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Psicologia degli stati discontinui di passaggio

Nel corso dei suoi studi, Andrea pensò che tale attenzione iperprudenziale adattiva alla sopravvivenza, facesse riflettere sul destino dell’uomo: se un organo sta bene e funziona normalmente non lo sentiamo e ne dimentichiamo l’esistenza. Il benessere è silente e solo il malessere è avvertito.

 

Il padre era certo che sarebbe diventato uno scienziato per la curiosità che mostrava, per ora a tutto danno dei giocattoli, di capire esattamente come funzionassero le cose svelandone gli ingranaggi e i meccanismi più intimi, nascosti, interni. Per la madre il suo piccolo Andrea era destinato a essere uno scrittore o uno psicologo per l’interesse che nutriva per le sfumature più sottili dei vissuti interiori e le passioni contraddittorie dell’animo umano. Né lui né nessun altro pensò mai che sarebbe potuto diventare un calciatore, un atleta famoso o qualcosa che avesse a che fare con l’utilizzo del corpo che da subito si era dimostrato nettamente inferiore alle aspettative, spingendolo al compenso intellettuale e sociale. Sarebbe semmai potuto essere il testimonial di una campagna pubblicitaria per gli antichi ricostituenti che le madri postbelliche reclamavano per i loro figli gracilini in primavera, tanto il suo aspetto fisico rimandava l’idea della mancanza, della debolezza, con quella testa così sproporzionatamente grande su un corpo mingherlino, fragile e perennemente emaciato.

Andrea sperimentava il contatto con la realtà, che fosse il sole marino, il bianco della neve, il fresco dell’acqua in cui gli altri si immergevano gioiosi, come una minaccia e un insulto da cui proteggersi. La realtà era ruvida, urticante, fastidiosa, ne faceva volentieri a meno, doveva ripararsene. Consapevole della sua incompatibilità con la concretezza, si era ritirato nel labirinto etereo delle idee, soprattutto da quando l’adolescenza, con tutte le sue conseguenze, aveva provato a strapparlo alla modesta famiglia dove l’accettazione inesigente era scontata per precipitarlo in un mondo che chiedeva di essere all’altezza, mostrarsi, valere, addirittura competere. Non era cosa per lui.

Seguì la previsione della madre iscrivendosi a Psicologia perché voleva capire come funzionassero gli esseri umani, cosa che gli appariva assolutamente astrusa e bizzarra. Neppure il padre sarebbe stato deluso perché in fondo anche gli psicologi sono un po’ scienziati seppure il loro oggetto di studio sia autoreferenziale con tutti i problemi di confusione tra osservatore e osservato che ciò comporta. Consapevole di ciò Andrea fece dell’autoreferenzialità non un vincolo da superare ma la strada privilegiata per arrivare a cogliere proprio l’interfaccia tra mente e corpo ed in particolare il punto esatto in cui il corpo si fa mente che si osserva.

Lo studio degli “stati discontinui di passaggio” (SDP) e la storia di Andrea

Questa degli “stati discontinui di passaggio” (SDP li aveva chiamati nella speranza che diventassero un tema di interesse generale) divenne una vera e propria fissazione che lo portò ad essere lo zimbello dell’ambiente accademico più tradizionale. Era convinto che se si fosse penetrati in quei fuggevoli e sottili spiragli si sarebbe potuto comprendere il mistero della materia che si fa psiche. Le prime ricerche le condusse con il più economico e primitivo degli strumenti, ovvero l’autosservazione, focalizzandosi sul passaggio veglia/sonno e il suo opposto, insomma sull’addormentamento e il risveglio. Chiamava questa procedura la moviola o scansione psichica. La moviola del risveglio diede rapidi risultati dopo osservazioni ripetute per poco più di un mese annotando ogni mattina il recupero della coscienza sul taccuino che gli aveva fornito il suo psicoanalista per registrare l’attività onirica e che era rimasto intonso grazie al catenaccio degno dell’Inter di Herrera che le sue difese dell’Io esercitavano sul confine dell’inconscio, vissuto come la linea del Piave.

Le sue autosservazioni invece procedevano rapide e interessanti. Il primo bagliore di esistenza di un “Io” era avvertito con un senso di pesantezza a livello della zona zigomatica (sulla faccia dietro il naso) e retrosternale più o meno all’altezza del cardias dove lo stomaco si fa esofago. Da questi due punti dilagava la sensazione di avere un corpo raggiungendo il livello di consapevolezza nelle zone doloranti, intorpidite. Insomma la prima segnalazione registrava soprattutto ciò che non andava.

Pensò che tale attenzione iperprudenziale adattiva alla sopravvivenza, facesse riflettere sul destino dell’uomo: se un organo sta bene e funziona normalmente non lo sentiamo e ne dimentichiamo l’esistenza. Il benessere è silente e solo il malessere è avvertito.

Immediatamente dopo aver avvertito l’Io corporeo si istallava il programma di orientamento spazio-temporale per rispondere alle domande “dove?” e “quando?” le cui risposte raggiungevano la consapevolezza solo se diverse dalle attese, ovvero “nel tuo letto di mattina presto”, altrimenti non venivano registrate come significative. Il passaggio immediatamente successivo era la riattivazione delle preoccupazioni, degli impegni e dei compiti lasciati in sospeso che avrebbero costituito l’agenda della giornata che a sua volta si iscriveva negli obiettivi di medio periodo sintetizzabili nell’ “essere qualcosa per qualcuno”. Si accorse ben presto che il meccanismo restava identico pur al mutare del qualcuno in questione e allora ne dedusse che la parte interessante era che per “essere” doveva “essere per qualcuno” o, detto diversamente, la sua identità era certificabile solo da ispettori esterni. Questo ovviamente era un modo di funzionare esclusivamente suo che esulava dagli studi sul passaggio rispetto ai quali ci si poteva limitare a affermare che “prima si istalla il sé corporeo, poi si attiva l’orientamento spazio-temporale, successivamente il sistema motivazionale e infine si passa all’azione”.

Fornì alcuni amici e colleghi di schede per l’autosservazione che confermarono un processo analogo in tutti ma non spiegò perché in alcuni tale percorso fosse associato a sensazioni di benessere e vitalità e in altri accompagnato da pesantezza e voglia di ritiro. Nelle sue pubblicazioni questa diversa disposizione veniva sempre indicata come il punto di arresto delle sue ricerche e la sfida per i futuri ricercatori. Si era inventato l’ipotesi ad hoc di un tono serotoninergico innato ma sapeva essere una scorciatoia per cavarsi d’impaccio.

Molti più problemi metodologici emersero durante gli studi sull’addormentamento perché il resoconto su quanto fosse avvenuto non poteva essere compilato immediatamente dopo l’evento ma solo attraverso il ricordo la mattina successiva che riportava il progressivo confondersi dei pensieri in una immaginazione caotica a carattere onirico, come se si perdesse progressivamente il filo del discorso interno, ma il momento effettivo dello spegnersi del mentale era descrivibile come una funzione tendente ad un limite che era però sempre sfuggente e inafferrabile. Andrea, testardo, non mollava e spostava sempre più in avanti l’ora dell’addormentamento. Insomma per coglierne il momento esatto non riusciva più ad addormentarsi perché la vigilanza che richiedeva l’osservazione del processo era appunto opposta allo spegnimento funzionale necessario per l’addormentamento stesso.

Dopo un periodo di frequenti notti bianche alternate ad altre in cui l’esperimento falliva e si addormentava senza accorgersene iniziò a manifestare prima comportamenti di eccitazione maniacale e irritabilità, poi vissuti persecutori e allucinazioni, quasi sogni ad occhi aperti, che spinsero amici e colleghi a convincerlo a sospendere gli esperimenti e recuperare il ritmo sonno veglia con possenti dosi di benzodiazepine.

Non si creda però che tutto ciò gli impedisse un serrato impegno nella costruzione del suo futuro. Nel frattempo la carriera accademica del Professor Andrea Livenza avanzava rapida e, a soli 35 anni, lo vedeva approdare all’associatura alla cattedra di “Neuroscienze intimistiche” della facoltà di Psicologia statica e osservazionale della Sapienza di Roma. Nel frattempo aveva visto naufragare due matrimoni. Per la verità erano gli altri ad averlo visto in quanto lui non se ne era reso proprio conto non essendo mai stati l’amore e l’innamoramento suoi oggetti di studio nonostante il collega di “Emozioni comparate” avesse provato a coinvolgerlo, conoscendo il suo debole, proponendogli di stabilire i confini esatti tra infatuazione, passione, innamoramento e amore. Gli sembrava un terreno troppo scivoloso in cui avventurarsi e la collaborazione non decollò mai.

La prima sposa Luisa De Logu era una piccola fortissima donna sarda, figlia del preside di facoltà, iscritta al suo stesso anno di corso. Se il matrimonio gli aveva portato qualche beneficio in termini di carriera (del resto era per questo che l’aveva corteggiata essendo brutta, stupida, sferica e presuntuosa), la separazione era stata cruenta con attribuzione di colpa e dunque onerosi alimenti a carico di Andrea condannato per crudeltà mentale. Il dottor Livenza, così sentenziò il tribunale, si era dedicato allo studio con la moviola del riflesso orgasmico per cui si immobilizzava quando sentiva che stava per approssimarsi per annotare su un apposito taccuino pensieri ed emozioni e altrettanto pretendeva che facesse Luisa che schiaffeggiava quando la sentiva in bilico sul limite del piacere perché gli riferisse immediatamente tutto. Inoltre non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi di avere figli quantunque l’idea di cogliere il primo costituirsi del sé e i primi pensieri del neonato nel suo affacciarsi dalla vagina sul mondo esterno avrebbe potuto inaugurare una proficua joint-venture con il dipartimento di ostetricia e ginecologia.

La seconda moglie Maria era donna di prorompente bellezza mediterranea, centro costante di attrazione per tutti i maschi. Alta, atletica e dalle movenze feline, emanava una naturale seduttività cui pochi resistevano. Questa fu la caratteristica per cui Andrea la scelse tra le allieve che frequentavano il suo reparto, ma non si creda che lo fece per interesse erotico personale essendo in lui sempre prevalente la motivazione scientifica. Avendo capito che l’orgasmo era malamente osservabile se direttamente coinvolti (infatti come dagli esperimenti sul sonno si era portato dietro un’insonnia resistente, dagli esperimenti con Luisa aveva ereditato un’anorgasmia rapidamente evoluta in impotenza per concludersi con una totale assenza di desiderio) riservò a sé il solo ruolo di sperimentatore. La voce si sparse presto in tutta la Sapienza: il professor Livenza organizzava cene con colleghi e studenti indicatigli da Maria che si concludevano con rapporti sessuali come dessert in cui Livenza si riservava il ruolo di attento osservatore esterno, intervistatore e, in sostanza asettico ricercatore.

Alla fama di violento e maltrattante che si era guadagnata con il divorzio per colpa da Luisa, si aggiunse quella di pervertito per i festini che organizzava con Maria, la quale però, dicevano le male lingue, non doveva essere troppo dispiaciuta di prestarsi agli esperimenti del marito e di aver senza indugio donato il corpo alla scienza. Forse a motivo della cattiva fama o della scarsa produttività scientifica oppure ancora della assenza di motivazione per la didattica, sta di fatto che quello che sembrava essere l’astro nascente della psicologia italiana tramontò rapidamente e di lui si persero le tracce. Il mondo accademico italiano lo aveva dimenticato dopo che si era perduto in quella terra di mezzo dove era stato preceduto dai ben più noti Ettore Maiorana e Federico Caffè. La sua ultima lezione dal tema “Discontinuità e stati di passaggio” era stata tenuta in una piccola aula periferica della facoltà il 5 dicembre del 2006 e i volti dei pochissimi presenti, quasi tutti amici o ex collaboratori, esprimevano imbarazzo misto a pena. Poi solo alcuni cenni a “Chi lo ha visto?” nelle settimane seguenti che avvalorano l’ipotesi della scomparsa volontaria e del suicidio.

Durante il lungo periodo della sua assenza si alimentarono le leggende più bizzarre senza mai né conferme né smentite. C’era chi sosteneva fosse emigrato alla corte di un emiro arabo dedicandosi al marketing petrolifero. Secondo altri aveva cambiato sesso per capire i vissuti femminili diventando la preferita di un magnate russo per il quale si esibiva in tutu tutte le sere. Alcuni erano certi di averlo visto per le strade di Parigi tra gli homeless. Altri ancora dicevano gestisse sotto falso nome un enorme laboratorio a Rio de Janeiro per evidenziare i danni a lungo termine della samba e preparare una svolta epocale di tutto il continente verso il ballo liscio. Voci mai confermate lo davano priore in un monastero buddista tibetano a studiare gli stati di trance meditativa. Le ricerche del corpo nei boschi del viterbese dove abitava da solo erano cessate dopo tre anni ed essendone stata dichiarata ufficialmente la morte presunta dal tribunale di Roma, Luisa aveva potuto convolare a nuove nozze anche con il conforto sacramentale nella cattedrale di Cagliari con il Prof Puddu di Endocrinologia dei primati non umani della facoltà di Veterinaria.

Nonostante avesse voluto dimenticare quella brutta pagina della sua vita fu proprio Luisa, che evidentemente conosceva bene il suo ex marito, a lanciare il sospetto che Livenza potesse essere coinvolto nel caso straordinario che attirava in quel periodo gli scienziati e non solo di tutto il mondo al MIT di Boston, dove da oltre due anni un certo mister Brondel proveniente dalla Virginia ma di origini non chiare sopravviveva nonostante tutti i parametri vitali fossero alterati così tanto da essere assolutamente incompatibili con la vita per il sommarsi di numerose gravissime malattie neoplastiche e degenerative che avevano causato un assoluto sconquasso metabolico. Squadre di superspecialisti delle varie discipline mediche studiavano mister Brondel per capire come fosse possibile che i singoli apparati e organi di cui si interessavano potessero continuare a funzionare nonostante il sovvertimento di tutti i parametri considerati essenziali per la sopravvivenza. Boston era stata presa d’assalto non solo da équipe di scienziati dei cinque continenti che vi avevano affittato interi edifici prospettandosi la permanenza piuttosto lunga, ma anche dai mass media di tutto il mondo. Si viveva un clima di attesa messianica come se da un momento all’altro si stesse per scoprire il segreto dell’immortalità e l’antica nemica potesse essere liquidata una volta per tutte.

Ben presto giunserò a Boston anche delegazioni qualificate delle più importanti religioni, ciascuna con l’intenzione di appropriarsi per prima del segreto dell’immortalità che tutte avevano in qualche modo promesso. Mentre Brondel combatteva la sua quotidiana battaglia “contro” o “per” la morte circondato da sofisticatissimi macchinari che non avevano finalità terapeutiche ma esclusivamente di registrazione dello straordinario fenomeno di un uomo che non riusciva a morire, tutto intorno a Boston e nel suo interland ferveva convulsa la vita. Religiosi di diverse fedi e scienziati di tutte le discipline si confrontavano, si scambiavano idee, litigavano e facevano all’amore come è costume degli umani in un clima carico di speranza e novità che ricordava l’estate di Woodstock. A questa ristretta cerchia elitaria si aggiunsero, con il passare dei mesi prima e degli anni poi, masse di pellegrini che professavano una nuova fede definita brondelaresimo, il cui credo essenziale affermava la supremazia della consapevolezza umana sulla morte che, come già aveva evidenziato Lucrezio nel “De rerum naturae” non possono essere contemporaneamente presenti, per cui ne deriva l’ovvia conseguenza che se la consapevolezza non molla la presa, la morte non ha spazi in cui insinuarsi.

I macchinari che controllavano i parametri vitali di Brondel erano continuamenti ritarati perché registravano valori assolutamente non previsti commentati quotidianamente sulla stampa specializzata di tutto il mondo dove venivano proposti congressi per approfondire le rivoluzioni concettuali che quanto stava accadendo rendeva indispensabili.

Accanto all’aspetto scientifico proliferava quello spettacolare. Il grande gruppo televisivo italiano Mediaset, sponsor del progetto “Eternity” voluto tanti anni prima da Berlusconi, mandava in diretta planetaria la battaglia prometeica di Brodel. Le masse si erano come sempre divise e schierate. Da un lato gli innovatori che tifavano per Brodel e lo vedevano come il novello Adamo di una nuova umanità, dall’altra i conservatori che parteggiavano per la morte e il ristabilimento dell’antico ordine costituito, temendo cosa sarebbe potuto diventare l’uomo senza più neppure il limite della morte. I più importanti laboratori del mondo avevano sborsato cifre enormi per accaparrarsi pezzetti del corpo di Brondel al fine di estrarne e studiarne il DNA (fu grazie ad essi e a dei capelli ritrovati nella spazzola nella casa romana di Andrea che si potè poi stabilire con certezza la sua vera indentità).

Il 23 novembre era un giorno freddo e piovigginoso su una Boston che ormai da qualche anno proliferava sul fenomeno. Erano ormai settimane che Brondel non pronunciava alcun suono intellegibile nelle lingue conosciute e nulla captavano i microfoni ad altissima sensibilità che lo circondavano. La faccia sofferente come sempre trasmetteva il senso di una profonda concentrazione, si avvertiva lo sforzo enorme per non distrarsi ed essere presente a se stesso.

Poi d’improvviso, inaspettata quella sequenza di sillabe che sarebbe stata per decenni oggetto delle più contrastanti esegesi degli studiosi che la riascoltavano con le cuffie dopo che i tecnici audio ne avevano eliminato le impurità e che non si capiva bene se fosse:

“AH, SI, SI, HO CAPITO OK”

oppure “AHIAHIAI ECCHECAZZO, NO”

Seduzione e tradimento (2018) di Mirella Baldassarre: i legami sentimentali dall’amore al dolore – Recensione del libro

Seduzione e tradimento è il titolo del libro scritto da Mirella Baldassare ed edito da Alpes. In questo libro si passa molto dettagliatamente in rassegna il processo che dall’amore, emozione che lega profondamente due persone, porta allo sviluppo di legami diversi.

 

Ogni legame, a sua volta è preceduto da un processo seduttivo, che consiste nella volontà di muovere interesse nell’altro, fino alla nascita di una vera e propria relazione affettiva. Succede, in alcuni casi, che si possa assistere alla rottura del legame affettivo attraverso la messa in atto di un tradimento, che potrebbe concludersi nella creazione di un nuovo legame o con la rinascita di un nuovo sé.

Seduzione e tradimento: cos’è l’amore

La seduzione e il tradimento sono comportamenti comuni che spesso si manifestano nelle relazioni affettive e molte volte sono accompagnati da emozioni contrastanti. La seduzione e il tradimento portano alla manifestazione di emozioni molto forti, sia positive sia negative, che sono direttamente collegate alle relazioni affettive, coinvolgendo l’interiorità di coloro che fanno parte della relazione stessa.

In alcuni casi nella relazione potrebbero manifestarsi dei comportamenti derivanti dal tipo di funzionamento personologico mostrato dalle parti coinvolte, che potrebbero culminare con la rottura della relazione stessa.

Tutto, però, è generato dall’amore, fonte inesauribile di piacere, ma anche di dolore.

Cos’è l’amore? L’amore è quell’emozione che muove verso l’altro e spinge a fare cose per l’altro. Erroneamente si pensa che l’amore possa manifestarsi solo in una relazione di coppia, al contrario esistono forme d’amore di diverso tipo, come fra un genitore e il proprio figlio, fra amici, etc. Dall’amore potrebbe nascere qualcosa di positivo e emotivamente bello, ma in alcuni casi si potrebbero verificare delle situazioni in cui l’amore diventa tossico: dipendenza, frustrazione o possesso. In questi casi, potrebbero manifestarsi una serie di situazioni dannose che il più delle volte hanno epiloghi disastrosi.

Seduzione: i primi passi dell’amore

L’amore si presenta sempre attraverso una danza iniziale, una sorta di gioco tra le parti: la seduzione. Inizia tutto con il sentirsi attratto dall’altro e voler attirare l’attenzione dell’altra persona, sia con comportamenti che con cognizioni, lo scopo è quello di coinvolgere l’altro in una relazione di coppia.

La prima fase di una relazione è caratterizzata dall’innamoramento che, con il tempo, diventa quotidianità, reciprocità, progettualità, ovvero amore. La seduzione stuzzica i desideri più intimi e porta a spingerci sempre di più verso l’altro ambito, bramato, desiderato, anche nei nostri sogni più reconditi e proibiti.

Il seduttore per far breccia nel cuore del sedotto esibisce tutte le armi in suo possesso: sguardi, gesti, parole, allusioni, messaggi, per stuzzicare una sorta di curiosità volta a muovere l’altro in direzione centripeta.

Seduzione, però, è anche manipolazione ovvero adescare l’altro per riuscire a soddisfare i propri scopi. In questi casi la seduzione è un arma usata per rendere l’altro vulnerabile, in cui si avvia un processo di indebolimento delle difese per riuscire a imporsi. Si tratta, dunque, di una vera manipolazione volta a ottenere il controllo sull’altro. Questo tipo di seduzione richiede l’utilizzo di una serie di abilità per riuscire a canalizzare i pensieri dell’altro, captandone le fragilità e i bisogni per ottenere uno stato di totale dipendenza da parte dell’altro.

Dalla seduzione al tradimento e alle sue conseguenze

Succede, spesso, in situazioni relazionali diverse che l’alchimia iniziale cominci a scemare. In questo caso, è possibile si possa provare attrazione per altre persone e si possono innescare dei comportamenti volti a concedersi agli altri: tradire. Si tratta di una sorta di boomerang che colpisce la vita psichica delle diverse parti in causa rompendone definitivamente gli equilibri.

Il tradimento consente di rendere attuali delle ferite rimaste sopite da diverso tempo che possono portare in alcuni casi a mettere in discussione se stessi e la propria quotidianità. Ci saranno persone in grado di affrontare il tradimento in maniera più leggera e altre meno. Questo è dovuto al tipo di assetto personologico che si possiede che consente di gestire diversamente il tradimento stesso. Il dolore del tradimento apre degli interrogativi interiori e porta alla rottura di diversi piani, tra cui il più importante è il progetto di vita.

Per superare il tradimento è necessario canalizzare le risorse personali elaborando la rottura, il cui scopo finale è raggiungere un nuovo equilibrio. Tale scopo è raggiunto il più delle volte se sono presenti delle buone capacità di integrazione, di differenziazione e di metacognizione.

Il peso dei fattori emotivi sul benessere dell’individuo. Qual è il rischio nello sviluppo della demenza?

L’accumulo di episodi affettivi nel corso della propria vita sembra avere un impatto significativo su diverse funzioni cognitive con l’avanzare dell’età: molti studiosi hanno posto l’accento sull’associazione fra deterioramento cognitivo e fattori di rischio, lungo tutto il corso della vita.

 

Lo sviluppo della demenza nell’anziano sembra essere preceduta da un lungo periodo preclinico prima che la sintomatologia diventi evidente. Questo è uno dei motivi per cui molti studiosi hanno posto l’accento sull’associazione fra deterioramento cognitivo e fattori di rischio, lungo tutto il corso della vita.

È stato da poco svolto dai ricercatori della University of Sussex un importante studio longitudinale, riguardante la correlazione tra sintomi affettivi e funzioni cognitive nella mezza età (John, et al., 2019).

Lo studio

La ricerca si è basata su un campione di 9.385 soggetti nati in Inghilterra, Scozia e Galles. Ogni soggetto ha compilato un questionario relativo al distress psicologico ed emotivo a 23, 33, 42 e 50 anni. Durante l’ultima fase sono state misurate anche memoria, fluenza verbale, accuratezza e velocità del processamento delle informazioni.

I risultati della ricerca mostrano come l’accumulo di episodi affettivi durante i tre decenni è statisticamente correlato a tutte le variabili in esame, meno la velocità di processamento.

Non è tanto il singolo disturbo dell’umore a conferire significatività al modello, quanto quei casi dove vi è stato un susseguirsi di due, tre o più episodi. Questo potrebbe essere spiegato dall’attività dell’asse ipotalamo ipofisi surrene, da fattori di rischio cardio-metabolici, dalla storia di infezioni croniche e dall’utilizzo pregresso di farmaci.

Gli esiti dello studio mostrano un’importante finestra di intervento precoce, dando rilievo alla gestione efficace dei disturbi dell’umore, in particolare se ricorrenti lungo il corso della vita. Inoltre, vengono poste le basi per l’individuazione preventiva di quei soggetti nei quali potrebbero sorgere disturbi mnestici e cognitivi futuri, confermando l’importanza di un’anamnesi accurata della storia clinica del paziente.

Riportando le parole del dr.ssa Darya Gaysina, membro dell’equipe di ricerca e professoressa di psicologia presso l’University of Sussex:

We would therefore like to see the government investing more in the mental health provision for young adults, not only for the immediate benefit of the patients, but also to help protect their future brain health.

Vorremmo vedere il governo investire di più nei servizi di sanità mentale per giovani adulti, non solo per un beneficio immediato, ma anche per aiutare a proteggere il loro futuro benessere cerebrale.

Rabbia da marciapiede e intolleranza alla lentezza: se solo fossimo più grati

La rabbia da marciapiede sembra essere il chiaro esempio di come molte persone oggi non riescono più ad accettare momenti di lentezza all’interno delle loro frenetiche giornate. Cosa ci ha portato a diventare così poco pazienti nei confronti della lentezza?

 

 “Chi si ferma è perduto” o, per lo meno, può diventare vittima di quello che, grazie alla lettura di un articolo di Chelsea Wald ho scoperto essere un disturbo alquanto diffuso e da alcuni studiosi anche riconosciuto: la Rabbia da marciapiede.

Prendendo atto della sua diffusione, mi sono resa conto di quante volte avessi già assistito al fenomeno: pedoni sull’orlo di una crisi di nervi quando dinnanzi a loro una persona cammina con lentezza, occupando tutto il percorso disponibile, non curante della fretta e del passo svelto di chi c’è dietro. Quella da marciapiede è la forma più diffusa, ma ciò accade anche tra gli automobilisti: i più frenetici e impazienti si trovano spesso a dover mal sopportare di essere in coda a veicoli che superano di pochissimo il limite minimo di velocità. Quel che sorprende di più è che ciò accade anche lontano dagli orari lavorativi o quando non si è in ritardo a un qualsivoglia appuntamento.

Cos è la rabbia da marciapiede

I ricercatori descrivono la rabbia da marciapiede come quell’esperienza di emozioni rabbiose contro altri pedoni e utenti della strada. Esistono due tipi di rabbia pedonale: passiva e attiva. La rabbia da marciapiede passiva è quella manifestata dai pedoni che si comportano come se fossero ignari o non curanti dei diritti e dei bisogni legittimi degli altri pedoni nelle vicinanze. Nel tipo attivo i pedoni aggrediscono verbalmente gli altri pedoni e si comportano in modo inappropriato nella folla, fino ad aggredire gli altri, come spesso documentato dai casi di cronaca (James, Nahl, 2000). E’ stata anche creata una scala di misurazione della Rabbia da marciapiede: la Pedestrian Aggressiveness Syndrome Scale, pensata da Leon James, ricercatore presso l’Università delle Hawaii. (James, L. 2010)

Perché siamo diventati così intolleranti alla lentezza?

Facciamo un piccolo passo indietro (non me ne voglia chi soffre di rabbia da marciapiede!): abbiamo detto che questo tipo di rabbia si attiva anche lontano dagli orari lavorativi o quando non si è in ritardo.

La rabbia da marciapiede diventa dunque il chiaro esempio di come molte persone oggi non riescono più ad accettare momenti di lentezza all’interno delle loro frenetiche giornate. Cosa ci ha portato a diventare così poco pazienti nei confronti della lentezza?

Pensiamoci un attimo: oggi pretendiamo che una pagina web si carichi in meno di un secondo o scorriamo velocemente tutti quei post che superano le 4 righe. Cosa è cambiato dai tempi in cui leggevamo con un certo interesse le opinioni degli altri (pensate alla fortuna della “Posta del Cuore” delle varie riviste settimanali) e cosa avevamo di diverso quando con una certa spensieratezza imitavamo il rumore del modem 56k mentre aspettavamo di connetterci?

Come si legge dall’articolo di Chelsea Wald, gli psicologi cognitivi ci suggeriscono che c’è uno scopo evolutivo nella pazienza e nell’impazienza: esse fungono da timer interno che ci permette di capire se abbiamo aspettato a sufficienza per ottenere qualcosa (siamo dinnanzi a una caccia fallita?) e se non sia il caso di andare avanti (dovremmo cercare il cibo da altre parti?). L’impazienza è un retaggio della nostra evoluzione: ci assicura che non passiamo troppo tempo in una singola attività non gratificante, ci dà l’impulso ad agire. Eppure ciò che inizialmente era funzionale adesso diventa disfunzionale. Il ritmo veloce della nostra società ha completamente alterato quel nostro timer interno: le aspettative non possono essere gratificate abbastanza velocemente e quando le cose si muovono più lentamente del previsto, l’attesa ci crea frustrazione e rabbia sproporzionata rispetto al ritardo.

Ciò crea un circolo vizioso: la società altera i nostri timer interni che si attivano sempre più immediatamente in risposta alle cose lente, provocando uno stato maggiore di rabbia e impulsività che vanno poi a sabotare ulteriormente il nostro timer interno. Non dimentichiamo che il senso del tempo è soggettivo ed è fortemente influenzato dalle emozioni. Il tempo si allunga quando siamo spaventati o ansiosi. Ogni momento in cui siamo minacciati sembra nuovo e vivido. Questo ci porta a immagazzinare, in un breve intervallo di tempo, più ricordi del solito e i nostri cervelli sono così indotti a pensare che è passato più tempo (Hammond 2012).

Ma allora come è possibile ripristinare i nostri timer interni e ritrovare la pazienza?

Gestire rabbia e impazienza: il dono della gratitudine

Un primo modo è quello di svincolarsi dall’attesa di gratificazioni esterne: quando ci aspettiamo qualcosa che non arriva, è più facile andare incontro a vissuti di rabbia, frustrazione o tristezza.

E la forza di volontà? In realtà puntare sulla volontà non è sempre positivo: quando posticipiamo consapevolmente le gratificazioni, possiamo andare incontro ad una ulteriore fronte di stress. Anche gli esperimenti sugli scimpanzé ce lo confermano: quando i primati attendono compense ritardate, anche per loro scelta, iniziano a manifestare vocalizzazioni inopportune, si grattano eccessivamente e sbattono contro i muri. E in più, ci ricorda Chelsea Wald, usare la forza di volontà per posticipare le gratificazioni, ci rende più sensibili alle altre tentazioni che arrivano durante l’attesa.

Un utile alleato nel ristabilire il nostro timer interno è la meditazione e il diventare consapevoli del momento presente. Come suggerisce Ethan Nichtern, le persone che meditano

fanno amicizia con lo spazio scomodo – la meditazione fornisce – una tecnica per affrontare semplicemente il momento presente così com’è, senza cercare di cambiare la situazione

Tuttavia, chi è impaziente cronico, troverà difficile imparare ad essere sin da subito un bravo meditatore e dunque, consiglia DeSteno, si può combattere l’emozione con l’emozione: la gratitudine ci aiuta a diventare più pazienti. In uno studio, DeSteno ha scoperto che le persone che facevano un breve esercizio di scrittura, descrivendo qualcosa di cui erano grate, si mostravano più disposte a rinunciare a ricompense piccole ora per ottenere ricompense più grandi in seguito.

E’ un esercizio che tutti possiamo fare: mentre siamo per strada, se la persona davanti a noi rallenta e la nostra rabbia da marciapiede inizia a far capolino, proviamo a cambiare la direzione dello sguardo. Concentriamoci su qualcosa di bello che ci circonda: un fiore? un palazzo? Magari un bambino che ci saluta da un passeggino… Oppure pensiamo a qualcosa di positivo che fa parte della nostra vita, dalla fragorosa risata di una persona speciale allo scodinzolio del cane che a fine giornata ci accoglierà in casa. Di punto in bianco ci sentiremo meno bisognosi di fretta e più grati, verso la vita e verso l’altra persona che, rallentando, ci ha regalato un momento di piacevole consapevolezza.

Pianificare il proprio invecchiamento

In tempi recenti si sta diffondendo sempre più il bisogno di fornire alla comunità gli strumenti e le risorse per un’attenta pianificazione del proprio futuro, del proprio invecchiamento.

 

Grazie ad una riflessione consapevole è possibile affinare la sensibilità della popolazione rispetto agli aspetti dell’ invecchiamento attivo, gli stili di vita sani, alle risorse essenziali per invecchiare e vivere bene con un’eventuale malattia cronica.

Tutto ciò per potenziare la capacità di prendere delle scelte consciamente in modo da massimizzare la propria qualità di vita.

Invecchiamento e consapevolezza dei cambiamenti

L’ invecchiamento come esperienza personale può essere considerato un fenomeno multidimensionale. In particolare, possono essere individuate tre dimensioni: due di queste fanno riferimento agli aspetti legati al declino psico-fisico e alle perdite sociali, la terza dimensione riguarda gli aspetti di crescita ed include la percezione che l’ invecchiamento sia legato a continui guadagni e sviluppi. Recentemente, alcuni studi hanno posto l’attenzione su un aspetto fin adesso poco approfondito: la consapevolezza dei cambiamenti legati all’età (awareness of age-related change – Steverink et al., 2001).

Questo costrutto fa riferimento a tutte quelle esperienze che rendono la persona consapevole del fatto che i propri comportamenti, le proprie performance o modalità di vivere la vita, sono cambiate come conseguenza della propria crescita (aumento cronologico dell’età). Gli stati di consapevolezza sono contraddistinti da fattori interni (es. sentimento soggettivo di diminuite capacità) ed esterni (es. reazioni degli altri e condizioni socio- strutturali). La consapevolezza dei cambiamenti legati all’età rappresenta un costrutto diverso rispetto al concetto più generale di consapevolezza di sé. Con quest’ultimo si indica l’aspetto di sé su cui la persona focalizza la propria attenzione (Carver & Scheier, 1998). L’assunto di base è che la consapevolezza di sé sia fondamentale per la formazione delle intenzioni, il raggiungimento degli obiettivi, e per guidare il proprio comportamento e le proprie azioni. La consapevolezza dei cambiamenti legati all’età, invece, si riferisce ad una particolare consapevolezza di sé, che spiega che qualcosa è cambiato come conseguenza del proprio invecchiamento.

Invecchiamento: un progetto da costruire

In generale gli esseri umani hanno la capacità di rappresentarsi in maniera flessibile gli eventi futuri, di immaginare i diversi possibili esiti delle loro azioni e agire alla luce di queste rappresentazioni (Aspinwall, 2006). Nel far questo, intervengono diverse abilità di autoregolazione: cerchiamo di anticipare le circostanze future e il loro impatto su noi e chi ci sta vicino; prendiamo in considerazione queste conseguenze per poter prendere decisioni. Kahana & Kahana (1996) hanno indentificato diversi adattamenti preventivi efficaci adottati da adulti in pensione, tra cui: esercizi per prevenire la disabilità legata all’età, aiutare gli altri al fine di consolidare le risorse sociali per il futuro e la pianificazione anticipata.

E’ importante che l’ invecchiamento sia considerato un progetto da costruire, piuttosto che un percorso a tappe stabilite. La preparazione all’ invecchiamento è un aspetto molto delicato da tenere in considerazione; rappresenta una scelta che appartiene prima di tutto ai soggetti interessati, non può quindi essere imposta dall’esterno. Tuttavia è possibile promuovere e creare quelle condizioni e opportunità affinchè venga stimolata la consapevolezza dell’importanza di tale scelta (De Beni, Borella, 2015). Questo fine può esser raggiunto attraverso la diffusione delle conoscenze necessarie per riconoscere l’ invecchiamento e le sue caratteristiche, per contrastare le tendenze verso la sua negazione e gli stereotipi legati a questa fase di vita; si rivela decisiva quindi l’implementazione di percorsi di preparazione all’ invecchiamento adeguati alle esigenze. Ciò consentirà di attivare progetti di vita adeguati alle condizioni di vita, di prevenire l’isolamento e la solitudine.

Scompare davvero la paura dopo il trattamento delle fobie? La dura lotta tra i nostri ricordi

Un recente studio optogenetico sulle memorie fobiche e la loro resistenza al trattamento ha dimostrato per la prima volta che è possibile attivare e sopprimere artificialmente tracce specifiche di memoria in modo da gestire il recupero dalla paura.

 

La memoria è un costrutto complesso, sicuramente implicata in numerosi disturbi psicopatologici, tra cui anche le fobie. Le fobie sono il risultato di un apprendimento e vengono trattate con protocolli di estinzione, come esposizioni ripetute allo stimolo che evocano la paura in assenza di una vera minaccia, ma questi trattamenti non eliminano tuttavia il ricordo dello stimolo, che può ripresentarsi spontaneamente dopo un po’ di tempo. Le cause di questo fenomeno vengo attribuite al fatto che l’estinzione non elimina la paura appresa, ma creerebbe un nuovo ricordo che compete con quello fobico.

L’acquisizione di nuove memorie di estinzione dipende dalle proiezioni che dalla corteccia prefrontale raggiungono l’amigdala, ma anche dall’ippocampo, in particolare dal giro dentato, che contiene neuroni chiamati “fear engram cells”, la cui attivazione è sufficiente per l’espressione di caratteri fobici contestuali. Quest’area cerebrale è necessaria per l’estinzione della paura, ma i meccanismi che governano questo processo non sono ancora stati compresi appieno.

Estinguere le memorie fobiche? Uno studio sperimentale

Un recente studio optogenetico basato su marcatura neuronale attività-dipendente (Lacagnina, et al., 2019) ha proposto diversi esperimenti per chiarire le dinamiche sottese a questo fenomeno, rivelando che:

  1. l’estinzione sopprime la riattivazione dei neuroni relativi all’acquisizione degli engrammi fobici;
  2. il recupero di memorie fobiche e di quelle di estinzione attiva complessi cellulari distinti nel giro dentato;
  3. silenziando i neuroni che si attivano nel processo di estinzione, l’espressione delle memorie di estinzione viene compromesso;
  4. silenziando i neuroni attivi durante la codifica di engrammi fobici si riduce il recupero spontaneo dalla paura.

I neuroni attivi durante l’estinzione erano anche più attivi dopo 5 giorni da questo processo rispetto a quelli attivi durante lo stimolo fobico, ma dopo 28 giorni di recupero spontaneo il quadro veniva invertito. Questi risultati potrebbero indicare che sia la competizione fra i complessi cellulari relativi alle memorie fobiche e di estinzione nel giro dentato a determinare la soppressione o la ricomparsa della paura nel tempo.

È stato proposto che sia l’interazione fra ippocampo e amigdala a generare l’espressione della paura. È possibile che l’attività dei neuroni relativi all’estinzione interferisca con le rappresentazioni fobiche attivando il circuito di soppressione della paura nell’amigdala e nella corteccia prefrontale.

Per concludere

Per la prima volta degli scienziati sono riusciti ad attivare e sopprimere artificialmente tracce specifiche di memoria, in modo da gestire il recupero dalla paura. Ciò rileva importanti potenziali nuovi percorsi di ricerca clinica per disturbi come quelli d’ansia e da stress post traumatico, profondamente legati a questi costrutti.

Disturbi alimentari: incidenza e prognosi

I disturbi alimentari presentano un’alta morbilità, tuttavia possono essere difficili da diagnosticare. Solitamente sono caratterizzati da comportamenti alimentari disturbati che si associano alla preoccupazione del peso e della forma corporea.

 

Comunemente le persone affette dai disturbi alimentari sono giovani e molto vulnerabili, si mostrano incerti sulla loro possibile guarigione e molto spesso il loro trattamento risulta difficile.

Spesso le persone con disturbi alimentari possono “passare inosservate”, ritardando così il tempo di diagnosi e il trattamento, influenzando, di conseguenza, la prognosi a lungo termine.

Disturbi alimentari: i numeri che descrivono la patologia in UK

I costi sanitari per i disturbi alimentari riguardanti il Servizio Sanitario Nazionale del Regno Unito (NHS) sono stati stimati aggirarsi intorno ai 3,9-4,6 miliardi di sterline.

È stato calcolato che circa 1,6 milioni di persone nel Regno Unito soffrono di disturbi alimentari, tuttavia sembra che questo numero sia sottostimato poiché molte persone non chiedono e non cercano aiuto. Inoltre, le diagnosi di disturbi alimentari sono aumentate del 15% tra il 2000 e il 2009.

Uno studio pubblicato recentemente sul British Journal of Psychiatry, condotto dal gruppo di ricercatori del Royal College of Psychiatrists, ha avuto come scopo quello di indagare i disturbi alimentati riguardanti la popolazione UK in termini di incidenza, comorbilità e sopravvivenza.

Per lo studio si sono utilizzati i documenti sanitari elettronici riguardanti le cartelle dei medici di base e i ricoveri giornalieri in Galles e nel Regno Unito; i presenti documenti appartenevano alla banca dati Secure Anonymised Information Linkage (SAIL).

I ricercatori hanno indagato la frequenza delle diagnosi in comorbilità, le eventuali prescrizioni mediche e i controlli 2 anni prima e 3 anni dopo la diagnosi, infine hanno eseguito le analisi riguardanti il tasso di sopravvivenza.

Il campione era composto da 15558 soggetti (1363 maschi e 14195 femmine, tra i 10 e i 65 anni), a cui era stato diagnosticato un disturbo alimentare (anoressia nervosa, bulimia nervosa, altro disturbo alimentare) tra il 1990 e il 2017. L’incidenza ha raggiunto il picco tra il 2003 e il 2004, 24 per 100000 individui.

Cosa comporta un disturbo alimentare: comorbilità e prognosi

Le persone con disturbi alimentari mostravano alti livelli di comorbilità con un altro disturbo mentale, circa il 4.32 volte in più rispetto alla popolazione sana, e presentano tassi di morbilità e mortalità per cause esterne quasi il 2.92 volte in più rispetto alla popolazione sana.

È emerso che ai soggetti con diagnosi di disturbi alimentari venivano prescritti farmaci che agivano sul sistema nervoso centrale (circa 3.15 volte in più), farmaci gastrointestinali (circa 2.61 volte in più), farmaci dietetici (circa 2.42 volte in più) prima della diagnosi. Queste prescrizioni eccessive rimanevano tali anche dopo 3 anni dalla diagnosi. Il tasso di mortalità era più alto nei soggetti a cui era stata diagnosticata l’anoressia nervosa.

Sebbene l’incidenza dei disturbi alimentari diagnosticati sia relativamente bassa nella popolazione, è importante sottolineare che il tasso di morbilità e mortalità a lungo termine sia piuttosto rilevante.

Vaginismo: cause, caratteristiche e classificazione del disturbo

Il vaginismo è un disturbo sessuale che complessivamente interessa l’1-2% delle donne in età postpuberale, causa di dolore non solo fisico ma anche psicologico per molte donne.

Giorgio Cornacchia – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Il vaginismo si può considerare come una risposta condizionata, derivante dall’associazione tra attività sessuale e paura. E’ un problema grave per molte donne, che causa non solo dolore fisico ma anche psicologico. Secondo la dottoressa Graziottin (2005) definisce il vaginismo come

un disturbo sessuale caratterizzato da paura e angoscia della penetrazione, associate a variabile fobia del rapporto e a una contrazione muscolare riflessa, e quindi involontaria, dei muscoli che circondano la vagina.

Da questa definizione si evince chiaramente come nella genesi del disturbo generalmente non vengano considerate cause fisiche, e come siano ritenute preminenti le cause psicologiche: il dolore generalmente deriva dalla tentata penetrazione dell’orifizio vaginale che però risulta serrato. Sarebbe così la paura della penetrazione stessa a causare il vaginismo.

In letteratura si possono ritrovare diverse definizioni di questo quadro psicopatologico, ma in tutte si possono riscontrare la paura della penetrazione e la contrazione muscolare a livello vaginale, elementi che la distinguono fortemente dall’altro disturbo da dolore coitale quale è la Dispareunia. Questi due quadri sintomatologici si differenziano tra loro per un elemento centrale: la penetrazione. Nella Dispareunia, infatti, la penetrazione anche se non completa si verifica, mentre nel vaginismo questa non si ottiene mai.

Classificazione diagnostica e caratteristiche del vaginismo

Il DSM 5 (2014) inserisce il vaginismo all’interno della categoria inerente il “Disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione” (F52.6). I criteri diagnostici per questo disturbo sono:

Persistenti o ricorrenti difficoltà con uno (o più) dei seguenti problemi:

  1. Penetrazione vaginale durante il rapporto.
  2. Marcato dolore vulvo-vaginale o pelvico durante il rapporto o i tentativi di penetrazione vaginale.
  3. Marcata paura o ansia per il dolore pelvico o vulvo-vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale.
  4. Marcata tensione o contrazione dei muscoli del pavimento pelvico durante il tentativo di penetrazione vaginale.

I sintomi del Criterio A si sono protratti come minimo per circa 6 mesi.

I sintomi del Criterio A causano nell’individuo un disagio clinicamente significativo.

La disfunzione sessuale non è meglio spiegata da un disturbo mentale non sessuale o come conseguenza dì un grave disagio relazionale (per es. violenza del partner) o di altri significativi fattori stressanti e non è attribuibile agli effetti di una sostanza farmaco o di un’altra condizione medica.

Inoltre, bisogna specificare se il disturbo è permanente, riferito a quelle condizioni in cui esso si manifesta dal momento in cui l’individuo è diventato sessualmente attivo, o acquisito, caso in cui il disturbo si manifesta dopo un periodo di funzionamento sessuale relativamente normale. Altra importante specifica riguarda la gravità del disturbo, il quale è considerato lieve, moderato o grave in base al grado d’intensità e di frequenza di manifestazione dei sintomi del criterio A.

Per quanto riguarda la prevalenza, il vaginismo è un disturbo sessuale che complessivamente interessa l’1-2% delle donne in età postpuberale, anche se non sono disponibili dati epidemiologici precisi, ma ci si rifà ai dati relativi alle casistiche cliniche.

Il vaginismo si caratterizza per una contrazione del muscolo detto “elevatore dell’ano” (o pubococcigeo). L’attività di tale muscolo è sotto il controllo sia volontario che involontario, ma sono poche le donne che ne sono consapevoli. Questa sua caratteristica permette alla donna di contrarlo e rilasciarlo in vari momenti della giornata (come ad esempio durante la minzione), ed anche durante il coito: la donna può, infatti, rilassarlo per permette la penetrazione, o contrarlo ritmicamente durante la stessa per aumentare il piacere suo e del partner. Nelle vaginismiche ciò non avviene: il muscolo pubococcigeo è iperattivo, contratto eccessivamente e non risulta controllabile tramite la volontà individuale. È proprio per questo motivo che i soggetti in esame dichiarano di avere un vero e proprio “muro” a livello dell’introito vaginale, il quale non rende possibile la penetrazione.

Cause del vaginismo: fattori biologici e psichici

Alla base di questa iperattività muscolare e alla paura della penetrazione, si ritrovano cause differenti, che vanno dalla sfera biologica a quella psicologica e relazionale (Graziottin, 2005). Dati statistici affermano che ben nel 90% dei casi il vaginismo è riconducibile a fattori psicologici, come l’ansia, e che solo nel restante 10% si possano riscontrare cause biologiche.

In merito alle cause biologiche del quadro psicopatologico in esame, si è visto che per molti anni queste non sono state prese in esame con la giusta attenzione, in quanto ci si focalizzava maggiormente sulla componente psicologica. Graziottin (2004) afferma che:

l’aspetto biologico critico del vaginismo, critico perché più trascurato, è l’eccessiva attività del muscolo elevatore dell’ano.

Questa eccessiva attività può dipendere da fattori diversi: da uno stato di allarme generale in cui versa il soggetto in conseguenza a una propria fobia, da cause neurologiche riguardanti il muscolo stesso (come ad esempio nei casi di neurodistonia muscolare), o infine da dolore genitale, anale o vescicale vissuto dal soggetto sin dalla pubertà.

Oltre a questo stato di iperattività muscolare, si è riscontrato in alcune pazienti che l’impossibilità ad avere rapporti era dovuta a fattori anatomici: imene rigido e fibroso, agenesia vaginale (condizione medica nella quale la vagina non si è sviluppata completamente), possono portare all’insorgenza del vaginismo a seguito del dolore provato tutte le volte che la donna si è approcciata ad un rapporto sessuale (Leiblum & Rosen, 2004).

Per quanto riguarda le cause inerenti la sfera psichica, esse possono essere ricondotte a molteplici fattori personali, legati all’ambiente d’origine e alla coppia stessa. La letteratura illustra moltissimi casi di donne che, cresciute in ambienti e famiglie molto religiose, hanno ricevuto un’educazione rigida e ricchissima di tabù, soprattutto in ambito sessuale. Ciò, legato anche a una sopravvalutazione della verginità, ha favorito l’insorgenza del vaginismo. Molte donne vaginismiche hanno raccontato di provare grande timore nei confronti di tappe proprie della vita di ogni donna: deflorazione, gravidanza e parto suscitavano in loro paura, sfociando nella psicopatologia.

Spesso tale paura si è visto essere collegata non a esperienze dirette, personali, ma a racconti di terze persone: racconti di amiche o della madre stessa riguardo il primo rapporto, il dolore vissuto e la perdita di sangue seguita, possono condizionare l’individuo che non ha avuto ancora modo di vivere la propria sessualità, portandolo a sviluppare fobie e paure.

Il ruolo delle figure genitoriali non è riscontrabile solo nel caso di una educazione rigida, ma anche nel momento in cui questi non sono in grado di dare un’educazione adeguata in merito alla sessualità. Può capitare, infatti, che i genitori, anche per ignoranza, non siano capaci di riconoscere il momento giusto per educare la propria figlia alla sessualità: dare determinate informazioni a un soggetto non maturo, non pronto per maneggiarle, può portare confusione e paura per un mondo che ancora gli è lontano. In questi casi poi, le informazioni vengono date spesso in maniera distorta, non chiara e senza la terminologia adeguata, creando sentimenti di disagio e vergogna nel soggetto in via di sviluppo.

Rimanendo attenti al periodo della pubertà e dell’adolescenza, ci si deve soffermare anche sull’importanza delle mestruazioni e soprattutto su come queste vengono vissute dalla ragazza. Alcune vaginismiche affermano, infatti, di avere ricordi negativi in merito a ciò, di ricordare forti dolori, sentimenti di vergogna e commenti negativi. Ciò può portare a vivere negativamente quell’aspetto di sé, arrivando nei casi più gravi alla negazione della sessualità.

Ulteriori fattori legati alla sfera psichica che possono contribuire all’insorgenza del vaginismo possono essere una bassa autostima e un’ansia sociale, legata anche a episodi in cui si è stati presi ripetutamente in giro. Inoltre, in letteratura sono presenti numerosi dati che sottolineano come il vaginismo possa anche essere una diretta conseguenza di un abuso sessuale subito. Infatti, sono molte le donne con alle spalle vissuti di abuso che soffrono del disturbo in esame, anche se la violenza è stata solo tentata (Vancaille, Jarvis & O’brien-Tomko, 2012). La letteratura supporta ampiamente la teoria secondo la quale l’aver subìto un abuso sessuale possa influenzare negativamente la sessualità femminile. Le vittime di abuso sessuale infantile hanno spesso associazioni, flashback e ricordi collegati ad aspetti specifici dell’abuso e ciò si va a riflettere sia sulla risposta sessuale psicologica che fisiologica. Tutto ciò si ripercuote poi sull’intimità e sull’attività sessuale dell’individuo, le quali vengono vissute con sentimenti negativi e vengono evitate fino a giungere ai casi di disturbi della sessualità quali il vaginismo (Marendaz & Wood, 2005).

Non bisogna, infine, dimenticare la coppia: spesso, infatti, la “causa” del disturbo sessuale risiede proprio nelle dinamiche che si vengono a creare all’interno della coppia stessa. I conflitti irrisolti, ad esempio, rappresentano un elemento di rischio e predisponente il disturbo sessuale: questi, infatti, possono portare a un graduale rifiuto del partner, che aggravandosi sempre più, porta alla totale negazione della sessualità nella coppia. Oltre a questi conflitti, causati a volte anche da mancanza di dialogo, confronto e complicità, la letteratura fornisce interessanti dati i quali mostrano come il denunciato vaginismo di lei, mascheri una disfunzione di lui.

Spesso la coppia condivide una simmetrica paura rispetto alla penetrazione: lei ha paura di essere penetrata e lui ha paura inconsciamente di penetrare.

Si stima inoltre, che ben il 32% delle donne vaginismiche abbia un partner affetto da disfunzioni sessuali: disturbi del desiderio, disturbi dell’erezione, eiaculazione precoce, sono quelli che più spesso si riscontrano in queste coppie (Graziottin, 2005).

La depressione è un disturbo di natura genetica? No, secondo un nuovo studio

La depressione è un disturbo di natura genetica? No secondo gli autori dell’articolo “No Support for Historical Candidate Gene or Candidate Gene-by-Interaction Hypotheses for Major Depression Across Multiple Large Samples”, recentemente pubblicato sull’American Journal of Psychiatry.

 

Nell’ ambito della ricerca sui disturbi mentali uno degli interrogativi che più di altri sembra guidare gli studiosi nel loro lavoro è “Nature or nurture?”. La diatriba, infatti, porta spesso i ricercatori a chiedersi se l’etiologia di molti disturbi psichici si possa attribuire principalmente a fattori genetici o a influenze ambientali. Uno dei disturbi più frequentemente al centro di questo interrogativo è il disturbo depressivo maggiore.

Per la precisone, in letteratura sono stati identificati 18 geni coinvolti nello sviluppo della depressione, che hanno da sempre suggerito un forte impatto della variabile genetica nell’eziologia del disturbo.

Uno studio condotto in Colorado però getta nuova luce sulla natura della depressione: per la prima volta i ricercatori hanno utilizzato una ricchissima banca di biodati con genoma, provenienti da vasti campioni di popolazione clinica e di controllo, effettuando così una raccolta dati su oltre 620.000 individui.

Gli autori hanno condotto una serie di analisi sugli effetti dei polimorfismi dei 18 geni individuati in letteratura, sull’interazione tra polimorfismo genetico e ambiente, sugli effetti dei geni in relazione alle differenti tipologie di disturbi depressivi e sui moderatori ambientali (abuso fisico, abuso sessuale, avversità socioeconomiche, ecc).

Qual è dunque il ruolo dei geni nello sviluppo della depressione?

I risultati ottenuti non mostrerebbero alcuna significativa associazione tra polimorfismo del gene esaminato e fenotipi della depressione, né alcun effetto moderatore del polimorfismo genico sull’ambiente. I 18 geni prima ritenuti centrali nello sviluppo del disturbo depressivo, ci dicono i ricercatori, non risulterebbero associati al fenotipo depressivo più di altri geni non candidati.

Come spiegare allora anni di ricerche e studi controllati che hanno evidenziato il ruolo centrale di determinati geni nello sviluppo del disturbo depressivo? Secondo i ricercatori, in passato le analisi sono state condotte su campioni di grandezza molto limitata, i cui risultati potrebbero aver dato vita a dei falsi positivi.

Tuttavia, commentano gli autori dello studio, questo non ci deve portare ad abbandonare la ricerca sui fattori biologici e genetici coinvolti nell’eziologia dei distrubi mentali.

I risultati delle loro analisi potrebbero aiutare invece a rispostare l’attenzione al fondamentale ruolo dell’ambiente nello sviluppo dei disturbi psichici, spesso vittima di un determinismo biologico che rischia di far perdere di vista l’importanza degli aspetti psicosociali del benessere e la necessità di promuovere interventi di prevenzione di natura psicologica, relazionale e sociale.

La versione di Fenoglio (2019): il maresciallo Fenoglio e il racconto delle indagini che hanno segnato la sua vita – Recensione dell’ultimo libro di Gianrico Carofiglio

Gianrico Carofiglio in La versione di Fenoglio offre una affascinante lettura su come comprendere gli scopi e la condotta degli esseri umani che, per chi svolge il lavoro di terapeuta, apre ad una più ampia riflessione sul ragionamento clinico, la formulazione del caso e la relazione terapeutica.

 

Dopo aver letto l’ultimo romanzo breve di Gianrico CarofiglioLa versione di Fenoglio, mi ero messo di buona lena a ricopiarne lunghi brani per farne slides per le mie lezioni sul ragionamento clinico, la formulazione del caso e la relazione terapeutica. Poi, un po’ per il timore di finire in gattabuia per violazione del diritto d’autore e soprattutto per pigrizia, ho pensato fosse più pratico farne una recensione in modo da sollecitarne la gradevolissima lettura a chi già fa o vuole fare il lavoro di psicoterapeuta, o più in generale capire il funzionamento degli altri esseri umani con cui ha a che fare, quale che sia il sistema motivazionale che guidi l’interazione (che si tratti di curare, guerreggiare, cooperare o sedurre).

La versione di Fenoglio?

Lo spunto narrativo è dato dall’incontro in un centro di fisioterapia tra un giovane intelligente e ansioso di comprendere il senso della vita ed un maresciallo dei carabinieri vicino alla pensione e dunque giunto nel tempo dei bilanci esistenziali. Al di là del confronto sulla filosofia e il senso della vita, che io ho apprezzato particolarmente essendo simile al mio o a quello che mi auspicherei di avere e che dunque è del tutto irrilevante per i lettori di questa recensione (insomma come si dice da noi “chissenefrega” negli ambienti bene e in forma persino più concisa nel linguaggio comune “e sti….”), ciò che rende affascinante la lettura per un terapeuta è la narrazione di come comprendere gli scopi e la condotta degli esseri umani che il maresciallo Fenoglio (alias Carofiglio) consegna al giovane attraverso il racconto di alcune indagini che hanno segnato la sua vita.

Carofiglio, che ricordo essere stato magistrato prima di diventare senatore della repubblica, aveva già mostrato in precedenti libri di cui consiglio vivamente la lettura (Le perfezioni provvisorie, Ragionevoli dubbi, La regola dell’equilibrio) notevole passione e dimestichezza con i temi cari all’epistemologia moderna ed in particolare popperiana.

Il maresciallo Fenoglio nel descrivere le tecniche di indagine mette in guardia contro i più frequenti errori che consistono sostanzialmente nei bias confermazionisti descritti meticolosamente nei loro meccanismi intrapsichici e per ciascuno di essi suggerisce tecniche concrete per non esserne vittime ripercorrendo, meno in teoria e più in pratica, i temi che Kahneman tratta nel suo ultimo bellissimo libro (Pensieri lenti e veloci, ed. Mondadori, Milano 2011).

Nonostante il rapporto tra inquisitore e inquisito, ma anche quello con i testimoni, appaia in prima battuta diverso se non opposto a quello della relazione terapeutica, più collaborativo il maresciallo illustra tutte le tecniche atte a decentrarsi, a mettersi nei panni dell’altro per entrare nel suo modo di ragionare e creare dunque una empatia profonda perché come scriveva De Andrè “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo” o, per mostrarsi più colti, come già diceva Publio Terenzio Afro “homo sum, humani nihil a me alieno puto” ovvero “nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.

Più di quanto non faccia normalmente io, rispetto alle diagnosi categoriali il maresciallo mette in guardia sull’assunzione di schemi preconcetti su come normalmente funzionano le cose che se sembrano darci maggiore prevedibilità ci rendono ciechi alle novità. Il libro La versione di Fenoglio suggerisce come mantenere sempre la mente libera e aperta a nuove ipotesi e come procedere non cercando conferme facili da trovare ma andando a caccia delle scomode ma illuminanti falsificazioni.

La versione di Fenoglio è denso di spunti su come comprendere il modo di ragionare dell’altro decentrandosi da se stessi, dai propri pregiudizi e dagli schemi consolidati e lo si divora in un paio d’ore se non si viene troppo distratti dai pensieri intrusivi circa le bischerate che ci si rende conto leggendo di aver fatto con molti pazienti. Ma questo stesso rendersene conto è nettare prezioso: la prossima volta sbaglieremo in maniera diversa.

Ascolto della musica e regolazione dell’umore

Numerose ricerche hanno evidenziato come l’ascolto della musica sia promotore del benessere generale nella persona, con riduzione dello stress e aumento del rilassamento (Schafer et al., 2013; Lundqvist et al., 2009).

 

A tal proposito, un recente studio ha voluto testare se l’ascolto della musica agisse sulla regolazione dell’umore in individui che erano stati sottoposti ad una situazione sperimentale stressante.

Ascoltare la musica preferita prima di un compito stressante: lo studio

Il campione (N=80) ha compilato un questionario contenente domande demografiche e di preferenze in termini di genere musicale qualora si fosse trovato in una situazione stressante ed a contatto sociale. In seguito, gli è stato somministrato un questionario a scala Likert che misurava il livello di accordo sulle concezioni inerenti alle funzioni benefiche della musica. Gli sperimentatori hanno valutato gli stati d’animo dei partecipanti usando le scale analogiche visive, prima e dopo averli sottoposti alla condizione sperimentale stressante. Quest’ultima è stata indotta con il Trier Social Stress Task, un compito che induce stress in maniera sperimentale, invitando i partecipanti a preparare un discorso su se stessi da fare in pubblico, seguito da un compito di aritmetica mentale.

Dopo il compito di Trier Social Stress, viene data una pausa di 10 minuti, prima dell’esposizione del discorso, durante la quale in maniera random ad alcuni soggetti viene fatta ascoltare la musica indicata nel sondaggio iniziale (gruppo sperimentale) e ad altri viene fatto ascoltare un documentario radiofonico (controllo). In seguito alla procedura di ascolto, per la terza volta viene risomministrata la scala analogica visiva per la valutazione degli stati d’animo, in particolare per valutare i potenziali effetti benefici che l’ascolto della musica potesse aver avuto sulla regolazione dell’umore. Al termine della procedura viene detto ai partecipanti che non ci sarà alcuna esibizione in pubblico.

Gli effetti della nostra musica preferita su umore e stress

Da questa procedura sperimentale è emerso che nel momento in cui viene chiesto al campione di esibirsi in pubblico (Trier Social Stress Task), i livelli di affettività negativa (stress, nervosismo, depressione, tristezza) aumentano per tutti. In seguito, agli individui a cui viene fatto ascoltare il brano musicale prescelto nel sondaggio iniziale, i livelli di affettività negativa diminuivano rispetto ai soggetti a cui viene fatto ascoltare il documentario radiofonico.

Dunque, questo studio suggerisce un possibile effetto benefico dell’ascolto musicale sulla regolazione dell’umore. Tuttavia, non possiamo esimerci dall’evidenziare come questi risultati non possono essere generalizzati. Difatti, i brani musicali che sono stati ascoltati dai partecipanti venivano scelti sulla base delle iniziali preferenze indicate dai soggetti. Pertanto, sarebbe interessante riproporre il medesimo studio in condizioni sperimentali diverse, come ad esempio, proporre l’ascolto di un brano musicale scelto dallo sperimentatore per valutare se i benefici che la musica ha sulla regolazione emotiva dei soggetti sono riconducibili alla preferenza musicale o se sono deputabili alla musica in generale.

Gestire le dinamiche di classe e promuovere le abilità relazionali: un progetto di formazione per insegnanti

Gli insegnanti sono la pietra angolare del sistema educativo. Insegnanti efficaci e motivati ​​garantiscono il raggiungimento degli obiettivi educativi con successo. Può capitare che facciano molto sforzo per fronteggiare più richieste contemporaneamente, e ciò può portarli a sentirsi stanchi, frustrati e stressati.

 

Da un’indagine effettuata nel 2018 dal GDL Nazionale di Psicologia Scolastica, che ha coinvolto 440 docenti su tutto il territorio nazionale, è emerso che una delle maggiori difficoltà con cui gli insegnanti si confrontano nel lavoro quotidiano è la gestione delle classi difficili, segnalato dal 60,5% del campione.

Gestire la classe: competenze richieste e difficoltà nascoste

Alla luce di questi dati, alcuni professionisti del gruppo “Prospettiva Evolutiva” che si occupa di tematiche e problematiche inerenti l’età evolutiva all’interno dell’Associazione Cognitivismo Clinico di San Benedetto del Tronto hanno svolto un percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo.

Il progetto è nato dalla consapevolezza che studenti con alti livelli di comportamenti aggressivi, iperattività e problemi della condotta creano un importante problema di gestione nel contesto scolastico ed interferiscono con lo sviluppo dell’apprendimento loro e dei compagni. Numerose ricerche, infatti, hanno mostrato come alti livelli di aggressività influiscono significativamente sull’acquisizione di apprendimenti (Genta et al., 1996, Kupersmidt et al, 2000).

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Gestione della classe e abilita relazionali un progetto formativo per docenti 1Imm 1 – Immagine dal percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo

 

Gestione della classe e abilita relazionali un progetto formativo per docenti 2Imm 2 – Immagine dal percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo

 

Applicare programmi di prevenzione del disagio emotivo relazionale e la promozione di abilità relazionali guida i ragazzi a riconoscere e modulare le proprie reazioni emotive intense, come la rabbia, attraverso situazioni scolastiche strutturate.

In letteratura l’intelligenza emotiva, come costrutto multidimensionale (Bar-On, 1997), viene presentata come predittore (Saklofske et al., 2003; Isaacowitz, 2005) del benessere e del successo individuale/lavorativo (Ciarrochi et al., 2002) e sembra essere correlata all’autoefficacia, alla capacità di adattamento e all’essere positivi (Eisenberg et al., 2000; Chan, 2004; Isaacowitz, 2005).

Alcune ricerche, in ambito educativo, hanno tentato di approfondire lo studio della relazione tra intelligenza emotiva e autoefficacia. I primi studi si focalizzarono sugli allievi e sul ruolo che le competenze emotive potevano avere sul successo scolastico, sulla performance, sull’apprendimento e sullo sviluppo delle abilità sociali (Parker et al., 2004). I risultati di questi studi evidenziarono l’importanza del ruolo dell’insegnante nel favorire lo sviluppo di tali competenze che l’attenzione dei ricercatori si riorientò alla dimensione relazionale dell’apprendimento e all’importanza della mente emotiva.

Da questo punto di vista, si sottolinea come un processo di insegnamento, per risultare efficace ed efficiente, richieda una capacità di introspezione, di controllo e regolazione degli stati emotivi propri e altrui, una comunicazione con il proprio mondo interno e l’abilità di interagire in modo adeguato non solo con i propri allievi, ma anche con le loro famiglie e con i propri colleghi.

Al fine di aiutare gli studenti a raggiungere il loro pieno potenziale, è importante capire come gli insegnanti diventano più efficaci nel trattare con le richieste e le sfide quotidiane associate alla professione di insegnante, non solo per proteggere gli insegnanti dal burnout, ma anche come un modo per promuovere il loro impegno, apprendimento e padronanza.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Gestione della classe e abilita relazionali un progetto formativo per docenti 3Imm 3 – Immagine dal percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo

 

Gestione della classe e abilita relazionali un progetto formativo per docenti 4Imm 4 – Immagine dal percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo

Supportare gli insegnanti: il progetto per l’Istituto Ugo Betti a Fermo

Alla luce di queste premesse teoriche, tra il mese di febbraio e il mese di aprile 2019 gli insegnanti hanno partecipato al corso di formazione proposto dai Professionisti di “Prospettiva Evolutiva” interno all’Associazione Cognitivismo Clinico di San Benedetto del Tronto, strutturato come percorso di prevenzione primaria, volto a fornire utili informazioni derivate dalla terapia cognitivo – comportamentale che hanno permesso di migliorare la comprensione degli insegnanti su comportamenti problematici messi in atto degli alunni. Gli incontri sono stati organizzati in sessioni parallele per ordine di scuola, in modo da calibrare sulle esigenze degli insegnanti i materiali e le strategie suggerite e in modo da favorire dialogo e condivisione nel piccolo gruppo.

Chiave comune a tutti gli incontri è stata non solo la possibilità di acquisire nuove modalità e strategie di gestione della classe, ma soprattutto l’accompagnamento verso una maggiore consapevolezza e comprensione delle personali difficoltà emotive che il corpo docente può incontrare nello svolgimento quotidiano del proprio lavoro.

Gli obiettivi dell’intervento sono stati:

  • fornire adeguate competenze nella conduzione dei rapporti interpersonali e di gruppo mediante l’insegnamento di strategie comportamentali, relazionali, cognitive ed immaginative volte a promuovere e migliorare negli alunni un atteggiamento positivo verso le relazioni e l’apprendimento;
  • riconoscere e adottare strategie di coping più funzionali per gestire in modo efficace i conflitti e/o situazioni stressanti;
  • identificare e monitorare le proprie emozioni incrementando il livello di autoconsapevolezza per una migliore gestione dei propri eventi di vita scolastica.

All’inizio e alla fine dell’intervento il gruppo docenti ha compilato una batteria di test, con l’obiettivo di monitorare eventuali cambiamenti sulle tematiche oggetto di intervento: livelli di frustrazione esperiti, strategie di coping utilizzate, senso di autoefficacia scolastica.

Gestione della classe e abilità relazionali: riflessioni di fine percorso

In attesa delle analisi dei dati definitive relative agli strumenti somministrati, è possibile riflettere su quanto emerso nel percorso. La formazione ha permesso agli insegnanti di imparare a spostare l’attenzione sul riconoscimento precoce delle problematiche e le modalità per affrontarle, sulla gestione proattiva della classe, l’insegnamento interattivo, l’apprendimento cooperativo, l’uso del problem solving e la comunicazione efficace. Conoscere e approfondire la conoscenza delle strategie di gestione della classe, ha permesso agli insegnanti di sentirsi più preparati ad affrontare eventuali problematiche, questo è stato possibile anche da una disponibilità degli stessi a mettere in pratica le strategie apprese durante il periodo formativo, così da sperimentare e condividere con il gruppo difficoltà di applicazione e potenzialità, per individuare la modalità migliore dell’applicazione delle diverse strategie.

Esercizi di decentramento e di riflessione sui propri stati emotivi in una situazione critica hanno consentito di riflettere sulle conseguenze di emozioni negative quali rabbia, frustrazione e delusione, di essere più consapevoli dei propri vissuti emotivi e di poter migliorare la relazione con gli studenti e con i colleghi.

Il compito dei professionisti, empatizzando col vissuto di difficoltà e talvolta di impotenza che si trovano a vivere gli insegnanti di fronte ad una situazione complessa e talvolta radicata nel tempo, è stato quello di creare un clima di apertura e collaborazione, permettendo in gruppo reciprocità, scambio attivo e confronto, un luogo emotivo in cui non si sono sentiti giudicati ma supportati.

Sfidare la sinestesia! È possibile ricreare esperienze sinestetiche in soggetti non sinesteti?

E se la sinestesia fosse un normale processo di integrazione sensoriale? Alcuni ricercatori sono riusciti a sviluppare un paradigma in grado di generare esperienze sinestetiche in soggetti non sinesteti.

 

Il fenomeno per il quale la stimolazione di una determinata via sensoriale conduce ad un’automatica esperienza cognitiva attraverso una seconda via è detto sinestesia, e storicamente viene connesso ad una connettività cerebrale anomala. Gli individui che riportano queste esperienze lungo il corso della vita, senza utilizzo di sostanze psicotrope, vengono definiti sinesteti.

Le modalità sensoriali sono un repertorio innato, non siamo in grado di “apprendere” nuovi sensi. Il nostro sistema percettivo è invece soggetto a maturazione. Le sensazioni provenienti da una determinata modalità possono essere associate a quelle delle altre, in modo che gli stimoli possano essere integrati o selezionati in base alle richieste ambientali. Ad esempio, la modulazione visiva audio-indotta può aumentare l’eccitabilità della corteccia visiva, comportando migliore individuazione e discriminazione degli stimoli. Ciò può però condurre a fenomeni dispercettivi, come quando, guardando qualcuno parlare attraverso un microfono, colleghiamo la provenienza del suono amplificato alla bocca dell’oratore, invece che agli altoparlanti.

La sinestesia è o non è un fenomeno stra-ordinario?

Una recente ricerca (Nair & Brang, 2019) ha sfidato la concezione corrente di sinestesia, elaborando un semplice paradigma in grado di generare fenomeni sinestetici in non sinesteti. In tre esperimenti i ricercatori hanno dimostrato come, dopo alcuni minuti di deprivazione sensoriale, un breve compito di imagery è sufficiente ad evocare sensazioni visive associate a stimoli sonori quasi nel 60% dei soggetti.

I risultati supportano una visione della sinestesia nell’ambito di una regolazione contingente multimodale, che permette ad una modalità sensoriale di esercitare maggiore controllo modulatorio sull’altra, senza bisogno di cambiamenti connettivi anatomici. In questo caso, la dispercezione sarebbe sottesa da un aumento di guadagno del sistema acustico su quello visivo, derivante dalla deprivazione sensoriale, che può abbassare la competizione fra le informazioni provenienti da questi due sistemi.

Questa nuova concezione della sinestesia come normale processo di integrazione sensoriale potrebbe offrire importanti spunti di approfondimento su quella fetta di popolazione clinica affetta da fenomeni allucinatori, e più in generale, sulle potenzialità del nostro sistema percettivo.

Il manipolatore affettivo e le sue maschere (2014) di Cinzia Mammoliti – Recensione del libro

Attraverso le storie di Ilenia, Giorgia, Annamaria, Mariagrazia, Fabiana, Valeria, Lorena, Francesca e Raffaella, l’autrice de Il manipolatore affettivo e le sue maschere, con un linguaggio semplice, fornisce al lettore una guida su come riconoscere i “Serial killers dell’anima” e puntualizza che ognuno di noi indossa delle maschere in base alle situazioni che si devono gestire.

 

 Cinzia Mammoliti, autrice de Il manipolatore affettivo e le sue maschere, è laureata in Giurisprudenza con specializzazione in criminologia e in psicologia forense ed ha acquisito comprovata esperienza nel settore della violenza fisica e psicologica.

Infatti, da anni si occupa di donne e minori vittime di violenza e dopo diversi anni di esperienza in questo ambito ha deciso di scrivere dei libri per sensibilizzare la società.

Il manipolatore affettivo e le sue maschere: una raccolta di storie

Attraverso le storie di Ilenia, Giorgia, Annamaria, Mariagrazia, Fabiana, Valeria, Lorena, Francesca e Raffaella; l’autrice, con un linguaggio semplice, fornisce al lettore una guida su come riconoscere i “Serial killers dell’anima” e puntualizza che ognuno di noi indossa delle maschere in base alle situazioni che si devono gestire. Le maschere possono essere funzionali, in quanto ci possono proteggere da situazioni che possono arrecarci malessere.

Tuttavia, quando vengono usate con lo scopo di ledere un’altra persona diventano nocive.

Pertanto, riconoscere chi le utilizza in modo disfunzionale può aiutare nella prevenzione di situazioni spiacevoli e frustranti per chi subisce manipolazioni affettive.

In ogni storia viene analizzato dettagliatamente un profilo specifico del manipolatore affettivo, arricchito con riferimenti bibliografici e filmografia di riferimento, per aiutare il lettore a comprendere meglio ed anche per fornire spunti per ulteriori approfondimenti sul tema.

Il manipolatore affettivo: le sue caratteristiche

Un altro aspetto che emerge ne Il manipolatore affettivo e le sue maschere è la presenza di un confronto tra le interazioni di tipo sano e quelle che hanno come scopo la manipolazione e l’abuso, con l’intento di aiutare il lettore a saper distinguere le due tipologie di interazione.

L’autrice, alla fine di ogni capitolo, dedica una sessione alla schematizzazione delle principali caratteristiche associate ad ogni tipologia di manipolatore, per far sì che il lettore comprenda ed assimili i tratti distintivi.

Oltre agli aspetti e agli atteggiamenti riconducibili ad un serial killer dell’anima, nell’ultima parte del libro Il manipolatore affettivo e le sue maschere, una sessione viene dedicata ai sentimenti, alle emozioni e agli interrogativi che sopraggiungono alla fine di una relazione tossica. Vengono, inoltre, annoverate delle strategie per allontanare e/o allontanarsi dai carnefici e i principali sintomi (emotivi, cognitivi e comportamentali) che potrebbe manifestare chi vive una relazione con un serial killer dell’anima.

 

Una prospettiva evo-devo (Evolutionary Developemental Biology) mette in relazione l’orgasmo femminile e la selezione delle capacità prosociali nel partner

Perché l’ orgasmo femminile è così complesso? Qual è il suo significato da un punto di vista evolutivo? E come mai si è tramandato nel corso degli anni e dell’evoluzione della specie proprio con queste caratteristiche?

 

Secondo la Biologia Evolutiva dello Sviluppo, anche detta approccio evo-devo, la selezione naturale si configura come una selezione operata a posteriori su delle mutazioni casuali che emergono nell’evoluzione di una specie. In altre parole, meccanismi atti a promuovere una maggiore biodiversità operano nel far emergere delle anomalie genetiche, che solo in un secondo luogo, contribuendo alla fitness dell’individuo nel proprio ambiente e quindi della sua possibilità di sopravvivere e riprodursi, acquisiscono garanzia di una trasmissione del nuovo carattere alla generazione successiva.

Non sempre però è facile risalire alle origini della catena dei mutamenti che ha accompagnato l’evoluzione di una particolare caratteristica, spesso troppo lontane nel tempo per poter determinare con certezza cosa abbia favorito tale cambiamento, così come anche il modo in cui ciò sia avvenuto: è questo il caso dell’ orgasmo femminile nella specie umana, che rimane ad oggi un aspetto della sessualità che stupisce per la sua complessità, per le implicazioni e quesiti che solleva.

Il mistero dell’ orgasmo femminile

Una peculiarità dell’ orgasmo femminile è infatti quella di essere funzionalmente slegato dai fini riproduttivi, contrariamente a quanto invece avvenga per l’uomo, la cui eiaculazione è indispensabile per tale scopo. Se prendiamo in considerazione la posizione del glande del clitoride nella donna umana, largamente coinvolto nella stimolazione richiesta per il raggiungimento dell’ orgasmo, notiamo che esso è situato ad una distanza che può arrivare fino a quattro centimetri dall’orifizio vaginale, una posizione non ottimale per venire coinvolto durante il coito.

Se da una parte la struttura della vagina sembra quindi essersi evoluta per accogliere il pene, massimizzando con la propria anatomia il piacere che il partner ne riceve, dall’altra riscontriamo che essa risulta poco intuitiva da “navigare” per un nuovo partner e decisamente meno facile da soddisfare, specialmente affidandosi alla sola penetrazione vaginale, che riporta una percentuale di successo nell’indurre l’ orgasmo femminile estremamente basso (solo il 26% delle donne ha riportato di raggiungerlo in questo modo). Tra l’altro l’eiaculazione decreta generalmente la fine del coito a causa del periodo refrattario che si riscontra nell’uomo, contrariamente alla donna il cui numero massimo di orgasmi rimane ad oggi virtualmente sconosciuto.

Rimane quindi poco chiaro perché la capacità di provare piacere si sia evoluta in maniera così differente nell’uomo e nella donna e, soprattutto, cosa abbia permesso a questa esperienza cruciale per la sessualità umana di perdurare nell’evolversi della nostra specie, nonostante ci sfugga ad un primo sguardo la sua reale funzione.

Tutte queste considerazioni hanno portato alcuni ricercatori a proporre che non si possa attribuire all’ orgasmo femminile una qualche funzione adattiva o riproduttiva (Zietsch & Santtila, 2013), laddove con questo intendiamo un comportamento che facilita direttamente la sopravvivenza della specie. Tuttavia, il fatto che tale fenomeno persista nella nostra specie al giorno d’oggi, supporta l’idea che esso possa aver assunto una funzione secondaria che favorisca il legame nella coppia (Eibl Eibesfeldt, 1989; Morris, 1967), la risposta endocrina (Huynh, et al., 2013; Motta-Mena & Puts, 2016), il movimento dello sperma verso l’ovulo (Levin, 2011).

In tal senso, la struttura stessa dei genitali femminili nella specie umana, con un clitoride piccolo e separato dall’apertura vaginale, ha contribuito a rendere unica l’esperienza dell’ orgasmo della donna: diversamente da altre specie, il cui glande del clitoride si trova internamente o in prossimità della vagina, nella razza umana esso si presenta distanziato, forse per accogliere il bipedalismo (Gräslund, 2004; Wolfe, 1991) o il parto (Pavelca, 1995); tale caratteristica avrebbe dato la possibilità all’ orgasmo femminile di assumere nel corso dell’evoluzione della specie, una funzione che va ben oltre la piacevolezza dell’atto sessuale.

Una nuova ipotesi: il ruolo dell’empatia prosociale

E’ stata avanzata una nuova ipotesi circa la possibilità che l’ orgasmo femminile, proprio in virtù della peculiare conformazione del clitoride femminile e dell’estrema varianza individuale nel raggiungere il climax, possa essere servito come mezzo di selezione di quei pretendenti che esibissero spiccati comportamenti altruistici ed empatici, col fine di favorire la propria compagna nel perseguimento del proprio piacere. Tali capacità avrebbero inoltre rivelato una più generale propensione all’empatia prosociale, dote fondamentale nella società cooperativa che si andava formando agli albori della nostra specie (Kennedy & Pavličev, 2018).

Con empatia prosociale si intende una capacità di lettura della mente dell’Altro, chiamata talvolta intersoggettività, o Teoria della Mente, e consiste nella possibilità di attribuire agli altri degli stati mentali (credenze, intenzioni, desideri, emozioni, etc) e comprendere che questi siano diversi dai propri.

La scoperta dei neuroni specchio (Di Pellegrino, Fadiga, Fogassi, Gallese & Rizzolatti, 1992), sembrò essere una spiegazione promettente su come fosse possibile avere una rappresentazione in tempo reale della mente altrui, tali neuroni infatti si attivano sia quando un individuo compie un azione che, simpateticamente, quando osserva qualcun altro compierla: in tal modo, l’esperienza osservata viene mentalmente simulata restituendo “l’effetto che fa” essere in quella situazione, e permettendo di comprendere la mente dell’Altro.

Nella propria concettualizzazione dell’intersoggettività de Waal (2010) sottolinea l’importanza del “Body-mapping” (mappaggio corporeo) come la capacità di provare sul proprio corpo ciò che un altro soggetto sta provando, caratteristica tra l’altro condivisa con altre specie non-umane, come delfini, elefanti, primati. Tale capacità è basata su di una corrispondenza dell’esperienza somatica vissuta dai soggetti e quella del soggetto osservato, tuttavia tale coincidenza viene a mancare nell’incontro eterosessuale, laddove le differenze anatomiche e di vissuto richiederanno che l’uomo impari a mettere in atto specifici comportamenti orientati ad elicitare il piacere della propria compagna.

Contrariamente a quanto sostenuto da Waal, Hrdy sostiene che l’empatia prosociale nell’essere umano sia emersa dalla necessità di accudimento e di protezione della prole, particolarmente gravosa e prolungata nel tempo rispetto al resto del regno animale, e quindi unica della specie umana (Hrdy, 2011). La necessità di vicariare supporto da membri esterni alla diade genitoriale, altrimenti dette cure alloparentali, avrebbe richiesto che altri individui rispondessero empaticamente ai bisogni dei piccoli, seppure non propri, che i piccoli comprendessero gli stati mentali di adulti che non fossero i propri genitori, e ancora a selezionare individui meritevoli di fiducia per delegare l’accudimento del piccolo.

Riassumendo..

Nella cornice dell’asimmetria sessuale presente tra i due sessi nella specie umana, è verosimile presupporre che la femmina avrebbe quindi privilegiato quel compagno che avesse mostrato interesse per la sua l’esperienza, “leggendo” i segnali lanciati dal suo corpo e ricercandone attivamente l’appagamento anche a costo di ritardare il proprio soddisfacimento.

Sul lungo termine la scelta dell’individuo che incarna tali caratteristiche, avrebbe comportato la formazione di un legame di coppia più solido (Young and Wang, 2004), maggiori possibilità di concepimento e, grazie alle cure empatiche dei genitori, una maggiore possibilità di sopravvivenza per la prole.

Dagli O.P.G. alle R.E.M.S.: il difficile superamento

Dal 31 marzo 2015 sono ufficialmente chiusi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) ed è tuttora in corso un lento passaggio a delle strutture alternative denominate R.E.M.S. (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Tale cambiamento è stato pensato per umanizzare lo sconto della pena nelle persone già “condannate” da un disturbo psichiatrico.. 

Francesca Pettenello, Ilaria Bagnulo, Marco Tanini

 

Il difficile inquadramento del paziente psichiatrico autore di reato è un argomento molto discusso negli ultimi anni ed ha alle spalle una lunga storia sia dal punto di vista giuridico/legislativo che di accettazione sociale.

Il problema di fondo sul quale tanto si discute è capire cosa prevale nella gestione di un folle-reo: la pena o la cura? E chi deve stabilirlo?

Nella società italiana c’è un forte senso di insicurezza che non sempre trova riscontro a livello statistico, ma che viene alimentato da ansia, paura e senso di smarrimento. Tale carica ansiogena, a volte, porta a delle reazioni sproporzionate da parte dei cittadini con conseguenze reali di notevole rilevanza e impatto sociale.

R.E.M.S. e stigma sociale: la situazione in Italia

L’attuale situazione italiana richiama ciò che il grande storico francese Jacques Le Goff (1997) scrive a proposito del medioevo nel quale – egli afferma – la sicurezza era un’autentica ossessione urbana (Amendola G. 2008)

L’ignoto e l’imprevedibile, viene percepito come non controllabile e non manipolabile. Questo sentimento il cittadino lo prova per l’altro in generale tra cui rientra anche il malato di mente.

Dal 31 marzo 2015 sono ufficialmente chiusi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) ed è tuttora in corso un lento passaggio a delle strutture alternative denominate R.E.M.S. (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) che vede una collaborazione tra il Ministero di Giustizia e il Ministero della Salute. Tale cambiamento è stato pensato per umanizzare lo sconto della pena nelle persone già “condannate” da un disturbo psichiatrico e per evitare il cosiddetto “ergastolo bianco” ovvero un internamento senza fine.

Lo scoglio più grosso da affrontare resta la visione che la società ha di queste persone; lo stigma è ancora molto presente, accresciuto anche da una paura mediatica che viene costantemente proposta ed ampliata. C’è un forte desiderio che il reo venga neutralizzato piuttosto che rieducato, riabilitato o risocializzato.

Bisogna cominciare a ragionare in termini di pericolosità sociale, imputabilità e misure di sicurezza (sistema del doppio binario del codice penale) per poter fronteggiare il timore popolare cercando, nello stesso tempo, di tutelare l’autore di reato con problemi psichiatrici; in altre parole è necessario tutelare quel diritto alla salute che il paziente psichiatrico ha perduto o che risulta gravemente compromesso dalla patologia mentale e non mettere primo piano la difesa sociale (Fornari U. 2018).

Dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari alle R.E.M.S.: l’evoluzione normativa

Nel 1975, con il nuovo Ordinamento Penitenziario (legge n. 354/1975), viene rinominato il manicomio giudiziario in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.). Si cambia la visione dell’internato che passa da persona che deve essere prevalentemente punita, a malato che deve essere principalmente curato; da qui anche la scelta del nome “ospedale”. Questo comporta un trattamento differente rivolto maggiormente alla rieducazione usufruendo di percorsi finalizzati al reinserimento sociale ovvero alle misure alternative alla detenzione.

Ci sono altre novità: è prevista la possibilità di godere del regime di semilibertà al fine di poter partecipare alle attività propedeutiche al rientro nella comunità (licenza esperimento, attuabile nei sei mesi prima della scadenza della misura di sicurezza in O.P.G.); viene introdotta la figura, oltre che del medico di medicina generale, anche di uno specialista in psichiatria ed infine viene inserito il magistrato di sorveglianza che ha il compito di far attuare la legge penitenziaria.

Il 1978 è l’anno della grande riforma: la legge 180 “Norme per gli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” (cosiddetta legge Basaglia) che successivamente confluirà nella legge n. 833/1978 di riforma del Sistema Sanitario Nazionale.

La svolta epocale si ha nel 2003 con la sentenza della Corte costituzionale n. 253 dove il ricovero in Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) viene visto come obbligo di legge e non come percorso terapeutico e personalizzato per il singolo autore di reato affetto da patologia psichiatrica. Questa rigidità istituzionale, secondo l’opinione della Corte, non è giustificata né dal punto di vista normativo (crea disparità tra i soggetti appartenenti alla stessa categoria giuridica degli infermi di mente), né scientifico (prevedendo solo l’internamento in O.P.G. si sottintende una maggiore pericolosità degli autori di reato affetti da vizio totale di mente rispetto ai seminfermi e ai minori non imputabili), né etico (non tutela la salute degli internati come previsto a livello costituzionale dall’art. 32). Viene valorizzata la libertà vigilata che può essere applicata sia in una clinica dedicata che in comunità terapeutica oppure, se possibile, anche in famiglia e nel proprio domicilio.

Con il decreto legislativo 22 giugno 1999 viene riformata la medicina penitenziaria affidando alle singole Aziende Sanitarie Locali e quindi alle Regioni la sanità penitenziaria.

Deve arrivare il 1° aprile 2008 perché la Presidenza del Consiglio dei Ministri con il decreto “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria” riconosca gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari come parte integrante della medicina penitenziaria (vedi allegato C del decreto “Linee di indirizzo per gli interventi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e nelle Case di cura e di custodia” e successivamente rivisto dall’art. 3 ter della legge n. 9/2012 conosciuta come “legge svuota-carceri”) e di conseguenza dia l’incarico alle Regioni di prevedere percorsi riabilitativi per i pazienti dimissibili dal regime carcerario. Restano ancora dei problemi che a tutt’oggi risultano irrisolti e riguardano la territorialità, la doppia direzione e come gestire le eventuali dimissioni o proroghe.

La legge 30 maggio 2014 n. 81 converte, con modificazioni, il decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, recante “disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, ma mantiene la volontà di non modificare il sistema del doppio binario, la sanitarizzazione delle misure di sicurezza e l’idea che le strutture che accolgono i pazienti siano di tipo sanitario.

Ufficialmente si arriva alla chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari il 31 marzo 2015, un anno dopo la data inizialmente prevista e ancora con diverse strutture in fase di adeguamento.

Cosa sono e come funzionano le R.E.M.S.

La peculiarità di queste nuove strutture, le R.E.M.S., è l’attenzione primaria alla malattia psichiatrica piuttosto che al reato e alla pena. Molti dubbi e criticità sono ancora presenti nell’organizzazione di tali realtà anche perché non ci sono degli standard nazionali ai quali riferirsi e nemmeno un monitoraggio del loro andamento. Il personale spesso non ha una formazione mirata che richiederebbe la particolare tipologia di paziente. Vi è infatti la necessità di una presa in carico completa tenente conto anche dell’aspetto giudiziario il quale comporta delle ristrettezze e delle attenzioni tecniche da avere.

Un notevole problema è l’insufficiente numero di posti previsti rispetto alle richieste sebbene la permanenza debba essere transitoria e senza alternative. E’ dunque necessario stabilire una gerarchia d’ingresso (Legge delega 23 giugno 2017 n. 103).

La gestione interna è di esclusiva competenza sanitaria mentre la parte perimetrale è affidata al servizio di vigilanza e sicurezza organizzato dalle singole Regioni in accordo con le Prefetture. Deve esserci uno spazio verde esterno dedicato agli ospiti che risponda a determinati requisiti di sicurezza. Ogni modulo dell’area abitativa prevede massimo 20 posti letto. L’equipe presente è multidisciplinare con presenza nelle 24 ore. La dirigenza è medica e l’organizzazione del lavoro si fonda sui principi del governance clinico – assistenziale.

La legge n. 81/2014, in maniera piuttosto imprecisa e contraddittoria, prevede che dette strutture esplichino funzioni terapeutico riabilitative e socio riabilitative a favore di persone affette da disturbi mentali, autrici di reato e che la magistratura ha stabilito essere socialmente pericolose, dietro parere espresso da un perito psichiatra (Fornari 2018).

Lo stesso autore suggerisce degli indicatori interni (qualità soggettive) caratteristici del paziente che necessita della permanenza in R.E.M.S. ovvero: la presenza o persistenza di disturbi psicotici o depressivi maggiori, disturbi di personalità gravi, disturbi del neurosviluppo o neurocognitivi maggiori con scompenso sul piano funzionale ed in eventuale comorbidità con altri disturbi mentali o uso di sostanze stupefacenti; scarsa adherence; mancata o inadeguata compliance; assenza di terapie specifiche; esplosioni di rabbia incontrollata con comportamenti auto e/o etero lesionistici. Meno rilevanti, ma da valutare ugualmente, sono la scarsa o assente insight, la presenza di disorganizzazione cognitiva e una storia psichiatrica significativa.

Ci sono dei casi nei quali il provvedimento diventa urgente e prevede una elevata necessità di cura e controllo ovvero: un’escalation psicopatologica altrimenti difficilmente trattabile; un elevato grado di comorbidità con disturbi di personalità, uso di sostanze e resistenza al trattamento; un’inesistente o errata protezione clinica del paziente; una collocazione giudiziaria o logistica inadeguata rispetto alla gravità della patologia del quale è portatore; un progetto di cura e riabilitazione non concretizzabile o non realistico e la possibilità concreta che il soggetto passi all’atto distruttivo non gestibile altrimenti.

Nel momento in cui i disturbi vanno attenuandosi e il quadro psicopatologico e comportamentale si stabilizza, si possono adottare misure più soft sfruttando le risorse esterne accertate preventivamente dall’U.E.P.E. (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero di Giustizia. Questi indicatori sono: le caratteristiche dell’ambiente familiare e sociale; la possibilità di una continuità assistenziale territoriale; un eventuale (re)inserimento lavorativo o l’attivazione di percorsi alternativi; il grado di accettazione del rientro in società e le opportunità alternative abitative e lavorative. Spesso queste persone sono svantaggiate dal punto di vista socio ambientale e la nomina di un amministratore di sostegno sarebbe utile per poterle affiancare nel reinserimento nella quotidianità e nella società che tendenzialmente è ostile nell’accettare la presenza di soggetti difficili in particolare se folli-rei.

Nel corso del percorso clinico giudiziario il giudice deve svolgere la funzione di garante e supervisore e deve fare in modo che le esigenze di controllo e sicurezza restino ben distinte da quelle di cura e protezione.

Ogni decisione di proroga, modifica o revoca del provvedimento in atto deve essere presa dal giudice di sorveglianza in accordo con gli operatori della R.E.M.S. e del Dipartimento di Salute Mentale di appartenenza, prevedendo delle revisioni periodiche sia del progetto che della condizione mentale del soggetto.

Il malato di mente non più pericoloso socialmente non è soggetto alla misura di sicurezza psichiatrica e di conseguenza diventa esterno al circuito giudiziario con auspicio che venga preso in carico a livello territoriale dai servizi psichiatrici.

I criteri da valutare per poter dichiarare la positiva remissione clinica e la cessata pericolosità sociale psichiatrica sono: buon compenso psicopatologico; buona aderenza terapeutica da parte del paziente; ottenimento di una buona capacità di controllo e di regolazione emotiva; disponibilità territoriale nel seguirlo; prospettiva di reinserimento sociale sia dal punto di vista relazionale che di assegnazione a strutture residenziali; una vita interpersonale soddisfacente compatibilmente con le skills residue; la ripresa del lavoro o la ricerca di un impiego possibilmente di utilità pubblica come previsto per legge e buone prospettive di rientro nel proprio contesto di vita.

Fondamentale per perseguire questi obiettivi è un lavoro d’insieme anche con l’ U.E.P.E. e il magistrato di sorveglianza avendo attenzione di lavorare sulle capacità minime e personali di recupero.

R.E.M.S e persone psichiatriche ree: le prospettive in Italia

I soggetti con problemi di salute mentale e autori di reato sono molto complessi da gestire e coinvolgono molteplici professionisti i quali devono coordinarsi tra loro per seguire al meglio ogni singolo caso nonostante non sia sempre facile o possibile.

Negli anni sono stati condotti molteplici studi e avanzate diverse teorie per capire cosa porta un soggetto a delinquere e a risultare deviante nei confronti della società aumentando lo stigma da sempre esistente nei confronti di persone considerate anormali e dunque inferiori oltre che socialmente pericolose.

Un atto, una credenza o un tratto di una persona sono socialmente devianti non perché sono rari, non comuni, inusuali, ma perché violano una norma (sociale) e sono disapprovati e condannati dalla maggior parte delle persone (Barbagli M. 2003).

E’ fondamentale creare i presupposti per conciliare la psichiatria con il sistema penale e per fornire alla persona un’assistenza più produttiva rivolta al reinserimento sia sociale che familiare e lavorativo.

Il vero superamento da un’ottica primitiva prettamente punitiva del reo ad una considerazione dello stesso come soggetto da assistere e riabilitare tramite la pena è un percorso piuttosto lungo e difficile. Non lo abbiamo ancora raggiunto e c’è ancora molta strada da fare.

L’interesse a trovare un filo conduttore multidisciplinare esiste e si alimenta tramite la formazione continua, gli aggiornamenti, i congressi che favoriscano confronti multiprofessionali volti a trovare un accordo su come sia più corretto affrontare un soggetto malato mentalmente e autore di reato tenendo sempre in considerazione anche la tutela sociale.

Un aspetto da coltivare è il coinvolgimento della popolazione stessa incrementandone la cultura con la speranza di una diminuzione dello stigma e con conseguente accettazione di un sistema carcerario più leggero per una determinata tipologia di criminale.

Permane il dubbio se interessi maggiormente la sorte dell’imputato o la gravità del reato commesso secondariamente ad una patologia psichiatrica.

Tutte le società organizzano il proprio funzionamento intorno a sistemi di norme sociali, ossia regole di condotta che stabiliscono la “tollerabilità” e “desiderabilità” dei comportamenti dei loro membri (Colombo G. 2008).

Il rischio principale delle R.E.M.S. è che nel loro interno si riformi un microsistema di tipo carcerario gestito però da personale socio – sanitario. Questo può portare a confusione e ad una gestione poco adeguata.

Non sarà semplice trovare il modo più corretto e unitario di presa in carico del paziente psichiatrico-reo, ma è auspicabile che qualsiasi sia la presa di posizione diventi più curativa che punitiva, mirata alla sua risocializzazione piuttosto che all’isolamento e all’esclusione.

 

Il presente elaborato è una sintesi della tesi di Master in Medicina Forense Elform e Learning della dott.ssa Francesca Pettenello.

Abraham Harold Maslow, la motivazione e la piramide dei bisogni – Introduzione alla Psicologia

Abraham Harold Maslow è stato uno psicologo statunitense nato il 1° aprile del 1908, a New York City. Maslow era il primogenito di una coppia di ebrei immigrati negli Stati Uniti dalla Russia che vissero per diversi anni a Brooklyn.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Egli trascorse una infanzia difficile a causa di suo padre, un uomo che faceva uso abituale di alcol e dai comportamenti aggressivi e sua madre, una persona psicologicamente instabile, tanto che Maslow stesso la definì “schizofrenica”.

Abraham Maslow: vita e percorso accademico

Maslow, però, contò sull’appoggio dello zio, fratello della madre, che si prese cura di lui.

I genitori di Abraham Maslow, tuttavia, vollero concedere un futuro migliore ai figli e per questo lo spinsero molto a completare gli studi universitari in legge, prima al City College di New York e poi presso la Brooklyn Law School. Il padre avrebbe voluto che diventasse un bravo avvocato. Maslow, invece, pensava che se fosse diventato avvocato avrebbe dovuto avere a che fare con persone malvagie e di conseguenza decise che non sarebbe stata una strada da portare avanti.

Per questo si trasferì a Cornell, ottenendo una borsa di studio presso la Facoltà di Agraria e pensò di frequentare anche dei corsi di discipline umanistiche. In questo ateneo, però, non fu accolto positivamente essendo ebreo, e per questo iniziò a nutrire rabbia e risentimento e presto decise di tornare a New York e frequentare nuovamente il City College.

Proprio in questi anni iniziò ad appassionarsi alla filosofia e alla psicologia comportamentista e dopo il matrimonio, finalmente riuscì a trasferirsi all’università del Wisconsin, dove poté liberamente studiare psicologia. L’esperienza all’Università del Wisconsin non fu positiva, poiché sia i docenti sia gli allievi erano proiettati solo ed esclusivamente alla carriera, piuttosto che alla risoluzione di problematiche sociali.

Abraham Maslow grazie a una borsa di studio della Columbia University riuscì a realizzare degli studi in cui mise in evidenza la relazione esistente fra sesso e potere. Inoltre, andò da Adler a New York per studiare con lui e da quel momento iniziò un lungo sodalizio, che si interruppe nel momento in cui Maslow divenne scientificamente più forte. Nel 1938, Abraham Maslow intraprese ricerche antropologiche ad Alberta, con gli indiani dai Piedi Neri del Nord, scoprendo le varie differenze esistenti con la cultura occidentale.

Maslow per diversi anni lavorò al Brooklyn College dove diede un grosso contributo allo studio della motivazione e alla psicologia umanistica, della quale è considerato il padre.

Maslow trascorse gli ultimi anni di vita insegnando in California, dove morì nel 1970, stroncato da un arresto cardiaco.

Abraham Maslow e la teoria dei bisogni

Gli studi di Abraham Maslow si sono focalizzati principalmente sul tema della motivazione. Egli elaborò una classificazione gerarchica della motivazione: si parte dai bisogni primari e fisiologici, come cibo, acqua, impulso sessuale, ecc., per poi giungere a quelli superiori ovvero stima, sicurezza, affetto, amore.

Maslow, dunque, ideò la piramide dei bisogni all’interno della quale sono posizionati in ordine gerarchico i diversi bisogni. Si parte dai bisogni primari per giungere al bisogno della realizzazione di sé, passando per i vari stadi che consentono la progressione solo una volta soddisfatti. Nello specifico, secondo Abraham Maslow, solo dopo aver appagato i bisogni elementari l’individuo riesce ad esprimere esigenze di livello superiore. Di seguito, saranno definiti  diversi bisogni.

I bisogni fisiologici

Maslow sostiene che ogni bisogno fisiologico e il comportamento messo in atto per realizzarli, funge da sostegno a ogni altro tipo di bisogno. Da ciò si deduce che i bisogni fisiologici non sono del tutto isolabili. Quindi, i bisogni fisiologici sono i più evidenti e per questo i primi a essere soddisfatti e al cospetto dei quali tutti gli altri bisogni perdono di significato.

Quando i bisogni fisiologici saranno soddisfatti nasceranno altri bisogni sempre di natura più elevata. Abraham Maslow ritiene dunque che la gratificazione sia altrettanto importante della privazione perché libera l’organismo dal dominio di un bisogno relativamente più fisiologico e permette l’emergenza di altri più sociali. I bisogni fisiologici cessano di esistere solo dopo essere stati soddisfatti. Un bisogno soddisfatto perde la motivazione, che invece presentano i bisogni insoddisfatti di grado più elevato che erano stati silenti quando i bisogni più bassi erano presenti.

I bisogni di sicurezza

Subito dopo i bisogni fisiologici, si trovano i bisogni di sicurezza, come la stabilità, la protezione, la libertà dalla paura, etc. Questi bisogni organizzano il comportamento, mettendo al loro servizio tutte le capacità dell’organismo volto al raggiungimento della sicurezza.

Il bisogno di appartenenza

Quando i bisogni fisiologici e quelli di sicurezza sono soddisfatti emergono i bisogni di appartenenza, di affetto e di amore. Abraham Maslow sostiene che a questo stadio della piramide la persona sentirà acutamente l’assenza di amici, di un’amante, di una moglie o dei figli e di conseguenza desidera relazioni di affetto. Maslow sostiene che il bisogno di appartenenza abbia contribuito in modo determinante al rapido aumento dei gruppi terapeutici e delle comunità volontarie. La frustrazione dei bisogni di appartenenza e di affetto nella moderna società è responsabile di molti casi di disadattamento e di forme patologiche ancora più gravi.

Il bisogno di stima

Una volta soddisfatti i bisogni fisiologici, quelli di sicurezza e quelli di appartenenza, spontaneamente, tende a manifestarsi l’esigenza di essere stimati dagli altri ma anche da se stessi. Si tratta di due aspetti dello stesso bisogno, uno rivolto all’esterno e l’altro all’interno. Nel primo aspetto si evidenzia il desiderio di avere una buona stima sociale; nel secondo caso, invece, si attua una valutazione delle proprie capacità personali che consentono di affrontare adeguatamente il quotidiano.

Maslow sottolinea l’importanza della soddisfazione del bisogno di autostima e delle conseguenze positive che ne conseguono: sentimenti di auto-fiducia, di valore, di forza, di capacità e di adeguatezza. Al contrario, la frustrazione di queste esigenze produce un sentimento di inferiorità, di debolezza e di abbandono

Il bisogno di autorealizzazione

Soddisfatti i bisogni precedenti, nasce quello di autorealizzazione.  Grazie alla soddisfazione di questo bisogno è possibile ottenere un senso di appagamento vedendo esplicitare al meglio il proprio potenziale e le proprie capacità. Se così non fosse, si potrebbero manifestare degli stati di grave sofferenza psichica.

Il bisogno di conoscenza e dei bisogni estetici

Maslow a questo punto introduce il bisogno di conoscenza e dei bisogni estetici. Si tratta dei bisogni più alti che saranno i primi ad essere sacrificati ma che per la loro intrinseca natura rappresentano le caratteristiche salienti dell’essere umano e che lo contraddistinguono da altre specie. Per questo se realizzati riescono a sublimare l’uomo e rendono realizzabile la soddisfazione dei bisogni più complessi.

Maslow ed il costrutto di Motivazione

Abraham Maslow, inoltre, sostiene che non tutti i comportamenti sono motivati dai bisogni fondamentali. Infatti, ci sono dei comportamenti motivati da stimoli esterni o puramente espressivi. In sostanza, esistono diversi gradi di motivazione, per questo si possono avere comportamenti molto motivati e altri meno. In ogni caso, la motivazione è il motore che muove ogni essere vivente alla soddisfazione di un dato bisogno e da cui riesce a trarre gratificazione personale.

Maslow afferma che dopo una lunga gratificazione i bisogni fondamentali più alti possono divenire indipendenti dai loro prerequisiti e dalla propria stessa gratificazione. Questo vuol dire che alcuni aspetti della persona sono divenuti autonomi, cioè indipendenti dalle stesse gratificazioni che li hanno prodotti.

La motivazione, dunque, può essere definita come l’insieme dei fattori alla base del comportamento che inducono una persona ad agire per il raggiungimento di uno scopo. La motivazione dipende dalle competenze, cosa si è in grado di fare e dai valori personali, ovvero ciò che si vuole fare.

L’impulso motivazionale si ha ogni volta che l’individuo avverte un bisogno, che rappresenta la percezione di uno squilibrio tra la situazione attuale e una situazione desiderata. Il bisogno è quindi uno stato di insoddisfazione che spinge l’uomo a procurarsi i mezzi necessari per riuscire a realizzarlo o sublimarlo.

La teoria di Maslow è stata a volte criticata perché considerata riduzionista, in quanto accusata di non tenere conto delle tensioni più profonde che motivano le persone a fare quello che fanno (Geller, 1982; Neher, 1991;Wahba & Bridwell, 1976).

Negli articoli pubblicati postumi è possibile evincere come Abraham Maslow abbia poi proposto di abbandonare il tradizionale concetto edonistico di felicità, ridefinendola come l’esperienza di emozioni vere relative a problemi e compiti reali, e che la nevrosi fosse un blocco nella crescita personale (Hoffman, 1996). A questo punto, Maslow propone di sviluppare una nuova psicologia basata sull’1% più sano della popolazione adulta, riconoscendo comunque l’importanza del comportamentismo e della psicoanalisi. Maslow, dunque, credeva che le persone più sane avessero la capacità di esprimere un senso di eterno, di sacro, di spirituale di verità, di giustizia e bellezza, fondamentali alla sua salute. Secondo Abraham Maslow, una buona società non si misura dallo sviluppo tecnologico o economico, ma dalla qualità delle persone che produce.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Instagram, autostima e percezione corporea – Riccione, 2019

Chi trascorre maggior tempo su Instagram avrebbe un’ autostima più bassa e una percezione negativa del proprio corpo

 

Instagram è una forma relativamente nuova di comunicazione, nata nell’ottobre del 2010, in cui gli utenti possono condividere facilmente i loro aggiornamenti scattando foto e perfezionandole con dei filtri.

Preemesse

Negli ultimi anni, e soprattutto fra le nuove generazioni, si è osservato lo sviluppo di Instagram come social media di elezione per presentarsi al mondo e gestire le proprie relazioni online, usando un canale comunicativo molto semplice (Lee, Lee, Moon & Sung, 2015). Oltre alla creazione della pagina di presentazione personale dell’utente, Instagram consente di condividere foto e video istantaneamente su più piattaforme (Hu, Manikonda & Kambhampati, 2014). Instagram permette, a chi lo utilizza, di aggiungere didascalie e hashtag, utilizzando il simbolo “#” per descrivere immagini e video, di commentare le foto e di esprimere i like (“mi piace”) ed è possibile taggare (contrassegnare) gli altri utenti utilizzando il simbolo “@” .

È utile sottolineare che la rete di Instagram è asimmetrica, ovvero se A segue B, non è necessario che B segua a sua volta A. Il social network permette di decidere se il proprio profilo personale possa essere pubblico o privato; nel primo caso i video e le foto sono visibili a chiunque, mentre nel secondo unicamente ai followers.

Gli utenti Instagram in Italia sono 16 milioni nel 2018, questo numero rappresenta il 27% dell’intera popolazione nazionale (“Digitalic”, 2018). La piattaforma, ha raggiunto 813 milioni di utenti a livello mondiale alla fine di marzo 2018, con un aumento di oltre il 35% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Instagram ha anche una base di utenti più giovane rispetto ad altre piattaforme social, con l’età media degli utenti tra 27 e 28 (Digital, 2018).

Con la continua crescita della proprietà di smartphone e tablet, il progresso delle nuove tecnologie e il sostanziale miglioramento delle applicazioni, la dipendenza dai social media continuerà a essere una delle principali preoccupazioni (Hawi & Samaha, 2016).

L’identità fisica e psichica si forma attraverso i rapporti interpersonali (Tantleff-Dunn & Lindner, 2011) che, al giorno d’oggi, si sviluppa sempre più spesso attraverso l’utilizzo dei social network. Dalla recente letteratura scientifica è emerso che le persone con bassa autostima tendono ad utilizzare maggiormente i social media (Błachnio et al., 2016; Hawi & Samaha, 2016; Andreassen et al., 2017) e che i feedback ricevuti possono determinare un aumento di autostima (Valkenburg, Peter & Schouten, 2006; Andreassen et al., 2017). Inoltre, è stato rilevato come l’utilizzo di Instagram, nello specifico, sia collegato alle preoccupazioni relative all’immagine corporea e al controllo del peso (Wesseldyk, 2017).

Gli studi riportano come, indipendentemente dalla cultura e dal genere, esista una relazione negativa tra dipendenza da social media e autostima e una relazione negativa mediata tra dipendenza da social media e soddisfazione con la vita. Coloro che utilizzano i social media con l’intenzione di migliorare la propria immagine di sé sono a rischio non solo di abbassare la propria autostima, ma anche la loro soddisfazione per la vita (Hawi & Samaha, 2016).

Autostima

L’ autostima può essere definita come un sentimento globale di apprezzamento verso se stessi o come un senso di adeguatezza, oppure come quell’insieme di sentimenti generalizzati di auto-accettazione e rispetto di sé (Crocker & Major, 1989). Essa rimane abbastanza costante nel tempo ed è relativamente immune al cambiamento (Campbell, 1990). Sono tre gli elementi fondamentali che caratterizzano l’ autostima: il primo aspetto è la presenza negli individui della capacità di auto-osservarsi e quindi di conoscere se stessi; il secondo è quello valutativo che permette di esprimere un giudizio e, il terzo, è l’aspetto affettivo, che permette di valutare gli elementi descrittivi.

Blachnio, Przepiorka & Rudnicka (2016) hanno evidenziato che le persone con bassa autostima tendono ad utilizzare maggiormente i social media per migliorare la propria immagine e autostima. I feedback (like e commenti) ricevuti dagli amici on-line possono infatti far aumentare o diminuire l’ autostima e il benessere psicologico in generale (Valkenburg, Peter & Schouten, 2006). Andreassen et al. (2017) sostengono le medesime ipotesi, suggerendo che le persone usino i social media per ottenere una maggiore autostima e/o per sfuggire ai sentimenti di bassa autostima.

Si può ipotizzare inoltre che individui con una scarsa stima di sé possano preferire comunicare on-line anziché faccia a faccia, e che utilizzino dunque i social media come modalità di socializzazione “sicura” (McKenna& Bargh, 1998).

Percezione corporea

La percezione corporea si crea in base alle relazioni con gli altri e alla valutazione sociale interiorizzata (Tantleff-Dunn & Lindner, 2011). Nella formazione dell’identità fisica e psichica è molto importante il rapporto con l’altro, e al giorno d’oggi tale rapporto viene a crearsi sempre più spesso all’interno dei social network.

In assenza di contatto con il volto e lo sguardo altrui, l‘immagine mentale corporea non ha la possibilità di formarsi integralmente (Ferrari, 2007). Infatti, in Internet il corpo non c’è, l’altro non c’è, ma al tempo stesso ci sono i corrispettivi immaginativi del corpo e dell’altro, loro sostituti figurativi (avatar), loro riproduzioni o ricordi (fotografie), loro rappresentanti simbolici (Bilocati, 2010).

Lo studio

Lo scopo principale della ricerca di Arlanch, Consolini, Nicolussi-Leck e Santoni (2019) è stato individuare come Instagram e la percezione corporea siano legati all’autostima.

I soggetti che hanno risposto allo studio sono stati 344, tra i 18 e i 57 anni. Le risposte sono state raccolte con un questionario online tramite lo strumento Moduli di Google. Oltre ad alcune informazioni su variabili socio-demografiche, sono state formulate ai partecipanti delle domande in merito all’utilizzo del social network Instagram. In aggiunta è stata somministrata una batteria di test, composta da tre questionari: il Sociocultural Attitudes Towards Appearance Questionnaire – 4 (SATAQ-4; Schaefer et al., 2015), il Body Uneasiness Test (BUT; Cuzzolaro, Vetrone, Marano & Batacchi, 1999) parte 1, ed il Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES; Rosenberg, 1965).

Dalla ricerca è emerso che la maggior parte dei partecipanti si connette ad Instagram da 5 a 10 volte al giorno, trascorrendo dai 10 ai 30 minuti al giorno on-line; l’83% dei partecipanti utilizza il social network soprattutto per divertimento, il 70% condivide da 0 a 2 foto o stories a settimana e il 41% privilegia immagini di paesaggi.

La maggior parte del campione è soddisfatta del numero di like ricevuti, tuttavia è interessante notare come il 68% ritenga che Instagram non possa influenzare la propria autostima, non presupponendo una connessione tra autostima e numero di like ricevuti.

Inoltre, sono state riscontrate differenze fra maschi e femmine per quanto riguarda la percezione corporea e l’uso di Instagram. Viceversa non è emersa una differenza significativa fra questi due gruppi riguardo la propria autostima. Le donne hanno mostrato di aderire a ideali di appartenenza come magrezza e grasso corporeo maggiormente degli uomini, che invece hanno aderito maggiormente a ideali di appartenenza come muscolosità e atleticità rispetto alle donne.

Inoltre, dai dati è emerso che i partecipanti che hanno una percezione negativa del proprio corpo (con preoccupazione eccessiva per il proprio aspetto fisico, fobia dell’aumento del peso, condotte di evitamento e controlli compulsivi della propria immagine) tendono ad avere un’autostima più bassa. Così anche i partecipanti che hanno sentito maggiormente le  pressioni ideali imposte dalla società (ovvero da parte dei pari, dei media e della famiglia) e hanno interiorizzato ideali di appartenenza riguardanti la magrezza, il grasso corporeo, la muscolosità e l’atleticità.

Nello specifico è emerso che i partecipanti che hanno trascorso maggior tempo al giorno su Instagram e hanno condiviso un maggior numero di foto o stories a settimana, hanno un’ autostima più bassa.

Tra i partecipanti è emersa inoltre una correlazione tra le credenze in merito all’influenza di Instagram e di like ricevuti e l’ autostima: infatti chi ha ritenuto maggiormente che Instagram influenzi la propria autostima tende ad avere un’ autostima più bassa.

La fobia dell’aumento del peso ha avuto la maggiore influenza diretta sull’ autostima, seguita da controlli compulsivi della propria immagine corporea, dalle condotte di evitamento, dalla preoccupazione eccessiva per il proprio aspetto fisico e dalla depersonalizzazione.

Conclusioni dello studio

Osservare e riflettere circa la relazione tra uso di Instagram, percezione corporea e autostima può essere un punto di partenza per comprendere il vissuto di chi utilizza il social network, anche con la speranza di poter prevenire una diminuzione dell’autostima nella popolazione generale, con conseguente miglioramento per la qualità di vita e benessere. Le possibili prospettive future potrebbero essere ulteriori ricerche, che prendano in considerazione l’utilizzo di altri social network attualmente in voga come ad esempio Tik tok, Snapchat o altri. Anche indagare la relazione esistente tra l’utilizzo di Instagram e il proprio senso di autoefficacia potrebbe essere oggetto di ulteriori approfondimenti. In particolare, essere consapevoli che chi passa maggior tempo al giorno su Instagram, tende ad avere un’autostima più bassa, potrebbe essere utile: all’interno di programmi specifici di prevenzione della dipendenza da internet e social network, si potrebbe tentare di aumentare una percezione positiva del proprio corpo tra i partecipanti, aumentare l’autostima e aiutare ad utilizzare il social network Instagram con più consapevolezza.

 

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