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Dal congresso EABCT: Judith Beck e la relazione terapeutica, Stefan Hofmann e l’integrazione con i processi e Paul Salkovskis custode dell’ortodossia.

Questo congresso EABCT 2018 di Sofia è un po’ un ritorno all’ordine dopo le aperture dell’anno scorso ai veri processualisti, Steven Hayes e Adrian Wells. Un ritorno vissuto però in maniera diversa..

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 08 Set. 2018

La seconda giornata del 48esimo congresso della European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT) ha visto entrare in campo tre figure prestigiose: Judith Beck, Stefan Hofmann e Paul Salkovskis, che hanno incarnato tre modi diversi di affrontare i problemi di crescita della psicoterapia cognitivo comportamentale e i suoi sviluppi.

 

Il senso di Judith per la relazione

Judith Beck prosegue il lavoro del padre biologico e fondatore della psicoterapia cognitiva Aaron T. Beck, proseguendo la sua missione di rispondere all’accusa che questa psicoterapia sia troppo tecnica e poco interessata agli aspetti relazionali. La presentazione espone gli aspetti tecnici della gestione della relazione, integrando l’eredità di Carl Rogers in quella di Beck. Ciò che conta nel lavoro di Judith Beck è che in lei la relazione rimane un mezzo importante di ingaggio e motivazione del paziente ma non è considerata un fattore specifico del cambiamento terapeutico: la Beck, beninteso, cita i dati sull’impatto dei fattori comuni, prevalentemente relazionali ma – a mio avviso correttamente- li considera fattori che assicurano la componente placebo –nel senso positivo del termine- del cambiamento su cui devono poi agire i fattori specifici corrispondenti sia a una teoria del funzionamento mentale che del cambiamento terapeutico che non sia solamente relazionale. Niente di nuovo ma è utile ribadirlo.

Stefan Hoffmann pericolosamente in bilico tra contenuti e processi

Stephen Hoffmann - EABCT 2018Il contributo di Stefan Hofmann è stato onestamente un po’ una delusione. Il compito che si era dato il relatore era di proporre un’integrazione tra vecchia terapia cognitiva focalizzata sui contenuti mentali e nuovi orientamenti che preferiscono lavorare sui processi. In realtà l’integrazione raggiunta da Hofmann è scarsa, perché nella sua proposta dei contenuti mentali è rimasto ben poco mentre i processi ormai prevalgono. Questo però non era la delusione maggiore, visto che questo sviluppo era abbastanza prevedibile: i due approcci sono poco compatibili tra loro e ogni integrazione porta in realtà alla prevalenza di uno dei due. Ciò che è stato più deludente è la forma che hanno assunto i processi nella visione di Hofmann. Una forma troppo onnicomprensiva che finiva per essere un eclettismo più descrittivo che davvero esplicativo, nel cui calderone finivano per entrare ogni sorta di processi. Nelle diapositive sono arrivato a contarne diciannove!

Per concludere infine Hofmann finiva per andare a cercare le radici evolutive del benessere psicologico, secondo un “modello dei modelli” a mio parere tanto generico quanto fin troppo ampio e ambizioso e, in fondo , con scarse ricadute pratiche. E infatti nelle esercitazioni –che consistevano nella stesura di una formulazione di un caso- tutto questa massa di saperi finiva per tramutarsi in un accumulo di nozioni nel quale c’era ben poco di nuovo.

Paul Salkovskis, il custode dell’ortodossia

Dopo queste due proposte innovative, entrambe un po’ deludenti in una maniera o nell’altra, il conservatorismo di Paul Salkovskis ha finito per sembrarmi una boccata di ossigeno, se non altro per la linearità e coerenza del progetto. Si tratta della vecchia terapia cognitiva per il disturbo ossessivo compulsivo, il lavoro di una vita di Paul Salkovskis. Certo, ci si chiede per quanto tempo il vecchio volpone britannico potrà andare avanti a raccontare la stessa storia come un Tolkien in un pub di Oxford che non si accorge di raccontare l’impresa dell’anello a un gruppo di gente che ha già letto il suo libro. Qualche insicurezza trapela, come quando Salkovskis sostiene che la terapia cognitiva è ancora la migliore se non altro perché -parafrasando Churchill- è la peggiore se si eccettuano tutte le altre. Sono riuscito perfino a filmare questo momento.

 

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Le capacità affabulatorie sono però intatte e il racconto funziona ancora, con perfino qualcosa di nuovo: uno studio che dimostra come la terapia cognitivo comportamentale sia superiore al trattamento solo comportamentale per gli ossessivi. Era un vecchio dubbio che aleggiava sull’orgoglio di Salkovskis. Intendiamoci: uno studio sia pure rigoroso non basta a fugarlo, però nemmeno si può negare che qualcosa nel carniere Salkovskis l’abbia messa.

EABCT 2018: un ritorno all’ordine?

In conclusione questo congresso è un po’ un ritorno all’ordine dopo le aperture dell’anno scorso ai veri processualisti, Steven Hayes e Adrian Wells. Un ritorno vissuto in maniera diversa: Hofmann ormai avviato a diventare una sorta di proconsole processualista di Hayes nelle vecchie provincie della terapia dei contenuti; Salkovskis impegnato a tenere fieramente fuori dai confini ogni contaminazione processualista difendendo la sua vecchia idea del disturbo ossessivo generato dal contenuto cognitivo della responsabilità eccessiva, inflated responsability. Dall’altra parte del fronte nella nostra tavola rotonda abbiamo portato avanti una versione più pura del processualismo incentrata sul nostro modello Life themes and plans Implicated in Biases: Elicitation and Treatment (LIBET) e su quello metacognitivo di Adrian Wells. Vedremo cosa accadrà l’anno prossimo a Berlino.

 

Il pensiero del giorno, dal team di State of Mind in missione al congresso:

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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