mirano a prevenire la ricaduta, in quanto il DOC è un disturbo ad alto tasso di recidiva.

L’ultima parte del libro Vincere le Ossessioni rappresenta un elogio alla collaborazione con i familiari e le persone più vicine al paziente, che spesso si trovano impreparati e impotenti di fronte al malessere del proprio caro. Per questo motivo, il testo offre un elenco dettagliato di consigli pratici e stategie efficaci per gestire le situazioni di crisi del congiunto e aiutarlo a superarle.

La semplicità espositiva e lo stile fluido utilizzato da Gabriele Melli, psicoterapeuta e docente presso l’Università di Pisa, permette una lettura e una comprensione immediata anche a chi non è del settore.

Insomma, il DOC colpisce ancora, ma Gabriele Melli ci conferma che la guarigione oggi è reale e raggiungibile.

Realtà Virtuale: se il carnefice diventasse la vittima

Seinfeld e colleghi (2018) hanno sfruttato la realtà virtuale immersiva per valutare la sensibilizzazione al riconoscimento emotivo in uomini perpetratori di violenza domestica.

 

Realtà virtuale immersiva ed empatia

L’ empatia viene spesso definita come la capacità di mettersi nei panni dell’altro, questo a livello cerebrale richiede il coinvolgimento di diverse zone del cervello: alcune deputate alla gestione dell’ empatia cognitiva ed altre deputate alla gestione dell’ empatia affettiva. L’ empatia cognitiva è la capacità di comprendere gli stati mentali delle persone, mentre l’ empatia affettiva è la capacità di riconoscere e rispondere alle emozioni altrui.

Grazie alla creazione di nuove tecnologie, come quelle della realtà virtuale immersiva (RVI), immedesimarsi in altre persone e calarsi nei più svariati contesti diventa molto semplice. Difatti, grazie all’ausilio di un visore, il soggetto in questione può facilmente identificarsi con un avatar virtuale per mezzo della sincronizzazione dei movimenti corporei e della visione di prospettiva in prima persona.

Realtà virtuale immersiva e violenza domestica: uno studio sugli abusanti

A tal proposito, Seinfeld et al., (2018) hanno sfruttato la realtà virtuale immersiva per valutare la sensibilizzazione al riconoscimento emotivo in uomini perpetratori di violenza domestica. Il campione è composto da 20 uomini condannati dal sistema giudiziale spagnolo per aver compiuto violenza contro una donna. Il gruppo di controllo è composto da 19 uomini incensurati corrispondenti per sesso, età, istruzione e status professionale al campione dei detenuti.

Prima e dopo l’esperienza di realtà virtuale è stato somministrato il test di riconoscimento delle emozioni, il Face-Body Compound (Kret et al., 2013), che assembla volti, caratterizzati da tre diverse espressioni emotive (felicità, rabbia o paura), ad espressioni corporee congruenti o incongruenti all’emotività facciale. L’esperienza di realtà virtuale immersiva è caratterizzata dall’ identificazione del partecipante con un avatar femminile, della quale si possiede la prospettiva in prima persona e la sincronizzazione dei movimenti corporei. Inizialmente, i partecipanti si trovano all’interno di una stanza ove possono vedere il proprio avatar riflesso nello specchio, per aumentare il senso di percezione corporea; successivamente nella stanza vedono comparire un uomo che aggredisce verbalmente l’avatar femminile tenendo lo sguardo fisso nei suoi occhi, le scaraventa vicino un oggetto presente nella stanza ed infine invade il suo spazio personale. Al termine dell’esperienza virtuale, viene risomministrato il Face Body Compound ai partecipanti, per valutare possibili modifiche nel riconoscimento emotivo e quindi nella sensibilizzazione empatica.

La compilazione del Face Body Compound, precedente all’esperienza virtuale, evidenzia nei detenuti sia una minor sensibilità nel riconoscere in maniera accurata le emozioni facciali di uomini e di donne, rispetto ai controlli, sia una maggiore propensione ad interpretare come felici i volti che in realtà esprimono paura. Successivamente, il secondo Face body Compound (post realtà virtuale immersiva ) evidenzia una maggiore capacità di riconoscimento delle emozioni, in particolare un miglioramento nel rilevare i volti timorosi delle donne.

In conclusione, si può notare come assumere la prospettiva in prima persona della vittima, durante un episodio di aggressione verbale, possa migliorare le abilità empatiche di riconoscimento emotivo negli uomini violenti. Nonostante la ridotta numerosità del campione, questo studio, insieme ad altri (Peck et al., 2013) condotti in ambiti diversi, offre un importante spunto di riflessione che sottolinea l’utilità dell’applicazione della realtà virtuale immersiva in ambito clinico. Tuttavia, sarebbero necessarie ulteriori ricerche per meglio ampliare le nostre conoscenze in tale ambito.

 

Il disturbo da uso di sostanze come disturbo dell’attaccamento

Studi recenti suggeriscono la presenza di un collegamento sostanziale tra l’organizzazione dell’ attaccamento in adolescenza e la salute mentale (Schindler et al., 2007; Schindler & Bröning, 2015) e che l’attaccamento tra il bambino e le sue figure di accudimento gioca un ruolo cruciale nello sviluppo sano. 

 

Studiando adolescenti gravemente disturbati si è riscontrato, in misura significativa, un tipo di attaccamento insicuro, con una prevalenza di stati della mente insicuri-irrisolti in gran parte di essi (Allen, Hauser & Borman-Spurrell, 1996; Wallis & Steele, 2001).

Per quanto riguarda le relazioni fra stili d’attaccamento adulto e psicopatologia, le ricerche hanno mostrato come l’attaccamento sicuro sia un importante fattore protettivo contro lo sviluppo dei disturbi mentali, mentre gli stili non sicuri siano associati al loro sviluppo (Rosenstein & Horowitz, 1996; Nakash-Eisikovits, Dutra & Westen, 2002).

Rispetto all’uso di sostanze, l’ attaccamento insicuro sembrerebbe essere un fattore di rischio per lo sviluppo in adolescenza di abuso e dipendenza da sostanze ed è stata sottolineata una generale connessione tra stile di attaccamento insicuro e problematiche di abuso di sostanze (Schindler et al., 2005; Kassel, Wardle & Roberts, 2007). Non solo gli abusi fisici, psicologici e sessuali, ma anche la trascuratezza, ha un impatto profondo e persistente su uno sviluppo cognitivo ed emotivo sano, predisponendo l’individuo allo sviluppo di disturbi da uso di sostanze (Trickett et al., 2009; Trickett, Kim & Prindle, 2011).

Disturbo da uso di sostanze e Attaccamento

Il disturbo da uso di sostanze come disturbo dell’ attaccamento risulta essere in relazione con due costrutti interdipendenti tra loro: la disregolazione emotiva e le difficoltà dei rapporti interpersonali.

La capacità di regolazione emotiva è un processo che si sviluppa nei primi anni di vita nella relazione con i caregiver e la sua assenza risulta essere un fattore estremamente rilevante nell’insorgere di diversi tipi di disturbi, tra cui anche l’ abuso di sostanze stupefacenti. Nel disturbo da uso di sostanze sembra avere un ruolo fondamentale la mancanza di consapevolezza delle proprie emozioni e, di conseguenza, una gestione inefficace di queste, che porta a sperimentare sostanze psicoattive per tentare di regolare gli stati affettivi o inibire le emozioni percepite come negative.

Studi recenti hanno evidenziato come le relazioni primarie incidano in modo significativo, seppur non determinante, sui disturbi dell’umore, sugli affetti negativi e sui comportamenti impulsivi, che sono tra i possibili fattori di rischio per l’insorgenza del disturbo da uso di sostanze (Windom, DuMont & Czaja, 2007; Caretti & La Barbera, 2010). I neonati che si relazionano con madri non responsive e non sensibili ai loro bisogni manifestano, a livello neurobiologico, un’elevata produzione di cortisolo, una maggiore sensibilità allo stress, decifit cognitivi e problemi socio emotivi (Bugental, Martorell & Barraza, 2003); i fattori precedentemente elencati determinano una certa vulnerabilità che può fare da base allo sviluppo successivo della dipendenza da sostanze (Duval et al., 2006).

Le esperienze di trascuratezza emotiva, proprie di un attaccamento insicuro e disorganizzato, dove non è presente la reciprocità emotiva, finiscono per compromettere nel corso dello sviluppo la capacità di identificare i propri stati emotivi (Schimmenti, 2008), impedendo una consapevole elaborazione delle esperienze e dei vissuti, oltre ad attuare modalità di scambio intersoggettivo disfunzionali. Ciò avviene poiché le competenze legate all’autoregolazione e alla regolazione interattiva degli affetti si sviluppano proprio nei primi anni di vita nella relazione tra il bambino e le sue figure di accudimento (Caretti, Capraro & Schimmenti, 2006).

I genitori capaci di sintonizzarsi emotivamente con il proprio figlio e che possiedono un’acuta sensibilità alle sue espressioni e manifestazioni emotive favoriscono nel bambino la capacità di regolazione emotiva. Attraverso la responsività del genitore il bambino impara a modulare ed a gestire le proprie emozioni e la competenza genitoriale di riuscire ad identificare correttamente le attivazioni fisiologiche del bambino e collegarle a specifici stati affettivi risulta essere fondamentale affinché il piccolo riesca ad integrare i processi affettivi e cognitivi (Fonagy & Target, 2001). Anche la capacità di regolazione affettiva nell’adolescente è strettamente legata alla competenza nel rispecchiamento degli stati emotivi che il caregiver è in grado di manifestare.

La dipendenza patologica, d’altronde, può nascere da qualsiasi esperienza la cui sensorialità abbia la funzione di alleviare il dolore, l’ansia e/o stati emotivi sgradevoli attraverso una diminuzione della coscienza o l’innalzalmento della soglia della sensibilità. Gli studi clinici di Khantzian (1993) suggeriscono che i problemi legati alla regolazione affettiva sono da ricondurre essenzialmente a relazioni disfunzionali nei primi anni di vita che provocano l’arresto dello sviluppo affettivo, che si manifesterà nell’arco della vita con la sensazione di non riuscire a controllare le proprie emozioni o con il non saperle affatto riconoscere.

Nello sviluppo sano è fondamentale che la figura di accudimento faccia attenzione alle emozioni del bambino e riesca a sintonizzarsi emotivamente con lui, poiché proprio questa sensibilità alla co-regolazione nella relazione diadica diventerà la base delle modalità di compartecipazione intersoggettiva degli stati affettivi che il bambino accrescerà nel corso del suo sviluppo e, dunque, uno dei più significativi fattori di protezione per l’insorgere dell’abuso di sostanze (Caretti, Capraro & Schimmenti, 2006).

Facendo ora riferimento alle difficoltà interpersonali si evince che l’ uso di sostanze che, all’inizio, nasce come modo che attua l’individuo per gestire le difficoltà nelle relazioni interpersonali, gradualmente compromette una capacità già molto fragile di stabilire sani legami di attaccamento; di conseguenza, le competenze sociali e le abilità interpersonali di chi soffre del disturbo con il tempo si affievoliscono e con l’intensificarsi della condotta dipendente diminuiscono sempre di più. Gestire le relazioni diviene sempre più difficile portando a fare sempre maggiore affidamento sulle sostanze e ad un deterioramento delle funzioni neuropsicologiche e rinforzando modelli di risposta dipendenti (ibidem).

Quanto affermato risulta essere significativo soprattutto per gli adolescenti che molto spesso fanno uso di sostanze psicoattive in quanto queste divengono un facilitatore sociale, che permette di sperimentare benessere, apertura nel gruppo dei pari e facilita la comunicazione e la condivisione di sentimenti ed esperienze, ma che a lungo andare porta a un deterioramento della capacità di instaurare relazioni significative e profonde (Schlaadt & Shannon, 1994).

In conclusione

La teoria dell’attaccamento sostiene che è biologicamente impossibile per gli esseri umani regolare completamente da soli i loro stati affettivi (Lewis, Amini & Lannon, 2000). Di conseguenza, risulta fondamentale per chi fa uso di sostanze apprendere altre modalità relazionali improntate sulla reciprocità e sviluppare la capacità di regolare in modo sano le proprie emozioni, abbandonando l’uso compensatorio di droghe per alleviare il senso di inadeguatezza e l’incapacità relazionale.

L’effetto delle sostanze psicoattive è dunque un ostacolo e un sostituto della relazione interpersonale, un modo per regolare gli affetti e il modo per non percepire l’incapacità di entrare in intimità (ibidem).

In sintesi, gli stili di attaccamento sicuro contribuiscono ad un sano sviluppo nella regolazione delle emozioni e nelle relazioni interpersonali, capacità fondamentali soprattutto in periodi di transazione, come l’adolescenza; gli studi attuali considerano la disregolazione emotiva e le difficoltà interpersonali come mediatori della relazione tra attaccamento insicuro e problemi con l’abuso di sostanze (Goldstein et al., 2018).

Attività fisica e psicopatologia: il disturbo di panico

L’ attività fisica sembra avere un ruolo non solo nell’incrementare il benessere psicologico in caso di salute mentale, ma anche del determinare miglioramenti in caso di psicopatologia..

 

Il disturbo di panico è un disturbo clinico caratterizzato da ricorrenti attacchi inaspettati, accompagnati da paura e disagio intensi, dalla preoccupazione persistente per l’insorgenza di nuovi attacchi ed in cui si verificano alcuni tra i seguenti sintomi: tachicardia, sudorazione, tremori, sensazioni di soffocamento, dolore al petto, nausea, vertigine, vampate di calore, formicolio, paura di perdere il controllo, paura di impazzire, paura di morire.

Disturbo di panico: il modello biologico

Klein D.F. (1993) sosteneva che il disturbo di panico fosse un disturbo di ansia di natura essenzialmente biologica. Ha rilevato gli effetti antipanico correlati alla somministrazione di imipramina: i pazienti non rispondevano dunque ai farmaci tipici dell’ansia ovvero alle benzodiazepine bensì all’imipramina che è un antidepressivo. Tuttavia questa teoria ha presentato dei punti di criticità, ovvero: non esiste un rapporto diretto tra imipramina ed attacchi, bensi anche altri antidepressivi riducono gli attacchi. Klein riteneva fossero falsi allarmi frutto di evoluzione, probabilmente legati all’ansia di separazione ed all’asfissia.

Si tratta di allarmi di soffocamento attivati da livelli crescenti di anidride carbonica che comportano una improvvisa difficoltà respiratoria che evoca una sensazione di soffocamento e che innesca iperventilazione, panico e desiderio di fuga, falso allarme che può essere attivato anche da segnali psicologici di soffocamento. Il ruolo dell’iperventilazione è controverso: non è infatti ben chiaro se sia la causa o la conseguenza dell’ attacco di panico in quanto i pazienti affetti da disturbo di panico iperventilano in misura più importante dei pazienti affetti da altri disturbi di ansia.

Disturbo di panico: il modello cognitivo

Clark (1986) sosteneva che gli attacchi di panico fossero dovuti ad una interpretazione catastrofica delle sensazioni somatiche, appannaggio di alcune persone che presenterebbero una tendenza stabile ad interpretare in modo errato i sintomi fisici. Si attiva così un circolo vizioso quando si assiste ad una congruenza tra le sensazioni avvertite e le credenze catastrofiche delle persone, con tendenza a sovrastimare il rischio per la salute credendo che tali sensazioni somatiche siano pericolose. Questo modello non spiega la persistenza della paura degli attacchi a dispetto della consapevolezza della non pericolosità. Clark evidenzia tre tipi di vulnerabilità:

  1. Biologica, correlata alla capacità di provare sensazioni corporee intense
  2. Tendenza ad interpretazioni catastrofiche
  3. L’insieme delle due

Le credenze catastrofiche comportano nel paziente la messa in atto di comportamenti protettivi come l’evitamento o la riduzione dell’attività fisica, la fuga, il ricorso alla vicinanza di persone rassicuranti, condotte che costituiscono fattori di mantenimento della problematica.

Disturbo di panico e benefici dell’esercizio fisico

Sono state introdotte nuove strategie di trattamento per ridurre l’ansia quali l’esercizio fisico. L’ attività fisica sembra possa ridurre l’ansia ma la mancanza di gruppi di controllo validi e la breve durata degli studi costituiscono un limite alla generalizzabilità dei risultati. Sono stati analizzati alcuni studi: uno studio di Hovland et al.(2012) secondo cui l’esercizio fisico ha comportato un miglioramento significativo delle cognizioni catastrofiche circa i pensieri associati all’attacco di panico ed un miglioramento dei sintomi fisici. Lo studio di Wedekind et al.,( 2010) ha dimostrato che l’esercizio aerobico regolare (corsa) ha un’efficacia superiore al placebo nel trattamento del disturbo di panico: lo studio ha confrontato il trattamento combinato di esercizio aerobico con e senza l’assunzione di paroxetina, deducendo che un miglioramento del disturbo potrebbe essere indotto da una maggior efficacia del farmaco, per l’effetto combinato con l’attività fisica. Lo studio di A. Broocks (‎1998) ha messo a confronto tre gruppi ovvero:  esercizio aerobico, clomipramina e placebo, rilevando che la clomipramina presentava una maggiore efficacia seguita dall’efficacia dell’esercizio fisico (superiore al placebo).

L’ esercizio fisico sembra avere una certa efficacia nel ridurre i sintomi del disturbo di panico e ridurre la sensibilità all’ansia che è un precursore di attacchi di panico e del disturbo di panico. I pazienti affetti da disturbo di panico potrebbero temere che l’allenamento possa provocare sintomi come dispnea, tachicardia, vertigini e per questo per le prime sessioni di attività sportiva si consiglia di affiancare al paziente un esperto allenatore e se è necessario, uno psicoterapeuta.

Un follow up a sei mesi ha evidenziato miglioramenti che possono essere attribuiti in parte alle aspettative dei pazienti; per questo sarà significativo munirli di un “diario delle attività sportive” che accuratamente raccolga la storia dell’attività sportiva, monitorando l’intensità dell’esercizio; inoltre sarà opportuno stabilire un programma terapeutico, la scelta dell’esercizio e le modalità di formazione idonee. Diversi studi (Ströhle A et al, 2009; Esquivel G et al, 2008; Ströhle A et al, 2006; Broman-Fulks JJ et al, 2008) hanno rilevato una riduzione di sintomi in soggetti affetti da disturbo di panico che praticavano il cardiofitness ma non si può escludere che l’aumentata interazione sociale possa contribuire al beneficio.

Attività fisica: l’esposizione utile per ridurre gli attacchi di panico

I meccanismi secondo cui l’esercizio fisico influisca sul miglioramento psicologico non sono chiari. Da una prospettiva cognitivo comportamentale l’esecuzione dell’esercizio rappresenterebbe una sorta di “Trattamento di esposizione” in cui il paziente si confronta con gli stimoli interni temuti durante l’attacco di panico, ovvero palpitazioni, arresto del respiro, vertigini, sudorazione: mentre sperimentano attacchi di panico, i pazienti tendono ad interpretare erroneamente le sensazioni corporee come espressioni di una malattia organica che minaccia la loro vita. Non si può escludere la possibilità che questo possa correggere le cognizioni disfunzionali correlate all’esercizio, aiutando i pazienti ad interpretare i pericoli percepiti in modo più innocuo (infatti i pazienti avevano ridotto il loro esercizio a causa della paura che avrebbero sofferto di malattie cardiache, in quanto l’esercizio avrebbe potuto condurli ad attacchi cardiaci pericolosi) .

Effetti ansiolitici dell’esercizio fisico sembrano essere correlati anche a cambiamenti adattivi nel sistema nervoso centrale ma non è chiaro se questi adattamenti neuroendocrini siano correlati o meno all’esercizio. Il ruolo dell’esercizio fisico può essere significativo per i pazienti con disturbo di panico che non possono assumere psicofarmaci: l’ attività fisica potrebbe quindi essere efficacemente integrata con la psicoterapia cognitivo comportamentale. Sarebbe interessante approfondire nel futuro con studi di follow up se, continuando un regolare esercizio fisico, si potrà ridurre nel paziente il rischio di una recidiva del disturbo.

Seduzione e tradimento (2018) di Mirella Baldassarre – Recensione del libro

Seduzione e tradimento è un libro che tratta di legami, osservando l’amore attraverso i territori sconfinati della paura, della gelosia e della vergogna. L’amore come fonte di felicità e di malessere: sorprendente fonte di energia che alimenta la vita, può portare talvolta ad atroci sofferenze.

 

E questo accade quando donne e uomini violenti e bugiardi agiscono da traditori, impostori, veri truffatori dei sentimenti, artefici dei delitti del cuore. Instaurando instancabili reti comunicative e di comportamento, basate sulla manipolazione con cui avviluppano e feriscono le vite altrui, questi uomini e queste donne a volte arrivano fino a distruggerle, per un vantaggio personale.

Sono le situazioni in cui l’amore si trasforma da energia di vita in quella di morte, a volte incontenibile, tanto che il corpo reagisce con dolore, fino a mobilitare i propri organi, somatizzando, ammalandosi.

Seduzione e tradimento – Un’analisi profonda nella psiche individuale e nelle dinamiche di coppia

L’autrice dona al proprio lettore, attraverso riferimenti in chiara ottica psicoanalitica, un viaggio attraverso le esperienze emotive della seduzione e del tradimento, mostrando come le persone che attuano strategie perverse del relazionarsi, si nutrano della vitalità altrui ricorrendo alla manipolazione: attraverso le relazioni umane, da cui traggono energia per ricaricarsi, rafforzare la propria onnipotenza, intrappolano l’altro in una morsa perversa, prevaricandolo e aumentandone la sensazione di inferiorità.

Illuminando i processi psichici sottostanti il tradimento, nella mente del tradito e del traditore, l’autrice del libro Seduzione e tradimento sottolinea come sia fondamentale, per una profonda comprensione delle situazioni che possono generarsi in una coppia che fronteggia questo vissuto, considerare tutti gli elementi che giocano un ruolo: la personalità, la sua organizzazione interna, la maturità raggiunta, i sentimenti e le caratteristiche individuali dei partner della coppia.

Questo perché al di là del tradimento, esiste una serie di insoddisfazioni celate che spingono alla ricerca di qualcun altro, al di fuori, che significa dichiarare l’affermarsi di una nuova ricerca emotiva. E’ molto diverso avere un flirt, dallo strutturare una vera relazione, che s’impone come una triangolazione.

L’infedeltà scopre le fragilità, le frustrazioni subite da ciascuno, una specie di terremoto psichico che può travolgere l’esistenza delle stesse coppie, delle famiglie, coinvolgendo i figli in lotte intestine, cruenti, a causa delle caratteristiche di personalità dei partner, che non essendosi veramente incontrati, non riescono a separarsi.

Piacere, Alessitimia e Priopriocettività: come la capacità di cogliere i segnali del proprio corpo può risultare determinante nel funzionamento sessuale

Lo stretto legame tra alessitimia e funzionamento sessuale suggerisce l’importanza nella pratica clinica di implementare quelle tecniche volte all’aumento della consapevolezza corporea, come ad esempio la Mindfulness.

 

Il piacere sessuale richiede la capacità di rivolgere la propria attenzione sulle sensazioni provate dal corpo durante l’attività erotica (Costa, Pestana, Costa, & Wittmann, 2016): alcune ricerche hanno rilevato come una migliore capacità enterocettiva correlasse con un maggior desiderio sessuale nelle donne (Costa, Oliveira, Pestana, Costa, & Oliveira, 2019); contrariamente, donne con difficoltà nel desiderio e nell’eccitazione sessuale hanno riportato punteggi di consapevolezza enterocettiva più bassi (Carvalheira, Price, & Neves, 2017).

E’ facile intuire come allo stesso modo, la capacità di percepire i cambiamenti fisiologici del proprio corpo in relazione agli stimoli, così come quella di discriminare lo stato emotivo che questi elicitano, in altre parole, la capacità di discriminare le emozioni (Damasio, 1994), abbiano un ruolo fondamentale nella sessualità della specie umana.

Alessitimia e benessere sessuale

L’ alessitimia, condizione subclinica definita come una generale difficoltà nell’esperire e discriminare le emozioni, può manifestarsi anche con una generale difficoltà nel distinguere le diverse emozioni, una difficoltà a distinguere tra emozioni e sensazione fisica, così come lessico emotivo ridotto o fantasie limitate (Taylor, Bagby, & Parker, 2016; Lane, Anderson, & Smith, 2018; Sifneos, 1973).

In generale le ricerche sul rapporto tra alessitimia e benessere sessuale sembrano confermare che una mancata capacità di provare e riconoscere le emozioni abbia un effetto negativo per una buona vita sessuale, riportando nel campione maschile una correlazione con disfunzioni erettili (Madioni & Mammana, 2001; Michetti, Rossi, Bonanno, Tiesi, & Simonelli, 2006), desiderio sessuale ipoattivo (Madioni & Mammana, 2001) ed eiaculazione precoce (Michetti et al., 2007); per le donne invece alti indici di alessitimia erano associati ad un minor desiderio sessuale (Costa et al., 2019), maggiore insoddisfazione sessuale (Humphreys, Wood, & Parker, 2009; Scimeca et al., 2013) ed una frequenza più bassa di rapporti vaginali (Brody, 2003).

Evidenze sperimentali

Un recente studio di Berenguer, Rebolo e Costa (2019) si è proposto di indagare il rapporto tra capacità enterocettiva, alessitimia e funzionamento sessuale, analizzando i dati provenienti da un campione non clinico di 244 soggetti (152 uomini, 88 donne).

Tutti i partecipanti hanno compilato dei questionari self report sull’ alessitimia (Toronto Alessitimia Scale TAS-20; Bagby, Parker, & Taylor, 1994) e sull’enteroceptive awareness (Multidimensional Assessment of Interoceptive Awareness, MAIA; Mehling et al., 2012); inoltre gli uomini hanno addizionalmente risposto all’International Index for Erectile Function ( IEEF, Quinta Gomes & Nobre, 2012; Rosen et al., 1997) ed un item aggiuntivo volto ad indagare eventuali difficoltà nel ritardare l’eiaculazione nell’ultimo mese; le donne hanno invece risposto al Female Sexual Function Index (FSFI; Rosen et al., 2000) ed alla Female Sexual Distress Scale–Revised che si compone di 6 sottoscale sul desiderio, arousal, lubrificazione, orgasmo, soddisfazione, e dolore (FSDS-R; DeRogatis, Clayton, Lewis-D’Agostino, Wunderlich, & Fu, 2008).

I risultati dello studio confermano che sia per quanto riguarda gli uomini che per le donne, una miglior capacità enterocettiva e livelli più bassi di alessitimia correlano con indici migliori di funzionamento sessuale. Nelle donne, una migliore propriocezione correlava positivamente con tutte le sottoscale di funzionamento sessuale analizzate. Negli uomini invece, una miglior discriminazione dei propri stati interni risultava in una minor difficoltà nel ritardare l’orgasmo. L’ alessitimia è invece risultata collegata ad un deterioramento del funzionamento sessuale su tutte le scale, tranne quella del desiderio.

In conclusione

Vi è un crescente numero di studi a supporto dell’idea di uno stretto legame tra un buon funzionamento sessuale ed una buona capacità di interpretare il linguaggio del proprio corpo; in tal senso, la pratica clinica dovrebbe implementare quelle tecniche volte all’aumento della consapevolezza corporea come ad esempio la Mindfulness, le quali si stanno rivelando utili con problematiche di natura sessuale nelle donne (Paterson et al., 2017; Vilarinho, 2017) che, ad esempio, nei casi legate alle disfunzioni erettili (Bossio, Basson, Driscoll, Correia, & Brotto, 2018).

Per una Psicoterapia breve

Perché non ipotizzare una psicoterapia che abbia come obiettivo una profonda consapevolezza di sé e del nesso tra il proprio modo di stare al mondo (identità) ed i sintomi che la persona lamenta e lasci poi al suo lavorio autonomo, ai suoi valori, alla casualità degli accadimenti, troppo sottovalutata, e al mutare nelle varie stagioni della vita degli assetti motivazionali la scoperta di nuovi equilibri?

 

Il format della psicoterapia che abbiamo in testa è immutato da quando è stata formalizzata la psicoanalisi di Freud le cui regole costituiscono il “golden setting”, nato in una Vienna di fine ‘800 dove si andava in carrozza e c’era, oltre la sacher torte, anche l’imperatore Francesco Giuseppe; è rimasto pressoché stabile nonostante un paio di guerre mondiali, l’industrializzazione, la rivoluzione informatica, il web e soprattutto internet che ha reso accessibile a tutti moltissima informazione con cui da un lato bisogna necessariamente fare i conti rinunciando al ruolo di unici possessori e dispensatori per reinventarsi come novelli Virgilio che aiutano la navigazione, e dall’altro lato di cui ci si può avvalere rimandando ad essa e risparmiandoci un bel po’ di lavoro informativo (credo che tutto il mondo della psicoterapia sia colpevolmente in ritardo nella riflessione sul cambiamento attuale di cui libri come “The Game” di Baricco e la trilogia di Harari ”Sapiens”, “Homo deus”, “Lezioni per il XXI secolo” descrivono la portata e l’influenza su tutto il mondo della terapia) .

Per quanto riguarda invece la “mission” della psicoterapia e più in generale della psichiatria, si è se sempre cercato di conciliare due esigenze apparentemente contrastanti: da un lato il benessere soggettivo, e la libera espressione dell’individuo, dall’altro la protezione dei valori della società riconducendo alla normalità coloro che se ne discostavano creando scandalo prima ancora che pericolo. Quest’anima da “castigamatti” ci è immediatamente evidente in alcune società e regimi dittatoriali ma è presente sin dal primo “grande internamento” in cui gli ex lebbrosari trasformati in manicomi accoglievano ogni forma di devianza mentale, fisica, sessuale, culturale e politica custodendo il diverso affinchè non contagiasse il normale. E’ nel 1656 a Parigi che gli ex lebbrosari vengono trasformasti in Hopital General dove confluiscono lunatici, folli, eretici, criminali, libertini, puttane, soggetti con gravi malformazioni fisiche (mostri) e oppositori politici ( Michel Foucault 1963 “Storia della Follia nell’’età classica” ed. Rizzoli Milano).

E’, del resto, impossibile porsi al di fuori di una qualsivoglia cultura e quella in cui si è immersi fatalmente non la si riconosce. Non esiste attività umana che sia cultur-free, tanto meno la psichiatria e la psicoterapia. Si aggiunga che la cultura, pur influenzando ogni nostra espressione, lo fa senza che ce ne rendiamo conto. E’ potente proprio perché la diamo per scontata. Non è l’oggetto del discorso ma la sua premessa, la luce che illumina la scena non gli oggetti o l’azione che vi si svolge. La cultura modella al di fuori della consapevolezza i desideri e i criteri di giudizio.

Anche la psicoterapia ne è da un lato un prodotto diretto e recente (nemmeno 150 anni) e dall’altro un onesto servo idiota con l’aggravante di ritenersi intelligente. Se si escludono alcuni santoni che dichiaratamente vogliono insegnare ai propri pazienti come vivere trasformandoli in adepti, e poco conta che sia secondo i dettami del pensiero positivo, del razionalismo, dell’evoluzionismo o dell’etica evangelica della chiesa avventinzia del penultimo giorno, gli altri, diciamo così quelli seri (cui ci immaginiamo di appartenere), tentano di evitare questo rischio, e in tal senso possono persino essere più pericolosi perché inconsapevoli e poco evidenti.

Infatti per evitare il rischio GDQS (guru da quattro soldi) sono principalmente due gli argomenti e le strategie che si usano. Il primo è il cosiddetto atteggiamento “non giudicante”. Il secondo è il partire da una egodistonia del paziente fissando insieme a lui gli obiettivi. Credo che seppure vi si aspiri ciò si realizzi solo parzialmente e dunque non sia del tutto vero come la presunta ateoricità dei vari DSM (non è forse una premessa epistemologica fondante del cognitivismocostruttivismo che non sono i fatti a costruire le teorie ma quest’ultime a organizzare e valutare i fatti stessi e dunque che sia impossibile prendere contatto con una realtà senza contemporaneamente valutarla e conoscerla attraverso schemi preesistenti ad essa?). Ma prendiamo momentaneamente per buono questo intento e diamolo per realizzato soffermandoci invece sulle premesse culturali implicite che esso stesso nasconde.

L’atteggiamento “non giudicante” tanto sbandierato non afferma in fondo con forza, per usare un ossimoro, un relativismo assoluto? per cui tutto va bene, tutto è ammissibile? Attenzione non sto affermando che questo sia sbagliato (peraltro è davvero la mia convinzione personale) dico solo che bisogna essere consapevoli che anch’essa è una premessa ideologica, non meno assoluta di tante altre e che non è l’unico modo possibile di stare al mondo.

L’egodistonia e l’autodeterminazione degli obiettivi mettono al centro di tutto l’individuo, il suo benessere e il conseguente diritto ad autodeterminarsi per ottenerlo che potremmo definire come “egocentrismo edonico”. Il messaggio che passa più o meno esplicitamente è “pensa a te, ai tuoi bisogni e desideri” (ricentramento su di sé) e “fai di tutto per realizzare il tuo benessere” (assertività) con l’unica attenzione a non essere guidato solo dal principio del piacere immediato ma di tener conto anche del principio di realtà e dunque anche delle prevedibili conseguenze relazionali del tuo comportamento ma sempre per perseguire un piacere che non sia solo a breve ma anche a medio e lungo termine.

Di nuovo mi astengo da qualsiasi giudizio in proposito, volendo limitarmi a suscitare consapevolezza che questo è un modello di uomo sano tipico della attuale cultura occidentale di matrice statunitense in cui ognuno deve darsi da fare al massimo per costruire il proprio personale benessere (tralascio la banalità che lo si pensa legato all’avere piuttosto che all’essere e raggiungibile piuttosto con il fare che con il sentire) in un ambiente di libero mercato del benessere dove il fatto che ognuno persegua il proprio comporta un miglioramento complessivo per tutti.

In tale clima di darwinismo sociale, l’agonismo per l’affermazione del più forte ha preso il nome molto più presentabile, su cui c’è grande consenso, di meritocrazia che non ha più oppositori essendo considerata appunto una ovvietà che turba alcune anime belle solo quando arriva all’eutanasia dei meno performanti o alla impresentabile eugenetica mengeliana di cui, però, è premessa. Ci vorrebbe un filosofo, uno storico e un sociologo per ragionare su questi temi. Mi basta qui sollevare un dubbio circa la presunta avolorialità della psicoterapia che a me sembra invece imbevuta di un egocentrismo edonistico che vede i legami con gli altri come strumenti di soddisfacimento dei propri bisogni. Esistono culture orientali costruite su altri valori che negano esplicitamente che questa sia la strada che conduce alla felicità ( basterà pensare alla millenaria tradizione buddista che oggi molte scuole psicoterapeutiche recuperano e riutilizzano ma in una cornice valoriale diversa).

Se il setting è una eredità soprattutto della psicoanalisi, l’idea di un cambiamento possibilmente rapido, evidente e misurabile proviene prevalentemente dall’approccio pragmatico del comportamentismo e del cognitivismo. Il fatto di ipotizzare un cambiamento non presuppone in fondo che ci sia un modo sano, corretto e giusto di vivere e che tutto ciò che vi si discosta sia patologico? E non è questo il ruolo normalizzatore, di controllo che, come detto ampiamente sopra, ha sempre costituito un’ambivalenza profonda della psichiatria, da un lato attenta a promuovere l’originalità individuale e dall’altra a mantenere l’ordine costituito su mandato sociale. Alcune grandi tradizioni psicoterapeutiche in particolare psicodinamiche si pongono soprattutto come un cammino di conoscenza di sé non mostrando quell’accanimento verso il sintomo, ne facendo quelle promesse di cambiamento a breve termine con le quali la psicoterapia cognitiva si è inizialmente accreditata forse per trovare uno spazio in un mercato già affollato.

Provo a immaginare una proposta finale a partire da 6 osservazioni

  1. Si potrebbe pensare una psicoterapia che per contratto si proponga esclusivamente di fornire consapevolezza sul proprio funzionamento lasciando poi eventuali cambiamenti al paziente che, grazie a tale consapevolezza, può reinventare nuovi adattamenti alla realtà che siano armonici con i suoi vincoli cognitivi, culturali e valoriali. La terapia potrebbe fermarsi al socratico “conosci te stesso” e poi fa ciò che vuoi.
  2. Potremmo considerare la vita di ciascuno con le sue scelte, le stranezze e anche le cosiddette “patologie” non soltanto come “quanto di meglio, poveretto!!, è riuscito a fare” ma come un modo unico e originale di stare nel suo mondo? Un modo quasi da salvaguardare come la biodiversità? (credo davvero che i vari disturbi di personalità soprattutto nelle forme non estreme siano un patrimonio genetico dell’umanità che ci consente potenzialità di adattamento ad ambienti diversi). Questo atteggiamento ridurrebbe lo stigma e i secondari di autosvalutazione caratteristici dei pazienti di ogni tipo.
  3. Probabilmente se esistessero medicine in grado di cambiare il modo di stare al mondo delle persone le guarderemmo con sospetto come una minaccia alla libertà e forse le metteremo fuori legge. Forse molti di noi rifiuterebbero di assumere un farmaco che ci liberasse dai sintomi fastidiosi ma al prezzo della nostra identità. Insomma siamo affezionati e orgogliosi del nostro essere noi stessi anche se comporta dei costi.
  4. Il disagio del vivere ha accompagnato da sempre l’esistenza umana, unica caratterizzata dalla consapevolezza della propria finitezza (dopo la cacciata dall’Eden per aver mangiato appunto il frutto dell’albero della conoscenza) e a tale disagio sono state cercate le soluzioni più varie che potremmo distinguere in due grandi categorie. Da un lato quelle “distrattive” miranti a ridurre tale dolorosa consapevolezza (come se fosse possibile rivomitare la mela) che vanno dall’impegno costante nel fare (poco importa se una famiglia, un figlio, una casa, un’azienda o un progetto per la fame nel mondo), all’uso di droghe (sostanze o fanatismi) che offuscano la mente. Dall’altro quelle opposte “concentrative” (consistenti nell’abbuffarsi di mele in tutte le forme) che puntano attraverso un ampliamento della stessa autoconsapevolezza a trovare la soluzione all’angoscia che essa stessa genera. Appartengono a questa categoria la filosofia, le religioni e le fedi a cui in periodi recenti della storia umana si sono affiancate con lo stesso scopo le ideologie. E’ come se si pensasse che gli animali gestiti dagli istinti nella loro inconsapevolezza vivano bene mentre l’uomo, consapevole e costretto a sapersi mortale, viva male e solo trasformandosi in un ipotetico superuomo che possa comprendere tutto, capire il come e il senso di ogni cosa possa nuovamente riconquistare la felicità e la libertà.
  5. Talvolta la relazione terapeutica somiglia a un tiro alla fune in cui il terapeuta punta al cambiamento e il paziente di contro con pari forza mira al mantenimento (resistenze) della propria identità (l’esempio estremo è il TSO in cui il paziente per il suo bene, che però è stabilito da qualcun altro, è privato della libertà di scegliere).
  6. A tutto questo si può obiettare che il più delle volte è il paziente stesso a chiedere aiuto perché i suoi sintomi sono egodistonici. Il fatto è che praticamente sempre il paziente è egodistonico sui sintomi ma per nulla sul modo di stare al mondo che li produce (vorrebbe eliminare i sintomi restando lo stesso, non cambiando nulla) ed è questo il motivo del successo dei farmaci che sono appunto richiesti perché ritenuti “sintomatici”.

Perché non ipotizzare una psicoterapia che abbia come obiettivo una profonda consapevolezza di sé e del nesso tra il proprio modo di stare al mondo (identità) ed i sintomi che la persona lamenta e lasci poi al suo lavorio autonomo, ai suoi valori, alla casualità degli accadimenti, troppo sottovalutata, e al mutare nelle varie stagioni della vita degli assetti motivazionali la scoperta di nuovi equilibri.

Per fare ciò il modello cognitivista “scopi/credenze” è particolarmente adatto perché corrispondente alle teorie psicologiche innate negli uomini. La psicoterapia si configurerebbe come una psicoeducazione sul funzionamento degli esseri umani in generale e poi in un’esplorazione sui propri specifici modi di stare al mondo (teorie psicologiche native, scopi, credenze, emozioni, strategie). In questo lavoro di esplorazione ci si può avvalere di ogni tecnica (test, osservazioni, sogni, meditazione, ipnosi, sostanze, ecc) che funzioni con quella specifica persona.

Una volta completato il lavoro di assessment che potrebbe risolversi in un paio di mesi al massimo di lavoro in seduta e con gli home work, il tutto sarebbe restituito e discusso con il paziente che potrebbe, qualora lo desideri, per suo conto fissarsi degli obiettivi di cambiamento da perseguire con i tempi e le modalità a lui più congeniali avvalendosi dei percorsi di auto aiuto e di apprendimento di specifiche skill che su internet e in libreria abbondano o degli strumenti disponibili nella sua cultura di riferimento (preghiera, meditazione, volontà, esercizi ecc.). Nulla esclude che il paziente ritorni a distanza di mesi o di anni a fare il punto con il suo terapeuta soprattutto nelle fasi di passaggi esistenziali.

Ho l’impressione che così il terapeuta si liberebbe dell’onnipotenza ma anche del peso di responsabilità che comporta e il paziente si riapproprierebbe della propria libertà e agentività e vivremmo così tutti più a lungo felici e contenti.

Molti criticheranno questa mia proposta accusandomi di essere “cicero pro domo mea” sapendo che se sono bravino nell’assessment, sono gravemente refrattario all’utilizzo delle tecniche che pure so essere efficaci. Il guaio è che hanno ragione..

Quante emozioni! Le risposte dei grandi alle emozioni dei piccoli

Il valore delle emozioni sta nella capacità di poterle vivere liberamente ma al contempo in modo adattivo, tale possibilità è influenzata, nella primissima infanzia, dalla risposta che i bambini ricevono dal mondo degli adulti.

 

“Le reazioni emotive dei bambini si modificano nel tempo perché si modificano le loro interpretazioni degli eventi. Crescendo i bambini diventano anche più abili nel riconoscerle e nel prevederle e se nei primi cinque-sei mesi di vita ne sono completamente dominati mano a mano imparano a dominarle grazie anche all’aiuto dei loro educatori”.

(A.O. Ferraris; A.Oliverio)

I bambini provano emozioni?

I bambini sono in grado di provare emozioni sin dai primissimi mesi di vita. Il modo di fare esperienza delle stesse, cresce nel tempo assieme a loro e grazie ad un processo globale di sviluppo che comprende: aspetti cognitvi, motori e sociali.

Questi aspetti sono collegati e costituiscono un “ponte” fra il mondo interiore del bambino ed il mondo esterno. Il bambino è in grado di agire sul mondo esterno attraverso informazioni che derivano dagli stimoli ricevuti dall’ambiente circostante (sviluppo cognitivo), attraverso l’esplorazione di oggetti e spazi di vita (sviluppo motorio) ed in ultimo, non per importanza, attraverso la relazione con le figure significative presenti nel suo contesto di vita.

Il percorso delle emozioni: tra tappe di sviluppo e relazioni

Sebbene esistano specifiche tappe di sviluppo o livelli organizzativi che il bambino attraversa durante il suo sviluppo, oggi sappiamo, ad opera di numerose ricerche scientifiche, quanto sia indispensabile una rilettura all’interno di processi di negoziazione o di regolazione che avvengono con le figure significative, in primis fra madre e bambino.

La possibilità di rivedere lo sviluppo del bambino in un’ottica relazionale ci permette di rendere gli adulti consapevoli dell’importanza delle risposte che potranno fornire ai loro bambini. Tali risposte supporteranno il genitore ad assumere una posizione equilibrata fra la capacità di offrire una risposta ai bisogni primari, ovvero fisiologici come la fame, il sonno e l’igiene, ai bisogni secondari ovvero psicologici come il bisogno di vicinanza, il contatto, il gioco ed il dialogo, assieme alla capacità di supportare il processo di esplorazione.

Possiamo dunque affermare che l’esperienza di efficacia personale che il bambino vive è legata agli scambi relazionali di cui fa esperienza. In questi scambi, fin dai primissimi giorni di vita, il bambino è capace sia di segnalare un bisogno, ad esempio attraverso il pianto e allo stesso tempo di suscitare una risposta da parte dell’adulto che si prende cura di lui. Il legame consente quindi al bambino di regolare la propria emotività in maniera adattiva aprendo una comunicazione emotiva con l’altro e manifestando le proprie emozioni indipendentemente dalla loro “natura”.

Quante emozioni!

Numerose sono le emozioni che caratterizzano il processo evolutivo dell’infanzia: dalla paura, alla collera, alla gelosia o a quell’insieme di emozioni che definiamo come “positive”. Lo studio dell’emotività infantile, che pur mantenendo una quota di variabilità legata all’unicità di ogni bambino, oggi ci permette di affermare che un bambino in età prescolare è in grado di provare: empatia, capacità di offrire aiuto, paura, collera, gelosia ed un insieme di emozioni “positive”.

Risposte empatiche: dalla partecipazione all’offrire aiuto

Il bambino possiede fin dalle prime settimane di vita la capacità di provare empatia, ovvero di entrare in sintonia con lo stato emotivo dell’altro. I neonati ad esempio si attivano al pianto di un altro neonato, rispondono ai vocalizzi di adulti o bambini e tentano di “imitare” le espressioni del viso dell’adulto, mostrando in questi acerbi tentativi la voglia di entrare in contatto empatico con i propri simili. Si parla di un’iniziale forma di “partecipazione” che successivamente invece diventa un agire “intenzionale”.

Il bambino è capace di offrire aiuto all’altro già a partire dai 18-20 mesi, riproducendo modalità di comportamento simili a quelle osservate nel suo ambiente o che ha messo in atto per “auto-consolarsi”. La variabilità nella modalità di risposta sta nell’individualità di ogni bambino: alcuni rispondono prontamente, altri dopo molto tempo. Non è raro osservare come possano offrire un loro giocattolo o del cibo, portare il ciuccio al fratellino o ad un bambino più piccolo che piange, ricorrere alla vicinanza fisica o con oggetti che per lui sono gratificanti nel momento in cui coglie difficoltà nell’altro.

I segnali di disagio: paura, collera e gelosia

La paura è un’emozione comune nei bambini ed assume nel tempo caratteristiche molto variabili, basti pensare alla paura dell’estraneo o alla paura del buio. Prima dei due anni i bambini temono rumori forti e, in generale, i cambiamenti repentini che possono riguardare oggetti, luoghi e persone. Questo “tipo” di paure si caratterizzano essenzialmente per un aspetto comune, ovvero nascono in risposta ad uno stimolo. Con lo sviluppo cognitivo del bambino, la paura si lega a forme immaginarie e dunque a situazioni che non prevedono necessariamente la presenza di un stimolo scatenante, ma a situazioni che il bambino conosce poco, che non può dunque “controllare”, di cui ha sentito parlare senza farne esperienza in prima persona o che può immaginare, proiettando in esse il proprio mondo interiore.

La collera è un sentimento frequente nell’infanzia, che varia nella sua manifestazione sia per la causa e sia per la modalità in cui viene gestita e che spesso mette a dura prova la pazienza dei genitori. Le sue manifestazioni possono concretizzarsi in reazioni aggressive che il bambino orienta alla persona, attraverso comportamenti oppositivi o provocatori, o agli oggetti. Un divieto “mal posto”, ad esempio, può generare la collera di un bambino, questa è funzionale a far comprendere all’adulto che qualcosa non ha funzionato non nel divieto in sé ma nella modalità di porlo, trascurando l’impatto emotivo che questo ha avuto sul bambino. In altri casi la manifestazione aggressiva può orientarsi su se stesso, inducendo cattivo umore o risposte apatiche.

La gelosia è un sentimento con cui i genitori fanno “i conti” spesso con l’arrivo in casa di un fratellino o di una sorellina, che sembrano essere, da oggi in poi, qualcuno con cui dividere (e condividere) attenzioni, esperienze e l’affetto di mamma e papà. La gelosia nasce quando il bambino teme di perdere l’esclusività del legame che lo lega alla mamma ed al papà, non è dunque rivolta al “nuovo arrivato” quanto al legame che si vuole preservare. Non è un caso che la stessa gelosia possa nascere rispetto ad un cuginetto con il quale “condividere” le attenzioni del nonno o con la “maestra preferita” che il bambino vorrebbe solo per sé.

Le “emozioni positive” (gioia, piacere, affetto, curiosità…) assumono sfumature diverse a seconda del contesto nella quale vengono esperite (scuola, famiglia, gruppo dei pari) e sono dunque soggette all’influenza dell’adulto (genitori e insegnanti) e alle modalità educative che possono incidere sul modo di “vivere” un particolare stato emotivo. L’influenza dell’adulto e la modalità educativa, nonché il proprio modo di gestire le proprie emozioni, costituiscono un importante esempio da cui il bambino trae un modello a cui ispirarsi. Nei bambini molto piccoli l’esperienza fisica e motoria permette di esprimere sentimenti di gioia ed affetto, correre felice in un prato dopo la fine di una giornata a scuola, abbracciare il compagno di giochi appena arrivato a casa.

Adulti come “allenatori” di emozioni

Il valore delle emozioni sta dunque nella capacità di poterle vivere liberamente ma al contempo in modo adattivo. La possibilità di viverle in maniera adattiva è influenzato, nella primissima infanzia, dalla risposta che il bambino riceve dal mondo degli adulti.

Diventiamo “allenatori” del mondo delle emozioni: in che modo?

“Tieni!” – “Grazie mille! Sei stato gentile!”

“Smettila di piangere!” – “Perché piangi? Cosa c’è che non va?”

“Non devi urlare!” – “Posso ascoltarti se parli piano!”

“Non voglio giocare con lui!” – “Hai ragione, questo gioco è per i bimbi più grandi…!”

Saltella e ride… – “Ma cosa ti rende così felice? Raccontami…”

“Ti ho detto di non farlo!” – “Ti faresti male per questo voglio che tu non lo faccia!”

La famiglia che uccide. Un contributo psicoanalitico alla discussione sul caso Schreber – Recensione del libro

La famiglia che uccide, uscito per la prima volta in USA nel 1973, è un libro decisamente innovativo e di rottura per il suo tempo. Per diversi aspetti anticipa i modelli che si affermeranno negli anni a seguire e che avranno al centro l’esperienza della persona nel contesto delle relazioni familiari e la concezione dello sviluppo infantile come esito di relazioni con figure reali e specifiche piuttosto che di pulsioni universali e sovra determinate.

 

La famiglia che uccide (titolo originale: Soul murder, omicidio dell’anima) commenta una vicenda resa celebre da Freud, che nel 1911 scrisse a proposito del “presidente” Daniel Paul Schreber. Si tratta di un caso di paranoia e schizofrenia tra i più noti e studiati nell’intera storia della psichiatria, che ha suscitato particolare interesse clinico.

Nonostante le numerose pubblicazioni in proposito, il contributo di Morton Schatzman appare decisamente originale e non assimilabile ad altri pur importanti scritti su Schreber. Schatzman infatti compie un’operazione inedita: ricostruisce con la precisione dello storico e con la meticolosità del biografo le esperienze infantili e l’educazione del paziente e le confronta con i sintomi e i deliri che lo affliggeranno nell’età adulta. Lo fa esaminando delle fonti dirette e particolarmente attendibili: il diario redatto da Daniel Paul Schreber sulle esperienze vissute durante il ricovero in manicomio e successivamente da lui stesso pubblicato (Memorie di un nevropatico, 1903) e i principi educativi e la pedagogia del padre di Daniel Paul, il Dottor Schreber, descritti nei molti libri che questi scrisse.

Daniel Paul Schreber: la figura del padre

Il padre di Daniel Paul Schreber, il Dottor Daniel Gottlieb Moritz Schreber (1808- 1861), era un medico molto noto, autore di numerose opere pedagogiche che influenzarono parecchio la sua epoca e che questi applicò puntualmente anche ai suoi due figli maschi, Daniel Paul e Daniel Gustav.

I principi educativi del Dottor Schreber erano diffusi e apprezzati a quel tempo, tuttavia oggi diremmo che si basavano sulla repressione, sull’autoritarismo e sulla violenza psicologica e fisica. Entrambi i suoi due figli maschi ebbero un triste destino: Daniel Paul (1842-1911) dopo essere stato un personaggio importante, un giudice, Presidente della Corte di Appello di Dresda, “a quarantadue anni impazzì, guarì e otto anni e mezzo dopo impazzì nuovamente”. Il fratello Daniel Gustav si suicidò.

Anche se i testi pedagogici del padre di Daniel Paul erano ben noti a Freud, e sicuramente qualche conoscenza ne avevano anche altri psichiatri che si occuparono in seguito del caso Schreber, né a Freud né ad altri era venuto in mente di fare delle connessioni tra i comportamenti genitoriali del padre e la sintomatologia del figlio. Il che oggi apparirebbe scontato nei principali approcci clinici (relazionale sistemico ma anche psicodinamico: basti pensare a Le due analisi del signor Z, di Heinz Kohut, edito nel 1979).

Schatzman invece fa proprio questo. Così scrive:

Collego la straordinaria esperienza di Daniel Paul Schreber, a causa della quale fu considerato pazzo, ai metodi di educazione del padre nell’infanzia. Metto in luce e collego tra loro due gruppi di fatti – le strane esperienze del figlio da adulto e le tecniche paterne di educazione dei bambini – e faccio delle ipotesi sulle loro possibili connessioni.

L’autore precisa inoltre, di nuovo anticipando consapevolezze che si diffonderanno in seguito, che:

Gran parte di ciò che viene ritenuto come pazzia può essere visto come una sorta di adattamento a certe situazioni di apprendimento, per quanto maladattato possa essere nel mondo esterno a quelle situazioni.

La famiglia che uccide: un punto di vista differente e sconvolgente sul caso Schreber

Anche se il testo La famiglia che uccide ha come sotto titolo “un contributo psicoanalitico alla discussione sul caso Schreber è evidente come il taglio adottato da Shatzman, che è centrato sul contesto familiare e sulla sua influenza sullo sviluppo del bambino, poco abbia a che fare con la lettura del caso fatta a suo tempo da Freud e poco abbia a che fare con l’ approccio psicoanalitico originario, dove la pulsione sessuale è centrale e gli “oggetti” paiono istanze universali astratte e non storicizzate, né collocate in una relazione concreta di scambio.

Piuttosto, l’autore di La famiglia che uccide, nel suo tentativo di avvicinarsi al vissuto e all’esperienza del paziente, senza etichettarlo, sembra più vicino al filone della cosiddetta anti psichiatria di Ronald Laing. Con Laing del resto Schatzman aveva lavorato a lungo a Londra, condividendone la ricerca e il pensiero. Anche la conoscenza degli studi pioneristici di Gregory Bateson (che cita nell’introduzione al testo tra gli autori a cui si sente debitore) sulla schizofrenia può averlo influenzato. Se pure con diversi approcci e differenti riferimenti teorici, sia Laing (L’Io diviso, 1955) sia Bateson (Verso una teoria della schizofrenia, 1956) legano il processo che esita nella schizofrenia al contesto relazionale ed esperienziale reale e storico del paziente e alle comunicazioni disfunzionali in cui questi è immerso, piuttosto che a una sua idiosincratica disposizione alla patologia, come pretendeva la psichiatria tradizionale, o al complesso di castrazione e alla negazione della pulsione omosessuale di Daniel Paul Schreber nei confronti del proprio padre, come riteneva Freud nella sua analisi del 1911.

La famiglia che uccide, uscito per la prima volta in USA nel 1973, è dunque un libro decisamente innovativo e di rottura per il suo tempo. Per diversi aspetti anticipa i modelli che si affermeranno negli anni a seguire e che avranno al centro l’esperienza della persona nel contesto delle relazioni familiari e la concezione dello sviluppo infantile come esito di relazioni con figure reali e specifiche piuttosto che di pulsioni universali e sovra determinate.

Anche oggi, dopo quasi cinquant’anni, resta un libro decisamente interessante e coinvolgente. Scritto senza tecnicismi, con esemplare chiarezza e percepibile passione, può piacere ai clinici già esperti di patologie maggiori, a chi è ancora in formazione ma anche a chi ama riflettere e pur non disponendo di competenze specifiche desidera avvicinarsi con curiosità e rispetto alle forme gravi della sofferenza umana e cercare di darvi senso.

Va ricordato che l’autore si è sempre impegnato nella propria vita oltre che nel trattamento delle malattie mentali nella costruzione di una società tollerante e non repressiva, e che questo suo impegno profondamente etico, oltre che scientifico, si ritrova anche nelle pagine di La famiglia che uccide.

Struttura e contenuti del libro

La famiglia che uccide è organizzato in undici capitoli. Schatzman tratta il caso Schreber confrontando le esperienze allucinatorie del Presidente Schreber con i metodi educativi del Dottor Schreber, metodi che avevano lo scopo deliberato di soggiogare e sottomettere i bambini fin dai loro primi tempi di vita, ritenendo che la dura disciplina e l’incondizionata sottomissione e obbedienza ai genitori fossero le condizioni per ottenere una gioventù meno decadente e lassista.

Tra i tanti esempi che pongono in chiara connessione le esperienze “deliranti” di Daniel Paul con i metodi educativi del padre è difficile scegliere. Si va da attrezzi particolari, scomodissimi e sadici, che garantivano una certa postura da parte del bambino, a discutibilissime pratiche (es. alternanza di acqua calda e acqua gelata) considerate efficaci in vista di un fisico forte, a una regolare e inscalfibile repressione e sottomissione dei sentimenti e della libertà espressiva del bambino, raccomandata per di più dal Dottor Schreber a partire dalla culla fino al raggiungimento della giovinezza. E’ evidente che anche la sessualità infantile veniva repressa, scoraggiata e punita con grande durezza, e che i genitori, i padri in particolare, costituivano un’autorità assoluta, praticamente divina.

Non è casuale, ci spiega Schatzman, che la natura del delirio e delle allucinazioni di Daniel Paul Schreber fosse religiosa: questi attribuiva l’origine dei suoi gravi malesseri a Dio in persona, ed ai particolari e dolorosissimi miracoli che questi voleva compiere su di lui. Anche per questo probabilmente Schreber venne etichettato come pazzo.

Riporto un esempio puntuale in modo che il lettore abbia chiara sia la natura “religiosa” del delirio di Daniel Paul sia la corrispondenza tra le esperienze infantili e i sintomi emersi successivamente. Leggiamo nel diario di Daniel Paul:

Uno dei miracoli più terribili era il cosiddetto miracolo della compressione del petto… consisteva in una tale compressione della cassa toracica, che lo stato di oppressione causato dalla mancanza di respiro veniva trasmesso a tutto il mio corpo (Memorie di un nevropatico, pag. 151).

Leggiamo in uno dei testi pubblicati dal Dottor Schreber che questi raccomandava l’utilizzo di un congegno di sua invenzione (il raddrizzatore di Schreber) per costringere i bambini a stare seduti diritti. Si trattava di una sbarra di ferro a forma di croce fissata al tavolo al quale il bambino stava seduto a leggere o a scrivere. La sbarra esercitava una pressione contro la clavicola e la parte anteriore delle spalle per prevenire movimenti in avanti o una posizione curva. Il Dottor Schreber sostiene che il bambino non può stare a lungo appoggiato alla sbarra a causa della pressione esercitata da questo oggetto duro contro le ossa e della conseguente scomodità; il bambino tornerà così spontaneamente (ovvero costretto dal dolore!) alla posizione eretta. Il Dottor Schreber precisa che aveva fatto costruire una sbarra che si dimostrò sempre utilissima per i suoi stessi bambini. Di qui il cosiddetto miracolo della compressione del petto lamentata da Daniel Paul.

Un capitolo, l’ottavo, è invece dedicato al confronto del proprio punto di vista con l’analisi di Freud. Schatzman ricorda che Freud riteneva che la paranoia fosse la difesa contro un amore omosessuale e che la causa dell’infermità di Schreber fosse legata all’esplosione di impulsi omosessuali e incestuosi nei confronti del padre. Schatzman non contesta in modo netto l’analisi di Freud; tuttavia sottolinea che nella trattazione di questi il padre di Schreber non è considerato un agente e che la sua condotta reale nei confronti del figlio non viene mai valutata nè presa in considerazione. Pur dichiarandosi d’accordo con la lettura di Freud a proposito di un amore incestuoso di Daniel Paul per il padre, evidenzia la necessità di guardare al contesto e all’ambiente sociale e ai comportamenti dei genitori per comprendere i vissuti e le esperienze psichiche del paziente. Precisa altresì che si attiene alla sola figura del padre in quanto i suoi scritti sono la sola fonte disponibile, e si duole che altre informazioni sulla famiglia di Daniel Paul (anche Schatzman, come faremmo noi, si domanda come fosse la madre di Daniel Paul) non siano rintracciabili.

Di grande interesse e attualità è infine la connessione esplicita che Schatzman a conclusione del libro fa tra i metodi educativi raccomandati dal Dottor Schreber e l’educazione promossa dai regimi totalitari: le società totalitarie predicano obbedienza assoluta e dura disciplina, come il Dottor Schreber raccomandava nei suoi libri pedagogici. Il nazismo che non molti anni dopo esploderà in Germania sembra anch’esso dovere importanti tributi alla pedagogia del Dottor Schreber e al suo sistematico omicidio dell’anima.

Eccitazione sessuale e propensione all’uso del preservativo

Sebbene estremamente diffuso, sia come mezzo di controllo delle nascite, che come protezione da malattie sessualmente trasmissibili (STI), esistono ancora delle considerevoli resistenze nell’uso del preservativo..

 

In antichità il preservativo veniva ricavato da intestini di animali, tessuti dalla trama finissima, o addirittura metalli preziosi: il tentativo era quello di impedire all’atto sessuale di culminare nel concepimento.

Fu per la prima volta nel XVI secolo che un medico padovano, Gabriele Falloppio, documentò l’uso del preservativo con lo scopo di impedire un contagio di una malattia venerea: la sifilide.

Questo semplice ed economico dispositivo, se pur non infallibile, si è rivelato efficace contro la trasmissione di innumerevoli infezioni e patologie, tra cui il virus dell’HIV ed il papilloma virus, la cui infezione può degenerare in cancro della cervice uterina.

Uso del preservativo: in base a cosa decidiamo di usarlo?

Sebbene estremamente diffuso, sia come mezzo di controllo delle nascite, che come protezione da malattie sessualmente trasmissibili (STI), esistono ancora delle considerevoli resistenze nell’uso del preservativo: molti uomini apertamente ammettono di preferire un rapporto sessuale in assenza di condom, adducendo come motivazione una sensazione più intensa e in generale una migliore prestazione (anche in funzione del mantenimento dell’erezione).

Vi sono inoltre svariati fattori situazionali che potrebbero contribuire alla decisione di fare sesso sicuro: diversi studi si sono preposti di indagare quale ruolo il sexual arousal, o eccitazione sessuale, possa avere nella disposizione degli individui all’utilizzo del preservativo, riscontrando che gli individui in questa condizione si mostravano maggiormente disposti ad ingaggiarsi nel sesso non protetto (Ariely & Loewenstein, 2006; George et al., 2009; MacDonald, Fong, Zanna, & Martineau, 2000; Norris et al., 2009; SkakoonSparling, Cramer, & Shuper, 2016).

Secondo la cornice teorica del Reflective-Impulsive Model (RIM) di Strack and Deutsch (2004) la nostra capacità di decision making risente dell’influenza di due sistemi paralleli: il Sistema Riflessivo, contiene le nostre cognizioni esplicite, come ad esempio la conoscenza circa le STI o la conoscenza del rischio oggettivo di contrarne una non utilizzando una protezione; il Sistema Impulsivo viene invece descritto come un sistema di associazioni più elementare, costruito nel tempo attraverso l’esperienza. Un’attitudine implicita positiva verso l’uso del preservativo prevede che ogni volta che il concetto di “condom” viene attivato, nella sua rete di associazione mantenga solo legami “positivi”, che danno luogo verosimilmente alla scelta di ricorrere ad una protezione. Tuttavia, II Modello postula anche che quando la capacità della working memory di un individuo raggiunge il suo minimo, come ad esempio può accadere nel caso della sovrastimolazione che avviene durante l’attività erotica (Carvalho, Leite, GaldoÁlvarez, & Gonçalves, 2011), il Sistema Impulsivo, più economico, subentra nel modulare il comportamento, rendendo conto delle attitudini implicite, che facilmente risultano essere negative nei confronti dell’uso del preservativo.

Uso del preservativo ed eccitazione sessuale: lo studio

Partendo da questi presupposti, Wolfs, Bos, Mevissen, Peters & van Lankveld (2019) hanno condotto uno studio coinvolgendo 27 uomini eterosessuali tra i 18 e i 35 anni, in uno studio within (ovvero due diverse condizioni alle quali ogni individuo viene sottoposto in momenti differenti) per testare l’ipotesi sostenuta dal modello RIM di un’attivazione del Sistema Impulsivo in un contesto di eccitazione sessuale (video erotico) vs. in una condizione neutra (video neutro). Una misura dell’eccitazione sessuale fisiologica è stata ottenuta mediante l’utilizzo di un pletismografo penile, che registra l’afflusso di sangue ai tessuti del pene; i soggetti erano poi tenuti a riportare la propria eccitazione sessuale percepita, così come a rispondere a questionari circa le attitudini e le intenzioni esplicite verso l’uso del preservativo; le attitudini implicite sono invece state misurate mediante il test IAT (Implicit Association Test, Greenwald, Nosek, & Banaji, 2003), che misura la forza dell’associazione automatica implicita tra concetti diversi, in questo caso tra “sesso sicuro/sesso non sicuro” e “positivo/negativo”; per arricchire ulteriormente l’indagine, le disposizioni implicite sono state indagate nelle due forme di una IAT liking, ovvero una generale disposizione verso il sesso sicuro, e una IAT wanting, che si propone di essere un’espressione di intenzionalità nell’attuare il comportamento sicuro.

I risultati dello studio su eccitazione sessuale e propensione all’uso del preservativo

Compatibilmente con le previsioni avanzate dagli autori, quando i soggetti si trovavano nella condizione di normalità (non-aroused) la loro attitudine verso l’uso del preservativo si è dimostrata predetta unicamente dalle attitudini esplicite verso l’uso dello stesso; le attitudini implicite verso l’impiego del condom si rivelano influenti solo nella condizione di eccitazione sessuale, inoltre le attitudini implicite si classificavano come generalmente più negative di quelle esplicite.

Lo studio esposto, pur con le dovute limitazioni, suggerisce come in una condizione di arousal le attitudini implicite possano influenzare il comportamento risultando in una condotta responsabile o al contrario, al sesso non protetto; interventi precoci e preventivi di sensibilizzazione e familiarizzazione con il preservativo maschile e il suo utilizzo potrebbero rappresentare momenti utili alla creazione di quelle associazioni positive sia esplicite che implicite, che facilitano l’aderenza ad una condotta responsabile.

Il fiore dentro: il workshop dedicato alla mindfulness per bambini – Report dall’evento di Roma

L’8 e il 9 giugno, si è svolto all’Istituto A.T. Beck di Roma il workshop dedicato alla mindfulness per bambini sul programma Il fiore dentro, unico programma ideato e pubblicato in Italia.

La mindfulness in infanzia

Da molto tempo ormai si assiste a un’attenzione e un interesse sempre più crescente per la mindfulness, le ricerche sul tema si sono sviluppate in modo esponenziale e hanno indagato i benefici e gli effetti della pratica sulla salute. Non stupisce quindi che le applicazioni della mindfulness si siano intrecciate con il mondo della psicologia, recentemente si sta assistendo ad un’estensione della pratica consapevole in ambito educativo e organizzativo con lo scopo finale di sviluppare un’atteggiamento di promozione della salute e un aumento del benessere.

All’interno di questa cornice, nasce naturalmente un interesse circa i possibili punti di contatto tra la pratica e l’età evolutiva. Iniziano così a comparire i primi studi sul tema che ne evidenziano effetti positivi nei bambini: partendo dalle ricerche che indagano aspetti cognitivi e psicologici come una maggior gestione dello stress e strategie autoregolative passando poi da studi che si sono interessati agli effetti della mindfulness nelle popolazioni cliniche come ad esempio bambini con deficit di attenzione e iperattività.

Il programma italiano di Mindfulness per bambini

Se in altri paesi i protocolli di pratica per i piccoli sono più diffusi (ricordiamo il primo fra tutti “A Still quiet Place” di Amy Saltzman) in Italia il programma Il fiore dentro rappresenta il primo protocollo ideato e pubblicato in un libro dall’omonimo titolo (Programma Mindfulness Il fiore dentro, Erickson). Creato dalle dottoresse Antonella Montano e Sivia Villani il programma è dedicato ai bambini dai 6 ai 12 anni a cui viene insegnata la mindfulness e imparano a vivere in una modalità nuova: maggiormente consapevole e compassionevole.

Il programma è ispirato al protocollo per adulti MBSR (Mindfulness-Based Stress Redction) di Kabat-Zinn e come esso ha una durata complessiva di 8 settimane. Naturalmente nell’approccio con i bambini ciò che cambia è la durata delle pratiche nel rispetto dei loro tempi e della loro età, inoltre le diverse pratiche sono presentate in tempi diversi utilizzando un linguaggio semplice che permetta di spiegare ai bambini la tematica e gli homework associati alla settimana corrente.

Il programma è applicabile in ambito scolastico ed extra ed è pensato per piccoli gruppi con sviluppo tipico tuttavia con adeguati accorgimenti potrebbe essere implementato anche al singolo bambino.

Il workshop

Suddiviso in due giornate, il seminario ha offerto una conoscenza di base sulla pratica della Mindfulness nei più piccoli. La prima giornata è stata dedicata alla parte strettamente più teorica: dal concetto di mindfulness, ai diversi protocolli ad oggi presenti con particolare interesse all’MBSR e all’introduzione del programma Il fiore dentro, la cui struttura è stata approfondita con lavori di gruppo nella giornata successiva. Questa parte teorica ha permesso a tutti i partecipanti di avere le medesime conoscenze di base, necessarie per comprendere il razionale delle pratiche sperimentate; tra i partecipanti infatti c’era chi si approcciava per la prima volta alla pratica della mindfulness e chi invece all’estremo opposto aveva conseguito master e corsi per insegnare la pratica. Questa eterogeneità che a prima vista potrebbe sembrare vincolante, ha permesso invece un proficuo scambio di esperienza e di punti di vista che ha permesso la nascita di riflessioni interessanti sia dal punto di vista clinico che personale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Mindfulness per bambini. Come adattare la pratica per i più piccoli

 

 

Il fil rouge del seminario è stata la pratica che ha permesso di sperimentare in prima persona le attività previste dal protocollo per adulti e quelle de “il fiore dentro”. Da sessioni di yoga, alla eating e walking mindfulness è stata un’immersione totale nelle sensazione corporee, nei pensieri che divagavano, nella mente che viaggiava in modo consapevole.

Quello che è trasparito prepotentemente è stato il concetto di embodied cioè di una pratica che è prima di tutto incarnata, vissuta, sentita e che poi può essere trasmessa agli altri; in questo la docente è stata impeccabile, oltre alla preparazione teorica quello che più di tutto è stato trasmesso è stato l’amore per e della pratica. Il clima che si respirava era di totale accoglienza, eravamo noi tutti presenti in quel preciso momento con le nostre storie condivise e le nostre esperienze accolti uno ad uno da ognuno in modo libero e non giudicante.. qualcuno direbbe: la vera essenza della mindfulness.

Ultima nota di merito riguarda i numerosi materiali inviati e consegnati ai partecipanti: articoli scientifici, esempi di pratiche e di homework che hanno permesso di approfondire ancora di più le conoscenze apprese.

Il gruppo di ricerca dell’Istituto Beck sta validando il programma Il fiore dentro, se siete interessati potete comunicare la vostra disponibilità inviando una e-mail per concordare le modalità di collaborazione.

Ogni volta che pratichiamo mindfulness con i bambini è come se stessimo piantando un seme: non sappiamo con certezza se germoglierà ma nell’attesa di quel momento continuiamo a coltivarlo con amore.

Buona pratica a tutti!

Paura dei fantasmi social: ma chi sei veramente?

Nel presente contributo si analizzano alcuni fenomeni anomali fondati sui social network che si traducono nella “dematerializzazione” dell’essere umano secondo varie modalità: il “ghosting” (ovvero il fenomeno del dileguarsi, dello sparire), l’ “orbiting” (cioè la tendenza a dileguarsi da un rapporto tradizionale face-to-face pur continuando il contatto esclusivamente tramite rete) e il “deep fake” o “deepfakes” (cioè l’essere del tutto inesistente).

 

Prevale un mix feeling nei confronti dei social network da parte dei giovani. È quanto emerge da un’indagine condotta da Telefono Azzurro e Doxa Kids in occasione del Safer Day Internet 2019, su un campione di adolescenti di età compresa tra i 12 e i 18 anni.

Essi rivelano un’attrazione fatale verso i social – non ne saprebbero fare a meno – ma, al tempo stesso, ne hanno paura perché consapevoli dei numerosi rischi sottostanti cui sono esposti, fino a diventare potenziali vittime.

Nel presente contributo si analizzano alcuni fenomeni anomali fondati sui social network che, messi a fattor comune, si traducono nella “dematerializzazione” dell’essere umano secondo varie modalità – chiamiamoli pure giochi psicologici perversi cui il cosmo digitale si attaglia. Il primo è il fenomeno del dileguarsi, diventando evanescente (ghosting); il secondo è nel dileguarsi da un rapporto tradizionale face-to-face, ma continuando il contatto esclusivamente tramite rete (orbiting); infine, il fenomeno più innovativo di essere del tutto inesistente (deep fake o deepfakes).

Per l’analisi di tali fenomeni si farà ricorso al modello di agenzia fondato sul “principal-agent”. L’approccio utilizzato è quindi interdisciplinare poiché coniuga psicologia ed economia (che, come noto, esibiscono forti effetti sinergici) ed evoluzione tecnologica dei social network che, nel presente contesto, fa da collante ai primi due approcci.

L’evitamento come strategia privilegiata tra i Millennials

Il fenomeno di scomparire all’interno di una relazione – non solo di coppia, ma anche di amicizia – è in crescente diffusione tra i Millennials. Attraverso una modalità interpersonale passivo-aggressiva, vengono d’improvviso unilateralmente recisi tutti i canali di comunicazione, tipicamente le piattaforme social.

Il dileguarsi nell’ambito di una relazione costituisce un fatto stilizzato anche fra le generazioni precedenti, ma il virtuale ne diventa un naturale deputato. La fluidità e la superficialità dei rapporti online sono pessimi surrogati dei legami più profondi, che passano primariamente attraverso un rapporto face-to-face: tale iato, traslato in occasione della fine di un rapporto, riflette le medesime modalità. Alla fine del rapporto, decisa da una delle due parti, il confronto interpersonale viene evitato attraverso una più facile chiusura che preclude una parola, una spiegazione, uno scambio, una condivisione, un litigio, un saluto, una promessa. E fine sia.

Fra i Millennials il “ghostizzarsi” si sta diffondendo anche fra le amicizie. Comprensibile: amici virtuali uguale amici superficiali. Oggi ci sono, domani chissà… basta un click et voilà il ghosting.

Il Ghosting

Sotto il profilo psicologico, il ghosting può essere spesso il risultato di forme disfunzionali di attaccamento, errate relazioni affettive rispetto al proprio caregiver nel corso dell’infanzia, tipicamente il genitore. La sofferenza esperita precocemente induce alla coazione a ripetere il comportamento malsano da adulti, sebbene rovesciando il ruolo da ghosting passivo a quello attivo. La violenza psicologica viene così traslata sull’altra/o.

In quest’ultima/o mille domande sorgono ossessivamente fra le trame della sua sofferenza alla ricerca degli eventuali comportamenti sbagliati commessi, interrogandosi sulla propria adeguatezza rispetto al partner scomparso, sulla possibilità che ella/egli possa aver avuto un nuovo incontro più attraente. E, insieme, tanta frustrazione: l’inganno, l’abbandono, la parola negata, una fantasia andata in frantumi. E, quindi, senso di solitudine, autosvalutazione, senso di colpa, pensieri autodistruttivi, difficoltà a elaborare la chiusura. Una circostanza decisamente devastante.

La disfunzione – il gioco mentale, consciamente o inconsciamente sadico – si perpetua se all’improvviso epilogo sparendo segue un improvviso riapparire (zombeing): è violenza psicologica pure il passaggio dal ghosting allo zombeing. Il secondo crea shock e distress, che diventano ancor più laceranti qualora ella/egli sia ancora vulnerabile per le conseguenze del ghosting. Non ancora superato quest’ultimo e già diventa nuovamente vittima, costretta a confrontarsi con lo zombeing. L’attore di entrambe le violenze online ottiene il medesimo risultato: acquisire il pieno controllo psicologico sulla vittima e manipolarla.

L’Orbiting

Nella “creativa” costellazione della rete, una sorta di evoluzione del ghosting, è il c.d. orbiting, cioè dopo che si è deciso di chiudere una relazione, comunque desiderare di “rimanere nell’orbita” dell’ex partner. Anche questo può essere un fenomeno – oltre che manipolatorio – psicologicamente devastante per la persona abbandonata.

In tale fattispecie il soggetto interrompe il rapporto – secondo le modalità del ghosting – ma continua a interagire con l’altro/a esclusivamente nel virtuale seguendo le sue stories su Instagram, mettendo like, retweettando, ecc. Diventa cioè un soggetto puramente virtuale. E conduce il gioco. Che frustrazione e che rabbia per la vittima! Che sottile architettura psicologica, non poi così distante dal cyberstalking!

Qual è l’impulso di questo pseudo ghosting? Il primo senz’altro “lasciarsi una porta aperta” (you never know…) – comportamento anche questo vecchio come il mondo, perpetrato in forme ormai considerate “obsolete”. La seconda motivazione è che l’orbiter non si sente pronto per una relazione stabile e strutturata, ma non ha il coraggio di mollare del tutto la situazione; ne prende così prudenti distanze. Ancora, l’orbiting potrebbe essere una delle tante forme di voyeurismo nella vita degli altri: una comare virtuale, insomma!

È evidente che tra i due soggetti nelle relazioni finora illustrate prevalga un’informazione asimmetrica. Spostandoci dalla sfera psicologica a quella economica, tale rapporto bilaterale con informazione asimmetrica può interpretarsi attraverso il modello di agenzia fra due soggetti. Uno di essi – il c.d. principal – delega a un altro soggetto – il c.d. agent – talune mansioni. Di regola il principal non è in grado di controllare e verificare del tutto l’operato dell’agent, cioè che quest’ultimo esegua nel modo migliore quanto gli è stato affidato. Ciò per vari motivi, quali: il principal non possiede le conoscenze specifiche delle attività delegate o dovrebbe sostenere un costo molto elevato per monitorare con maggiore dettaglio il lavoro dell’agent. Di conseguenza, si crea una situazione di informazione asimmetrica, in quanto l’agent possiede delle informazioni (chiamate appunto informazioni “private”) che l’altro non ha. Il modello di agenzia, sebbene sia esteso a numerosissimi contesti, prende spunto dal rapporto di lavoro dove il principale è appunto il datore di lavoro e l’agente un suo dipendente. Il primo non riesce a monitorare del tutto lo svolgimento dei compiti che gli ha affidato, e quindi il secondo può perseguire propri obiettivi disallineati da quelli su cui fa conto il principale. Da qui: in primo luogo, l’informazione asimmetrica fra i due, a vantaggio dell’agente; in secondo luogo, la necessità da parte del principale di costruire delle strategie che cambino la struttura degli incentivi dell’agente, in modo che questo conformi i propri comportamenti a quelli voluti dal principale. In campo lavorativo, quest’ultimo potrebbe, ad esempio, aumentare la retribuzione del dipendente in modo da aumentare il costo-opportunità di essere licenziato, qualora egli venga scoperto nel non fare quanto richiesto dal suo datore di lavoro. L’aumento della retribuzione rappresenta quindi la strategia per cambiare la struttura degli incentivi dell’agente, finalizzandoli agli obiettivi del principale.

Nel presente contesto l’informazione dell’agent, che il principal non possiede, è la sua volontà di scomparire improvvisamente senza lasciare traccia alcuna (ghosting) e, forse, di tornare improvvisamente (zombeing) o anche di restare in orbita (orbiting) senza sapere le sue successive mosse (if any…). Nel nostro contesto, il rapporto di delega del principal/partner è interpretabile come la consegna all’altro della parte più intima di sé: confidenze sui suoi sentimenti, emozioni, vissuti, portato, speranze, aspettative dal rapporto e altri sogni a occhi aperti… Che ne farà mai l’altro di tutto questo? Difficile o impossibile da controllare attraverso il virtuale.

Vista l’opacità del contesto, come può tutelarsi il principal/partner, in possesso di minori informazioni? Nel modello di agenzia, tutelarsi da parte del principal si traduce nell’indurre un cambiamento di incentivi da parte dell’agent, in altri termini, indurlo a non barare.

Calato nel presente contesto, come può il principal determinare un cambiamento nella struttura degli incentivi dell’agent? Qui il vulnus è il cosmo digitale, è cioè il fraintendimento, diffuso prevalentemente fra i Millennials, della buona succedaneità tra lo scambio intenso sui social e lo scambio dal vivo. Allora nel ghosting tutelarsi, inducendo il cambiamento nella struttura degli incentivi dell’agent, dovrebbe tradursi in una maggiore frequentazione dal vivo che porti a sua una più approfondita conoscenza: ciò aiuterebbe a cogliere i suoi tentennamenti, la sua claustrofobia a relazioni più strette e durature, il suo esser sfuggente od ondivago, il suo narcisismo, la sua tendenza a evitare di assumersi responsabilità, la mancanza di spirito di iniziativa, il suo bluffare nel rapporto, un suo intiepidimento e minor coinvolgimento nella relazione a un certo punto, e così via. “Togliersi la benda”, non rimaner sordi ai campanelli d’allarme, essere “più realisti del re” sono tra le varie tutele per il principal. Nell’incontro vis-à-vis è raro che gli occhi ingannino… non c’è algoritmo o machine learning che tenga! Trasferendo per buona parte la relazione dalla dimensione virtuale al mondo reale, il “profilo” diverrebbe così finalmente… un volto!

Tali precauzioni, benché non saranno mai sufficienti data l’insondabilità della componente umana, possono senz’altro aiutare.

Il Deep fake

Lo stesso problema di informazione asimmetrica si ritrova nella deep fake, cioè la fake più sofisticata di nuova generazione, quella di frontiera. Il termine deriva dal c.d. deep learning (“apprendimento profondo”), che è una forma di machine learning.

La deep fake – manco a dirlo, pericolosissima – consiste nella sostituzione di volto, mimetica, voce di una persona all’interno di un video già esistente. Ciò è possibile attraverso software estremamente avanzati (il più noto è il FakeApp) di intelligenza artificiale. Il nuovo Deal di questo uso selvaggio dell’intelligenza artificiale è talmente significativo e pervasivo che la disinformazione rischia di decadere in caos fondato su panico, incertezza, erronei apprezzamenti, bolle, comportamenti erratici dei mercati e delle Borse, spostamenti del consenso politico, impatto sulle relazioni internazionali. Tutto ciò sul piano macro o sistemico.

Ma la deep fake può funzionare egregiamente anche nelle relazioni interpersonali a due. Ad esempio, attraverso la deep fake un soggetto inesistente, creatura dell’intelligenza artificiale, tramite video può esercitare con successo un gioco di seduzione nei confronti di un altro in “carne e ossa”. La tecnologia ormai è in grado di creare amori e storie in grande stile deep fake a forte detrimento di ingenue e incaute vittime.

Nel 2018 il popolare sito Mashable definisce la deepfakes come “l’ultima crisi morale di Internet”, dando una definizione puntuale del fenomeno: è un nuovo tipo di video con face-swap (scambi di viso) realistici. In altri termini, si tratta di elaborazioni fondate su di un software che trova un “terreno comune” tra una coppia di visi per incollarli insieme. Non si tratta di un semplice fotomontaggio, bensì di un video. Quando questo mix fra immagini risulta di buona qualità, la metamorfosi artificiale rasenta la perfezione sincronizzando movimenti, espressioni, labiale.

La tecnologia da utilizzare è relativamente facile e con la produzione di software sempre più agevoli da adoperare, diventa semplice costruire deep fake “fai da te”, servendosi del volto di una qualsiasi persona. Di conseguenza, manipolazione digitale e bluff sono destinati a diffondersi.

Ma come è possibile sopravvivere in un ambiente in cui non ci si può fidare di quanto si ascolta e/o si vede?

Ed ecco riemergere il problema dell’informazione asimmetrica e dei conseguenti “bidoni” (“lemons” è il termine usato dall’economista statunitense George Akerlof, Premio Nobel per l’economia nel 2001) in cui si può incappare quando le qualità intrinseche di qualcosa – in questo caso di qualcuna/o – non sono osservabili.

Tali asimmetrie informative rinviano al rapporto di agenzia appena ricordato: in questo contesto estremo, l’agent, che ha il controllo del gioco grazie alle maggiori informazioni di cui il software dispone rispetto al principa … non esiste neppure! Chi l’avrebbe mai detto ad Akerlof, la cui intuizione sui “lemons” lo porta al Nobel, che i “bidoni” avrebbero raggiunto tali circostanze!
Infatti, la tecnologia è talmente fine e granulare che è difficile per la vittima scoprire la truffa sottostante. Qualora, prima o poi, essa emerga – e il “bidone” si rivela come tale – le aspettative del soggetto raggirato vengono disattese e il coinvolgimento frana nel vuoto più totale, le ricadute psicologiche possono di conseguenza essere molto gravi. L’impatto emotivo potrebbe essere deflagrante. Quale shock scoprire che si stava flirtando o costruendo fantasie amorose e forse anche programmi per l’avvenire con un software!

Può la vittima in qualche modo tutelarsi? Certamente, in parte sì, attraverso il “sano dubbio”. Formulando dentro di sè sospetti, interrogativi e perplessità sul come mai non giunga prima o poi l’occasione per un incontro face-to-face dal vivo, che sostituisca la perpetua modalità virtuale. Di conseguenza, può tutelarsi cercando di spostare l’arena del rapporto dal video al mondo reale. La spregiudicatezza dei tempi deve infatti indurre l’altra/o a un continuo stato di allerta; a prestare orecchio al suono di tanti campanelli d’allarme quando si instaurano tali tipi di rapporto evanescenti. Sul piano collettivo, la tutela deve venire dalle policy e prima fra tutte dalla cybersecurity.

Insomma.. “L’amore non è bello se non è litigarello”, ma nel virtuale può diventare spietato!

La fine dell’adolescenza e la nascita della personalità (e dei suoi disturbi)

La fine dell’adolescenza segna il momento in cui possiamo riconoscere un’organizzazione di personalità che tende a restare stabile nel tempo e può evolversi in forme psicopatologiche.

 

A prescindere da orientamenti clinici, prese di posizioni su schemi e tratti, dimensioni e categorie, penso che tutti concordiamo sul fatto che sia impossibile divenir adulti senza incorrere in uno o più dei criteri diagnostici per i disturbi di personalità.

La fine dell’adolescenza: 4 costrutti da tenere in considerazione

Il fatto che in adolescenza, nel mentre la nostra corteccia prefrontale e molti altri circuiti neuronali completano il loro sviluppo, nel mentre lottiamo per gestire un sistema ormonale e muscolo-scheletrico quasi del tutto maturo, nel mentre apprendiamo migliaia di item pedagogici e ci sperimentiamo nel caos delle relazioni interpersonali… noi riusciamo in qualche modo a “sfangarla” e ad adattarci, resta per me un vero e proprio paradosso evolutivo!

Per chi lavora frequentemente con tardo-adolescenti e/o giovani-adulti questa premessa ha un senso assai pratico. E posso ad esempio pensare a come Daniela riportasse frequentemente un’irrisolvibile dicotomia tra esser pratica ed esser emotiva nel relazionarsi agli altri, a come Alessia non riuscisse neanche ad esprimere il suo disagio sino al punto di doverlo scrivere innanzi a me, a come Michele proponesse idee per lui chiare e scontate, ma che, ogni volta, lo allontanavo dalle persone per lui significative. Le sabbie mobili delle relazioni con familiari e pari sono al centro di tutte queste storie e sono state abilmente concettualizzate dai grandi della psicoterapia. In questo breve contributo vorrei riflettere su come attraverso le lenti di quattro costrutti transdiagnostici e sovraordinati sia possibile guardare “clinicamente” a questa fase di vita. I quattro costrutti a cui mi riferirò sono: self-in-relation; decentering; compassion; metacognizione.

Self-in-relation: l’interdipendenza tra identità e relazioni

Tutta l’opera di Sidney Blatt (2008) ruota attorno all’interconnessione ed interdipendenza tra quel che lui chiamava self-definition (lett. auto-definizione) e relatedness (lett. interconnessione), ovvero tra attaccamento e separazione, dimensione soggettiva ed intersoggettiva, condivisione ed agency. Questo grande autore, forse poco noto in Italia, ha fatto da trait d’union tra le geniali intuizioni di Sullivan sul processo di personificazione e di Bowlby sui pattern di attaccamento e le moderne concettualizzazioni presenti ad esempio nel criterio A dell’Alternative Model of Personality Disorder del DSM-5 (First, Skodol, Bender & Oldham, 2018). L’idea di fondo, apparentemente banale, è quella che nello sviluppo della personalità vi sia un continuo ed inestricabile scambio tra un dominio personale di auto-definizione ed uno interpersonale di etero-definizione (Cheli, 2018). Dunque la sofferenza psicologica, inquadrata come disturbo di personalità, sarebbe riconducibile ad una difficoltà nell’integrare questi due domini.  E la tarda adolescenza rappresenterebbe lo stadio evolutivo in cui le dimensioni connesse alla self-definition (autonomia, iniziativa, auto-espressione, etc.) si interconnettono con quelle connesse alla relatedness (fiducia, cooperazione, socializzazione, etc.), esponendoci al rischio che questo processo di integrazione fallisca o si polarizzi su uno dei due domini definiti da Blatt.

In quest’ottica espressioni psicopatologiche esternalizzanti, internalizzanti o riconducibili a disturbi del pensiero sono un tentativo disadattivo di modulare la propria personalità (Kotov et al., 2017). Utilizzo volutamente cluster così ampi come esternalizzante, internalizzante e disturbi del pensiero poiché le evidenze scientifiche accumulate dalla moderna psicopatologia e le evidenze cliniche rilevabile nel lavoro con tardo-adolescenti e/o giovani-adulti rendono non solo inutile ma spesso nocivo l’uso di categorie diagnostiche. L’elevata instabilità neurobiologica e personologica dovrebbe consigliare ai clinici di focalizzarsi su modelli di funzionamento generali (es. criterio A dell’AMPD) e dimensioni transdiagnostiche (es. criterio B dell’AMPD).

Decentering: distinguere se stessi dai propri stati emotivi

Non molti ricordano come l’origine teorica della Mindfulness-based Cognitive Therapy prenda le mosse dagli studi di Bernard e Teasdale (1991) sulla definizione di un modello sistemico di comprensione delle interazioni tra cognizione ed emozione. Tale modello cercava di descrivere la complessità delle nostre rappresentazioni e la rigidità delle condizioni psicopatologiche nel canalizzare la nostra esperienza. Ne emerse quella che Teasdale e colleghi (Teasdale et al., 2002) definirono la metacognitive awareness (lett. consapevolezza metacognitiva o meta-consapevolezza), ovvero quel processo che ci permette di osservare criticamente se e in che termini siamo consapevoli dell’esperienza, decentrando noi stessi dai nostri stati mentali e riducendo la reattività a questi.

Se pensiamo alla quotidiana difficoltà nel decentrarci dai nostri vissuti e contemporaneamente al funzionamento neurobiologico di tardo-adolescenti e/o giovani-adulti non possiamo non concordare sulla centralità della metacognitive awareness nel lavoro terapeutico! A complicare le cose giungono ad esempio processi “in corso d’opera” come il sistema dopaminergico della ricompensa (Galvan, 2017). Negli adulti il livello di attivazione dopaminergico è proporzionale alla ricompensa. Fai bene e starai bene, fai molto bene e starai molto bene, e simili. Negli adolescenti le cose non vanno così! Media ricompensa, media attivazione come negli adulti, ma (e qui i problemi) ad alta ricompensa corrisponde altissima attivazione e a bassa ricompensa abbiamo addirittura un decremento generale del sistema dopaminergico. In breve il cervello è programmato per il sensation-seeking e per rifuggire (percependole come negative) le esperienze con minima ricompensa!

Quel che un terapeuta troppo aduso a comportamenti maturi potrebbe confondere per resistenze, sistemi motivazionali inappropriati o non consoni al setting ed al ruolo, sono spesso processi “grossolani” di assimilazione ed accomodamento legati alle precarie capacità di decentramento. Nella misura in cui la terapia permette di mentalizzare progressivamente questa ricerca di un piagetiano equilibrio dinamico il setting è salvo, con buona pace dei teorici dell’attaccamento! Queste impasse divengono piuttosto ottimi spunti per l’utilizzo di pratiche di mindfulness, in particolare finalizzate al monitoraggio esperienziale.

Compassion: i tre flussi della compassione

Nel favorire processi di integrazione tra self-definition e relatedness ed al contempo un progressivo equilibrio tra assimilazione ed accomodamento di propri e altrui stati mentali la Compassion Focused Therapy (CFT) offre degli utili strumenti psicoeducativi ed esperienziali (Gilbert, 2009). Da un lato permette infatti di inquadrare il vissuto tramite tre sistemi motivazionali facilmente e chiaramente comprendibili (sistema protezione della minaccia, ricerca di stimoli e risorse, calmante) e la sofferenza psicologica esplorando le minacce percepite e i meccanismi protettivi più ricorrenti. L’utilizzo di una prospettiva terapeutica evoluzionistica che presume esplicitamente la sensatezza delle scelte protettive del paziente piuttosto che declinare distorsioni o irrazionalità cognitive, favorisce sia la costruzione dell’alleanza terapeutica sia una comprensione personalizzata della sofferenza psicologica. Dall’altro lato l’uso di tecniche esperienziali che pongono il paziente in una condizione accettante favorisce l’emergere in seduta di processi di decentramento e l’acquisizione di pratiche di self-help. Nello specifico l’utilizzo oculato degli esercizi connessi ai tre flussi della compassione (degli altri verso di noi; da noi verso gli altri; verso noi stressi) offre un supporto nel districarsi tra le complicate relazioni interpersonali.

I processi di auto-critica, con i frequenti e ineludibili correlati di colpa e vergogna, rappresentano una dimensione trasversale e ricorrente nell’esperienza di tardo-adolescenti e/o giovani-adulti che conduce a quello che Paul Gilbert definisce l’attacco di sé basato sulla vergogna (in opposizione alla correzione di sé compassionevole). Laddove questi processi si instaurano non solo pongono la persona in uno stato di sofferenza a prescindere dal pattern psicopatologico, ma rappresentano un gravoso ostacolo allo sviluppo di integrazione e decentramento. Recenti studi sembrano infatti mostrare come l’attività della corteccia prefrontale, connessa ai processi di mentalizzazione e prosocialità, sarebbe modulata almeno in parte dalle risposte del nervo vago, a loro volta modulate dalla variabilità interbattito che gli studi di CFT utillizzano come outcome dei propri interventi (Petrocchi & Cheli, 2019).

Metacognizione: verso un senso integrato di sé

Come ci spieghiamo l’insorgenza in età tardo-adolescenziale dei primi esordi di disturbi psicotici e di personalità? Come ci spieghiamo la ricorrenza in psicopatologia di una incapacità ad anticipare i propri e gli altrui stati mentali? Per comprendere il funzionamento tardo-adolescenziale e delle connesse forme psicopatologiche dobbiamo riconoscere come l’esperienza si organizzi in una sorta di continuo processo dialogico interno ed esterno alla persona, in cui l’emergere di un sé sufficientemente integrato corrisponde allo sviluppo di una personalità sufficientemente adattativa.

Questa integrazione corrisponde a quel che in forme diverse è definita metacognizione, ovvero l’abilità di pensare il pensiero, di mentalizzare i miei e gli altrui stati mentali e costruire una visione complessa della mia personale esperienza del e nel mondo. L’esito più rilevante e pragmatico di questa funzione squisitamente umana è quel che Antonio Semerari (1999) definì mastery metacognitiva, ovvero la capacità di utilizzare tutte le variegate funzioni della metacognizione nell’operare scelte e dar senso alla propria vita. Attenzione però! Questa mastery non rappresenta una sorta di livello finale di apprendimento, quanto piuttosto un’area di funzionamento soggetta ad oscillazioni evolutive e frammentazione stato-specifiche. Se prendiamo ad esempio un adolescente risulta chiaro come il variare del funzionamento metacognitivo, suscettibile allo sviluppo neurobiologico, pedagogico, etc., e allo stato mentale qui ed ora esperito condizioni le singole funzioni metacognitive (differenziazione, monitoraggio, etc.) e la mastery nel suo insieme. E tale condizionamento lo possiamo e dobbiamo monitorare e modulare in vivo durante la seduta. In un sistema-individuo come quello plasmato dall’adolescenza diviene centrale la comprensione (di nuovo evolutiva e stato-specifica) dell’esperienza incarnata e di come la dimensione emotiva e procedurale della self-definition e della relatedness sia da promuovere con tecniche corporee ed immaginative (Dimaggio, Ottavi, Popolo, & Salvatore, 2019).

Il Lavoro Psicoterapeutico

Lavorare con tardo-adolescenti e/o giovani-adulti è senza dubbio stimolante. Nella mia personale esperienza richiede tre abilità assai difficili, ma avvincenti, da tener assieme. Innanzitutto è necessario modulare in maniera a volte parossistica il nostro stile terapeutico tra un paziente e l’altro e spesso tra uno stato mentale e l’altro. Si deve dunque far tesoro dell’assunto di Jeremy Safran per cui sia impossibile non incorrere in fratture relazionali. Secondariamente, la varietà evolutiva ed esperienziale di quanto i pazienti riportano richiede di essere sufficientemente eterodossi e dunque pronti ad adattare le strategie a quel che avviene in seduta. Questo non significa abdicare a fattori aspecifici di efficacia, quanto piuttosto tenere a mente e perseguire molti target con metodi specifici. Infine, la plasticità neuronale ed esperienziale di questi utenti rende lapalissiamo come non siamo noi a decidere quale sia l’obiettivo e quale sia l’outcome. La psicoterapia è una pratica relazione-specifica che dovrebbe promuovere l’adattamento degli individui, con le loro specificità, al loro specifico, plasmabile futuro.

Sentire osservando, osservare sentendo nella robotica

Robotica e percezione: i ricercatori del MIT hanno costruito un sistema robotico dotato di un braccio meccanico provvisto di un sensore tattile chiamato GelSight e di una telecamera per la registrazione delle informazioni visive provenienti sia dal braccio che dall’oggetto manipolato.

 

I cuccioli di animale e i bambini imparano a “sentire” e a conoscere il mondo che li circonda primariamente tramite la manipolazione, il tatto e la vista.

Quando interagiamo con un oggetto, nel giro di pochissimi secondi, la vista e il tatto ci mettono nelle condizioni di conoscerlo, carpendo le sue varie sfaccettature come la sua posizione nello spazio, la forma, la dimensione, il peso e la texture (Yau, Pasupathy, Connor et al., 2009).

Come riconosciamo gli oggetti

Il processo di riconoscimento degli oggetti infatti avviene in modo multisensoriale, grazie cioè al coinvolgimento di più canali sensoriali.

La visione rappresenta il canale sensoriale cruciale per l’identificazione e la collocazione dell’oggetto nello spazio, la propriocezione per la derivazione della posizione della mano rispetto l’oggetto con il quale si desidera interagire e infine il tatto che ne raccoglie le informazioni fisiche tramite il contatto di esso con la superficie esterna del corpo.

La combinazione e l’integrazione delle informazioni provenienti sia dalla vista sia dalla percezione aptica – l’insieme della propriocezione e tatto – ci offre l’impareggiabile e unica opportunità di compiere le azioni più semplici per esplorare e interagire con l’ambiente esterno in modo efficace e diretto: la modalità aptica infatti ci permette di percepire l’oggetto fisico e le sue singole parti, mentre quella visiva ci aiuta a perfezionarne la visione generale fondendosi con questi segnali tattili e propriocettivi in una sola volta (Li, Zhu et al., 2019).

Una persona ad esempio potrebbe da una parte descrivere le proprietà fisiche di un oggetto che ha in mano tramite le sensazioni aptiche che afferiscono al cervello dai suoi recettori dell’epidermide ma allo stesso modo, essa potrebbe immaginare le sensazioni che avrebbe nel toccare quell’oggetto semplicemente osservandolo (Yau, Pasupathy, Connor et al., 2009).

Cosa può fare un robot per riconoscere gli oggetti

In linea con quanto appena affermato, questa integrazione nell’elaborazione cerebrale tra le informazioni sensoriali aptiche e visive ci consente di utilizzare in modo interscambiabile le informazioni salienti passando o dal canale visivo o da quello propriacettivo per riconoscere e manipolare gli oggetti; tuttavia, mentre negli esseri umani questa modalità è connaturata ed opera in modo automatico nel processamento delle informazioni sensoriali, ciò risulta particolarmente complesso quando si tenta di ricostruire e trasferire questa nell’ambito della robotica (Li, Zhu et al., 2019).

Come si può “installare” in un robot la modalità cross-sensoriale apitica-visiva per l’identificazione, il riconoscimento e la manipolazione degli oggetti, così come avviene negli esseri umani?

Può ad esempio un robot selezionare il giusto gesto motorio fine per sollevare un oggetto dalla sua impugnatura a partire dalla previsione del suo peso e della sua localizzazione spaziale?

Li, Torralba e Zhu, del laboratorio di Computer Science and Artificial Intelligence del Massachussets Institute of Technology di Boston, hanno tentato di rispondere e risolvere tale problematica partendo primariamente dallo studio dell’associazione tra visione e tatto, introducendo un modello predittivo multimodale per costruire apparecchi robotici in grado di imparare a vedere tramite il tatto e imparare a sentire tramite la vista, inferendo segnali tattili realistici e plausibili da input visivi e predicendo direttamente quale e quale parte di un oggetto è stato toccato a partire da input tattili.

I ricercatori del MIT hanno costruito un sistema robotico dotato di un braccio meccanico provvisto di un sensore tattile chiamato GelSight e di una telecamera per la registrazione delle informazioni visive provenienti sia dal braccio che dall’oggetto manipolato.

È bene precisare che lo sviluppo del modello predittivo multimodale da parte dell’equipe di lavoro di Boston ha richiesto l’utilizzo di un database e di un sistema di machine learning, il Generative Adversarial network (GANs), che utilizza immagini visive realistiche e informazioni tattili raccolte su un range ampissimo di oggetti, per generare immagini multisensoriali, che negli esseri umani potremmo dire equivalenti alle rappresentazioni mentali dell’oggetto nel cervello umano, caratterizzate da precise proprietà fisiche e caratteristiche visive, informazioni circa ciò che fa nel cervello quell’oggetto.

Ogni “immagine”, costituita dalla combinazione di dati visivi e tattili, è stata realizzata a partire da video di oggetti, video frammentati in più di 300 sequenze, in modo tale da realizzare “rappresentazioni” di oggetti con specifici dati visivi associati poi a quelli tattili per gli stessi oggetti, inseriti nel database e nel sistema GANs.

I risultati dello studio

Tali rappresentazioni hanno costituito il magazzino di memoria, di partenza, del braccio robotico per la codifica dei dettagli sia dell’oggetto che dell’ambiente circostante così che mentre il braccio robotico operava nell’ambiente, il modello comparava ciò con il quale il braccio interagiva con le “rappresentazioni” nel magazzino permettendo al robot di localizzare l’oggetto e avere una scala percettiva del tocco appartenente a quello stesso oggetto per il suo successivo riconoscimento (Li, Zhu, 2019).

Questa complicata procedura fa sì che il robot possieda grazie al canale visivo un’ immagine o “rappresentazione mentale” ad esempio di una tazza e successivamente possa inserire informazioni aptiche per identificare l’area in cui il modello previsionale si potrebbe aspettare che la tazza venga toccata per poter essere utilizzata.

Il braccio robotico in questo modo può pianificare efficacemente l’azione fine da compiere sulla tazza  per manipolarla (Li, Zhu et al., 2019).

Per quanto riguarda la produzione di immagini visive a partire da informazioni tattili, il modello ha analizzato la moltitudine di dati tattili presenti nel database calcolando la forma, il materiale e il peso della porzione di interazione dell’oggetto, come se “immaginasse”, un momento prima di afferrarlo, l’interazione con esso.

Ad esempio se il modello analizza dati aptici riguardanti una scarpa, esso potrebbe produrre un’immagine visiva quella porzione della scarpa con maggiori probabilità di interazione per un’azione di tocco e grasping.

Il modello predittivo di percezione multisensoriale sviluppato dai ricercatori del MIT, che verrà presentato prossimamente alla conferenza di Computer Vision and Pattern Recognition in California, consente di predire nell’ambito della robotica l’azione, la manipolazione e l’interazione con un oggetto nell’ambiente in una modalità cross-sensoriale a partire sia dal canale visivo che da sensazioni tattili integrati tra loro.

Robotica e percezione: cosa ci aspetta in futuro?

Nonostante vi siano ancora molti dettagli visivi come il colore o di tipo fisico come la morbidezza o la rigidità di un oggetto che il sistema non è ancora in grado di elaborare per compiere tali predizioni d’interazione, a parere degli autori (Li, Zhu et al., 2019) il modello in futuro potrà predire tali caratteristiche dell’oggetto solo a partire da un’immagine visiva dello stesso, senza averne avuto esperienza sensoriale, a seguito di un’ottimizzazione e miglioramento che consentirà di analizzare dati incerti o non presenti nel suo database.

Lo straordinario apporto di tale ricerca risiede nell’aver sviluppato per la prima volta un modello in grado di passare rapidamente attraverso più canali sensoriali a disposizione per interagire in modo efficace nell’ambiente e compiere azioni semplici nel movimento, ma estremamente complesse da realizzare e riproporre in un sistema robotico.

Come stanno veramente le sex workers?

Cosa c’è di strano quando si parla di sex work e sex workers? C’è di strano che si parla molto poco di come stanno realmente le sex workers (uso il femminile dato l’esigua percentuale di sex worker maschi).

 

Il problema risulta ancor più evidente da queste due considerazioni incrociate: per chi vuole legalizzare totalmente la prostituzione, ci riferiamo ad un’attività che nessuno si auspicherebbe svolgesse la propria figlia (mai sentita e vista, tra l’altro, una bambina o una ragazzina dichiarare questa aspirazione); dall’altro lato si tende a condannare la prostituta assimilandola al mestiere che svolge come intrinsecamente immorale, come se questo servizio prescindesse da una precisa domanda sociale.

I dati sullo sfruttamento della prostituzione

Due forme di ipocrisia che riguardano, da prospettive opposte, lo stesso problema. Questa ipocrisia “parla” chiaramente di qualche scotomizzazione storicamente sedimentata che ancora oggi è difficile mettere a fuoco e che produce di continuo un pensiero fortemente ideologizzato sia da una parte che dall’altra della polarizzazione. Questo accade anche perché il tema della prostituzione si incrocia con mille questioni e mille livelli differenti e quindi fare confusione è molto facile.

Innanzitutto, qualche dato grezzo, soprattutto dati stimati dal momento che è praticamente impossibile vista la posizione al margine sociale di tali attività, censire e conoscere il fenomeno nelle sue reali dimensioni.

Il Codacons ci consegna un aumento dei clienti, che hanno raggiunto quota tre milioni (il riferimento è ai clienti abituali ndr), così come delle prostitute, passate da 70.000 a circa 90.000. Nemmeno la crisi economica ha intaccato il fatturato della prostituzione che risulta cresciuto del 25,8%, passando dai 2,86 miliardi di euro del 2007 ai 3,9 miliardi di euro annui del 2016 (fonte Codacons)

A questi dati, probabilmente fortemente sottostimati, occorre aggiungere un’altra verità statistica: prostituirsi è nella stragrande parte un’attività oggettivamente niente affatto libera e volontaria. Una larga fetta di queste sex workers è intimamente legata ad un’economia criminale “ufficiale” detta traffico della prostituzione. Una forma di schiavismo reale.

I dati dell’OIM e Caritas Migrantes stimano solo le donne vittime di tratta tra le 16.000 e le 29.000. (Alessia Rocco, Sex Worker: autodeterminazione, diritti, lotta alla tratta. Tentativi di dialogo tra schieramenti contrapposti – Tesi di Laurea, Scienze della Formazione, Roma Tre, 2017)

A questa categoria occorre iscrivere specialmente le sex workers africane, cinesi e in parte dei paesi poveri dell’est, dove lo sfruttamento è documentato e esplicito. Esiste poi una enorme galassia di sex workers, specie quelle provenienti da paesi dell’est Europa ma anche Sud America, e a queste aggiungiamo anche le italiane, introdotte alla prostituzione da agenzie specializzate al loro reclutamento, per esclusive ragioni economiche, in poche parole per povertà o per ambizioni economiche. Qui lo sfruttamento è probabilmente molto più camuffato, ma estremamente probabile in quanto inserito in organizzazioni molto strutturate ed efficienti.

Prostituzione libera: un lavoro come un altro?

Non sono però riuscito a reperire dati sul fenomeno “volontario”, spontaneo, se vogliamo vocazionale, se così possiamo chiamarlo. Ma è proprio su questa dimensione libera e volontaria che dobbiamo aprire una riflessione seria e non ideologica, ma basata su esperienza e dati. Secondo quali criteri riusciamo a definire veramente “libera” e volontaria un’attività come la prostituzione? Quanto questa scelta può realmente dirsi tale?

Secondo una recente sentenza della Corte di Appello di Bari: «Prostituirsi non è mai una scelta libera» (Linkiesta, 10 giugno 2019)

Ma pur ammettendo in astratto l’esistenza di una quota parte, di sex workers non direttamente sottomesse alle logiche di questa economia criminale e quindi “libere” da essa, comunque si tratta di un lavoro che si iscrive in una logica non solo mercatista, ma anche ricattatoria, che dal lato del lavoratore risponde unicamente a bisogni economici impellenti o ad ambizioni economiche. Pur essendo, ipoteticamente, “libere” dalla tratta, le sex workers indipendenti non lo sono dalle logiche di sistema che ci hanno convinto che un lavoro vale l’altro perché pecunia non olet. Ma è proprio vero che il sex work è un lavoro come un altro?

Cosa compra il cliente della sex worker?

Se dal lato della sex worker l’ambizione di ricchezza è talmente impellente da entrare in un meccanismo di questo tipo, dal lato sociale la crescente richiesta di esperienze sessuali a pagamento risponde ad una enorme domanda di benessere che evidentemente non è esperibile e reperibile in altri contesti sociali.

L’aumento esponenziale del fenomeno dal punto di vista puramente di marketing richiede di spendere qualche riflessione su cosa generi questa penuria di benessere nei nostri attuali stili di vita. Ed utilizzare una prospettiva “economica” non è necessariamente operazione riduzionistica: qui parliamo di economia in senso molto ampio, quindi anche di economia psichica.

L’economia è però la scienza sociale che studia l’allocamento delle risorse scarse. In questo caso la risorsa scarsa di cui si parla è l’intimità, intesa qui come merce sostitutiva della sessualità, ma forse anche come merce sostitutiva dell’amore. Dobbiamo dunque dedurre che i nostri stili di vita rendono l’intimità una merce rarissima e le esperienze piacevoli ad essa legata ancor più rare. Insomma la ricerca di intimità che sostituisce una sessualità reale, compiuta: si compra l’illusione di un’intimità dal momento che la vera sessualità latita.

Chi si prostituisce, si sa, dà piacere ma non ne riceve, vende un prodotto dal quale si deve necessariamente separare per poterlo vendere adeguatamente, lo deve quindi trasformare per rappresentare al proprio cliente l’immaginario che lui sta comprando. In sostanza deve recitare in modo credibile, deve rappresentare quell’immaginario con una certa attendibilità. In fondo chi compra intimità da una sex worker sta comprando teatro di pessima o buona qualità in un corpo reso inerte.

Chi compra intimità da una sex worker compra un pacchetto di esperienze, atmosfere, fantasie, sensazioni, emozioni che sono la teatralizzazione, più o meno credibile, di una esperienza sessuale. E non è un caso che una delle caratteristiche più gettonate dalle escort è la cosiddetta “girlfriend experience”: la sex worker deve mimare il più possibile una dolce fidanzatina innamorata e vogliosa che si mette devotamente al servizio delle fantasie del suo cliente.

Le sex workers in fondo riproducono, come una sorta di evergreen un po’ consumato, l’illusione di un rapporto tra i generi totalmente gerarchizzato e sotto controllo e senza sorprese, dove l’intimità e il piacere sono certi e non sottoposti alla volubilità del caso, alla stanchezza mortale del dopolavoro, alla depressione diffusa nelle nostre condizioni e delle nostre relazioni, ai problemi di comunicazione, al tempo del relax che manca sempre, e così via.

Tutto questo interroga i nostri più comuni stili di vita e ci spiega l’ascesa verticale di questo mercato.

Ma come stanno le sex workers?

Abbiamo detto che nessuna sex worker riceve piacere dalle esperienze che vende, che procura. La scissione del corpo è la condizione necessaria e iniziale per poter svolgere questa attività.

Il sesso nella prostituzione, come nella pornografia, da cui trae trame immaginarie, è un sesso ipercodificato e socialmente sovrascritto, frutto di una necessaria scissione in origine che si trasmette sulla stessa linea di frattura: dal corpo all’immaginario colonizzato. La condizione affinché tale immaginario ipercodificato sia adeguatamente nutrito è che la sex worker si annulli, separi il proprio corpo dalle proprie emozioni, e diventi docile strumento nelle mani altrui.

Questo in che modo ha a che fare con la dignità umana? Il corpo teatralizzato, scisso e inerte della prostituta ha a che fare con la dignità umana o no?

Possiamo perciò affermare che il sex work è un lavoro come un altro e che la dignità umana non è più calpestata rispetto a tanti altri lavori, socialmente più accettabili, nei quali si perde ugualmente dignità e salute?

Qui le posizioni nel dibattito sociale divergono e di molto.

Chi pensa che il sex work e la prostituzione siano un lavoro come un altro, afferma che la sex worker sia la proprietaria del proprio corpo e che quindi ha il diritto di farne ciò che vuole in una società nella quale vendere e comprare qualunque cosa è atto di libera affermazione di sé. Il principio di libertà e di autodeterminazione in tal caso appare come principio assoluto e astorico, e che l’unico problema delle sex workers sia lo stigma morale che la società infligge loro. Si trascura in questa visione ipocritamente libertaria che il corpo di cui la donna si dichiara proprietaria è un corpo sul quale i codici sociali hanno già profondamente scritto ed inciso la loro precisa narrazione. Ed è una storia di dominio e di sfruttamento, una storia dove l’immaginario erotico, anche femminile, è stato totalmente colonizzato e reso consumistico.

Chi pensa che il sex work non sia un lavoro come un altro, crede invece che questa preliminare e necessaria perdita di dignità, scritta nella scissione sopra descritta, seppure socialmente e perfettamente sintonica rispetto al disagio diffuso esistente, non sia mai condizione di una libera scelta, ma che faccia di questo lavoro un lavoro dove la componente alienante è tale da ledere mortalmente in sequenza dignità e salute.

Prostituzione e trauma

È di questo avviso Ingeborg Kraus, psicoterapeuta esperta in trauma e prostituzione, che alla Conferenza sul mercato del sesso organizzata da TALITA il 2 ottobre 2017 afferma:

La vagina può essere usata come uno strumento di lavoro? Dal punto di vista medico non è possibile (…). Lo sviluppo sano e sostenibile di una società dipende dalla salute mentale delle donne. E la salute mentale delle donne è direttamente connessa al rispetto dei loro diritti. (fonte Micromega, Maria Concetta Tringali, Prostituzione: note su un dibattito che non trova sintesi Aprile 2018)

Si dovrebbero ascoltare le storie di vita delle sex workers per comprendere meglio di cosa stiamo parlando. Non solo quelle vittime di tratta e di sfruttamento, la maggioranza di loro: lì è troppo facile dimostrare la perdita di dignità e salute.

No, si dovrebbero ascoltare le storie delle cosiddette sex workers libere e volontarie. Capire da quali esperienze, da quali contesti sociali, da quali culture e da quali rapporti familiari, provengono. Cosa rende loro “capaci” di operare questo taglio reificante con il proprio corpo tale da renderlo merce.

Scopriremmo, molto probabilmente, nella violenza delle relazioni e delle identificazioni, nelle culture incestuali, nei codici di possesso, nella deculturazione radicale dei codici narcisisitici e consumistici della nostra epoca (come testimoniato dalle storie delle prostitute minorenni di alto bordo), come sia potuta avvenire la collusiva colonizzazione dell’immaginario che ancora oggi ripropone la prostituzione come un atavismo culturale ancora non superato.

Ed allora difendiamo le sex workers dalla condanna morale e dallo stigma sociale, ma senza omettere la verità su quanto il sex work sia esperienza alienante e patogena dove ad essere profondamente lesionata è la dignità umana e quindi la salute mentale.

Come l’attività cerebrale influisce sulle generazioni successive

Oggi si sa che in natura l’ereditarietà può essere influenzata da fattori epigenetici, ovvero relativi ai meccanismi che modificano l’espressione e la funzionalità dei geni senza modificare la sequenza del DNA. In che misura ciò derivi dall’ambiente e quanto influenzi l’uomo non è però ancora del tutto chiaro.

 

Lamarck fu uno dei primi ad usare il termine “biologia” così come lo intendiamo oggi. Egli formulò una teoria che fece scalpore all’epoca, chiamata poi per l’appunto lamarckismo.

Questa teoria ipotizza che tutti gli organismi abbiano un’innata predisposizione ad evolversi in una direzione definita, un obiettivo assoluto, e che la forza motrice di questi cambiamenti sia la pressione adattiva delle condizioni ambientali. Per esempio, le giraffe avrebbero avuto in origine un collo più corto, ma il continuo sforzo di questi animali per raggiungere foglie più alte ne avrebbe lentamente allungato le vertebre, una caratteristica fisica poi trasmessa alla progenie.

Da Weismann all’epigenetica

La teoria lamarckiana non sopravvisse all’avvento del darwinismo, che propose la selezione naturale come processo fondamentale per l’evoluzione della specie. Non fu però Darwin, che condivideva alcune ipotesi di Lamarck, a non ammettere l’ereditarietà delle caratteristiche acquisite, ma bensì August Weismann. Il biologo tedesco propose la netta distinzione fra le cellule aploidi precorritrici dei gameti, le uniche considerate in grado di trasmettere caratteristiche alle generazioni successive, e quelle somatiche “monouso” in grado solo di ricevere ed utilizzare le informazioni genetiche transgenerazionali. Questo concetto viene chiamato barriera di Weismann.

Oggi si sa che in natura l’ereditarietà può essere influenzata da fattori epigenetici, ovvero relativi ai meccanismi che modificano l’espressione e la funzionalità dei geni senza modificare la sequenza del DNA (Morgan, Sutherland, Martin, & Whitelaw, 1999). In che misura ciò derivi dall’ambiente e quanto influenzi l’uomo non è però ancora del tutto chiaro. A molti l’idea che l’attività cerebrale dei genitori influenzi l’informazione trasmessa ai figli può sembrare assurda. Tuttavia, ci sono diversi articoli sul modello animale che suggeriscono come la risposta neuronale possa modificare la struttura neurale ed il comportamento delle generazioni successive (Dias & Ressler, 2014). Un recente studio ha mostrato come questo avvenga in minuscoli vermi chiamati Caenorhabdi elegans, in cui l’attività del sistema nervoso parentale trasmette alla progenie piccole molecole di RNA in grado di regolare l’espressione genica (Posner, et al., 2019).

La RNA interference: comunicazione transgenerazionale dei processi neurali

Uno dei meccanismi di regolazione implicati nella catena gerarchica di eventi che fanno sì che le proteine vengano prodotte con il giusto tempismo e nelle giuste quantità è la RNA interference, un processo in grado di silenziare specifici geni attraverso l’azione di brevi tratti di RNA non codificante a doppia elica chiamati small interferring RNA, o siRNA. Il loro scopo è eliminare determinati RNA messaggero, o mRNA, che codificano e portano informazioni dal DNA ai siti della sintesi proteica, a loro complementari.

I risultati della ricerca mostrano come, nei neuroni, la sintesi di siRNA dipendenti dalla proteina ligante RDE-4, importante nella risposta a tratti di RNA a doppia elica, per almeno 3 generazioni aumenti questi RNA endogeni e influisca sull’espressione genica. Ciò avviene attraverso le proteine argonaute HRDE-1, che uniscono e guidano i siRNA verso i loro bersagli, tra i quali gli mRNA relativi al gene saeg-2, implicato nella chemiotassi sotto stress, ovvero il movimento di un organismo in risposta ad uno stimolo chimico in condizioni ambientali sfavorevoli.

Quello che viene proposto nella ricerca è un meccanismo di comunicazione transgenerazionale dei processi neuronali che infrange la barriera di Weissmann. Il futuro ci dirà in che modo diverse attività delle cellule nervose possano influenzare l’informazione ereditata, e se o come ciò possa essere adattivo per la specie e per gli individui.

Tipi di passione e solidità del rapporto di coppia

La passione è definita come una forte inclinazione verso un oggetto, una persona o un’ideologia che si ama e che la persona trova importante e significativa, in cui si investe tempo ed energia.

 

Il Modello Dualistico della passione di Vallerand presuppone l’esistenza di due tipi di passione: armoniosa e ossessiva.

Passione armoniosa e passione ossessiva: cosa sono

La passione armoniosa (HP) è una tendenza motivazionale che porta gli individui a dedicarsi liberamente e deliberatamente all’attività e deriva da un’interiorizzazione della passione nella propria identità. Pertanto, gli individui con passione armoniosa non sentono un incontrollabile bisogno di impegnarsi nella loro attività appassionante, ma piuttosto scelgono liberamente di farlo. Inoltre, gli individui con passione armoniosa sono in grado di decidere quando e se impegnarsi nelle attività appassionate.

La passione ossessiva (OP), invece, si riferisce ad una pressione interna che porta gli individui ad impegnarsi in un’attività che si ama e deriva da un’interiorizzazione controllata dell’attività nella propria identità. Pertanto, le persone con passione ossessiva si sentono controllate dalla loro attività appassionata e non possono fare a meno di impegnarsi, dal momento che l’attività è fuori dal loro controllo e può assumere uno spazio sproporzionato nella vita di una persona, di conseguenza può indurla a trascurare le altre aree della propria vita. Sebbene gli individui con passione ossessiva possano trarre piacere dalle loro attività appassionate, possono comunque subire conseguenze negative.

Tipi di passione e..tipi di relazione

I processi di interiorizzazione (autonomi o controllati) conducono allo sviluppo iniziale di un tipo predominante di passione, tuttavia entrambi i tipi di passione sono presenti all’interno dell’individuo in diversi gradi e si spostano a seconda del contesto. In effetti, diversi fattori personali o sociali possono provocare temporaneamente un tipo di passione o un’altra. Per esempio, prima di una competizione, una persona con un passione armoniosa predominante per il suo sport potrebbe decidere di mettere da parte altri aspetti della sua vita per concentrarsi completamente nella competizione (che è una caratteristica della passione ossessiva), ma tornerà alla sua o il suo tipo originale di passione una volta che la competizione sarà finita.

Ad esempio, anche la passione romantica può essere armoniosa o ossessiva: passione armoniosa fa riferimento a una tendenza motivazionale in cui le persone scelgono volontariamente di impegnarsi in una relazione romantica con il proprio partner, non si sentono obbligati e la loro passione romantica è in armonia con altri ambiti della vita;  al contrario, la passione ossessiva si riferisce ad una pressione interna che spinge le persone a perseguire una relazione romantica con il loro amato partner e si sentono controllati dalla passione. Quest’ultimo tipo di passione può creare conflitti con altri domini della vita e arriva a condizionare fortemente l’individuo.

Quale passione è più utile al rapporto di coppia?

Lo studio, pubblicato sull’ International Journal of Applied Positive Psychology, vuole indagare come i due tipi di passione (armoniosa e ossessiva) si rapportano in una coppia, esaminando sia le conseguenze positive che quelle negative, ma anche l’impatto che possono avere sulla solidità del rapporto.

I partecipanti allo studio erano 205 canadesi francesi (150 donne, 52 uomini, 3 anonimi) attualmente coinvolti in una relazione romantica. L’età media era pari a 30,83 anni (SD = 11,22 anni). La durata media della relazione era di 6 anni e 11 mesi (SD = 8 anni e 11 mesi). Per quanto riguarda lo stato delle relazioni, il 23,4% era sposato, il 55,1% viveva con il proprio partner senza essere sposati e il 21,5% si frequentava. I partecipanti sono stati reclutati su Facebook attraverso un annuncio pubblicitario rivolto agli individui attualmente coinvolti in una relazione romantica.

I risultati mostrano che una passione armoniosa condiziona la coppia con emozioni positive durante il perseguimento di attività comuni e che rafforza positivamente la relazione, al contrario la passione ossessiva condiziona la coppia con emozioni negative durante lo svolgimento di un’attività comune e di conseguenza prevede una solidità precaria della coppia. Questi risultati suggeriscono che i due domini di passione danno un contributo importante e unico alle relazioni romantiche.

La raccomandazione standard per le coppie è che per migliorare la relazione è necessario fare più cose insieme, al contrario questa ricerca mostra che le coppie ossessivamente appassionate (sentirsi obbligate) si impegnano in attività che non li appassionano e di fatto i risultati possono essere dannosi. Passare necessariamente del tempo insieme non è la risposta. È necessario scegliere di fare qualcosa che ognuno ama. L’energia positiva che proviene dall’eccitazione condivisa è anche parte di ciò che rafforzerà la connessione della coppia. Condividere le attività armoniosamente appassionate con il partner può essere uno dei modi più diretti per migliorare la relazione di coppia, ma solo se questa condivisione è reale e non forzata.

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