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Tipi di passione e solidità del rapporto di coppia

La passione è definita come una forte inclinazione verso un oggetto, una persona o un’ideologia che si ama e che la persona trova importante e significativa, in cui si investe tempo ed energia.

 

Il Modello Dualistico della passione di Vallerand presuppone l’esistenza di due tipi di passione: armoniosa e ossessiva.

Passione armoniosa e passione ossessiva: cosa sono

La passione armoniosa (HP) è una tendenza motivazionale che porta gli individui a dedicarsi liberamente e deliberatamente all’attività e deriva da un’interiorizzazione della passione nella propria identità. Pertanto, gli individui con passione armoniosa non sentono un incontrollabile bisogno di impegnarsi nella loro attività appassionante, ma piuttosto scelgono liberamente di farlo. Inoltre, gli individui con passione armoniosa sono in grado di decidere quando e se impegnarsi nelle attività appassionate.

La passione ossessiva (OP), invece, si riferisce ad una pressione interna che porta gli individui ad impegnarsi in un’attività che si ama e deriva da un’interiorizzazione controllata dell’attività nella propria identità. Pertanto, le persone con passione ossessiva si sentono controllate dalla loro attività appassionata e non possono fare a meno di impegnarsi, dal momento che l’attività è fuori dal loro controllo e può assumere uno spazio sproporzionato nella vita di una persona, di conseguenza può indurla a trascurare le altre aree della propria vita. Sebbene gli individui con passione ossessiva possano trarre piacere dalle loro attività appassionate, possono comunque subire conseguenze negative.

Tipi di passione e..tipi di relazione

I processi di interiorizzazione (autonomi o controllati) conducono allo sviluppo iniziale di un tipo predominante di passione, tuttavia entrambi i tipi di passione sono presenti all’interno dell’individuo in diversi gradi e si spostano a seconda del contesto. In effetti, diversi fattori personali o sociali possono provocare temporaneamente un tipo di passione o un’altra. Per esempio, prima di una competizione, una persona con un passione armoniosa predominante per il suo sport potrebbe decidere di mettere da parte altri aspetti della sua vita per concentrarsi completamente nella competizione (che è una caratteristica della passione ossessiva), ma tornerà alla sua o il suo tipo originale di passione una volta che la competizione sarà finita.

Ad esempio, anche la passione romantica può essere armoniosa o ossessiva: passione armoniosa fa riferimento a una tendenza motivazionale in cui le persone scelgono volontariamente di impegnarsi in una relazione romantica con il proprio partner, non si sentono obbligati e la loro passione romantica è in armonia con altri ambiti della vita;  al contrario, la passione ossessiva si riferisce ad una pressione interna che spinge le persone a perseguire una relazione romantica con il loro amato partner e si sentono controllati dalla passione. Quest’ultimo tipo di passione può creare conflitti con altri domini della vita e arriva a condizionare fortemente l’individuo.

Quale passione è più utile al rapporto di coppia?

Lo studio, pubblicato sull’ International Journal of Applied Positive Psychology, vuole indagare come i due tipi di passione (armoniosa e ossessiva) si rapportano in una coppia, esaminando sia le conseguenze positive che quelle negative, ma anche l’impatto che possono avere sulla solidità del rapporto.

I partecipanti allo studio erano 205 canadesi francesi (150 donne, 52 uomini, 3 anonimi) attualmente coinvolti in una relazione romantica. L’età media era pari a 30,83 anni (SD = 11,22 anni). La durata media della relazione era di 6 anni e 11 mesi (SD = 8 anni e 11 mesi). Per quanto riguarda lo stato delle relazioni, il 23,4% era sposato, il 55,1% viveva con il proprio partner senza essere sposati e il 21,5% si frequentava. I partecipanti sono stati reclutati su Facebook attraverso un annuncio pubblicitario rivolto agli individui attualmente coinvolti in una relazione romantica.

I risultati mostrano che una passione armoniosa condiziona la coppia con emozioni positive durante il perseguimento di attività comuni e che rafforza positivamente la relazione, al contrario la passione ossessiva condiziona la coppia con emozioni negative durante lo svolgimento di un’attività comune e di conseguenza prevede una solidità precaria della coppia. Questi risultati suggeriscono che i due domini di passione danno un contributo importante e unico alle relazioni romantiche.

La raccomandazione standard per le coppie è che per migliorare la relazione è necessario fare più cose insieme, al contrario questa ricerca mostra che le coppie ossessivamente appassionate (sentirsi obbligate) si impegnano in attività che non li appassionano e di fatto i risultati possono essere dannosi. Passare necessariamente del tempo insieme non è la risposta. È necessario scegliere di fare qualcosa che ognuno ama. L’energia positiva che proviene dall’eccitazione condivisa è anche parte di ciò che rafforzerà la connessione della coppia. Condividere le attività armoniosamente appassionate con il partner può essere uno dei modi più diretti per migliorare la relazione di coppia, ma solo se questa condivisione è reale e non forzata.

Quando è il terapeuta a piangere

Devo ammettere che ho sempre ritenuto che nell’immaginario comune lo psicoterapeuta non piangesse. Dai, ma che c’hai da piangere? Ma se piangi tu, come puoi essere d’aiuto al paziente? Ma poi, la situazione è così disperata da far piangere pure il terapeuta?

 

Quando un paio di settimane fa mi sono ritrovata ad allungarmi sulla poltrona per afferrare un Kleenex davanti alla paziente, nei 37 secondi precedenti, questi sono stati i pensieri che hanno fatto capolino prepotentemente nella mia mente. Ma poi mi sono detta: che male può fare? Non sarei autentica nel trattenermi di fronte a questo racconto. E poi, sii sincera, ormai le lacrime stanno per uscire e non puoi farci proprio nulla.

Presa dall’amore per la scienza, salutata la paziente, mi sono catapultata su Pubmed e ho iniziato la ricerca dal mio smartphone: “therapist crying, tears, crying”, etc. Mi trovo davanti pochissimi risultati, che tra poco cercherò di riassumere.

Innanzitutto, penso sia condivisibile l’idea che le risposte emotive del terapeuta siano una parte non trascurabile nel trattamento, giusto? Ed il pianto è proprio una tra queste, giusto? Quindi ci saranno begli studi sul tema, giusto? Sbagliato! Eppure il pianto del terapeuta in terapia si è guadagnato anche un nome “proprio” con tanto di sigla: therapists’ crying in therapy, TCIT.

Il pianto del terapeuta: la letteratura sull’argomento

Come dicevo, la prima cosa che mi salta agli occhi è appunto il numero esiguo di ricerche (che mi porta a pensare di essere “una su un milione”). Poi inizio a leggere il primo abstract di un gruppo californiano: il 72% dei 684 psicologi intervistati riporta di aver pianto in terapia (Blume-Marcovici et al., 2013). Evvai! -penso- non sono sola!

Continuo nella lettura e -non me ne vogliano gli psicoanalisti- un sorriso dolceamaro è apparso sul mio viso leggendo le parole di Nancy McWilliams:

[…] (il lettino) permette al terapeuta la libertà di rispondere internamente al materiale del paziente senza autocoscienza: fantasticare, rispondere affettivamente, persino piangere senza preoccuparsi che il paziente sia distratto dai processi interni dalla reattività emotiva del terapeuta (p 242).

Ma come, io mi sono anche soffiata il naso davanti alla paziente!

In realtà, proseguendo scopro che Fairbairn ha lasciato scorrere qualche lacrima salutando il suo celebre paziente Harry Guntrip (per la cronaca, entrambi psicoanalisti come la McWilliams):

Mentre stavo finalmente lasciando Fairbairn dopo l’ultima sessione […] Alzai la mano e subito la prese, e improvvisamente vidi alcune lacrime che scorrevano sul suo viso. Ho visto il cuore caldo di quest’uomo con una mente fine e una natura timida (p.445).

Menomale -mi dico nuovamente- non sono l’unica.

Ma poi praticamente nulla più, un alone di mistero cala sul tema del pianto, quasi come se fosse qualcosa che non accade o, peggio, di cui vergognarsi.

Solamente tre case studies che giungono alla conclusione che il TCIT fosse terapeuticamente appropriato o addirittura benefico per il trattamento (Counselman, 1997; Owens, 2005; Rhue, 2001); una ricerca qualitativa nella quale 9 sui 10 terapeuti intervistati riportano di aver ritenuto utile il therapists’ crying in therapy nel comunicare genuinità o nel facilitare l’espressione emotiva del paziente (Jane Waldman, 1995); poi qualche altra ricerca si è susseguita su questioni etiche nella pratica clinica, ma senza un focus specifico riguardo il pianto.

Per (mia) fortuna, qualche ricerca invece focalizzata sul TCIT negli ultimi anni è stata fatta.

Il pianto del terapeuta: chi piange di più? E’ sinonimo di empatia?

Devo ammetterlo, mi capita di commuovermi abbastanza facilmente ed anche per questo ho sempre ritenuto di essere parecchio empatica. Inoltre pensavo che il mio essere “una piagnona” fosse uno dei motivi per i quali ho finalmente usato anche io quei fazzoletti nella scatoletta di cartone – tipicissimi. E invece pare che la mia ipotesi fosse sbagliata! Per quanto l’empatia sia risultata correlata positivamente con il pianto nella vita quotidiana, quest’ultimo non era predittivo del therapists’ crying in therapy. Quindi no, i terapeuti col pianto facile guardando “Ghost” o “Le pagine della nostra vita” non è detto che piangano in terapia.

Terapeute vs terapeuti

Lo stesso vale per il sesso biologico: se è vero che gli uomini piangono meno frequentemente delle donne nella vita quotidiana (non è questo il luogo per discutere dei possibili motivi sottostanti!), non sono emerse differenze di genere significative (Blume-Marcovici et al., 2015).

Terapeuti giovani vs terapeuti esperti

Pare che i terapeuti più esperti piangano di più. No, non è colpa (solo) dell’età che avanza. Piuttosto sembrerebbe che –come accade per la self disclosure– il clinico più esperto si senta più sicuro ed a proprio agio con le proprie capacità e per questo più libero di esprimersi ed affidarsi al proprio giudizio clinico e meno ai manuali (Blume-Marcovici et al., 2013; ‘t Lam et al., 2018). Ma per il momento si tratta solo di speculazioni che andrebbero approfondite con ricerche future.

Pianto del terapeuta: quali sono le ricadute per la terapia?

È emerso che la maggior parte dei terapeuti non discuta del Therapists’ Crying In Therapy con il paziente; chi invece lo fa è propenso a riportare un miglioramento nella relazione terapeutica.

D’altro canto, molti (66%) dei clinici intervistati che non hanno discusso del TCIT con il paziente hanno comunque riportato un miglioramento nella relazione (Blume-Marcovici et al., 2015). In realtà sembrerebbe che in questi casi le lacrime siano state veicolo di qualcosa che le parole non avrebbero potuto comunicare (Blume-Marcovici et al., 2015). Vi sentite confusi? Anche io.

Gli autori di questa ricerca suggeriscono di valutare sempre in base al benessere del paziente ed al beneficio che potrebbe o non potrebbe trarne: non discutiamo del Therapists’ Crying In Therapy per liberarci di un peso o per scusarci della (eventualmente da noi percepita) figuraccia.

Un gruppo di ricerca danese suggerisce invece che quando le lacrime sono percepite come segno di empatia, calore, affidabilità possano avere un effetto positivo sul processo terapeutico; quando il TCIT viene visto come segno di incompetenza, l’effetto negativo sull’alleanza potrebbe essere molto potente (‘t Lam et al., 2018).

Sarebbe interessante –e al contempo non proprio semplice- individuare i fattori che moderano l’attribuzione di significato al Therapists’ Crying In Therapy: occhi umidi? Lacrime che fluiscono? Singhiozzi? Relazione terapeutica?

Pianto del terapeuta: se e come parlarne con il paziente

Ma quindi ne parlo o no con il paziente? Tendenzialmente la risposta è sì. Ma soprattutto, più che parlarne sempre e comunque e a tutti i costi in maniera esplicita, credo che la cosa più importante sia capire se il nostro pianto ha acquisito un “senso terapeutico” monitorando l’impatto che ha sul nostro paziente. Il terapeuta può evocare il feedback con domande dirette, basandosi quindi su una dimensione verbale (“Come si è sentito nel vedermi piangere?”), oppure affidandosi alla propria lettura della reazione del paziente, avendo cura che i marker somatici siano affidabili.

Infine, ma non di certo per minore importanza, valutare il Therapists’ Crying In Therapy alla luce della formulazione del caso, sostanzialmente avendo ben chiari nella nostra mente gli schemi del nostro paziente.

G. ha 21 anni ed ha perso il padre solo qualche mese fa. G. si descrive come una persona da sempre responsabile, matura, che si prende cura di tutti e che ritiene di non dover mostrare la propria sofferenza agli altri, soprattutto se fanno parte della famiglia, perché “se faccio vedere che sto male, l’altro penserà che io non possa aiutarlo e supportarlo”. Mi racconta anche di come una collega psicologa qualche settimana prima le avesse fatto notare la sua “glacialità” (cit.) nel raccontarle quelle esperienze dolorose. L’immagine che segue è ben impressa nella mia mente: G. mi sta raccontando degli ultimi momenti con suo padre, mi allungo per prendere al volo un fazzoletto, G. mentre continua il racconto nota il mio gesto, mi guarda negli occhi, mi sorride e prende un fazzoletto subito dopo di me. Le lacrime iniziano a rigare le sue guance. Salutandoci sulla porta mi dice “Non avevo mai raccontato tutte queste cose a nessuno, ora può dire di conoscermi un po’”.

Non ho parlato con lei del mio pianto, ma il suo feedback non verbale è stato chiaro: se piangi tu, posso farlo anche io.

Pianto del terapeuta: una sorta di tabù..

Sinceramente, se non mi fosse capitato in prima persona probabilmente non avrei mai approfondito l’argomento del TCIT. Quanti tra i colleghi ne hanno sentito parlare durante gli anni della formazione universitaria? O negli anni della scuola di specializzazione? Spererei in molti, ma forse solo qualche fortunato.

In effetti, ci si concentra così tanto sull’espressione emotiva dei pazienti che finiamo per tralasciare la nostra. Mi stupisce che non pochi terapeuti abbiano dichiarato di ritenere il pianto del terapeuta poco etico e un segno di mancanza di professionalità, il che risulta in contrasto tra l’altro con i risultati emergenti (‘t Lam et al., 2018). Addirittura solo un terzo dei terapeuti ha discusso del proprio pianto con un supervisore e circa un quarto non ne ha mai parlato con nessuno (‘t Lam et al., 2018).

Forse però, vista la frequenza con cui accade (72% in Blume-Marcovici, et al., 2013; 57% in Pope et al., 1987), potrebbe essere un argomento parte della formazione di base, anche perché molti di noi probabilmente non saprebbero bene come affrontarlo e si potrebbero sentire in imbarazzo nel raccontarlo.

Insomma, io riassumerei così i punti salienti:

  • Non sentitevi soli, fate/farete parte del 70-80% dei terapeuti che hanno pianto/piangeranno almeno una volta nella loro carriera.
  • Molto probabilmente il vostro paziente e/o la relazione terapeutica ne beneficeranno (a patto che ne parliate).
  • Non avete fatto del male al vostro paziente piangendo, al massimo non ne ha tratto alcun beneficio (Sinclair, 2011).
  • Se il pianto del terapeuta è legato in modo particolare a tematiche personali del clinico, meglio rifletterci e lavorarci in separata sede.
  • Giovani terapeuti, lasciatevi andare al pianto (regolato)!

Il confine tra religione, delirio mistico e psicoterapia

Il modo di “guardare” dello psicologo deve necessariamente astenersi da ogni credo politico e religioso per poter curare il paziente secondo una totale laicità intellettuale: il rischio di imporre al paziente valori etico-sociali altri deve continuamente essere valutato. Questo è il presupposto fondamentale da cui partire per ragionare sul confine tra credenze religiose, delirio mistico e psicoterapia.

 

L’Art. 4 del codice deontologico degli psicologi (2006) sottolinea che nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità (in Calvi, 2012).

Con questo articolo, esplicitando il valore dei principi fondamentali della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo all’interno dell’agire professionale, si è inteso raggiungere il doppio obiettivo di definire i principi etici della professione e la sua natura laica.

Delirio e religione: la distinzione del DSM 5

Capiamo come sia fondamentale che il modo di “guardare” dello psicologo debba necessariamente far riferimento alla letteratura scientifica e, dunque, astenersi da ogni credo politico e religioso per poter curare il paziente secondo una totale laicità intellettuale. Ma il rischio di imporre al paziente valori etico-sociali altri, quindi sostituire la sua capacità critica invece di aiutarla a svilupparsi, deve continuamente essere valutato.

Questa premessa è il presupposto fondamentale da cui partire per ragionare sul confine tra credenze religiose, delirio mistico e psicoterapia.

Il DSM 5 (2013) descrive i deliri come un disturbo dell’attenzione (ridotta capacità di dirigere, focalizzare, sostenere e spostare l’attenzione) e della consapevolezza (ridotto orientamento nell’ambiente), che si sviluppa in un breve periodo di tempo (solitamente ore o giorni). Rappresenta una variazione rispetto alla condizione di base, tende a fluttuare in gravità nel corso del giorno ed è associato ad almeno un altro deficit cognitivo (per esempio disturbo di memoria, orientamento, linguaggio, abilità visuo-spaziali, percezione) (ibidem). Sono convinzioni fortemente sostenute che non sono possibili di modifica alla luce di evidenze contrastanti e il loro contenuto può comprendere una varietà di temi (per es., di persecuzione, di riferimento, somatico, religioso, di grandezza) (Ibidem). Tra questi, c’è il delirio mistico in cui il soggetto sperimenta un particolare, esclusivo e intimo rapporto con la divinità e in qualche modo ne entra a far parte (Lorenzini e Coratti, 2008).

L’importanza del fattore culturale per la diagnosi

Di fronte a questo tipo di esperienza potrebbe essere a volte difficile riconoscere il confine tra un delirio e un’esperienza profonda di fede. Di fatto, lo stesso DSM 5 (2013) sottolinea l’importanza di considerare il contesto sociale in cui il paziente vive per poter distinguere i sintomi psicotici da modalità di risposte sancite dalla cultura di riferimento. Per esempio, in alcune cerimonie religiose, un individuo può riferire di sentire delle voci, ma queste in genere non persistono e non sono percepite come anormali dalla maggior parte dei membri della comunità di appartenenza (in DSM 5, 2013). Inoltre, fattori culturali e socioeconomici devono essere considerati, in particolare quando l’individuo e il clinico non condividono lo stesso background culturale e socioeconomico (Ibidem). Idee che sembrano deliranti in una cultura (per es., arti magiche) possono essere comunemente diffuse in un’altra: in certe culture, allucinazioni visive o uditive con un contenuto religioso (per es., sentire la voce di Dio) rappresentano una parte normale dell’esperienza religiosa (ibidem).

Anche in questo caso può sembrare limitante e anche poco utile rimuginare su quanto i contenuti dell’esperienza del nostro paziente siano deliranti o meno se poi perdiamo di vista una riflessione sul “se” sono funzionali o meno al suo benessere. Di fatto, dovremmo chiederci se il contenuto delle sue convinzioni rappresentano una libera espressione di sé o il risultato di un intollerabile fallimento il quale mette in discussione aspetti centrali della propria identità che si cercano di salvare (Lorenzini e Coratti, 2008).

Delirio: la sua funzione nella sofferenza dal paziente

L’importanza data dal contesto culturale e sociale per riconoscere il delirio risale agli inizi del ’900, epoca in cui si definisce il delirio come giudizio incrollabile che non può essere accettato dalle persone della stessa classe, educazione, razza ed età della persona che fortemente lo sostiene (Muscillo et al., 2005). Tuttavia, questa definizione non sembra evidentemente esaustiva: alcune opinioni molto personali possono non essere condivise dalla propria comunità, ma non possono essere considerate un fenomeno delirante. Se quindi non è derivabile dal retroterra culturale o educativo della persona, deve assumere più importanza la sua convinzione falsa e incorreggibile che nasce all’interno del processo morboso e in esso trova la sua giustificazione al di là del rapporto con gli altri. Rispetto a esso, alla comunità, il delirio rappresenta la rottura con il mondo, il fallimento dell’intersoggettivo (ibidem). Per Jaspers (1959), il delirio è un’esperienza originaria e inderivabile, un’alterazione del rapporto con la realtà, che coinvolge tutta la personalità; ancora più importanza viene data all’incontro intersoggettivo nell’approccio antropoanalitico, in cui il delirio è la soluzione, inevitabile, a un “errore” dell’incontro interumano, a un progetto mondano ristretto e coartato. La solitudine, l’isolamento e la distanza appaiono, infatti, gli aspetti centrali di molti deliri: l’essere nel delirio è un modo peculiare di essere nel mondo, non corrispondente all’essere nell’amore, bensì all’essere nella fuga, in un separarsi dalla realtà (Muscillo et al., 2005).

Il delirio entra in gioco quando è necessario conservare o recuperare capacità predittiva di fronte alla minaccia di perderla drammaticamente; il bisogno di darsi a tutti i costi una spiegazione nasce proprio dal trovarsi di fronte all’inspiegabile (Lorenzini e Coratti, 2008).

In altre parole anche il delirio è, come sempre, la migliore soluzione che i pazienti sono riusciti a trovare per dare un senso al loro tema doloroso. Di fatti, anche per comprendere il funzionamento del paziente delirante dobbiamo porci la classica domanda che per i cognitivisti rappresenta la guida della terapia: “a cosa gli serve?”. E non ci stupiremo se anche il contenuto stesso dei deliri non è mai casuale, ma sempre coerente con lo scopo di alleviare quel dolore. Comprendere ciò, credo sia il punto di partenza imprescindibile di tutte le psicoterapie: è il primo passo per dare senso alla sofferenza e porsi obiettivi di cambiamento che ridiano al paziente centralità nelle sue scelte di vita.

Delirio mistico: quali sono i fattori predisponenti

Sembrano esserci dei fattori che predispongano alla manifestazione di sintomi deliranti.

La vulnerabilità è un fattore predisponente e precipitante nella manifestazione del delirio: è proprio nella resistenza/impossibilità di cambiare i propri schemi malgrado la loro manifesta disfunzionalità che identifichiamo l’essenza della vulnerabilità al disagio mentale in generale e alla dimensione delirante in particolare (Lorenzini e Coratti, 2008). Il livello di vulnerabilità è sicuramente determinato dalla qualità della relazione d’attaccamento: l’attaccamento sicuro è un fattore predittivo non soltanto in quanto favorisce lo sviluppo della mentalizzazione, ma anche per altre dimensioni quali la possibilità di separarsi (ibidem).

Sembra ormai sufficientemente appurato che l’individuo, nel corso della vita, stabilisca relazioni di attaccamento con figure diverse. Queste relazioni si sovrappongono, per alcuni aspetti, nella funzione di assicurare all’individuo un senso di benessere, sicurezza e fiducia nel mondo che lo circonda.

I dati di ricerca disponibili sull’argomento hanno evidenziato come una relazione significativa col proprio partner, o una profonda esperienza di fede o, ancora, il sostegno del terapeuta che si pone come “base sicura” per consentire al paziente l’esplorazione dei propri modelli di attaccamento, possano apportare cambiamenti significativi nel modello generale dell’attaccamento dell’individuo, e produrre effetti benefici su aspetti dell’esperienza dell’individuo non direttamente implicati in quella specifica relazione (Cassibba, 2003). Ciò avviene perché le esperienze relazionali nuove che confermano le aspettative dei modelli già consolidati vengono immediatamente inglobate nelle rappresentazioni già esistenti. Gli eventi disattesi o che si discostano dalle previsioni del modello, vengono, invece, percepiti inizialmente come eccezioni; qualora tali esperienze si verifichino con una certa ripetitività e consistenza, diventa necessario costruire nuovi copioni e metterli in rete con quelli già esistenti. A questo punto si è prodotto un cambiamento nell’organizzazione dei copioni e, di conseguenza, nelle loro connessioni. Le ripercussioni di tale cambiamento sulla rappresentazione generale dell’attaccamento dipenderanno dalla natura delle connessioni che si saranno create tra i copioni che si situano allo stesso livello di generalizzazione, così come tra i collegamenti esistenti tra questi copioni e quelli situati a livelli di generalizzazione superiore (Aletti 2009). Per questa ragione, eventi autobiografici legati ad una specifica relazione di attaccamento, possono indurre cambiamenti anche profondi (Ibidem). Una conversione religiosa, ad esempio, può lasciare immutati i modelli di attaccamento dell’individuo o, al contrario, può stravolgere il modo di concepire e vivere le relazioni interpersonali a seconda dei livelli di rappresentazione che sono stati toccati dal cambiamento.

L’importanza dell’orientamento religioso

Un individuo con un orientamento religioso estrinseco (Allport & Ross, 1967), che tende ad accostarsi alla religione per acquisire sicurezza, conforto, o un particolare status o supporto sociale, potrebbe modificare, ad esempio, in seguito all’esperienza religiosa, la rappresentazione relativa alla sua “posizione sociale”, ma non le proprie rappresentazioni relative al modo di relazionarsi con se stesso e con gli altri. Al contrario, un individuo con orientamento religioso “intrinseco”, che mette da parte i propri bisogni e fa proprio il modello di relazione basato sull’amore proposto dalla religione, potrebbe mettere in discussione anche le rappresentazioni delle relazioni collocate a livelli più alti di generalizzazione.

Se è vero, del resto, che l’esperienza di fede con Dio viene vissuta come una relazione di attaccamento, l’esperienza di conversione può portare l’individuo a ripensare ai propri modelli mentali delle relazioni e a riorganizzarli, con conseguenti ripercussioni sul proprio modo di vivere le relazioni interpersonali con i propri genitori, con gli amici o col partner.

Un’ultima riflessione sulle condizioni che possono rendere i modelli operativi interni più suscettibili al cambiamento riguarda la considerazione di quei fattori, sia interni che esterni all’individuo, che possono “facilitare” o incoraggiare tale cambiamento (Aletti, 2009). Si può ipotizzare che l’età in cui si verificano particolari esperienze, il temperamento dell’individuo (Belsky, 1997), l’intensità emotiva che caratterizza alcune relazioni possono incidere sulla possibilità di suscitare reazioni emotive forti che riattivano i modelli operativi interni dell’attaccamento e che li rendono più sensibili al cambiamento (Berlin e Cassidy, 1999).

Delirio mistico: il ruolo della famiglia

Ma l’attaccamento non è tutto. Una cultura familiare chiusa, isolata, senza confronti con il mondo esterno, in cui si conosce un solo modo di essere che non ha alternative e non prevede sfumature, è certamente un fattore di rischio (Lorenzini e Coratti, 2008). Altresì, il porsi pochi obiettivi esistenziali, percepire un forte legame tra le prestazioni e l’identità personale (per cui le persone hanno valore per quello che fanno) e il percepirsi vittime impotenti di forze esterne (mentre è fattore protettivo considerarsi attivi costruttori della propria realtà e artefici del proprio destino) sono fattori di vulnerabilità (ibidem).

Alla luce di queste riflessioni, ritengo fondamentale porre attenzione alla sofferenza del paziente e costruire una base sicura dove tutto acquisisce un senso, un porto sicuro da cui partire per sperimentare nuove competenze flessibili e coerenti con i suoi bisogni.

Lo scopo ultimo della terapia sarà ricostruire una nuova storia di quanto accaduto, una storia dove ciò che era impensabile sia ora possibile e accettabile; una narrazione con più gradi di libertà che consenta di progettare per il futuro un’esistenza con meno vincoli, costrizioni, divieti (Lorenzini e Coratti, 2009).

Il panico ospite imprevisto – Diagnosi del disturbo e terapia EMDR (2018) di Paola Vinciguerra e Isabel Fernandez – Recensione del libro

Ad ampliare il panorama delle pubblicazioni in ambito dell’applicazione dell’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), il testo Il panico ospite imprevisto – Diagnosi del disturbo e terapia EMDR a cura di Paola Vinciguerra e Isabel Fernandez. Il testo tratta specificatamente del disturbo di panico proponendo un protocollo di trattamento mediante EMDR.

 

L’EMDR ha come cornice teorica la teoria dell’elaborazione adattiva dell’informazione (Shapiro, 1995) e si applica nel contesto di una psicoterapia.

Mediante la stimolazione bilaterale si desensibilizza, si riducono gli effetti dei sintomi e si riattiva un processo di elaborazione delle informazioni.

Il panico ospite imprevisto: affrontarlo con le 8 fasi EMDR

L’EMDR ha un protocollo ben definito che procede secondo le seguenti otto fasi di lavoro:

  1. Anamnesi e pianificazione
  2. Preparazione e psico-educazione
  3. Pianificazione degli interventi
  4. Desensibilizzazione
  5. Installazione
  6. Scansione corporea
  7. Chiusura
  8. Rivalutazione

L’intento del libro Il panico ospite imprevisto è fornire ai lettori una panoramica del disturbo di panico in un viaggio attraverso le principali teorie esplicative, la descrizione del protocollo EMDR specifico per questa psicopatologia, numerose testimonianze di pazienti che hanno beneficiato di un trattamento mediante EMDR e infine le curatrici chiudono con utili consigli pratici.

Nei primi capitoli le autrici prendono in esame i criteri diagnostici nosografici del disturbo di panico, la diagnosi differenziale e le comorbidità, inoltre approfondiscono la relazione tra eventi stressanti e traumatici e l’insorgenza del disturbo.

Nell’ultima edizione del manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali DSM-5, sono stati, infatti, indicati anche gli eventi traumatici quali fattori di rischio per l’insorgenza del Disturbo di panico. Tra le ricerche che approfondiscono la correlazione tra life stress events e psicopatologia, le autrici riportano lo studio ACE: Adverse Childhood Experience.

Si tratta di un importante studio epidemiologico americano che ha coinvolto più di diciottomila partecipanti, svoltosi negli anni ’80 dagli studi di V. Felitti e collaboratori, presso Dipartimento di Medicina Preventiva di San Diego.

Per Adverse Childhood Experience s’intendono gravi esperienze vissute all’interno dell’ambiente familiare prima dei diciotto anni quali: abuso fisico ricorrente, abuso psicologico ricorrente, abuso sessuale, convivenza familiare con una persona dipendente da alcool o sostanze o con un grave problema psicologico, trascuratezza fisica ed emotiva.

La ricerca mise in luce come un numero inaspettatamente alto di pazienti che afferivano ai dipartimenti di medicina avessero avuto esperienze avverse; per questo motivo è stato ideato un semplice metodo di calcolo che attribuisce un punteggio riguardante l’accumulo di tali esperienze nella vita della persona entro i diciotto anni; il punteggio ACE è usato per valutare il peso dell’esposizione a eventi traumatici e di conseguenza la probabilità di rischio di sviluppare patologie mediche e psicologiche. Gli studi della neurobiologia mediante le metodiche di neuro-immagine hanno mostrato come intense esperienze di paura nell’infanzia possono modificare lo sviluppo neurologico del bambino.

Il panico ospite imprevisto.. con orgini nel legame di attaccamento

A sviluppo e sostegno della relazione tra passato ed emergere della psicopatologia, Anna Rita Verardo e Giada Lauretti dedicano un capitolo del libro Il panico ospite imprevisto alla relazione di attaccamento/accudimento e allo sviluppo dei disturbi di panico. Come le esperienze relazionali precoci e lo stile di attaccamento andranno a influenzare i circuiti della paura/pericolo; panico/sofferenza e della sicurezza. Si devono a Bowlby la formulazione della teoria dell’attaccamento e l’analisi degli stili di attaccamento tra il bambino e il caregiver che può rappresentare una base più o meno sicura. Le autrici descrivono gli aspetti fondamentali della teoria e affermano che:

sulla base delle teorie a sostegno, possiamo definire il panico il risultato della soggettiva percezione di una paura irrazionale, di ricerca di protezione familiare e della necessità di una figura di riferimento “prontamente disponibile” nei momenti di vulnerabilità, il tutto strettamente legato allo stile di attaccamento ansioso ambivalente..

Nel capitolo sono sintetizzati anche i numerosi studi di neurobiologia delle emozioni di paura e ansia e altrettanti studi clinici e teoria circa le genesi dei disturbi di panico. Si deve a Panksepp, neuroscienziato la distinzione tra un sistema della paura da un sistema di panico/sofferenza (Panksepp e Biven 2012).  Come affermano le autrici:

Panksepp (1998) ipotizzava che il Disturbo di panico fosse provocato da un’improvvisa e massiva attivazione del circuito cerebrale deputato alla richiesta di cura e, proprio per tale motivo, chiamò “sistema del panico” quello che noi ora identifichiamo con il sistema di attaccamento.

Le autrici rilevano che chi soffre di attacchi di panico è come se vivesse con il sistema di allarme costantemente attivato, pertanto con il sistema di attaccamento altrettanto attivato alla ricerca di sicurezza e di conseguenza con il sistema esplorativo disattivato.  Ma cosa prova una persona che sperimenta un attacco di panico? Chi sperimenta un attacco di panico comprende bene la differenza con il provare paura, nel panico difatti si ha la sensazione di perdere il controllo di sé, della propria mente o del proprio corpo. Pensieri irrazionali mantengono questa sensazione e trasformano situazioni neutre in situazioni pericolose alle quali il corpo e la mente non possono fare a meno di reagire. Per quanto l’esperienza di panico sia intensa e spaventante non porta alla morte e non dura all’infinito, ha un inizio e una fine e dura qualche minuto. 
Ma come si può intervenire per aiutare le persone che soffrono di disturbi di panico a comprendere ciò? A curare questo disturbo psicopatologico?

Il panico ospite imprevisto: psicoterpia cognitivo-comportamentale e EMDR a confronto

La psicoterapia cognitivo – comportamentale è considerata dalle principali linee guida internazionali fra i trattamenti elettivi di prima scelta per il Disturbo di Panico (APA, 1998; NICE, 2006; OMS, 2000) e l’EMDR metodo evidence-based di provata efficacia nel Disturbo da Stress Post-Traumatico (Jeffrey e Davis 2013). In uno studio, Farretta e Fernandez (2003) hanno comparato la terapia cognitivo comportamentale e l’EMDR nel trattamento del panico in un piccolo campione di diciannove soggetti con diagnosi di disturbo di panico con o senza agorafobia. Nove soggetti sono stati sottoposti a TCC e dieci a trattamento con EMDR.

Come spiega Elisa Farretta:

Si è riscontrato che entrambi i trattamenti CBT ed EMDR risultavano efficaci per la risoluzione del Disturbo di panico dopo 6-12 sedute consecutive (….): “ l’EMDR produceva nei soggetti un miglioramento più rapido e mantenuto nel tempo, come evidenziato dai follow-up effettuati.

(Faretta 2003; 2012). Nella fase uno del protocollo EMDR, anamnesi e pianificazione, è fondamentale raccogliere un’attenta storia di vita, la mappa degli eventi traumatici del paziente, e nello specifico del disturbo di panico è importante individuare e analizzare gli eventi del passato che sono collegati alla sintomatologia ansiosa.

A tale scopo si esaminano nello specifico gli eventi passati associati alla sintomatologia, le situazioni attuali che pro- vocano disagio, i comportamenti e le abilità da sviluppare per il futuro. Quei ricordi che portano ad atteggiamenti negativi (“Non ho il controllo”, “Sono in pericolo”, ” Sono impotente”) diventano gli obiettivi del trattamento.

Nel testo questo procedimento è spiegato attraverso casi clinici e testimonianze dirette dei pazienti stessi.

Le curatrici affermano che l’EMDR è considerato

Oggi il trattamento risolutivo anche per il Disturbo da attacchi di panico. Attraverso la stimolazione bilaterale si lavora non solo sul ricordo di date esperienze che possono aver contribuito all’insorgenza di un Disturbo d’ansia, ma anche sulle memorie delle prime volte in cui si è provata (arrivando a lavorare sul primo attacco di panico).

Nell’ultimo capitolo del libro Il panico ospite imprevisto denominato appunto “consigli pratici”, sono descritti passo dopo passo utili esercizi per divenire maggiormente consapevoli delle cognizioni disfunzionali legate al panico e per favorire l’autocontrollo della paura indicazioni. Inoltre si propongono tecniche di rilassamento ed esercizi per la ripresa di una respirazione calma e bilanciata; esercizi di visualizzazione e immaginativi e procedure per impegnare la memoria di lavoro.

E infine il consiglio e l’augurio finale:

Non spaventarti.
 L’ attacco di panico non è un infarto.
 Non stai impazzendo e non stai morendo. Queste sensazioni sono frutto di pensieri irrazionali.  Ci si può liberare da questa condizione. Si può tornare a star bene… si può tornare liberi!

La pornografia influisce sulla gratificazione sessuale degli adolescenti?

La presente ricerca ha voluto testare se l’uso della pornografia fra gli adolescenti potesse impattare sul livello di soddisfazione sessuale degli stessi. In particolare, si parte dalla verifica dall’ipotesi che la bassa soddisfazione sessuale nella vita privata sia legata all’utilizzo della pornografia.

 

Quando si parla di soddisfazione sessuale si fa riferimento al grado con il quale le persone si dicono soddisfatte della loro vita sessuale (Sprecher & Cate, 2004), indipendentemente dal fatto di essere impegnate o meno in una relazione.

L’avere una soddisfacente vita sessuale sembrerebbe essere importate per il benessere della persona, tanto che alcune ricerche evidenziano un’associazione fra bassa e maggior presenza di sintomi depressivi e ansiosi (Nicolosi et al., 2004; Montesi et al., 2013).

Pornografia, teoria del confronto sociale e soddisfazione sessuale

Le variabili che influenzano il livello di gratificazione sessuale sono innumerevoli, tra le tante è presente la variabile inerente l’utilizzo della pornografia. A tal proposito, la presente ricerca ha voluto testare se l’uso della pornografia fra gli adolescenti potesse impattare sul livello di soddisfazione sessuale degli stessi. In particolare, si parte dalla verifica dall’ipotesi che la bassa soddisfazione sessuale nella vita privata sia legata all’utilizzo della pornografia.

Tale ipotesi si fonda sia sulla teoria del confronto sociale che su alcune ricerche: la teoria del confronto sociale (Wright, Tokunaga, Kraus, & Klann, 2017) afferma come il grado di soddisfazione percepito, della propria vita, dipenda dal confronto fra le proprie situazioni e quelle altrui; alcune ricerche hanno suggerito come gli utenti della pornografia trovino meno soddisfacenti l‘aspetto fisico e le prestazioni sessuali dei relativi partner a causa del confronto fra alcune variabili della propria sfera sessuale e quelle relative agli attori del porno (Doran & Price, 2014; Lambert, Negash, Stillman, Olmstead, & Fincham, 2012; Poulsen, Busby, & Galovan, 2013).

Soddisfazione sessuale negli adolescenti: altri fattori da considerare

Lo studio longitudinale ha coinvolto un campione di 892 adolescenti croati, tra i 15 e i 18 anni, i quali sono stati chiamati a rispondere ad un sondaggio online che indagava la frequenza dell’uso della pornografia e il grado di soddisfazione sessuale. Successivamente, i soggetti sono stati richiamati a compilare i medesimi sondaggi ad intervalli di sei mesi per tre anni.

I ricercatori non hanno trovato alcuna associazione significativa tra la frequenza dell’uso della pornografia e la maggiore o minore soddisfazione sessuale nella vita privata. Tuttavia, questi risultati sono contrastanti rispetto a studi precedenti che hanno invece trovato come l’uso della pornografia riduca la soddisfazione sessuale degli adolescenti nella loro vita privata (Doornwaard et al., 2014, Peter & Valkenburg, 2009).

L’antiteticità dei risultati potrebbe essere ricondotta alla diversità dei contesti sociali in cui gli studi sono stati condotti. Difatti, il presente studio è stato svolto in Croazia, un paese meno sessualmente permissivo e più religioso, mentre gli studi precedenti sono stati condotti nei Paesi Bassi, che si caratterizzano per essere più liberali. Il grado di liberalità di uno stato potrebbe predisporre o meno l’individuo all’utilizzo di materiale pornografico, mentre il grado di religiosità potrebbe influenzare la percezione della gratificazione sessuale.

 

Intelligenza artificiale e percezione visiva: come una macchina può esplorare il mondo

Anche i più complessi sistemi di intelligenza artificiale hanno dei limiti, soprattutto quando vengono messi alla prova su capacità tipicamente “umane”. Riconoscere le differenze esistenti tra uomo e macchina è importante perché apre ad un’interessante riflessione sulle alcune caratteristiche umane.

 

Vi è una certa differenza fra un’immagine virtuale, ad esempio quella che può essere catturata da una telecamera, e la percezione visiva umana. Per diversi autori, fra cui lo psicologo James Gibson (2014), nel mondo ecologico quest’ultima deriva, non solo dalla raccolta delle caratteristiche fisse e mutevoli dell’ambiente nel loro insieme, ma anche dai dati sull’osservatore e sui suoi movimenti oculari, della testa e relativi alla locomozione.

Fattori evidenti e misurabili, come esplorazione e orientamento, non sono gli unici ad entrare in gioco, ma vi sono importanti attività più generali, come ottimizzare ed estrarre gli elementi più utili per gestire i nostri spostamenti. Il rivelarsi di nuovi dati dopo un’azione influenzerà i movimenti esplorativi successivi, in ogni momento scegliamo dove guardare. Una catena dinamica di eventi, ognuno dipendente da quelli precedenti.

L’input video, invece, consente la fruizione di informazioni di seconda mano, in cui l’esplorazione dell’ambiente è stata svolta precedentemente dal regista, in modo indipendente da chi sta guardando lo schermo. Ciò può sembrare scontato, ma i sistemi di deep learning visivi sono basati principalmente su questa tipologia di dati, in genere foto e video accuratamente selezionati dal web.

Si assume così implicitamente che l’osservatore sia un detector delle proprietà delle immagini. Una macchina con tale funzionamento, però, nel mondo reale, impiegherà molto tempo a rivelare le informazioni che la circondano in quanto, mentre rileva le caratteristiche salienti, non sarebbe in grado di dare la giusta priorità ai dati utili per assumere attivamente un punto di vista più informativo.

Ma è possibile insegnare ad una macchina a guardarsi intorno in modo efficace come i robot dei film?

Ramakrishnan e collaboratori (2019) hanno trovato un modo ingegnoso per rispondere a questa domanda. Secondo i ricercatori la soluzione si trova nel “completamento attivo dell’osservazione”, l’intelligenza artificiale dovrebbe utilizzare una piccola frazione del suo ambiente per prevedere cosa potrebbe apparire nella porzione non ancora esplorata, e in base a ciò guidare l’osservazione.

È stato sviluppato un sistema di deep learning libero, il cui obiettivo è manipolare un oggetto tridimensionale per individuarne la struttura o l’esplorazione dell’ambiente circostante, ad esempio l’interno di una stanza, a 360°, con la possibilità di ruotare per spostare il suo campo visivo. L’algoritmo è stato scritto in modo da dare importanza alle regolarità visuo-spaziali, ad esempio le relazioni fra semplici figure geometriche, in grado di prevedere con maggiore probabilità la posizione di altri invarianti salienti. Per fare ciò più velocemente e con il minor numero di movimenti possibile la macchina può supervisionarsi autonomamente nei vari tentativi. Inoltre, avendo a disposizione tutte le informazioni del contesto in esame (solo nella fase di allenamento) potrà calcolare quali sono i punti di vista più informativi e le relazioni fra ogni visuale e la precedente.

Una volta testato, questo approccio ha superato di molto gli standard, dimostrando apprendimento veloce e un’ottima abilità nel prevedere proprietà complesse, trasferibile ad ambienti e compiti completamente nuovi.

In conclusione

Questa tecnologia potrebbe essere un giorno applicata non solo allo spostamento da una visuale ad un’altra, ma ad azioni complesse tramite rinforzi sfaccettati. Il progetto è un’importante punto di svolta per lo studio della robotica e dell’intelligenza artificiale e spinge a una più ampia riflessione sulla percezione in generale.

Gli autori non hanno fatto assunzioni sui suoi possibili utilizzi futuri, ma questo lascia a noi un ampio spazio di immaginazione!

Per fortuna o purtroppo siamo egocentrici – Un racconto di fantapsicologia

Per fortuna o purtroppo, noi siamo il centro del nostro mondo e, da un lato non riusciamo a valutarci dall’esterno, dall’altro le valutazioni che facciamo sul mondo variano nel tempo con il variare del centro stesso. Il centro degli assi cartesiani dal quale descriviamo tutto è esso stesso in continuo cambiamento a diversi livelli.

 

Il punto di vista dal quale facciamo qualsiasi affermazione e che è a noi stessi invisibile in quanto dato per scontato e ovvio, è esso stesso in mutamento e dunque produce nel tempo valutazioni diverse dello stesso fenomeno, senza però rendersene conto perché è lui stesso ad essere cambiato. Metaforicamente possiamo immaginarci un predicatore che si alza in piedi e si siede su un pulpito nella cappella di una nave che sale e scende sulle onde di un oceano che s’alza e s’abbassa per via delle maree su di un pianeta che contemporaneamente ruota quotidianamente su se stesso, rivoluziona annualmente intorno al sole mentre oscilla come una trottola intorno al suo asse.

Quando stiamo guidando, tutti quelli che vanno più lentamente di noi ci sembrano un incomprensibile intralcio, mente quelli che ci chiedono strada e ci sorpassano ci sembrano dei folli immotivati frettolosi con noi al centro che andiamo alla velocità giusta.

Noi vecchi siamo caratterizzati principalmente dalla lentezza, nel movimento, nei riflessi, nel ragionamento, ma ciò appare evidente ad un osservatore esterno e non a noi stessi che andiamo, come a diciott’anni al massimo della velocità consentita. Per questo non è facile convincerci che dobbiamo smettere di guidare e di fare tante altre cose: noi siamo sempre gli stessi, semmai è il mondo che con tutte queste diavolerie moderne corre troppo.

Di questo fenomeno di traslazione del punto di vista occorrerebbe tener conto quando si scrive il testamento biologico: chi ci dice che il modo di valutare l’opportunità dell’esistenza di un demente, di un ritardato mentale gravissimo o di un tetraplegico sia lo stesso di un vent’enne surfista californiano? E a quale dei personaggi in cui ci siamo trasformati nel corso dell’esistenza spetta il diritto di decidere per tutti? Perché, attenzione una volta fatto “rien va plus” e qualche zelante infermiere o qualche radicale intollerante di quella che immagina una condizione inaccettabile lo si trova sempre; e in quelle condizioni non è neppure facile difendersi ed è indecoroso sperare nella difesa d’ufficio della Santa Romana Chiesa prima tanto avversata.

Detto questo il senso del “per fortuna” è evidente perché non esistendo nessuna consapevolezza al di fuori di sé ci si reputa sempre nel giusto mezzo, a posto, OK.

Il “purtroppo” dipende dal fatto che, certi della nostra prospettiva, giudichiamo quale sia il bene o il male per gli altri e mossi da velleità salvifiche non ci limitiamo ai consigli ma bruciamo sui roghi, rieduchiamo nei gulag e stacchiamo le spine. Naturalmente a fin di bene, ci mancherebbe.

Il Dono e i legami sociali

Il riconoscimento di sé avviene per differenza tra l’immagine reale e l’immagine proiettata dallo specchio. Allo stesso modo la psicologia sociale ha presupposto che uno dei cardini del senso di comunità sia la differenziazione. Io mi riconosco in ciò che è simile a me e mi differenzio dal “diverso”.

 

Freud, in Al di là del principio del piacere  e in Psicologia delle masse e analisi dell’Io aveva parlato di due pulsioni, solo in apparenza dicotomiche, Eros e Thanatos.

Egli scrive letteralmente

La massa viene evidentemente tenuta insieme da qualche forza

e questa forza o potenza è la libido. Per libido è da intendersi tutto ciò che nel linguaggio comune si chiama, liebe, amore.

Freud e la libido nei legami sociali

Freud aggiunge che libido è in fondo la forza motrice che porta alla conoscenza e ai legami. L’eros, così come descritto da Platone, liberandosi dagli appetiti sessuali, cambia oggetto investendo mete culturali e socialmente sintoniche. In questo modo la libido nasce come amor per poi trasformarsi in caritas che indica l’amore casto per il prossimo, per la chiesa, per Dio. Alcuni hanno parafrasato questa fase in greco sostenendo che la libido nasce come amore e si trasforma in agape. Il dono secondo questa visione rappresenterebbe il mezzo attraverso il quale l’Eros si esprime alla ricerca di legami sociali.

Platone nel convivio rappresenta l’eros come il cavallo nero che tira la biglia. Allo stesso modo Jean-Luc Nancy rileva che la pulsione, nel significato originale del termine tedesco trieb, indica un’azione come attività come la crescita di una pianta o le cure che si elargiscono ad un animale che cresce.  Ciò che spinge l’uomo è il vivere che ha come causa finale la ricerca del piacere. Freud, riprendendo Schopenhauer e Nietzche, ritiene che l’essenza della vita in genere e, in particolare, dell’uomo sia l’Eros. Tutto ciò che gli esseri umani fanno, dicono e intraprendono va interpretato come una manifestazione di Eros. Anche il dono, quindi, è una manifestazione di questa energia vitale chiamata Eros.

Freud, comunque, in Al di là del principio del piacere ha scritto che Eros non spiega tutto. Infatti, in Psicologia delle masse e analisi dell’io sostiene che data la presenza della pulsione di vita (Eros) deve esserci il suo opposto ovvero la pulsione di morte o distruzione (Thanatos).

In effetti, in quest’ultimo volume, egli si sofferma su ciò che disgrega un collettivo, su ciò che scioglie i legami sociali che in termini di dono sono l’antidono o, come vedremo in appresso, il dono perverso.

I quattro tipi di disgregazioni sociali di Freud

Freud individua quattro forme di disgregazione sociale: il panico, l’odio per gli altri, l’innamoramento e la nevrosi.

Nel panico che s’impadronisce della folla, vengono meno “tutti i riguardi che altrimenti i singoli componenti mostrano gli uni verso gli altri”.  In questa fase ognuno inizia a pensare per sé, a salvare la propria pelle.

L’odio per gli altri nasce dalla coazione a ripetere e trova le sue fondamenta nelle prime esperienze infantili. Sembra che nell’essere umano sono presenti degli stimoli o delle pulsioni che tendono a disgregare i movimenti e la solidarietà collettiva. Romolo uccide Remo per diventare re di Roma o, ancora, la chiesa cattolica, che seppur fondata sull’amore di Dio e “sull’ama il prossimo tuo come te stesso”, spesso si è mostrata intollerante verso gli esterni e i diversi. Dice Freud è come se l’odio estirpato all’interno del collettivo si sia riversato verso l’esterno e cioè verso gli “infedeli”, gli “eretici”, i “libertini”, etc. A questo stesso destino sono sottoposte tutte le organizzazioni collettive come il socialismo e il comunismo. Freud non crede che possa esistere una società buona e felice poiché la pulsione di morte continua a lavorare affinchè venga disgregata. Sembra che questa visione di Freud derivi da studi di carattere biologico e, in particolar modo, provenienti dalla chimica.

Io credo che il dualismo tra istinto di vita e di morte, della lotta tra il bene e il male, vadano ricercate nelle origini ebraiche di Freud. Nell’ebraismo il dualismo bene-male costituisce il presupposto su cui si snoda tutta la vicenda umana. Durante la fuga dall’Egitto Mosè è il bene, il tramite attraverso cui Dio dona agli uomini le tavole della legge. Il costruttore del vitello crasso rappresenta l’odio per gli altri e, specificamente, per Mosè.

In termini di dono l’odio per gli altri è rappresentato dall’incapacità a donare o dall’inserire doni perversi.

La nevrosi isolando gli individui colpiti dalla vita sociale tende disgregare il collettivo. In sostanza essa non permette l’instaurazione di legami e relazioni sociali.

L’ultima caratteristica disgregativa Freud la individua nella coppia innamorata. In termini di legami la suddetta affermazione sembrerebbe in antitesi poiché ogni società pare fondarsi sulle relazioni familiari e, quindi, sull’amore di coppia. Ciò cui allude Freud, molto probabilmente è quando l’amore è guidato esclusivamente da ciò che, come vedremo in seguito, Scabini e Cigoli hanno definito il pathos senza tenere conto dell’ethos. Ciò espone il legame a tutti i capricci di tipo emozionale: resta un bambino che vive delle emozioni e dei capricci del momento, e non permette lo sviluppo del legame, necessario per affrontare le tappe che la vita ci propone. In sostanza, la coppia totalmente innamorata perde il suo rapporto con il sacro e con le esigenze razionali del convivere civile. E’ un fatto che le società millenarie basate su una visione collettiva, di costruzione di legami collettivi abbiano imposto forme quasi severe di comportamento sessuale. E’ stato così per il cristianesimo, per l’islam, per l’Inghilterra di Cromwell, per lo stanlismo e per la costruzione della repubblica popolare cinese.  Raimondo Spiazzi (1990) in “Lineamenti di etica familiare” scrive

Il matrimonio unico e indissolubile era infatti un punto di arrivo di tutto un processo ascensivo della società, svoltosi principalmente sotto l’influsso del cristianesimo, che nel contesto socioculturale seguito alla decadenza dell’Impero Romano e formatosi attraverso le vicende e le prove delle invasioni barbariche e del medioevo, aveva fatto della famiglia monogamica e stabile il cardine della civiltà da esso fecondata.

San Tommaso nella Summa Theologica afferma che

l’indissolubilità del matrimonio sembra doversi annoverare tra i precetti secondari della legge naturale …..

sicchè

nelle leggi che lo concernono, bisogna badare a ciò che giova al bene di tutti, piuttosto che a ciò che può competere a uno solo.

San Tommaso nelle sue riflessioni fa riferimento alla ragione nel momento in cui scrive che il matrimonio ha un triplice bene:

  • Dell’intera umanità, e sotto quest’aspetto è naturae officium, retto direttamente dalle inclinazioni e dai dettami della ragione circa i rapporti tra i sessi e la procreazione;
  • Della società civile, ed è quindi regolato dagli ordinamenti della legge statuale;
  • Della Chiesa, e soggiace quindi al regime ecclesiastico.

Il punto di vista di Freud sulla coppia

Freud, seppure segua strade diverse, sembra concordare perfettamente con le considerazioni di San Tommaso quando afferma che la coppia innamorata, totalmente dedita al pathos, è una forza disgregatrice dei legami sociali. Infatti, per Freud Eros non è la tendenza solo ed esclusivamente verso il piacere, ma è la ragione che ci distoglie “dal vivere come bruti” e che ci spinge a “seguire virtute e conoscenza”. Molti, a mio parere in maniera frettolosa, hanno scritto che nei saggi, che stiamo analizzando, egli introduce la pulsione di morte. Io credo, al contrario, che Freud in questi saggi mette in risalto la pulsione di vita. Eros è ciò che ci spinge a incontrare l’altro o gli altri e a fare legame/i con esso/i.  E’ ciò che ci spinge a combattere per una causa, a fare gruppo o comunità.  Poiché teso all’incontro con l’altro, non può essere semplicemente letto e analizzato in maniera intrapsichica ma sicuramente è un meccanismo interpsichico. In termini husserliani è trascendentale nel senso che è dotato d’intenzionalità. In sostanza, Eros non è totalmente inconscio ma è una funzione dell’io e, poiché tale, della razionalità e della ragione. In sostanza per mantenere i rapporti sociali e i legami matrimoniali oltre al pathos è necessario l’ethos.

Essendo dotato d’intenzionalità l’incontro con l’altro comporta un’azione, l’intezione di legarsi all’altro, che in psicologia è stata studiata soprattutto riguardo alla formazione dei gruppi. Cosa ci spinge a inserirci in un gruppo o in svariati gruppi e a riconoscersi in essi? Nell’ambito dei processi di riconoscimento abbiamo già visto che il soggetto per riconoscersi ha bisogno di costituire legami con l’altro che non necessariamente è un “tu”, ma, spesso, è un “noi”.

Si tratta di capire, dopo aver descritto i processi che portano alla costituzione della molecola (coppia) e dell’unione di molecole (organi – famiglia), quali sono i processi che legano gli individui e che li portano a riconoscersi all’interno di un altro che si costituisce come gruppo, comunità, stato, nazione, mondo.  Se quasi tutte le teorie concordano nel riconoscere l’esigenza per il soggetto di fare legami come antropologica, il riconoscersi, come abbiamo visto, pone il problema dell’identità sia essa individuale sia di gruppo o comunitaria. Il riconoscimento di sé è anch’essa una esigenza di carattere antropologico. Lacan, attraverso lo specchio spezzato, indica un vero e proprio stadio dello specchio nel momento in cui il bambino inizia a specchiarsi al fine di riconoscere il proprio essere biologico – il proprio corpo (). Per il riconoscimento di sé abbiamo bisogno di specchiarci sia in senso fisico sia metaforico al fine di avere consapevolezza della propria identità. E’ chiaro che l’atto dello specchiarsi, utilizzando il linguaggio lacaniano, è lo spazio dell’altro e quest’ultimo è sempre situato nella intersoggettività. Ho detto in precedenza che l’intersoggettività è lo spazio in cui si formano i legami e, quindi, il soggetto nell’atto dello specchiarsi crea un legame con l’immagine che gli è restituita. L’immagine dello specchio è un’immagine “altra” che, addirittura essendo costitutiva del soggetto, precede quella del soggetto e, quindi, si crea un debito tant’è che Lacan ha introdotto il concetto di “frammentazione del corpo”. Quest’ultima misura il difetto tra immagine dello specchio e quella reale. Se vi è un debito-difetto, il legame che si costituisce tra le due immagini può essere inserito nell’atto del donare? A mio modo di vedere certamente si: il soggetto dona la sua immagine allo specchio il quale lo contraccambia con un’altra alla quale, all’interno di un processo circolare, conforma il proprio sé.

Il processo sarebbe semplice se il luogo dell’altro fosse uno solo, al contrario, durante lo sviluppo evolutivo, i luoghi dell’altro sono molteplici: la madre, il padre, i fratelli, i parenti, gli amici, i gruppi sociali, le istituzioni, le norme sociali, lo stato e, come vedremo in seguito, la propria storia generazionale. Un altro luogo dell’altro è anche il simbolico e il culturale. Se i luoghi dell’altro sono diversi e molteplici, non vi è dubbio che il processo del riconoscersi per difetto sia un processo dinamico ed evolutivo attraverso il quale riconoscendo lo scarto tra l’immagine dello specchio e la mia tendo a innescare un nuovo processo di riconoscimento e, quindi, a instaurare nuovi legami (). La complessità del riconoscersi aumenta nel momento in cui il luogo dell’altro è il simbolico e il culturale: io mi riconosco all’interno di un determinato contesto che, come ci informa G. Bateson (1975), è la matrice dei significati.  Lacan, come ho scritto in precedenza, considera “l’altro nome del padre” come il significante in relazione con i significanti avvicinandosi parecchio alla definizione di Bateson. Per Lacan il contesto culturale e simbolico è costituito dal significante ovvero da ciò che da significato alle singole azioni o ai singoli comportamenti con cui, il soggetto nel luogo dell’interpsichico si relaziona, o meglio, visto dal nostro punto di vista, si lega senza che il soggetto sia fuori dalla dinamica del significante. E’ nel rapporto tra percettum e percepiens che questa dinamica trova riscontro. Il percettum è la catena dei significanti che ha una sua strutturazione cui partecipa anche il percepiens. In altre parole, il soggetto percepisce all’interno di un campo percettivo che anche lui contribuisce a costruire e, nello stesso tempo, è effetto della catena dei significanti e funzione del percepito. Il sociale, i gruppi, la comunità in quest’ambito sono lo specchio attraverso il quale il soggetto sperimenta il riconoscimento di sé e, nello stesso tempo, costruzioni dello stesso soggetto attraverso i legami interpischici.

Legami sociali e riconoscimento dell’identità

Dalle considerazioni sopra esposte si evince che il riconoscimento di sé avvenga per differenza tra l’immagine reale e l’immagine proiettata dallo specchio. Allo stesso modo la psicologia sociale ha presupposto che uno dei cardini del senso di comunità sia la differenziazione. Io mi riconosco in ciò che è simile a me e mi differenzio dal “diverso”. Abbiamo già analizzato come il riconoscimento permette di dare un senso contemporaneamente sia all’altro sia a me stesso mostrando sia i tratti comuni sia le differenze. Identificare l’altro come simile significa sviluppare un sentimento di condivisione che nasce da elementi di somiglianza e comunanza.  E’ sempre il processo di riconoscimento che permette la creazione dei gruppi sociali in modo da poterci specchiare e, nello stesso momento, essere specchio sia nella dimensione della similitudine sia in quella della diversità. Il riconoscimento è il processo su cui si costruisce la nostra identità individuale: allo stesso modo un gruppo d’individui con caratteristiche simili interagisce al fine di essere riconosciuto in modo da far emergere l’identità collettiva.

Con Freud l’identità si costituisce nei vari passaggi evolutivi o nelle fasi di sviluppo da lui stesso individuati in conformità alle norme e ai valori dominanti rendendo gli individui complementari e garantendo un’integrazione tra il proprio sistema interno e quello esterno. Lacan sposta l’attenzione sulla relazione ovvero il soggetto si riconosce nello specchiarsi con l’altro che rappresenta il culturale o il sociale (il significante tra i significanti). Il soggetto s’inserisce all’interno del sistema sociale, quindi, nell’adeguarsi alle norme sociali (l’io come luogo di mediazione tra le esigenze dell’es e del super-io) nel primo caso, o specchiandosi con l’altro, nel secondo caso. In ambedue i casi “la patologia sociale” o la devianza è da far risalire a un mancato funzionamento del sistema difensivo dell’io.

Anche in sociologia si segue lo stesso schema, da lato vi è la visione funzionalista e dall’altro, quella fenomenologica e/o d’interazionismo simbolico.

Nella prima visione si fa riferimento agli studi di Parsons () che ipotizza che l’integrazione sociale è il risultato dell’interazione di tre sottosistemi, quello culturale, quello sociale e quello della personalità. L’identità sarebbe il frutto proprio del mantenimento e dell’adesione di questa ultima alle norme sociali e culturali condivise. In questa visione il riconoscersi è frutto di un equilibrio tra le componenti dell’ambiente e il sé. Il legame tra l’ambiente esterno e quello interno, in sostanza, è funzionale al mantenimento dell’identità.

La visione fenomenologica pone la formazione dell’identità all’interno di dell’interazione tra il sé e l’altro che produce un processo di comunicazione simbolica che influenza la capacità di guardare a se stessi sia dal punto di vista dell’altro che dal punto di vista del sé. L’interazione ha come effetto i processi di differenziazione che costituiscono la base dell’identità la quale si forma per effetto e all’interno, dello spazio dei legami.

I processi di costruzione dei legami sociali

Già nella mia tesi di laurea (1986) ho messo in risalto che i concetti sopraesposti se li inseriamo come possibili paradigmi per l’analisi dei fenomeni devianti comportano il valutare questi ultimi come l’effetto di fenomeni patologici che s’inseriscono all’interno dello sviluppo intrapsichico, di quello interpsichico e/o nella cultura dominante. I processi e i percorsi di socializzazione, siano esse frutto di legami intrapsichici che interpsichici, devono tendere, come assunto di base, al conformismo e, quindi, la devianza deve essere frutto di qualche errore nei legami. Al massimo in questa visione essi possono essere il frutto di subculture della devianza per cui specchiandomi con collettivi devianti riconosco il mio sé con norme in contrasto con quelle condivise o ufficiali. Un sistema sociale siffatto sarebbe poco dinamico, non in grado, cioè, di incorporare il cambiamento. Se lo dovessimo leggere in termini sistemici, il rapporto tra individuo, sistema culturale e sociale tenderebbe alla morfostasi non sarebbe in grado cioè di incorporare i cambiamenti. Noi sappiamo, al contrario, che i sistemi sono per loro natura morfogenetici in grado cioè di sopportare le spinte al cambiamento se queste non sono lette come distruttive per l’intero sistema.  La devianza, quindi, quando non diventa distruttiva per il sistema, può essere letta e analizzata come una spinta al cambiamento.

Matza (1969), addirittura, sostiene che c’è una sovrapposizione tra i fenomeni devianti e quelli tesi al conformismo. Alla base dei comportamenti devianti, quindi, non ci sono legami patologici. Ecco perché bisogna pensare alla formazione dell’identità come a un processo orientato sulla base di significati costruiti soggettivamente, e che si compie all’interno di relazioni significative. Se bisogna attribuire scopi e significati su una base soggettiva non vi è dubbio che il legame tra sistema e soggetto produca una relazione dialogica per cui l’individuo attribuisce significati in base al sistema sociale di riferimento e quest’ultimo cambia in funzione dell’attribuzione dei significati soggettivi e, all’interno di questa circolarità che, a livello meta comunicativo, scopre la natura del rapporto tra il sé e l’altro.  Contemporaneamente riscopre, però, la propria soggettività che trasforma in un’identità narrata che gli permette di relazionarsi con il gruppo e con la comunità.

La narrazione, il racconto della propria storia biografica, dotandola di senso e significatività, lo fa sentire membro di una storia più grande cui si sente di appartenere. Se appartengo a una storia, non sono più solo e partendo da quest’assunto sono inserito in un mondo di legami.

Legami sociali e dono

Il sentirsi solo è una condizione in cui si trovano gli anziani nel nostro sistema sociale in cui i cambiamenti avvengono con una tale velocità che essi non riescono a elaborarlo e, quindi, vivono il disagio del sentimento di non appartenere. Appartenere significa inserire il legame all’interno di un sistema mitico, simbolico e culturale condiviso. Interessante è a questo proposito la risposta che da il “puparo” nell’ultima puntata della serie tv “La piovra” al commissario Cattani: “La droga ha avvelenato il sangue di chi se la inietta nelle vene …. A noi ha avvelenato la testa”. Non si riconosce più all’interno della “comunità mafiosa” i cui valori sono cambiati con l’avvento della droga. La scena è interessante anche perché il pentimento avviene per salvare la figlia adottiva. Si scontrano due mondi di valori simbolici cui riferire la propria condotta: la vecchia e la nuova mafia.

Interessante è anche la sovrapposizione dei valori tra comunità civile e comunità mafiosa che trova riposta anche nel libro intervista, “Cose di Cosa Nostra”, di Marcelle Padovani con Giovanni Falcone soprattutto nel momento in cui il giudice nel III capitolo parla di contiguità.  Egli sostiene che ciò che lo rende speciale come giudice che si occupa di mafia è che è nato a Palermo ed è vissuto negli stessi ambienti degli uomini di cosa nostra e, quindi, conosce i codici simbolici per metterli a loro agio e poterli far parlare. Ciò significa che all’interno di un sistema simbolico, sociale e culturale, il soggetto da significato al suo senso di appartenenza scegliendo, in base a molteplici variabili da ricercare nella narrazione della propria storia personale, il gruppo o la comunità cui appartenere.

In termini di legame e del paradigma del dono, che ho sostenuto dall’inizio di questo capitolo perdere, acquistare e mettere in comune ancora una volta:

  • si deve mettere in comune per la condivisione di un sistema di valori culturali e simbolici;
  • si deve perdere in soggettività per acquistare all’interno di un valore di legame o, al contrario, si guadagna in soggettività al fine di produrre i necessari cambiamenti all’interno del sistema simbolico.

In sostanza, il processo non può che essere lineare così come non può non essere dinamico ed evolutivo nel senso del cambiamento.

Sopravvissuti a disastri naturali mostrano disturbi del sonno e problemi legati alla salute mentale

In letteratura sono riportati numerosi studi che valutano le conseguenze psichiche in seguito a tre diverse tipologie di disastri: naturali, tecnologici e provocati volontariamente dall’uomo come gli attacchi terroristici.

 

La serie di disturbi provocati da tali eventi comprende: disturbo da stress post-traumatico (PTSD), disturbo depressivo maggiore (MDD), abuso d’alcol, disturbi d’ansia e di somatizzazione, problemi comportamentali, come violenze domestiche, e molti altri sintomi di sofferenza psichica, disturbi della performance e della reattività̀ psicologica. Questi effetti sono stati rilevati sia in conseguenza di disastri naturali, quali eruzioni vulcaniche, incendi, alluvioni, uragani, frane e terremoti, sia in disastri tecnologici, quali guasti a impianti nucleari o petroliferi, affondamento di navi, crollo di una diga e disastri aerei, sia in tragedie provocate volontariamente dall’uomo, come gli attacchi terroristici.

Gli effetti sulla psiche degli eventi traumatici: uno studio sperimentale

Sulla base di queste premesse, un recente studio, condotto dall’Oxford Academy e pubblicato su Sleep, ha cercato di indagare la relazione tra resilienza (adattamento alle avversità), stress peritraumatico (dove i sintomi compaiono durante o subito dopo l’esperienza traumatica e sono reazioni intense che causano una menomazione significativa sul piano della realtà), PTSD, gravità dei sintomi depressivi e disturbi riguardanti il sonno nei sopravvissuti al terremoto di Haiti del 2010 dopo due anni dall’evento.

Il campione era composto da 165 partecipanti, aventi un’età media pari a 30,7 anni (SD= 11.07), la maggior parte dei soggetti erano maschi (52,1%). Tutti i soggetti vivevano a Port-au-Prince, Haiti, località colpita dal terremoto del 2010. I ricercatori hanno utilizzato diversi test quali: il Peritraumatic Distress Inventory, il PTSD Checklist Specific, il Beck Depression Inventory e il Connor-Davidson Resilience Scale.

Dai risultati emerge che il 60.4% dei partecipanti riferivano di aver provato paura di morire durante il terremoto, il 94% sperimentavo sintomi di insonnia successivi all’evento ed infine il 43% aveva incubi notturni. Inoltre, il 42.4% dei soggetti mostrava livelli significativi legati al PTSD mentre il 21,8% riportava sintomi depressivi. Vi era inoltre una correlazione positiva tra disturbi del sonno e lo stress peritraumatico, con il PTSD e con i sintomi depressivi, mentre non è stata rilevata alcuna correlazione significativa con i fattori di resilienza. Di conseguenza i fattori di rischio più significativi riguardanti i disturbi del sonno risultano essere lo stress peritraumatico, il PTSD e i sintomi depressivi.

In conclusione

Questo studio epidemiologico risulta essere uno dei primi che indaga la prevalenza riguardante i disturbi del sonno tra i sopravvissuti del terremoto di Haiti del 2010, e le correlazioni con lo stress peritraumatico, il PTSD, i sintomi depressici e la resilienza.

Pertanto appare evidente che il sonno sia uno degli aspetti più importanti su cui lavorare negli interventi volti a migliorare il funzionamento quotidiano e la qualità del benessere nelle popolazioni colpite da disastri naturali.

Lesioni fisiche traumatiche ed insorgenza di patologie psichiatriche

La relazione che emerge dalle ricerche recenti tra traumi fisici e psicopatologia ci suggerisce l’importanza di operare un’azione preventiva, oltre che terapeutica, rivolta alla cura di questi soggetti.

 

Persone che hanno subito un ricovero ospedaliero in seguito a gravi lesioni fisiche dovute ad eventi traumatici sembrano essere maggiormente predisposte al rischio di sviluppare depressione e disturbo da stress post traumatico (PTSD).

L’insorgenza di tali disturbi psichiatrici aumenterebbe in particolare qualora gli individui abbiano avuto esperienze traumatiche violente e/o siano stati esposti a condizioni sfavorevoli pregresse (scarsa salute fisica e mentale, mancanza di una rete sociale, episodi di autolesionismo).

Traumi fisici e psicopatologia: uno studio sperimentale

Questi risultati si rifanno ad uno studio condotto su 502 soggetti ospedalizzati in seguito a gravi lesioni fisiche. Successivamente al ricovero, i soggetti sono stati sottoposti ad un follow-up di 3 mesi per verificare la possibile associazione fra traumi fisici riportati e successivo sviluppo di episodi depressivi o di PTSD. Dei 502 soggetti, 225 hanno soddisfatto i criteri per la depressione o per il PTSD. Le due tipologie di diagnosi sono state effettuate con il Quick Inventory of Depressive Symptoms Self report e con la PTSD ChecK List- 5.

I risultati evidenziano come avere vissuto pregresse esperienze avverse possa costituire un fattore di rischio per lo sviluppo di patologie psichiatriche (depressione e PTSD) nei soggetti aventi gravi lesioni fisiche da eventi traumatici violenti.

Tali evidenze possono essere utili per tracciare le linee guida per un’azione preventiva oltre che terapeutica rivolta alla cura di questi soggetti. Difatti, raccogliere informazioni anamnestiche e cliniche dei pazienti con traumi fisici sarebbe utile per prevenire e diagnosticare tempestivamente l’insorgenza di problematiche psichiatriche postume.

Sesso e gravidanza: la soddisfazione sessuale della donna e della coppia

La gravidanza sembra essere accompagnata da un nuovo atteggiamento riservato alla donna, da parte di familiari, amici o addirittura estranei, la stessa espressione “essere in dolce attesa”, rende l’idea di come gravidanza sembri essere nella cultura Occidentale sinonimo di delicatezza, etereità, dolcezza e spesso tali caratteristiche sembrano venire automaticamente estese alla donna che ne è coinvolta  (Daniluk, 1998; Dempsey & Reichert, 2000; Friedman, Weinberg, & Pines, 1998; Tardy, 2000; Weisskopf, 1980).

 

Ciò che rimane indiscusso è che la gestazione e poi l’arrivo del nascituro, rappresentano un momento critico di ridefinizione dei propri ruoli sociali, così come un evento sconvolgente l’equilibrio della coppia.

La sessualità in gravidanza

Un aspetto che comprensibilmente tende a subire cambiamenti rilevanti è quello della sessualità, la quale richiede non solo la “capacità fisica” di partecipare all’atto sessuale, ma anche e soprattutto il desiderio di farlo, delle attitudini positive nei confronti del sesso e un certo grado di accettazione del proprio corpo. Tutti questi aspetti possono subire delle ridefinizioni considerevoli durante una gravidanza, come effetto degli sconvolgimenti fisiologici che interessano il corpo della donna, così come delle inevitabili ricadute psicologiche che accompagnano tali cambiamenti: talvolta la gestazione può avere complicanze e la donna è costretta a letto per parte o tutta la gravidanza; il cambiamento del corpo, specialmente nell’ultimo trimestre, rende difficili certe posizioni sessuali.

Il desiderio subisce fluttuazioni considerevoli nei diversi trimestri a causa degli ormoni; le credenze (spesso completamente errate: Bartellas, Crane, Daley, Bennett, & Hutchens, 2000; Ekwo, Gosselink, Woolson, Moawad, & Long, 1993; Fok, Chan, & Yuen, 2005; Goodlin, Keller, & Raffin, 1971; Klebanoff, Nugent, & Rhoads, 1984; Kurki & Ylikorkala, 1993; Sayle, Savitz, Thorp, HertzPicciotto, & Wilcox, 2001).) circa la pericolosità del sesso in gravidanza spesso limita il repertorio erotico delle coppie o le scoraggiano totalmente dal vivere la propria sessualità; il partner può avere difficoltà nell’erotizzare il corpo della compagna, sia a causa delle forme diverse, che per la comune tendenza già citata di considerare quasi asessuata o fragile la donna incinta, in quanto portatrice di un’altra vita; allo stesso modo la donna può percepirsi meno attraente e può avere disagio nel cercare rapporti sessuali.

Soddisfazione sessuale della coppia durante la gravidanza

Sebbene un qualsivoglia impatto sulla vita sessuale della coppia sia praticamente imprescindibile, la ricerca scientifica ha generalmente trascurato questo aspetto della gestazione; in particolare i pochi studi presenti si sono concentrati sulla frequenza dei rapporti sessuali, limitandosi ad esplorare la penetrazione vaginale o il sesso orale (Jawed-Wessel & Sevick, 2017; Johnson, 2011), trascurando di includere altri tipi di pratiche erotiche, ma soprattutto soprassedendo sul costrutto di soddisfazione sessuale. Diversi studi hanno trovato un nesso tra la soddisfazione sessuale e una più generale soddisfazione di coppia nelle diadi in attesa di un bambino (de Judicubus & McCabe, 2002; van Brummen, Bruinse, van de Pol, Heintz, & van der Vaart, 2006); a sua volta una maggiore soddisfazione di coppia correla con un’attitudine più positiva della donna verso il futuro ruolo di madre (de Judicibus & McCabe, 2002). Un calo nella numerosità dei rapporti sessuali in cui la diade è coinvolta durante la gravidanza, sembra avere un esito negativo sul benessere a lungo termine della coppia: van Brummen et Al. (2006) ad esempio, hanno trovato una correlazione con la soddisfazione sessuale ad un anno dal parto, mentre von Sydow (1999) ha trovato un nesso con l’instabilità relazionale a 3 e 4 mesi dal termine della gravidanza.

Soddisfazione sessuale della coppia in gravidanza: lo studio

Un nuovo studio condotto da Jawed-Wessel, Santo & Irwin (2019), si è preposto di indagare la relazione che intercorre tra la disposizione verso il sesso in gravidanza, vari comportamenti sessuali, e la soddisfazione di coppia nelle diadi primipare. Una peculiarità dello studio in questione è quella di prevedere un’analisi statistica diadica, che analizzasse cioè congiunti gli scoring di una stessa coppia, con l’obbiettivo di rilevare un’eventuale interdipendenza tra i dati che ne descrivono il comportamento sessuale e quelli che ne descrivono la qualità relazionale: l’ipotesi primaria avanzata degli autori è che una disposizione positiva verso il sesso sarebbe stata associata ad un’attività erotica più frequente, la quale a sua volta avrebbe correlato con una maggiore soddisfazione sessuale.

Lo studio ha coinvolto solamente coppie miste per rendere conto di un’eventuale influenza del genere e solo coppie primipare nel primo trimestre di gravidanza, per limitare l’influenza di variabili confondenti.

Dall’analisi dei dati ottenuti, alcuni comportamenti erotici (quali ad esempio, baciarsi, la penetrazione vaginale, etc.) si sono rivelati moderatori della relazione, confermata dallo studio, che intercorre tra disposizioni positive nei confronti del sesso e la soddisfazione sessuale nelle coppie primipare durante la gravidanza. L’utilizzo di sex toys (sia da soli che con il proprio partner) si è rivelato predittore di una buona soddisfazione sessuale di coppia in funzione del genere. Infatti, l’utilizzo di  sex toys negli uomini correlava positivamente con una maggiore soddisfazione sessuale, tuttavia il ricorrere alla stessa attività risulta essere accompagnata nelle donne da una minore soddisfazione sessuale. Inoltre, gli uomini che dichiaravano di ricorrere più spesso al fingering (inserimento di dita in vagina), dichiaravano livelli più bassi di soddisfazione sessuale.

Sebbene con le dovute limitazioni, lo studio presente contribuisce a colmare il gap esistente nella letteratura scientifica circa la vita sessuale delle coppie in attesa; è tuttavia auspicabile, sottolineano gli autori, ampliare la casistica dei soggetti esaminati, estendendo lo studio alle coppie omogenitoriali o di genitori transgender, per dipanare ulteriormente il rapporto che intercorre tra genere, sesso del partner e soddisfazione sessuale.

Come sappiamo che altri fanno parte di un gruppo?

La percezione, il processamento e l’interpretazione dei contesti e delle dinamiche sociali costituiscono tre capacità neurocognitive fondamentali per la nostra sopravvivenza e il nostro adattamento all’ambiente, in quanto ci consentono di costruire e in seguito selezionare e riconoscere il gruppo di appartenenza e di identificare allo stesso modo l’outgroup.

 

Alla base di tale riconoscimento e classificazione sia dell’ingroup che dell’outgroup, vi è l’abilità di ravvisare la presenza di dinamiche d’interazione tra individui o animali all’interno dell’ambiente sociale nel quale ci si trova.

In linea con lo studio, pubblicato recentemente su Nature Human Behaviour, di Zhou, Han e colleghi (2019) appartenenti al Key Laboratory of Brain Functional Genomics, Institute of Brain and Education Innovation e al dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive dell’università di Shanghai, tale presenza di un’interazione sociale tra individui può essere osservata a partire da specifici indici percettivi di basso livello, oggettivi e quantificabili, quali la distanza interpersonale, l’orientamento e la postura del corpo di individui in relazione tra loro.

L’identificazione di un gruppo infatti si costruisce tipicamente a partire dalla percezione di una scena sociale nella quale sono presenti alcuni cue che consentono di riconoscere la tipologia di individui presenti, le loro interazioni e sulla base di esse dividerli in gruppi sociali (Henderson & Hollingworth, 1999).

I modelli classici appartenenti al movimento della Gestalt avevano già evidenziato, tramite esperimenti psicofisici, diversi meccanismi e leggi percettive per la categorizzazione di stimoli all’interno di un medesimo insieme come la prossimità spaziale o la somiglianza percettiva (Grossberg & Pessoa, 1998); tuttavia non ci sono al momento evidenze che si concentrino dettagliatamente sulle regole o sui fondamenti percettivi dai quali trarre informazioni sociali rilevanti e significative per il giudizio sulle interazioni sociali, al di là di fattori cinestetici o la presenza di contatto personale (Wixted & Ghetti, 2018).

Lo studio

Per sopperire alle lacune presenti nella letteratura in tale ambito, il gruppo di ricerca di Zhou ha condotto diversi esperimenti per tentare di quantificare quelle regole alla base della valutazione percettiva delle interazioni sociali da parte di individui “osservatori”, analogamente a quanto fatto da precedenti studi della Gestalt per il raggruppamento percettivo, al fine di costruire un modello descrittivo e predittivo delle interazioni sociali all’interno di un contesto.

I ricercatori hanno così selezionato alcuni indizi sociali percettivi che sono risultati essere cruciali nel determinare l’appartenenza sociale ad un gruppo di riferimento quali la distanza interpersonale, l’orientamento del corpo e la postura, manipolandole in realtà virtuale (Zhou, Han, Liang et al., 2019).

I vantaggi dell’applicazione della realtà virtuale agli esperimenti psicologici sono stati duplici: in primo luogo, tramite la creazione di avatar virtuali, tale tecnologia ha consentito di ottenere condizioni sperimentali sociali più realistiche e di poter osservare le interazioni online, mentre dall’altra ha permesso di condurre un esperimento in grado di quantificare le regole sulla base delle quali si realizza il raggruppamento sociale grazie alla manipolazione delle sue variabili tramite computer.

Alla ricerca hanno preso parte circa 148 partecipanti volontari, di età media 20 anni. La ricerca è stata divisa in sei esperimenti, ciascuno dei quali è stato realizzato per l’analisi di specifiche variabili sociali.

Nel primo esperimento è stato chiesto a quindici partecipanti tramite visore di stabilire la probabilità che stesse avvenendo in quel momento un’interazione tra due avatar in un ambiente virtuale. Il giudizio da parte dei partecipanti sull’eventuale interazione tra i due avatar poteva essere prodotto a partire dalla percezione degli indizi sociali sopra descritti, traendo informazioni sociali significative da essi, manipolati di volta in volta e presenti nei diversi task in combinazioni e gradi differenti, con il fine di determinare quale parametro o configurazione di questi indizi generasse nei soggetti sperimentali l’impressione di un’interazione sociale tra gli avatar.

In particolare in questo primo esperimento sono stati manipolati sia la distanza interpersonale (prossimale vs. distale) tra i due avatar sia l’orientamento del corpo di un avatar rispetto all’altro, orientamento definito da specifici angoli (corpi posizionati a 90° a formare un angolo retto o a 180°) e la sua direzione, che sono risultate associate tra di loro in modo significativo nel determinare i giudizi di probabilità d’interazione nei soggetti osservatori (Zhou, Han, Liang et al., 2019). La distribuzione dei giudizi dei soggetti su tale probabilità è stata poi rappresentata da una curva le cui code agli estremi sono risultate rasenti l’asse dell’ascisse per distanze brevi tra i due avatar, e con una maggiore ampiezza centrale relativamente a distanze spaziali maggiori, ad indicare che i soggetti sperimentali utilizzavano maggiormente l’orientamento del corpo come informazione sociale significativa per stabilire l’avvenuta interazione tra i due avatar in particolar modo quando la distanza tra di loro tendeva ad essere ravvicinata.

A partire dall’identificazione dell’orientamento e della distanza come indizi sociali percettivi significativi nella stima della probabilità d’interazione, i ricercatori hanno ipotizzato l’esistenza di un campo d’interazione sociale, simile a quello appartenente alla fisica, quantificabile, che circonderebbe ciascun avatar e che costituirebbe il suo spazio d’interazione dove l’avatar è in grado di interagire con altri e di percepire stimoli. Di conseguenza, la posizione dei due avatar, l’uno nello spazio d’interazione dell’altro, determinerebbe la forza della relazione d’interazione tra i due e per questo può essere considerata un elemento informativo per dedurre l’ interazione da parte di un osservatore esterno.

Sulla base dei dati ricavati, i ricercatori sostengono che tale campo non sia concentrico ma possieda un’asimmetria per la quale tenderemmo ad interagire con maggior probabilità con persone presenti ad una certa angolatura spaziale, soprattutto se di fronte a noi, all’interno del nostro campo visivo anziché alle spalle.

Successivamente utilizzando le medesime modalità del precedente esperimento, ne è stato condotto un secondo che ha avuto come scopo quello di investigare l’effetto di una postura di “apertura” sui giudizi di probabilità d’interazione, postura che è stata definita da diversi gradi di apertura, dalla più contratta (es. braccia conserte) alla più espansa (es. simile all’abbraccio), trovando che la probabilità d’interazione nei giudizi aumentava significativamente in proporzione al grado di “apertura” della postura (Zhou, Han, Liang et al., 2019).

Gli esperimenti tre e quattro hanno altresì investigato se tali unità di base – un postura elevata di apertura, un orientamento del corpo a 90° e una distanza interpersonale ravvicinata – del campo d’interazione sociale si potessero osservare e generalizzare anche a contesti sociali reali nei quali vi è la presenza di più persone disposte in configurazione spaziali diverse. Quindi, tramite l’osservazione di numerose immagini sociali (esperimento 3 e 4) in cui erano presenti un numero maggiore di persone e di video clip selezionati dal database “Cocktail Party” in cui è stata inserita anche l’indizio sociale del movimento dei protagonisti nella scena sociale (esperimento 5 e 6), gli autori dello studio hanno evidenziato come questi indizi sociali, costituenti il modello del campo sociale d’interazione, predicessero significativamente anche la probabilità d’interazione nei giudizi dei soggetti sperimentali sia per le immagini che per i video clip.

In aggiunta, le evidenze ottenute dallo studio di Zhou e colleghi (2019) hanno mostrato come effettivamente la percezione dei soggetti esterni, osservatori dei vari contesti sociali sia statici che dinamici, sia con pochi che con molti protagonisti nella scena, sia in movimento o in specifiche angolazioni spaziali, circa le interazioni sociali, fossero in linea con le interazioni effettive che si stavano verificando nella scena sociale, dimostrando una discreta affidabilità del modello del campo d’interazione e la possibilità di utilizzare quest’ultimo per predire i comportamenti umani d’interazione a partire da specifici cue sociali.

In conclusione

Nonostante questo studio sia tra i primi a quantificare gli effetti di alcuni cue sociali sulla stima di probabilità di un’interazione sociale e sullo sviluppo di un raggruppamento sociale, permettendo la creazione di un modello testato poi sperimentalmente, del campo sociale d’interazione, tuttavia il modello proposto risulta ad oggi piuttosto semplificato.

Infatti esso non prende in considerazione altri indizi sociali, come la cultura di appartenenza, le norme sociali, il genere, e la tipologia delle legami che potrebbero intercorrere tra i protagonisti della scena sociale, che influiscono sulle dinamiche interattive tra individui e che necessariamente hanno un impatto nei giudizi percettivi di terzi osservatori.

Nonostante ciò, gli autori affermano che il loro modello e lo strumento operativo della realtà virtuale hanno le potenzialità in futuro di essere di supporto per ulteriori avanzamenti nel campo delle interazioni sociali per quantificare e mettere a confronto i campi d’interazione, ad esempio di bambini con autismo in modo tale da poter quantificare e poi intervenire su quei fattori che risultano compromessi (Zhou, Han, Liang et al., 2019).

Internet e cervello: l’influenza sulle nostre capacità cognitive

In un mondo in cui siamo costantemente connessi e perennemente “online” è impossibile non credere che questo massiccio uso di internet non abbia alcuna conseguenza sulla nostra persona.

 

Internet è la forma di tecnologia più diffusa e rapidamente adottata della storia dell’umanità. Nell’arco di poche decadi, l’uso di Internet ha completamente reinventato il modo in cui ricerchiamo informazioni, godiamo di forme di intrattenimento e gestiamo le nostre relazioni. Con l’avvento più recente degli smartphone, l’accesso a Internet è diventato portatile e può essere effettuato ovunque, permeando in modo ancora maggiore la vita quotidiana degli utenti.

A fronte di una diffusione sempre più capillare di questo tipo di tecnologia, il suo impatto sulle nostre capacità cognitive e sul nostro sviluppo cerebrale non è ancora stato chiarito. In un recente studio condotto a livello internazionale da ricercatori provenienti dall’Università di Western Sydney, dall’Università di Harvard, dal King’s College, dall’Università di Oxford e dall’Università di Manchester è stato evidenziato che l’uso di Internet può avere effetti acuti e sostenuti a livello cerebrale e sulle nostre capacità cognitive, in particolare su quelle attentive, mnestiche e sulle interazioni sociali.

Gli effetti di internet su: attenzione, memoria e relazioni sociali

La review è stata condotta aggregando studi recenti di ambito psicologico, psichiatrico e di neuroimaging, arrivando a realizzare un modello revisionato relativo all’influenza di Internet sul nostro cervello e sulle nostre capacità cognitive.

Per quanto riguarda le capacità attentive i ricercatori, tramite le numerose ricerche prese in esame, hanno evidenziato che il flusso ininterrotto di stimoli e notifiche a cui sono sottoposti coloro che utilizzano Internet favorisce un mantenimento costantemente diviso dell’attenzione. Tale tendenza riduce il nostro span attentivo e rende più difficile il mantenimento della concentrazione su un singolo compito. I comportamenti di controllo caratterizzati da una frequente e rapida verifica della presenza di nuove informazioni in arrivo provenienti da notizie, social media e contatti personali sono infatti risultati essere rinforzati a livello cerebrale attraverso il sistema cortico-striatale dopaminergico, il quale risulta coinvolto nei comportamenti legati alla dipendenza.

Le capacità mnestiche sono risultate a loro volta influenzate dall’utilizzo di Internet: la notevole mole di informazioni e fatti a disposizione degli utenti ha infatti un impatto significativo sulle modalità tramite le quali la conoscenza viene rievocata, immagazzinata e valutata. I ricercatori hanno evidenziato come Internet venga frequentemente utilizzato come una forma di memoria esterna, rendendo più semplice per gli utenti rievocare dove l’informazione è stata reperita a discapito di un ricordo accurato dei contenuti effettivi di tale informazione.

L’avvento delle nuove tecnologie ha inoltre alterato drasticamente l’opportunità di interazioni sociali e il contesto in cui tali interazioni hanno luogo, influenzando in modo significativo anche il concetto di sé e l’autostima degli utenti. Le interazioni sociali online sono risultate elicitare le stesse risposte delle relazioni reali a livello neurocognitivo, coinvolgendo aree cerebrali analoghe relative alla cognizione sociale, quali ad esempio l’amigdala. Tali ricerche evidenziano come le relazioni sociali online vengano elaborate in modo molto simile rispetto a quelle che hanno luogo offline, mettendo in luce le implicazioni significative delle interazioni tecnologicamente mediate per comprendere la socialità umana.

Conclusioni e prospettive future

I risultati della review rendono evidente la necessità di approfondire e ampliare ulteriormente gli studi relativi all’impatto del mondo digitale sulla salute mentale, sul funzionamento cerebrale e cognitivo, in particolare concentrandosi sulle differenze di tale influenza in base alla fascia d’età degli utenti.

La priorità emergente per l’ampliamento del corpus di ricerca è infatti la determinazione degli effetti dell’uso sostenuto dei media online sullo sviluppo cognitivo e cerebrale durante l’infanzia e l’adolescenza, in quanto l’attenzione dei ricercatori è stata concentrata principalmente su utenti di età adulta.

Sto bene, sto male: questione di alessitimia

Una delle prime domande che di solito si fa ai pazienti è cosa prova in determinate occasioni oppure come si sente in quello specifico momento, magari proprio mentre sta parlando con noi. La risposta tipica è bene o male.

 

 Alessitimia.

Potremmo procedere con tutte le formule che i pazienti utilizzano per rispondere alla domanda.

Possono riferire il disagio, la stranezza, la confusione, il fastidio.

Ancora… sensazione di malessere, di disturbo, più frequente un vago “Non lo so” con espressione perplessa.

Alessitimia: le emozioni, queste sconosciute

Uno dei modi per aiutare il paziente alessitimico è intercettare in tempo reale quello che sta provando in seduta con noi. In questo modo potremmo ottenere varie cose: notare la vastità delle emozioni, anche proprio a livello semantico e come esse si esprimono attraverso il corpo; ragionandoci insieme il paziente noterà che l’altro le può osservare in quanto si esplicano attraverso una serie di segnali non verbali e paraverbali.

A tal scopo è molto utile avvisare il nostro cliente che forse in quel momento sta provando una emozione ed aiutarlo ad indentificarla spiegandogli che l’abbiamo notato grazie ad una serie di indicatori come la postura, l’espressione, il tono della voce. Ed inoltre potremmo esaminare insieme a lui la fenomenologia: in che momento è apparsa l’emozione? Come si è espressa? C’è stato un picco ed eventualmente è andata via? Come è stata regolata? Si è intensificata o trasformata in altro? Quindi il nostro studio diventa una sorta di palestra nella quale il paziente può, a volte per la prima volta, scoprire cosa si nasconde dietro quel disagio o quel fastidio. Dietro quel “sto bene, sto male”.

Dall’alessitimia alla regolazione passando per la relazione terapeutica

Intrinsecamente al costrutto dell’alessitimia, inteso come un problema nella identificazione delle emozioni, ritroviamo la difficoltà a modularle e regolarle. Jurist, nel suo recentissimo testo, Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia, distingue l’ alessitimia come un problema specifico di identificazione dalle “emozioni aporetiche” per riferirsi a quelle poco chiare o confuse, vaghe, che ci segnalano che c’è qualcosa di attivo dentro di noi ma che non ci permettono di afferrarle con precisione. L’etimologia della parola (“a=senza” e “poros= accesso”) indica, infatti, l’impossibilità ad accedere alla conoscenza esplicita senza, però, renderlo impossibile. Secondo l’autore oltrepassare le emozioni aporetiche è possibile attraverso la mentalizzazione (Fonagy, Allison, 2014) e, per fare questo, il territorio migliore è lo studio della psicoterapia. Identificazione e regolazione sono abilità ed in tal senso possono essere apprese, sviluppate e allenate.

Prima di tutto aiutiamo il paziente ad etichettare le emozioni, proprio a livello semantico; anche se può sembrare buffo, spesso non sappiamo dire cosa proviamo perché semplicemente non ne conosciamo il nome. Immaginate di mangiare e non sapere che quella cosa lì è riso e che quella cosa verde è un asparago! Sapere che quello che proviamo si chiama gioia piuttosto che vergogna o disgusto arricchisce la conoscenza di noi stessi, specifica l’identità ed è utile in termini di sopravvivenza, evitando la confusione e l’opacità emotiva. Un’altra funzione che ruota intorno alla conoscenza delle emozioni è quella comunicativa: nell’incontro con l’altro poter essere perfettamente consapevoli di quello che si prova facilita lo scambio, avvicina, crea condivisione. Non per ultimo favorisce il rispecchiamento e capiamo bene quanto questo sia fondamentale nell’ottica della relazione terapeutica. In tal senso, favorendo curiosità verso il proprio mondo emotivo, veniamo catapultati in un processo di apprendimento e di crescita. A sua volta la conoscenza di quello che proviamo e di come esso si esprime, sottoforma di pensieri, comportamenti o sensazioni fisiche, è alla base della regolazione: è molto più semplice modulare un qualcosa che conosciamo piuttosto che qualcosa di ignoto. Secondo Jurist, infatti, l’espressione dell’emozione è mediata dalla modulazione che a sua volta è legata alla capacità di identificarla; questi tre momenti fanno capo alla capacità di agency che parte dalla identificazione e si realizza nella modulazione e nell’espressione. L’autore chiama questo processo “affettività mentalizzata” e si può realizzare nella figura del terapeuta come colui che mentalizza al posto del paziente quando egli non ne ha le capacità, restituendogli una lettura delle sue emozioni.

Non è semplice lavorare con il paziente alessitimico, spesso ci sentiamo scoraggiati e frustrati nel ricevere risposte vaghe ed incerte. Ma cerchiamo di non fare anche noi questo errore: capiamo bene cosa c’è dietro quel nostro fastidio, trasformiamolo in una precisa etichetta emotiva. Insomma, non facciamo anche noi gli alessitimici!

Neurobiologia del trauma e della dissociazione – Intervista a Frank Corrigan

Frank Corrigan partendo dalle conseguenze neurobiologiche del trauma sul cervello ha definito un nuovo modello di cura definito Deep Brain Reorienting. L’autore sará ospite del progetto “Evoluzione Psicologica” a Parma il prossimo 12 Ottobre 2019 dove presenterá la sua teoria.

 

Secondo l’ultimo report del National Child Abuse and Neglect Data System (NCANDS), il Child Maltreatment 2017, circa 3,5 milioni di bambini nel 2017 sono stati seguiti dai Servizi Sociali Americani.

Il Child Maltreatment 2017 è un report del Dipartimento per la Salute e i Servizi Umani degli Stati Uniti, che ogni anno dal 1991 mette assieme i dati sull’abuso e la trascuratezza infantili che provengono dalle agenzie per l’assistenza all’infanzia dei diversi stati americani. Nel 2017 il numero di bambini abusati si aggirava attorno ai 674.000. I tre-quarti (74,9%) è stata vittima di neglect, il 18,3% è stata abusata fisicamente e l’8,6% sessualmente (National Center on Child Abuse and Neglect, 2019).

Le origini traumatiche dei disturbi dissociativi

Il report europeo per la prevenzione del maltrattamento infantile del 2013 stimava 18 milioni di bambini come vittime di abuso sessuale, 44 milioni di abuso fisico e 55 milioni di abuso mentale.  Il report evidenziava inoltre i pochi studi sul neglect e il fatto che la raccolta dati variava tra i diversi stati per cui i confronti tra questi erano difficili da fare (WHO, 2013).

Esiste ormai una letteratura crescente che mette in evidenza la correlazione tra trauma e psicopatologia (Ney, Fung & Wickett, 1994; Koenen & Widom, 2009; Vachon, Krueger, Rogosch, & Cicchetti, 2015).

Molti studi documentano inoltre l’esistenza di una relazione tra trauma infantile e dissociazione. I pazienti con disturbi dissociativi riportano la percentuale più alta di esperienze traumatiche tra tutte le categorie psichiatriche e manifestano un’alta comorbilità con molti disturbi psichiatrici (Sar & Ross, 2006)

Le esperienze traumatiche cumulative sono inoltre in grado di rendere disfunzionali i principali sistemi di regolazione fisiologica dello stress impattando sul cervello in via di sviluppo (De Bellis & Zisk, 2014). Il trauma ha un effetto sulla neurobiologia e le manifestazioni sintomatologiche dei disturbi dissociativi possono essere varie e complesse.

Un libro molto interessante di Ulrich Lanius, Sandra Paulsen e Frank Corrigan dal titolo Neurobiology and treatment of traumatic dissociation – Toward an embodied self evidenzia come gli studi sulla neurobiologia del trauma, dell’attaccamento e degli affetti possano migliorare la comprensione e soprattutto il trattamento dei disturbi dissociativi complessi.

Uno degli autori, Frank Corrigan partendo dalle conseguenze neurobiologiche del trauma sul cervello ha definito un nuovo modello di cura definito Deep Brain Reorienting. L’autore sará ospite del progetto “Evoluzione Psicologica” a Parma il prossimo 12 Ottobre 2019 dove presenterá la sua teoria.

Ho intervistato Frank Corrigan per saperne di piú.

Trauma, dissociazione e Deep Brain Reorienting: Intervista a Frank Corrigan

Intervistatore (I): Come sei arrivato ad interessarti al trauma e alla dissociazione?

Frank Corrigan (FC): Molto precocemente durante la mia carriera in psichiatria, iniziata nel 1977, mi sono interessato all’autolesionismo e al suicidio cronico ed ho presto notato una quasi invariabile relazione con una storia di trauma precoce. Dal momento che i trattamenti farmacologici per i disturbi psicotici e dell’umore miglioravano negli anni, è diventato quindi chiaro che i pazienti che tentavano cronicamente il suicidio e che avevano alle spalle una storia di traumi severi non stavano ottenendo nessun beneficio significativo dall’avanzare della psicofarmacologia. Ero spesso deluso dall’utilizzo di nuovi farmaci, anche per il miglioramento dei sintomi, ma non è stato fino agli anni 90 che ho iniziato a formarmi in terapie psicologiche distinte dagli approcci psicodinamici che avevo avuto in precedenza. Nel 1996/1997 la DBT mi ha aiutato introducendomi alla consapevolezza delle emozioni e ai modi di tollerare il disagio ma non aveva il focus sul trauma che stavo cercando. L’EMDR nel 1999 ha fatto una differenza enorme nella mia pratica – ma era così potente che i pazienti con una storia di trauma potevano passare a stati dissociativi che non avevo mai incontrato prima. Il training in ipnosi clinica è stato seguito dal lavoro sugli stati del sé traumatizzati di Janina Fisher e poi dal modulo sul trauma dell’Istituto di Psicoterapia Sensomotoria. Nel 2009 mi sono ritirato dalla psichiatria generale a tempo pieno e mi sono specializzato in psicoterapia sul trauma, specialmente per i disturbi dissociativi complessi. Lavorare part-time mi ha permesso di essere co-autore della pubblicazione Springer Neurobiologia e trattamento della dissociazione traumatica con Ulrich Lanius e Sandra Paulsen che è stata infine pubblicata nel 2014. Da allora mi sono formato in Brainspotting e ho scritto due documenti di ipotesi sul suo meccanismo di azione. Successivamente ho lavorato a lungo con il Comprehensive Resource Model (CRM) e sono stato co-autore del libro su CRM (Schwarz et al 2016). Ho sempre cercato il meccanismo del modo più efficace ed efficiente per la guarigione e ho sviluppato il Deep Brain Reorienting (DBR) sulla base del mio continuo interesse nel ruolo del tronco cerebrale, specialmente del mesencefalo, nelle esperienze traumatiche e nei sintomi persistenti che ne derivano.

(I): Che cosa é il Deep Brain Reorienting (DBR) e quando puó essere utilizzato?

(FC): La DBR è una modalità di psicoterapia che mira ad assistere nel cambiamento legato alla guarigione entrando nel nucleo archiviato dell’esperienza traumatica; questo viene ottenuto intervenendo su una sequenza a partire dal mesencefalo. Zoomare sulle sequenze specifiche mi ha fatto capire quanto spesso ho perso le esperienze di “shock” – i momenti di orrore molto veloci e ad alta energia – nei momenti in cui l’intervento è stato portato avanti con altre modalità. Questo si verifica in particolar modo negli “shock” improvvisi riguardanti le relazioni di attaccamento, ma può anche accadere durante esperienze traumatiche. È importante eliminare sia lo shock pre-affettivo che quello affettivo poichè l’energia di questi può facilmente persistere ed essere innescata, con conseguenze cliniche, a distanza di anni. I traumatologi esperti possono trovare utile aggiungere il DBR al loro kit di strumenti, specialmente se stanno scoprendo che i conflitti di attaccamento stabiliti all’inizio della vita non si stanno chiarendo, o che le memorie traumatiche conservano un potere di indurre sintomi, o se ci sono shock attuali che sono dolorosi o irrisolti senza che inneschino stati del sé precedenti.

(I): Il trattamento dei disturbi dissociativi é un intervento a fasi che richiede competenze specifiche – in che modo il DBR puó aiutare il clinico nella terapia con questi disturbi complessi?

(FC): Non sostengo che il DBR sia tutto quello di cui un terapeuta necessiti per trattare i disturbi dissociativi complessi. Piú un terapeuta ha esperienza e formazione con differenti interventi meglio il trattamento per fasi puó essere ricucito per i specifici bisogni del paziente. Adesso io ho la tendenza a fare molta psicoeducazione riguardo al ruolo del tronco encefalico nel trauma, pur riconoscendo che non tutti condividano il mio entusiasmo per la neuroanatomia. Se il paziente ha bisogno di risorse per mantenere una stabilizzazione durante e tra le sedute, utilizzerei il Comprehensive Resource Model (CRM) che concentra in modo ordinato le tre fasi in un pacchetto molto piú coerente, piuttosto che dei modelli che vedono le tre fasi come distinte. Tuttavia, un vantaggio del DBR per molti pazienti é che il processamento arriva ad un livello piú profondo degli stati dell’Io. Questo significa che il processamento potrebbe avvenire con sequenze profonde toccando alla base la sofferenza di differenti parti del se, per esempio il dolore della solitudine.

(I): In che cosa il DBR si differenzia dalla Sensorimotor Psychotherapy?

(FC): La differenza principale é il modello neuroanatomico alla base dell’approccio. Quando io feci il training in Sensorimotor Psychotherapy il modello utilizzato era quello del cervello uno-trino (o cervello tripartito) di MacLean, dove il complesso rettiliano dei gangli basali era considerato centrale nelle risposte difensive bloccate. Come sappiamo, MacLean descrive il sistema limbico come formato dalla corteccia limbica e dalle principali connessioni tronco encefaliche di quella corteccia. Allo stesso modo il cervello neomammifero comprende la neocorteccia e le aree troncoencefaliche alle quali proietta.

Il punto focale del DBR riguardo all’orientamento che inizia nel mesencefalo e precede qualsiasi risposta affettiva, cambia completamente la prospettiva. Non c’è bisogno quindi di andare sui gangli basali o sul sistema “rettiliano”, livello di espressione dell’impulso all’azione; noi lavoriamo con i loro precursori a livello del tronco dell’encefalo.

La teoria del DBR definisce come importanti i circuiti mesencefalici che coinvolgono il collicolo superiore. In questa direzione un articolo di Baek et al. apparso su Nature nel 2019 ha messo in evidenza come i movimenti oculari dell’EMDR intervengano proprio su questi circuiti.

(I): Qual é la differenza tra DBR ed EMDR?

(FC): La risposta merita un excursus storico. Cercheró di spiegare come sono arrivato al Deep Brain Reorienting.

Mi irritavo anni fa quando le persone insistevano sul fatto che la stimolazione bilaterale alternata (SBA) utilizzata nell’EMDR fosse una trovata – quando nei fatti poteva essere molto potente. Sono stato fortunato a poter condurre delle Risonanze Magnetiche Funzionali per Immagini (fMRI) con il Professor Steve William a Manchester. In un articolo su un single case che abbiamo pubbicato riguardante l’EMDR abbiamo mostrato una variazione dell’attivazione dalla corteccia prefrontale dorsolaterale a quella ventromediale conseguentemente alla SBA. L’area della corteccia prefrontale ventromediale evidenziata é l’area che ha degli outputs verso il mesencefalo e l’ipotalamo (cosí come all’amigdala e l’ippocampo). La mia conclusione era che la SBA aiutasse a focalizzare la consapevolezza sulle sensazioni corporee evocate dalla memoria target e facilitava l’elaborazione EMDR attraverso una consapevolezza emozionale e somatica piú profonda su un asse mesecenfalo-prefrontale anche quando quando l’elaborazione dell’informazione coinvolgeva un’attivazione talamo-corticale piú diffusa. Da allora ho continuato a cercare qualsiasi cosa fosse la “componente attiva” dell’elaborazione della memoria traumatica e ho focalizzato la mia attenzione sulle sequenze del mesencefalo nel cuore delle memorie. Quando faccio il DBR, per rendere piú profondo il processamento anche se non é richiesto, io uso spesso la stimolazione tattile bilaterale.

Il training in DBR non prevede la stimolazione bilaterale alternata cosí come é importante osservare che il metodo funziona senza l’integrazione della SBA.

Ricollegandomi all’articolo di Baek et al., esso rappresenta effettivamente un importante conferma dal momento che mostra la modificazione dell’attivazione della paura nell’amigdala tramite un processo bottom-up. Questo avviene tramite dei circuiti che portano all’amigdala dal collicolo superiore per mezzo del nucleo medio-dorsale del talamo. Molte persone non riescono ad allontanarsi dall’idea che l’estinzione della paura sia l’unico metodo per trattare la memoria traumatica, quando nei fatti, l’esposizione porta solamente ad un nuovo apprendimento dalla corteccia prefrontale all’amigdala e non si avvicina necessariamente agli antecedenti mesencefalici dell’apprendimento affettivo.

Il DBR si focalizza sui circuiti del mesencefalo. C’é un cambiamento sul come la persona vede il sé quando una sessione di DBR é efficace. É per questo che io penso che il ri-orientamento sia un cambiamento di prospettiva basato sull’integrazione somato-sensoriale al livello del tronco encefalico.

(I): Quali sono gli aspetti della ricerca sui quali ti stai interessando attualmente?

(FC): Studi clinici sul DBR sarebbero impossibili per il livello di finanziamento necessario. Per questo spero di poter avviare degli studi di esito in scala ridotta che coinvolgano il neuroimaging del tronco encefalico e le sue connessioni, probabilmente prima e dopo le sessioni di DBR. Sarebbe anche interessante avere evidenze negli umani attraverso neuroimaging di un sistema innato di connessione che coinvolge il mesencefalo; questo potrebbe essere alla base di un sempre piú evoluto e complesso sistema d’attaccamento ed essere coerente con la maturazione del cervello in via di sviluppo.

Il Disturbo del Desiderio e dell’Eccitazione Sessuale Femminile e il Binge Eating Disorder – Riccione, 2019

Il Disturbo del Desiderio e dell’Eccitazione Sessuale Femminile e il Binge Eating Disorder

Cavallaro Michela, Cipriano Giorgia e Colombo Marta
Psicoterapia Cognitiva e Ricerca (PTCR) – Milano

 

Abbiamo deciso di focalizzare la nostra ricerca sul disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile perché appena entrato a far parte nella categoria delle disfunzioni sessuali del DSM 5.

Ancora pochi studi si sono concentrati su di esso ma hanno evidenziato correlazioni con i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione ed in particolare con l’Anoressia Nervosa e con la Bulimia Nervosa.

A tal proposito abbiamo predisposto un’indagine sulla popolazione generale che, dai dati preliminari, ha evidenziato una correlazione tra disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile e la tendenza Binge Eating Disorder (misurato tramite la scala BES). Inoltre è stata effettuata un’analisi di regressione lineare che ha evidenziato come le donne che soffrono sia di disturbo del desiderio e dell’eccitazione sessuale femminile che di Binge Eating Disorder abbiano metacredenze positive sul rimuginio.

 

L’influenza dei processi di memoria nella formazione dell’immagine corporea

Al terapeuta si apre una nuova strada nel lavoro sull’ immagine corporea con pazienti affetti da disturbi alimentari attraverso interventi sui ricordi, volti al consolidamento di un’immagine di magrezza che possa essere investita di significati maggiormente realistici e allo stesso tempo di un’ immagine corporea più sana.

 

L’ immagine corporea è un concetto le cui radici risalgono al XVI secolo con la descrizione dell’arto fantasma e che si è arricchito di studi, ricerche ed evidenze cliniche soltanto in parte sovrapponibili.

Paul Schilder è tra i più importanti psicologi che si sono occupati di tale concetto, da un punto di vista non soltanto medico e neurologico, arrivando a definire l’ immagine corporea: “quel quadro nel nostro corpo che formiamo nella nostra mente, ossia il modo in cui il nostro corpo appare a noi stessi” (Schilder, 1935). In questa definizione l’autore vuole fare emergere un’idea integrata di tale nozione, composta sia da esperienze e rappresentazioni legate al corpo, sia da credenze e vissuti psicologici; in particolar modo egli sottolinea l’importanza del movimento del corpo e delle sensazioni e percezioni che mano a mano si integrano in modo continuo nella formazione di schemi e rappresentazioni; tali schemi hanno una grande rilevanza poiché permettono al bambino di definire i propri limiti nella relazione con l’ambiente e con gli altri e, allo stesso tempo, di definire se stesso.

Nel corso del tempo moltissimi autori hanno poi ampliato e approfondito il concetto di immagine corporea, analizzando l’influenza di variabili cognitive, relazionali, sociali, culturali, storiche, ecc.

L’ immagine corporea si annuncia, dunque, come una rappresentazione polimodale, plastica e dinamica, determinata da fattori di diverso ordine (affettivi, sensoriali, culturali, sociali ecc.).

Disturbi alimentari e immagine corporea

Nei disturbi alimentari (principalmente anoressia, bulimia e obesità, ma non solo) la presenza di una distorsione dell’ immagine corporea risulta essere uno dei criteri diagnostici e clinici presenti nelle pazienti che soffrono di queste malattie.
Solitamente nell’anoressia si parla di una percezione dell’immagine sovrastimata (il mio corpo è più grosso di quanto lo sia oggettivamente), nella bulimia vi è una forte presenza di un’immagine negativa e disprezzata (il mio corpo non è piacevole), nell’obesità, invece, la presenza di un’immagine negativa del proprio corpo è spesso correlata a un’età di insorgenza precoce del sovrappeso (Bruch 1977).

Ad ogni modo, un’ immagine corporea distorta e/o negativa risulta essere, al tempo stesso, fattore di rischio, conseguenza e, dunque, variabile che alimenta e tiene in vita i circoli disfunzionali presenti nei disturbi alimentari.

Il ruolo della memoria nella formazione dell’immagine corporea

La formazione (in divenire) dell’ immagine corporea risulta, come si è detto, largamente associata a meccanismi percettivi, cognitivi, affettivi e motori che permettono la costituzione di tracce di memoria contenenti l’integrazione (o meno) di tutte le informazioni elaborate dal soggetto rispetto alla rappresentazione di sé nel mondo.

La memoria, a mio avviso, è dunque una variabile su cui è possibile e importante intervenire per aiutare questi pazienti nella cura della malattia. La mia ipotesi è che, nelle persone con un disturbo alimentare, si siano formate immagini corporee talvolta troppo negative, altre volte troppo variabili e altre ancora immagini ideali troppo rigide. Un esempio esemplificativo è dato da un flash clinico riferito da H. Bruch: una paziente affetta da anoressia riferisce di rendersi conto, a volte, di essere troppo asciutta ma poi di non riuscire a tenere a mente quell’immagine.

La memoria, dunque, svolge un ruolo determinante nello sviluppo della malattia così come nella cura della stessa.

Gli studi di Cristina Alberini hanno dimostrato come la memoria a lungo termine utilizzi meccanismi biologici di “programmazione” e “riprogrammazione” continui e spiegano come avviene l’archiviazione a lungo termine dei ricordi: subito dopo l’acquisizione delle informazioni vi è una fase di consolidamento che conduce dalla labilità del ricordo alla stabilità, facendo questa operazione parte dell’informazione viene scartata e vengono selezionate delle componenti significative; nel corso del tempo esistono diverse “finestre di consolidamento” in occasione di eventuali rievocazioni della traccia mnestica, ad ogni rievocazione il ricordo tende a consolidarsi ancora più stabilmente.

Questo fa presupporre come sia possibile modificare, durante la rievocazione di ricordi legati a valutazioni negative del proprio corpo, esperienze traumatiche (grandi e piccoli traumi), percezioni errate di grandezze o funzioni corporee, eventuali bias, attraverso l’espressione e l’elaborazione cognitivo-emotiva con il terapeuta.

La sfida che si impone al terapeuta è, dunque, quella di riconnettere percezioni, emozioni e cognizioni frammentate e disfunzionali, ricostruire ricordi e creare nuove informazioni maggiormente utili e adattive per il soggetto. Ciò che permette di fare questo lavoro di riparazione è l’agire terapeutico attraverso le immagini, poiché l’immagine è ciò che fa da ponte tra le parti più inconsce e quelle consce, tra emozione e cognizione. Le parole della terapia divengono, a questo punto, realmente trasformative, acquistano un corpo e un peso capace di modificare le connessioni neuronali del soggetto.

Nei disturbi alimentari, come si è detto, le immagini disfunzionali riguardano in modo considerevole la percezione del proprio corpo: esso è stato investito di altri significati e, nel tempo, si sono costruite e riconsolidate tracce mnestiche irrealistiche che hanno portato, a loro volta, il soggetto a percepire, credere, comportarsi in modo patologico. Nelle persone che soffrono di un disturbo alimentare il corpo tende a perdere le tipiche caratteristiche che, solitamente, vengono ad esso riconosciute e sottostanti a leggi fisiche di struttura e funzionamento ben precise. Il corpo può divenire, in tal modo, campo di battaglia, muraglia difensiva, dimostrazione di forza ecc.; il controllo del cibo rappresenta per il soggetto, inoltre, l’unico modo (spesso inconscio) per ottenere un certo potere su di sé e sulle altre persone a discapito, però, del benessere fisico e corporeo.

Una volta identificata nel paziente l’immagine di sé distorta o negativa, il terapeuta potrà promuoverne il “rimaneggiamento” aiutando il soggetto a prendere consapevolezza delle credenze errate e dei giochi relazionali in atto e, contemporaneamente, incentivare la costruzione di nuove immagini di sé più realistiche in termini di caratteristiche e di controllo.

Tornando all’esempio precedente, dunque, sarebbe opportuno consolidare, di volta in volta, l’immagine di magrezza affinché essa diventi una traccia sempre più persistente e accessibile per il soggetto e che possa, nel tempo, essere investita di significati maggiormente realistici (ad es. “sono troppo magra, sto mettendo a rischio la mia salute, ho paura) e, allo stesso tempo, co-costruire un’ immagine corporea più sana che possa essere, invece, rivestita di affetti positivi e divenire obiettivo raggiungibile e motivante la guarigione.

In conclusione

Nei disturbi alimentari è importante riconoscere, comprendere e modificare l’ immagine corporea presente nella memoria a lungo termine, così come è necessario creare nuove immagini, maggiormente realistiche e positive per il benessere dell’individuo.

Razionali o irrazionali, questa è la questione

Robert Aumann ha recentemente proposto un’ipotesi innovativa sulla natura dei processi decisionali sostenendo che le persone sarebbero naturalmente portate ad adottare quelle regole, ereditate dall’evoluzione, che si sono rivelate efficaci nei contesti naturali di vita quotidiana per la sopravvivenza e pertanto “razionali”. In particolari contesti si generano tuttavia delle storpiature che renderebbero maladattivo l’outcome comportamentale a partire dalla selezione della regola “giusta”.

 

Tra le teorie economiche più classiche, sostenute e diffuse nel modo di pensare comune, che appartengono al mainstream culturale, vi è quella che asserisce che le persone solitamente agiscono al meglio delle loro capacità per promuovere i loro interessi prendendo la decisione “più razionale” che consenta loro di massimizzare e ottimizzare gli utili, minimizzando al contempo perdite e danni (Simon, 1947).

Molto si potrebbe aggiungere per cercare di comprendere esattamente quale sia il significato di decisione più razionale” dal momento che è ormai appurato come la natura dell’essere umano, oltre che di ragione e cognizione alta, sia costituita anche e soprattutto da emozioni “calde” che influiscono e a volte “corrompono” i processi decisionali portando a comportamenti definiti “irrazionali” o insensati a parere di osservatori esterni.

Processi decisionali: il comportamento umano è davvero razionale?

Nel corso del tempo, l’ipotesi razionale di Simon (1947), per la quale l’essere umano agirebbe in modo razionale e selezionerebbe processi decisionali e poi di condotta che lo incentiverebbero ad ottenere il massimo profitto, ha mostrato tutte le sue debolezze in particolare nello spiegare quali siano le regole o le direttive che vengono utilizzate generalmente dalle persone, regole che possano spiegare in toto il loro comportamento.

Gli esperimenti di Probability Matching e i paradigmi di Ultimatum Game hanno infatti evidenziato come i comportamenti e le scelte delle persone, quando inserite in un particolare contesto sperimentale e chiamate a prendere decisioni di tipo economico, devino sistematicamente dalla massimizzazione dell’utile nonostante riferiscano, tramite interviste, il comportamento più adeguato che avrebbero dovuto mettere in atto (Siegel & Goldstein, 1959).

Da tali evidenze, studi successivi tra cui quello di Güth, Schmittberger & Schwarze (1982), appartenenti al filone dell’Economia Comportamentale, hanno evidenziato come il comportamento umano nella realtà non sia affatto razionale in quanto frutto di processi decisionali spesso imprecisi e contesto-dipendenti, precisando inoltre come sia di maggiore interesse che i modelli economici di tipo matematico, tanto cari all’economia classica, descrivessero come le persone agiscono nella vita di tutti i giorni anziché come dovrebbero comportarsi secondo regole stabilite a priori per ottimizzare i loro utili.

Nonostante sia difficile conciliare i due approcci, una prospettiva recente e innovativa che tenta una sintesi tra queste due tesi, apparsa recentemente su Nature Human Behaviour, è stata proposta da Robert Aumann, affiliato al dipartimento di matematica e al Federmann Center for the study of Rationality dell’Hebrew University di Gerusalemme, Israele. Essa si basa sull’assunto che il comportamento umano sia guidato da regole di razionalità, come invocato dall’economia classica, e che queste risultano “razionali” quando adottate in contesti specifici e non propriamente con il fine di massimizzare i profitti (Aumann, 2019).

Secondo questo assunto, le persone adotterebbero in particolare quelle regole, ereditate dall’evoluzione, che si sono rivelate efficaci nei contesti naturali di vita quotidiana per la sopravvivenza; ne deriva che la loro adozione per l’implementazione di un comportamento sia naturalmente “razionale” e costituisca il processo più logico in quanto permette di agire in maniera adattiva nell’ambiente incrementando di conseguenza anche benefici. Nella sua Perspective, Aumann sostiene che le persone non scelgono di agire ma piuttosto adottino le regole più efficaci e che sulla base di queste tentano di comportarsi nel modo più razionale possibile a seconda del contesto naturale nel quale si trovano secondo i dettami dell’evoluzione. Queste regole prescriverebbero il comportamento ottimale nelle situazioni più comuni come per esempio “mangia quando hai appetito”.

L’adozione della regola “mangia quando hai appetito” risulta adatta e funzionale nei contesti di vita naturale in cui non è presente una contaminazione sperimentale o culturale, ma dà sistematicamente un numero inferiore di risultati in contesti forzati, eccezionali, inusuali, in cui non possono vigere le leggi dell’evoluzione, come nel caso dell’obesità in cui vi è una pervasiva tendenza a sovralimentarsi anche quando si è raggiunta la sazietà (Aumann, 2019).

Tale ipotesi di Aumann costituisce un ponte di congiunzione tra il mainstream economico e l’economia comportamentale in quanto da una parte accetta l’idea che esistano delle regole che le persone adottano per aumentare gli utili, dove per utili si intende assicurarsi la sopravvivenza nell’ambiente nel modo migliore possibile, dall’altra però è convinto che in particolari contesti si generino delle storpiature che renderebbero maladattivo l’outcome comportamentale a partire dalla selezione della regola “giusta”.

Già in precedenza i padri fondatori dell’economia comportamentale Tversky e Kahneman (1974) avevano dimostrato come i comportamenti vengano selezionati sulla base di regole, in particolare di euristiche, che si dimostrano utili e funzionali in certi contesti ma che possono generare bias e far commettere errori nel momento in cui la situazione non consente più l’applicazione di tali regole e pertanto la ragione per la quale la maggior parte dei comportamenti economici osservati nei contesti sperimentali si è rivelata “irrazionale” risiede nel fatto che la regola è stata selezionata in contesti stressati”.

Aumann: l’euristiche secondo il modello evoluzionistico

Tuttavia, mentre l’economia comportamentale enfatizza solo la caratteristica specifica delle situazioni decisionali in cui le persone producono euristiche e bias sistematici e sono pertanto più propense a commettere errori, Aumann, avendo in mente un modello evoluzionisitico, inserisce un aspetto innovativo cioè il fatto che le euristiche in realtà non sarebbero altro che le migliori strategie di risoluzione delle situazioni che le persone hanno a disposizione per adattarsi ai contesti di vita comuni (Aumann, 2019).

Un esempio di quanto appena affermato è rappresentato dall’Ultimatum Game, un gioco di negoziazione utilizzato soprattutto per favorire l’espressione dei processi decisionali tra due giocatori, un proposer (P) che è obbligato a dividere una certa somma di denaro e a decidere quanto offrire di questa divisione ad un altro, definito responder (R) (Güth, Schmittberger, & Schwarze, 1982).

P propone un’offerta a R che può decidere di accettare o declinare sulla base di quanto offerto.
In questo tipo di situazioni, che avvengono solitamente nel completo anonimato o tramite computer, ci si potrebbe aspettare che P decida di dividere ad esempio un ammontare di 100 euro in modo equo tra lui e l’altro giocatore, oppure, come spesso accade, può decidere di tenere 90 euro per sé e offrirne 10.
Nonostante l’offerta non sia cospicua, rappresenta comunque una somma di denaro che R potrebbe accettare per guadagnare qualcosa anziché rimanere a mani vuote.
Quindi, partendo da presupposti puramente razionali R non avrebbe alcun motivo per declinare l’offerta e P al contempo avrebbe massimizzato il suo utile; tuttavia, nella maggior parte dei casi, R tende a rifiutare qualsiasi offerta che sia minore di 20 euro dimostrandosi “irrazionale” in quanto il suo rifiuto è da considerarsi una chiara violazione di una scelta guidata presupposti razionali.

Una possibile spiegazione delle ragioni che hanno portato R a rifiutare una somma di denaro, sebbene esigua, potrebbe essere risiedere nel fatto di essersi sentito insultato o ferito nell’orgoglio o aver interpretato come una mancanza di rispetto l’offerta di P.
Tuttavia Aumann non ritiene che tali ragioni siano soddisfacenti per piegare il rifiuto di denaro da un punto di vista concettuale; in linea con l’idea che qualsiasi comportamento sia frutto di regole evolutive, quale potrebbe essere la ragione adattiva-evolutiva di rifiutare del denaro perché qualcuno ci ha ferito?

A parere dell’autore dello studio, in realtà il rifiuto rappresenterebbe l’esempio perfetto della messa in atto di una regola di per sé razionale che esula e non si riduce alla mera mancanza di rispetto. In un contesto naturale di negoziazioni vis-à-vis e non di laboratorio in cui vige il completo anonimato (come nel caso dell’Ultimatum Game), R dovrebbe rifiutare un’offerta irragionevolmente bassa e ingiusta seguendo il principio della reputazione e della “Giustizia”: infatti R, accettando l’offerta, si sarebbe mostrato come colui che, impegnandosi in una collaborazione o contratto con un’altra persona sua pari, è disposto ad accettare di meno senza alcuna giusta causa.

Pertanto, in linea con Aumann, l’asserzione per la quale le persone non si comporterebbero secondo regole razionali è incorretta: noi ci comportiamo in modo razionale come dimostrato dal rifiuto nell’ultimatum game, rifiuto che di fatto è espressione di una regola che potremmo definire “razionale” perché ci permette di auto conservarci e di mantenere agli occhi esterni una certa reputazione, rango e status, sebbene l’esito sia un comportamento “irrazionale”, cioè decido di rinunciare ad una somma di denaro.

In fondo anche il comportamento più “irrazionale” può essere considerato il più razionale all’interno del migliore dei mondi possibili come direbbe Leibnitz, o meglio, del contesto in cui ci si trova.

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