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Psicoterapia personalizzata: un nuovo orizzonte. Report dal Congresso Mondiale di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

A Berlino nel corso del 9° congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentali si discute del tema sempre attuale della psicoterapia personalizzata

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 22 Lug. 2019

La richiesta di una psicoterapia personalizzata è sempre più frequente non solo da parte dei pazienti ma da noi stessi terapeuti, che sentiamo l’esigenza di dare una risposta quanto più aderente alle caratteristiche specifiche del singolo paziente. Al nono congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentali alcuni colleghi hanno presentato i risultati delle loro ricerche sulla possibilità di applicare una psicoterapia personalizzata.

 

I protocolli di terapia cognitivo-comportamentale (TCC) hanno stabilito uno standard di riferimento nel trattamento di molti disturbi psicologici (leggi di più qui). Oggi rappresentano il metro comparativo per approcci e tecniche emergenti che non possono più limitarsi a pareggiare il conto, ma hanno sulle spalle l’incarico di migliorare le cose, di portare al cosiddetto incremento di efficacia.

Negli ultimi vent’anni diverse innovazioni terapeutiche hanno pareggiato i conti, poche o nessuna è riuscita in questa impresa. Tant’è che certi limiti terapeutici della TCC restano presenti e attanagliano la mente dei ricercatori di tutto il mondo che proprio in questi giorni sono riuniti a Berlino nel nono congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentali. Alla luce di un contesto che presenta una moltitudine di nuove tecniche e una vasta gamma di nuove generazioni, più o meno di dimostrata efficacia, appare evidente come si possa e si debba ora cercare nuove strade per avanzare le potenzialità della psicoterapia.

A Berlino si rispolvera il noto tema di “cosa funziona per chi” e della psicoterapia personalizzata, ma con rinnovato vigore, interesse e soprattutto risorse. Se il dibattito tra fattori comuni e specifici di anni recenti ha avuto un risvolto positivo, ritengo sia stato quello di mettere una lente più accurata sui meccanismi che influenzano il buon esito della psicoterapia.

I protocolli si occupano dell’efficacia media (average), e meno male che ci sono, ma dentro questa media va riconosciuto che navigano condizioni di grandissima efficacia parallelamente condizioni di ridotta efficacia fino alla totale non risposta. Ora, sollevare la media può essere il risultato di un nuovo trattamento che si impone improvvisamente come più efficace di quelli presenti, ma potrebbe anche sorgere da un’applicazione più precisa degli interventi che abbiamo già disposizione, fuori e dentro l’approccio cognitivo comportamentale (precision medicine).

Il congresso mondiale trasmette l’importanza di questa prospettiva, in simposi e lezioni magistrali, attraverso la programmazione di tutte le giornate. Nella maggior parte dei casi, i dati sono preliminari e più concentrati a presentare prospettive di analisi di questa opportunità piuttosto che soluzioni vincenti, va detto. Ma la sensazione è che in futuro diventare proficue linee di ricerca. Vediamo le traiettorie verso una psicoterapia personalizzata che sono state presentate nel dettaglio.

Personalizzare l’invio a diversi approcci terapeutici

La prima opzione per una psicoterapia personalizzata la porta Robert DeRubeis che già in passato aveva aspramente messo in discussione la logica a sostegno dei fattori non-specifici come traiettoria di sviluppo della psicoterapia poco sostenibile: se anche le terapie possono avere esito equivalente, non significa che operino attraverso i medesimi processi (DeRubeis et al., 2005). Varrebbe la pena quindi, secondo DeRubeis, esplorare quali meccanismi hanno maggior impatto sul buon esito di una terapia e per quale gruppo di pazienti, in modo da fornire il trattamento ottimale sulla base di un’accurata valutazione iniziale. Questo è ciò che ha occupato i suoi sforzi negli ultimi anni.

Il processo ha una logica piuttosto semplice. Innanzitutto si raccolgono dati dai trial clinici che hanno confrontato diversi trattamenti. Poi si valutano potenziali predittori di esito positivo, cioè le caratteristiche che accomunano i pazienti che ottengono beneficio da un determinato trattamento X e che sono associate in modo significativo al grado di efficacia di quest’ultimo. Questi potenziali predittori possono includere variabili cliniche come eventi di vita negativi, severità o cronicità dei sintomi, disturbi in comorbilità, fallimenti terapeutici precedenti, ma anche variabili sociodemografiche come età, genere, occupazione o stato di famiglia. Terzo passaggio, sulla base di queste analisi è possibile definire un gruppo di pazienti per i quali il trattamento X può essere considerato teoricamente ‘ottimale’. È anche possibile calcolare un Personalized Advantage Index (PAI; DeRubeis et al., 2014), un indice che stabilisce quale sarebbe il vantaggio ipotetico se il paziente fosse assegnato al trattamento designato come ottimale rispetto alle alternative. Tutto questo processo, la scienza si sa non ragiona a posteriori, deve poi essere testato. Il passaggio successivo prevede quindi un trial clinico comparativo in cui i pazienti vengono randomizzati (assegnati in modo casuale) al trattamento definito come teoricamente ‘ottimale’ o al trattamento definito come teoricamente ‘non-ottimale’.

Se questo tipo di personalizzazione riesce, allora dovremmo avere un grado di efficacia maggiore per coloro che sono stati assegnati alla condizione ‘ottimale’, indipendentemente dal tipo di trattamento. Una strada affascinante e complessa che DeRubeis sta percorrendo da qualche anno. I risultati di alcuni studi di questo tipo mostrano che offrire il trattamento teoricamente ‘ottimale’ determina un incremento significativo di efficacia rispetto ai singoli trattamenti (comunque evidence-based) applicati indiscriminatamente (es. Lopez-Gomez et al., 2019; Webb et al., 2019). Si tratta di singoli studi, ma restiamo a osservare.

Personalizzare moduli di intervento all’interno dello stesso approccio

La stessa logica potrebbe anche essere applicata entro il medesimo approccio terapeutico. Questa è l’opzione che sta esplorando Edward Watkins, esperto di depressione e ruminazione, che personalmente ha già fronteggiato le difficoltà imposte dalla ricerca di incremento di efficacia media con la sua Rumination-focused CBT per la depressione.

Watkins (2019) cerca di valutare se è possibile personalizzare lo stesso approccio terapeutico sulla base delle caratteristiche dei pazienti. Complice l’opportunità fornita dagli interventi on-line, che possono essere facilmente suddivisi in moduli standardizzati, Watkins isola sette specifici interventi TCC per la depressione (es. attivazione comportamentale, ristrutturazione cognitiva, training per la concretezza del pensiero, interventi basati sulla compassione ecc…) e propone percorsi in cui uno o più di questi interventi vengono eliminati dal protocollo standard fornito ai partecipanti. In questo modo diventa possibile isolare l’impatto dei sette interventi, confrontando i percorsi in base alla presenza o assenza di ciascuno di essi.

Prima domanda: esistono interventi che fanno la differenza individualmente rispetto all’efficacia della TCC? Su questo, i risultati preliminari non rilevano un dominio significativo o generalizzato per alcuni interventi rispetto ad altri. Seconda domanda: esistono interventi rilevanti per alcuni gruppi di pazienti? Qui qualche tendenza emerge, soprattutto connessa ad alcune variabili socio-demografiche, ma lo stesso ricercatore ammette che è davvero ancora troppo poco per trarre delle direzioni significative.

Personalizzare l’intero percorso sul singolo paziente

Infine, Aaron Fisher propone una strada ancora più dettagliata e per certi aspetti visionaria per una psicoterapia personalizzata. Non si limita a una personalizzazione in base a caratteristiche pre-trattamento o a sottogruppi di pazienti, ma ipotizza un intero intervento disegnato attorno alla specifica manifestazione della sofferenza emotiva di ogni singolo individuo. I principi restano quelli cognitivo-comportamentali, ma sarebbe possibile in futuro applicarli non su base diagnostica, ma a partire da un preciso e massivo monitoraggio del loro evolversi nel tempo per ogni paziente.

Questo monitoraggio continuo permetterebbe anche di rispondere in modo flessibile in base a come si evolvono i quadri sintomatologici durante la terapia. L’applicazione di questa prospettiva rasenta oggi la fantascienza della psicoterapia, e proprio per questo è affascinante vederne i primi germogli. In uno studio preliminare, Fisher mostra come una raccolta di dati massiva e prolungata nel tempo (i pazienti compilavano un breve assessment sintomatologico ogni quattro ore per circa trenta giorni) abbia permesso di identificare circuiti sintomatici molto variegati ma ricorsivi entro ciascun individuo e isolabili. Qualcosa di simile a ciò che noi possiamo chiamare stati mentali, piani, mode o criteri diagnostici.

Questo primo studio ha permesso di isolare quali erano i processi principali da fronteggiare per ogni singola persona e quando risultavano dominanti, superando così il limite di un inquadramento diagnostico statuario e incline alle molteplici comorbilità (Fisher et al., 2019).

Conclusioni: gli orizzonti

Parlare oggi di psicoterapia personalizzata o di precision psychotherapy è ancora prematuro, le modalità di applicazione sono complesse e ancora difficili da immaginare applicate alla pratica clinica quotidiana. Forzare la mano in questa direzione prima del tempo, per quanto sia condivisibile l’orizzonte, può significare la rinuncia al faticoso metodo scientifico, con le derive autoreferenziali sempre in agguato.

Eppur si muove, con persistenza e rigore, si muove.

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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