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Il counseling filosofico: alcune domande provocatorie

Il counseling filosofico suscita oggi crescente interesse. Ma la filosofia non forma un terapeuta, qualunque significato si voglia dare a questo termine

Di Marco Innamorati

Pubblicato il 23 Feb. 2017

I corsi di counseling filosofico sembrano suscitare un crescente interesse, a fronte del quale sembra necessario porsi qualche interrogativo, tanto sulla legittimità dello strumento, quanto sul suo significato dal punto di vista socio-culturale.

 

Personalmente mi sento autorizzato a esprimere un’opinione in materia di counseling filosofico per aver compiuto studi sia di carattere filosofico che psicologico (sono laureato in filosofia e psicologia, ho conseguito un dottorato di ricerca in storia della scienza e ho seguito corsi di specializzazione che mi hanno condotto alla qualifica di psicoterapeuta; attualmente insegno Psicologia dinamica e Filosofia della scienza presso l’Università di Roma “Tor Vergata”).

Non è quindi un preconcetto nei confronti della filosofia a spingermi ad avanzare dubbi e obiezioni verso il counseling filosofico. Sono anzi convinto che lo studio della filosofia sarebbe imprescindibile ai fini della formazione di uno psicologo. Sono però altrettanto convinto che la filosofia di per sé non basti a formare un ‘terapeuta’, a qualunque significato si voglia piegare questo termine. Vi propongo quindi alcune questioni sulle quali ritengo importante dibattere.

 

Counseling filosofico e strumenti diagnostici

Chi fornirà al counselor gli strumenti diagnostici necessari per sapere se e come procedere al counseling?

Prima ancora di chiederci se il counselor filosofo sia in condizione di aiutare qualcuno bisogna chiedersi come possa evitare di causare dei danni. La formazione dello psicologo clinico comprende come aspetto essenziale l’acquisizione di strumenti diagnostici per accertare l’eventuale presenza di psicopatologie gravi o potenzialmente gravi a carico della persona che a lui si rivolge. Si tratta di un sapere assolutamente necessario perché, ogni volta che si instaura una relazione di aiuto, un errore può comportare dei rischi: e un errore può anche consistere nella semplice decisione di commentare quello che l’altro dice. Basta provare a interpretare troppo precocemente il contenuto di quanto vi racconta uno psicotico compensato (che non è per niente facile da individuare al primo sguardo) o un soggetto borderline.

Il rischio nel primo caso può essere un simpatico delirio (auguri di buon proseguimento!) e nel secondo caso può consistere in un altrettanto simpatico acting out, in una gradazione molto varia che può andare da un pugno in un occhio a un tentativo suicidario differito. Si tratta ovviamente di casi limite, ma situazioni nelle quali un errore diagnostico conduce a una prassi terapeutica sbagliata e di conseguenza provoca ferite psicologiche sono tutt’altro che infrequenti. Si dirà che anche gli psicologi clinici sono soggetti a errori e questo è vero. Tuttavia lo psicologo clinico segue un corso di laurea nel quale apprende strumenti diagnostici, segue un tirocinio di un anno che serve a mettere in pratica gli insegnamenti e deve superare un esame di stato che mette alla prova le sue competenze in questo stesso ambito: tra l’altro si tratta di uno degli esami di stato più selettivi che ci siano.

Lo psicoterapeuta aggiunge a questa formazione di base altri quattro anni di specializzazione. Se sbaglia chi ha una tale formazione, cosa farà chi questi strumenti non li apprende in modo approfondito e, presumibilmente, neanche superficiale? Noto per inciso che la legge (non per caso) autorizza solo gli psicologi ad applicare gli strumenti di cui sopra.

Posso essere d’accordo, in linea di principio, con chi sostiene che la malattia mentale è frutto della nostra civiltà etc., etc. Il guaio è che noi in questa civiltà ci viviamo e non possiamo prescinderne. Chi incontra uno psicotico incontra “uno psicotico”, prima che “una persona che in un contesto non dominato dalla téchnē avrebbe dei connotati umani differenti”. Provare per credere.

Qualcuno argomenta che il counseling filosofico si ponga come una forma di intervento ‘diversa’ qualitativamente dalla psicoterapia. Personalmente ritengo che difficilmente esista una terza via: o il counseling non è una relazione di aiuto o lo è. Nel primo caso non è nulla, o nulla più di una conversazione amichevole (a pagamento); nel secondo si instaura comunque una relazione di tipo transferale tra fruitore e praticante (ovvero, una relazione nella quale il primo attribuisce al secondo la capacità di capirlo e aiutarlo). E quando si instaura questo tipo di relazione, si corrono tutti i rischi che corre la clinica psicoterapeutica.

 

L’utilità del counseling filosofico

Come potrà essere utile a qualcuno il counseling filosofico?

Posto che il counselor possa non danneggiare il suo cliente, come è possibile provare che sia in grado di aiutarlo? Già sento filosofi che cominciano a mettere in questione la possibilità di parlare di verità, efficacia e così via. Non ho intenzione di proporre argomenti contro chi sostiene che (a) non c’è bisogno di prove di alcun tipo o che (b) quando si ha a che vedere con il vissuto umano soggettivo non esistono prove in senso stretto. Se il counseling filosofico si basa su un’epistemologia allegramente post-moderna, allora è semplice chiacchiera.

Vogliamo dire che sarà il mercato a fare giustizia? A prescindere dal fatto che pensare che debba essere il mercato a decidere della bontà di un sistema terapeutico mi sembra oltraggioso di per sé, di fatto nel mercato sono presenti elementi di aberrazione le psicosette: queste realtà hanno un grande successo nel mondo, anche se il successo procede di pari passo con la rovina di coloro che ne vengono risucchiati. Il mercato non ha cancellato né maghi, né astrologi ma questo non mi pare una prova a favore della magia o dell’astrologia.

Parliamo allora di prove di efficacia. All’inizio del secolo scorso la psichiatria e la psicoterapia brancolavano nel buio, e per decenni non è stato neanche pensato un progetto di ricerca per stabilire se le rispettive terapie ‘funzionassero’: si riteneva sufficiente suffragare l’efficacia dei sistemi terapeutici illustrando singoli casi clinici per i quali la terapia avesse condotto i pazienti a un miglioramento.

Oggi le cose stanno diversamente: consiglio, per informazioni al riguardo, la lettura di Psicoterapie e prove di efficacia di Roth e Fonagy (Il pensiero scientifico, Roma) e la consultazione di riviste internazionali come Psychotherapy Research. Persino la psicoanalisi, che non ha certo mai brillato per voglia di confrontarsi con il metodo scientifico, ha cercato di mettersi al passo, come testimonia l’Open Door Review of Outcome Studies in Psychoanalysis, che si trova anche su internet. Chi voglia proporre uno strumento terapeutico oggi, senza produrre nessuna prova dei suoi effetti, o ha le idee poco chiare o non è in buona fede. A maggior ragione quando non sembra esserci neanche una particolare disponibilità di resoconti di casi clinici condotti a buon esito (che, insisto, di per sé non costituiscono una prova scientifica in senso stretto, se non soddisfacendo gli standard moderni della ricerca single case).

 

Counselling filosofico: ricezione passiva o critica?

La filosofia aiuta di più attraverso la ricezione passiva delle idee o attraverso la capacità di prendere posizione critica in prima persona rispetto ai testi?

I casi sono due: o il potenziale fruitore del counseling filosofico è in grado di capire le idee filosofiche che gli verranno comunicate o non lo è. Nel primo caso mi permetto di esprimere qualche dubbio sulla possibilità che la filosofia possa in qualsiasi modo essergli di aiuto o conforto se non ex auctoritate. Nel secondo caso mi permetto di instillare nel lettore un dubbio: non sarebbe per tale fruitore più importante seguire dei corsi che gli permettano di impadronirsi della capacità di leggere i testi in prima persona, piuttosto che ascoltare qualcuno che gli fornisca un’etica già pronta, un’ontologia già pronta?

In altre parole, attraverso il counseling filosofico, la filosofia non rischia di diventare dogma, proprio il contrario di ciò che è per natura?

L’argomento, si badi, non può essere rovesciato: il testo filosofico si offre direttamente alla lettura di tutti (al di là delle difficoltà ermeneutiche), mentre il testo psicologico comunica un sapere tecnico, indirizzato fondamentalmente al tecnico (salvo quando non si tratti di un libro di pura divulgazione): non sono più i tempi di Freud.

 

La filosofia tra le professioni d’aiuto?

Ma la filosofia deve proprio “servire” a qualcosa?

Uno dei dubbi che personalmente suscita in me la nascita del counseling filosofico è legato alla possibilità che tra le motivazioni vi sia l’ansia di dimostrare che la filosofia “serve” a qualcosa in senso stretto, cioè che il sapere filosofico possa essere immediatamente utilizzabile. Siamo veramente arrivati a questo punto? Forse che la filosofia deve cercare di confrontarsi con la ricerca scientifica (tra l’altro in modo ingenuo, perché la scienza tende quando possibile alla ricerca pura, senza implicazioni e applicazioni pratiche immediate)?

Se i filosofi devono dimostrare di servire a qualcosa, allora veramente si può temere che la filosofia sia vicino alla sua fine.

In ogni caso, che speranza avranno i counselor di inserirsi sul mercato delle professioni d’aiuto?

Il numero degli psicologi e psicoterapeuti regolarmente presenti negli Albi professionali supera la somma totale delle figure professionali simili, in tutto il resto d’Europa. Che speranza abbiano i filosofi di inserirsi in questo mercato (fatti salvi i distinguo di cui sopra) è difficile dire. Il mio personale dubbio di fondo, a questo punto, è che chi veramente potrà guadagnare qualcosa dai corsi per diventare counselor saranno piuttosto i docenti che i partecipanti, e che la motivazione per la nascita di tutto il movimento sia umana, troppo umana. A mio avviso, coloro che alimentano le speranze dei laureati in filosofia proponendo corsi per diventare counselor dovrebbero fare i conti con la loro coscienza (posto che questo termine abbia ancora un significato filosofico).

 

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