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Il Congresso Mondiale delle Terapie Cognitive e Comportamentali (WCBCT 2019) di Berlino – Report dalla prima giornata

È iniziato a Berlino il 9° congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentali (WCBCT), la prima giornata è stata densa di simposi e confronti

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 19 Lug. 2019

È iniziato a Berlino il 9° congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentali (WCBCT, World Congress of Behavioural and Cognitive Therapies), un congresso che si rinnova ogni 4 anni e che ogni volta è ospitato da una delle organizzazioni di terapia cognitiva di un’area geografica. In questa edizione l’organizzazione toccava all’European Association for Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT).

 

Al congresso partecipano circa tremila iscritti con decine di simposi e sessioni parallele. Nei momenti di maggior affollamento un collega ha contato 17 sessioni contemporanee tra cui dover scegliere. Non ci sono sessioni plenarie, probabilmente irrealizzabili con questi numeri. Ci sono gli invited speakers in evidenza nel cartellone che però sono inseriti nel normale programma d’interventi in parallelo.

Da una visione limitata e a rischio di errore, data l’enormità delle presentazioni, la sensazione è che le direzioni emergenti siano due. Le correnti per ora prevalenti sono ancora la CBT standard e la process based therapy nata dall’incontro scientifico e diplomatico tra Steven Hayes, esponente dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e Stefan Hofmann, esponente della CBT standard. Accanto a queste ci sono altre presenze incisive: la DBT (Dialectical Behavioral Therapy) e la ST (Schema Therapy) e qualche altro indirizzo.

What Works for Whom, and Under which Relational Contexts? La tavola rotonda sui meccanismi d’azione della psicoterapia

Per tale motivo la tavola rotonda iniziale sui meccanismi d’azione della psicoterapia, in cui si sono confrontati gli esponenti di questi indirizzi, sebbene limitata data la complessità del tema e i termini di tempo, è stata abbastanza chiarificatrice se non altro su dove non stanno andando le psicoterapie cognitive.

La tavola rotonda era intitolata “What Works for Whom, and Under which Relational Contexts? – Making Clinical Decisions at the Crossroads of Treatment and Relational Processes in the Cognitive Behavior Therapies” ed è stata organizzata da Nikolaos Kazantzis della Monash University in Australia. Kazantikis ha invitato a discutere alcuni esponenti della CBT standard come Mehmet Sungur, Christine A. Padesky e Keith Dobson ma anche esponenti di altri orientamenti come Lata McGinn terapista DBT, Marcus Huibers ricercatore sui fattori di efficacia della psicoterapia e il diplomatico traghettatore e mediatore tra passato e futuro Stefan Hofmann.

La prima metà del confronto è stata sulle differenze, con Hofmann che rimarcava gli obiettivi mancati della CBT standard, ovvero l’eccessiva dipendenza dalle diagnosi psichiatriche e la moltiplicazione dei protocolli, con conseguente difficoltà di apprendimento. Gli rispondeva Dobson, ribadendo –conservativamente ma giustamente- le conquiste della CBT standard. È interessante comunque notare come una delle ragioni del successo della CBT standard, la sua applicabilità alle diagnosi psichiatriche, oggi sia additata come fattore di debolezza. Eppure fu quel difetto che permise alla CBT di mettersi alla prova nel campo dell’efficacia e se ancora oggi molti terapeuti cognitivisti continuano a fregiarsi del titolo di scientificità ciò dipende non tanto da generiche somiglianze tra pratica clinica e modelli scientifici della psicologia di base ma grazie a quei dati di efficacia su diagnosi psichiatriche. Speriamo di non buttare il bambino con l’acqua sporca, come dice il proverbio.

Nella seconda metà del confronto si è assistito a un riallineamento dei ranghi chiarificatore. Di fronte all’invito di Nikolaos Kazantzis a confrontarsi con i dati sul modello dei fattori comuni di Lambert–che poi sono sempre dati utilizzati a favore della relazione terapeutica come strumento generico e universale- è emersa chiara una posizione di rifiuto, sia sanamente ideologica che scientificamente fondata. Huibers, collaboratore di Pim Cuijpers e insieme a lui esperto sulla ricerca sui meccanismi di azione e sull’efficacia, ha ribadito che i dati a favore dei fattori comuni sono solo relazionali e che le sue ricerche, insieme a quelle di Cuijpers, depongono a favore della risolutività dell’azione dei fattori specifici sulle disfunzionalità dei processi cognitivi come fattori decisivi su cui si può operare: insomma non contano i fattori quantitativamente prevalenti di tipo relazionale ma i fattori operativamente sensibili, e questi sono i fattori cognitivi. Questo per quanto riguarda l’aspetto scientifico. Dal punto di vista pratico e, se si vuole, sanamente ideologico sia Hoffman che Dobson, insomma sia la CBT processuale che quella standard, hanno ribadito che la svolta processuale non è una svolta emozionale e ancor meno relazionale e soprattutto non è una svolta sui fattori comuni, eliminando una volta per tutte un equivoco che ha ingannato molti.

CBT, CBASP, Schema Therapy e ACT a confronto

Nel pomeriggio c’è stato un secondo round di tipo clinico, con il format dell’attore che simula un paziente trattato da terapisti di differente orientamento. Si sono confrontati 4 terapisti: Steven Hollon che ha impersonato la Standard Cognitive Behaviour Therapy (CBT), Eva-Lotta Brakemeier, Philipps-per la Cognitive Behavioral Analysis System of Psychotherapy (CBASP), Eckhard Roediger per la Schema Therapy (ST), Andrew Gloster per la Acceptance and Commitment Therapy (ACT). Il paziente – un tipo molto rabbioso che esordiva dicendo che si era stufato del trattamento, che si trattava dell’ultima seduta e che lui era in crisi perché tradito dalla compagna- era impersonato da un collega, Christian Banzhaf della Charité University Medicine Berlin, Germany.

Sono risaltate sia le qualità personali dei terapisti che le loro procedure. Non era però chiaro quanto le qualità personali riflettessero anche le modalità procedurali e in qualche modo lo spirito dei rispettivi orientamenti. Sia Hollon (CBT) che Roediger (ST) erano più direttivi, ma il loro approccio si poteva eseguire altrettanto facilmente anche in maniere diverse, ovvero socraticamente piuttosto che didatticamente. Quel che era certo era che entrambi hanno condiviso il modello e il razionale dell’intervento con il paziente e questo era previsto nel modello. La direttività quindi è apparsa più uno stile personale di Hollon e Roediger, a mio parere. Il più avvolgente e spiazzante era Gloster, il rappresentante dell’ACT, il quale ha reagito all’aggressione iniziale del paziente secondo modalità aggiranti e felicemente passive che hanno smontato il paziente e poi lo ha condotto astutamente verso una posizione terapeutica facendogli esperimentare una tipica condizione ACT di possibilità di scelta e non di reazione meccanica al trigger emotivo.

Accanto alle qualità personali e uniche di reazione avvolgente e spiazzante di Gloster, un Buster Keaton che ha opposto all’aggressività del paziente una maschera fragile e una disarmante confessione di timore e impotenza che ha disarmato il paziente, più porgendo tragicamente l’altra guancia che sorridendo accogliente come un Budda statuario, risaltava come l’ACT abbia una modalità esperienziale che offre vantaggi ma forse anche rischi, almeno da quanto si è visto: il paziente scopre insieme alla terapista il razionale dell’intervento e la formulazione del caso ma, almeno nell’esempio fornito, mai in termini espliciti e dichiarativi. Ciò è affascinante ma il dubbio è anche che questa esploratività tutta vissuta e mai dichiarata non sia mai padroneggiata dal paziente che si trova in una sorta di stupore magico in cui non ha capito cosa sia accaduto. Naturalmente queste obiezioni lasciano il tempo che trovano di fronte a esemplificazioni molto rapide nei tempi e limitate nei contenuti, necessariamente un po’ teatrali il cui valore empirico non va esagerato.

Il quarto intervento, quello della Eva-Lotta Brakemeier per la CBASP, proponeva un metodo che lavorava, questo sì, in maniera esplicita sulla relazione come esemplificazione in vivo delle difficoltà relazionali del paziente. La Brakemeier ha chiesto esplicitamente al paziente di riflettere su come si poteva sentire lei, la terapista, nella relazione aggressiva instaurata dal paziente e poi, dopo aver chiarito questo passaggio, gli ha chiesto se a lui era mai capitato di sentirsi come si sentiva lei ora e poi operando un collegamento con il passato del paziente a cui effettivamente succedeva da piccolo di essere aggredito verbalmente dai genitori. A questo punto il paziente rifletteva sugli scopi dei suoi comportamenti aggressivi e perfino dei suoi stati emotivi. Un esercizio acrobatico di analisi cognitiva delle relazioni con salti temporali molto audaci e cambi di prospettiva complessi. In realtà salti simili, sia pure meno acrobatici, erano stati proposti anche dalla ST e in parte dall’ACT, manovre che inoltre non coinvolgevano il vissuto del terapista in maniera così intensa e strumentale. Il terapeuta CT aveva usato il suo vissuto solo per spiazzare il cliente e porlo in una posizione terapeutica. Il terapista ST aveva usato i ruoli con un minore coinvolgimento personale esplicito. In conclusione l’esempio della collega Brakemeier e del suo modello CBASP è un caso di uso cognitivo ed esplicito della relazione. Si tratta quindi di uno dei casi, piuttosto rari, di di integrazione forte con un modello relazionale che vada al di là della semplice adozione di modalità di good practice come la validazione e il calore accogliente. Rimaniamo qui per testimoniare eventuali sviluppi e successi di questo modello.  Per il momento, come ha detto Lynn McFarr, nella sua relazione sui punti fondamentali del training in CBT, la formulazione convivisa del caso è ciò che caratterizza in maniera significativa un terapeuta cognitivo e che lo distingue da un terapeuta eclettico che applica tecniche CBT nel suo modello.

Sviluppo del dialogo socratico, terapia personalizzata e sviluppi futuri della process based therapy

Interessante anche la relazione clinica di Christine A. Padesky che ha raccontato lo sviluppo storico del dialogo socratico, iniziato nei suoi primi sviluppi in termini più direttivi e forse impositivi, fidando nella forza dell’argomentazione e poi evolutosi attraverso l’uso di tecniche multimodali in una esplorazione sempre più congiunta e collaborativa dei molteplici livelli della disfunzionalità cognitiva. Secondo alcuni questa evoluzione tradisce un’apertura a interventi più genericamente emozionali perché non mediati dal ragionamento ma operati attraverso l’immaginazione o il corpo. Secondo chi scrive invece l’evoluzione è avvenuta non termini emozionalistici, per così dire, ma procedurali e e funzionali sviluppando tecniche di condivisione della formulazione del caso e del razionale dell’intervento, modalità forse trascurate nelle prime fasi.

Sul fronte della ricerca empirica su nuove idee ho assistito a un simposio sulla terapia personalizzata, in tentativo di scomporre i protocolli in moduli flessibili e applicarli isolandoli in base alle caratteristiche del paziente e cercando di comprendere quali siano gli abbinamenti migliori. Rob De Rubeis, Edward Watkins e Aaron Fisher sono riusciti a individuare in questo modo moduli più o meno efficaci per pazienti sposati che non sposati, con e senza lavoro, con non più o meno terapie alle spalle, e così via. Colpisce che siano più questi dati anagrafici a fare la differenza che dati di personalità, dove invece l’impatto sembra molto minore. I pazienti reagiscono in maniera abbastanza omogenea, sia pure presentando caratteristiche, personali ed emotive differenti.

La giornata si è chiusa di nuovo su toni ideologici, stavolta però in termini meno positivi e più deludenti. Ha chiuso infatti Steven Hayes che ha parlato degli sviluppi futuri della process based therapy, la forma integrata di CBT e terapia processuale che sta sviluppando insieme a Stefan Hofmann. Il discorso è stato deludente però. Un discorso troppo vago per non dire a tratti vuoto, con una generica chiamata alle armi sotto una nuova bandiera che vuole integrare seconda e terza ondata e invece sembra solo eclettica, anzi falsamente eclettica poiché dietro l’eclettismo tradisce un’impostazione ACT molto netta che forse sarebbe meglio confessare con franchezza invece che presentarla come una integrazione. A volte l’integrazione nasconde solo la paura di dire con chiarezza che è tempo di andare oltre. L’ACT sta facendo la sua offerta di acquisto del movimento cognitivo. Vedremo se riuscirà a vincere l’asta.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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