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Patologie del sistema nervoso centrale e depressione: il suicidio del cantante Ian Curtis e la correlazione con l’epilessia

Ian Kevin Curtis è stato un cantautore britannico, nato nel 1956 e fondatore del famoso gruppo musicale Joy Division; nel dicembre 1978, Curtis inizia a soffrire di un disturbo denominato epilessia tonico-clonica, il cosidetto “grande male”..

Rachele Recanatini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

 Ian Kevin Curtis è stato un cantautore britannico, nato nel 1956 e fondatore del famoso gruppo musicale Joy Division. L’influenza della band “Joy Division” nella cultura musicale giovanile degli anni ottanta e novanta è considerata enorme; Ian Curtis è definito ancora oggi un vero e proprio personaggio di culto.

Nel dicembre 1978, Curtis inizia a soffrire di un disturbo denominato epilessia tonico-clonica, il cosidetto “grande male”; la categoria fotosensibile, nello specifico, è una particolare forma di epilessia in cui le convulsioni sono provocate da stimoli visivi, come ad esempio le luci lampeggianti.

Curtis e l’epilessia: la diagnosi arriva a 22 anni

L’esordio tardivo della patologia – il personaggio aveva già ventidue anni – viene imputato ad una combinazione di fattori biologici e stressanti: il cantante era all’apice del successo musicale; la sua carriera è al culmine della fama quando il fantasma della disabilità gli rimanda incessantemente un’immagine di sé come uomo fragile ed inerme, diverso dal passato e con un futuro incerto. Nel periodo in cui il grande male e le crisi d’assenza diventano frequenti, da rendere ingestibile una normale vita quitidiana, viene prescritto a Curtis il fenobarbital (“Gardenale”), un farmaco antiepilettico, insieme ad un’altra serie di medicinali.

Le crisi proseguono incessanti; così come nel suo caso infatti, circa il 30% delle persone affette da epilessia continua a manifestare crisi convulsive – seppur diminuite – nonostante la terapia farmacologica (Duncan et al., 2006); per tale motivo l’ epilessia, anche se costantemente stabilizzata e controllata, è ancora oggi considerata una disabilità cronica per cui non esiste una cura definitiva.

La patologia diviene negli anni un disagio insostenibile per Curtis, una condizione intollerabile. In questo periodo il cantautore manifesta i primi sintomi di un grave disturbo depressivo, mai formalmente diagnosticato. Assume terapia farmacologica in maniera disregolata, viene ricoverato in due occasioni per averne abusato: il 7 aprile 1980 tenta per la prima volta il suicidio assumendo elevate dosi di fenobarbital. Curtis viene definito dalle persone a lui vicine come instabile, ritirato, chiuso. Le oscillazioni umorali si alterano tra periodi di crisi ipomaniacali e cadute depressive. La moglie ricorda come Curtis inizi ad essere spaventato dagli effetti della propria patologia: teme di morire nel sonno, di dover smettere di guidare, di come possa essere giudicato dai fans.

Le crisi epilettiche stanno cominciando a spaventarmi […] A volte temo di uscire di notte per paura di avere una crisi in un locale o in un cinema. Divento più nervoso quando suoniamo per paura che accada […] Continuo a pensare che un giorno le cose diventeranno così intense che non sarò più in grado di andare avanti.

Curtis: la combinazione di fattori che l’ha spinto al gesto estremo

Il 18 maggio 1980 Ian Curtis decede, all’età di soli ventitre anni, impiccato ad una rastrelliera nella cucina della propria abitazione. Secondo l’opinione dei suoi cari, la causa del gesto suicidario è legata all’utilizzo del farmaco antiepilettico: i dannosi effetti collaterali del fenobarbital sono scientificamente documentati (Middles et al., 2006). Alcuni farmaci utilizzati nel trattamento dell’epilessia, infatti, possono causare instabilità emotiva, agitazione, irritabilità, crisi di pianto, irrequietezza ed iperattività. Il “Gardenale”, in particolare – anche se non è il solo – contiene un principio attivo particolarmente legato a tale sintomatologia. I comportamenti patologici e gravemente altalentanti del cantautore potrebbero quindi essere state sia accentuazioni di un temperamento di base, vulnerabile, slatentizzato dalla sostanza farmacologica, sia manifestazioni di problematiche preesistenti, successivamente attribuite al farmaco. L’antiepilettico, nel caso in esame, ha presumibilmente peggiorato una preesistente sintomatologia depressiva (Church, 2006). I tratti della personalità che caratterizzavano Ian Curtis si definivano già come disforici, con tendenze all’autodistruzione, sbalzi d’umore, idee di morte e grandiosità; la somministrazione farmacologica può averli patologicamente rafforzati e scompensati. Stress, insonnia, stile di vita disregolato, consumo di alcol e marijuana hanno contribuito ad accentuare le crisi emotive del cantante.

Nel 2007 il film Control ne narra realisticamente l’autobiografia, una pellicola tratta dal libro redatto dalla vedova di Curtis. Il titolo del film fa riferimento a quella che viene definita la sua ossessione: il controllo. Un tentativo spesso vano di comprendere, razionalizzare, limitare le manifestazioni sintomatologiche che lo pervadono e contro cui si percepisce inerme. Le crisi epilettiche riferite agli ultimi anni di vita sono sempre più frequenti; alcuni dei concerti vengono bruscamente interrotti a causa della sintomatologia invalidante. Nell’ultimo periodo della sua breve esistenza il cantautore sembra aver incorporato attivamente le proprie esperienze di malattia nei suoi testi (Tuft et al., 2015): i brani diventano gradualmente più cupi, macabri, oscuri. Il modo di muoversi di Curtis sul palco durante le ultime esibizioni riproduce, come in una parodia, le crisi epilettiche, i movimenti involontari che avrebbe compiuto durante una convulsione. La patologia provoca in lui gesti sincopati, ricordati dai fans come “epilepsy dance”, spesso difficilmente distinguibili dai movimenti frenetici e ritmati della musica che suona. A partire dal 1979 Curtis, riproducendo i suoi attacchi epliettici sul palco, diventa un personaggio teatrale, utilizza la sua esperienza di disabilità – esperita nel privato – per costruirsi un ruolo bizzarro, di una particolare rockstar, unica nel suo genere. Nonostante alcuni fans non fossero a conoscenza della sua patologia, infatti, lo definivano “spastico” o “disabile” durante le performance.

La sofferenza nell’ultimo album del cantante dei Joy Division

Gli ultimi mesi di vita si caratterizzano da sentimenti insofferenza, irritabilità, frustrazione e senso di colpa. I medici gli sconsigliano di proseguire la carriera musicale, lui rifiuta. Il gesto anticonservativo è preceduto da testi musicali caratterizzati da angoscia ed ossessioni. I brani riflettono la componente tragica della disabilità, descrivono emozioni collocabili all’interno dell’esperienza dell’ epilessia, riflettendo sensazioni di isolamento, trauma e stigmatizzazione (Delin et al., 1997). “Closer” esce circa due mesi dopo, è un disco desolato, definito come il suo testamento: racconta di un ragazzo alla ricerca di una normalità impossibile da raggiungere. Evoca sentimenti di colpa, tristezza, disperazione e vuoto. Alcuni autori ipotizzano come la carriera del cantante sia stata secondaria rispetto al clamore seguente alla sua epilessia, depressione e successivo gesto suicidario (Waltz et al., 2009). Curtis non ha indirizzato i suoi testi esplicitamente alla comunità dei disabili, né ha annunciato pubblicamente la sua epilessia, né ha celebrato le persone con disabilità, ma la sua musica colpisce profondamente persone affette da epilessia, che si rispecchiano nei suoi brani. Le canzoni evocano un sentimento depressivo e cupo, uno stato d’animo comune e comprensibile per gli ascoltatori che possono identificarsi empaticamente nella sua sofferenza fisica e psicologica.

Epilessia: caratteristiche e tipi della malattia

L’ epilessia è una nota patologia del Sistema Nervoso Centrale, è un disturbo neurologico in cui l’attività delle cellule nervose cerebrali si interrompe causando convulsioni. Le crisi epilettiche possono essere classificate in convulsioni focali e convulsioni generalizzate, a seconda che la scarica delle cellule nervose si verifichi in una specifica regione della corteccia cerebrale o nell’intera area del cervello. Le crisi generalizzate, a loro volta, si differenziano in: crisi di assenza, in passato note come “piccolo male”, caratterizzate da una rapida e breve perdita di coscienza, più tipiche dell’infanzia e dell’adolescenza; convulsioni toniche, che provocano un irrigidimento muscolare, soprattutto lungo la schiena e negli arti superiori ed inferiori; convulsioni atone, a cui segue una perdita del controllo muscolare con cadute improvvise; convulsioni cloniche, associate a movimenti muscolari ripetuti e ritmici, che coinvolgono collo, viso e braccia; crisi miocloniche, con improvvisi e brevi sussulti di braccia e gambe; crisi tonico-cloniche, prima conosciute come “grande male”, che rappresentano la tipologia più grave: durano dai 5 ai 10 minuti, sono caratterizzate da una fase di contrazione intensa che coinvolge tutto il corpo, una fase composta da convulsioni ed un fase di risoluzione finale, riconoscibile da respirazione rumorosa e possibile perdita del controllo degli sfinteri. È la tipologia che ha colpito il cantante Ian Curtis.

Le persone che ne sono affette non conservano ricordi delle crisi. Le convulsioni parziali, invece, si dividono in crisi semplici, ovvero senza una perdita della coscienza, e crisi complesse, con perdita della consapevolezza. La prima tipologia può essere suddivisa in: crisi semplici, limitate ad una specifica area del corpo; sensitive, che causano formicolio; sensoriali, con allucinazioni, alterazione del gusto, dell’olfatto, del tatto e dell’udito. Le convulsioni parziali complesse potrebbero invece essere caratterizzate da movimenti ripetitivi, come sfregarsi le mani, masticare, deglutire, camminare in cerchio. I sintomi relativi all’epilessia focale spesso sono confusi con segni di disturbi neurologici diversi, come l’emicrania, la narcolessia o alcune patologie psichiatriche. Per una diagnosi certa, di conseguenza, occorre sottoporre la persona ad esame neurologico, test neuropsicologici ed ulteriori approfondimenti medici. Le cause che provocano tale patologia sono in circa la metà dei casi ancora sconosciute, come per le epilessie primarie o idiopatiche. Le altre condizioni traggono origine da diversi fattori, quali: cause genetiche, in cui l’ epilessia viene trasmessa a livello familiare; traumi cranici; condizioni patologiche cerebrali, come tumori e ictus; malattie infettive, quali meningite, AIDS, encefalite virale; lesioni perinatali; disturbi dello sviluppo, ad esempio autismo e neurofibromatosi. Le crisi epilettiche risultano estremamente pericolose a qualsiasi grado colpiscano.

Epilessia: effetti collaterali dei farmaci

Ad oggi si stima che in circa l’80% dei casi i trattamenti farmacologici e chirurgici possono essere in grado di controllare la condizione patologica. I farmaci utilizzati sono denominati “antiepilettici” e possono provocare numerosi effetti collaterali, tra cui stanchezza, vertigini, aumento di peso, perdita della densità ossea, eruzioni cutanee, perdita di coordinazione, problemi di linguaggio, di memoria e di pensiero e come abbiamo visto nel caso del celebre cantautore, sintomi depressivi (Patsalos et al., 2018). Nei paesi industrializzati l’incidenza annua dell’epilessia, definita come due o più crisi non provocate e separate da almeno ventiquattro ore, è di 29-53 casi per 100.000 (Hauser, 1997). Nonostante la frequenza elevata, non sempre sembra assicurata una pratica clinica ottimale ed omogenea, che coinvolga le figure sociosanitarie necessarie. A livello psicologico, in particolare, occorre considerare che le crisi epilettiche, spesso a decorso cronico, impongono ai soggetti che ne sono affetti un trattamento di lunga durata con farmaci che provocano effetti collaterali particolarmente rilevanti; inoltre, l’ epilessia interferisce con molti obiettivi esistenziali, minando la qualità della vita di tali persone, ad esempio in relazione alle scelte professionali e personali che possono essere limitate dalla patologia. Tali aspetti, legati altresì alla sintomatologia convulsiva invalidante, possono condurre alla depressione nel paziente epilettico.

Epilessia e disturbi depressivi

I disturbi depressivi sono caratterizzati da un sentimento di tristezza grave e persistente, tale da interferire con il funzionamento globale della persona e, frequentemente, inducono una significativa diminuzione del piacere e degli interessi. Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) distingue molteplici tipi di depressione, in base alle caratteristiche riscontrate nel paziente: Disturbo Depressivo Maggiore, Disturbo Depressivo Persistente, altro Disturbo Depressivo specificato o non specificato, Disturbo Disforico Premestruale, Disturbo Depressivo dovuto ad un’altra condizione fisica, Disturbo Depressivo indotto da sostanze o farmaci.

Il Disturbo Depressivo legato ad una condizione medica, nel caso in esame, colpisce circa il 25% dei pazienti affetti da epilessia, così come rilevato da un recente studio scientifico (Gill et al., 2018). Strumenti validi ed attendibili che valutino l’insorgenza di un Disturbo Depressivo come direttamente legato all’epilessia non sempre sono stati definiti in maniera chiara; studi recenti indicano che i test di screening maggiormente considerati dalla letteratura scientifica internazionale sono il “Neurological Disorders Depression Inventory for Epilepsy” (NDDI-E) ed il “Mini International Neuropsychiatric Interview” (MINI). Il test NDDI-E, in particolare, risulta essere lo strumento più valido; è gratuito ed è stato tradotto in numerose lingue, inoltre è di facile somministrazione. Uno studio recente ha sottolineato inoltre come la depressione, nel paziente epilettico, è altamente correlata altresì con il rischio di stigmatizzazione, dovuto alle conseguenze psicosociali delle crisi convulsive, croniche e invalidanti (Yıldırım et al., 2017). Nello specifico, sono stati valutati 302 pazienti affetti da epilessia attraverso il test “Beck Depression Inventory” (BDI) – allo scopo di quantificare i sintomi depressivi – ed il test “Stigma Scale for Epilepsy-Self Report” (SSE-SR) – per indagare la stigmatizzazione subita e vissuta durante l’arco della vita. Si è riscontrato che il 49,6% della popolazione riporta sintomi depressivi lievi (BDI > 9). Si sottolinea inoltre una moderata correlazione positiva tra i punteggi della stigmatizzazione ed i punteggi alla scala di Beck: il 96,3% dei pazienti altamente stigmatizzati presentava punteggi di depressione moderata; il 73,9% del gruppo di persone che non ha subito stigmatizzazioni non ha riportato punteggi relativi alla depressione oppure ha ottenuto punteggi minimi.

Epilessia: supporto psicologico come aiuto per depressione e stigma

Lo studio dimostra che la stigmatizzazione sociale dei pazienti affetti da epilessia provoca dunque sintomi depressivi. Pertanto, effettuare un trattamento psicoterapico e un tempestivo sostegno psicologico in pazienti epilettici, allo scopo di fronteggiare la situazione di disagio che potrebbero vivere, può contribuire anche a proteggerli da una condizione concomitante altrettanto invalidante: lo sviluppo di sintomi depressivi. In casi estremi la sintomatologia depressiva, correlata ad altri fattori di rischio, può condurre il paziente epilettico al suicidio: è il caso del noto cantante inglese Ian Curtis.

In conclusione, possiamo dire che l’impatto dell’ epilessia, del trattamento farmacologico della patologia cronica e della depressione in comorbidità hanno avuto sulla vita artistica di Ian Curtis e sulla sua morte prematura non è ancora chiaro e definito. Naturalmente, ci sono fattori impossibili da verificare all’attualità: non è possibile confermare la causalità e la consequenzialità concreta dei fattori biologici ed ambientali che hanno contribuito alla sua morte precoce. È fondamentale in ogni caso sottolineare l’importanza rivestita da un tempestivo supporto psicologico in casi di epilessia: è stato scientificamente dimostrato come la condizione cronica delle crisi epilettiche, gli effetti collaterali della farmacoterapia, le limitazioni quotidiane e l’eventuale condizione di stigmatizzazione sociale esperita, spesso causano un Disturbo Depressivo nei pazienti epilettici. Nei casi più gravi, come potrebbe essere stato per il famoso cantante Ian Curtis, tale patologia del Sistema Nervoso Centrale non psicologicamente trattata – unitamente ad altri fattori di rischio – sfocia in un gesto suicidario.

Quando la depressione non trova parole: i disturbi psicosomatici nell’infanzia

Quando viene a mancare lo sviluppo di un’adeguata capacità di elaborazione mentale delle emozioni, a causa di un ambiente non accudente, possono emergere disturbi psicosomatici nei bambini 

 

Le capacità dell’individuo di regolare le proprie emozioni in modo adattivo, capacità che emergono attraverso gli scambi fisici e preverbali nella relazione madre-bambino, sono strettamente in relazione al benessere e alle prestazioni in vari ambiti dello sviluppo.

Infatti, un individuo in grado di regolare le proprie emozioni avrà a disposizione più risorse per affrontare le situazioni positive e conflittuali e sarà un individuo capace di comprendere le emozioni proprie e altrui e quindi sarà capace di usufruire del supporto sociale. Quest’ultimo è considerato una forma di regolazione emozionale che consente all’individuo di consolidare i contatti sociali e di conseguenza, di favorire la progressiva formazione di un’identità sociale. Infatti, la condivisione delle emozioni favorisce l’empatia, l’intimità e i comportamenti reciproci di attaccamento (Renzetti, Tripicchio, 2010; Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2013).

Cosa determina i disturbi psicosomatici nei bambini

Quando però al bambino non è permesso di sviluppare un’adeguata capacità di elaborazione mentale delle emozioni, a causa di un ambiente non accudente, possono emergere i disturbi psicosomatici (Sasso, Sborlini, Cerratti, 2006).

La clinica psicosomatica riguarda le malattie fisiche nelle quali intervengono, nel determinarle, fattori psichici o conflittuali (Candelori, Mancone, 2001). Il processo principale alla base dei disturbi psicosomatici nei bambini (e non solo) è la somatizzazione, ovvero la tendenza ad esperire e comunicare i problemi psicologici attraverso il disagio fisico.

In particolare, nei bambini, le manifestazioni somatiche vanno considerate come strettamente connesse con i processi di sviluppo, tenendo presente che in questi il corpo assume un ruolo privilegiato come mezzo di comunicazione, in quanto si costituisce come primo mezzo con cui il bambino entra in relazione con le figure significative, divenendo il veicolo principale della strutturazione del sé (Candelori, Mancone, 2001). I conflitti interni o esterni possono minacciare l’equilibrio psichico del bambino tanto che quest’ultimo, attraverso la rimozione, riesce ad “evacuare” questi vissuti interiori solo attraverso il linguaggio più arcaico ovvero quello preverbale del corpo (Brunelli, Balzani, Briganti, 2006). La scissione mente-corpo che si verifica è la conseguenza di un ambiente insufficiente che porta il bambino a sviluppare un’organizzazione difensiva della personalità, definita falso sé, che ha la funzione di proteggere il vero sé dalla depressione, costituendosi come difesa maniacale. Tali dinamiche impediscono al bambino di appropriarsi psicologicamente del proprio corpo e lo rendono incapace di autentiche esperienze emotive, favorendo l’instaurarsi di disturbi fisici (Baldoni, 2002).

L’importanza della regolazione emotiva e della mentalizzazione nei bambini

Questi bambini si mostrano molto compiacenti ed essendo incapaci di veri e propri processi di identificazione, imitano gli adulti seguendo rigidamente le loro regole e risultano incapaci di socializzare e comunicare con i coetanei, a causa proprio della loro rigidità. Tutto ciò espone il bambino a disturbi comportamentali (insonnia, irrequietezza, disturbi alimentari), fisici (dermatologici, gastrointestinali, respiratori, allergici) e psichici, in particolare alla depressione (Baldoni, 2002).

Oltre alla dinamica del falso sé, alla base dei processi di somatizzazione si rintraccia l’assenza o il deficit di una capacità importante per l’integrazione di stati mentali e fisici, ovvero la mentalizzazione, causata da un’incapacità della madre di svolgere l’importante funzione del rispecchiamento. Si determinano così acting out comportamentali, conseguenti al mancato controllo degli impulsi, sindromi dissociative e le emozioni non vengono quindi elaborate dalla neocorteccia, non raggiungendo la consapevolezza e l’integrazione (Baldoni, 2014).

La mancanza della capacità di mentalizzare, unita alla compromissione o inibizione dei processi di regolazione emotiva, porta alla formazione di una relazione con sé e con il mondo esterno che esclude ogni riferimento agli stati emotivi, strutturandosi il quadro del costrutto definito alessitimia, caratterizzata da: difficoltà nell’identificare le emozioni e nel distinguerle dalle sensazioni corporee che accompagnano le emozioni; difficoltà nel descrivere i propri sentimenti agli altri; limitati processi immaginativi che comportano una forte povertà delle fantasie; stile cognitivo orientato all’esterno e guidato dallo stimolo (Renzetti, Tripicchio, 2010; Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2013). L’alessitimia rappresenta una predisposizione aspecifica verso disturbi somatici e psichici che si caratterizzano per la presenza di disregolazione emotiva (Porcelli, 2004). I soggetti alessitimici però, non sono in realtà incapaci di provare emozioni ma esperiscono stati affettivi indifferenziati, scarsamente regolati (Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2013).

In età evolutiva, l’alessitimia presenta caratteristiche diverse da quelle riscontrate in età adulta, infatti è stata elaborata una versione semplificata della Toronto Alessitimia Scale (TAS) per adulti, l’Alessitimia Questionnaire for Children (AQC), ovvero un questionario che mantiene la presenza dei tre fattori su cui si basa la TAS (Difficoltà a identificare i sentimenti, difficoltà ad esprimere i sentimenti e pensiero orientato all’esterno), ma aggiunge un quarto fattore denominato “Confusione delle sensazioni fisiche”. La presenza di tale fattore evidenzia come, in età evolutiva, le percezioni corporee assumano un ruolo cardine nella definizione del contatto con le emozioni (Artoni, Atti, Giaroli, Paterlini, 2015). Nell’eziologia dell’alessitimia entrano in gioco diversi fattori tra i quali si riscontrano le variabili socioculturali, i deficit neurobiologici, le variazioni nell’organizzazione cerebrale ma, il ruolo più rilevante è assunto dall’influenza significativa delle prime esperienze relazionali di attaccamento. Infatti, sono le prime relazioni a svolgere un ruolo di grande importanza nello sviluppo degli affetti e la regolazione emotiva è determinata dalle esperienze di rispecchiamento e condivisione delle emozioni con i caregivers. Ma se la funzione contenitiva e di regolazione dei genitori fallisce, le emozioni del bambino non riescono ad essere trasformate in rappresentazioni mentali e oggetti di pensiero, rimanendo a livello di percezioni e sensazioni ed esponendo quindi ad un alto rischio di sviluppare disturbi psicosomatici nei bambini (Fabbri, 2012). In particolare, secondo Crittenden, i problemi di inibizione e disregolazione emotiva nascono da stili di attaccamento insicuri che portano alla formazione di modelli interni di rappresentazione caratterizzata da una mancanza di integrazione delle informazioni affettive e cognitive (Artoni et al, 2015). Connesse alla disregolazione emotiva, risultano quindi le difficoltà nell’apprendimento nei bambini; infatti da uno studio condotto da Bauminger e Kimhi-Kind (2008) è emerso che i bambini con difficoltà di apprendimento presentano scarse capacità di regolazione emotiva, una minore sicurezza nella relazione di attaccamento con la madre e difficoltà nel processamento delle informazioni (Renzetti, Tripicchio, 2010).

L’analisi del costrutto alessitimico, offre un’importante opportunità per comprendere il peso che questo assume nelle situazioni traumatiche, nei disturbi psicosomatici nei bambini e nei disturbi psicopatologici come la depressione in età evolutiva. Infatti, Rieffe e colleghi (2005) hanno riscontrato una correlazione positiva, in soggetti tra i 6 e i 15 anni, tra alessitimia e presenza di umore negativo e sintomi somatici; infatti le emozioni non trasformate dalle rappresentazioni mentali simboliche e dall’espressione verbale, vengono scaricate lungo i percorsi autonomici, verificandosi uno “scollamento della componente fisiologica dell’attivazione emotiva del sentimento soggettivo” e dall’elaborazione cognitiva dell’esperienza” (Taylor & al., pag 67; Artoni et al, 2015).

Il corpo del bambino diventa così il mezzo attraverso cui esprimere la sofferenza e i disagi vissuti nell’ambiente familiare e/o nell’ambiente scolastico, portando all’insorgenza di disturbi, senza cause organiche, a carico dell’apparato gastrointestinale, dell’apparato respiratorio, del sistema muscolo scheletrico e del sistema cutaneo. La teoria dell’attaccamento, offrendo una chiave di lettura per la comprensione del sintomo somatico, considera il sintomo come la strategia che il bambino usa per regolare lo stato di relazione con le figure di attaccamento e allo stesso tempo per mantenere lo stato di sé (Artoni et al, 2015).

Diturbi psicosomatici nei bambini: i più frequenti

I disturbi psicosomatici nei bambini si intrecciano frequentemente con la depressione infantile proprio perché, come già affermato, il corpo si costituisce come principale mezzo di comunicazione. Infatti, caratteristici sintomi nel bambino depresso sono l’affaticamento, il sentirsi senza energie, le variazioni dell’appetito e/o del peso, cefalee, dolori allo stomaco, alla schiena e alle gambe senza una ragione oggettiva per il dolore (Mocini, Faresin, 2013). La presenza di tali sintomi fisici è frequente, tanto che si può comunemente riscontrare un quadro psicopatologico denominato “depressione mascherata” in cui prevalgono i sintomi somatici e rispetto alla tristezza e all’anedonia, prevalgono il dolore e il malessere fisico (Di Fiorino, Massei, Pacciardi, 2010).

All’interno dei disturbi psicosomatici nei bambini si riscontrano diverse dinamiche psicologiche e ambientali. Nel caso dell’alopecia, questa sembra presentarsi in caso di carenza affettiva e in seguito alla perdita di figure significative d’attaccamento, alle quali ha fatto seguito una forte sofferenza che però il bambino non risulta in grado di manifestare a causa di un ambiente non facilitante (Artoni et al, 2015).

Anche l’asma, una malattia pediatrica molto comune, può presentarsi a causa di fattori di ordine psicologico e ambientale infatti, oltre alla possibilità della presenza di un’allergia o infezione, anche forti emozioni come la paura e la tensione nervosa, svolgono un ruolo importante nell’insorgenza delle crisi asmatiche. Secondo la comprensione psicodinamica, il bambino asmatico presenta una relazione oggettuale caratterizzata da un sovraccarico del rapporto duale, causata da una presenza materna eccessiva che ostacola i processi di individuazione-separazione e acquisizione di una propria autonomia. La madre inoltre risulta non essere in grado di promuovere nel bambino le funzioni psichiche di rappresentazione, di regolazione delle emozioni e lo sviluppo di un sé corporeo, come mezzo di comunicazione interpersonale e sociale. I bambini asmatici presentano così un’ipersensibilità affettiva, un’intolleranza alle situazioni conflittuali e un bisogno estremo di attaccamento e tali dinamiche vengono però mascherate da un comportamento dolce e remissivo (Candelori, Mancone, 2001).

Il corpo diventa quindi il terreno su cui possono emergere problematiche nella relazione e conseguentemente nella regolazione emotiva e nelle capacità che permettono di costruire il benessere individuale e, allo stesso tempo, si propone come mezzo di espressione di tali dinamiche patologiche. Numerose ricerche in ambito clinico hanno messo in relazione la disregolazione emotiva con diverse forme di psicopatologia nei bambini. Infatti, una eccessiva inibizione nella regolazione delle emozioni è correlata a problemi di internalizzazione, connessi ad ansia, depressione, vergogna, bassa autostima, paura e tristezza mentre una scarsa regolazione delle emozioni è risultata essere associata a problemi esternalizzanti (Renzetti, Tripicchio, 2010).

Cinquanta sfumature dell’uso deviato della galassia dei social network: il caso dei killfie

Una recente ricerca documenta che da ottobre 2011 a novembre 2017 si sono verificate 259 morti nel mondo scattando selfie esiziali (killfie). All’interno di questo triste fenomeno, il Daredavil Selfie è l’attuale moda perversa di autoscatti estremi.

 

Un lavoro diacronico e sincronico svolto da studiosi (Bansal, Garg, Pakhare, Gupta, 2018) della All India Medical Sciences (Nuova Delhi) documenta che da ottobre 2011 a novembre 2017 si sono verificate 259 morti nel mondo scattando selfie esiziali (killfie) in 137 incidenti. Il fenomeno appare significativamente in espansione quando si mettono a confronto i bienni 2014-2015 e 2016-2017.

La distribuzione per età registra che la metà dei killfie è avvenuta fra i giovani dai 20 ai 29 anni e il 36% fra soggetti di età ancora inferiore, compresa tra i 10 e i 19 anni. La distinzione di genere dà conto che il 72,5% delle morti ha coinvolto ragazzi, rivelando una maggiore avversione al rischio da parte delle giovani donne.

Il profilo georeferenziale documenta che ben la metà degli autoscatti mortali si è concentrata in India – dove si trova la quota più elevata al mondo dei giovani al di sotto dei 30 anni, seguita da Russia, USA, Pakistan.

Sull’effettiva ampiezza del fenomeno, uno dei nodi critici è un difetto di classificazione del fenomeno stesso, in quanto il selfie non viene classificato come causa di morte, bensì ricondotto ad altri eventi accidentali mortali quali, ad esempio, “Incidenti su strade trafficate” (determinati dal giovane guidatore che lancia l’automobile a velocità folli per scattare un selfie di cui andare orgoglioso). Sarebbe quindi necessaria un’archiviazione amministrativa dei dati più fine per acquisire informazioni più veridiche.

Grazie alle maggiori informazioni raccolte, alla qualità, all’accuratezza dei dati e ai numerosi aggiornamenti, il lavoro dell’Università di Nuova Delhi si approssima alla realtà del fenomeno del killfie, sebbene esso rimanga comunque sottostimato in quanto lo studio è circoscritto alla consultazione di documentazione in lingua inglese. Essendo la viralizzazione senza confini, gli effetti moltiplicativi di tale condotta, che si spargono in tutto il mondo a macchia d’olio, non vengono colti dall’analisi quando non riportati in lingua anglosassone.

Dal Selfie al Killfie

La tecnologia dei social network – pressoché ossessiva nel proporre novità sul mercato a riflesso della voracità delle tecno-imprese – ha finanche promosso l’ottimizzazione dei selfie attraverso siti che condividono suggerimenti su “come ottenere un selfie perfetto, nonché le “diverse pose per un selfie. La sagra dell’effimero!

L’ampliarsi della moda dei selfie proviene, oltre che dai colossi dei social, da tanti altri rivoli “inquinati” – quali, tra i giovani, l’imitazione, la sfida, la gratificazione, l’antagonismo malati – fino ad arrivare al sistema scolastico. Alcuni college e scuole organizzano gare volte a premiare il “miglior selfie”. È lo stesso sistema-scuola a diffondere l’antagonismo, che può poi deviare verso derive pericolose. Infatti, non si può escludere che da selfie in selfie si arrivi a quello bacato.

Ovviamente, i selfie di per sé non sono pericolosi; possono esserlo i comportamenti umani, in questo caso quello dei giovani. Molteplici cause concorrono a offrire spiegazioni di tali comportamenti esiziali. Il filo rosso di cui ci serviremo nell’interpretarli è il funzionamento della mente attraverso la fiction i cui protagonisti sono i cc.dd. “Sistema 1” e “Sistema 2”, scandagliati dallo psicologo israeliano Daniel Kahneman (2012), come noto, insignito nel 2002 del Premio Nobel per l’economia insieme a Vernon Smith, “per aver integrato risultati nella ricerca psicologica nella scienza economica”.

Killfie: comprendere il fenomeno alla luce delle teorie di Daniel Kahneman

I lavori di Kahneman hanno consentito di applicare la ricerca scientifica nell’ambito della psicologia cognitiva ai fini della comprensione del processo decisionale dei soggetti nella sfera economica, in condizioni sia di certezza sia di incertezza. Presso la comunità scientifica è il secondo psicologo (preceduto da Herbert Simon, nel 1978) ad aver ottenuto il Premio Nobel per l’economia. È evidente come sia essenziale tale interdisciplinarietà per spiegare i comportamenti umani.

Il “Sistema 1” guarda a un orizzonte temporale di brevissimo periodo: opera in fretta – è un “pensiero veloce” -, è intuitivo, impulsivo, è volto alla gratificazione immediata. Il “Sistema 2” è dedito ad attività mentali impegnative, dà ordine e senso alle informazioni che gli provengono dal “Sistema 1”, supporta il processo decisionale di lungo periodo. Sobbarcandosi il fardello più gravoso, è inevitabile che esso sia un “pensiero lento”.

Proprio le sue caratteristiche inducono a ipotizzare che i giovani si avvalgano soprattutto del “Sistema 1”. Da qui si possono spiegare molti comportamenti che i social network amplificano, viralizzano, incitano. Tra l’altro, ciò che si fissa nella memoria degli individui è ciò che è più sensazionale; ciò che è più sensazionale, a sua volta, si viralizza; a ciò che si viralizza viene annessa una maggiore probabilità di accadere (bias della disponibilità). Tale circolo vizioso fa sì che se il selfie estremo – in quanto oggetto di viralizzazione – viene giudicato più frequente di quanto lo sia; di conseguenza, la competizione porta il giovane verso una escalation per sbaragliare tutti gli altri competitors e diventare il cult o il capo-branco, ovvero degno di entrare a far parte di una determinata community cui ella/egli aspira.

Con preferenze biased a favore del “Sistema 1”, talora sullo sfondo di disagi psicologici, spesso privi di stimoli nel trascorrere un “tempo di qualità”, molti giovani sfruttano i social per veicolare dunque tale antagonismo malato sul selfie più audace e rischioso alla ricerca di popolarità e ammirazione fra amici e follower, per il desiderio di conferme, per la voglia di sensazioni forti e adrenaliniche, quando non per la sottomissione alle richieste da parte del branco.

Peraltro, dai molti sondaggi effettuati su campioni di giovani, è emerso in modo sconcertante che questi stessi fossero consapevoli dei rischi cui andavano incontro con autoscatti estremi, ma su di essi prevaleva l’appagamento immediato persino mettendosi in situazioni parasuicidarie (hyperbolic discounting). Un orizzonte temporale di brevissimo periodo che tracima in miopia.

Tali considerazioni sul funzionamento dicotomico delle due sfere cognitive hanno notevoli implicazioni sulla formulazione delle politiche pubbliche – fra le prime, l’istruzione – volte a coadiuvare i giovani ad adottare decisioni sane, evitando il sopravvento del “Sistema 1”, “non facilmente educabile” e “incline all’eccessiva sicurezza”.

Infatti, altre potenziali alleate del killfie sono la dispersione scolastica e l’analfabetismo funzionale, che pregiudicano la disponibilità di un ascensore sociale efficiente, l’investimento in capitale umano e, quindi, la crescita individuale e collettiva. Difatti, il Daredavil selfie, sebbene sia una moda socialmente trasversale, verosimilmente attecchisce soprattutto fra i giovani che vivono in contesti socio-economici degradati, deprivati di stimoli, spunti, occasioni più costruttivi che amplino i loro orizzonti.

In conclusione

L’economia comportamentale – che nega la razionalità ottimizzante della Scuola di Chicago – riconosce come sia fattori esogeni (il mondo reale è complesso e in continua evoluzione, le informazioni sono scarse e costose, l’incertezza è pervasiva), sia fattori endogeni (che potremmo sintetizzare, oltre che in disagi psicologici giovanili, nella velocità e impulsività del “Sistema 1”) possono pesantemente interferire nelle scelte, come confermano gli esperimenti.

La conseguenza è che non ci si deve meravigliare come possano prendere piede mode perverse come il Darevil selfie o il killfie. Ciò che invece deve ritenersi fondamentale sono l’intervento delle istituzioni e un’architettura di politiche pubbliche che, anche per il tramite di una “spinta gentile” (nudging), riconducano i giovani lungo un pattern di scelte sane sotto il profilo individuale e quello sociale.

Inquinamento: quali pericoli per i nostri bambini?

Come affermato dal biologo Eugene F. Stoermer, viviamo ormai da più di un secolo nell’epoca dell’Antropocene, termine che indica l’era geologica attuale, nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche.

 

Viviamo anche in un momento storico dove le coscienze sembrano essersi svegliate nella lotta all’ inquinamento e nella difesa della natura (come dimostrano le recenti manifestazioni per il clima Fridays for future e i risultati dei Verdi alle elezioni europee).

Inquinamento: l’influenza sulla salute dei bambini

Purtroppo, per vedere i cambiamenti concreti bisognerà aspettare ancora e ahimè, molti danni sono già stati fatti.

Molti studi hanno già suggerito quanto l’esposizione all’inquinamento atmosferico nella prima infanzia possa essere collegato a disfunzioni cognitive.

A questi si aggiunge una recente ricerca realizzata dal Barcelona Istitute for Global Health (ISGlobal).

E’ stato scoperto che bambini esposti a PM2.5 (particelle con un diametro inferiore a 2,5 μm) nell’utero e durante i primi anni di vita hanno un maggior rischio sviluppare deficit per quanto riguarda la memoria di lavoro (nei ragazzi) e l’attenzione esecutiva (sia nei ragazzi che nelle ragazze).

Inquinamento: lo studio che ne indaga l’influenza sullo sviluppo cognitivo

La ricerca, pubblicata sulla rivista Environmental Health Perspectives, ha coinvolto 2.221 bambini (dai 7 ai 10 anni) che frequentano le scuole nella città di Barcellona. Le abilità cognitive dei bambini sono state valutate attraverso vari test computerizzati. L’esposizione all’ inquinamento atmosferico, a casa durante la gravidanza e nel corso dell’infanzia, è stata stimata con un modello matematico utilizzando misurazioni reali.

I ricercatori hanno scoperto che una maggiore esposizione ai PM2.5 dalla gravidanza fino all’età di 7 anni era associata a punteggi di memoria di lavoro inferiori nei test cognitivi, in bambini tra i 7 e i 10 anni (riscontrato solo nei maschi).

La memoria di lavoro è responsabile della memorizzazione temporanea delle informazioni per un ulteriore utilizzo e svolge un ruolo fondamentale nell’apprendimento, nel ragionamento, nella risoluzione dei problemi e nella comprensione del linguaggio.

Inquinamento e sviluppo cognitivo dei bambini: i risultati dello studio

Lo studio ha anche scoperto che ad una maggiore esposizione al particolato era associata a una riduzione dell’attenzione esecutiva sia nei ragazzi che nelle ragazze. L’attenzione esecutiva è una delle tre reti che costituiscono la capacità di attenzione di una persona. È coinvolta in forme di attenzione di alto livello, nel rilevamento di errori, nell’inibizione della risposta e nella regolazione di pensieri e sentimenti.

Questa pubblicazione rafforza le precedenti scoperte e conferma che l’esposizione all’inquinamento atmosferico all’inizio della vita e durante l’infanzia può essere considerato una minaccia per lo sviluppo cognitivo ed un ostacolo che impedisce ai bambini di raggiungere il loro pieno potenziale.

Alla scoperta della PNEI. Intervista a Francesco Bottaccioli

La prospettiva e le conoscenze della PNEI possono essere di grande supporto allo psicologo-psicoterapeuta sia sottolineando come le abitudini che coinvolgono il corpo influenzano la psiche, ma anche come il lavoro psicoterapeutico abbia delle ricadute effettive sulla biologia dei propri pazienti..

 

Spesso nei dibattiti scientifici si invoca la necessità di superare il dualismo di cartesiana memoria fra mente e corpo, di favorire il dialogo fra le scienze mediche che studiano il “corpo” e le scienze che si occupano della “psiche”. La psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) già dagli anni ‘80 ha favorito nella pratica, e non solo nelle teoria, questa integrazione andando a creare ponti dove prima sorgevano barriere, aprendo il panorama scientifico ad una necessaria rivoluzione paradigmatica.

Per poter approfondire meglio questi temi abbiamo avuto l’occasione di poter intervistare il dott. Francesco Bottaccioli, Filosofo della Scienza e Psicologo esperto in Neuroscienze, membro della direzione scientifica e docente del Master in psiconeuroendocrinoimmunologia all’Università degli Studi dell’Aquila e di Torino. Egli ha fondato la Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia, di cui è stato il primo Presidente e successivamente, il Presidente Onorario.

PNEI: di cosa si tratta?

Per sua natura la PNEI abbraccia ed eredita i vari contributi provenienti dalle rivoluzioni scientifiche nel campo della fisica, dell’endocrinologia, alla visione sistemica dell’immunologia in particolare sul network fra cervello e sistema immunitario.

All’interno del paradigma PNEI la psicologia e la psicoterapia rivestono un ruolo centrale in quanto in grado di produrre modificazioni biologiche nelle cellule nervose ed immunitarie: tutto ciò viene supportato dagli studi di epigenetica che dimostrano come l’espressione dei nostri geni può alterarsi pur conservando la medesima struttura del DNA.

La prospettiva e le conoscenze della PNEI possono quindi essere di grande supporto allo psicologo-psicoterapeuta sia sottolineando come le abitudini che coinvolgono il corpo influenzano la psiche, ma anche come il lavoro psicoterapeutico abbia delle ricadute effettive sulla biologia dei propri pazienti.

PNEI: indice dell’intervista a Francesco Bottaccioli

0:11 – La psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), pur integrando saperi millenari è una scienza “giovane”. Quale definizione potremmo dare della PNEI per descriverla a chi non la conosce?

2:03 – La PNEI integra saperi di diversa estrazione: biologici, psicologici, sociali… Psicologia e psicoterapia come si inseriscono in questo nuovo modello scientifico?

5:37 – La PNEI si apre a posizioni che vanno oltre quelle della medicina “riduzionista e meccanicista”, aprendosi anche alle teorie della fisica quantistica, della complessità e dell’epigenetica. A che punto e quali ostacoli sta incontrando la PNEI in questo processo di transizione?

14:07 – Quale futuro vede per la PNEI e i suoi sviluppi?

Buona visione!

GUARDA L’INTERVISTA IN VERSIONE INTEGRALE:

Lego Serious Play: lavorare è un gioco da ragazzi

Negli ultimi anni, in seguito alla Rivoluzione Tecnologica e alla flessibilità che ha coinvolto il mondo del lavoro, si assiste all’introduzione in azienda di sistemi innovativi per l’aumento della creatività dei dipendenti, per la risoluzione dei problemi e per lavorare informal-mente.

 

Questi mezzi, infatti, diventano dei potenti facilitatori in azienda poiché si tratta di tecniche trasversali, ovvero applicabili a qualsiasi contesto e situazione, ma soprattutto sono metodologie in grado di far emergere tutte le dinamiche “soft”, quindi non facilmente visibili di un’organizzazione. L’elemento rivoluzionario è che il tutto avviene “giocando”, come nel caso della Lego Serious Play (LSP).

Dal costruttivismo ai LEGO, un modo per imparare

Nello specifico, i partecipanti lavorano attraverso scenari immaginari utilizzando i mattoncini LEGO, per questo motivo questo tipo di attività viene definita “gioco serio” (Serious Game).  Il concetto di “gioco serio” è il risultato della combinazione di teorie derivanti dal costruttivismo, secondo cui

l’apprendimento si realizza particolarmente bene quando le persone sono impegnate nella costruzione di un prodotto, qualcosa di esterno a se stessi, come un castello di sabbia, una macchina, un programma per computer, un libro (Piaget, 1951)

o, appunto, un gioco. Il gioco, in questa prospettiva, diventa un’attività limitata nel tempo e nello spazio, che coinvolge un gruppo di persone, che stabiliscono regole e accordi. L’aspetto più importante di queste attività è che non si delineano a priori ruoli o giochi di potere, ma ci si sente liberi di agire usando la fantasia e l’immaginazione, al fine di: descrivere, creare e sfidare.

Lego Serious Play: una metodologia per l’intervento nelle aziende

In particolare, l’innovativa metodologia della Lego Serious Play, nasce a metà degli anni Novanta, quando la LEGO®, famosa azienda danese produttrice di giocattoli, subì una flessione delle vendite. Al fine risolvere il problema, venne ipotizzato che bisognasse introdurre cambiamenti nella produzione. Chiamati dalla Lego come consulenti, Johan Roos e Bart Victor (1999), due professori universitari svizzeri, idearono il concetto e il metodo del gioco serio, al fine di modificare il contesto di introduzione dei famosi mattoncini, favorendo il passaggio da un ambito ludico, ovvero il gioco dei bambini, ad un contesto più serio, ovvero il mondo del lavoro. Ma l’obiettivo era anche quello di consentire ai lavoratori di approcciarsi e svilupparsi in maniera diversa alle loro mansioni.

La metodologia LSP consta di alcune fasi non rigide e modificabili a seconda dell’obiettivo, ma generalmente in un primo momento si avvia la formulazione o specificazione della “domanda”, ovvero la definizione del motivo per cui è stato richiesto un intervento di questo tipo. Questa prima fase aiuta sia il committente, ma anche i partecipanti al gioco a comprendere l’utilità e la finalità dello stesso intervento. Avendo reso esplicita e specifica la domanda, che quindi viene co-costruita, si giunge al cuore dell’azione della LSP, in cui ogni partecipante si impegna nella costruzione del suo modello 3D con i Lego, a seguito di input forniti dal facilitatore LSP. I modelli 3D sono, poi, utilizzati come punti di partenza per la discussione in gruppo, la condivisione della conoscenza, il problem solving, il decision making, il team building. La LSP stimola competenze visive, uditive e cinestesiche, richiedendo ai partecipanti di apprendere e ascoltare, dando “voce” a tutti e, quindi, per il suo carattere universale e democratico, è una metodologia che si adatta a ogni cultura e formazione.

Lego Serious Play: giocare per imparare

In Italia, la metodologia LSP ha iniziato a diffondersi dagli anni 2000 in poi, facendosi spazio in diversi contesti organizzativi e coinvolgendo, come facilitatori, diverse figure professionali, tra cui psicologi e pedagogisti con adeguato brevetto e formazione, in quanto, seppur basata sul “gioco”, la tecnica restituisce potenti risultati, poiché si può

comprendere di più di una persona in un’ora di gioco di quanto si non possa fare in un’intera vita di conversazione (Platone).

7^ Conferenza Biennale dell’ESTD, Società Europea per lo Studio del Trauma e della Dissociazione – Roma, dal 24 al 26 Ottobre 2019

Dal 24 al 26 Ottobre si terrà a Roma, presso il Centro Congressi di Confindustria all’EUR, la 7^ Conferenza Biennale dell’ ESTD, la Società Europea per lo Studio del Trauma e della Dissociazione.

 

Dal 24 al 26 Ottobre si terrà a Roma, presso il Centro Congressi di Confindustria all’EUR, la 7^ Conferenza Biennale dell’ ESTD, la Società Europea per lo Studio del Trauma e della Dissociazione. L’evento ha un’importanza storica per i gruppi clinici e di ricerca attivi su questi temi in Italia, trattandosi della prima volta che il nostro paese lo ospita.

Negli ultimi anni in Italia è stata fondata AISTED, l’Associazione italiana per lo studio del trauma e della dissociazione, di cui è socio fondatore e presidente il dr. Giovanni Tagliavini. Tale gruppo di ricercatori e terapeuti in questi due anni ha raccolto su tutto il territorio nazionale gli esperti del campo del trattamento dei disturbi post traumatici e dissociativi, senza distinzione di approccio terapeutico. Il prof. Gianni Liotti stesso aveva auspicato la costituzione di questo gruppo che coniuga la nostra cultura scientifica della materia e quella europea, essendo lui un punto di riferimento transnazionale nel campo del trattamento dei disturbi post traumatici e dissociativi.

Di fatto, mai momento storico fu favorevole quanto quello attuale per ospitare in Italia una Conferenza di ESTD, soprattutto quando il tema scelto promuove la discussione su quanto ad oggi sappiamo in tema di diagnosi e trattamento dei disturbi dissociativi e che obiettivi ci poniamo per il futuro immediato nel continuare a ricucire il lavoro clinico ‘mente e corpo’ orientato.

Nel Comitato Organizzatore sono presenti come co-chair il dr. G. Tagliavini e  come board member di ESTD la Dr.ssa Maria Paola Boldrini, noti tra gli esperti in questo campo d’applicazione clinica in Italia.

L’importanza dello sviluppo del gruppo italiano afferente ad AISTED ha fatto sì che l’associazione ritenesse opportuno proporre la traduzione simultanea in italiano degli interventi principali e di una specifica track all’interno del programma della conferenza, fatto decisamente storico per un’organizzazione europea. Il programma prevede tre giorni di intensi lavori: 5 workshops pre-congressuali, 6 keynote speakers, 10 sessioni in parallelo. Gli speakers principali saranno autorevoli esperti riconosciuti a livello mondiale, non solo noti nel campo del Trauma e della Dissociazione, presenteranno le loro esperienze, riflessioni e condivideranno la loro prospettiva futura: la prof.ssa Michela Marzano, autorevole filosofa e docente universitaria, ci introdurrà agli aspetti sociali della fragilità della condizione umana. La dr.ssa Kathy Steele presenterà le sue riflessioni sull’esperienza nel trattamento del Trauma e della Dissociazione. Il Prof. Benedetto Farina presenterà sugli Studi neurologici sul Trauma, la Disintegrazione e l’Attaccamento non organizzato. Il Dr. Martin Dorahy parlerá di DID – Dissociative Identity Disorder – memorie autobiografiche ed il senso del sé in diverse Identità Dissociative e il dr. Ellert Nijenhuis presenterà le sue attuali indicazioni per l’approccio al trattamento del Trauma  “Enactive Trauma Therapy: collegando mente-cervello, corpo ed il mondo”.

Maggiori informazioni sul programma e sulle modalità di partecipazione a questo link: www.estd2019.org

Vi aspettiamo a Roma!

Il Comitato Organizzatore ESTD Roma 2019

Cosa aspettarsi quando non ce lo si aspetta

L’ incertezza ha un impatto sui nostri processi di decision making, che ci permettono di stimare per ogni situazione l’ incertezza attesa (ovvero la variabilità relativa agli esiti di una decisione) e l’ incertezza inaspettata (cioè la variabilità relativa all’ambiente) al fine di rispondere velocemente ai cambiamenti dell’ambiente tramite la selezione del comportamento più efficace per la realizzazione dei nostri scopi.

 

Spesso l’esito di una nostra decisione è incerto e troppo di frequente siamo chiamati a prendere delle decisioni in situazioni inaspettate o delle quali non ci è dato sapere l’esito. Nella maggior parte dei casi questa tipologia di situazioni ci mette alla prova, ci regala una buona dose di frustrazione e ci costringe il più delle volte a dover sviluppare un certo grado di tolleranza.

Ci affidiamo alle abitudini, apprese e consolidate nel tempo, che ci rassicurano, a strategie di pensiero e comportamenti di controllo o evitamento per affrontare queste situazioni, o per meglio dire non affrontarle.

In termini evolutivi, il nostro cervello si è sviluppato per tentare di prevedere e anticipare quante più situazioni possibili sia appellandosi a esperienze passate, consolidate in memoria, e nei casi di novità o scarsa familiarità, sia provando per tentativi ed errori ad apprendere nuove modalità di comportamento o strategie decisionali per riuscire ad adattarsi e realizzare così i propri scopi.

Pertanto, a seguito di tali considerazioni, appare importante comprendere l’impatto che l’ incertezza ha sui nostri processi di decision making che ci permettono di stimare per ogni situazione, l’ incertezza attesa, ovvero la variabilità relativa agli esiti di una decisione, e l’ incertezza inaspettata, la variabilità relativa all’ambiente, al fine di aggiornare le nostre linee di condotta sul momento e rispondere velocemente ai cambiamenti dell’ambiente tramite la selezione del comportamento più efficace per la realizzazione dei nostri obiettivi o il raggiungimento dell’esito sperato e gratificante (Soltani & Izquierdo, 2019).

Incertezza attesa e incertezza inaspettata

La presa di decisioni e l’apprendimento all’interno di un contesto dinamico, perlopiù incontrollabile e incerto, richiede infatti un trade-off, ovvero un bilanciamento tra le nostre capacità di adattamento e un certo grado di precisione cioè la capacità di aggiornare continuamente le informazioni in nostro possesso in funzione dei feedback che ci provengono dall’esterno a seguito delle nostre azioni su quest’ultimo. La modalità migliore per realizzare tale equilibrio è tramite l’incremento del tasso di apprendimento a seguito di eventi inaspettati e la riduzione del tasso stesso quando questi eventi sono sufficientemente sotto controllo e stabili (Soltani & Izquierdo, 2019).

Nel dettaglio, gli studi contenuti nella Perspective recentemente pubblicata su Nature Review Neuroscience, di Soltani e Izquierdo, rispettivamente del dipartimento di Psicologia del Dartmouth College e dell’Università della California, si concentrano sulla definizione dell’ incertezza attesa e inaspettata e mostrano come sia possibile associare l’ incertezza attesa a quelle situazioni nelle quali si ha la probabilità di ricevere, o di non ricevere, una ricompensa attesa da uno stimolo o dalla messa in atto di un comportamento, e come questa debba essere stimata e valutata data la sua natura variabile o stocastica, anche quando la probabilità delle diverse ricompense rimane costate nel corso del tempo (Soltani & Izquierdo, 2019).

I contesti sperimentali di laboratorio utilizzati per lo studio di questa tipologia di incertezza si basano su modelli di apprendimento per errori nei quali l’aggiornamento complessivo del valore di uno stimolo o di un’azione dipende dal prodotto dell’errore di predizione, cioè dalla differenza tra il valore atteso di un’azione o stimolo – per ottenere l’esito desiderato – e l’outcome effettivo reale, determinando così la percentuale di quanto la persona è riuscito ad apprendere in quel contesto (Farashahi et al., 2017).

L’errore di predizione è indipendente dall’ambiente esterno e diventa centrale nei processi di apprendimento in quanto consente continui aggiornamenti dei valori attribuiti dal soggetto agli stimoli o alle azioni per raggiungere la ricompensa, contribuendo altresì alla computazione dell’ incertezza attesa (Preuschoff & Bossaerts, 2007).

Ciononostante, Preushoff e Bossaerts (2007) hanno suggerito che l’ incertezza attesa possa ridurre la percentuale di apprendimento per diminuire a sua volta l’impatto dell’errore di predizione quando i risultati dell’outcome sono piuttosto variabili; questa strategia si rivelerebbe particolarmente utile solo in contesti stabili dove la variabilità della ricompensa può essere stimata con più affidabilità, diversamente dai contesti più dinamici e imprevedibili.

L’ incertezza inaspettata è invece primariamente legata alla percezione soggettiva della persona circa i cambiamenti nella probabilità della ricompensa; questa definizione suggerisce che l’individuo avverte o percepisce drastici cambiamenti nell’ambiente, in un’ottica puramente soggettiva, come accadimenti “sorprendenti”, repentini nel tempo e inattesi rispetto ad un modello o piano previsionale fatto a priori da esso stesso, per guidare i suoi processi decisionali nonostante non vi sia stato alcun oggettivo cambiamento nell’ambiente.

Data questa definizione ne consegue che questa tipologia d’ incertezza può essere studiata soltanto attraverso l’analisi e l’indagine dei comportamenti della persona e che si debba fare riferimento al costrutto di volatilità o mutevolezza quando l’ incertezza è legata a cambiamenti reali che modificano la probabilità della ricompensa indipendentemente dal fatto che vengano percepiti o meno dalla persona (Soltani & Izquierdo, 2019).

Quali sono i meccanismi che ci consentono di regolare o “correggere” l’ incertezza tramite l’apprendimento?

Diversi modelli sono stati formulati per rispondere a tale domanda.

Il primo, di stampo bayesiano, assume che un osservatore ideale utilizzerebbe regole probabilistiche per stimare in modo ottimale il verificarsi di una ricompensa facendo ipotesi sul funzionamento e sulle caratteristiche dell’ambiente in modo tale da costruire un modello dello stesso per determinarne le regolarità e anticiparne le “sorprese” (Dayan, Kakade & Montague, 2000). Il modello dell’ambiente che si viene a costruire, viene continuamente aggiornato sulla base dei feedback provenienti da esso, in particolare sulla base di diversi parametri che potrebbero rappresentare alcune sue proprietà e caratteristiche, quali la probabilità della ricompensa, l’ampiezza della distribuzione dalla quale quest’ultima è tratta (vedi incertezza attesa) e la probabilità che uno o più di questi parametri possa cambiare nel corso del tempo (vedi incertezza inaspettata).

Tale modello tiene conto infatti dei differenti valori attribuiti sia alla probabilità di ricompensa che alla sua volatilità o mutevolezza dal momento che viene sviluppato per la selezione della scelta del comportamento da adottare, tramite processi di decision making, tenendo conto dei differenti valori attribuiti.

Tuttavia, a parere degli autori della Perspective (Soltani & Izquierdo, 2019), l’utilizzo dei modelli bayesiani per fare predizioni e apprendere in un ambiente particolarmente incerto non è appropriato nello spiegare la relazione che intercorre tra le due forme di incertezza in contesti naturali e risulterebbe di conseguenza complicato.

Per tale ragione, si preferisce ricorrere al cosiddetto “filtro di Kalman” che formalizza la relazione predittiva tra stimoli, azioni e outcome ma anche la variabilità e l’ incertezza di questa predizione, fornendo così una modalità più appropriata e adatta ai dati ricavati dai comportamenti (Dayan, Kakade & Montague, 2000).

L’apprendimento in condizioni di incertezza è stato recentemente spiegato anche alla luce di modelli meccanicistici, di cui un esempio è rappresentato dalla ricerca di Farashahi, Donahue, Solatani e colleghi (2017), che tentano di spiegare le computazioni fatte dal sistema alla luce dei network e dei circuiti neurali. In particolare, l’esempio di Farashahi e colleghi (2017) si baserebbe sull’ipotesi che il processo di meta plasticità neuronale, processo che consente l’aumento dell’efficacia sinaptica, sarebbe in grado di alterare la risposta ad eventi futuri ottimizzando l’interazione bidirezionale tra quei circuiti che codificano appropriatamente il valore dell’azione, dello stimolo e della volatilità nell’ambiente e quelli che monitorano l’ incertezza aumentando così l’adattabilità del sistema ai cambiamenti.

In conclusione

Sebbene l’interazione tra incertezza attesa e inaspettata sia stata discussa in modo sommario attraverso una disamina assai rapida dei due modelli attualmente proposti per la sua spiegazione, tuttavia diventa cruciale comprendere i meccanismi che, a partire da essa, consentono al sistema di imparare e prendere decisioni in modo efficace in condizioni di incertezza.

Le riflessioni e i dati sperimentali presentati nella Perspective di Soltani e Izquierdo (2019) suggeriscono che il cervello, per poter “gestire” situazioni d’ incertezza, debba raggiungere un equilibrio, da una parte riducendo l’apprendimento quando l’ incertezza attesa è alta e dall’altra incrementandolo gradualmente in proporzione all’ incertezza imprevista.

I modelli che tentano di spiegare quest’interazione infatti potrebbero fornire informazioni decisive soprattutto in favore del campo della psichiatria computazionale per la quale, alcune condizioni psicopatologiche, come le dipendenze o i disturbi d’ansia, sembrano essere associate a fallimenti nella generazione di modelli accurati per la previsione di ricompense nell’ambiente o all’incapacità di saperli utilizzare in modo flessibile per guidare e indirizzare il comportamento (Vaghi, De Martino, Robbins et al., 2017).

Psicologi a scuola, avvio della professione e affiancamento ai medici di base. Verso quale futuro? – Gli Psicologi in Quirinale in occasione dei 30 anni della legge 56

Nel pomeriggio di mercoledì 19 Giugno, il Presidente Sergio Mattarella ha ricevuto in Quirinale una delegazione del CNOP (Consiglio Regionale Ordine Psicologi), in occasione dei 30 anni dalla legge 56 che regolamenta la figura dello psicologo in Italia.

 

La delegazione accolta dal Presidente è composta dal Dott. Fulvio Giardina e dalla Dott.ssa Anna Maria Ancona, rispettivamente presidente e vicepresidente del CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi – NdR); dal Segretario del Consiglio, Dott. Alessandro De Carlo, e dal Dott. David Lazzari, tesoriere del CNOP nonché Presidente dell’Ordine Psicologi Umbria.

Dalla Legge 56 alla figura dello psicologo in Italia oggi

E’ il 1989 quando la figura dello psicologo viene regolamentata in Italia grazie all’introduzione della Legge 56, conosciuta anche come Legge Ossicini, dal nome di Adriano Ossicini,lo psichiatra, politico e partigiano che si è reso promotore in quegli anni dell’istituzione dell’Ordine degli Psicologi. Da allora cosa è cambiato e cosa ancora cambierà?

Sebbene il ruolo degli psicologi sia un ruolo di primaria importanza nella promozione e nella tutela della salute, i dati ci rimandano a una realtà professionale non pienamente soddisfacente. Uno dei temi affrontati dal CNOP durante l’incontro è stata la difficoltà, da parte degli psicologi, nel realizzarsi come professionisti: ad oggi, quasi il 40% degli iscritti riscontra numerosi disagi legati allo svolgimento della propria attività, a partire da un reddito spesso poco decoroso.

Eppure circa il 9% degli italiani ha vissuto 4 o più esperienze avverse nel corso della vita e, come ricorda Giardina, l’Italia è un Paese che ha bisogno di un supporto concreto da parte degli psicologi. Basti pensare al mondo scolastico e a come questo sia coinvolto in tante problematiche, non solo e non più strettamente connesse alla didattica: gli insegnanti spesso sono soli, i ragazzi e le famiglie pure. Il rapporto insegnante-famiglia-alunno deve essere supportato e lo stesso Giardina fa sapere come ci sia un impegno da parte del CNOP nel promuovere al meglio la professione dello psicologo.

Il Presidente Mattarella si è detto consapevole del fatto che, soprattutto nel contesto scolastico e nel mondo degli enti locali, dove è importante fare prevenzione, vi è ancora una grande assenza di psicologi e, nel corso dell’inconro, ha mostrato un notevole apprezzamento per l’opera di prevenzione psicologica nelle scuole.

La collaborazione tra psicologi e medici di base

Tuttavia qualcosa sta cambiando:

La nostra professione è transitata da poco sotto l’alveo del ministero della Salute e ieri il Parlamento ha ratificato il decreto Calabria nel quale per la prima volta compare la figura dello psicologo delle cure primarie – ha ricordato il presidente Fulvio Giardina.

Il 18 giugno infatti è accaduto qualcosa di importante per noi psicologi: il decreto Calabria è diventato Legge con 240 voti favorevoli e 76 contrari. La Legge commissiona in toto la sanità calabrese e prevede anche diverse norme di interesse nazionale per la sanità. In particolare, data la carenza dei medici di medicina generale, qualora il medico volesse ampliare il numero di assistiti, dovrà avvalersi della figura dell’infermiere e dello psicologo. Un passo avanti per la nostra professione ma anche per il concetto di cura, non più limitata al solo “guarire il corpo”.

Investire:

in una buona Psicologia permetterà di sviluppare il potenziale umano in tutti gli ambiti, altrimenti avremo un impoverimento. Una persona potrà anche avere un alto reddito – sottolinea David Lazzari – ma potrà essere ugualmente una persona infelice.

Sempre in occasione dei 30 anni dalla legge 56, è prevista per oggi a Roma, in Piazza di Spagna, una giornata di approfondimenti dedicati alla Psicologia e al ruolo degli Psicologi. Diversi rappresentanti politici tra i partecipanti e numerosi i contributi accademici, con le novità di carattere scientifico.

Un’occasione per far capire cosa vuol dire essere psicologi, cosa possono fare gli psicologi per le persone e anche per se stessi e per la propria identità professionale, con la speranza di una crescita sempre positiva, fino ai prossimi trent’anni e anche oltre!

Il disturbo bipolare – Introduzione alla Psicologia

Il disturbo bipolare si manifesta attraverso evidenti alterazioni dell’umore, caratterizzate dalla presenza di episodi maniacali e depressivi.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il disturbo bipolare è una malattia mentale molto diffusa che colpisce circa 60 milioni di persone in tutto il mondo, secondo quanto riportato dall’organizzazione mondiale della sanità.

Si tratta, in sostanza, di un disturbo psichiatrico avente gravi implicazioni relazionali e sociali per coloro che ne sono colpiti. La prevalenza è circa 1%, similmente fra maschi e femmine.

Disturbo bipolare: tipologie

Il disturbo bipolare si divide in:

  • Tipo I, definito anche depressione maniacale. Il comportamento e l’umore della persona subiscono sbalzi repentini, adducendo alla perdita di controllo. Si presentano episodi maniacali e depressivi e in alcuni casi è necessaria l’ospedalizzazione.
  • Tipo II, è più comune e presenta sintomi ipomaniacali e depressivi. Questi segni sono più difficili da riconoscere e identificare come bipolarismo, sia dalla persona stessa che da chi la circonda.

Disturbo bipolare: neuroanatomia

Diverse ricerche hanno riscontrato che i neuroni dell’ippocampo delle persone affette da disturbo bipolare sono ipereccitabili e rispondono con una forte attivazione anche a stimoli che non provocano reazioni nei neuroni di soggetti sani. Tale scoperta ha permesso di capire i motivi per cui alcuni pazienti rispondono alla terapia con il litio, farmaco di riferimento per la cura di questo disturbo, e altri no. I neuroni di pazienti con disturbo bipolare, sono più sensibili agli stimoli delle cellule cerebrali delle altre persone e la mancata risposta di alcuni pazienti alla terapia con il litio è legata alla specificità di questi neuroni (Niu, 2017; Abé, 2016).

A livello neuroanatomico sono stati riscontrati dei cambiamenti funzionali a livello prefrontale correlati alla perdita di integrità di tratto di materia bianca, con relativa sindrome da disconnessione. I deficit cognitivi osservati in questi pazienti potrebbero quindi essere imputabili, almeno in parte, alla scarsa integrità della materia bianca prefrontale, la quale potrebbe causare interruzioni nelle connessioni cerebrali. La formazione e lo sviluppo di materia bianca ha inizio durante il periodo prenatale e continua fino all’inizio dell’età adulta; questo potrebbe far ipotizzare una presenza precedente di cambiamenti neuropatologici rispetto all’inizio della sintomatologia affettiva propria del disturbo (Rajkowska, 2002)

Inoltre, sono state evidenziate delle riduzioni significative a livello volumetrico in diverse regioni cerebrali. Si rilevano, dunque riduzioni nella densità e/o nelle dimensioni sia di neuroni che, di cellule gliali nella regione subgenuale della corteccia prefrontale mediale (riduzione del 41% nel numero di cellule gliali) e nella corteccia prefrontale dorsolaterale (riduzione della densità delle cellule gliali a livello lamino-specifico). Tali riduzioni pare siano derivabili da un alterato metabolismo del glucosio (Hanford, 2016).

Disturbo bipolare: gli ultimi studi di neuroimaging

Una nuova ricerca, eseguita attraverso l’utilizzo di tecniche di neuroimmaging, dimostra che le persone con disturbo bipolare presentano differenze nelle regioni del cervello che controllano l’inibizione e l’emozione (Whalley, et al., 2012).

Inoltre, sempre grazie alle neuroimaging, è stato possibile evidenziare delle alterazioni nella densità e nel numero dei neuroni nella corteccia prefrontale dorsolaterale a livello laminare nei tre sottostrati dello strato III e nei corpi neuronali negli strati II, III e V; nelle aree prefrontali e limbiche e nel Locus coeruleus livello bilaterale. Questi neuroni sono la principale fonte di norepinefrina del sistema nervoso centrale e alterazioni nelle proiezioni di norepinefrina a regioni neocorticali o sottocorticali limbiche potrebbero avere un ruolo nella fisiopatologia del disturbo bipolare (Doucet., 2017).

Disturbo bipolare: i neurotrasmettitori

Studi effettuati attraverso la tecnica delle staminali pluripotenti indotte (iPSC) hanno dimostrato che i neuroni di pazienti bipolari mostrano un’attività più elevata dei mitocondri, centrali energetiche delle cellule. Quindi, i neuroni dei pazienti bipolari mostrano una riduzione dell’eccitabilità dopo l’esposizione al litio, mentre coloro che sono resistenti al litio, continuano a essere ipereccitabili (Hibar, 2018).

Inoltre, la serotonina deve essere abbastanza presente per evitare il brusco e persistente calo dell’umore. Infatti una inibizione a carico della serotonina determinerebbe alterazione del tono dell’umore (Hibar, 2018).

La componente genetica del disturbo

Studi su gemelli e adozioni hanno fornito robuste evidenze circa la componente genetica del disturbo (McGuffin, et al., 2003) .

Occasionalmente, in alcune famiglie la suscettibilità per il disturbo bipolare è portata da un singolo gene, ma nella maggior parte dei casi esso deriva dall’interazione di più geni e da meccanismi complessi (Craddock & Jones, 1999). Sembra che sia una variazione del gene ANK3 a conferire il rischio per lo sviluppo di questa patologia, esso codifica per una proteina adattatrice trovata nel segmento iniziale dell’assone che regola l’assemblamento dei canali sodio voltaggio dipendenti.

Inoltre, anche il gene CACNA1C, che codifica per una subunità dei canali calcio voltaggio dipendenti, è associato a questo disturbo. L’espressione di entrambi è diminuita con la somministrazione di litio. Ciò potrebbe suggerire una concettualizzazione del disturbo bipolare come una patologia a livello dei canali ionici (Ferreira, et al., 2008; Sklar, et al., 2008). Il gene DGKH, importante per il passaggio da un lipide all’altro nell’ambito della segnalazione lipidica e anch’esso collegato al disturbo, sembra essere associato all’incapacità di disingaggiare (sopprimere) l’attività delle regioni del default-mode network, in particolare il giro frontale mediale sinistro, il precuneo sinistro e il giro paraippocampale destro (Whalley, et al., 2012).

Importanti sono anche i geni ODZ4, che codifica per proteine di membrana a passaggio singolo e NCAN, coinvolto nella migrazione ed adesione cellulare e nelle fasi maniacali del disturbo (ma non in quelle depressive). Il contributo poligenico per il disturbo è molto forte, mentre i singoli alleli possono avere un piccolo effetto. Diversi alleli, inoltre, portano una suscettibilità sia per il disturbo bipolare che per la schizofrenia, anche se in quest’ultima il loro ruolo è maggiore (Craddock, 2013).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Effetto di un training virtuale su ragazzi con disturbo specifico di apprendimento – Riccione, 2019

Che cosa sono i Disturbi Specifici dell’Apprendimento? Esiste un trattamento efficace?

Federica Liso, Elisabetta Ballerini, Luisana D’Alessandro e Francesca Tropea
Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto

 

Secondo il DSM – 5, i cosiddetti D.S.A. sono Disturbi Specifici dell’Apprendimento che possono differenziarsi in Dislessia (difficoltà nella lettura), Disortografia (difficoltà nella scrittura) e Discalculia (difficoltà nel sistema del numero e nel calcolo).

Introduzione: i DSA, diffusione e trattamenti d’elezione

Nel periodo di aprile 2018, vi è stata una crescita del numero di alunni con certificazione di D.S.A. a seguito dell’emanazione della legge n°170/2010. La lettura, la scrittura e il calcolo sono funzioni cognitive complesse, articolate in più processi, alcuni dei quali indagati nel corso degli anni, a cui corrisponde l’attività di numerosi circuiti cerebrali. Un intervento intensivo di training può avere un impatto a livello cerebrale e portare una riorganizzazione funzionale del cervello fino ad una sorta di ‘’normalizzazione’’.

Ad oggi esistono diverse forme con cui è possibile trattare il Disturbo Specifico dell’Apprendimento

  • il “Phonics Training”, in cui le abilità metafonologiche rappresentano le operazioni cognitive e linguistiche necessarie per tradurre le parole orali nel sistema simbolico scritto, consentendo al bambino di ‘’smontare’’ le parole, individuando le sillabe o i singoli suoni in esse contenute
  • l’“Utilizzo di Strategie Metacognitive”, dove l’intento è di insegnare al bambino a riflettere sul significato di ciò che ha letto e a fare inferenze su ciò che sta per leggere, usando le conoscenze pregresse per interpretare i contenuti di un brano e predire i contenuti che sta per leggere
  • l’”Uso di Videogame” d’azione che, determinando effetti positivi sull’attenzione visiva e spaziale, migliorano anche le competenze di lettura, così come è stato proposto da Sandro Franceschini nel 2013. Solo i bambini/e che riescono a incrementare il punteggio nella terapia con il videogioco velocizzano la lettura e migliorano la memoria uditiva a breve termine. Un miglioramento che otterrebbe un bambino con dislessia in un intero anno di sviluppo spontaneo (Franceschini, Bertoni, 2018). In letteratura, sono presenti studi scientifici che hanno già dimostrato come un trattamento sperimentale mediante l’uso di videogiochi d’azione fosse in grado di migliorare la velocità di lettura, le abilità attentive e la memoria verbale a breve termine (cioè quella dei suoni del linguaggio che viene impiegata quando leggiamo) in bambini con dislessia.

DSA: lo studio sul trattamento con i videogiochi

Il nostro studio, in particolare, è stato condotto ipotizzando, con uno studio di ricerca su 30 bambini, aventi un range di età di 9 – 14 anni, che l’utilizzo di una specifica categoria di videogiochi possa favorire lo sviluppo e il miglioramento delle abilità scolastiche di bambini DSA con effetti significativamente superiori rispetto ai training tradizionali. Sono stati presi in considerazione due gruppi: uno sperimentale, al quale è stato proposto un intervento di 10 sessioni di 30 minuti, utilizzando un gioco d’azione al computer; uno di controllo, al quale è stato proposto un training tradizionale. I test utilizzati nel pre e nel post sono stati: Span di cifre diretto e inverso, Attenzione Uditiva e Visiva, Fluenza fonemica e categoriale, Torre di Londra e Test di Corsi.

L’analisi ANOVA a misure ripetute ha mostrato un effetto di interazione significativo tra gruppi nelle seguenti prove: Span Diretto (F(1,28) = 0,41 p<.05); nella prova Torre di Londra, in particolare nel parametro della correttezza (F(1,28) = 2,01 p<.05); nella prova di Fluenza Categoriale (F(2,28) = p<.05).

L’ipotesi postulata nella progettazione di questo studio di ricerca risulta essere parzialmente confermata. L’utilizzo di un training diverso dai protocolli tradizionali, basato su un gioco d’azione al computer, sembra aver potenziato nei bambini del gruppo target la memoria a breve termine, le funzioni esecutive e la fluenza categoriale in linea con la letteratura corrente (Franceschini et al., 2013). Tali abilità cognitive di base risultano essere grandemente coinvolte negli apprendimenti scolastici. Questo lavoro pertanto seppur in una modalità ancora esplorativa, ha proposto una possibilità di potenziamento cognitivo alternativo agli interventi tradizionali caratterizzato da maggiore attrattività essendo basato sul gioco. Nel complesso questo lavoro di ricerca ha potuto contribuire ad implementare gli interventi non tradizionali per i bambini con DSA, nonostante l’importante limite della mancata considerazione del livello di pervasività delle diagnosi.

 

 

I legami e il dono. Dalla Good Enough Mother ai processi di differenziazione

Bowlby, al fine dello sviluppo del sé, individua tre stili di attaccamento: sicuro, evitante e ansioso. Egli sostiene che un attaccamento adeguato influisce al fine di evitare situazioni patologiche future come la depressione e gli stati d’ansia.

 

Le persone che in futuro svilupperanno tali patologie hanno vissuto esperienze di disperazione, di angoscia e di distacco durante l’infanzia. Bowlby, inoltre, introduce il concetto di cicli di privazione e di resilienza per descrivere le persone che hanno vissuto esperienze angosciose e di privazione durante l’infanzia.

In base alle sue ricerche notò che i soggetti che durante l’infanzia hanno vissuto esperienze di deprivazione e di abbandono tendono, una volta adulti, a ripetere gli stessi tipi di comportamento, anche se il vissuto può essere attutito dalla presenza di un fratello e/o di un ambiente particolarmente favorevole che riesca a sostituire le esigenze di caregiver.

Il dono nella relazione madre-bambino

Stern mette in risalto che la relazione madre-bambino non è direzionale ma bidirezionale e il bambino nell’ambito di questo rapporto assume una parte attiva portando all’interno della stessa relazione elementi legati all’ambiente di vita: il sé e l’altro.

Bion, analizzando la definizione di madre sufficientemente buona di Winnicott sostiene che essa permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo lei restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.

In sostanza la good enough mother riesce a trasmettere al figlio la fiducia e la speranza insita nella capacità di donare sapendo di poter essere ricambiati. Molte volte i genitori chiedono quali sono i comportamenti da adottare per essere buoni padri o madri, potremmo semplicemente rispondere di dare fiducia e speranza ai propri figli nei legami. L’importante non è commettere errori, ma riuscire, come sostenuto da Bettelheim, a imparare dai propri sbagli, di riflettere e riparare ben sapendo che il lavoro genitoriale è soggetto a molteplici frustrazioni. Per Winnicott l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando s’incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.

Quando la relazione madre-bambino non è all’insegna del dono

A volte, però l’errore non è riconosciuto tant’è che è stato introdotto il concetto di madre castrante, divorante, simbiotica per dimostrare che i maschi adulti che hanno avuto cattivi rapporti con la propria madre, tendono ad avere un rapporto non soddisfacente con le donne. Le madri castranti sono iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Esse vedono il figlio come un eterno bambino, anche se è già adulto, spesso si riferiscono a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile.

Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia, anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, gli piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione: è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua.

L’incapacità a donare porta i figli ad instaurare relazioni non incentrate sull’amore ma solo sul soddisfacimento delle proprie esigenze narcisistiche. G. Cortesi sostiene che

se alle spalle – magari non ricordato, magari rimosso o negato, magari coperto dal mito di una madre idealizzata – c’è un accudimento materno o troppo divorante o troppo rifiutante e castrante (la carenza materna è sempre comunque espressione di una coppia genitoriale carente), quel maschio non riuscirà da adulto ad affidarsi al femminile, non saprà e – soprattutto – non potrà vivere la dolcissima avventura di tuffarsi nel magico e trasformante potere della femmina, affidandosi al suo abbraccio e penetrandone il mistero.

Le esigenze narcisistiche tendono al possesso dell’altro in contrapposizione al mancato possesso dell’amore materno e giacché tali a una relazione di coppia patologica.

Relazione madre-bambino e sviluppo di psicopatologie

Anche le esperienze di abbandono infantile comportano lo sviluppo di esigenze narcisistiche che comportano relazioni tese al non riconoscimento delle esigenze dell’altro. Se volessimo sintetizzare, il bambino piccolo piange e si dispera non appena la madre si allontana sperimentando l’angoscia da separazione. La perdita della persona che ci accudisce rappresenta un lutto ed è vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sé. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro e a una visione catastrofica della vita e del mondo. Le esperienze di perdita e di abbandono nell’adulto possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sé come vulnerabile, destinato a essere ferito, rifiutato nei rapporti.

La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sé, come persona degna di amore. Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sé il fantasma dell’abbandono e del dolore insostenibile che comporta. Spesso soggetti di questo tipo tendono a sviluppare il disturbo ossessivo compulsivo in cui la percezione di un abbandono o un abbandono realmente vissuto diventano il substrato su cui si sviluppa lo stesso disturbo.

Nella mia pratica clinica ho sempre ritrovato al di sotto del DOC un vissuto di abbandono. Riporto il caso di un paziente dell’età di 35 anni che da circa 20 anni convive con i rituali e le rimurginazioni tipiche del disturbo. La sua vita è totalmente invasa dal disturbo poiché deve svolgere il rituale all’avvicinarsi di determinati numeri che cambiano di volta in volta. A volte il numero può essere il 6 per cui deve ripetere il rituale per almeno nove volte se lo ha fatto sei volte e cosi via. Il pensiero ossessivo che deve essere sconfitto dai rituali è che in assenza delle ripetizioni si possa sviluppare un’alta velocità che comporterebbe disastri alle persone care e, in particolare, i familiari. Nella fase sociale del primo colloquio il paziente racconta che all’età di 5 anni la mamma, a seguito di una malattia del fratello, lo ha dovuto lasciare per parecchio tempo e che successivamente era rimasto sempre con la nonna poiché ambedue i genitori si sono dovuti trasferire per lavoro. I bambini, non in grado ancora di razionalizzare i motivi che stanno alla base della scomparsa o dell’allontanamento delle figure di attaccamento, reagiscono al vissuto di abbandono attraverso sentimenti di svalutazione e di colpa. I miei genitori sono andati via perché ho commesso qualcosa di grave o non ho fatto qualcosa. E’ evidente che, successivamente, per sfuggire all’angoscia dell’abbandono metaforicamente attraverso i rituali tendono a controllare i vari avvenimenti di vita. Non è un caso che il paziente in questione dopo aver vissuto per anni lontano dalla famiglia e di essersi sottoposto a un percorso terapeutico aveva raggiunto un buon compenso sul piano sintomatologico. Al ritorno in Sicilia e all’interno della famiglia di origine ha avuto immediatamente una ricaduta sul piano sintomatologico. Questo caso non fa altro che sottolineare l’importanza che assume il care giver lungo le fasi dello sviluppo.

Il dono nella relazione madre-bambino secondo la psicoanalisi

La psicoanalisi ha avuto il merito di analizzare in profondità il care giver materno e ha previsto dei modelli predittivi per l’instaurarsi di patologie future. In sostanza ci ha detto che se gli atomi non si differenziano non si può creare, come affermato in precedenza, lo spazio intersoggettivo e quindi, i legami. Al contrario, non ha, se non marginalmente, tenuto conto che il soggetto vive in un ambiente relazionale che può colmare le lacune del cargiver materno.

A questa lacuna sembra rispondere Hartmann, uno psicoanalista americano, che alla fine degli anni ’30, pur affermando l’esistenza del conflitto tra l’Io e l’Es e la forza delle pulsioni, sposta la sua attenzione sul conflitto tra l’Io e il mondo esterno ovvero la relazione tra i bisogni dell’Io, e quindi non necessariamente inconsci, e le richieste dell’ambiente. In quest’ambito la patologia può anche nascere dal mancato adattamento all’ambiente o dalle relazioni con gli altri e dal confronto con i ruoli sociali.

Sullivan, partendo dal presupposto che l’uomo è un essere sociale che cresce in interazione con la comunità in cui vive, afferma che lo sviluppo del bambino dipende dal suo bisogno di essere approvato dalle persone per lui significative in modo da interiorizzare un senso di sicurezza. Al contrario, senza tale approvazione, il bambino prova un senso di malessere che lo porta a costruire un sistema del sé caratterizzato dall’angoscia di base. A seguito delle ricerche cliniche di Sullivan, in America una scuola denominata modello relazionale psicoanalitico, di cui il maggior rappresentante è Mitchel, parte dal presupposto che le persone sono strutturate in maniera tale da essere attratte una dall’altra. Tale modalità è definita da Mitchel “relazionale per destino” e la mutua da Bolwby il quale nella teoria dell’attaccamento sostiene che la relazione è un bisogno fondamentale innato del bambino.

Il dono: seguito naturale della differenziazione con la nascita

Ritornando alla chimica, gli atomi si uniscono tra di loro in base alle loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche e, quindi, possiamo senza dubbio affermare che contengono nella loro natura la predisposizione e l’esigenza di legarsi.

D’altronde tutto parte da una serie di atomi, che si legano attraverso il legame covalente per formare il DNA e l’RNA, che costituiscono le basi su cui si costruisce il corpo umano. In sostanza, noi siamo formati da atomi che legandosi costruiscono le molecole, che unendosi a loro volta, fabbricano le cellule. Quest’ultime legate formano i tessuti, che messi insieme danno origine agli organi i quali plasmano gli apparati e, per finire, quest’ultimi legandosi il corpo umano. Questo in sintesi è il formarsi di ciò che definiamo il biologico.

Nel biologico tutti gli elementi tendono a differenziarsi, a riconoscersi per differenza e nel momento in cui s’inglobano o si legano, perdono la loro soggettività in favore di un terzo soggetto al quale si sentono di appartenere: dire mano, al massimo, significa che è formata da cinque dita. A nessuno di noi, se non per interessi scientifici, verrebbe di specificare le singole cellule, molecole o, peggio ancora, atomi che formano la mano. Al contrario, i singoli atomi, le singole cellule o molecole si riconoscono nella mano.

D’altronde, come ci insegna la gestalt, la percezione, e non solo per un fatto culturale, si presenta come un tutto unico, come una struttura e non come la somma dei singoli elementi. Lo stesso accade al biologico che si presenta ed è percepito come una struttura unica e non divisa per singoli elementi. Sempre nel biologico accade un processo che perdendo ci fa acquistare autonomia: il parto, la nascita.

Il feto che vive in totale simbiosi con la madre e che vede tutti i suoi “desideri” soddisfatti arriva al punto in cui per conquistare la sua autonomia “decide” di perdere la sua serenità e, quindi, di nascere. E’ dal momento in cui inizia il meccanismo del parto che il soggetto tende a differenziarsi dalla madre e, se volessimo andare più indietro, è dal momento del concepimento che inizia il processo di differenziazione. Durante la meiosi la nuova cellula, anche se contiene le informazioni genetiche delle precedenti, non ne è la loro somma. Se la nuova cellula è il primordio di un nuovo individuo: ecco l’inizio del processo di differenziazione.

La trasformazione del biologico in culturale abbisogna di un, per dirla con Freud, lavoro psichico che, a mio parere, sta all’interno dei processi di differenziazione che trovano riscontro all’interno degli spazi intra e interpsichici il cui presupposto centrale sono i legami.

Come rafforzare e sopprimere le memorie artificialmente

Il nostro comportamento è grandemente influenzato dalla nostra vita passata, eppure non ricordiamo le cose solo perché ci sono successe, ma anche perché, pensandole, le riviviamo nella nostra mentre.

Lorenzo Mattioni

 

Le emozioni legate ai nostri ricordi guidano quello che facciamo, ma con il tempo possono cambiare. Le modalità attraverso le quali possiamo registrare, immagazzinare ed utilizzare le informazioni sono argomenti fondamentali per la ricerca psicologica e neuroscientifica. Una recente ricerca (Chen, et al., 2019) potrebbe aver dimostrato come modificare in modo artificiale questi processi, offrendo uno sguardo sul possibile futuro di diverse tecniche terapeutiche.

Memorie ed emozioni

Ciò, a livello neurale, è fortemente legato al sistema limbico, le cui strutture integrano emozioni, comportamento, motivazione e memoria a lungo termine. Fra queste, l’ippocampo gioca un ruolo fondamentale nella consolidazione delle diverse informazioni dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Esso possiede domini distinti che guidano la cognizione e le emozioni. Le regioni dorsali codificano informazioni spaziali, temporali e contestuali, sono infatti estensivamente connesse alla corteccia retrospleniale e al cingolato anteriore, critici per il processamento visuospaziale, mentre le regioni ventrali sono implicate nella regolazione dello stress e nello stato emotivo. Sono connesse ad aree quali amigdala e corteccia prefrontale, implicate nel processamento emotivo. Capire come l’attività lungo l’asse longitudinale di questa struttura moduli il comportamento potrebbe portare ad una maggiore comprensione della relazione fra disturbi mentali ed emozioni, memoria e percezione.

Ma, mentre vi sono evidenze che inducendo l’attivazione delle cellule dell’ippocampo dorsale è possibile ottenere l’espressione comportamentale di memorie positive e negative sul modello animale, come quella della zona ventrale possa guidare questi comportamenti non è ancora del tutto chiaro.

Recupero artificiale di memorie: lo studio di Chen

Usando manipolazioni optogenetiche, Chen e colleghi sono riusciti per la prima volta a rafforzare e sopprimere artificialmente, in modo netto, permanente e differenziato, memorie specifiche, attivando selettivamente diversi gruppi di cellule lungo la linea dorsoventrale dell’ippocampo.

I ricercatori hanno prima etichettato i neuroni attivi durante la registrazione di memorie negative (scossa elettrica), positive (esposizione a femmina conspecifica) e neutre (esplorazione) in topi da laboratorio, sia nell’area ventrale che in quella dorsale, in modo da poterne gestire selettivamente la funzionalità. L’attivazione dei neuroni contrassegnati in entrambe le aree ha portato rispettivamente a comportamenti di freezing ed evitamento per gli engrammi fobici, preferenza spaziale per le memorie positive e nessun cambiamento per quanto riguarda l’esplorazione.

In un secondo esperimento, dopo che le cellule relative alle diverse memorie sono state contrassegnate, gli autori hanno posizionato le cavie in un nuovo contesto, nel quale sono state sottoposte ad un’attivazione optogenetica cronica degli engrammi nella zona ventrale o dorsale dell’ippocampo.

Recupero artificiale di memorie: risultati dello studio e prospettive teapeutiche

Dopo 24 ore, in assenza di stimolazione artificiale, i topi sottoposti a stimolazione cronica dorsale mostravano una riduzione del freezing contesto-specifico, mentre quelli ad attivazione cronica ventrale un aumento di questo fenomeno, indipendentemente dal numero di scosse effettivamente ricevute. A livello circuitale ciò sembra essere connesso alla significativa sovrapposizione del processamento a livello dell’amigdala basolaterale, collegata ai comportamenti in risposta a stress e paura, e dell’area ventrale, ma non a quella dorsale.

I risultati mostrano come il protocollo utilizzato sia in grado di riprogrammare funzionalmente il processamento di memorie discrete, per le quali la zona dorsale e ventrale dell’ippocampo hanno funzioni diverse nell’espressione cerebrale e comportamentale della formazione e del recupero delle memorie. È attivando di continuo le componenti emotive del ricordo che si ottiene un aumento nella risposta emotiva successiva, attivando invece quelle contestuali se ne otterrà la riduzione. Lo studio del riconsolidamento degli engrammi rappresenta un futuro nodo terapeutico, questi potrebbero esserne gli inizi.

L’ideologia politica sarebbe predeterminata geneticamente

Quasi tutte le persone pensano che arriviamo a delle personali opinioni politiche con un ragionamento accurato e un esame imparziale delle prove a nostra disposizione. Non secondo gli studi di John Alford della Rice University, che riguardano il comportamento politico e la biologia della politica, le basi biologiche del comportamento umano politico e sociale.

 

Alford ha dimostrato che i gemelli identici, che condividono tutti gli stessi geni, hanno più probabilità di condividere opinioni politiche rispetto ai gemelli fraterni, che condividono solo circa il 50 per cento dei loro geni.

Orientamento politico: lo studio sulla genetica

Alford, che ha studiato questo argomento per molti anni, insieme al  suo team ha analizzato i dati di pareri politici di oltre 12.000 gemelli negli Stati Uniti e li ha integrati con i risultati di due gemelli in Australia. Alford ha scoperto che i gemelli identici sono più propensi ad accordarsi su questioni politiche di quanto non lo fossero i gemelli fraterni. Sulla questione relativa al pagamento delle tasse, ad esempio, un sorprendente quattro quinti di gemelli identici condividevano la stessa opinione, mentre solo i due terzi dei gemelli fraterni concordavano.

Studi successivi fatti all’Università della California hanno mostrato che esistono reali differenze biologiche nel modo in cui i cervelli elaborano le informazioni tra persone con differenti opinioni politiche. Gli scienziati ritengono di aver persino isolato un gene che rende le persone più propense a votare, il gene denominato MAOA.

Genetica, orientamento politico e voto: gli studi

Infatti secondo James Fowler scienziato dell’Università della California, i nostri geni possono influenzare non solo il nostro punto di vista politico, ma anche la nostra spinta a votare. In uno studio pubblicato nel Journal of Politics, Fowler ha scoperto che le persone con una versione particolare del gene MAOA avevano 1,3 volte più probabilità di votare rispetto a quelle con una versione diversa. Inoltre, i membri di gruppi religiosi portatori di una particolare versione di un altro gene chiamato 5HTT avevano il 60% di probabilità in più di votare rispetto ai membri di gruppi religiosi con una diversa versione del gene.

Insomma sembra che la predestinazione genetica possa determinare in larga misura comportamenti in ambito politico.

Lo stesso James Fowler dell’Università della California, San Diego, così si è espresso sui risultati di questi studi di ricerca:

Quello che abbiamo scoperto è che la natura è importante tanto quanto la cultura quando si tratta di comportamenti politici.

John Alford similmente afferma, a seguito dei suoi studi, che essere di destra o di sinistra non dipende dalla nostra volontà, ma da fattori biologici.

Sembra dunque che la cultura, l’ambiente, le influenze familiari, le opinioni personali, non siano sufficienti da soli ad innescare la scelta ideologica e politica di un soggetto.

Orientamento politico: cosa lo determina

Le influenze ambientali come l’educazione, suggerisce lo studio, giocano un ruolo più centrale nell’affiliazione di partito come democratico o repubblicano, proprio come avviene nella scelta di una squadra sportiva.

I genetisti che studiano il comportamento e la personalità hanno saputo per 30 anni che i geni svolgono un ruolo importante nelle risposte emotive istintive delle persone a determinati problemi, il loro temperamento sociale.

Non è che le opinioni su questioni specifiche siano scritte nel DNA di una persona. Piuttosto, i geni stimolano le persone a rispondere con cautela o apertamente ai costumi di un gruppo sociale.

Solo di recente i ricercatori hanno iniziato a esaminare come queste predisposizioni, in combinazione con l’infanzia e le successive esperienze di vita, modellano il comportamento e l’orientamento politico.

Le tendenze politiche possono essere considerate come essere mancino o destroso.

Alford dichiara:

Tu sei nato sentendoti più naturale usando una mano o l’altra, ciò non significa che non puoi cambiare: per molti anni ai mancini è stato insegnato di essere dei destri, ma non è facile.

Votare: dipenderebbe anche dallo sviluppo di alcune aree cerebrali

John Alford prosegue rilasciando questa dichiarazione:

Quello che abbiamo scoperto è che probabilmente ci vorrà più di un annuncio televisivo persuasivo per cambiare la mente di qualcuno su una determinata posizione politica o atteggiamento, i singoli geni per i comportamenti non esistono e nessuno nega che gli umani abbiano la capacità di agire contro le predisposizioni genetiche, ma correlazioni prevedibilmente dissimili di atteggiamenti sociali e politici tra persone con genotipi maggiori e meno condivisi suggeriscono che i comportamenti sono spesso modellati da forze di cui la persona stessa non è coscientemente consapevole.

John Alford crede che gli scienziati siano troppo rapidi nel voler respingere la genetica e la sua influenza in ambito ideologico e politico; piuttosto, crede che la genetica dovrebbe essere studiata e insegnata insieme alle influenze socio-ambientali.

Infatti afferma

È stato dimostrato che la genetica svolge un ruolo in una miriade di diverse interazioni umane perché dovremmo escludere credenze e atteggiamenti politici?

Un’altro studio che tocca questo pensiero è quello coordinato da Ryota Kanai della University College di Londra ha portato a risultati similari. Kanai e colleghi hanno analizzato 90 studenti, valutandone le idee politiche con una scala da uno a cinque, dal più conservatore al più liberale. Successivamente, il team di neuroscienziati ha utilizzato l’imaging a risonanza magnetica per studiare in dettaglio il cervello degli studenti.

I risultati indicano come i conservatori abbiano un’amigdala più sviluppata, mentre i liberali siano caratterizzati da una corteccia cingolata anteriore più estesa. Infatti l’amigdala è coinvolta nei processi di risposta a stimoli di minaccia e di paura, mentre la corteccia cingolata anteriore diventa più attiva in situazioni di conflitto o incertezza. In base a questi risultati, Kanai ha dichiarato di poter predire le idee politiche dalla sola scansione del cervello con un’accuratezza del 75%.. La ricerca fin qui fatta non ci dice che le convinzioni politiche sono innate nel cervello, ma mostra un possibile legame fra le differenze neuroanatomiche e quelle politiche. Così come la ricerca genetica mostra le correlazioni genetiche con l’ orientamento politico.

Cafarnao – Caos e miracoli. La storia di Zain – Recensione del film

Cafarnao è un film che scava dentro all’abisso emotivo fino a togliere il respiro. Struggente, straziante, realistico e crudo ma altrettanto traboccante di umanità. Duro, ma costantemente attraversato da un filo di speranza.

 

Titolo originale : Capharnaüm – Un film di Nadine Labaki.
Con : Zain al-Rafeea, Kawthar Al Haddad, Fadi Kamel Youssef, Cedra Izam
Drammatico – Libano, 2018

 

Cafarnao – Caos e miracoli si apre con un atto simbolico e provocatorio: il dodicenne Zain decide di fare causa ai suoi genitori per averlo messo al mondo senza offrirgli amore, sostentamento e cure.

Si ripercorre così, in un lungo flashback, la storia di questo bambino e dei suoi fratelli che crescono in condizioni di povertà estrema, abbandonati totalmente a loro stessi.

Del legame privilegiato di Zain con la sorella Soah.

Dei genitori che vivono di espedienti e non posseggono gli strumenti, né la sensibilità di capire quali bisogni abbiano i figli.

Dell’incontro con Rahil, immigrata etiope, e il figlio Yonas.

E di un groviglio di strade, di incontri con loschi individui e di vicende complesse e intricate.

Cafarnao è un film che scava dentro all’abisso emotivo fino a togliere il respiro.

Fa male, come un pugno che arriva dritto allo stomaco.

Talmente scomodo e ingombrante da far percepire allo spettatore il desiderio di uscire dal cinema anzitempo e contemporaneamente da tenerlo incollato alla sedia fino all’ultimo istante.

Cafarnao è struggente, straziante, realistico e crudo ma altrettanto traboccante di umanità. Duro, ma costantemente attraversato da un filo di speranza.

È un film da vedere. Che ti spinge, ti costringe a guardare quello che accade nella porta accanto, a considerare quello che parrebbe distante da chiunque, ma che così distante certamente non è.

I personaggi del film

In Cafarnao ogni personaggio del film ha una doppio risvolto e si divide tra ciò che desiderebbe fare e ciò che è costretto a fare per sopravvivere.

Zain – il protagonista – è un bambino che manifesta un’elevata resilienza. È spinto dal contesto sociale a prendere decisioni inadeguate per la sua età e a esserne responsabile. Nonostante percepisca costantemente di essere ignorato – in particolare dai genitori – tenta in tutti i modi di fare sentire la sua voce e lotta per costruirsi un’identità.

Zain non è felice di essere nato, perché deve combattere ogni giorno per sopravvivere. Non ha mai conosciuto la spensieratezza tipica dei bambini: fin da subito infatti è dovuto diventare adulto, adoperandosi quotidianamente per procurarsi i soldi e per scampare ai pericoli e alla morte.

Non sorride mai, durante la pellicola. I suoi occhi esprimono profonda tristezza, ma anche rabbia e voglia di reagire e di sognare.

In un qualche modo, riesce a guardare oltre la miseria e la povertà, battendosi per un mondo migliore e riuscendo, pur non avendo ricevuto amore, a prendersi totalmente cura di qualcuno (per esempio sua sorella Soah o il bimbo Yonas) facendo o inventandosi qualsiasi cosa pur di proteggerlo.

Dall’altra parte ci sono i suoi genitori. Un padre e una madre che non danno affetto ai loro figli, non hanno alcun mezzo per poterli mantenere e curare, li mandano a lavorare o li costringono a sposarsi. Sono due disgraziati, inconsapevoli, che lo spettatore può arrivare contemporaneamente a detestare e commiserare. Ritengono di dover assecondare le leggi della natura assolvendo all’unico compito della procreazione, partendo dall’inconfutabile concezione che la vita sia sempre e comunque un dono.

Nascere, esistere nonostante tutto: anche se nel disagio, nella povertà e nella sofferenza.

I genitori di Zain sono vittime – vissute nel degrado e nella miseria a loro volta – che diventano carnefici, perpetuando le stesse condizioni per i figli. Pensando di dover solo concepire e mettere al mondo, ritenendo di non avere nessun’altra scelta e di non doversi occupare più di nulla dopo la nascita. Neanche di registrare i propri figli all’anagrafe.

Zain e i suoi fratelli infatti per lo Stato non sono nati, non esistono. Non possono godere di diritti umani nè possono ricevere alcuna cura sanitaria. Rischiano ogni giorno di andare incontro alla morte senza che nessuno se ne accorga.

La decisione del protagonista di fare causa ai suoi genitori, rappresenta un gesto simbolico a nome di tutti i bambini che – non avendo chiesto di nascere – rivendicano il diritto di poter essere amati e curati.

E quando, alla fine, Zain riuscirà a ottenere il suo primo documento di identità – finalmente – sorriderà.

Per la prima volta, avrà la sensazione… di esistere.

 

CAFARNAO – GUARDA IL TRAILER

Facilitare la comprensione del testo in inglese senza ricorrere alla traduzione

Il processo di comprensione non equivale a quello di traduzione nell’apprendimento di una lingua straniera. Tradurre implica infatti la capacità di collegare due parole appartenenti a due diversi codici, comprendere invece consente di collegare una parola ed un concetto.

 

Una delle decisioni che si devono prendere quando si struttura un corso su una lingua straniera è come veicolare i messaggi in lingua agli alunni. Qui ci sono due scuole di pensiero che si contrappongono: coloro che reputano non ammissibile l’uso della lingua ponte, ovvero della traduzione, per facilitare la comprensione degli alunni, contro coloro che sostengono che i messaggi possano essere parzialmente tradotti per facilitare la comprensione da parte degli alunni.

La comprensione del testo è effettivamente un punto di grande importanza, ed è quindi normale che attorno ad esso si confrontino opinioni diverse. La comprensione del testo, orale o scritta, è la condicio sine qua non perché le informazioni siano ritenute. Non potremo apprendere efficacemente o acquisire una parola di cui non abbiamo compreso il significato, tantomeno sarà possibile incamerare alcune informazioni da un testo sostanzialmente incompreso.

L’importanza della comprensione nell’apprendimento di una lingua straniera

È stato proprio durante gli anni ’90, nell’ambito delle ricerche condotte nei Paesi bilingui (come ad esempio il Canada), che si è compresa appieno l’importanza della comprensione per l’acquisizione linguistica. Le ricerche hanno riscontrato che, immergendo semplicemente gli alunni in una lingua a loro non famigliare e quindi incomprensibile, in modo non strutturato, non si verificavano buoni progressi linguistici. L’esperimento consisteva nell’esporre ragazzi a lezioni non linguistiche (ma inerenti ad una materia curriculare) in una lingua non nota. L’esposizione era massiccia e consistente, tuttavia si riscontrò che gli alunni non miglioravano la loro conoscenza della lingua in modo davvero significativo, sicuramente meno di quanto ci si sarebbe attesi.

In altre parole, l’esposizione, pur massiva e continuativa, non bastava da sola a portare gli alunni ad essere fluenti o bilingui. Al contrario, migliori progressi sono stati riscontrati dove, accanto ad un’esposizione regolare, ci sia stata una strutturazione tale delle lezioni tale da permettere ai ragazzi di comprendere i contenuti.

Sia dal punto di vista dell’efficacia dell’insegnamento linguistico che dal punto di vista della motivazione, creare le condizioni per cui il discente capisca è davvero il primo obiettivo dell’insegnante.

Ma perché l’alunno capisca è necessario tradurre?

Io direi di no. La traduzione, ovvero collegare due parole (appartenenti a due diversi codici) è una cosa diversa dalla comprensione, per cui si collegano una parola ed un concetto. Si può comprendere, senza essere in grado di tradurre.

Ma ci sono differenze anche più sottili. In primo luogo, la traduzione è una operazione consapevole. Tipicamente, si traduce parola per parola, o almeno frase per frase. La comprensione, invece, può essere anche implicita e globale. Si può capire il contenuto, pur non essendo certi del significato delle singole parole.

Nel 1979 Oller ha introdotto il concetto di Expectancy Grammar come elemento che sta alla base dei processi di comprensione: la capacità di ipotizzare quello che verrà detto o scritto in un dato contesto.

Cosa permette di fare anticipazioni efficaci?

  • La consapevolezza situazionali (argomento, intenzioni dei parlanti…)
  • La ridondanza, ovvero supplementi di informazione reperibili nel contesto, nel cotesto e nel paratesto
  • La conoscenza del mondo, o enciclopedia

L’anticipazione è un meccanismo essenziale per il processo di comprensione, in lingua madre come in L2. Il nostro cervello raccoglie tutti gli elementi di cui dispone per fare ipotesi che lo aiutino ad orientarci nel testo, disambiguare omofoni, creare gerarchie e relazioni.

Mentre ascoltiamo o leggiamo, altre parole, il nostro cervello cerca di predire ciò che comparirà successivamente nel testo: è proprio questo il meccanismo di “capire”. Non solo riconosciamo le parole dalla loro forma globale (in lettura) o dall’incipit (in ascolto), ma cerchiamo anche di costruire anche il significato delle frasi prima di averne letto o ascoltato la conclusione. È grazie a queste operazioni inconsce di anticipazione che siamo in grado di sostenere la velocità di una conversazione e dare risposte in tempo reale.

È molto importante pianificare e strutturare con grande attenzione le condizioni di esposizione degli alunni alla lingua straniera, in modo da aiutarli a comprendere in modo almeno globale, senza avere bisogno della traduzione.

Se un bambino sa che tutto ciò che ascolta sarà tradotto, non farà lo sforzo di comprendere il messaggio direttamente in inglese: questo è assolutamente intuitivo. Ma il problema non è solo questo. La traduzione è di fatto l’aggiunta di un passaggio cognitivo innecessario (parola-parola), che media anziché puntare all’insorgenza spontanea della emersione del significato, ovvero corrispondenza cosa-parola.

In questo articolo parleremo di alcuni accorgimenti che possiamo adottare per aiutare i bambini ad anticipare e comprendere meglio i messaggi in L2, senza dovere ricorrere alla traduzione per arrivare a comprenderne il senso generale.

  • Dare informazioni aggiuntive

Facciamo un esempio che tutti hanno sperimentato: poniamo di guardare un film in inglese e accorgerci che non siamo in grado di capire quasi nulla. Nemmeno sentiamo le singole parole, ma a parte alcune che riusciamo ad isolare percepiamo una stringa di suoni in cui non riusciamo a distinguere dove iniziano e dove finiscono parole e frasi. Proviamo a vedere lo stesso film con i sottotitoli in lingua inglese… e notiamo che siamo in grado di riconoscere molto meglio le parole all’udito. Perché? Perché la lettura è stata più veloce dell’ascolto (questo capita agli adulti allenati di solito) quindi il cervello riconosce quello che sa già che dovrà arrivare.

Questo è un caso limite, proviamo a fare un altro esempio. Confrontiamo la visione di un notiziario radio (un testo di solito difficile) senza indicazioni, con un notiziario nel quale si vedano immagini e didascalie che spiegano di cosa sta parlando lo speaker. Noterete che comprendete molte più parole e frasi. È un po’ come muoversi in un luogo sconosciuto, ma con dei punti di riferimento.

Avete mai provato a leggere un brano senza alcuna informazione, e leggere lo stesso brano, di cui avete informazioni sul testo cui appartiene, sulle intenzioni dell’autore, sulla storia dei protagonisti etc.? A parità di competenza linguistica, la comprensione del medesimo testo sarà molto più facile nel secondo caso perché il cervello sulla base delle informazioni che ha potrà fare ipotesi in modo piu efficiente.

A livello di parlato, pensate quante informazioni traete dal tono di voce, la mimica, l’espressività (che vi danno info sulle intenzioni dell’autore!) .

La constatazione è sempre la medesima: avere informazioni contestuali, culturali, pragmatiche risulta molto facilitante per comprendere il testo senza avere bisogno di conoscere il significato di ogni parola.

  • Elicitazione

Si definiscono “elicitazione” tutte quelle attività volte a stimolare negli allievi l’anticipazione dei conteuti di un testo, portandoli a riflettere sugli elementi del “paratesto”: titoli, illustrazioni, didascalie, conoscenze sull’autore etc. L’elicitazione può passare anche dall’esplorazione delle parole chiave.

Partendo dalla focalizzazione delle parole chiave, l’alunno può facilmente “costruire” il significato del testo. Le parole chiave non devono necessariamente essere tradotte: possiamo fare arrivare al significato gli alunni, proponendo dei match parola-immagine o parola-definizione o proporre dei cloze (parole nel contesto, ove il contesto sono frasi semplici), ad esempio. Affrontare il testo con un mente le parole chiave è sicuramente un esempio di anticipazione che aiuta la comprensione.

3 passi per migliorare la comprensione del testo senza ricorrere alla traduzione

  1. Attività di prelettura

Prima di leggere o ascoltare il testo è molto consigliabile condurre delle attività preliminari, tra cui l’esplorazione delle parole chiave (elicitazione) e discussione del contesto e del paratesto. Osservate gli elementi che avete: illustrazioni, didascalie e titolo, esaminate le informazioni a disposizione sull’opera, sistematizzate ed esplorate il procedimento.

2. Guidare il processo di anticipazione

L’attivazione della expectancy grammar è strategica per l’imparare a imparare, poiché è la base di qualsiasi abilità ricettiva, trasversale a tutti i contesti comunicativi. In quanto tale, nonostante sia un procedimento inconscio, guidarlo in modo esplicito è utile per la definizione di strategie cognitive utili. Abituate i ragazzi a fare ipotesi, conducendo un percorso consapevole dei meccanismi inconsci che la mente attua quando ha a che fare con un testo.

3. Scaffolding

La nozione di scaffolding si basa sul concetto di sviluppo prossimale. La comprensione del testo si raggiunge costruendo gradualmente le attività preliminari che la compongono. Immaginate questo processo come una sequenza di testi graduati, dal più semplice al più difficile, ma anche come sequenza di supporti (dimostrazioni pratiche, esempi guidati, indizi) dati al “fare” dei ragazzi. L’impalcatura sarà più robusta all’inizio e poi si andrà gradualmente alleggerendo, mentre gli alunni acquisiscono le competenze e vanno verso l’autonomia.

MDMA e psicoterapia: efficacia nel trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico

Il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) è una psicopatologia fortemente invalidante che ha una prevalenza del 4% a livello globale (Koenen et al., 2017).

 

I sintomi del PTSD comprendono pensieri e ricordi intrusivi, effetti negativi sui pensieri e sull’umore, iper-reattività agli stimoli legati al trauma ed evitamento. Le persone affette da questo disturbo sperimentano frequentemente una forte riduzione della qualità della propria vita e delle proprie relazioni.

I trattamenti esistenti per la cura del PTSD, in particolare di tipo psicoterapeutico e farmacologico, non risultano efficaci per tutti i pazienti affetti dal disturbo.

PTSD: efficacia dei trattamenti psicoterapeutici e farmacologici

In un recente studio condotto a livello internazionale da Mithoefer e colleghi (2019) è stato messo in luce che l’uso combinato di psicoterapia e MDMA, o ecstasy, può risultare una forma di trattamento efficace per il Disturbo da Stress Post Traumatico. L’ MDMA è una sostanza sintetica psicoattiva appartenente alla classe delle feniletilamine dagli effetti stimolanti ed entactogeni, ovvero predisponenti al contatto interiore. L’interesse per il potenziale terapeutico dell’ MDMA, specialmente in relazione a psicopatologie correlate a traumi, si sviluppa nel contesto del potenziale dell’MDMA di catalizzare il processo psicoterapeutico facilitando la comunicazione tra terapeuta e paziente.

L’ MDMA ha cominciato ad essere utilizzata come sostanza ricreativa nel corso degli anni ottanta del secolo scorso, arrivando ad essere classificata come sostanza illegale negli Stati Uniti nel 1985. Tale classificazione ha reso l’uso di questa sostanza illegale in psicoterapia, portando a ostacoli per la ricerca clinica.

MDMA nel trattamento del PTSD: uno studio di efficacia

Nello studio preso in esame sono stati esaminati sei trial clinici condotti dal 2004 al 2017 negli Stati Uniti, in Svizzera e in Israele, i quali hanno coinvolto un totale di 105 partecipanti. I soggetti erano uomini e donne che riportavano sintomi di PTSD da almeno sei mesi ed erano già stati sottoposti a terapie specifiche senza aver riportato un miglioramento significativo. La procedura sperimentale prevedeva l’assegnazione casuale dei partecipanti a un gruppo sperimentale, al quale veniva somministrata una dose attiva della sostanza, o a un gruppo di controllo, al quale venivano somministrate dosi molto blande della sostanza o, alternativamente, dosi di placebo inattivo. Le dosi venivano somministrate all’inizio di sessioni di psicoterapia della durata di otto ore, le quali avevano luogo ogni 3 settimane.

Al termine del trattamento è stata evidenziata una diminuzione significativa dei sintomi di Disturbo da Stress Post Traumatico e di sintomi depressivi, la quale risultava significativamente maggiore nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. Inoltre, il 54% dei partecipanti del gruppo sperimentale non risultava più soddisfare una diagnosi di PTSD, a fronte del 22,6% dei partecipanti del gruppo di controllo.

L’azione combinata di psicoterapia e MDMA è quindi risultata efficace per il trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico e potrebbe diventare un trattamento approvato dalla Food and Drugs Administration entro il 2021.

Arrivederci Professore (2019). Johnny Depp nel ruolo del professore controcorrente e ribelle – Recensione del film

RECENSIONE DEL FILM CHE USCIRÀ NELLE SALE IL 20 GIUGNO 2019

Arrivederci professore è un film gradevole, dotato di alcuni spunti interessanti, che guida lo spettatore nell’esplorazione di un topos letterario eterno, trasversale alle culture: come affrontare la fine se si è perso troppo tempo quando si godeva di ottima salute?

 

In Arrivederci professore, Johnny Depp si cimenta in un ruolo già solcato da numerosi suoi colleghi e altrettanti autori cinematografici, la figura del professore alternativo, controcorrente, provocatoriamente ribelle.

Il modello primigenio e inarrivabile de “L’attimo fuggente” viene lambito da questo film che, in verità, prova ad affrontare altre tematiche, variando il motivo di base attraverso l’introduzione di un elemento più intimo, la malattia e la fase terminale della vita.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

 

 

La storia

A Richard viene diagnosticato un tumore incurabile, simultaneo alla scoperta del tradimento della moglie col preside della scuola. La reazione è un immediato collasso psichico seguito da sfoghi impulsivi a base di alcol e marijuana. Il corso di letteratura è però alle porte e il professore lo apre con una selezione naturale degli studenti in base agli scopi di vita: chi è disposto ad amare i libri anziché le loro finalità accademiche può rimanere, gli altri sono pregati di accomodarsi all’uscita. Le lezioni si svolgono al pub, in giardino, tra birre e discorsi sulle persone, sui loro vizi e le risorse da esplorare.

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Richard è un po’ affascinante un po’ cliché, la relazione con la moglie, all’oscuro della malattia, si trasforma in un concentrato di sincerità adolescenziale e trasgressività senile a suo modo intrigante. Non ha più senso, con la morte che incombe, aggrapparsi alle paure rendendole uno stile quotidiano, chiedersi cosa penserebbe la morale matrigna delle pratiche sessuali proibite dal codice scolastico, dei gesti provocatori tirati fuori tutti d’un fiato, degli slanci di autenticità non più repressi. La libertà della fine inoppugnabile, di un destino che elimina ciò che si aveva da perdere sostituendolo con ciò che si era sempre sognato di esprimere. La liberazione di accorgersi che il giudizio degli altri è solo un’opinione e non esistono azioni realmente definitive. Nulla è poi così grave dopo averlo fatto, nulla di compiuto assomiglia davvero a come lo si era immaginato.

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Arrivederci professore: tra creatività e retorica

Il pregio del film Arrivederci professore è anche il suo limite, spingersi su un terreno che dal creativo scivola nel retorico e viceversa. L’ossigeno conquistato nella salita finale assomiglia al vezzo di un bambinone, sebbene più di una volta le cadute di credibilità vengano compensate da un’ironia a tratti pure brillante. Il punto debole è semmai rappresentato dagli inni motivazionali sulla vita e sulla morte, in bilico tra Steve Jobs e i suoi vari epigoni. Forse da un mattatore come Johnny Depp è lecito aspettarsi qualcosa di più dannato, ma è indubbio che su un argomento così arato dai racconti umani il rischio di un pregiudizio (in)consapevole dello spettatore sia più di un’ipotesi.

Il topos letterario è eterno, trasversale alle culture: come affrontare la fine se si è perso troppo tempo quando si godeva di ottima salute? E quel tempo cosiddetto perso è stato realmente un’occasione mancata o è servito ad adattarsi a vincoli in parte ineludibili? Richard è disperato, una parte di lui non accetta la condanna e questo giova al film, al suo valore narrativo: il professore non è soltanto ciò che la gabbia della sceneggiatura richiede ma anche un uomo in conflitto che nell’epilogo già scritto non vede tanto una catarsi quanto un dramma da affrontare nel migliore dei modi.

Con l’amico talmente angosciato da avvicinarsi alla macchietta, la figlia omosessuale che in una parentesi tragicamente breve fa coming out incompresa dalla madre, viene lasciata dalla fidanzata e scopre di essere una futura orfana, insomma col suo passo ora zoppicante ora più spedito, Arrivederci professore è gradevole, dotato di alcuni spunti apprezzabili forse da sviluppare meglio. E se gli attuali prodotti hollywoodiani non si distinguono per originalità, in fondo non è colpa dei professori.

 

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