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Schema Therapy: un viraggio processualista e metacognitivo? – Report dal Congresso Mondiale di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

Nel corso del 9° congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentale Arnoud Arntz propone un'analisi critica della Schema Therapy.

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 23 Lug. 2019

Nella sua lezione magistrale, Arntz non cerca di offrire una dimostrazione di efficacia della Schema Therapy, ma affronta in maniera critica due aspetti centrali nel modello teorico della Schema Therapy: gli stili di coping e i bisogni fondamentali dell’individuo.

 

La Schema Therapy (ST) è un approccio cognitivo-comportamentale di promettente efficacia nel trattamento dei disturbi di personalità. In particolare, i dati sono piuttosto consolidati per il Disturbo Borderline di Personalità, ma alcuni studi recenti hanno mostrato che la stessa efficacia potrebbe essere estesa anche agli altri Disturbi di Personalità (Bamelis et al., 2014). Nel corso del nono congresso mondiale delle terapie cognitivo-comportamentali che si sta tenendo in questi giorni a Berlino, i dati a sostegno della Schema Therapy vengono come al solito riassunti da Arnoud Arntz, uno dei suoi più importanti promotori.

Tuttavia, l’aspetto più interessante della lezione magistrale di Arntz non risiede nell’ennesima dimostrazione di efficacia della Schema Therapy, che consolida dati già conosciuti, ma nell’analisi critica che lo stesso Arntz pone in evidenza rispetto al modello teorico di riferimento.

Il concetto di schema e gli stili di coping

La teoria originaria, come fu sviluppata da Jeffrey Young (Young, Klosko & Weishaar, 2003), era principalmente un modello clinico e non scientifico, nato dal tentativo di descrivere ciò che si vedeva e che accadeva nello studio del terapeuta. Il riferimento alla psicologia generale era ridotto. E in questo lo stesso Arntz evidenzia almeno due problemi critici.

Il primo, e forse più significativo, riguarda gli stili di coping. La Schema Therapy suggerisce che strutture mentali caratterizzate da convinzioni su di sé e su aspetti del mondo (gli schemi), organizzino l’elaborazione delle informazioni e conseguentemente siano responsabili della vulnerabilità e della sofferenza emozionale. I pazienti con Disturbi di Personalità tenderebbero a gestire i propri schemi maladattivi attraverso tre stili di coping: resa, evitamento e ipercompensazione. Questa concettualizzazione delle modalità di coping ha portato con sé una certa ambiguità poiché confonde l’azione del paziente focalizzata sul mondo esterno (es. evito le situazioni che lo schema identifica come pericolose) da un’azione focalizzata sul proprio mondo interno (es. mi alieno dalla situazione per diventare insensibile alle espressioni del mio schema).

Arntz sottolinea che gli stili di coping non sono primariamente interpersonali (es. ingigantisco le mie qualità per ottenere ammirazione dall’altro) ma rappresentano soprattutto un tentativo di regolazione intrapsichica (es. ingigantisco le mie qualità per non sentirmi inferiore, cioè per negare l’esperienza opposta). Ne consegue una proposta da parte di Arntz orientata a ri-concettualizzare gli stili di coping secondo una nomenclatura che sottolinei maggiormente la funzione mentale cui sottendono, vale a dire la gestione di un’esperienza interna. La resa diventa rassegnazione: mi convinco che ciò che esprime lo schema sia vero e vi aderisco. L’evitamento diventa evasione: evado con la mente verso altri lidi per annullare l’attivazione dello schema. L’ipercompensazione diventa inversione: combatto contro ciò che esprime lo schema aderendo a una credenza opposta.

Sono questioni di lana caprina? Direi di no. A guardar bene la proposta di Arntz indica un vero e proprio spostamento paradigmatico che sembra spingere la Schema Therapy un po’ fuori dal mondo strutturalista (non del tutto, gli schemi restano), e più vicina ai modelli processualisti (Sassaroli, Caselli & Ruggiero, 2016). Non solo processualista in realtà, ma anche più metacognitiva, in quanto muove in modo netto l’attenzione teorica verso rapporto tra l’individuo e i propri stati interni, soprattutto in termini di relazione con le proprie convinzioni (beliefs) espresse nello schema.

Ma quindi il futuro della Schema Therapy è una teoria processualista? Allo stesso modo direi di no, almeno non per ora. Gli schemi restano nel loro ruolo di strutture stabili che organizzano l’elaborazione delle informazioni. Però qui oggi Arntz trascura un elemento di vulnerabilità di tutti gli approcci strutturalisti: attraverso quale meccanismo uno schema governa l’elaborazione delle informazioni? Forse tra qualche tempo tornerà su questo tema.

La classificazione dei bisogni innati

Si concentra invece su un secondo problema teorico: la classificazione dei bisogni innati, dalla cui frustrazione emergerebbero gli schemi maladattivi precoci. Arntz ammette che la distinzioni dei bisogni innati espressa da Young in principio aveva una semplice valenza pragmatica, senza fondamenti empirici. Però così e rimasta fino a ora. E ancora una volta, un approccio che giunge all’età matura e che risulta promettente non può oggi trascurare quelle debolezze teoriche che furono peccati tollerabili durante la sua giovinezza.

Qui però la proposta di Arntz è meno solida, più che altro sbrigativa. Il tentativo è quello di schiacciare i cinque bisogni di Young (sicurezza, libertà di espressione, autonomia, limiti realistici e spontaneità) entro una concettualizzazione teoricamente più solida e corroborata da dati empirici (Dweck, 2017) che però ne prevede tre primari (accettazione, competenza, prevedibilità) e quattro secondari (fiducia, controllo, autostima e coerenza) aggiungendone poi uno (non si sa bene perché), vale a dire il bisogno di equità.

I due modelli vengono semplicemente presentati sovrapposti. Non è dato sapere sulla base di cosa è stato selezionato quello alternativo, o si può dire di seconda generazione. Forse il tempo della lezione non ha concesso spazio sufficiente. Oppure il passaggio è stato volutamente rapido, un tentativo di transizione immediata verso una nuova direzione che offre più sicurezza. Un po’ come un agile scatto per togliersi un dente dolente. Se così fosse la classificazione precedente potrà essere semplicemente dimenticata.

In conclusione

Difficile dire in questo momento se i mutamenti teorici potranno avere un impatto sulle applicazioni future della Schema Therapy, se da proposta diverranno canone, se da concettualizzazione diverranno guida per future evoluzioni della tecnologia terapeutica. Certo erano necessarie.

Va dato il merito ad Arntz di non essersi arroccato su posizioni ideologiche, di aver riconosciuto debolezze teoriche e di essere in procinto di esplorare alternative. Che la Schema Therapy senta il bisogno ora di recuperare una solidità scientifica della propria teoria è evidente e questo è positivo. Almeno si riduce per tutti il rischio di nuovi approcci che funzionano ma non si sa mai bene perché. Però occorre ricordare anche che c’è sempre anche un rischio in questi mutamenti teorici applicati a posteriori: (1) l’impatto che il cambiamento teorico ha sulla tecnologia e sulla sua applicazione da parte dei terapeuti, (2) il rischio che si crei confusione e si mescolino prospettive teoriche vecchie e nuove sia nei terapeuti che conseguentemente per i pazienti.

In sintesi, è un passaggio interessante, probabilmente necessario, con buone prospettive ma che non potrà avvenire in sordina.

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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