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Lego Serious Play: lavorare è un gioco da ragazzi

Negli ultimi anni, in seguito alla Rivoluzione Tecnologica e alla flessibilità che ha coinvolto il mondo del lavoro, si assiste all’introduzione in azienda di sistemi innovativi per l’aumento della creatività dei dipendenti, per la risoluzione dei problemi e per lavorare informal-mente.

 

Questi mezzi, infatti, diventano dei potenti facilitatori in azienda poiché si tratta di tecniche trasversali, ovvero applicabili a qualsiasi contesto e situazione, ma soprattutto sono metodologie in grado di far emergere tutte le dinamiche “soft”, quindi non facilmente visibili di un’organizzazione. L’elemento rivoluzionario è che il tutto avviene “giocando”, come nel caso della Lego Serious Play (LSP).

Dal costruttivismo ai LEGO, un modo per imparare

Nello specifico, i partecipanti lavorano attraverso scenari immaginari utilizzando i mattoncini LEGO, per questo motivo questo tipo di attività viene definita “gioco serio” (Serious Game).  Il concetto di “gioco serio” è il risultato della combinazione di teorie derivanti dal costruttivismo, secondo cui

l’apprendimento si realizza particolarmente bene quando le persone sono impegnate nella costruzione di un prodotto, qualcosa di esterno a se stessi, come un castello di sabbia, una macchina, un programma per computer, un libro (Piaget, 1951)

o, appunto, un gioco. Il gioco, in questa prospettiva, diventa un’attività limitata nel tempo e nello spazio, che coinvolge un gruppo di persone, che stabiliscono regole e accordi. L’aspetto più importante di queste attività è che non si delineano a priori ruoli o giochi di potere, ma ci si sente liberi di agire usando la fantasia e l’immaginazione, al fine di: descrivere, creare e sfidare.

Lego Serious Play: una metodologia per l’intervento nelle aziende

In particolare, l’innovativa metodologia della Lego Serious Play, nasce a metà degli anni Novanta, quando la LEGO®, famosa azienda danese produttrice di giocattoli, subì una flessione delle vendite. Al fine risolvere il problema, venne ipotizzato che bisognasse introdurre cambiamenti nella produzione. Chiamati dalla Lego come consulenti, Johan Roos e Bart Victor (1999), due professori universitari svizzeri, idearono il concetto e il metodo del gioco serio, al fine di modificare il contesto di introduzione dei famosi mattoncini, favorendo il passaggio da un ambito ludico, ovvero il gioco dei bambini, ad un contesto più serio, ovvero il mondo del lavoro. Ma l’obiettivo era anche quello di consentire ai lavoratori di approcciarsi e svilupparsi in maniera diversa alle loro mansioni.

La metodologia LSP consta di alcune fasi non rigide e modificabili a seconda dell’obiettivo, ma generalmente in un primo momento si avvia la formulazione o specificazione della “domanda”, ovvero la definizione del motivo per cui è stato richiesto un intervento di questo tipo. Questa prima fase aiuta sia il committente, ma anche i partecipanti al gioco a comprendere l’utilità e la finalità dello stesso intervento. Avendo reso esplicita e specifica la domanda, che quindi viene co-costruita, si giunge al cuore dell’azione della LSP, in cui ogni partecipante si impegna nella costruzione del suo modello 3D con i Lego, a seguito di input forniti dal facilitatore LSP. I modelli 3D sono, poi, utilizzati come punti di partenza per la discussione in gruppo, la condivisione della conoscenza, il problem solving, il decision making, il team building. La LSP stimola competenze visive, uditive e cinestesiche, richiedendo ai partecipanti di apprendere e ascoltare, dando “voce” a tutti e, quindi, per il suo carattere universale e democratico, è una metodologia che si adatta a ogni cultura e formazione.

Lego Serious Play: giocare per imparare

In Italia, la metodologia LSP ha iniziato a diffondersi dagli anni 2000 in poi, facendosi spazio in diversi contesti organizzativi e coinvolgendo, come facilitatori, diverse figure professionali, tra cui psicologi e pedagogisti con adeguato brevetto e formazione, in quanto, seppur basata sul “gioco”, la tecnica restituisce potenti risultati, poiché si può

comprendere di più di una persona in un’ora di gioco di quanto si non possa fare in un’intera vita di conversazione (Platone).

7^ Conferenza Biennale dell’ESTD, Società Europea per lo Studio del Trauma e della Dissociazione – Roma, dal 24 al 26 Ottobre 2019

Dal 24 al 26 Ottobre si terrà a Roma, presso il Centro Congressi di Confindustria all’EUR, la 7^ Conferenza Biennale dell’ ESTD, la Società Europea per lo Studio del Trauma e della Dissociazione.

 

Dal 24 al 26 Ottobre si terrà a Roma, presso il Centro Congressi di Confindustria all’EUR, la 7^ Conferenza Biennale dell’ ESTD, la Società Europea per lo Studio del Trauma e della Dissociazione. L’evento ha un’importanza storica per i gruppi clinici e di ricerca attivi su questi temi in Italia, trattandosi della prima volta che il nostro paese lo ospita.

Negli ultimi anni in Italia è stata fondata AISTED, l’Associazione italiana per lo studio del trauma e della dissociazione, di cui è socio fondatore e presidente il dr. Giovanni Tagliavini. Tale gruppo di ricercatori e terapeuti in questi due anni ha raccolto su tutto il territorio nazionale gli esperti del campo del trattamento dei disturbi post traumatici e dissociativi, senza distinzione di approccio terapeutico. Il prof. Gianni Liotti stesso aveva auspicato la costituzione di questo gruppo che coniuga la nostra cultura scientifica della materia e quella europea, essendo lui un punto di riferimento transnazionale nel campo del trattamento dei disturbi post traumatici e dissociativi.

Di fatto, mai momento storico fu favorevole quanto quello attuale per ospitare in Italia una Conferenza di ESTD, soprattutto quando il tema scelto promuove la discussione su quanto ad oggi sappiamo in tema di diagnosi e trattamento dei disturbi dissociativi e che obiettivi ci poniamo per il futuro immediato nel continuare a ricucire il lavoro clinico ‘mente e corpo’ orientato.

Nel Comitato Organizzatore sono presenti come co-chair il dr. G. Tagliavini e  come board member di ESTD la Dr.ssa Maria Paola Boldrini, noti tra gli esperti in questo campo d’applicazione clinica in Italia.

L’importanza dello sviluppo del gruppo italiano afferente ad AISTED ha fatto sì che l’associazione ritenesse opportuno proporre la traduzione simultanea in italiano degli interventi principali e di una specifica track all’interno del programma della conferenza, fatto decisamente storico per un’organizzazione europea. Il programma prevede tre giorni di intensi lavori: 5 workshops pre-congressuali, 6 keynote speakers, 10 sessioni in parallelo. Gli speakers principali saranno autorevoli esperti riconosciuti a livello mondiale, non solo noti nel campo del Trauma e della Dissociazione, presenteranno le loro esperienze, riflessioni e condivideranno la loro prospettiva futura: la prof.ssa Michela Marzano, autorevole filosofa e docente universitaria, ci introdurrà agli aspetti sociali della fragilità della condizione umana. La dr.ssa Kathy Steele presenterà le sue riflessioni sull’esperienza nel trattamento del Trauma e della Dissociazione. Il Prof. Benedetto Farina presenterà sugli Studi neurologici sul Trauma, la Disintegrazione e l’Attaccamento non organizzato. Il Dr. Martin Dorahy parlerá di DID – Dissociative Identity Disorder – memorie autobiografiche ed il senso del sé in diverse Identità Dissociative e il dr. Ellert Nijenhuis presenterà le sue attuali indicazioni per l’approccio al trattamento del Trauma  “Enactive Trauma Therapy: collegando mente-cervello, corpo ed il mondo”.

Maggiori informazioni sul programma e sulle modalità di partecipazione a questo link: www.estd2019.org

Vi aspettiamo a Roma!

Il Comitato Organizzatore ESTD Roma 2019

Cosa aspettarsi quando non ce lo si aspetta

L’ incertezza ha un impatto sui nostri processi di decision making, che ci permettono di stimare per ogni situazione l’ incertezza attesa (ovvero la variabilità relativa agli esiti di una decisione) e l’ incertezza inaspettata (cioè la variabilità relativa all’ambiente) al fine di rispondere velocemente ai cambiamenti dell’ambiente tramite la selezione del comportamento più efficace per la realizzazione dei nostri scopi.

 

Spesso l’esito di una nostra decisione è incerto e troppo di frequente siamo chiamati a prendere delle decisioni in situazioni inaspettate o delle quali non ci è dato sapere l’esito. Nella maggior parte dei casi questa tipologia di situazioni ci mette alla prova, ci regala una buona dose di frustrazione e ci costringe il più delle volte a dover sviluppare un certo grado di tolleranza.

Ci affidiamo alle abitudini, apprese e consolidate nel tempo, che ci rassicurano, a strategie di pensiero e comportamenti di controllo o evitamento per affrontare queste situazioni, o per meglio dire non affrontarle.

In termini evolutivi, il nostro cervello si è sviluppato per tentare di prevedere e anticipare quante più situazioni possibili sia appellandosi a esperienze passate, consolidate in memoria, e nei casi di novità o scarsa familiarità, sia provando per tentativi ed errori ad apprendere nuove modalità di comportamento o strategie decisionali per riuscire ad adattarsi e realizzare così i propri scopi.

Pertanto, a seguito di tali considerazioni, appare importante comprendere l’impatto che l’ incertezza ha sui nostri processi di decision making che ci permettono di stimare per ogni situazione, l’ incertezza attesa, ovvero la variabilità relativa agli esiti di una decisione, e l’ incertezza inaspettata, la variabilità relativa all’ambiente, al fine di aggiornare le nostre linee di condotta sul momento e rispondere velocemente ai cambiamenti dell’ambiente tramite la selezione del comportamento più efficace per la realizzazione dei nostri obiettivi o il raggiungimento dell’esito sperato e gratificante (Soltani & Izquierdo, 2019).

Incertezza attesa e incertezza inaspettata

La presa di decisioni e l’apprendimento all’interno di un contesto dinamico, perlopiù incontrollabile e incerto, richiede infatti un trade-off, ovvero un bilanciamento tra le nostre capacità di adattamento e un certo grado di precisione cioè la capacità di aggiornare continuamente le informazioni in nostro possesso in funzione dei feedback che ci provengono dall’esterno a seguito delle nostre azioni su quest’ultimo. La modalità migliore per realizzare tale equilibrio è tramite l’incremento del tasso di apprendimento a seguito di eventi inaspettati e la riduzione del tasso stesso quando questi eventi sono sufficientemente sotto controllo e stabili (Soltani & Izquierdo, 2019).

Nel dettaglio, gli studi contenuti nella Perspective recentemente pubblicata su Nature Review Neuroscience, di Soltani e Izquierdo, rispettivamente del dipartimento di Psicologia del Dartmouth College e dell’Università della California, si concentrano sulla definizione dell’ incertezza attesa e inaspettata e mostrano come sia possibile associare l’ incertezza attesa a quelle situazioni nelle quali si ha la probabilità di ricevere, o di non ricevere, una ricompensa attesa da uno stimolo o dalla messa in atto di un comportamento, e come questa debba essere stimata e valutata data la sua natura variabile o stocastica, anche quando la probabilità delle diverse ricompense rimane costate nel corso del tempo (Soltani & Izquierdo, 2019).

I contesti sperimentali di laboratorio utilizzati per lo studio di questa tipologia di incertezza si basano su modelli di apprendimento per errori nei quali l’aggiornamento complessivo del valore di uno stimolo o di un’azione dipende dal prodotto dell’errore di predizione, cioè dalla differenza tra il valore atteso di un’azione o stimolo – per ottenere l’esito desiderato – e l’outcome effettivo reale, determinando così la percentuale di quanto la persona è riuscito ad apprendere in quel contesto (Farashahi et al., 2017).

L’errore di predizione è indipendente dall’ambiente esterno e diventa centrale nei processi di apprendimento in quanto consente continui aggiornamenti dei valori attribuiti dal soggetto agli stimoli o alle azioni per raggiungere la ricompensa, contribuendo altresì alla computazione dell’ incertezza attesa (Preuschoff & Bossaerts, 2007).

Ciononostante, Preushoff e Bossaerts (2007) hanno suggerito che l’ incertezza attesa possa ridurre la percentuale di apprendimento per diminuire a sua volta l’impatto dell’errore di predizione quando i risultati dell’outcome sono piuttosto variabili; questa strategia si rivelerebbe particolarmente utile solo in contesti stabili dove la variabilità della ricompensa può essere stimata con più affidabilità, diversamente dai contesti più dinamici e imprevedibili.

L’ incertezza inaspettata è invece primariamente legata alla percezione soggettiva della persona circa i cambiamenti nella probabilità della ricompensa; questa definizione suggerisce che l’individuo avverte o percepisce drastici cambiamenti nell’ambiente, in un’ottica puramente soggettiva, come accadimenti “sorprendenti”, repentini nel tempo e inattesi rispetto ad un modello o piano previsionale fatto a priori da esso stesso, per guidare i suoi processi decisionali nonostante non vi sia stato alcun oggettivo cambiamento nell’ambiente.

Data questa definizione ne consegue che questa tipologia d’ incertezza può essere studiata soltanto attraverso l’analisi e l’indagine dei comportamenti della persona e che si debba fare riferimento al costrutto di volatilità o mutevolezza quando l’ incertezza è legata a cambiamenti reali che modificano la probabilità della ricompensa indipendentemente dal fatto che vengano percepiti o meno dalla persona (Soltani & Izquierdo, 2019).

Quali sono i meccanismi che ci consentono di regolare o “correggere” l’ incertezza tramite l’apprendimento?

Diversi modelli sono stati formulati per rispondere a tale domanda.

Il primo, di stampo bayesiano, assume che un osservatore ideale utilizzerebbe regole probabilistiche per stimare in modo ottimale il verificarsi di una ricompensa facendo ipotesi sul funzionamento e sulle caratteristiche dell’ambiente in modo tale da costruire un modello dello stesso per determinarne le regolarità e anticiparne le “sorprese” (Dayan, Kakade & Montague, 2000). Il modello dell’ambiente che si viene a costruire, viene continuamente aggiornato sulla base dei feedback provenienti da esso, in particolare sulla base di diversi parametri che potrebbero rappresentare alcune sue proprietà e caratteristiche, quali la probabilità della ricompensa, l’ampiezza della distribuzione dalla quale quest’ultima è tratta (vedi incertezza attesa) e la probabilità che uno o più di questi parametri possa cambiare nel corso del tempo (vedi incertezza inaspettata).

Tale modello tiene conto infatti dei differenti valori attribuiti sia alla probabilità di ricompensa che alla sua volatilità o mutevolezza dal momento che viene sviluppato per la selezione della scelta del comportamento da adottare, tramite processi di decision making, tenendo conto dei differenti valori attribuiti.

Tuttavia, a parere degli autori della Perspective (Soltani & Izquierdo, 2019), l’utilizzo dei modelli bayesiani per fare predizioni e apprendere in un ambiente particolarmente incerto non è appropriato nello spiegare la relazione che intercorre tra le due forme di incertezza in contesti naturali e risulterebbe di conseguenza complicato.

Per tale ragione, si preferisce ricorrere al cosiddetto “filtro di Kalman” che formalizza la relazione predittiva tra stimoli, azioni e outcome ma anche la variabilità e l’ incertezza di questa predizione, fornendo così una modalità più appropriata e adatta ai dati ricavati dai comportamenti (Dayan, Kakade & Montague, 2000).

L’apprendimento in condizioni di incertezza è stato recentemente spiegato anche alla luce di modelli meccanicistici, di cui un esempio è rappresentato dalla ricerca di Farashahi, Donahue, Solatani e colleghi (2017), che tentano di spiegare le computazioni fatte dal sistema alla luce dei network e dei circuiti neurali. In particolare, l’esempio di Farashahi e colleghi (2017) si baserebbe sull’ipotesi che il processo di meta plasticità neuronale, processo che consente l’aumento dell’efficacia sinaptica, sarebbe in grado di alterare la risposta ad eventi futuri ottimizzando l’interazione bidirezionale tra quei circuiti che codificano appropriatamente il valore dell’azione, dello stimolo e della volatilità nell’ambiente e quelli che monitorano l’ incertezza aumentando così l’adattabilità del sistema ai cambiamenti.

In conclusione

Sebbene l’interazione tra incertezza attesa e inaspettata sia stata discussa in modo sommario attraverso una disamina assai rapida dei due modelli attualmente proposti per la sua spiegazione, tuttavia diventa cruciale comprendere i meccanismi che, a partire da essa, consentono al sistema di imparare e prendere decisioni in modo efficace in condizioni di incertezza.

Le riflessioni e i dati sperimentali presentati nella Perspective di Soltani e Izquierdo (2019) suggeriscono che il cervello, per poter “gestire” situazioni d’ incertezza, debba raggiungere un equilibrio, da una parte riducendo l’apprendimento quando l’ incertezza attesa è alta e dall’altra incrementandolo gradualmente in proporzione all’ incertezza imprevista.

I modelli che tentano di spiegare quest’interazione infatti potrebbero fornire informazioni decisive soprattutto in favore del campo della psichiatria computazionale per la quale, alcune condizioni psicopatologiche, come le dipendenze o i disturbi d’ansia, sembrano essere associate a fallimenti nella generazione di modelli accurati per la previsione di ricompense nell’ambiente o all’incapacità di saperli utilizzare in modo flessibile per guidare e indirizzare il comportamento (Vaghi, De Martino, Robbins et al., 2017).

Psicologi a scuola, avvio della professione e affiancamento ai medici di base. Verso quale futuro? – Gli Psicologi in Quirinale in occasione dei 30 anni della legge 56

Nel pomeriggio di mercoledì 19 Giugno, il Presidente Sergio Mattarella ha ricevuto in Quirinale una delegazione del CNOP (Consiglio Regionale Ordine Psicologi), in occasione dei 30 anni dalla legge 56 che regolamenta la figura dello psicologo in Italia.

 

La delegazione accolta dal Presidente è composta dal Dott. Fulvio Giardina e dalla Dott.ssa Anna Maria Ancona, rispettivamente presidente e vicepresidente del CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi – NdR); dal Segretario del Consiglio, Dott. Alessandro De Carlo, e dal Dott. David Lazzari, tesoriere del CNOP nonché Presidente dell’Ordine Psicologi Umbria.

Dalla Legge 56 alla figura dello psicologo in Italia oggi

E’ il 1989 quando la figura dello psicologo viene regolamentata in Italia grazie all’introduzione della Legge 56, conosciuta anche come Legge Ossicini, dal nome di Adriano Ossicini,lo psichiatra, politico e partigiano che si è reso promotore in quegli anni dell’istituzione dell’Ordine degli Psicologi. Da allora cosa è cambiato e cosa ancora cambierà?

Sebbene il ruolo degli psicologi sia un ruolo di primaria importanza nella promozione e nella tutela della salute, i dati ci rimandano a una realtà professionale non pienamente soddisfacente. Uno dei temi affrontati dal CNOP durante l’incontro è stata la difficoltà, da parte degli psicologi, nel realizzarsi come professionisti: ad oggi, quasi il 40% degli iscritti riscontra numerosi disagi legati allo svolgimento della propria attività, a partire da un reddito spesso poco decoroso.

Eppure circa il 9% degli italiani ha vissuto 4 o più esperienze avverse nel corso della vita e, come ricorda Giardina, l’Italia è un Paese che ha bisogno di un supporto concreto da parte degli psicologi. Basti pensare al mondo scolastico e a come questo sia coinvolto in tante problematiche, non solo e non più strettamente connesse alla didattica: gli insegnanti spesso sono soli, i ragazzi e le famiglie pure. Il rapporto insegnante-famiglia-alunno deve essere supportato e lo stesso Giardina fa sapere come ci sia un impegno da parte del CNOP nel promuovere al meglio la professione dello psicologo.

Il Presidente Mattarella si è detto consapevole del fatto che, soprattutto nel contesto scolastico e nel mondo degli enti locali, dove è importante fare prevenzione, vi è ancora una grande assenza di psicologi e, nel corso dell’inconro, ha mostrato un notevole apprezzamento per l’opera di prevenzione psicologica nelle scuole.

La collaborazione tra psicologi e medici di base

Tuttavia qualcosa sta cambiando:

La nostra professione è transitata da poco sotto l’alveo del ministero della Salute e ieri il Parlamento ha ratificato il decreto Calabria nel quale per la prima volta compare la figura dello psicologo delle cure primarie – ha ricordato il presidente Fulvio Giardina.

Il 18 giugno infatti è accaduto qualcosa di importante per noi psicologi: il decreto Calabria è diventato Legge con 240 voti favorevoli e 76 contrari. La Legge commissiona in toto la sanità calabrese e prevede anche diverse norme di interesse nazionale per la sanità. In particolare, data la carenza dei medici di medicina generale, qualora il medico volesse ampliare il numero di assistiti, dovrà avvalersi della figura dell’infermiere e dello psicologo. Un passo avanti per la nostra professione ma anche per il concetto di cura, non più limitata al solo “guarire il corpo”.

Investire:

in una buona Psicologia permetterà di sviluppare il potenziale umano in tutti gli ambiti, altrimenti avremo un impoverimento. Una persona potrà anche avere un alto reddito – sottolinea David Lazzari – ma potrà essere ugualmente una persona infelice.

Sempre in occasione dei 30 anni dalla legge 56, è prevista per oggi a Roma, in Piazza di Spagna, una giornata di approfondimenti dedicati alla Psicologia e al ruolo degli Psicologi. Diversi rappresentanti politici tra i partecipanti e numerosi i contributi accademici, con le novità di carattere scientifico.

Un’occasione per far capire cosa vuol dire essere psicologi, cosa possono fare gli psicologi per le persone e anche per se stessi e per la propria identità professionale, con la speranza di una crescita sempre positiva, fino ai prossimi trent’anni e anche oltre!

Il disturbo bipolare – Introduzione alla Psicologia

Il disturbo bipolare si manifesta attraverso evidenti alterazioni dell’umore, caratterizzate dalla presenza di episodi maniacali e depressivi.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il disturbo bipolare è una malattia mentale molto diffusa che colpisce circa 60 milioni di persone in tutto il mondo, secondo quanto riportato dall’organizzazione mondiale della sanità.

Si tratta, in sostanza, di un disturbo psichiatrico avente gravi implicazioni relazionali e sociali per coloro che ne sono colpiti. La prevalenza è circa 1%, similmente fra maschi e femmine.

Disturbo bipolare: tipologie

Il disturbo bipolare si divide in:

  • Tipo I, definito anche depressione maniacale. Il comportamento e l’umore della persona subiscono sbalzi repentini, adducendo alla perdita di controllo. Si presentano episodi maniacali e depressivi e in alcuni casi è necessaria l’ospedalizzazione.
  • Tipo II, è più comune e presenta sintomi ipomaniacali e depressivi. Questi segni sono più difficili da riconoscere e identificare come bipolarismo, sia dalla persona stessa che da chi la circonda.

Disturbo bipolare: neuroanatomia

Diverse ricerche hanno riscontrato che i neuroni dell’ippocampo delle persone affette da disturbo bipolare sono ipereccitabili e rispondono con una forte attivazione anche a stimoli che non provocano reazioni nei neuroni di soggetti sani. Tale scoperta ha permesso di capire i motivi per cui alcuni pazienti rispondono alla terapia con il litio, farmaco di riferimento per la cura di questo disturbo, e altri no. I neuroni di pazienti con disturbo bipolare, sono più sensibili agli stimoli delle cellule cerebrali delle altre persone e la mancata risposta di alcuni pazienti alla terapia con il litio è legata alla specificità di questi neuroni (Niu, 2017; Abé, 2016).

A livello neuroanatomico sono stati riscontrati dei cambiamenti funzionali a livello prefrontale correlati alla perdita di integrità di tratto di materia bianca, con relativa sindrome da disconnessione. I deficit cognitivi osservati in questi pazienti potrebbero quindi essere imputabili, almeno in parte, alla scarsa integrità della materia bianca prefrontale, la quale potrebbe causare interruzioni nelle connessioni cerebrali. La formazione e lo sviluppo di materia bianca ha inizio durante il periodo prenatale e continua fino all’inizio dell’età adulta; questo potrebbe far ipotizzare una presenza precedente di cambiamenti neuropatologici rispetto all’inizio della sintomatologia affettiva propria del disturbo (Rajkowska, 2002)

Inoltre, sono state evidenziate delle riduzioni significative a livello volumetrico in diverse regioni cerebrali. Si rilevano, dunque riduzioni nella densità e/o nelle dimensioni sia di neuroni che, di cellule gliali nella regione subgenuale della corteccia prefrontale mediale (riduzione del 41% nel numero di cellule gliali) e nella corteccia prefrontale dorsolaterale (riduzione della densità delle cellule gliali a livello lamino-specifico). Tali riduzioni pare siano derivabili da un alterato metabolismo del glucosio (Hanford, 2016).

Disturbo bipolare: gli ultimi studi di neuroimaging

Una nuova ricerca, eseguita attraverso l’utilizzo di tecniche di neuroimmaging, dimostra che le persone con disturbo bipolare presentano differenze nelle regioni del cervello che controllano l’inibizione e l’emozione (Whalley, et al., 2012).

Inoltre, sempre grazie alle neuroimaging, è stato possibile evidenziare delle alterazioni nella densità e nel numero dei neuroni nella corteccia prefrontale dorsolaterale a livello laminare nei tre sottostrati dello strato III e nei corpi neuronali negli strati II, III e V; nelle aree prefrontali e limbiche e nel Locus coeruleus livello bilaterale. Questi neuroni sono la principale fonte di norepinefrina del sistema nervoso centrale e alterazioni nelle proiezioni di norepinefrina a regioni neocorticali o sottocorticali limbiche potrebbero avere un ruolo nella fisiopatologia del disturbo bipolare (Doucet., 2017).

Disturbo bipolare: i neurotrasmettitori

Studi effettuati attraverso la tecnica delle staminali pluripotenti indotte (iPSC) hanno dimostrato che i neuroni di pazienti bipolari mostrano un’attività più elevata dei mitocondri, centrali energetiche delle cellule. Quindi, i neuroni dei pazienti bipolari mostrano una riduzione dell’eccitabilità dopo l’esposizione al litio, mentre coloro che sono resistenti al litio, continuano a essere ipereccitabili (Hibar, 2018).

Inoltre, la serotonina deve essere abbastanza presente per evitare il brusco e persistente calo dell’umore. Infatti una inibizione a carico della serotonina determinerebbe alterazione del tono dell’umore (Hibar, 2018).

La componente genetica del disturbo

Studi su gemelli e adozioni hanno fornito robuste evidenze circa la componente genetica del disturbo (McGuffin, et al., 2003) .

Occasionalmente, in alcune famiglie la suscettibilità per il disturbo bipolare è portata da un singolo gene, ma nella maggior parte dei casi esso deriva dall’interazione di più geni e da meccanismi complessi (Craddock & Jones, 1999). Sembra che sia una variazione del gene ANK3 a conferire il rischio per lo sviluppo di questa patologia, esso codifica per una proteina adattatrice trovata nel segmento iniziale dell’assone che regola l’assemblamento dei canali sodio voltaggio dipendenti.

Inoltre, anche il gene CACNA1C, che codifica per una subunità dei canali calcio voltaggio dipendenti, è associato a questo disturbo. L’espressione di entrambi è diminuita con la somministrazione di litio. Ciò potrebbe suggerire una concettualizzazione del disturbo bipolare come una patologia a livello dei canali ionici (Ferreira, et al., 2008; Sklar, et al., 2008). Il gene DGKH, importante per il passaggio da un lipide all’altro nell’ambito della segnalazione lipidica e anch’esso collegato al disturbo, sembra essere associato all’incapacità di disingaggiare (sopprimere) l’attività delle regioni del default-mode network, in particolare il giro frontale mediale sinistro, il precuneo sinistro e il giro paraippocampale destro (Whalley, et al., 2012).

Importanti sono anche i geni ODZ4, che codifica per proteine di membrana a passaggio singolo e NCAN, coinvolto nella migrazione ed adesione cellulare e nelle fasi maniacali del disturbo (ma non in quelle depressive). Il contributo poligenico per il disturbo è molto forte, mentre i singoli alleli possono avere un piccolo effetto. Diversi alleli, inoltre, portano una suscettibilità sia per il disturbo bipolare che per la schizofrenia, anche se in quest’ultima il loro ruolo è maggiore (Craddock, 2013).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Effetto di un training virtuale su ragazzi con disturbo specifico di apprendimento – Riccione, 2019

Che cosa sono i Disturbi Specifici dell’Apprendimento? Esiste un trattamento efficace?

Federica Liso, Elisabetta Ballerini, Luisana D’Alessandro e Francesca Tropea
Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto

 

Secondo il DSM – 5, i cosiddetti D.S.A. sono Disturbi Specifici dell’Apprendimento che possono differenziarsi in Dislessia (difficoltà nella lettura), Disortografia (difficoltà nella scrittura) e Discalculia (difficoltà nel sistema del numero e nel calcolo).

Introduzione: i DSA, diffusione e trattamenti d’elezione

Nel periodo di aprile 2018, vi è stata una crescita del numero di alunni con certificazione di D.S.A. a seguito dell’emanazione della legge n°170/2010. La lettura, la scrittura e il calcolo sono funzioni cognitive complesse, articolate in più processi, alcuni dei quali indagati nel corso degli anni, a cui corrisponde l’attività di numerosi circuiti cerebrali. Un intervento intensivo di training può avere un impatto a livello cerebrale e portare una riorganizzazione funzionale del cervello fino ad una sorta di ‘’normalizzazione’’.

Ad oggi esistono diverse forme con cui è possibile trattare il Disturbo Specifico dell’Apprendimento

  • il “Phonics Training”, in cui le abilità metafonologiche rappresentano le operazioni cognitive e linguistiche necessarie per tradurre le parole orali nel sistema simbolico scritto, consentendo al bambino di ‘’smontare’’ le parole, individuando le sillabe o i singoli suoni in esse contenute
  • l’“Utilizzo di Strategie Metacognitive”, dove l’intento è di insegnare al bambino a riflettere sul significato di ciò che ha letto e a fare inferenze su ciò che sta per leggere, usando le conoscenze pregresse per interpretare i contenuti di un brano e predire i contenuti che sta per leggere
  • l’”Uso di Videogame” d’azione che, determinando effetti positivi sull’attenzione visiva e spaziale, migliorano anche le competenze di lettura, così come è stato proposto da Sandro Franceschini nel 2013. Solo i bambini/e che riescono a incrementare il punteggio nella terapia con il videogioco velocizzano la lettura e migliorano la memoria uditiva a breve termine. Un miglioramento che otterrebbe un bambino con dislessia in un intero anno di sviluppo spontaneo (Franceschini, Bertoni, 2018). In letteratura, sono presenti studi scientifici che hanno già dimostrato come un trattamento sperimentale mediante l’uso di videogiochi d’azione fosse in grado di migliorare la velocità di lettura, le abilità attentive e la memoria verbale a breve termine (cioè quella dei suoni del linguaggio che viene impiegata quando leggiamo) in bambini con dislessia.

DSA: lo studio sul trattamento con i videogiochi

Il nostro studio, in particolare, è stato condotto ipotizzando, con uno studio di ricerca su 30 bambini, aventi un range di età di 9 – 14 anni, che l’utilizzo di una specifica categoria di videogiochi possa favorire lo sviluppo e il miglioramento delle abilità scolastiche di bambini DSA con effetti significativamente superiori rispetto ai training tradizionali. Sono stati presi in considerazione due gruppi: uno sperimentale, al quale è stato proposto un intervento di 10 sessioni di 30 minuti, utilizzando un gioco d’azione al computer; uno di controllo, al quale è stato proposto un training tradizionale. I test utilizzati nel pre e nel post sono stati: Span di cifre diretto e inverso, Attenzione Uditiva e Visiva, Fluenza fonemica e categoriale, Torre di Londra e Test di Corsi.

L’analisi ANOVA a misure ripetute ha mostrato un effetto di interazione significativo tra gruppi nelle seguenti prove: Span Diretto (F(1,28) = 0,41 p<.05); nella prova Torre di Londra, in particolare nel parametro della correttezza (F(1,28) = 2,01 p<.05); nella prova di Fluenza Categoriale (F(2,28) = p<.05).

L’ipotesi postulata nella progettazione di questo studio di ricerca risulta essere parzialmente confermata. L’utilizzo di un training diverso dai protocolli tradizionali, basato su un gioco d’azione al computer, sembra aver potenziato nei bambini del gruppo target la memoria a breve termine, le funzioni esecutive e la fluenza categoriale in linea con la letteratura corrente (Franceschini et al., 2013). Tali abilità cognitive di base risultano essere grandemente coinvolte negli apprendimenti scolastici. Questo lavoro pertanto seppur in una modalità ancora esplorativa, ha proposto una possibilità di potenziamento cognitivo alternativo agli interventi tradizionali caratterizzato da maggiore attrattività essendo basato sul gioco. Nel complesso questo lavoro di ricerca ha potuto contribuire ad implementare gli interventi non tradizionali per i bambini con DSA, nonostante l’importante limite della mancata considerazione del livello di pervasività delle diagnosi.

 

 

I legami e il dono. Dalla Good Enough Mother ai processi di differenziazione

Bowlby, al fine dello sviluppo del sé, individua tre stili di attaccamento: sicuro, evitante e ansioso. Egli sostiene che un attaccamento adeguato influisce al fine di evitare situazioni patologiche future come la depressione e gli stati d’ansia.

 

Le persone che in futuro svilupperanno tali patologie hanno vissuto esperienze di disperazione, di angoscia e di distacco durante l’infanzia. Bowlby, inoltre, introduce il concetto di cicli di privazione e di resilienza per descrivere le persone che hanno vissuto esperienze angosciose e di privazione durante l’infanzia.

In base alle sue ricerche notò che i soggetti che durante l’infanzia hanno vissuto esperienze di deprivazione e di abbandono tendono, una volta adulti, a ripetere gli stessi tipi di comportamento, anche se il vissuto può essere attutito dalla presenza di un fratello e/o di un ambiente particolarmente favorevole che riesca a sostituire le esigenze di caregiver.

Il dono nella relazione madre-bambino

Stern mette in risalto che la relazione madre-bambino non è direzionale ma bidirezionale e il bambino nell’ambito di questo rapporto assume una parte attiva portando all’interno della stessa relazione elementi legati all’ambiente di vita: il sé e l’altro.

Bion, analizzando la definizione di madre sufficientemente buona di Winnicott sostiene che essa permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo lei restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.

In sostanza la good enough mother riesce a trasmettere al figlio la fiducia e la speranza insita nella capacità di donare sapendo di poter essere ricambiati. Molte volte i genitori chiedono quali sono i comportamenti da adottare per essere buoni padri o madri, potremmo semplicemente rispondere di dare fiducia e speranza ai propri figli nei legami. L’importante non è commettere errori, ma riuscire, come sostenuto da Bettelheim, a imparare dai propri sbagli, di riflettere e riparare ben sapendo che il lavoro genitoriale è soggetto a molteplici frustrazioni. Per Winnicott l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando s’incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.

Quando la relazione madre-bambino non è all’insegna del dono

A volte, però l’errore non è riconosciuto tant’è che è stato introdotto il concetto di madre castrante, divorante, simbiotica per dimostrare che i maschi adulti che hanno avuto cattivi rapporti con la propria madre, tendono ad avere un rapporto non soddisfacente con le donne. Le madri castranti sono iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Esse vedono il figlio come un eterno bambino, anche se è già adulto, spesso si riferiscono a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile.

Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia, anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, gli piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione: è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua.

L’incapacità a donare porta i figli ad instaurare relazioni non incentrate sull’amore ma solo sul soddisfacimento delle proprie esigenze narcisistiche. G. Cortesi sostiene che

se alle spalle – magari non ricordato, magari rimosso o negato, magari coperto dal mito di una madre idealizzata – c’è un accudimento materno o troppo divorante o troppo rifiutante e castrante (la carenza materna è sempre comunque espressione di una coppia genitoriale carente), quel maschio non riuscirà da adulto ad affidarsi al femminile, non saprà e – soprattutto – non potrà vivere la dolcissima avventura di tuffarsi nel magico e trasformante potere della femmina, affidandosi al suo abbraccio e penetrandone il mistero.

Le esigenze narcisistiche tendono al possesso dell’altro in contrapposizione al mancato possesso dell’amore materno e giacché tali a una relazione di coppia patologica.

Relazione madre-bambino e sviluppo di psicopatologie

Anche le esperienze di abbandono infantile comportano lo sviluppo di esigenze narcisistiche che comportano relazioni tese al non riconoscimento delle esigenze dell’altro. Se volessimo sintetizzare, il bambino piccolo piange e si dispera non appena la madre si allontana sperimentando l’angoscia da separazione. La perdita della persona che ci accudisce rappresenta un lutto ed è vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sé. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro e a una visione catastrofica della vita e del mondo. Le esperienze di perdita e di abbandono nell’adulto possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sé come vulnerabile, destinato a essere ferito, rifiutato nei rapporti.

La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sé, come persona degna di amore. Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sé il fantasma dell’abbandono e del dolore insostenibile che comporta. Spesso soggetti di questo tipo tendono a sviluppare il disturbo ossessivo compulsivo in cui la percezione di un abbandono o un abbandono realmente vissuto diventano il substrato su cui si sviluppa lo stesso disturbo.

Nella mia pratica clinica ho sempre ritrovato al di sotto del DOC un vissuto di abbandono. Riporto il caso di un paziente dell’età di 35 anni che da circa 20 anni convive con i rituali e le rimurginazioni tipiche del disturbo. La sua vita è totalmente invasa dal disturbo poiché deve svolgere il rituale all’avvicinarsi di determinati numeri che cambiano di volta in volta. A volte il numero può essere il 6 per cui deve ripetere il rituale per almeno nove volte se lo ha fatto sei volte e cosi via. Il pensiero ossessivo che deve essere sconfitto dai rituali è che in assenza delle ripetizioni si possa sviluppare un’alta velocità che comporterebbe disastri alle persone care e, in particolare, i familiari. Nella fase sociale del primo colloquio il paziente racconta che all’età di 5 anni la mamma, a seguito di una malattia del fratello, lo ha dovuto lasciare per parecchio tempo e che successivamente era rimasto sempre con la nonna poiché ambedue i genitori si sono dovuti trasferire per lavoro. I bambini, non in grado ancora di razionalizzare i motivi che stanno alla base della scomparsa o dell’allontanamento delle figure di attaccamento, reagiscono al vissuto di abbandono attraverso sentimenti di svalutazione e di colpa. I miei genitori sono andati via perché ho commesso qualcosa di grave o non ho fatto qualcosa. E’ evidente che, successivamente, per sfuggire all’angoscia dell’abbandono metaforicamente attraverso i rituali tendono a controllare i vari avvenimenti di vita. Non è un caso che il paziente in questione dopo aver vissuto per anni lontano dalla famiglia e di essersi sottoposto a un percorso terapeutico aveva raggiunto un buon compenso sul piano sintomatologico. Al ritorno in Sicilia e all’interno della famiglia di origine ha avuto immediatamente una ricaduta sul piano sintomatologico. Questo caso non fa altro che sottolineare l’importanza che assume il care giver lungo le fasi dello sviluppo.

Il dono nella relazione madre-bambino secondo la psicoanalisi

La psicoanalisi ha avuto il merito di analizzare in profondità il care giver materno e ha previsto dei modelli predittivi per l’instaurarsi di patologie future. In sostanza ci ha detto che se gli atomi non si differenziano non si può creare, come affermato in precedenza, lo spazio intersoggettivo e quindi, i legami. Al contrario, non ha, se non marginalmente, tenuto conto che il soggetto vive in un ambiente relazionale che può colmare le lacune del cargiver materno.

A questa lacuna sembra rispondere Hartmann, uno psicoanalista americano, che alla fine degli anni ’30, pur affermando l’esistenza del conflitto tra l’Io e l’Es e la forza delle pulsioni, sposta la sua attenzione sul conflitto tra l’Io e il mondo esterno ovvero la relazione tra i bisogni dell’Io, e quindi non necessariamente inconsci, e le richieste dell’ambiente. In quest’ambito la patologia può anche nascere dal mancato adattamento all’ambiente o dalle relazioni con gli altri e dal confronto con i ruoli sociali.

Sullivan, partendo dal presupposto che l’uomo è un essere sociale che cresce in interazione con la comunità in cui vive, afferma che lo sviluppo del bambino dipende dal suo bisogno di essere approvato dalle persone per lui significative in modo da interiorizzare un senso di sicurezza. Al contrario, senza tale approvazione, il bambino prova un senso di malessere che lo porta a costruire un sistema del sé caratterizzato dall’angoscia di base. A seguito delle ricerche cliniche di Sullivan, in America una scuola denominata modello relazionale psicoanalitico, di cui il maggior rappresentante è Mitchel, parte dal presupposto che le persone sono strutturate in maniera tale da essere attratte una dall’altra. Tale modalità è definita da Mitchel “relazionale per destino” e la mutua da Bolwby il quale nella teoria dell’attaccamento sostiene che la relazione è un bisogno fondamentale innato del bambino.

Il dono: seguito naturale della differenziazione con la nascita

Ritornando alla chimica, gli atomi si uniscono tra di loro in base alle loro caratteristiche intrinseche ed estrinseche e, quindi, possiamo senza dubbio affermare che contengono nella loro natura la predisposizione e l’esigenza di legarsi.

D’altronde tutto parte da una serie di atomi, che si legano attraverso il legame covalente per formare il DNA e l’RNA, che costituiscono le basi su cui si costruisce il corpo umano. In sostanza, noi siamo formati da atomi che legandosi costruiscono le molecole, che unendosi a loro volta, fabbricano le cellule. Quest’ultime legate formano i tessuti, che messi insieme danno origine agli organi i quali plasmano gli apparati e, per finire, quest’ultimi legandosi il corpo umano. Questo in sintesi è il formarsi di ciò che definiamo il biologico.

Nel biologico tutti gli elementi tendono a differenziarsi, a riconoscersi per differenza e nel momento in cui s’inglobano o si legano, perdono la loro soggettività in favore di un terzo soggetto al quale si sentono di appartenere: dire mano, al massimo, significa che è formata da cinque dita. A nessuno di noi, se non per interessi scientifici, verrebbe di specificare le singole cellule, molecole o, peggio ancora, atomi che formano la mano. Al contrario, i singoli atomi, le singole cellule o molecole si riconoscono nella mano.

D’altronde, come ci insegna la gestalt, la percezione, e non solo per un fatto culturale, si presenta come un tutto unico, come una struttura e non come la somma dei singoli elementi. Lo stesso accade al biologico che si presenta ed è percepito come una struttura unica e non divisa per singoli elementi. Sempre nel biologico accade un processo che perdendo ci fa acquistare autonomia: il parto, la nascita.

Il feto che vive in totale simbiosi con la madre e che vede tutti i suoi “desideri” soddisfatti arriva al punto in cui per conquistare la sua autonomia “decide” di perdere la sua serenità e, quindi, di nascere. E’ dal momento in cui inizia il meccanismo del parto che il soggetto tende a differenziarsi dalla madre e, se volessimo andare più indietro, è dal momento del concepimento che inizia il processo di differenziazione. Durante la meiosi la nuova cellula, anche se contiene le informazioni genetiche delle precedenti, non ne è la loro somma. Se la nuova cellula è il primordio di un nuovo individuo: ecco l’inizio del processo di differenziazione.

La trasformazione del biologico in culturale abbisogna di un, per dirla con Freud, lavoro psichico che, a mio parere, sta all’interno dei processi di differenziazione che trovano riscontro all’interno degli spazi intra e interpsichici il cui presupposto centrale sono i legami.

Come rafforzare e sopprimere le memorie artificialmente

Il nostro comportamento è grandemente influenzato dalla nostra vita passata, eppure non ricordiamo le cose solo perché ci sono successe, ma anche perché, pensandole, le riviviamo nella nostra mentre.

Lorenzo Mattioni

 

Le emozioni legate ai nostri ricordi guidano quello che facciamo, ma con il tempo possono cambiare. Le modalità attraverso le quali possiamo registrare, immagazzinare ed utilizzare le informazioni sono argomenti fondamentali per la ricerca psicologica e neuroscientifica. Una recente ricerca (Chen, et al., 2019) potrebbe aver dimostrato come modificare in modo artificiale questi processi, offrendo uno sguardo sul possibile futuro di diverse tecniche terapeutiche.

Memorie ed emozioni

Ciò, a livello neurale, è fortemente legato al sistema limbico, le cui strutture integrano emozioni, comportamento, motivazione e memoria a lungo termine. Fra queste, l’ippocampo gioca un ruolo fondamentale nella consolidazione delle diverse informazioni dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Esso possiede domini distinti che guidano la cognizione e le emozioni. Le regioni dorsali codificano informazioni spaziali, temporali e contestuali, sono infatti estensivamente connesse alla corteccia retrospleniale e al cingolato anteriore, critici per il processamento visuospaziale, mentre le regioni ventrali sono implicate nella regolazione dello stress e nello stato emotivo. Sono connesse ad aree quali amigdala e corteccia prefrontale, implicate nel processamento emotivo. Capire come l’attività lungo l’asse longitudinale di questa struttura moduli il comportamento potrebbe portare ad una maggiore comprensione della relazione fra disturbi mentali ed emozioni, memoria e percezione.

Ma, mentre vi sono evidenze che inducendo l’attivazione delle cellule dell’ippocampo dorsale è possibile ottenere l’espressione comportamentale di memorie positive e negative sul modello animale, come quella della zona ventrale possa guidare questi comportamenti non è ancora del tutto chiaro.

Recupero artificiale di memorie: lo studio di Chen

Usando manipolazioni optogenetiche, Chen e colleghi sono riusciti per la prima volta a rafforzare e sopprimere artificialmente, in modo netto, permanente e differenziato, memorie specifiche, attivando selettivamente diversi gruppi di cellule lungo la linea dorsoventrale dell’ippocampo.

I ricercatori hanno prima etichettato i neuroni attivi durante la registrazione di memorie negative (scossa elettrica), positive (esposizione a femmina conspecifica) e neutre (esplorazione) in topi da laboratorio, sia nell’area ventrale che in quella dorsale, in modo da poterne gestire selettivamente la funzionalità. L’attivazione dei neuroni contrassegnati in entrambe le aree ha portato rispettivamente a comportamenti di freezing ed evitamento per gli engrammi fobici, preferenza spaziale per le memorie positive e nessun cambiamento per quanto riguarda l’esplorazione.

In un secondo esperimento, dopo che le cellule relative alle diverse memorie sono state contrassegnate, gli autori hanno posizionato le cavie in un nuovo contesto, nel quale sono state sottoposte ad un’attivazione optogenetica cronica degli engrammi nella zona ventrale o dorsale dell’ippocampo.

Recupero artificiale di memorie: risultati dello studio e prospettive teapeutiche

Dopo 24 ore, in assenza di stimolazione artificiale, i topi sottoposti a stimolazione cronica dorsale mostravano una riduzione del freezing contesto-specifico, mentre quelli ad attivazione cronica ventrale un aumento di questo fenomeno, indipendentemente dal numero di scosse effettivamente ricevute. A livello circuitale ciò sembra essere connesso alla significativa sovrapposizione del processamento a livello dell’amigdala basolaterale, collegata ai comportamenti in risposta a stress e paura, e dell’area ventrale, ma non a quella dorsale.

I risultati mostrano come il protocollo utilizzato sia in grado di riprogrammare funzionalmente il processamento di memorie discrete, per le quali la zona dorsale e ventrale dell’ippocampo hanno funzioni diverse nell’espressione cerebrale e comportamentale della formazione e del recupero delle memorie. È attivando di continuo le componenti emotive del ricordo che si ottiene un aumento nella risposta emotiva successiva, attivando invece quelle contestuali se ne otterrà la riduzione. Lo studio del riconsolidamento degli engrammi rappresenta un futuro nodo terapeutico, questi potrebbero esserne gli inizi.

L’ideologia politica sarebbe predeterminata geneticamente

Quasi tutte le persone pensano che arriviamo a delle personali opinioni politiche con un ragionamento accurato e un esame imparziale delle prove a nostra disposizione. Non secondo gli studi di John Alford della Rice University, che riguardano il comportamento politico e la biologia della politica, le basi biologiche del comportamento umano politico e sociale.

 

Alford ha dimostrato che i gemelli identici, che condividono tutti gli stessi geni, hanno più probabilità di condividere opinioni politiche rispetto ai gemelli fraterni, che condividono solo circa il 50 per cento dei loro geni.

Orientamento politico: lo studio sulla genetica

Alford, che ha studiato questo argomento per molti anni, insieme al  suo team ha analizzato i dati di pareri politici di oltre 12.000 gemelli negli Stati Uniti e li ha integrati con i risultati di due gemelli in Australia. Alford ha scoperto che i gemelli identici sono più propensi ad accordarsi su questioni politiche di quanto non lo fossero i gemelli fraterni. Sulla questione relativa al pagamento delle tasse, ad esempio, un sorprendente quattro quinti di gemelli identici condividevano la stessa opinione, mentre solo i due terzi dei gemelli fraterni concordavano.

Studi successivi fatti all’Università della California hanno mostrato che esistono reali differenze biologiche nel modo in cui i cervelli elaborano le informazioni tra persone con differenti opinioni politiche. Gli scienziati ritengono di aver persino isolato un gene che rende le persone più propense a votare, il gene denominato MAOA.

Genetica, orientamento politico e voto: gli studi

Infatti secondo James Fowler scienziato dell’Università della California, i nostri geni possono influenzare non solo il nostro punto di vista politico, ma anche la nostra spinta a votare. In uno studio pubblicato nel Journal of Politics, Fowler ha scoperto che le persone con una versione particolare del gene MAOA avevano 1,3 volte più probabilità di votare rispetto a quelle con una versione diversa. Inoltre, i membri di gruppi religiosi portatori di una particolare versione di un altro gene chiamato 5HTT avevano il 60% di probabilità in più di votare rispetto ai membri di gruppi religiosi con una diversa versione del gene.

Insomma sembra che la predestinazione genetica possa determinare in larga misura comportamenti in ambito politico.

Lo stesso James Fowler dell’Università della California, San Diego, così si è espresso sui risultati di questi studi di ricerca:

Quello che abbiamo scoperto è che la natura è importante tanto quanto la cultura quando si tratta di comportamenti politici.

John Alford similmente afferma, a seguito dei suoi studi, che essere di destra o di sinistra non dipende dalla nostra volontà, ma da fattori biologici.

Sembra dunque che la cultura, l’ambiente, le influenze familiari, le opinioni personali, non siano sufficienti da soli ad innescare la scelta ideologica e politica di un soggetto.

Orientamento politico: cosa lo determina

Le influenze ambientali come l’educazione, suggerisce lo studio, giocano un ruolo più centrale nell’affiliazione di partito come democratico o repubblicano, proprio come avviene nella scelta di una squadra sportiva.

I genetisti che studiano il comportamento e la personalità hanno saputo per 30 anni che i geni svolgono un ruolo importante nelle risposte emotive istintive delle persone a determinati problemi, il loro temperamento sociale.

Non è che le opinioni su questioni specifiche siano scritte nel DNA di una persona. Piuttosto, i geni stimolano le persone a rispondere con cautela o apertamente ai costumi di un gruppo sociale.

Solo di recente i ricercatori hanno iniziato a esaminare come queste predisposizioni, in combinazione con l’infanzia e le successive esperienze di vita, modellano il comportamento e l’orientamento politico.

Le tendenze politiche possono essere considerate come essere mancino o destroso.

Alford dichiara:

Tu sei nato sentendoti più naturale usando una mano o l’altra, ciò non significa che non puoi cambiare: per molti anni ai mancini è stato insegnato di essere dei destri, ma non è facile.

Votare: dipenderebbe anche dallo sviluppo di alcune aree cerebrali

John Alford prosegue rilasciando questa dichiarazione:

Quello che abbiamo scoperto è che probabilmente ci vorrà più di un annuncio televisivo persuasivo per cambiare la mente di qualcuno su una determinata posizione politica o atteggiamento, i singoli geni per i comportamenti non esistono e nessuno nega che gli umani abbiano la capacità di agire contro le predisposizioni genetiche, ma correlazioni prevedibilmente dissimili di atteggiamenti sociali e politici tra persone con genotipi maggiori e meno condivisi suggeriscono che i comportamenti sono spesso modellati da forze di cui la persona stessa non è coscientemente consapevole.

John Alford crede che gli scienziati siano troppo rapidi nel voler respingere la genetica e la sua influenza in ambito ideologico e politico; piuttosto, crede che la genetica dovrebbe essere studiata e insegnata insieme alle influenze socio-ambientali.

Infatti afferma

È stato dimostrato che la genetica svolge un ruolo in una miriade di diverse interazioni umane perché dovremmo escludere credenze e atteggiamenti politici?

Un’altro studio che tocca questo pensiero è quello coordinato da Ryota Kanai della University College di Londra ha portato a risultati similari. Kanai e colleghi hanno analizzato 90 studenti, valutandone le idee politiche con una scala da uno a cinque, dal più conservatore al più liberale. Successivamente, il team di neuroscienziati ha utilizzato l’imaging a risonanza magnetica per studiare in dettaglio il cervello degli studenti.

I risultati indicano come i conservatori abbiano un’amigdala più sviluppata, mentre i liberali siano caratterizzati da una corteccia cingolata anteriore più estesa. Infatti l’amigdala è coinvolta nei processi di risposta a stimoli di minaccia e di paura, mentre la corteccia cingolata anteriore diventa più attiva in situazioni di conflitto o incertezza. In base a questi risultati, Kanai ha dichiarato di poter predire le idee politiche dalla sola scansione del cervello con un’accuratezza del 75%.. La ricerca fin qui fatta non ci dice che le convinzioni politiche sono innate nel cervello, ma mostra un possibile legame fra le differenze neuroanatomiche e quelle politiche. Così come la ricerca genetica mostra le correlazioni genetiche con l’ orientamento politico.

Cafarnao – Caos e miracoli. La storia di Zain – Recensione del film

Cafarnao è un film che scava dentro all’abisso emotivo fino a togliere il respiro. Struggente, straziante, realistico e crudo ma altrettanto traboccante di umanità. Duro, ma costantemente attraversato da un filo di speranza.

 

Titolo originale : Capharnaüm – Un film di Nadine Labaki.
Con : Zain al-Rafeea, Kawthar Al Haddad, Fadi Kamel Youssef, Cedra Izam
Drammatico – Libano, 2018

 

Cafarnao – Caos e miracoli si apre con un atto simbolico e provocatorio: il dodicenne Zain decide di fare causa ai suoi genitori per averlo messo al mondo senza offrirgli amore, sostentamento e cure.

Si ripercorre così, in un lungo flashback, la storia di questo bambino e dei suoi fratelli che crescono in condizioni di povertà estrema, abbandonati totalmente a loro stessi.

Del legame privilegiato di Zain con la sorella Soah.

Dei genitori che vivono di espedienti e non posseggono gli strumenti, né la sensibilità di capire quali bisogni abbiano i figli.

Dell’incontro con Rahil, immigrata etiope, e il figlio Yonas.

E di un groviglio di strade, di incontri con loschi individui e di vicende complesse e intricate.

Cafarnao è un film che scava dentro all’abisso emotivo fino a togliere il respiro.

Fa male, come un pugno che arriva dritto allo stomaco.

Talmente scomodo e ingombrante da far percepire allo spettatore il desiderio di uscire dal cinema anzitempo e contemporaneamente da tenerlo incollato alla sedia fino all’ultimo istante.

Cafarnao è struggente, straziante, realistico e crudo ma altrettanto traboccante di umanità. Duro, ma costantemente attraversato da un filo di speranza.

È un film da vedere. Che ti spinge, ti costringe a guardare quello che accade nella porta accanto, a considerare quello che parrebbe distante da chiunque, ma che così distante certamente non è.

I personaggi del film

In Cafarnao ogni personaggio del film ha una doppio risvolto e si divide tra ciò che desiderebbe fare e ciò che è costretto a fare per sopravvivere.

Zain – il protagonista – è un bambino che manifesta un’elevata resilienza. È spinto dal contesto sociale a prendere decisioni inadeguate per la sua età e a esserne responsabile. Nonostante percepisca costantemente di essere ignorato – in particolare dai genitori – tenta in tutti i modi di fare sentire la sua voce e lotta per costruirsi un’identità.

Zain non è felice di essere nato, perché deve combattere ogni giorno per sopravvivere. Non ha mai conosciuto la spensieratezza tipica dei bambini: fin da subito infatti è dovuto diventare adulto, adoperandosi quotidianamente per procurarsi i soldi e per scampare ai pericoli e alla morte.

Non sorride mai, durante la pellicola. I suoi occhi esprimono profonda tristezza, ma anche rabbia e voglia di reagire e di sognare.

In un qualche modo, riesce a guardare oltre la miseria e la povertà, battendosi per un mondo migliore e riuscendo, pur non avendo ricevuto amore, a prendersi totalmente cura di qualcuno (per esempio sua sorella Soah o il bimbo Yonas) facendo o inventandosi qualsiasi cosa pur di proteggerlo.

Dall’altra parte ci sono i suoi genitori. Un padre e una madre che non danno affetto ai loro figli, non hanno alcun mezzo per poterli mantenere e curare, li mandano a lavorare o li costringono a sposarsi. Sono due disgraziati, inconsapevoli, che lo spettatore può arrivare contemporaneamente a detestare e commiserare. Ritengono di dover assecondare le leggi della natura assolvendo all’unico compito della procreazione, partendo dall’inconfutabile concezione che la vita sia sempre e comunque un dono.

Nascere, esistere nonostante tutto: anche se nel disagio, nella povertà e nella sofferenza.

I genitori di Zain sono vittime – vissute nel degrado e nella miseria a loro volta – che diventano carnefici, perpetuando le stesse condizioni per i figli. Pensando di dover solo concepire e mettere al mondo, ritenendo di non avere nessun’altra scelta e di non doversi occupare più di nulla dopo la nascita. Neanche di registrare i propri figli all’anagrafe.

Zain e i suoi fratelli infatti per lo Stato non sono nati, non esistono. Non possono godere di diritti umani nè possono ricevere alcuna cura sanitaria. Rischiano ogni giorno di andare incontro alla morte senza che nessuno se ne accorga.

La decisione del protagonista di fare causa ai suoi genitori, rappresenta un gesto simbolico a nome di tutti i bambini che – non avendo chiesto di nascere – rivendicano il diritto di poter essere amati e curati.

E quando, alla fine, Zain riuscirà a ottenere il suo primo documento di identità – finalmente – sorriderà.

Per la prima volta, avrà la sensazione… di esistere.

 

CAFARNAO – GUARDA IL TRAILER

Facilitare la comprensione del testo in inglese senza ricorrere alla traduzione

Il processo di comprensione non equivale a quello di traduzione nell’apprendimento di una lingua straniera. Tradurre implica infatti la capacità di collegare due parole appartenenti a due diversi codici, comprendere invece consente di collegare una parola ed un concetto.

 

Una delle decisioni che si devono prendere quando si struttura un corso su una lingua straniera è come veicolare i messaggi in lingua agli alunni. Qui ci sono due scuole di pensiero che si contrappongono: coloro che reputano non ammissibile l’uso della lingua ponte, ovvero della traduzione, per facilitare la comprensione degli alunni, contro coloro che sostengono che i messaggi possano essere parzialmente tradotti per facilitare la comprensione da parte degli alunni.

La comprensione del testo è effettivamente un punto di grande importanza, ed è quindi normale che attorno ad esso si confrontino opinioni diverse. La comprensione del testo, orale o scritta, è la condicio sine qua non perché le informazioni siano ritenute. Non potremo apprendere efficacemente o acquisire una parola di cui non abbiamo compreso il significato, tantomeno sarà possibile incamerare alcune informazioni da un testo sostanzialmente incompreso.

L’importanza della comprensione nell’apprendimento di una lingua straniera

È stato proprio durante gli anni ’90, nell’ambito delle ricerche condotte nei Paesi bilingui (come ad esempio il Canada), che si è compresa appieno l’importanza della comprensione per l’acquisizione linguistica. Le ricerche hanno riscontrato che, immergendo semplicemente gli alunni in una lingua a loro non famigliare e quindi incomprensibile, in modo non strutturato, non si verificavano buoni progressi linguistici. L’esperimento consisteva nell’esporre ragazzi a lezioni non linguistiche (ma inerenti ad una materia curriculare) in una lingua non nota. L’esposizione era massiccia e consistente, tuttavia si riscontrò che gli alunni non miglioravano la loro conoscenza della lingua in modo davvero significativo, sicuramente meno di quanto ci si sarebbe attesi.

In altre parole, l’esposizione, pur massiva e continuativa, non bastava da sola a portare gli alunni ad essere fluenti o bilingui. Al contrario, migliori progressi sono stati riscontrati dove, accanto ad un’esposizione regolare, ci sia stata una strutturazione tale delle lezioni tale da permettere ai ragazzi di comprendere i contenuti.

Sia dal punto di vista dell’efficacia dell’insegnamento linguistico che dal punto di vista della motivazione, creare le condizioni per cui il discente capisca è davvero il primo obiettivo dell’insegnante.

Ma perché l’alunno capisca è necessario tradurre?

Io direi di no. La traduzione, ovvero collegare due parole (appartenenti a due diversi codici) è una cosa diversa dalla comprensione, per cui si collegano una parola ed un concetto. Si può comprendere, senza essere in grado di tradurre.

Ma ci sono differenze anche più sottili. In primo luogo, la traduzione è una operazione consapevole. Tipicamente, si traduce parola per parola, o almeno frase per frase. La comprensione, invece, può essere anche implicita e globale. Si può capire il contenuto, pur non essendo certi del significato delle singole parole.

Nel 1979 Oller ha introdotto il concetto di Expectancy Grammar come elemento che sta alla base dei processi di comprensione: la capacità di ipotizzare quello che verrà detto o scritto in un dato contesto.

Cosa permette di fare anticipazioni efficaci?

  • La consapevolezza situazionali (argomento, intenzioni dei parlanti…)
  • La ridondanza, ovvero supplementi di informazione reperibili nel contesto, nel cotesto e nel paratesto
  • La conoscenza del mondo, o enciclopedia

L’anticipazione è un meccanismo essenziale per il processo di comprensione, in lingua madre come in L2. Il nostro cervello raccoglie tutti gli elementi di cui dispone per fare ipotesi che lo aiutino ad orientarci nel testo, disambiguare omofoni, creare gerarchie e relazioni.

Mentre ascoltiamo o leggiamo, altre parole, il nostro cervello cerca di predire ciò che comparirà successivamente nel testo: è proprio questo il meccanismo di “capire”. Non solo riconosciamo le parole dalla loro forma globale (in lettura) o dall’incipit (in ascolto), ma cerchiamo anche di costruire anche il significato delle frasi prima di averne letto o ascoltato la conclusione. È grazie a queste operazioni inconsce di anticipazione che siamo in grado di sostenere la velocità di una conversazione e dare risposte in tempo reale.

È molto importante pianificare e strutturare con grande attenzione le condizioni di esposizione degli alunni alla lingua straniera, in modo da aiutarli a comprendere in modo almeno globale, senza avere bisogno della traduzione.

Se un bambino sa che tutto ciò che ascolta sarà tradotto, non farà lo sforzo di comprendere il messaggio direttamente in inglese: questo è assolutamente intuitivo. Ma il problema non è solo questo. La traduzione è di fatto l’aggiunta di un passaggio cognitivo innecessario (parola-parola), che media anziché puntare all’insorgenza spontanea della emersione del significato, ovvero corrispondenza cosa-parola.

In questo articolo parleremo di alcuni accorgimenti che possiamo adottare per aiutare i bambini ad anticipare e comprendere meglio i messaggi in L2, senza dovere ricorrere alla traduzione per arrivare a comprenderne il senso generale.

  • Dare informazioni aggiuntive

Facciamo un esempio che tutti hanno sperimentato: poniamo di guardare un film in inglese e accorgerci che non siamo in grado di capire quasi nulla. Nemmeno sentiamo le singole parole, ma a parte alcune che riusciamo ad isolare percepiamo una stringa di suoni in cui non riusciamo a distinguere dove iniziano e dove finiscono parole e frasi. Proviamo a vedere lo stesso film con i sottotitoli in lingua inglese… e notiamo che siamo in grado di riconoscere molto meglio le parole all’udito. Perché? Perché la lettura è stata più veloce dell’ascolto (questo capita agli adulti allenati di solito) quindi il cervello riconosce quello che sa già che dovrà arrivare.

Questo è un caso limite, proviamo a fare un altro esempio. Confrontiamo la visione di un notiziario radio (un testo di solito difficile) senza indicazioni, con un notiziario nel quale si vedano immagini e didascalie che spiegano di cosa sta parlando lo speaker. Noterete che comprendete molte più parole e frasi. È un po’ come muoversi in un luogo sconosciuto, ma con dei punti di riferimento.

Avete mai provato a leggere un brano senza alcuna informazione, e leggere lo stesso brano, di cui avete informazioni sul testo cui appartiene, sulle intenzioni dell’autore, sulla storia dei protagonisti etc.? A parità di competenza linguistica, la comprensione del medesimo testo sarà molto più facile nel secondo caso perché il cervello sulla base delle informazioni che ha potrà fare ipotesi in modo piu efficiente.

A livello di parlato, pensate quante informazioni traete dal tono di voce, la mimica, l’espressività (che vi danno info sulle intenzioni dell’autore!) .

La constatazione è sempre la medesima: avere informazioni contestuali, culturali, pragmatiche risulta molto facilitante per comprendere il testo senza avere bisogno di conoscere il significato di ogni parola.

  • Elicitazione

Si definiscono “elicitazione” tutte quelle attività volte a stimolare negli allievi l’anticipazione dei conteuti di un testo, portandoli a riflettere sugli elementi del “paratesto”: titoli, illustrazioni, didascalie, conoscenze sull’autore etc. L’elicitazione può passare anche dall’esplorazione delle parole chiave.

Partendo dalla focalizzazione delle parole chiave, l’alunno può facilmente “costruire” il significato del testo. Le parole chiave non devono necessariamente essere tradotte: possiamo fare arrivare al significato gli alunni, proponendo dei match parola-immagine o parola-definizione o proporre dei cloze (parole nel contesto, ove il contesto sono frasi semplici), ad esempio. Affrontare il testo con un mente le parole chiave è sicuramente un esempio di anticipazione che aiuta la comprensione.

3 passi per migliorare la comprensione del testo senza ricorrere alla traduzione

  1. Attività di prelettura

Prima di leggere o ascoltare il testo è molto consigliabile condurre delle attività preliminari, tra cui l’esplorazione delle parole chiave (elicitazione) e discussione del contesto e del paratesto. Osservate gli elementi che avete: illustrazioni, didascalie e titolo, esaminate le informazioni a disposizione sull’opera, sistematizzate ed esplorate il procedimento.

2. Guidare il processo di anticipazione

L’attivazione della expectancy grammar è strategica per l’imparare a imparare, poiché è la base di qualsiasi abilità ricettiva, trasversale a tutti i contesti comunicativi. In quanto tale, nonostante sia un procedimento inconscio, guidarlo in modo esplicito è utile per la definizione di strategie cognitive utili. Abituate i ragazzi a fare ipotesi, conducendo un percorso consapevole dei meccanismi inconsci che la mente attua quando ha a che fare con un testo.

3. Scaffolding

La nozione di scaffolding si basa sul concetto di sviluppo prossimale. La comprensione del testo si raggiunge costruendo gradualmente le attività preliminari che la compongono. Immaginate questo processo come una sequenza di testi graduati, dal più semplice al più difficile, ma anche come sequenza di supporti (dimostrazioni pratiche, esempi guidati, indizi) dati al “fare” dei ragazzi. L’impalcatura sarà più robusta all’inizio e poi si andrà gradualmente alleggerendo, mentre gli alunni acquisiscono le competenze e vanno verso l’autonomia.

MDMA e psicoterapia: efficacia nel trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico

Il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) è una psicopatologia fortemente invalidante che ha una prevalenza del 4% a livello globale (Koenen et al., 2017).

 

I sintomi del PTSD comprendono pensieri e ricordi intrusivi, effetti negativi sui pensieri e sull’umore, iper-reattività agli stimoli legati al trauma ed evitamento. Le persone affette da questo disturbo sperimentano frequentemente una forte riduzione della qualità della propria vita e delle proprie relazioni.

I trattamenti esistenti per la cura del PTSD, in particolare di tipo psicoterapeutico e farmacologico, non risultano efficaci per tutti i pazienti affetti dal disturbo.

PTSD: efficacia dei trattamenti psicoterapeutici e farmacologici

In un recente studio condotto a livello internazionale da Mithoefer e colleghi (2019) è stato messo in luce che l’uso combinato di psicoterapia e MDMA, o ecstasy, può risultare una forma di trattamento efficace per il Disturbo da Stress Post Traumatico. L’ MDMA è una sostanza sintetica psicoattiva appartenente alla classe delle feniletilamine dagli effetti stimolanti ed entactogeni, ovvero predisponenti al contatto interiore. L’interesse per il potenziale terapeutico dell’ MDMA, specialmente in relazione a psicopatologie correlate a traumi, si sviluppa nel contesto del potenziale dell’MDMA di catalizzare il processo psicoterapeutico facilitando la comunicazione tra terapeuta e paziente.

L’ MDMA ha cominciato ad essere utilizzata come sostanza ricreativa nel corso degli anni ottanta del secolo scorso, arrivando ad essere classificata come sostanza illegale negli Stati Uniti nel 1985. Tale classificazione ha reso l’uso di questa sostanza illegale in psicoterapia, portando a ostacoli per la ricerca clinica.

MDMA nel trattamento del PTSD: uno studio di efficacia

Nello studio preso in esame sono stati esaminati sei trial clinici condotti dal 2004 al 2017 negli Stati Uniti, in Svizzera e in Israele, i quali hanno coinvolto un totale di 105 partecipanti. I soggetti erano uomini e donne che riportavano sintomi di PTSD da almeno sei mesi ed erano già stati sottoposti a terapie specifiche senza aver riportato un miglioramento significativo. La procedura sperimentale prevedeva l’assegnazione casuale dei partecipanti a un gruppo sperimentale, al quale veniva somministrata una dose attiva della sostanza, o a un gruppo di controllo, al quale venivano somministrate dosi molto blande della sostanza o, alternativamente, dosi di placebo inattivo. Le dosi venivano somministrate all’inizio di sessioni di psicoterapia della durata di otto ore, le quali avevano luogo ogni 3 settimane.

Al termine del trattamento è stata evidenziata una diminuzione significativa dei sintomi di Disturbo da Stress Post Traumatico e di sintomi depressivi, la quale risultava significativamente maggiore nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. Inoltre, il 54% dei partecipanti del gruppo sperimentale non risultava più soddisfare una diagnosi di PTSD, a fronte del 22,6% dei partecipanti del gruppo di controllo.

L’azione combinata di psicoterapia e MDMA è quindi risultata efficace per il trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico e potrebbe diventare un trattamento approvato dalla Food and Drugs Administration entro il 2021.

Arrivederci Professore (2019). Johnny Depp nel ruolo del professore controcorrente e ribelle – Recensione del film

RECENSIONE DEL FILM CHE USCIRÀ NELLE SALE IL 20 GIUGNO 2019

Arrivederci professore è un film gradevole, dotato di alcuni spunti interessanti, che guida lo spettatore nell’esplorazione di un topos letterario eterno, trasversale alle culture: come affrontare la fine se si è perso troppo tempo quando si godeva di ottima salute?

 

In Arrivederci professore, Johnny Depp si cimenta in un ruolo già solcato da numerosi suoi colleghi e altrettanti autori cinematografici, la figura del professore alternativo, controcorrente, provocatoriamente ribelle.

Il modello primigenio e inarrivabile de “L’attimo fuggente” viene lambito da questo film che, in verità, prova ad affrontare altre tematiche, variando il motivo di base attraverso l’introduzione di un elemento più intimo, la malattia e la fase terminale della vita.

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La storia

A Richard viene diagnosticato un tumore incurabile, simultaneo alla scoperta del tradimento della moglie col preside della scuola. La reazione è un immediato collasso psichico seguito da sfoghi impulsivi a base di alcol e marijuana. Il corso di letteratura è però alle porte e il professore lo apre con una selezione naturale degli studenti in base agli scopi di vita: chi è disposto ad amare i libri anziché le loro finalità accademiche può rimanere, gli altri sono pregati di accomodarsi all’uscita. Le lezioni si svolgono al pub, in giardino, tra birre e discorsi sulle persone, sui loro vizi e le risorse da esplorare.

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Richard è un po’ affascinante un po’ cliché, la relazione con la moglie, all’oscuro della malattia, si trasforma in un concentrato di sincerità adolescenziale e trasgressività senile a suo modo intrigante. Non ha più senso, con la morte che incombe, aggrapparsi alle paure rendendole uno stile quotidiano, chiedersi cosa penserebbe la morale matrigna delle pratiche sessuali proibite dal codice scolastico, dei gesti provocatori tirati fuori tutti d’un fiato, degli slanci di autenticità non più repressi. La libertà della fine inoppugnabile, di un destino che elimina ciò che si aveva da perdere sostituendolo con ciò che si era sempre sognato di esprimere. La liberazione di accorgersi che il giudizio degli altri è solo un’opinione e non esistono azioni realmente definitive. Nulla è poi così grave dopo averlo fatto, nulla di compiuto assomiglia davvero a come lo si era immaginato.

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Arrivederci professore: tra creatività e retorica

Il pregio del film Arrivederci professore è anche il suo limite, spingersi su un terreno che dal creativo scivola nel retorico e viceversa. L’ossigeno conquistato nella salita finale assomiglia al vezzo di un bambinone, sebbene più di una volta le cadute di credibilità vengano compensate da un’ironia a tratti pure brillante. Il punto debole è semmai rappresentato dagli inni motivazionali sulla vita e sulla morte, in bilico tra Steve Jobs e i suoi vari epigoni. Forse da un mattatore come Johnny Depp è lecito aspettarsi qualcosa di più dannato, ma è indubbio che su un argomento così arato dai racconti umani il rischio di un pregiudizio (in)consapevole dello spettatore sia più di un’ipotesi.

Il topos letterario è eterno, trasversale alle culture: come affrontare la fine se si è perso troppo tempo quando si godeva di ottima salute? E quel tempo cosiddetto perso è stato realmente un’occasione mancata o è servito ad adattarsi a vincoli in parte ineludibili? Richard è disperato, una parte di lui non accetta la condanna e questo giova al film, al suo valore narrativo: il professore non è soltanto ciò che la gabbia della sceneggiatura richiede ma anche un uomo in conflitto che nell’epilogo già scritto non vede tanto una catarsi quanto un dramma da affrontare nel migliore dei modi.

Con l’amico talmente angosciato da avvicinarsi alla macchietta, la figlia omosessuale che in una parentesi tragicamente breve fa coming out incompresa dalla madre, viene lasciata dalla fidanzata e scopre di essere una futura orfana, insomma col suo passo ora zoppicante ora più spedito, Arrivederci professore è gradevole, dotato di alcuni spunti apprezzabili forse da sviluppare meglio. E se gli attuali prodotti hollywoodiani non si distinguono per originalità, in fondo non è colpa dei professori.

 

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Sessualità e terapia di coppia: una prospettiva olistica

Problemi di coppia? Ecco come risolverli subito! ” Su quante riviste, siti web, blog tematici abbiamo letto una frase simile, come si trattasse di una ricetta culinaria con indicazione dei tempi di cottura, trascorsi i quali il piatto è servito.

 

Per fortuna ci sono autori e terapeuti che ci ricordano quanto composito sia lo scenario dell’intimità di coppia e articolate le tematiche sessuali correlate.

Coppia: ognuna ha la propria intimità

C’è chi giudica ingenui alcuni tipi di strategie suggerite dai terapeuti per raggiungere la reale intimità: per lo più basate sulla conferma, sulla fiducia reciproca, sull’accettazione; al contrario, l’intimità nella coppia può essere costruita basandosi sul conflitto, sull’autoconferma e sulla rivelazione unilaterale (Schnarch, 2001).

Da qui, il polarismo tra una “intimità confermata dall’altro” e una “intimità auto confermata”. Nel primo caso, il partner si aspetta di essere accettato, confermato, non messo in discussione; nel secondo caso, l’intimità è confermata da se stessi, in quanto la persona è capace di mantenere il proprio senso di identità nella relazione, senza esserne inghiottito, né si aspetta una totale remissione da parte del partner nei suoi confronti. Quest’ultima modalità è il risultato della capacità di avere relazione con se stessi. Infatti, la capacità di apertura di sé verso l’altro senza la garanzia che questi debba accettare e confermare se stessi avviene se vi è un elevato livello di differenziazione.

Come emerge dalle parole dello stesso Schnarch:

L’intimità autoconfermata nelle relazioni a lungo termine suona […]: ‘Non mi aspetto che tu sia d’accordo con me; non sei stata messa/o sulla faccia della terra per confermarmi e rinforzarmi: Ma voglio che tu mi ami – e non puoi realmente farlo se non mi  conosci. Non voglio il tuo rifiuto – ma devo affrontare questa possibilità se devo sentirmi accettata/o o sicura/o con te.

Per questo motivo la differenziazione è il fondamento dell’intimità nelle relazioni a lungo termine.

Coppia: la terapia a supporto della sessualità

Di fronte alla carenza del desiderio, lo scopo della terapia sessuale è centrato sul concetto di sviluppo sessuale e non su quello di funzione sessuale (Clement, 2010).

In questa prospettiva lo scopo principale non è innanzitutto l’eliminazione del sintomo – dunque l’aspetto funzionale – bensì l’apertura al desiderio sessuale all’interno della relazione di coppia e la sottolineatura delle aspettative legate all’appagamento sessuale e relazionale. Non si tratta di potenziare la capacità orgasmica o di prolungare l’erezione, bensì di realizzare il potenziale umano presente in ciascuno dei due membri della relazione, presi singolarmente, e all’interno della coppia stessa, come conseguenza.

Questo significa collocare la sessualità all’interno della più ampia sfera dello sviluppo di personalità del singolo individuo, orientando il processo terapeutico alla ricerca delle risorse personali.

All’interno del modello della terapia sistemica, Clement propone interventi – esercizi e prescrizioni comportamentali – da assegnare alla coppia. Tali interventi – come del resto quelli dello stesso Schnarch (ad esempio, abbracciarsi fino a rilassarsi) – sono molto differenti da quelli di ‘prima generazione’, tesi all’apprendimento ed al rilassamento (come quelli, ‘mansionali’, di Masters & Jhonson e la Kaplan).

Alla base di questi interventi, invece, vi è l’idea che lo scopo sia ampliare il desiderio sessuale non correggere o compensare delle mancanze.

Lo scopo è capire cosa significhi e implichi per la persona l’aspetto sessuale, quale sia il suo reale profilo sessuale.

Per far questo viene usato uno strumento diverso da una domanda diretta in quanto non è sufficiente soltanto chiedere alla persona stessa, perché il profilo sessuale è un contenuto che per sua natura non viene facilmente condiviso. Le ragioni sono molteplici, ma basti semplicemente pensare alle reticenze dovute al pudore connesso al tema, alla legittima riservatezza – a volte perfino nei confronti di se stessi – che questo tema suscita. A volte nemmeno la persona interrogata è consapevole della propria sessualità. Pertanto il profilo sessuale di una persona non è facilmente accessibile attraverso semplici domande.

Secondo Clement, una comunicazione che abbia come contenuto il profilo sessuale delle due persone coinvolte nella relazione richiede tre passi:

  • l’autoriflessione
  • lo svelamento
  • la reazione

Il primo si riferisce alla consapevolezza del soggetto circa il suo profilo sessuale e sulla natura del suo desiderio. Lo svelamento implica la comunicazione al partner. Infine, la reciprocità dello svelamento tra i partner.

Strumenti e tecniche terapeutiche per riattivare la sessualità della coppia

I tre passaggi possono non essere distinti con chiarezza, tuttavia sono collegati l’uno con l’altro con un meccanismo di feedback: l’autoriflessione correlata alla riflessione su quale contenuto si possa trasmettere e quale no. Lo svelamento tiene conto della possibile reazione del partner o anche di quella ipotizzata. Così, aspettarsi una determinata reazione dell’altro può avere un effetto frenante non solo sulla scelta e sulla presentazione dei dati del proprio profilo sessuale, ma  anche sulla stessa autoriflessione. La reazione che si prevede abbia il partner può comportare una potente censura, più o meno consapevole, sullo svelamento (nel senso di un atteggiamento discreto che alleggerisca il conflitto) ma anche sull’autoriflessione. Così può instaurarsi un feedback negativo che non porta solamente a uno svelamento che fa piacere al partner (riguardo), ma anche a una censura dell’autocomunicazione (autosmentita) che, nei casi estremi, si adatta così tanto alle esigenze del partner che la differenza tra quello che si pensa e quello che si dice si riduce sempre più.

Lo scenario sessuale ideale rappresenta lo strumento cardine per il confronto tra i due partner. Si tratta di una descrizione dello scenario sessuale ideale di ciascun partner. Esso descrive un ideale incontro sessuale che si basa sui bisogni, sulle esigenze e sulle fantasie del soggetto che lo descrive, senza tener conto del partner; lasciando aperta la prospettiva di un partner diverso da quello reale. Entrambi i membri della coppia sono invitati a scrivere su un foglio ciò che essi realmente vorrebbero fare, con chi ed in quale situazione; descrivendo la situazione più soddisfacente che essi vorrebbero vedere attuata dal punto di vista erotico e “in cosa è determinante” il loro personale modo di essere uomo o donna.

Dal punto di vista psicologico non sono a tema le fantasie o i desideri che si possano o meno realizzare.

E’ importante sottolineare che la focalizzazione è sui comportamenti e non sui sentimenti provati, reciproci e non.

Al termine dell’esecuzione i due partner, singolarmente, sono invitati a riporre il foglio in una busta e a non farlo leggere all’altro, ma di procrastinarne l’apertura  –  o non apertura – alla seduta successiva. Nel momento che essi decidono di aprirla, l’esercizio diventa vincolante per entrambi.

Questo strumento permette il confronto tra i partner, attraverso la neutralità del terapeuta, con una sorta di coreografia erotica che consente al terapeuta di analizzare il processo di elaborazione, se ci sono fraintendimenti, come e quanto seriamente viene accettato il compito, quali reazioni emotive vengono innescate. Insomma, tutta la personalità dei due partner è implicata, coinvolta nella terapia, in un approccio olistico. Il terapeuta instrada i due partner verso una rielaborazione finale. Questo pone in secondo piano il contenuto scritto, infatti, non si focalizza l’attenzione su ciò che i due partner possono sessualmente fare, ma ciò che essi sessualmente sono.

Dall’assemblea Annuale della Consulta delle Scuole di Psicoterapia CBT: presentazione del percorso e del manuale di accreditamento tra pari delle Scuole

Il 27 maggio si è tenuta a Roma l’assemblea annuale della “Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale”.

 

Nel corso della giornata è stato presentato il percorso di lavoro intrapreso da sei scuole afferenti alla Consulta (Istituto Miller, 
ITC, 
Nous,
 Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Scint, Studi Cognitivi) le quali hanno collaborato alla stesura di un manuale contenente gli standard e le linee guida per l’accreditamento e l’assicurazione della qualità formativa delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale.

Il lavoro nasce da una riflessione della Consulta rispetto alle indicazioni ministeriali sul controllo della qualità della formazione fornita dalle Scuole di Specializzazione. A partire da ciò il gruppo di lavoro tra pari costituito e coordinato dal presidente Paolo Michielin ha focalizzato l’attenzione sull’individuare dei criteri che potessero rappresentare degli indici della qualità dell’offerta formativa delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale. Oltre a rappresentare una possibilità di controllo della qualità dell’offerta formativa, gli standard e linee guida sono volte sia a prospettare una maggiore coerenza rispetto ai criteri di qualità interni alle Scuole ed un progressivo allineamento agli standard europei, sia a riflettere sull’importanza di una comunicazione trasparente dei criteri nei canali di comunicazione delle Scuole.

L’assemblea annuale ha quindi rappresentato un momento di condivisione del lavoro svolto: i membri delle sei scuole del gruppo di accreditamento tra pari si sono avvicendati per illustrare dapprima la struttura del manuale e il razionale alla base, per poi proseguire con una sintesi delle aree ritenute di imprescindibile importanza nell’assicurazione delle qualità della formazione offerta dalle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale. È stata inoltre descritta la procedura che verrà seguita nel momento in cui una Scuola di Specializzazione CBT farà richiesta di accreditamento.

La presentazione si è conclusa condividendo riflessioni sul manuale nate da due visite pilota effettuate tra Studi Cognitivi, Nous, Istituto Miller e ITC. La discussione successiva, moderata da Giovanni Ruggiero, ha prodotto considerazioni e spunti futuri per un proficuo percorso che tenga in considerazione sempre più le best practice che garantiscono la qualità e il progresso delle Scuole di specializzazione CBT.

 

I videogiochi violenti sono correlati a comportamenti violenti?

Il fatto che i bambini che usano videogiochi violenti siano più portati a mettere in atto comportamenti violenti può essere spiegato alla luce della teoria dell’apprendimento sociale, secondo cui le persone sviluppano nuove strategie di comportamento attraverso processi di osservazione e imitazione delle azioni altrui (modelli di riferimento). Tali modelli possono essere reali o immaginari come nel caso dei videogame.

 

Gli Stati Uniti sono uno dei paesi con il più alto tasso di mortalità infantile legato all’utilizzo accidentale di armi da fuoco. Sicuramente la presenza legale di armi in casa predispone maggiormente i bambini a trovarsi a diretto contatto con esse. Tuttavia, ci sono diverse variabili che possono influire sulla predisposizione dei bambini ad usare o meno le armi.

La ricerca che viene presentata in questo articolo prende in considerazione la variabile “esposizione alla violenza tramite videogioco”. Si è ipotizzato che i bambini esposti alla visione di videogiochi violenti fossero più portati ad imitare i comportamenti violenti, rispetto ai bambini esposti a videogiochi non violenti.

Lo studio

Il campione oggetto di studio è composto da 220 bambini (8-12 anni) divisi in 110 coppie, delle quali un bambino giocava attivamente al videogioco e l’altro osservava passivamente. Le coppie di bambini sono state esposte ad una delle tre condizioni cliniche: videogioco violento con pistole, videogioco violento con spade e videogioco non violento. Successivamente, i bambini sono stati portati in una stanza videosorvegliata, per 20 minuti, dove sono stati lasciati liberi di giocare con tutti i giocattoli presenti nella stanza. All’interno di un armadietto erano state riposte due pistole scariche ed è stata valutata la propensione dei bambini all’uso delle pistole in seguito alla visione dei videogiochi violenti e non violenti. La propensione all’utilizzo delle pistole è stata valutata tenendo conto del contatto avuto con essa, del tempo d’impugnatura della pistola e dell’innesco dei tiri rivolti verso se stessi o altri.

Dei 220 bambini che hanno trovato le pistole, 120 le hanno toccate. Il tempo medio di impugnatura dell’arma è stato di 96,5 secondi e il 32,5% dei 120 bambini ha premuto il grilletto della pistola almeno una volta.

In particolare, rispetto alle tre condizioni cliniche (videogiochi pistole, spade, no violenza) è emerso che l’esposizione dei bambini a videogame violenti era maggiormente associata al contatto con la pistola, ad un maggior tempo di impugnatura dell’arma e ad una maggior numero di tiri verso se stessi o altri, rispetto all’esposizione a videogame non violenti. Difatti, dei bambini esposti a videogiochi con pistole, il 62% aveva toccato la pistola per 91 secondi ed aveva effettuato più colpi rispetto alle altre due condizioni; dei bambini esposti a videogiochi con spade, il 57% aveva toccato la pistola per 72 secondi effettuando meno tiri rispetto alla condizione con pistole; infine in relazione alla condizione non violenta, il 44% dei bambini aveva toccato la pistola per circa 36 secondi effettuando un numero di colpi più basso rispetto alle condizioni violente (pistole e spade).

Conclusioni

Questa ricerca sembra suffragare l’ipotesi per la quale l’esposizione dei bambini a videogiochi violenti, nei quali vengono utilizzate armi, può avere ripercussioni sull’uso delle armi nella vita reale. Questo risultato può essere letto alla luce della teoria dell’apprendimento sociale (Bandura, 2017) che afferma come le persone sviluppino nuove strategie di comportamento attraverso processi di osservazione e imitazione delle azioni altrui (modelli di riferimento). Tali modelli possono essere reali o immaginari come nel caso dei videogame.

Inoltre, è interessante sottolineare che prima di sottoporre i partecipanti alla procedura clinica, i ricercatori hanno somministrato dei questionari self report per valutare la frequenza con la quale i bambini fossero esposti generalmente a filmati violenti e quanto spesso tendevano a comportarsi in maniera violenta. Dall’analisi dei risultati è emerso che l’esposizione reiterata a filmati violenti era collegata ad una maggiore probabilità di toccare la pistola e sparare; dunque, l’esposizione ripetuta si presenta come fattore di rischio per l’utilizzo di armi nella vita reale.

Tuttavia, questo studio presenta delle limitazioni: un setting artificiale e poco naturale il quale può inibire il comportamento dei bambini; l’utilizzo di un videogioco non molto violento per ragioni etiche; ed infine la difficoltà dei bambini ad identificarsi con l’avatar del videogioco legata a ragioni di grafica del gioco (avatar non personalizzabile e non ripreso) e ad una breve sessione della durata del gioco.

Paul L. Hewitt: Perfectionism. A Dynamic-Relational Approach to Conceptualization, Assessment and Treatment – Report dal Workshop di Bergamo, 25 Maggio

Durante il seminario che si è tenuto a Bergamo il 25 maggio scorso, Paul L. Hewitt ha illustrato il suo approccio dinamico-relazionale, frutto di oltre trent’anni di lavoro, all’assessment, alla concettualizzazione e al trattamento del perfezionismo, un complesso e problematico aspetto di personalità.

 

Il seminario è stato organizzato dalla Society for Psychotherapy Research e dalla Scuola di Psicoterapia Integrata. Uno dei massimi esperti mondiali di perfezionismoPaul L. Hewitt – ha illustrato il suo approccio dinamico-relazionale al tema.

L’ipotesi alla base del lavoro di Hewitt

Nell’ascoltare Paul L. Hewitt è facile capire cosa intendiamo o vorremmo intendere utilizzando la parola “esperto”. Perché Hewitt è senza alcun dubbio un esperto di perfezionismo. Con gentilezza, calma ed approfondita conoscenza ha guidato i partecipanti al corso nella comprensione del suo modello di funzionamento ed intervento. Il cosiddetto approccio dinamicorelazionale prende le sue origini dalle domande che il giovane studente universitario Paul Hewitt si pose scrivendo il suo primo articolo in cui passava in rassegna quanto noto in letteratura. L’ipotesi guida era, e resta, quella che il perfezionismo non sia una sorta di deriva o correlato sintomatologico di altre psicopatologie, quanto piuttosto un tratto di personalità multidimensionale e potenzialmente maladattivo.

A partire dalle prime ricerche in cui cercò di dimostrare come il perfezionismo fosse uno stile interpersonale che media tra eventi stressanti e depressione (Hewitt & Dyck, 1986), sino alle conferme sperimentali sulla multidimensionalità di tale tratto (Hewitt & Flett, 1991), il lavoro trentennale di Hewitt si è sviluppato secondo chiare e coerenti linee di ricerca. Ed ha portato alla pubblicazione di Perfectionism. A Relational Approach to Conceptualization, Assessment, and Treatment (Hewitt, Flett & Mikail, 2017) uscito nel 2017 in lingua inglese e prossimamente disponibile in lingua italiana.

Affondando le sue radici in un background psicodinamico, il modello dinamico-relazionale integra teorie e prospettive diverse anche e volutamente di stampo cognitivista. Hewitt evidenzia chiaramente come all’origine del suo lavoro vi siano in particolare due filoni teorici. Da un lato troviamo le elaborazioni psicoanalitiche del complesso di superiorità (Adler, 1979), ovvero quel tentativo molto umano di mascherare un nostro senso di inferiorità che spesso porta ad ipersensibilità alle critiche e quindi alla tendenza a mascherare le nostre imperfezioni (Horney, 1950). Dall’altro lato, la rilettura interpersonale dell’ansia e della sofferenza umana (in opposizione all’originale eziologia intrapersonale freudiana) che la psicoanalisi americana ha reso famosa (Sullivan, 1953), supporta l’idea di considerare il perfezionismo un tratto di personalità maladattivo al punto da nuocere alla persona e alle sue relazioni (Blatt, 1995).

Il perfezionismo secondo Hewitt

Ma che cos’è il perfezionismo? Secondo Hewitt, è “un modo di essere nel mondo“. Per fare maggiore chiarezza è meglio partire dalla distinzione tra ciò che si intende parlando di perfezionismo e quello che invece, più comunemente, si intende facendo riferimento allo sforzo impiegato per ottenere determinati risultati: la soddisfazione, il piacere per la ricompensa, l’ottimismo e l’organizzazione caratterizzano il sano impegno che ci porta verso degli obiettivi ambiti; quando invece si ha a che fare con il perfezionismo, prevalgono il focus su ciò che non va, la paura del fallimento e la procrastinazione. Alla base di questa sostanziale differenza, secondo Hewitt, risiede un aspetto nucleare: l’obiettivo del perfezionismo è “perfezionare se stessi, e non le cose o le attività“. Questo implica che ottenere la perfezione risponda in realtà a scopi assai più profondi.

Report dal Workshop di Paul L. Hewitt sul perfezionismo ph 3

Imm. 1 – Immagine dal workshop con Paul L. Hewitt

Il modello del perfezionismo presentato da Paul L. Hewitt ne ipotizza una configurazione multidimensionale, che risulta estremamente utile per poter concettualizzare al meglio il funzionamento di ciascun paziente, combinando varie tipizzazioni e permettendo così di impostare in modo più proficuo il trattamento. Nello specifico, il Comprehensive Model of Perfectionistic Behavior (CMPB; Hewitt, Flett & Mikail, 2017) distingue, all’interno del costrutto del perfezionismo, sia degli specifici tratti che dei processi di natura intra- ed interpersonale.

Report dal Workshop di Paul L. Hewitt sul perfezionismo ph2

Imm. 2 – Paul L. Hewitt illustra le caratteristiche del perfezionismo

Tra le dimensioni di tratto, è possibile distinguere diverse configurazioni:

  • una forma in cui la persona si impone alti standard, pretende da se stessa la perfezione e si valuta in modo critico;
  • uno stile che si caratterizza per la tendenza a pretendere la perfezione dagli altri, valutandoli in modo critico e aspettandosi che si attengano ai propri standard;
  • una modalità in cui è centrale la credenza che gli altri si aspettino la perfezione da noi stessi.

Tra le componenti processuali, di natura inter-personale, è invece possibile distinguere tre diverse modalità di auto-presentazione perfezionistica; secondo il modello di Hewitt e colleghi infatti, vi può essere:

  • la tendenza ad auto-promuovere la propria perfezione offrendo agli altri un’immagine di sé ineccepibile ed unica;
  • la tendenza a nascondere quelle che vengono considerate come proprie imperfezioni, attraverso evitamenti e forme condiscendenza passiva;
  • la tendenza a non rivelare, e dunque omettere, le proprie imperfezioni, come ad esempio i fallimenti.

Report dal Workshop di Paul L. Hewitt sul perfezionismo ph 1

Imm. 3 – Paul L. Hewitt parla di perfezionismo

Sempre di tipo processuale, ma intra-personali, sono infine le componenti cognitive del CMPB, che rappresentano l’espressione interiore del perfezionismo: un insieme di pensieri automatici, ruminazioni, autorecriminazioni e autocensure inerenti il bisogno di essere perfetti.

Origine e coseguenze psicopatologiche del perfezionismo

Attraverso numerosi esempi clinici e video di sedute ed interviste, durante il workshop Paul L. Hewitt ha illustrato come la paura di non essere ‘abbastanza’ possa rendere la vita del perfezionista molto dolorosa. Ma quali possono essere dunque le problematiche, inerenti il perfezionismo, su cui il clinico si trova a dover intervenire? Hewitt nel corso del seminario ha più volte ribadito che il perfezionismo non è di per sé classificato come un disturbo psicologico, ma rappresenta comunque uno dei più rilevanti fattori di vulnerabilità nello sviluppo della personalità, che esita in altre sindromi (come la depressione, i disturbi alimentari, i disturbi d’ansia, i disturbi di personalità), in problematiche relazionali, in disturbi di natura fisica connessi allo stress e in difficoltà inerenti la realizzazione (come la procrastinazione, la paura del fallimento, il burn-out, la sindrome dell’impostore).

All’origine del perfezionismo, secondo Paul L. Hewitt, ci sarebbe un’asincronia nell’attaccamento, una sorta di non sintonizzazione tra bisogni del bambino e risposte dei genitori ad essi, nei confronti della quale il perfezionismo è solo una delle risposte possibili, in quanto stile di personalità che insorge all’interno di un contesto relazionale. Il Perfectionism Social Disconnection Model (PSDM; Hewitt, Flett & Mikail, 2017) illustra infatti in che modo, attraverso le prime interazioni significative, i comportamenti perfezionistici si sviluppino come una modalità orientata a uno scopo preciso: compensare o riparare un sé danneggiato e gestire l’ansia interpersonale e le altre emozioni negative che si creano, in relazione ad esso, all’interno dei contesti interpersonali.

Risultare perfetto sembra permettere (solo ipoteticamente) di sviluppare una migliore relazione con l’altro, ma questa modalità finisce invece per condurre – paradossalmente – alla sensazione di non essere accettati, capiti, di non essere mai abbastanza, e spinge passo dopo passo ad utilizzare sempre di più le strategie perfezionistiche, sviluppando, anche verso se stessi, relazioni problematiche. Nel PSDM, infatti, Hewitt mette a fuoco non solo le considerazioni inerenti lo sviluppo precoce del perfezionismo, ma anche le modalità attraverso cui esso evolve e si mantiene secondo differenti traiettorie evolutive.

Il trattamento del perfezionismo

Nell’ultima parte del seminario, Hewitt ha illustrato alcuni aspetti inerenti il trattamento del perfezionismo. L’approccio utilizzato da Paul L. Hewitt e colleghi è di tipo dinamico-relazionale ed integra al suo interno elementi della psicoterapia dinamica, di quella interpersonale e di quella cognitivo-comportamentale; il modello di trattamento è stato declinato sia per l’intervento individuale che per quello di gruppo. Partendo da un accurato assessment, tramite questionari e attraverso il colloquio clinico, il terapeuta giunge alla formulazione del caso che nel modello viene rappresentata mediante due triangoli: uno rappresenta le modalità attraverso cui il perfezionismo si è sviluppato, e prende in considerazione lo stile di attaccamento ed i bisogni interpersonali, gli affetti negativi, le difese e gli stili di coping (triangle of adaptation); l’altro rappresenta il modo in cui il perfezionismo si è manifestato e si manifesta, nei vari contesti interpersonali compreso il setting terapeutico (triangle of object relations). La terapia ha infatti come focus l’aumento della consapevolezza riguardo alle dinamiche interne e ai modelli interpersonali che danno origine alla convinzione che perfezionare se stessi o gli altri sia essenziale.

Come tutte le moderne psicoterapie rivolte a tratti, dimensioni o fattori di personalità il trattamento non ambisce illusoriamente a stravolgere la personalità stessa. Per chi ha avuto tra i propri pazienti persone con elevati livelli di perfezionismo sa che oltre che controproducente una simile strategia risulterebbe dannosa. L’obiettivo dell’intervento proposto da Hewitt mira infatti a promuovere un processo adattativo basato sulle specificità della persona, cercando di “ridurre e eliminare i meccanismi causali individuati” (Hewitt, Flett & Mikail, 2017, p. 285) all’origine dei sintomi e delle sindromi psicopatologiche che il perfezionismo può generare. E nel far questo possiamo forse ambire ad accettare l’imponderabilità della vita, a prescindere dal tempo e dalle energie dedicate a prepararsi a future invalidazioni. Lo stesso Hewitt, nel ricevere la primissima stampa di un’antologia di studi sul perfezionismo curata per conto dell’American Psychological Association (Flett & Hewitt, 2002), lesse con un certo sgomento: “Pefectionism”… si erano dimenticati una “r” nel titolo!

The maxim ‘nothing prevails but perfection’, may be spelt shorter: paralysis (Sir Winston Churchill)

L’importanza degli aspetti psicologici nella cyber-security

Non sono passati molti anni da quando le fotografie si scattavano solo con una macchina fotografica e dovevano essere stampate per poter essere viste, dai luoghi di vacanza si mandavano cartoline, per passare al casello autostradale ci si doveva fermare e pagare il pedaggio, per prelevare del denaro ci si doveva recare in banca e fare la coda allo sportello.

 

L’elenco dei cambiamenti nelle nostre abitudini introdotti dall’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni è davvero vasto e coinvolge praticamente tutti gli ambiti della nostra vita.

I più giovani riescono a fatica a immaginare come poteva essere un mondo senza le attuali tecnologie e la generazione che ha vissuto, o in alcuni casi subito, il cambiamento non sempre è consapevole di ciò che davvero è avvenuto.

Cyber-security: pc, smartphone e IOT

Se prendiamo ad esempio le fotografie, possiamo notare come sia cambiato radicalmente, oltreché il modo di scattarle, anche il nostro modo di condividerle passando dall’album mostrato agli amici più cari a foto anche molto intime mostrate sui social al mondo intero. Il semplice telepass che ci consente di transitare velocemente al casello autostradale lascia una traccia digitale del nostro passaggio che un tempo non esisteva.

Analogamente è cambiato il nostro rapporto con il denaro. Tra il doversi recare allo sportello per prelevare denaro contante e quindi effettuare gran parte dei pagamenti vis à vis stiamo passando a una modalità di pagamento “dematerializzata” attraverso carte di pagamento o strumenti elettronici. Secondo i dati di una ricerca condotta da Visa (Visa, 2017) l’82% dei millennials italiani (18-34 anni) dichiara di utilizzare lo smartphone per effettuare pagamenti e ben il 96% di loro prevede di farlo entro il 2020.

Non c’è dubbio che, a fronte di notevoli miglioramenti nelle nostre condizioni di vita, il prezzo che stiamo pagando sia quello di concedere ai fornitori dei vari servizi informazioni sulla nostra vita sia che si tratti di immagini, di viaggi, di abitudini e preferenze o delle nostre possibilità di acquisto. Nel prossimo immediato futuro, inoltre, con l’avvento dell’IOT (Internet Of Things) tutto questo riguarderà anche l’utilizzo che facciamo di tutti le apparecchiature presenti nelle nostre case (quanto ci riscaldiamo, cosa mangiamo, quali porte apriamo ecc).

Possiamo quindi affermare che le nostre vite sono, e lo saranno sempre di più a breve, quasi completamente incarnate negli strumenti tecnologici  che ci circondano e che potremmo addirittura definire come parte della nostra “mente estesa” (Clark, 2002). La Stessa Corte Suprema degli Stati Uniti con la sentenza 573 del 25 giugno 2014 ha dichiarato lo smarphone protetto dal quarto emendamento affermando che nemmeno le forze di polizia, senza apposito mandato dell’autorità giudiziaria, possono accedere ai suoi contenuti essendo in grado di contenere informazioni molto personali di carattere politico, sanitario, psicologico, sociale, lavorativo e relazionale.

Una quantità di dati così preziosa attira inevitabilmente l’interesse, oltreché delle aziende che vendono prodotti o servizi online, anche di persone malintenzionate con l’obiettivo di truffarci o utilizzare in modo fraudolento le nostre informazioni.

Cyber security: le truffe online e le possibili conseguenze

Negli ultimi anni il fenomeno delle truffe online o degli attacchi hacker ha coinvolto un numero crescente di aziende e di persone.

Il caso di Cambridge Analytica con i 50 milioni di profili Facebook coinvolti (Franceschini, 2018), il furto di dati di 500 milioni di utenti di Yahoo (Biagio, 2016),  i 117 milioni di mail e password rubati su Linkedin (Ansa.it, 2016) sono solo alcune delle situazioni più eclatanti che hanno riguardato i nostri dati personali.

Le stesse banche stanno subendo costanti attacchi al sistema informatico al punto che secondo il report “Banking & Financial Services Cyber-Security: US Market 2015-2020“ (Homeland Security Market Research, 2016) il mercato relativo alla protezione dei servizi finanziari americani arriverà a toccare la cifra record di 9,5 miliardi di dollari.

Ma non sono solo le aziende ad essere oggetto di attacco per il furto di dati personali.

A chi non è capitato di ricevere una mail o un messaggio di congratulazioni per aver vinto un nuovo Smartphone, o una mail da una banca con l’avviso che il nostro conto è stato bloccato e per sicurezza dobbiamo accedere al sito? Questi sono solo un paio di esempi di tentativi di entrare in possesso dei nostri dati personali e finanziari. Immaginiamo poi la quantità di applicazioni presenti sul nostro telefono e computer e il fatto che molte di esse ci chiedono una password per accedere o segnalano la nostra posizione; se non siamo attenti a utilizzare password diverse per ognuna aumentiamo enormemente il rischio che, nel caso una di queste sia ingannevole, l’accesso a tutte le nostre applicazioni sia potenzialmente in pericolo. Ma dobbiamo comunque essere molto attenti alle applicazioni che scarichiamo; è di pochi mesi fa, ad esempio, la notizia che un’applicazione per il fitness abbia rivelato informazioni potenzialmente sensibili sul personale militare americano e alleato in luoghi “caldi” come Afghanistan, Iraq e Siria (Lanni, 2018).

Appare evidente come queste truffe possano avere gravi conseguenze per l’ignara vittima, per l’azienda per cui lavora o addirittura, per la sicurezza nazionale.

In molti casi i dati vengono rivenduti e quindi utilizzati per l’invio di mail promozionali o ulteriori tentativi di truffa, in altri casi possono essere utilizzati per scoprire segreti o brevetti aziendali, per condizionare le nostre scelte politiche o di acquisto. Essere incauti quando rispondiamo a un messaggio o clicchiamo su un link può avere molte conseguenze: potremmo ad esempio acquistare un prodotto o un servizio che non arriverà mai o che arriverà contraffatto, potremmo ritrovarci con il PC bloccato con una richiesta di riscatto per poterlo sbloccare (ransomware), potremmo sottoscrivere abbonamenti a servizi mai richiesti, oppure potremmo essere ricattati per evitare la divulgazione di immagini personali. Le possibili conseguenze sono davvero tante e arrivano fino al furto dell’ identità digitale che consente al truffatore di compiere numerose operazioni con l’identità altrui come ad esempio comprare auto, sottoscrivere finanziamenti, aprire conti correnti, fino ad aprire vere e proprie aziende.

Cybersecurity: quali sono i meccanismi di queste truffe?

La modalità più frequentemente utilizzata è quella del Phishing o dello Spear Phishing.

Rientrano nella categoria di Phishing tutte quelle mail che riceviamo apparentemente da Istituti di Credito e che ci chiedono di inserire i nostri dati del conto per accedere e risolvere una qualche problematica. “La sua carta è stata bloccata…” “Abbiamo riscontrato movimentazioni sospette sulla sua carta…”. Il link presente nella mail reinvia a un sito simile a quello dell’Istituto e se l’utente inserisce i dati di accesso il gioco è fatto.

Un’altra tipologia di Phishing è rappresentata dalle comunicazioni di vittoria di un qualche premio. Per ricevere il premio dovremo inserire i nostri dati personali e in alcuni casi sono previsti anche piccoli costi di spedizione (anche solo di un euro) che ci costringono a inserire anche i dati della carta di credito.

Mentre il Phishing avviene sostanzialmente attraverso l’invio massivo di mail senza conoscenza particolare del destinatario, nello Spear Phishing c’è un invio mirato a una persona o una azienda di un testo credibile e di solito con un allegato infetto (malware). Nel momento in cui la persona apre l’allegato la sicurezza del sistema informatico è minacciata e potrebbero essere rubate informazioni riservate legate alla persona o all’azienda stessa.

Aprire allegati di mail di cui non conosciamo il mittente è sempre molto pericoloso. Potrebbe infatti trattarsi di un malware che potrebbe inviare informazioni dettagliate su cosa stiamo facendo (testi, password o immagini che visualizziamo a video) a qualcuno a nostra insaputa, attraverso delle backdoor installate furtivamente mentre noi apriamo l’allegato.

Cyber-security: le frodi sentimentali sui social

Oltre al Phishing e allo Spear Phishing ci sono molte altre strategie per ingannarci online, la frode sentimentale è uno di questi. Nella versione di qualche anno fa si trattava di una richiesta di contatto via mail, spesso sgrammaticata, da parte di una sedicente ragazza dell’est e successivamente di denaro per svariate ragioni (perso i documenti, viaggio per incontrarsi, furto subito). La versione più recente passa attraverso i social network o i siti di dating online. Il meccanismo in questo caso parte da un contatto da parte di una ragazza o un ragazzo molto affascinante. Se l’utente risponde al contatto, ci sarà una prima fase di consolidamento della relazione attraverso lo scambio di messaggi finalizzata ad aumentare la fiducia e l’intimità. A questo punto  si possono verificare due situazioni: se il malintenzionato percepisce la vittima come di “buon cuore” potrebbe chiedere un piccolo prestito (analogamente al vecchio schema) o in alternativa potrebbe sedurla e portarla a inviare foto compromettenti con cui potrà in seguito attuare dei ricatti.

Cyber-security: quali aspetti psicologici ci portano a essere tratti in inganno?

Ci sono molti aspetti psicologici che vengono studiati dalla Social Engineering con l’obiettivo di aumentare le probabilità di successo di una truffa online.

Iniziamo con il concetto fondamentale di “disinibizione online” (Suler, 2004). Molte persone navigando in rete si comportano in modo differente da come farebbero nella vita offline di fronte ad altre persone. Si ha la percezione di essere anonimi, invisibili, si può rispondere in modo asincrono ai messaggi, non si vede la reazione emotiva dell’altra persona e non si rischia che l’altra persona veda la propria.

Tutto questo sembra disinibire il nostro comportamento e consentirci di fare cose per le quali vis à vis ci imbarazzeremmo. Ovviamente questo implica una serie di aspetti positivi come la possibilità di condividere sentimenti o situazioni che altrimenti sarebbe difficile condividere, il potersi sentire più autentici, il potersi sperimentare in relazioni online e aspetti negativi come ad esempio quelli legati alla violenza online o al cyberbullismo dove l’aggressività può raggiungere livelli ben più alti che nella vita offline. Essere disinibiti e abbassare quindi i nostri automatismi difensivi, ci potrebbe però anche far sottovalutare situazioni di pericolo o di potenziali truffe.

A tutto questo si aggiunge la mancanza di importantissimi indicatori utilizzati dai nostri sistemi di allarme, come la vista dell’altra persona, l’udito, l’olfatto, il che rende decisamente più difficile smascherare il potenziale inganno. In una interessante ricerca condotta da Jeff Hancock della Stanford University è stato scoperto che la presenza di segnali fisici sulla presenza reale di un’altra persona permette una maggiore attenzione alla propria privacy nelle interazioni online (Hancock, 2017).

Cyber-security: il fattore tempo

Abbiamo già individuato due fattori che aumentano la possibilità di indurci in inganno, la disinibizione online e la mancanza di indicatori fisici dell’altra persona.

C’è un altro aspetto che rende insidiosi questi attacchi: il fattore tempo.

Internet ha nella velocità una componente essenziale e nel futuro tutti ci aspettiamo che la velocità migliori ancora. Ma la velocità che ci consente di fare in pochissimo tempo molte cose ci da anche meno tempo per attivare le aree del cervello che ci consentono un’analisi precisa su cosa stiamo facendo. Un inganno tradizionale richiede oltre alle abilità del truffatore anche molto tempo; un inganno online è basato sull’istante necessario a cliccare su un link o a inserire qualche dato personale cosa che siamo abituati a fare senza pensarci troppo e in pochissimo tempo.

Per la truffa online è quindi fondamentale attivare degli automatismi mentali e fare in modo che l’operazione si concluda prima che le aree del nostro cervello deputate alla valutazione specifica si attivino.

Finora abbiamo considerato aspetti psicologici connessi alle caratteristiche dello strumento e della rete internet.

Cyber-security: fattori di rischio di personalità e interpersonali

Ci sono però altri due elementi da tenere in considerazione: gli aspetti temperamentali personali e quelli interpersonali. Tra gli aspetti temperamentali personali quello dell’impulsività è stato oggetto di numerosi studi (Hadlington, 2017) (Coutlee, Politzer, Hoyle, & Huettel, 2014) (McCoul, 2001) (Zuckerman, 2000).

Dagli studi condotti è emerso che una risposta impulsiva, rapida e senza riflettere sulle possibili conseguenze aumenta le probabilità di comportamenti rischiosi sulla cyber-sicurezza; sembra esserci inoltre una differenza significativa nella capacità di riconoscimento di una mail di phishing tra una persona impulsiva rispetto a una che riesce a controllare meglio il tono emotivo (Welk, Hong, Zielinska, Tembe, Murphy-Hill, & Mayhorn, 2015).

Tra gli aspetti psicologici connessi al nostro modo di stare in relazione con gli altri e alla nostra tendenza ad agire in funzione di mete particolari connesse con le esperienze emotive del momento, faremo riferimento a quelli che Liotti ha definito i Sistemi Motivazionali Interpersonali (Liotti, 2008) .

Possiamo individuare almeno 4 tipologie di phishing basate su schemi motivazionali interpersonali:

  1. Il bisogno di ricevere aiuto
    Quando stiamo male, proviamo disagio o paura cerchiamo l’immediata vicinanza di qualcuno che ci possa aiutare. Un esempio dell’applicazione nel phishing di questo nostro bisogno è evidente in tutte le mail che iniziano con un qualche cosa di allarmante come: “abbiamo notato movimenti sospetti sulla tua carta” “abbiamo bloccato la tua carta di credito” “sei stato scoperto a visitare siti pornografici”. Lo scopo di queste mail è attivare l’emozione della paura e il nostro immediato e automatico bisogno di aiuto. Le persone più sensibili a questo tipo di paura saranno attirate dalla seconda parte della mail che di solito offre una soluzione: “clicca qui” “accedi per verificare” “paga una quota e nessuno saprà nulla”; se il tutto avviene in un tempo rapido che non consente l’attivazione della parte cognitiva è probabile una violazione della sicurezza dei dati personali.
  2. Accudimento
    Siamo esseri sociali e tendiamo a offrire aiuto agli altri in modo evolutivamente vantaggioso. Se vediamo una persona in una condizione di fragilità o in difficoltà sentiamo una spinta ad aiutarla. Si basano su questo nostro bisogno innato ad esempio le mail del tipo “sono una ragazza dell’est ho perso i documenti, puoi mandarmi un po’ di soldi?”. In un interessante esperimento condotto nel campus dell’Università dell’Illinois (Tischer, Durumeric, Bursztein, & Bailey, 2017) sono state abbandonate 297 chiavette usb per verificare quanti studenti avrebbero raccolto e utilizzato la chiavetta, mettendo potenzialmente a rischio la sicurezza, e per quale ragione. I partecipanti hanno aperto uno o più file su ben 135 chiavette e il 68 % di loro ha dichiarato di aver aperto i file alla ricerca di dati del proprietario per poter restituire l’unità mentre il 18% lo avrebbe fatto per curiosità. Sembrerebbe quindi che la motivazione principale, raccontata dai soggetti che hanno preso parte all’esperimento, che ha messo in pericolo la sicurezza del campus, abbia a che vedere con la bontà.
  3. Agonismo
    Siamo istintivamente agonisti e competitivi gli uni con gli altri. Essere i più forti in natura garantisce cibo migliore e il rispetto del gruppo. Se in natura il rango si stabilisce con la lotta fisica per noi si traduce nel desiderio di essere più ricchi, possedere le cose più costose, avere più potere. Si basano su questo nostro bisogno innato le mail del tipo: “sei il fortunato vincitore di..” “c’è una grossa eredità da riscuotere” “prodotto di marca sotto costo”. Anche in questo caso la truffa può avere diversi obiettivi: la conferma dell’indirizzo e-mail, il furto dei dati personali, il furto di dati finanziari, la truffa per contraffazione.
  4. Sesso
    La sessualità è il più grande sistema motivazionale umano. Possiamo essere attivati da fattori fisiologici, da fattori ambientali e dal corteggiamento dell’altro individuo. Si basano su questo nostro bisogno innato le frodi sentimentali del tipo “sono ragazza sola desiderosa…” o gli inviti ricevuti sui social network o app di incontri da profili con potenziali partner molto attraenti e apparentemente disponibili. Come abbiamo visto sopra una delle possibili conseguenze di questo tipo di frode potrebbe anche essere quella del ricatto nel caso in cui ci sia lo scambio di foto o materiale compromettente.

Non tutti siamo sensibili allo stesso modo alle varie situazioni, alcuni saranno più vulnerabili alle richieste di aiuto, altri alla paura, altri all’idea di avere un partner sessuale e altri ancora a ricevere un premio o del denaro. Queste motivazioni interpersonali sono alla base anche delle truffe nel mondo offline ma su internet la disinibizione, la velocità, la possibilità di inviare una serie infinita di messaggi con contenuti diversi aumenta la probabilità di intercettare la vulnerabilità su quel tema di quella specifica persona. Ovviamente il tutto, per raggiungere l’obiettivo, deve avvenire il più rapidamente possibile e senza attivare una valutazione critica cognitiva.

Come intervenire in modo efficace?

Le aziende hanno investito molto in sistemi di sicurezza basati sulla tecnologia e molte persone hanno installato sul proprio pc o smartphone software di protezione.

Tutto questo non sembra essere sufficiente per garantire la sicurezza. In una ricerca condotta dal governo Inglese (UK Department for Digital, Culture, Media & Sport, 2018) emerge come il 43% delle aziende abbia subito un attacco o un security breach negli ultimi 12 mesi nel 75% dei casi attraverso mail fraudolente, nonostante la presenza di sistemi di protezione.

Molte delle violazioni ai sistemi informatici sono da attribuire al fattore umano (Anwar, He, Ash, Yuan, Li, & Xu, 2016). Inoltre, come sottolineato da Wilde, l’affidarsi a sistemi di sicurezza tecnici per ridurre il rischio potrebbe allo stesso tempo generare la sensazione di sicurezza che ci porta a correre maggiormente il rischio stesso (Wilde, 1998).

Nel contesto della cyber security l’affidarsi a infrastrutture informatiche confidando esclusivamente nella presenza di software e sistemi di sicurezza potrebbe farci sentire meno la pericolosità delle nostre azioni e portarci persino a correre rischi maggiori (Hadlington, 2017).

I fattori umani da tenere presenti sono molteplici, la motivazione interpersonale, più o meno consapevole, che ci porta ad agire di fronte a determinati stimoli e situazioni; i tratti personali temperamentali di ansia o impulsività o, come messo in luce da Kimberly Young, la dipendenza dall’uso eccessivo di internet. Sono tutti fattori che vanno considerati come possibili elementi di vulnerabilità personale rispetto alla cyber security.

Diventa così difficile, se non impossibile, pensare a una soluzione efficace valida per tutti i contesti.

Laddove l’intervento punitivo non sembra portare ad un miglioramento del comportamento di sicurezza in un contesto aziendale (Young & Case, 2004) anche il limitarsi a dare informazioni sui rischi e i comportamenti corretti non è sufficiente (Bada, Sass, & Nurse, 2014).

Il tema della cyber security va affrontato con un approccio che tenga conto della sua complessità dove al primo livello risiede la necessità di analizzare le esigenze della specifica realtà aziendale e delle risorse umane.

I fattori umani di vulnerabilità possono essere personali, culturali, ambientali o sociali e non possono essere generalizzati ma vanno indagati nelle situazioni specifiche.

La conoscenza di questi fattori è un presupposto importante per non esserne vittime inconsapevoli e per questo la formazione diventa uno strumento essenziale. Un altro aspetto importante sarebbe la possibilità di identificare quelle persone che, per fattori umani, presentano un rischio più elevato e consentire a loro un percorso specifico finalizzato al cambiamento di atteggiamento e comportamento rispetto al tema della cyber security.

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