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Relazione tra Disturbo Schizotipico di Personalità e schizofrenia: dati di neurobiologia e neuropsicologia

Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (2014) vengono classificati all’interno dei disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici tutti quei disturbi che presentano anomalie psicopatologiche in almeno uno dei seguenti ambiti: allucinazioni, deliri, pensiero disorganizzato (eloquio), comportamento motorio grossolanamente disorganizzato o anormale e sintomi negativi.

Marcuzzo Cinzia, Prezza Chiara, Tresso Nicole

 

Schizofrenia: le caratteristiche del disturbo

La schizofrenia è definita dai seguenti criteri diagnostici:

A. Due (o più) dei seguenti sintomi, ciascuno presente per una parte di tempo significativa durante un periodo di 1 mese. Almeno uno di questi sintomi deve essere 1), 2) o 3)

  1. Deliri
  2. Allucinazioni
  3. Eloquio disorganizzato
  4. Comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico
  5. Sintomi negativi

B. Per una significativa parte di tempo dall’esordio del disturbo, il livello del funzionamento in una o più delle aree principali è marcatamente al di sotto del livello raggiunto prima dell’esordio

C. Segni continuativi del disturbo persistono per almeno 6 mesi. Questo periodo deve comprendere almeno 1 mese di sintomi che soddisfano il criterio A e può comprendere periodi di sintomi prodromici o residui. Durante questi ultimi periodi, i segni del disturbo possono essere evidenziati soltanto da sintomi negativi o da due o più sintomi elencati nel criterio A presenti in forma attenuata

D. Il disturbo schizoaffettivo e il disturbo depressivo o il disturbo bipolare con caratteristiche psicotiche sono state esclusi

E. Il disturbo non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o a un’altra condizione medica

Le persone con diagnosi di schizofrenia possono presentare affettività inadeguata, un umore disforico, un ritmo sonno-veglia disturbato e mancanza di interesse per l’alimentazione o rifiuto del cibo. Comune è anche la presenza di deficit cognitivi che possono interessare la memoria dichiarativa, la memoria di lavoro, il linguaggio e le funzioni esecutive. Tali deficit possono comportare importanti compromissioni funzionali e professionali. L’esordio del disturbo generalmente avviene tra la tarda adolescenza e i 45 anni.

Disturbo Schizotipico di Personalità: le caratteristiche

Pur rientrando tra i disturbi dello spettro della schizofrenia, il disturbo schizotipico di personalità si distingue dalla schizofrenia per i sintomi sottosoglia che sono associati a caratteristiche di personalità persistenti. Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (2014), un disturbo di personalità può essere definito come un pattern costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, è pervasivo e inflessibile, esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio o menomazione. Il disturbo schizotipico di personalità è definito dai seguenti criteri diagnostici:

A. Un pattern pervasivo di deficit sociali e interpersonali caratterizzato da disagio acuto e ridotta capacità riguardanti le relazioni affettive, da distorsioni cognitive e percettive ed eccentricità di comportamento, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:

  1. Idee di riferimento
  2. Convinzioni strane o pensiero magico che influenzano il comportamento e sono in contrasto con le norme culturali
  3. Esperienze percettive insolite, incluse illusioni corporee
  4. Pensiero ed eloquio strani
  5. Sospettosità o ideazione paranoide
  6. Affettività inappropriata o limitata
  7. Comportamento o aspetto strani, eccentrici o peculiari
  8. Nessun amico stretto o confidente
  9. Eccessiva ansia sociale

B. Non si manifesta esclusivamente durante il decorso della schizofrenia, di un disturbo bipolare o depressivo con caratteristiche psicotiche, di un altro disturbo psicotico o di un disturbo dello spettro dell’autismo.

Il disturbo schizotipico di personalità può manifestarsi per la prima volta nell’infanzia e nell’adolescenza attraverso solitudine, scarse relazioni con i coetanei, ansia sociale, rendimento scolastico inadeguato, ipersensibilità, pensieri e linguaggio peculiari e fantasia bizzarre.

Schizofrenia e disturbo schizotipico: aspetti in comune e differenze

La relazione tra disturbo schizotipico di personalità e schizofrenia è stata oggetto di molti studi: studi di familiarità genetico-epidemiologici, studi fattoriali e dimensionali, studi neurobiologici e neuropsicologici (Bellino, Rinaldi, Brunetti, Cremasco & Bogetto, 2013). Ad esempio lo studio di Moreno Samaniego (et al., 2011) ha rilevato nei familiari di pazienti psicotici elevati livelli di caratteristiche schizotipiche, ciò ha permesso di ipotizzare l’esistenza di una familiarità per il disturbo.

Considerando l’importanza della correlazione genetica tra disturbo schizotipico di personalità e schizofrenia e quindi la presenza di una presumibile condivisione di alterazioni biologiche, sono stati svolti numerosi studi per ottenere evidenze di tipo neurobiologico. Attraverso l’uso di tecniche di brain-imaging si è cercato quindi di evidenziare elementi comuni fra i due disturbi. Diversi studi hanno riportato anomalie cerebrali simili, ma attenuate, confrontando soggetti con disturbo schizotipico di personalità e soggetti con schizofrenia: differenze nella forma del corpo calloso (Downhill et al., 2000) anomalie talamiche (Byne et al., 2001).

Il gruppo di lavoro composto da Dickey e collaboratori (1999) ha rilevato un minor volume della materia grigia nel giro temporale superiore sinistro in pazienti con disturbo di personalità schizotipico e in pazienti schizofrenici, un’area importante per l’elaborazione del linguaggio. Nel 2002 hanno deciso di indagare due componenti del giro temporale superiore: il giro di Heschl e il Planum temporale (Dickey et al., 2002).

Hanno acquisito le scansioni MRI di 21 soggetti con disturbo di personalità schizotipico (diagnosi effettuata sulla base dei criteri del DSM-IV) che non usavano farmaci neurolettici e di 22 soggetti di controllo simili per età.

Tutti i soggetti erano destrorsi, di età compresa tra i 18 e i 55 anni, non avevano una storia di malattia neurologica né una dipendenza da alcol o droghe, non presentavano una storia di disturbo psicotico o disturbo bipolare. Inoltre, i soggetti di controllo non dovevano presentare una storia di malattia mentale né difficoltà di apprendimento. Ai partecipanti è stata somministrata una batteria di test che includeva: Il California Verbal Learning Test, il Test di Memoria Logica della Wechsler Memory Scale Revised (utilizzati come test verbali per le correlazioni con le rilevazioni effettuate sull’area di interesse) e il Il Thought Disorder Index, una misura della gravità del disturbo del pensiero.

Il volume della materia grigia del giro di Heschl di sinistra era inferiore del 21% nei soggetti con disturbo schizotipico della personalità rispetto ai soggetti di confronto. Non c’erano differenze di volume tra i due gruppi nel giro di Heschl di destra o nel Planum temporale bilaterale.

Sono state eseguite correlazioni tra le rilevazioni effettuate sulle regioni cerebrali di interesse e i risultati dei test neuropsicologici dei due gruppi. Per quanto riguarda il Test di Memoria Logica è stata identificata una correlazione significativa tra la scarsa performance nella prova di memoria differita e il ridotto volume del giro di Heschl sinistro, nei soggetti con disturbo di personalità schizotipico. Non è emersa, invece, alcuna correlazione tra il Thought Disorder Index, il California Verbal Learning Test e le rilevazioni neuroanatomiche.

Questo risultato è simile ad una precedente scoperta degli autori che avevano individuato un minor volume della materia grigia del giro di Heschl di sinistra e del Planum temporale sinistro in pazienti con un primo episodio di schizofrenia. Nei pazienti con schizofrenia cronica invece era il Planum temporale sinistro, e non il giro di Heschl, ad essere ridotto.

Schizofrenia e disturbo schizotipico: funzionamenti e neuroanatomia

In accordo con studi precedenti, gli autori concludono sottolineando come il volume ridotto di materia grigia nel giro di Heschl possa essere un marker di vulnerabilità per i disturbi dello spettro della schizofrenia.

Anche studi di tipo neuropsicologico hanno messo in evidenza che soggetti con disturbo schizotipico di personalità ottengono ai test punteggi intermedi tra soggetti normali e soggetti schizofrenici. Diversi studi hanno cercato di determinare quali fossero i deficit cognitivi e hanno individuato deficit di working memory, difficoltà di apprendimento verbale e di attenzione e anche deficit di memoria episodica (Siever et al. 2002).

Mitropoulou e colleghi (2005) rilevano come il deficit di working memory sia un deficit centrale nei disturbi dello spettro della schizofrenia. Nel loro studio il campione di soggetti è stato suddiviso in tre gruppi: 1) soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per il disturbo schizotipico di personalità; 2) soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo di personalità non correlato alla schizofrenia (ossia un disturbo diverso da quello schizoide, schizotipico e paranoide); 3) soggetti sani. Tutti i partecipanti sono stati sottoposti alla medesima valutazione neuropsicologica che includeva 10 prove in grado di indagare diverse funzioni cognitive quali la working memory sia verbale che visuo-spaziale, la memoria a breve termine, la memoria a lungo termine e le capacità attentive. Inoltre, è stato somministrata la WAIS-R per ottenere un punteggio circa il funzionamento cognitivo globale. Complessivamente, i pazienti con disturbo schizotipico di personalità hanno ottenuto delle prestazioni peggiori rispetto ai pazienti con disturbo di personalità non correlato alla schizofrenia. Nello specifico, i pazienti con disturbo schizotipico di personalità hanno ottenuto prestazioni scadenti nei test che indagano la working memory e la memoria sia a breve che a lungo termine.

In conclusione, i pazienti con disturbo schizotipico di personalità hanno mostrato una compromissione cognitiva di grado moderato rispetto ai soggetti sani (con prestazioni scadenti in 7 prove su 11). Tali differenze si sono rivelate statisticamente significative per le prove di working memory. Questo studio sembra quindi dimostrare come il deficit di working memory sia un deficit centrale dei disturbi dello spettro della schizofrenia.

Dall’analisi della letteratura emerge quindi che il disturbo schizotipico di personalità potrebbe condividere una comune vulnerabilità con disturbi psicotici cronici quali la schizofrenia.

Il padre è nudo (2018) di Stefano D’Andrea – Recensione del libro

Il padre è nudo ovvero Tutto quello che gli uomini non dicono sulla paternità racconta con sincerità, ironia e qualche tratto caricaturale l’esperienza da genitore di Stefano D’Andrea.

 

Il libro, che parla di genitorialità al maschile, tratta l’argomento in modo diverso dal solito: siamo abituati a leggere di maternità (nelle riviste femminili, nelle pubblicazioni scientifiche, nei dibattiti sulla figura della donna come madre) ma ancora poca è l’attenzione data alla paternità.

Questo romanzo costituisce un piacevole e non scontato apri-pista.

Il padre è nudo: struttura e contenuti insoliti

Una particolarità del libro che ho trovato divertente è la struttura: ogni brano, o mini-capitolo che dir si voglia, si riferisce ad uno specifico momento pre o post nascita della piccola Margherita, figlia dell’Autore del libro. Come dire: la paternità è un evento con il quale posso rileggere tutta la mia vita; attraverso di essa do un significato diverso anche a ciò che ero e facevo prima che mia figlia nascesse. Forse è ciò che ha fatto l’autore, diventato padre dopo i 40 anni, che ha trovato un vuoto di confronto e condivisione, anche con amici e coetanei, rispetto a come sia, per un uomo, diventare padre. Che cosa cambia nella vita diventando padre? In questo libro lo si evince dalla descrizione di abitudini concrete che nascondono grandi cambiamenti: ad esempio l’uso degli spazi in casa, come e dove ci si sedeva prima e dopo della nascita della figlia.

Di tanto in tanto i capitoli del libro sono intervallati da brevi racconti di altri papà: altri deliziosi scorci di esperienze, con la felicità e l’ansia che li accompagnano.

Il padre è nudo: da persona a genitore

Anche se si è costretti a fare dei balzi temporali per seguire la narrazione, si ha modo di farsi un’idea della persona che è Stefano: le sue debolezze, le sue paure, le sue difficoltà, i suoi gusti e le passioni. Troviamo tracce di un elevato timore delle malattie, di una articolata e riconosciuta strategia di controllo che va a braccetto con anni di attacchi di panico, tutti elementi che rendono il racconto in prima persona davvero intimo, umano: potrebbe essere ognuno di noi ad avere le stesse difficoltà di Stefano. In una certa misura, probabilmente sono le stesse paure ed emozioni che in modo diverso accompagnano ogni genitore.. ed ogni padre:

Poi decido di fare un figlio e dal 7 gennaio 2016, data di nascita di Margherita, e per un tempo destinato a durare fino al mio ultimo respiro, la mia vita viene immersa nel timore che le succeda qualcosa.

Il padre è nudo: le difficoltà della paternità

Leggendo Il padre è nudo, ci si imbatte in alcuni grandi temi della genitorialità: ad esempio, la responsabilità (enorme, totale, anche soverchiante) della sopravvivenza di un altro essere umano nelle azioni quotidiane; il cibo ed il significato di nutrire e dell’alimentazione come veicolo di legame di attaccamento.

Sullo sfondo dei racconti si intravede la quotidianità non facile dell’essere genitori oggi: il lavoro precario, le difficoltà economiche, la mancanza di supporto e tutele alla maternità che servono in un paese davvero civile. Oltre all’interrogarsi sul futuro di nostra figlia/o, sull’essere umano che diventerà e sulle scelte che farà, che potremo condividere o che faremo fatica ad accettare:

Ma se io avrò la fortuna di vedere mia figlia felice, qualsiasi cosa la renda così sarà comunque la cosa migliore capitata sulla terra, per quanto mi riguarda.

Il padre è nudo è una lettura gradevole e interessante per chiunque si appresti ad allargare la propria famiglia perché offre, finalmente, un punto di vista inedito sulla paternità.

L’attività microcircuitale che sottende la coscienza

Come è possibile spiegare il fenomeno della coscienza all’interno dell’esperienza? Numerosi autori hanno cercato di avanzare ipotesi più o meno accreditate.. la risposta potrebbe essere nascosta all’interno del nostro cervello.

 

Una delle teorie più accreditate sul fenomeno della coscienza è la Integrated Information Theory che, partendo dalle proprietà fenomenologiche dell’esperienza, ha postulato le caratteristiche richieste da un substrato fisico perché questa si manifesti. Per Giulio Tononi, che ha proposto questa teoria, due sono le componenti necessarie: il livello di informazione e quello di integrazione (Massimini & Tononi, 2018).

Il matematico Claude Shannon ha definito l’informazione come una riduzione dell’incertezza, dipendente dal repertorio di stati alternativi a quello in esame. Ad esempio, se una moneta cade su un lato avrebbe avuto solo un’altra possibilità, atterrare sull’altro, un dado che cade mostrano una delle sue facce ne avrà invece altre cinque, la mente umana molte di più.

Tuttavia, in quest’ambito la sola informazione è inutile se non integrata. I sensori di una fotocamera digitale possono sembrare una singola entità, ma sono invece un complesso di fotodiodi indipendenti. L’insieme dei sensori può essere tagliato in due, tre o in ogni sua parte senza cambiare l’output del singolo fotodiodo, che può funzionare come unità indipendente, non connessa causalmente alle altre. Una fotocamera non ha un livello informazionale maggiore di quello della sola somma delle sue parti.

Il cervello funziona in modo diverso. Quando entra in un determinato stato lo fa come un unico sistema integrato, infatti possediamo un unico stato cosciente. I circuiti neuronali formano un irriducibile sistema complesso, non divisibile nelle sue varie parti se si vogliono mantenere le sue proprietà. Il circuito cerebrale che sottende la coscienza dovrà essere quindi capace di generare stati ampiamente differenziati, come una singola entità, in grado di integrare le informazioni. Inducendo un sonno profondo senza sogni, ad esempio somministrando anestetici, vi è una disgregazione della connettività cerebrale, in particolare nei collegamenti ricorrenti e reciproci della via talamocorticale. Sarebbe proprio la perdita di coordinazione funzionale fra le varie aree cerebrali a impedire le condizioni necessarie perché vi siano livelli sufficienti di integrazione ed informazione.

Cosa si nasconde sotto la coscienza?

Un recente studio (Wenzel, et al., 2019) è riuscito a identificare le dinamiche microcircuitali coinvolte in questo processo. I ricercatori, partendo dall’ipotesi che l’abilità di discriminazione contingente fra varie possibili alternative sia sottesa da micro-pattern di attività di insiemi neuronali attivati all’unisono, definiti microstati, hanno svolto le analisi su topi, attraverso diversi protocolli di microscopia a due fotoni, e su pazienti epilettici, portatori di diversi microelettrodi subdurali e a penetrazione, durante perdita di conoscenza indotta dall’anestesia.

I risultati mostrano una correlazione fra lo stato di sonno anestetico, la diminuzione della gamma dei microstati discriminabili e la frammentazione dell’attività simultanea degli assemblamenti cellulari, che si riduce all’attivazione di singoli neuroni, sia nel modello animale che nei soggetti umani.

La ricerca potrebbe aver dimostrato come la riduzione di integrazione microcircuitale fra questi gruppi di neuroni possa spiegare la disgregazione della connettività funzionale su larga scala osservata durante il sonno profondo, essendo proprio i microstati gli elementi costitutivi della coscienza. Ciò ha un impatto profondo sulla scienza e la filosofia, dando finalmente una forma alla capacità di esperire: un politopo complesso con miliardi di dimensioni, costituite dal repertorio di stati a cui il cervello può accedere e sottese dall’attività integrata di piccoli insiemi cellulari coordinati e connessi fra loro.

Prefigurare un “Sé futuro” migliore ci rende più felici nel tempo?

Secondo un recente studio sembrerebbe che la felicità con l’avanzare del tempo sia fortemente correlata alle previsioni del proprio Sé futuro rispetto al presente.

 

Solitamente quando ci si mette nell’ottica di pensare a chi saremmo in futuro, c’è chi ha una visione di cambiamento sia in positivo che in negativo e c’è chi invece crede che tutto sommato rimarrà comunque se stesso.

Felicità: aumenta se ci immaginiamo migliori in futuro?

Alcuni ricercatori dell’Università della California Los Angeles (UCLA), si sono chiesti come queste previsioni riguardo il proprio Sé nel futuro possano avere o meno un impatto sulla felicità quando si è raggiunta una certa età – quindi il Sé futuro prefigurato si è in qualche modo consolidato.

Lo studio portato avanti dai ricercatori ha coinvolto 4.936 statunitensi, con età tra i 20 e i 75 anni, che hanno risposto ad una serie di domande circa alcuni tratti sul Sé attuale e sul Sé futuro. In più è stato indagato il benessere soggettivo, attraverso un questionario, in due fasi principali: una baseline ed un’altra dopo 10 anni.

In generale si potrebbe pensare che chi ha un’immagine di Sé positiva o negativa, prefigurerebbe un Sé futuro migliore rispetto all’attuale per poi sentirsi meglio rispetto a quello che è nel presente, e quindi più felice col passare del tempo; ma questo studio ha riscontrato l’effetto contrario. Infatti dai risultati si evince che coloro che avevano previsto un cambiamento minimo di alcune caratteristiche sia in positivo che negativo, dopo dieci anni in generale erano più soddisfatti di chi inizialmente prevedeva un Sé futuro decisamente migliore o decisamente peggiore di quello presente.

Felicità: essere se stessi oggi e domani

Per concludere, questa ricerca si inserisce in un nuovo filone di letteratura psicologica che sembrerebbe suggerire che la somiglianza tra il Sé futuro e quello attuale apporti dei benefici nei processi decisionali dando vita a risultati migliori a lungo termine. I ricercatori di questo studio hanno deciso di non fermarsi qui ed hanno intenzione di andare oltre, cercando di scoprire il perché alcun persone pensano di cambiare nel tempo ed altro invece no, indagando anche quali eventi di vita possono incidere o meno in questi processi cognitivi che portano a pensare ai diversi possibili “futuri Sé ».

I disturbi dissociativi e l’amnesia dissociativa

Nel DSM 5 i disturbi dissociativi, tra cui anche l’ amnesia dissociativa, sono riportati in prossimità dei disturbi legati a traumi o a stress intensi, pur non facendone parte. Questo tuttavia sottolinea lo stretto rapporto tra queste classi diagnostiche. 

 

L’ amnesia dissociativa fa parte di un gruppo di condizioni cliniche chiamate disturbi dissociativi.

Secondo il DSM 5, i disturbi dissociativi sono caratterizzati da una discontinuità nella normale integrazione della coscienza, della memoria, dell’identità, della percezione, della rappresentazione del corpo e del comportamento. I sintomi dissociativi possono potenzialmente compromettere ogni area del funzionamento psicologico, sociale, relazionale e lavorativo di una persona.

I disturbi dissociativi comprendono:

I disturbi dissociativi si manifestano frequentemente a seguito di traumi, e molti dei sintomi, compreso l’imbarazzo, la confusione circa i sintomi o il desiderio di nasconderli, sono influenzati dalla stessa esperienza del trauma.

Amnesia dissociativa: cos’è?

La caratteristica che definisce l’ amnesia dissociativa è l’incapacità di ricordare importanti informazioni autobiografiche che dovrebbero essere ben conservate nella memoria e comunemente ricordate facilmente. L’ amnesia dissociativa differisce dall’ amnesia permanente causata da danni neurologici o tossicità che impediscono la ritenzione o il richiamo delle memorie, questo significa che l’ amnesia dissociativa è sempre potenzialmente reversibile. Nell’ amnesia dissociativa, infatti, i ricordi esistono ancora ma sono profondamente sepolti nella mente della persona e non possono essere recuperati. Tuttavia, possono riemergere da soli o dopo essere stati innescati da trigger ambientali.

Ci sono diversi modi in cui l’ amnesia dissociativa può manifestarsi:

  • L’ amnesia localizzata è l’incapacità di ricordare eventi per un tempo limitato, è la forma più comune di amnesia dissociativa e di solito si manifesta nelle ore successive all’evento stressogeno/traumatico.
  • nell’ amnesia selettiva l’individuo riesce a ricordare alcuni, ma non tutti, gli eventi di un periodo limitato nel tempo; quindi può ricordare una parte di un evento traumatico, ma non altre.
  • L’ amnesia generalizzata è rara e comporta una completa perdita di memoria della storia di una persona; gli individui con amnesia generalizzata possono dimenticare anche la propria identità.
  • Nell’ amnesia sistematizzata l’individuo perde la memoria di una specifica categoria di informazioni (ad es. tutti i ricordi relativi alla famiglia di origine o alla propria infanzia o relativi a una persona in particolare).
  • Nell’ amnesia continua, l’individuo da un certo momento in poi dimentica tutti i nuovi eventi man mano che si verificano.

L’ amnesia dissociativa non si verifica necessariamente immediatamente dopo l’inizio dell’evento stressante, può verificarsi dopo molte ore o persino giorni. A volte appaiono dei flashback dell’evento, come nel disturbo da stress post-traumatico, ma in questo caso non si sa che questo contenuto è reale.

Nella maggior parte dei casi, ci sono problemi comportamentali, affaticamento, disturbi del sonno, depressione e abuso di sostanze.

Amnesia dissociativa e fuga dissociativa: perdita dell’identità da stress

La fuga dissociativa è considerata una sottomanifestazione dell’ amnesia dissociativa, la persona si allontana da casa e dal luogo di lavoro, abbandonando la sua città e la famiglia, non è in grado di ricordare il proprio passato, e manifesta confusione circa l’identità personale. Questo può durare poche ore ma anche anni: in alcuni casi la perdità dell’identità è così grave e prolungata che la persona può assumere una nuova identità parziale o completa, con una nuova famiglia e un nuovo lavoro.

In alcuni casi la fuga dissociativa può essere la manifestazione del desiderio mascherato di “fuga” da una situazione avversa, anche se in nessun caso si tratta di una simulazione di malattia. Durante l’episodio di fuga dissociativa, il soggetto può presentare comportamenti normali e non attiranti l’attenzione.

Quando l’episodio finisce, la persona si ritrova in un luogo sconosciuto, non sapendo come ci sia arrivato. Di solito non ricorda cosa è successo durante l’episodio, sebbene inizi a recuperare la memoria degli eventi antecedenti l’episodio di fuga dissociativa. A volte il recupero della precedente identità avviene gradualmente, ma alcuni dettagli potrebbero non essere mai recuperati.

Amnesia dissociativa e Trauma

L’ amnesia dissociativa è stata associata a uno stress travolgente, che può essere il risultato di eventi traumatici (guerra, incidenti o le calamità naturali) che la persona ha vissuto o alle quali ha assistito.

La disorganizzazione dell’attaccamento è considerata l’esperienza primaria che determina la predisposizione a sintomi dissociativi: sono comuni storie traumatiche di abusi, maltrattamenti e trascuratezza. L’ amnesia dissociativa è stata osservata in tutte le fasce di età ed è più probabile che si verifichi quando le esperienze infantili avverse (ace) sono in numero maggiore, più frequenti e gravi.

La rimozione dalle circostanze traumatiche alla base dell’ amnesia dissociativa può comportare un rapido ritorno di memoria. La perdita di memoria degli individui con fuga dissociativa può essere particolarmente refrattario.

Nel DSM 5, i disturbi dissociativi sono riportati in prossimità dei disturbi legati a traumi o a stress intensi, pur non facendone parte. Questo tuttavia sottolinea lo stretto rapporto tra queste classi diagnostiche. Sia il disturbo acuto da stress che il disturbo da stress post-traumatico presentano sintomi dissociativi, tra cui amnesia, flashback e depersonalizzazione/derealizzazione.

L’essere esposti ad un’esperienza traumatica, ovvero che comporti un pericolo di vita (da definizione del DSM), attiva in noi il sistema di difesa, un sistema molto arcaico incaricato di proteggerci dalle minacce ambientali che agisce con estrema rapidità ed al di fuori della consapevolezza.

Di fronte a un pericolo si attivano in noi 4 risposte del sistema di difesa: freezing (congelamento), fight (attacco), flight (fuga), faint (svenimento/distacco). Il freezing è un’immobilità tonica che permette di non farsi vedere dal predatore mentre si valuta quale strategia (fight: attacco o flight: fuga) sia la più adatta per la situazione specifica. Quando nessuna di queste strategie sembra avere qualche possibilità di riuscita l’unica ed estrema risposta possibile è il faint, la brusca ed estrema riduzione del tono muscolare accompagnata da una disconnessione fra i centri superiori e quelli inferiori. È una simulazione di morte, ovviamente automatica e non consapevole, perché in genere i predatori preferiscono prede vive. In questa situazione, per mezzo di attivazione del sistema dorso-vagale, vi è un distacco dall’esperienza e sono possibili sintomi dissociativi.

Se, come accade negli individui con sviluppo traumatico, l’attivazione del sistema di difesa perdura a lungo, questa attivazione si trasforma da risposta evolutivamente adattativa a risposta disadattativa, perché impedisce un normale esercizio della metacognizione ed in generale delle funzioni superiori della coscienza, non permettendo l’integrazione di quella memoria traumatica che rimane, tuttavia, iscritta nel corpo (Tagliavini, 2011).

Le esperienze traumatiche disgregano le funzioni integratrici superiori. La disgregazione porta dunque al manifestarsi di fenomeni dissociativi e i sintomi dissociativi (di distacco/di compartimentazione) ne sono il risultato.

Negli ultimi anni si è a lungo discusso sul ruolo adattivo della dissociazione nel trauma. L’ipotesi più diffusa sembra essere quella che vede i sintomi dissociativi come protettivi rispetto al trauma, altri autori sostengono che la dissociazione sia disgregazione di coscienza e intersoggettività a cui segue, come fenomeno secondario e spesso fallace, la protezione dal dolore (Liotti e Farina, 2011). Inoltre la dissociazione non solo non sarebbe una protezione dal dolore, ma un’esperienza al limite dell’annichilimento, dalla quale la mente deve difendersi per non sprofondare nell’abisso.

L’amnesia dissociativa e teoria della dissociazione strutturale

I teorici della dissociazione strutturale (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006) sottolineano la presenza di differenze qualitative tra i diversi tipi di esperienze dissociative e di caratteristiche tra loro non sovrapponibili; le esperienze dissociative non sono sempre il segno di un fallimento integrativo delle funzioni mentali, mentre nei disturbi dissociativi veri e propri c’è sempre invece una divisione del sé, con diversi modi di vedere se stessi e il mondo, diversi sentimenti e comportamenti.

I tre livelli di dissociazione strutturale secondo Van der Hart e colleghi (2000) sono:

  1. Dissociazione primaria, caratterizzata dalla presenza di una personalità prevalente capace di portare avanti la vita quotidiana (ANP), mantenendo insieme i ruoli principali per la persona (es: madre, moglie, lavoratrice, figlia, amica…), e una sola parte emotiva (EP), che conserva nella forma primordiale la reazione emotiva legate al trauma, rimettendola in atto solo quando una situazione trigger lo rende necessario.
  2. Il secondo livello è la dissociazione secondaria, in cui è presente una sola personalità principale (ANP), ma diverse parti emotive (EP) ognuna delle quali conserva una diversa modalità difensiva (attacco, fuga, freezing, morte apparente) legata al trauma, e comporta invece il verificarsi di reazioni emotive e comportamentali diverse e talora contrastanti di fronte a situazioni percepite come pericolose.
  3. Infine la dissociazione strutturale terziaria è caratterizzata dalla presenza di due o più personalità che agiscono e si muovono nella vita quotidiana (ANP), non consapevoli l’una dell’altra, e più EP che reagiscono istintivamente alle situazioni trigger, interne o esterne, ognuna mettendo in atto una modalità difensiva diversa. Questo livello corrisponde alla forma più grave, il Disturbo dissociativo dell’identità (DDI).

In tutti e tre i livelli tra le ANP e le EP c’è una barriera di amnesia dissociativa, un’impossibilità cioè per la ANP di riconoscere le diverse parti emotive come proprie e una impossibilità delle parti emotive di accedere alla vita quotidiana.

Come viene diagnosticata l’amnesia dissociativa?

Se sono presenti sintomi di amnesia dissociativa, il medico inizierà una valutazione eseguendo un’accurata anamnesi e un esame fisico. Anche se non esistono test di laboratorio per la diagnosi di disturbi dissociativi specificamente, il medico può utilizzare vari test diagnostici come neuroimaging, elettroencefalogramma (EEG), o esami del sangue per escludere malattie neurologiche o effetti collaterali dei farmaci, come causa dei sintomi di amnesia dissociativa. Alcune condizioni, comprese le malattie del cervello, il trauma cranico, intossicazioni da droghe e alcol e la privazione del sonno possono portare a sintomi simili a quelli di disturbi dissociativi, tra cui l’ amnesia.

Se non viene riscontrata alcuna malattia fisica, la persona può essere indirizzata a uno psichiatra o psicoterapeuta che potrà avvalersi test psicologici per caratterizzare meglio la natura dell’esperienza dissociativa.

Trattamenti per l’ amnesia dissociativa

Il primo obiettivo del trattamento per l’ amnesia dissociativa è di alleviare i sintomi e controllare qualsiasi problema comportamentale. Il trattamento mira quindi ad aiutare la persona ad esprimere ed elaborare in modo sicuro memorie dolorose, sviluppare nuove capacità di coping che aiutino a ristabilire il funzionamento e migliorare le relazioni. Il miglior approccio terapeutico dipende dall’individuo e dalla gravità dei sintomi. Oltre alla psicoterapia individuale, i pazienti possono beneficiare d’interventi specifici come la terapia dialettico-comportamentale DBT (Linehan, 1993a, 1993b), la desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari (EMDR; Shapiro, 2001), la psicoterapia sensomotoria (Ogden et al., 2006), le terapie di gruppo.

Non esistono farmaci specifici per trattare i disturbi dissociativi. Tuttavia, i farmaci possono essere utili ad alleviare la concomitante sintomatologia depressiva o ansiosa e i problemi di insonnia, così come l’impulsività o l’irritabilità, al fine di raggiungere una maggiore stabilizzazione emotiva.

Mentre potrebbe non essere possibile evitare l’ amnesia dissociativa, può essere utile iniziare il trattamento sulle persone non appena iniziano ad avere sintomi. L’intervento immediato a seguito di un evento traumatico o di un’esperienza emotivamente dolorosa può aiutare a ridurre la probabilità di disturbi dissociativi.

L’aggressione con l’acido e la sicurezza pubblica: quali strumenti per fermare l’escalation violenta

Il presente articolo analizza il recente caso di cronaca in cui Sara, una donna di trentotto anni, ha aggredito Giuseppe, un uomo di ventinove anni, conosciuto in chat, gettandogli dell’acido sul volto.

Simona Galasso, Deborah Natalie Wahl, Maria Elisabetta Ricci – Gruppo di Lavoro sulla violenza nelle relazioni intime, Ordine Psicologi Lazio

 

Diciotto giorni prima dell’aggressione Giuseppe aveva denunciato Sara raccontando gli insistenti atti persecutori subiti e la sua concreta paura che la donna potesse diventare ancora più violenta sia nei suoi confronti sia nei confronti di persone a lui vicine.

Soffermandoci sull’iter che segue la richiesta di aiuto (e.s. la denuncia-querela), fino all’effettivo intervento delle istituzioni giudiziarie, ci si chiede se esistano strumenti giuridici idonei a scongiurare il pericolo che avvengano fatti simili e, se sì, se vi sia modo di evitare tragedie come queste. Cos’è andato storto in questo caso, considerato che già dalla denuncia emergeva un quadro sintomatico di elevato rischio di agiti violenti?

Dal punto di vista della valutazione del rischio di recidiva violenta la narrazione della vittima, insieme ai dati riscontrabili (referti del pronto soccorso, registrazioni audio, registrazioni video, messaggi rintracciabili, relazioni delle forze dell’Ordine, ecc.) sono una fonte di informazioni preziosa per determinare la presenza e la rilevanza di fattori di rischio.

Dai giornali sappiamo che la vittima, in questo caso l’uomo che ha denunciato, ha raccontato diversi episodi di passata violenza nei suoi confronti. Per gli autori di una tra le più diffuse metodologie di valutazione e gestione del rischio di violenza (HCR-20v3), la violenza è definita come l’effettivo, tentato o minacciato serio danno fisico o psicologico procurato intenzionalmente ad un’altra persona in modo non consensuale. È quindi considerato un atto violento: il tentativo anche non riuscito di nuocere; una minaccia, ossia un comportamento o un’espressione verbale che ha lo scopo deliberato di incutere timore del possibile danno fisico che la vittima subirebbe; lo stato di terrore, di confusione, di annichilimento che altera la stabilità della vittima, la sua integrità e il suo benessere.

Le trasmissioni televisive e i giornali, che fanno riferimento alla denuncia, raccontano di una donna che ha minacciato di morte, ha tagliato più volte le ruote della macchina, ha aperto diversi profili falsi sui social per minacciare la vittima, perseguitandolo anche con messaggi, telefonate ed appostamenti. È di pochi giorni fa la notizia che due donne vicine alla vittima avevano anch’esse sporto denuncia contro Sara per atti persecutori.

Premesso che gli stalker non sono tutti uguali, dall’analisi dei dati a disposizione, sotto il profilo psicologico nel presente caso appaiono da subito evidenti due fattori di rischio particolarmente importanti per definire l’imminenza del rischio di commettere atti violenti: l’instabilità psicologica e l’ideazione violenta.

Per instabilità psicologica si intende la difficoltà di mantenere un funzionamento stabile in ambito affettivo, comportamentale e cognitivo. È quel particolare funzionamento psichico in cui gli stati interni diventano incontrollabili e così intollerabili da costringere la persona a liberarsene nel modo più psichicamente primitivo ossia agendo aggressivamente contro ciò che crede essere la causa del proprio male.

Per ideazione o intento violento si intende il desiderio esplicito e dichiarato di volere arrecare danno a qualcuno. Il pensiero è orientato in modo quasi costante e a volte ossessivo sull’altro che è vissuto come unica causa del profondo disagio. L’altra persona è vista come un nemico da punire o da eliminare per sollevarsi finalmente dalla rabbia e dall’odio.

Nel presente caso, sin dalla querela-denuncia si poteva delineare così un profilo psicologico di una tipologia di stalker con uno stato mentale fortemente alterato per cui poteva ritenersi altamente probabile che la donna, nel giro di poco tempo (giorni, settimane, a volte ore), avrebbe potuto mettere in atto un comportamento violento.

Le autorità giudiziarie, riguardo a comportamenti minacciosi e persecutori, si sono dotati di strumenti di contrasto che hanno consentito innanzitutto di rendere questi comportamenti penalmente perseguibili (con un minimo di sei mesi ad un massimo di cinque anni di reclusione) attraverso l’introduzione nel 2009 dell’art. 612 bis del codice penale, del reato di atti persecutori comunemente detto “stalking”.

Tuttavia, prima di poter irrogare una pena al colpevole (quale, a titolo esemplificativo, la detenzione in carcere), occorre prima accertare la sua responsabilità penale. Il luogo deputato a ciò è il processo che si svolge secondo fasi e tempi incompatibili con l’urgenza con cui occorre intervenire a tutela della vittima nei casi più gravi.

Quali mezzi ha dunque l’Ordinamento per proteggere l’incolumità della persona che denuncia prima che il processo giunga alla sua naturale conclusione?

Il primo che viene in mente, pensato proprio per le vittime di stalking, è quello previsto dall’art. 8 del d.lgs. n.11/2009 (convertito con L. n. 38/2009): il c.d. “ammonimento”. La persona oggetto di atti persecutori può presentare istanza al Questore chiedendo un suo intervento finalizzato a dissuadere il persecutore. In questo caso il Questore convoca l’aggressore, lo ammonisce e, se l’aggressore non modificherà la sua condotta, il fatto che sia stato previamente ammonito rappresenterà un’aggravante – corrispondente ad un aumento di pena – in caso di condanna. Detto istituto non prevede dunque una limitazione dei movimenti dell’aggressore, ma prevede il ricorso ad un soggetto terzo, in posizione autoritaria rispetto al persecutore, quasi a voler controbilanciare la posizione di debolezza della vittima.

Abbiamo detto all’inizio che, tuttavia, gli stalker non sono tutti uguali. Appartenere ad esempio ad un contesto sociale o familiare in cui l’autorità giudiziaria non è riconosciuta, non ha un peso nella decisione di mettere in atto un comportamento violento, potrebbe vanificare l’efficacia dell’ammonimento; l’instabilità dell’aggressore potrebbe essere tale da fargli ignorare l’ammonimento, oppure potrebbe fargli soltanto sospendere il comportamento violento per un periodo molto breve.

In fase di indagine, una volta acquista la denuncia, esistono altri strumenti finalizzati a garantire maggiore sicurezza alla vittima: le cosìddette misure cautelari personali (cfr. artt. 273 e ss. codice di procedura penale). Queste possono essere disposte prima del processo dal Giudice delle Indagini Preliminari su richiesta del Pubblico Ministero, quando vi sono (i) gravi indizi di colpevolezza e (ii) esigenze cautelari tra cui spicca il pericolo di reiterazione del reato (cfr. artt. 273 e 274, lett. c) c.p.p.).

Tra le misure cautelari personali risaltano il provvedimento di allontanamento dalla casa familiare (cfr. art. 282 bis c.p.p.), il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (cfr. art. 282 ter c.p.p.), misura introdotta anch’essa con la legge sullo stalking, gli arresti domiciliari (cfr. art. 284 c.p.p.) e la custodia cautelare in carcere (cfr. art. 285 c.p.p.). Ora, se il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa può essere ritenuto una misura non particolarmente incisiva, forse poco più dell’ammonimento, si consideri che ai sensi del comma 3 dell’art. 280 c.p.p., la custodia in carcere può essere disposta “nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare”.

Oltre all’ammonimento e alle misure cautelari, a nove anni dalla legge sugli atti persecutori, con la legge n. 161/2017 è stata estesa l’applicabilità delle misure di prevenzione, quali la sorveglianza speciale (già previste per gli indiziati di reati di mafia – cfr. d.lgs. n. 159/2011), agli indiziati di stalking considerandoli a tutti gli effetti come soggetti socialmente pericolosi.

In virtù della legge 161/2017, oggi le Forze dell’Ordine o la Procura, a cui arriva la denuncia dalle Forze dell’Ordine, possono proporre l’applicazione di misure di prevenzione al Tribunale che deciderà entro 30 giorni dal deposito della proposta (cfr. art. 7, lett. 1, d.lgs. n. 159/2011 ).

Occorre considerare che gli istituti giuridici precedentemente menzionati vengono adottati non in automatico, bensì in base ad un iter scandito da tempi e fasi, inteso a consentire il bilanciamento tra il diritto alla libertà personale e quello alla sicurezza individuale e sociale.

A titolo esemplificativo, una delle prime applicazioni della legge 161/2017 è della sezione misure di sorveglianza del Tribunale di Milano. il 21 febbraio del 2018 la Procura di Milano chiede l’applicazione della misura di sorveglianza e il 9 ottobre 2018 la misura viene applicata. Gli otto mesi di tempo tra la proposta della misura e la sua applicazione potrebbero essere un lasso di tempo troppo lungo e risultare fallimentare.

Sebbene i tempi di adozione siano più celeri, lo stesso discorso può farsi anche con riferimento all’ammonimento e alla misura cautelare nei casi come questo in cui sono intercorsi diciotto giorni tra la denuncia e l’atto violento più grave. In questi diciotto giorni la stalker ha continuato a perseguitare l’uomo e le persone a lui vicine.

L’escalation non è stata interrotta e la donna ha avuto il tempo di maturare la decisione di colpire, di programmare l’acquisto dell’acido e definire il piano per aggredire l’uomo.

È vero altresì che non tutte le denunce per stalking sono vere, non tutte le denunce sono corredate da prove sufficienti a ritenere sussistenti i gravi indizi di colpevolezza, non tutti gli stalker passano all’atto o comunque richiedono lo stesso tipo di intervento, ma soprattutto chi opera questa valutazione è, di norma, sepolto da un numero di querele e denunce superiore alla sua capacità di gestirle nei tempi necessari per una prevenzione efficace.

Ultimo, ma non per importanza, chi opera tale valutazione non dispone di criteri e strumenti psicologici in grado di valutare ad esempio: l’imminenza del prossimo atto violento; l’oggetto della successiva aggressione che potrebbe essere diverso dalla persona che denuncia (per esempio figli, parenti, amici, colleghi di lavoro, ecc.); lo stato mentale dello stalker che potrebbe vanificare molti dei provvedimenti; la rete sociale dell’aggressore che potrebbe essere decisiva nel destabilizzarlo o aiutarlo nel suo intento criminoso; la vulnerabilità da un punto di vista psico-sociale della vittima che potrebbe non essere in grado difendersi in modo adeguato. Questi infatti sono alcuni degli aspetti che la letteratura scientifica psicologica ci dice essere fattori di rischio di recidiva violenta.

È evidente che il tempo è una variabile decisiva su cui agire per fermare l’escalation violenta di questi soggetti. Se l’ideazione violenta e l’instabilità psicologica sono presenti e rilevabili sin dalla denuncia-querela, è lecito ritenere che il successivo atto violento – anche più grave del precedente come in questo fatto di cronaca – possa avvenire anche in prossimità della denuncia.

Il fenomeno della violenza ha tempi, modalità e contesti anche molto differenti. Conoscere le dinamiche delle persone violente, determinare la differenza tra una dinamica ed un’altra, evidenziare la presenza di alcuni fattori di rischio e l’interazione tra loro, può sicuramente ridurre drasticamente i tempi di intervento, contribuendo a scegliere gli strumenti, anche legislativi, più efficaci riducendo il numero delle vittime e i danni nei loro confronti. Questa operazione di valutazione e gestione del rischio di recidiva violenta non è però soltanto una mera rilevazione delle informazioni, ha alla base una teoria della mente che consente di organizzare tutti i fattori di rischio, dargli un senso rispetto alla particolarità del singolo soggetto, valutare la probabilità di una prossima violenza ed infine di trovare il modo migliore per gestire il suo comportamento violento.

Appare in conclusione chiaro come la gestione di persone violente abbia necessità di un lavoro congiunto. La stessa valutazione e gestione del rischio è sì un processo psicologico, ma non può essere realizzata che con la collaborazione di altre figure professionali.

 

Imparare a vedere: l’importanza delle esperienze visive precoci nell’organizzazione del sistema visivo

Ogni cosa che impariamo a riconoscere, che sia essa un oggetto con determinati forme e colori, che sia animato o inanimato o che sia un volto, in qualche modo va a modificare il nostro cervello.

 

In particolare sembrerebbe che un’ampia gamma di stimoli visivi possieda di diritto il suo “posto” e la sua elaborazione all’interno del cosiddetto “flusso visivo centrale”, cioè all’interno di un processamento gerarchico che si estende dalla corteccia visiva primaria alla corteccia temporale ventrale (VTC), in cui è presente una localizzazione cerebrale corrispettiva per ciascun stimolo visivo (Janini, & Konkle, 2019).

Come il nostro cervello apprende a vedere

Già negli anni ’80 lo studio di Ungerleider (1982) aveva mostrato come le risposte di VTC fossero necessarie affinché si concretizzasse l’abilità di riconoscimento visivo resa possibile grazie ai suoi pattern di risposta distribuiti che contengono informazioni circa oggetti e categorie e che ne rendono quindi possibile la loro percezione dal momento che le risposte delle sue specifiche zone sono corrispondenti alle categorie stesse (Parvizi, Jacques, Foster et al., 2012).

Grazie alle attuali tecniche di neuroimaging funzionale siamo in grado di misurare come il cervello nel corso del tempo, grazie all’esperienza, abbia imparato ad organizzare tutti gli stimoli visivi che vede e che provengono dall’esterno e a modificarsi plasticamente sulla base di essi con il fine di realizzare le abilità di riconoscimento visivo.

Le origini di queste abilità infatti sembrano essere particolarmente legate alle esperienze e a ciò a cui il bambino è esposto durante l’infanzia, anche se permangono ancor’oggi numerosi dubbi riguardo la natura specifica delle esperienze infantili che di fatto consentirebbero l’organizzazione funzionale gerarchica della topografia spaziale di VTC. Da un punto di vista neuro scientifico, non sappiamo se ad essere determinante sia il modo in cui vengono visualizzati gli stimoli quali volti o luoghi o se invece siano gli attributi visivi, l’immagine stessa degli stimoli (Janini & Konkle, 2019).

Diversi tentativi teorici sono stati elaborati per cercare di individuare i principi che descrivessero lo sviluppo dell’organizzazione topografica spaziale nelle aree visive; tuttavia quello che sembra rimanere inerente a tutti questi è l’idea che le dimensioni fisiche o percepite dello stimolo esterno vengano mappate su una dimensione fisica specifica lungo la superficie corticale associata all’elaborazione visiva (Gomez, Barnett, & Grill-Spector, 2019).

Esperienze visive precoci: lo studio fatto su persone che seguivano il cartone Pokèmon

Un’altra questione rimasta irrisolta riguarda quale caratteristica dell’informazione visiva “costringa” lo sviluppo e la topografia dell’organizzazione cerebrale della corteccia visiva.

Al fine di dare una risposta a tutte queste questioni rimaste senza risposta poc’anzi descritte, Jesse Gomez, Barnett e Grill-Spector, appartenenti al dipartimento di Psicologia dell’Università della Pennsylvania e collaboratori al programma di neuroscienze della Stanford University School of Medicine, in uno studio recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour, hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale su un gruppo di soggetti adulti che da bambini hanno avuto un’esperienza visiva prolungata nel tempo con il videogioco dei Pokemon.

La scelta di utilizzare le immagini dei Pokémon è stata legittimata dal fatto che questi rappresentano una categoria unica di stimoli in quanto, contrariamente ad oggetti, luoghi o volti, non possiedono un corrispettivo nel mondo esterno e pertanto i loro attributi e caratteristiche, come ad esempio le loro dimensioni in un ambiente reale, possono soltanto essere inferiti, nonostante in qualche modo assomiglino ad animali presenti nel mondo reale e siano anche’essi animati (Janini & Konkle, 2019).

Ciò li ha resi degli stimoli particolarmente adatti per comprendere se una prolungata esperienza individuale ad essi durante i giochi d’infanzia risultasse poi in una nuova rappresentazione in VTC presente nel cervello adulto e se la localizzazione di questa risposta potesse essere predetta da una specifica dimensione visiva dell’immagine del Pokémon (Gomez, Barnett, & Grill-Spector, 2019).

Lo ricerca ha confrontato le evidenze di fMRI ottenute su due gruppi di partecipanti adulti, il primo maggiormente esperto nel gioco, che tra i 5 e gli 8 anni è stato esposto in modo prolungato e costante ad esso, e l’altro “non esperto” composto dallo stesso numero di adulti con la medesima età ma che non hanno mai avuto modo di giocare con i Pokémon da bambini.

Tutti i soggetti dei due gruppi sono stati sottoposti ad un compito di valutazione visiva tramite l’osservazione di 8 immagini per ciascuna categoria quale volti, corpi, pseudo parole, cartoni animati, Pokemon, auto e corridoi, all’interno dello scanner.

Le immagini funzionali ottenute hanno mostrato come la precoce e prolungata esperienza visiva al gioco dei Pokemon abbia determinato nelle regioni del solco occipitotemporale (OTS) del cervello adulto dei cambiamenti su larga scala: nel gruppo degli esperti, durante il riconoscimento visivo dei Pokemon, OTS ha infatti manifestato maggiormente risposte selettive a tale categoria rispetto al gruppo “non esperto”.

Ciò ha potuto far concludere che una prolungata esperienza durante l’infanzia potrebbe aver innescato l’emergere di una nuova rappresentazione in VTC per una nuova categoria di oggetti (i Pokemon) supportata da una consistente topografia funzionale (Gomez, Barnett, & Grill-Spector, 2019).

I risultati dello studio

In secondo luogo, per quanto riguarda il diverso peso del contributo di specifici attributi dell’oggetto nel determinare lo sviluppo e l’organizzazione su larga scala della corteccia visiva, le evidenze ottenute hanno messo in luce come la visione di un Pokemon di ridotte dimensioni sia stato l’unica fattore in grado di predire la localizzazione in modo preferenziale di tale categoria in un’area specifica della corteccia rispetto ad altri attributi dei pokémon quali la loro curvatura, forma o animazione (Gomez, Barnett, & Grill-Spector, 2019).

In conclusione dello studio e sulla base dei suoi risultati, è possibile desumere in due punti fondamentali le ragioni dell’esistenza di un’area cerebrale (OTS) selettiva per il riconoscimento selettivo dei Pokèmon e di una determinata funzionale organizzazione topografica spaziale.

Innanzitutto, a parere degli autori, ciò che noi osserviamo potrebbe essere intrinsecamente associato ad un bias retinico di eccentricità per il quale ad esempio giocare a pokèmon su uno schermo piccolo da bambini determinerebbe anche la comparsa di quest’ultimi in dimensioni ridotte a livello cerebrale perché precedentemente comparsi su una piccola porzione della nostra vista.

Ne consegue che oggetti di differenti dimensioni hanno differenti bias di eccentricità sulla base dei vincoli fisici attraverso i quali noi interagiamo con loro.

In seconda battuta, sarebbero i bias di eccentricità a determinare lo sviluppo di una localizzazione preferenziale delle aree associate a specifiche categorie.

Vista e sistema visivo: l’importanza delle prime esperienze

Infatti dai primi stadi del processamento visivo, alcune regioni cerebrali elaborano le informazioni che si sono posizionate al centro dello sguardo e altre quelle più periferiche; successivamente queste “distorsioni” retiniche passerebbero anche nella corteccia visiva in cui si realizza la rappresentazione dell’oggetto.

Lo studio di Gomez e colleghi ha infatti sottolineato come lo sviluppo dell’area cerebrale selettiva per i Pokèmon sia avvenuto nella corteccia precisamente nella zona in cui provengono le informazioni retiniche cadute nel centro dello sguardo, non a caso accanto a quella selettiva per i volti, mentre quelle adibite per la rappresentazione di scene in corteccia sono localizzate più in periferia (Janini & Konkle, 2019).

I dati di questa ricerca illustrano come siano cruciali e potenti le esperienze visive precoci nel determinare l’organizzazione del nostro sistema visivo agendo sulla malleabilità e plasticità del sistema stesso e come la modalità con la quale vediamo ed interagiamo con uno stimolo esterno durante l’infanzia influenzi lo sviluppo e la localizzazione della rappresentazione dello stesso nel cervello.

Da queste conclusioni ne deriva la possibilità che la mancata condivisione di determinati stimoli tra soggetti durante l’infanzia a causa di una malattia, di una deprivazione o di differenze culturali, possa produrre da adulti un’atipica o unica rappresentazione di quegli stimoli, generando disabilità sociali o nell’apprendimento.

Il bullismo tra gli adolescenti: il fenomeno guardato da vicino

Circa un decimo degli adolescenti di tutto il mondo, almeno una volta nella vita, sono stati vittime di violenza sia fisica che psicologica da parte dei loro compagni di scuola, comportamenti tipici del bullismo.

 

Studi precedenti suggeriscono che le esperienze di bullismo degli adolescenti sono correlate a comportamenti a rischio, a problemi di interiorizzazione e ad una percezione di supporto sociale deficitario.

Bullismo tra gli adolescenti: i dati OMS

Lo studio condotto dalla Martin Luther University Halle-Wittenberg (MLU) è stato pubblicato sul giornale scientifico Children and Youth Services Review.

Partendo dal modello diatesi-stress per le esperienze di bullismo proposto da Hymel e Swearer, i ricercatori hanno indagato se variabili legate al genere degli adolescenti, ai fattori di stress dei bulli o delle esperienze di vittimizzazione, correlassero con comportamenti a rischio, con una internalizzazione dei problemi e con relazioni con i pari prive di sostegno e supporto.

Per lo studio hanno confrontato i dati forniti dalla OMS, riguardanti circa 3000 adolescenti, che sono stati monitorati in tre tempi di misurazione diversi. I partecipanti allo studio provenivano da diversi paesi, come USA, Germania e Grecia.

I ricercatori hanno scelto queste nazioni proprio perché gli USA vengono considerati una cultura individualista, la Grecia una cultura collettivista ed infine la Germania è stata considerata la giusta via di mezzo.

I dati della OMS fornivano informazioni riguardanti qualsiasi forma di bullismo, sia subito che perpetrato, ma anche dettagli sul consumo di alcol e tabacco, disturbi psicosomatici, le modalità con cui riuscivano a confidarsi e confrontarsi con i loro amici ed infine il sostegno sociale dei loro compagni di classe.

Bullismo tra adolescenti: l’analisi dei dati

I risultati dello studio hanno evidenziato che i comportamenti e i problemi degli adolescenti sono simili in tutti e 3 i paesi, poiché circa il 9% dei ragazzi e delle ragazze hanno subito ripetutamente attacchi fisici o psicologici da parte di altri studenti.

Un altro dato importante che emerge è che gli adolescenti sia maschi che femmine, che sono stati vittime di attacchi sia fisici che verbali da parte dei pari, mostrano gli stessi comportamenti a rischio, come il consumo di alcol e di sigarette.

In particolare, le ragazze tendono ad internalizzare i problemi e ad avere problemi sintomatici come mal di stomaco e mal di testa.

Inoltre, un fattore sorprendente riguarda il fatto che sia i bulli che le loro vittime mostravano situazioni problematiche nei loro ambienti (famiglia, scuola, ecc,), in più entrambi avevano difficoltà a confrontarsi e confidarsi con i loro amici e con i loro compagni di classe, poiché non si sentono supportati a sufficienza.

Per il futuro, sarebbe utile ed interessante migliorare la comunicazione tra gli adolescenti per far sì che si crei un clima in classe di confronto e di supporto reciproco, nel caso si verifichino episodi di bullismo.

Ricordando Niki Lauda, grande sportivo e trapiantato: l’abitudine alla sfida sportiva può migliorare la compliance ed il coping dei pazienti trapiantati?

E’ venuto ieri a mancare il celebre pilota di Formula 1 Niki Lauda. Reduce da un bruttissimo incidente, sorprese il mondo delle corse con il suo rapidissimo ritorno in pista. Ha subito due trapianti di rene e un trapianto di polmone. La triste notizia ci spinge a interrogarci se la forma mentis di uno sportivo abituato a gareggiare possa essere di aiuto nell’ affrontare e superare le difficoltà della vita.

Ilaria Bagnulo, Vittoria Falchini, Federica Benifei, Marco Tanini, Alessandro Pacini, Luciano Boccalini

 

Introduzione: il trapianto d’organo

Il trapianto d’organo, essendo in grado di prolungare nonché migliorare la qualità della vita del paziente, rappresenta un’efficace terapia nel caso di specifiche gravi patologie. Di contro, il prelievo e la donazione di organi presentano problematiche di tipo biologico, psicologico, sociale, morale, come anche religioso. La fase pre-trapianto e la fase post-trapianto possono suscitare problemi di tipo emotivo nonché psicologico quali ansia, paura, angoscia, depressione, che possono sfociare in difficoltà relative all’immagine di sé, alla propria accettazione ed al reinserirsi nella propria vita familiare, sociale e lavorativa.

Affinché vi sia una miglior ripresa post intervento con conseguente miglioramento della qualità della vita, sono necessarie una valutazione della situazione personale, familiare e sociale del paziente nonché una preparazione psicologica della persona, in modo da poter programmare un percorso riabilitativo in base alle risorse ed ai limiti del paziente (Trabucco G. 2005).

In particolare, il rigido regime post-trapianto che la persona si trova a dover affrontare può interferire con l’andamento clinico e la qualità della vita della persona, influenzando negativamente la compliance dei pazienti trapiantati. Difatti, la fase post trapianto può far emergere alcune problematiche quali la difficoltà dei pazienti a seguire le indicazioni dategli nonché a mettere in atto strategie per fronteggiare al meglio tale fase. Si tratta di una sfida che la persona si trova a dover affrontare (Trabucco G. 2005).

Prendendo spunto dalla vicenda del pilota Niki Lauda, sottoposto a due trapianti di rene e uno di polmone in seguito ad un incidente nel 1976, ci siamo domandati se l’abitudine alla sfida sportiva e, dunque, l’essere sottoposti alla ricerca continua di strategie per superare i propri limiti e il doversi adeguare ad un regime di vita particolare, possano contribuire a migliorare il coping delle persone trapiantate e, conseguentemente, ottenere una maggiore aderenza ai trattamenti e quindi un miglioramento nella loro qualità della vita.

La storia di Niki Lauda

Andreas Nikolaus Lauda, meglio noto come Niki Lauda, nasce il 22 febbraio del 1949 a Vienna. Dopo l’incidente del Nürburgring, Niki Lauda ha dovuto affrontare due trapianti di rene (il primo avvenuto nel 1997 con donatore vivente il fratello e il secondo nel 2005 con rene donato dalla moglie) ed un trapianto di polmone a causa di un alveolite emorragica trattata prima con ECMO, inserito nella lista trapianti, si è reso disponibile un organo ed è stato trapiantato il 1/8/2018 esattamente 42 anni dopo l’ incidente (Mensurati M. 2016)

Niki Lauda e l’incidente del Nürburgring

Lo scenario e quello del circuito del Nürburgring che si snoda intorno al Castello di Nürburg, in Germania, una pista di 22,8 chilometri piena di curve, in cui erano già morti 131 piloti di diverse categorie in meno di cinquant’anni.

Il l primo agosto del 1976, nel mezzo della stagione agonistica, la pioggia ha reso insidioso il circuito, Niki Lauda propose di non correrlo durante la riunione pre-gara dei piloti, spiegando che le condizioni della pista non erano ottimali a causa del maltempo e che i rischi erano molto alti. A maggioranza i piloti decisero però di gareggiare, bocciando la sua proposta.

Dopo il primo giro (erano necessari quasi sette minuti per farne uno) la pista si era relativamente asciugata e ci fu grande concitazione ai box per cambiare le ruote alle auto e mettere quelle da asciutto. La gara è un testa a testa fra Lauda e Hunt. Al terzo giro: poco dopo la curva Ex-Muhle e il tornante Bergwerk, Niki Lauda perde il controllo della sua monoposto, la Ferrari 312 T2 sbanda in una curva a sinistra a causa di un cedimento strutturale favorito dalle condizioni della pista. L’auto colpsce in pieno una roccia a lato del circuito e si ferma in fiamme in mezzo alla pista. Niki Lauda, privo del casco saltato via durante l’impatto, viene tamponato dalle auto di due piloti in arrivo, Harald Ertl e Brett Lunger e si incendia. Il pilota austriaco, ancora cosciente, viene così avvolto dalle fiamme (Ferrari opera omnia 2007).

Il punto dell’ incidente, lontano dai box non era presidiato da commissari di gara, sono pertanto gli stessi piloti, Ertl e Lunger, a soccorrere Niki Lauda, insieme con altri due piloti arrivati in zona. Guy Edwards, Brett Lunger, Harald Ertl e Arturo Merzario scendono dalle auto interrompendo la gara per soccorrere Lauda.

Prima di essere estratto, il pilota riporta ustioni di primo grado alle mani e di terzo grado al volto, una frattura dello zigomo, ma soprattutto è stato esposto ai fumi tossici spigionati dall’ incendio dell’ autovettura che ha respirato per diversi minuti. Contrariamente a tutte le aspettative, appena 42 giorni dopo il rogo del Nürburgring, Niki Lauda si ripresenta in pista. Quell’anno avrebbe vinto il suo storico rivale James Hunt, ma la stagione successiva fu tutta per l’austriaco che vince il secondo dei suoi tre titoli mondiali (Marcacci P. 2017).

Il coping

Coping: “to cope with”, forse in modo un po’ troppo semplicistico e riduttivo, viene spesso tradotto con termini quali fronteggiare, reagire, affrontare, riferendosi a quelle strategie cognitive, emotive e comportamentali che l’essere umano mette in atto per far fronte e gestire eventi stressanti, reali o percepiti come tali (Spagna et, al. 2014).

Sebbene sia stato lungamente studiato, quello di coping è un concetto che a tutt’oggi non vede una definizione univoca. Termine di chiara matrice anglofona, è stato lo psicologo americano Richard Lazarus negli anni 60 del novecento ad introdurlo nel panorama della psicologia con una cospicua mole di ricerche volte a definirne le componenti.

In particolare, lo psicologo definisce le così dette strategie di coping (1991) come veri e propri sforzi cognitivi e comportamentali posti in essere dall’essere umano in merito a richieste specifiche, interne o esterne che siano, valutate come eccessive od eccedenti rispetto alle proprie risorse.

In tale processo, Lazarus (1966; 1968; Lazarus e Folkman, 1984) sottolinea l’importanza dei fattori cognitivi, riconoscendone la supremazia rispetto alle variabili genetiche ed ai contesti di natura socioculturale.

Altri autori hanno invece messo in evidenza i limiti di un approccio troppo individualistico, evidenziando che le situazioni stressanti sono vissute all’interno di un contesto interpersonale altamente articolato, in cui un ruolo di particolare rilievo è rivestito dagli “altri significativi” e che le loro risposte esercitano un’influenza non trascurabile sul modo in cui l’essere umano affronta una determinata situazione stressante (Manne e Zautra, 1989;Marin, Holtzman et al., 2007).

In presenza di una malattia ingravescente ed invalidante, ad esempio, gli “altri significativi” ed in particolar modo il partner non sono solo fonti di supporto (o all’opposto di ulteriore fatica), ma anche partecipanti attivi che influenzano il processo di gestione dello stress, a partire dalla valutazione della situazione fino alle strategie di coping che l’individuo può mettere in atto per far fronte a tutto ciò che la condizione di malato cronico comporta (Acitelli, Badr, 2005).

Quale delle due correnti di pensiero si assurge a discapito dell’altra?

È bene in questa sede sottolineare che nonostante gli studi e le ricerche abbiano visto il confronto e l’alternarsi nel corso degli anni dei due approcci distinti, il primo che ha posto l’accento sugli aspetti innati e stabili della personalità, versus un secondo filone di ricerca che ne ha invece enfatizzato i contesti situazionali, nessuno dei due si è affermato sull’altro in maniera marcata. Entrambi gli aspetti si configurano infatti come di primaria importanza e concorrono nel delineare tale costrutto, oggi considerato multidimensionale. Sulle strategie di coping influiscono infatti la personalità di chi le mette in atto e non da ultimo la natura dello stress ed il contesto in cui lo stesso si è verificato (Carver et al., 2010). Ed è proprio nell’evento stressante che è possibile rintracciare quel leitmotiv, un comune denominatore che accomuna il mondo dello sport e quello dei trapianti.

Sono ormai note ai più le esperienze di campioni ritornati a svolgere attività sportive professionistiche ad alti livelli dopo il trapianto, si citano in questa sede Niki Lauda, campione di automobilismo, Jonah Lomu (campione di rugby), Alonzo Mourning (giocatore di basket), Ivan Klasnic (campione di calcio). Non da ultimo, i pazienti con un trapianto di fegato che hanno scalato vette di seimila metri oppure trapiantati di cuore che hanno saputo completare manifestazioni di alto impegno agonistico, quali l’Ironman Triathlon (3,8 km di nuoto,180 km di ciclismo, 42,2 km di corsa) (Haykowsky et al., 2009).

Lo sport e lo stress

Se è pur vero che diversi studi hanno dimostrato che lo sport determini benefici sull’umore, riducendo gli stati d’ansia (Bodin, Torunn, Martinsen, Egil, 2004) e che, in generale, fin dai tempi antichi l’attività fisica viene considerata come parte integrante del concetto di salute, quando lo sport non è più fine a sé stesso ma diventa un lavoro o lo si pratica a livello agonistico, l’atleta dovrà in un certo qual modo confrontarsi con l’ansia e con lo stress nelle loro diverse declinazioni.

Nonostante siano spesso intrisi di significati negativi, ansia e stress sono al contempo connaturati di valenze positive e, nella pratica sportiva, possono aiutare gli atleti ad avere un buon grado di concentrazione nell’esecuzione della prova ed essere quindi funzionali al raggiungimento dell’obiettivo. A queste accezioni si affiancano quelle più controproducenti per l’atleta e che possono condurre ad un possibile decremento della sua prestazione. Per tali ragioni, ansia e stress sono i fenomeni più studiati in ambito sportivo. Edmonds et al. (2008) hanno effettuato una ricerca sugli aspetti emozionali delle gare automobilistiche utilizzando un simulatore di guida. Lo studio era finalizzato a verificare l’utilità e l’efficacia dell’apprendimento di strategie di autoregolazione emozionale prima di una competizione, mediante tecniche di biofeedback (Hanin, 2000) e con riferimento agli stati emozionali individuali. I risultati hanno confermato l’efficacia di tali strategie, ma al contempo è stata evidenziata la necessità di considerare approcci strettamente individualizzati.

Tra i metodi più usati dagli atleti per fronteggiare ansia e stress, affinché non inficino le loro prestazioni sportive ci sono le tecniche di rilassamento e meditazione corporea, che hanno dato negli anni i risultati migliori (Tamorri et.al., 2004). Nella maggior parte delle procedure utilizzate ci si prefigge l’obiettivo di eliminare gli effetti debilitanti dell’ansia e dello stress, cercando di abbassare il livello di arousal dell’organismo. Non sempre però tali metodiche sono in grado da sole di determinare gli effetti sperati, poiché questi dipendono anche e soprattutto delle reazioni soggettive agli stimoli stressanti. Pertanto, alle tecniche di rilassamento e a meditazione corporea si affiancano anche quelle di matrice somatica o cognitiva (Tamorri et. al., 2004).

È quindi assai variegato ed articolato il panorama dei programmi specifici di allenamento a cui gli atleti possono attingere per allenare le così dette coping skills, con l’obiettivo di riuscire a gestire meglio la loro performance, non solo durante le competizioni sportive ma anche e soprattutto quando si trovano a dover fronteggiare un evento di più ampia portata come l’infortunio ed a limitarne le conseguenze emotive negative post-evento.

Un “evento critico”, per definirsi tale, deve avere un impatto sufficientemente stressante, tanto da sopraffare la capacità di reazione di norma efficace di un individuo o di un gruppo. (De Felice, Colaninno, 2003).

Le principali caratteristiche di un infortunio o di una malattia ed i loro effetti fisici e psicologici vengono riuniti sotto il concetto di distress (Heinonen et al. 2005; Beanlands et al. 2003; Trask et al. 2002). Anche il processo di adattamento alla condizione di soggetto infortunato o di persona malata vengono studiati come reazioni di coping, ognuna delle quali pare inscriversi in un contesto intriso di storia e significati personali legati al soggetto interessato, sia esso infortunato o affetto da malattia (Kirsh, McGrew, Dugan&Passik, 2004; Watson et al.2004; Johnson, Vickberg et al. 2001).

Gli studi sul coping evidenziano il rapporto tra l’esperienza di malattia e l’efficacia delle strategie messe in atto dal soggetto per far fronte alla condizione di persona malata (Schulz-Kindermann et al. 2002). Un’altra serie di studi focalizza invece l’attenzione sui processi di interazione tra distress e coping (Holzner et al. 2001).

Conclusioni

Il trapianto d’organo si configura come un evento stressante per chi lo esperisce, le profonde implicazioni che comporta, con il conseguente impatto emotivo e psicologico dell’intervento, possono costituire una situazione traumatica che interrompe il senso di continuità e integrità personale, elicitando intense emozioni. È infatti possibile che si instauri una vera e propria crisi psicosomatica che esige dal paziente la mobilitazione di tutte le sue risorse nel processo di integrazione del nuovo organo estraneo, il quale può determinare un’alterazione della rappresentazione di sé e del senso di identità ( Dew et al. 1999; Griva et al., 2002).

Per far fronte agli effetti psicologici dei vissuti traumatici, che l’esperienza del trapianto può comportare, è efficace l’aver acquisito esperienze positive di sé e degli altri, ciò consente infatti di utilizzare strategie per la riduzione dello stress (De Pasquale et al.,2014; Stukas et al., 1999).

 

Crediamo che l’esempio di Niki Lauda possa rientrare appieno tra le esperienze positive che possono aiutare le persone che hanno subito o subiranno un trapianto a continuare ad andare avanti, non fermandosi alle difficoltà ma continuando a correre, più forti di prima (ndr).

Disturbo Psicopatico di Personalità: caratteristiche distintive e differenze rispetto al Disturbo Antisociale di Personalità

In letteratura e nella pratica clinica la Psicopatia (o Disturbo Psicopatico di Personalità – DPP)  viene a volte confusa con il Disturbo Antisociale di Personalità (DAP) e può accadere che i due termini vengano erroneamente utilizzati come sinonimi. È importante invece mantenere distinti i due disturbi sul piano concettuale per le loro specificità e deficit, in modo da orientare in modo più efficace il trattamento.

 

La psicopatia (o Disturbo Psicopatico di Personalità – DPP) è un Disturbo di Personalità caratterizzato da comportamento antisociale e distacco affettivo ed interpersonale (Benning, Patrick, Blonigen, Hicks, e Iacono, 2005).

Dal punto di vista dei sistemi di classificazione internazionale dei disturbi mentali, il Disturbo Psicopatico di Personalità è stato incluso nella sezione III dei “Modelli Emergenti e Misure” del DSM 5 (APA, 2013). Il DSM IV-TR (APA, 2000) includeva soltanto il Disturbo Antisociale di Personalità.

In letteratura e nella pratica clinica il Disturbo Psicopatico di Personalità (DPP)  viene a volte confuso con il Disturbo Antisociale di Personalità (DAP) e può accadere che i due termini vengano erratamente utilizzati come sinonimi. È importante invece mantenere distinti i due disturbi sul piano concettuale per le loro specificità e deficit, in modo da orientare in modo più efficace il trattamento. Pur avendo diversi punti di similarità, di cui il fondamentale è un pattern durevole di comportamenti antisociali che iniziano durante l’infanzia, il Disturbo Psicopatico di Personalità implica specifici e distintivi deficit emotivi e interpersonali.

La Psicopatia (Disturbo Psicopatico di Personalità): che cos’è?

L’attuale concettualizzazione della psicopatia è stata influenzata dagli studi di Cleckley (The Mask of Sanity, 1941), il quale elencò 16 criteri diagnostici che potevano essere utilizzati per identificare le persone con il Disturbo Psicopatico di Personalità. Particolare enfasi veniva posta sulle scarse abilità affettive ed interpersonali dello psicopatico (superficialità, incapacità di amare, mancanza di rimorsi, mentire patologico) e sul suo comportamento antisociale (scarso controllo degli impulsi, assenza di pianificazione, incapacità di apprendere dalle esperienze passate, delinquenza, stile di vita parassitario).

Questa nozione di psicopatia è stata poi operazionalizzata negli anni seguenti con messa a punto della Psychopathy Checklist (Hare, 1991), la quale comprende 20 items atti a misurare queste due dimensioni del disturbo.

La psicopatia risulta essere dunque un disturbo caratterizzato da una costellazione di caratteristiche affettive, interpersonali e comportamentali specifiche, quali:

  1. Loquacità/fascino superficiale: disinvoltura e loquacità nella conversazione, capacità di dare risposte pronte, divertenti e intellingenti, o di raccontare storie improbabili ma convincenti su di sé che lo mettono in buona luce (anche se ne emerge un fascino superficiale);
  2. Senso grandioso del Sé: opinione eccessivamente elevata del proprio valore e delle proprie qualità, che lo porta a risultare arrogante e supponente;
  3. Bisogno di stimoli/propensione alla noia: il soggetto sperimenta facilemente la noia e tende per questo a mettere in atto comportamente rischiosi;
  4. Menzogna patologica: tendenza a mentire come modalità frequente nelle interazioni con gli altri e con un’ottima abilità nel mentire;
  5. Manipolazione: per conseguire un proprio scopo personale può far uso di inganni, menzogne e frodi manipolando gli altri;
  6. Assenza di senso di colpa: assenza di emozioni morali quali colpa e vergogna e di preoccupazione per le conseguenze negative delle proprie azioni;
  7. Affettività superficiale: può dimostrare freddezza emotiva oppure mostrare un’espressione teatrale, superficiale, recitata e di breve durata delle emozioni;
  8. Deficit di empatia: mancanza di empatia, insensibilità e disprezzo per le emozioni e il benessere degli altri, visti unicamente come soggetti da manipolare per il proprio vantaggio;
  9. Deficit del controllo comportamentale: discontrollo comportamentale, bassa tolleranza della frustrazione con comportamenti aggressivi di fronte alla critica e al fallimento, associati ad un’elevata irritabilità e disregolazione della rabbia;
  10. Comportamento sessuale promiscuo: comportamenti e condotte sessualmente promiscue;
  11. Mancanza di obiettivi e piani realistici a lungo termine: difficoltà nel formulare ed eseguire piani realistici a lungo termine;
  12. Elevati livelli di impulsività;
  13. Delinquenza in età giovanile con una storia di comportamenti antisociale in età adolescenziale;
  14. Problematiche comportamentali precoci: gravi problemi comportamentali in età infantile (comportamenti persistenti di menzogna, furto, rapina, frode, piromania, assenze scolastiche ingiustificate, bullismo, vandalismo, fughe da casa, attività sessuali precoci).

Considerando l’analisi fattoriale del costrutto della psicopatia misurato attraverso al scala PCL-R (1991) si evidenziano 2 fattori correlati. Il primo fattore descrive le caratteristiche emotive e interpersonali tipiche del Disturbo Psicopatico di Personalità: il primo corrisponde ad uno stile arrogante e menzognero e distacco emotivo-esperienza emotiva deficitaria, il secondo fattore fa riferimento invece alle condotte impulsive e antisociali ed è fortemente associato alla criminalità.

Da alcuni studi di Hare (2003) emerge che solo il secondo fattore del costrutto definibile “antisocialità’” correla positivamente con il Disturbo Antisociale di Personalità, mentre il primo fattore relativo allo stile emotivo interpersonale sembra essere tipico e correla positivamente solo con Il Disturbo Psicopatico di Personalità e non con il Disturbo Antisociale di Personalità.

In termini di schemi cognitivi – che si caratterizzano come rigidi e inflessibili – il soggetto con psicopatia valuta se stesso come forte e autonomo, mentre l’altro è percepito come debole, sfruttabile e manipolabile per raggiungere i propri scopi. È frequente un bias di attribuzione di intenzioni malevoli degli altri; presenta pertanto ipervigilanza all’intenzionalità malevola dell’altro e tendenza ad aggredire minimizando la possibilità di essere vittimizzato.

A livello emotivo, è evidente un deficit in termini di competenza emotiva relativamente a diversi aspetti. Alcuni studi hanno evidenziato una riduzione dell’espressione e riconoscimento prosodico vocale non verbale delle emozioni negli individui con psicopatia.  Altri studi hanno suggerito che gli individui con psicopatia avrebbero un deficit di risposta emotivo selettivo, riguardante la paura ma non altre emozioni: in tal senso, ricerche sugli indici fisiologici delle emozioni dimostrano una ridotta risposta elettrodermica a stimoli minacciosi negli individui psicopatici (Herpetz et al., 2001), mentre non mostrano deficit nell’esperire altre emozioni, incluse quelle positive.

In ogni caso, il deficit a carico dell’empatia appare centrale nella psicopatia. Considerando gli aspetti cognitivi ed emotivi dell’empatia, la letteratura suggerisce che le disfunzioni negli psicopatici non sono a carico degli aspetti cognitivi dell’empatia di riconoscimento di stati mentali, pensieri, desideri, credenze e intenzioni (tipicamente misurati attraverso compiti e test di Teoria della Mente, quali l’Advanced Theory of Mind Test oppure il Reading the Mind in the Eyes’ task). D’altro canto, facendo riferimento alle componenti emotive dell’empatia sembrano significativi i deficit a carico del riconoscimento delle emozioni nell’altro (es. attraverso espressioni facciali).

Il deficit empatico è implicato nell’insorgenza e mantenimento della psicopatia poiché l’altro viene visto dal soggetto con psicopatia come oggetto da utilizzare per i propri scopi, con scarsa o assente esperienza di emozioni morali come la colpa e e il rimorso.

In generale, gli psicopatici non mostrano alcuna preoccupazione riguardo gli effetti che le loro cattive azioni possono avere sugli altri, o addirittura su loro stessi. Spesso commettono crimini impulsivi e non pianificati, persino quando la probabilità di essere scoperti e puniti sono elevate. Alla base di tali comportamenti sembrerebbe esserci un’incapacità di apprendere informazioni associate alle punizioni e di rispondere in maniera appropriata ad esse. Ad esempio sono stati trovati deficit in compiti di condizionamento avversivo (Flor, Birbaumer, Hermann, Ziegler, e Patrick, 2002) ed in compiti di apprendimento passivo dell’evitamento (Blair e colleghi, 2004; Newman e Kosson, 1986), una ridotta capacità di riconoscere espressioni facciali negative (Blair e colleghi, 2004) e una risposta elettrodermica deficitaria in risposta ad espressioni vocali negative (Verona, Patrick, Curtin, Bradley e Lang, 2004).

Essendo incapaci di imparare dalle punizioni, le persone con psicopatia manifestano spesso comportamenti impulsivi, perseveranza ed una sostanziale incapacità di inibire la scelta di opzioni precedentemente vincenti nel momento in cui un cambiamento della situazione le renda svantaggiose (Whiteside & Lynam, 2001).

In letteratura si è osservato che la storia di attaccamento dei soggetti con psicopatia  è caratterizzata da esperienze di parenting disfunzionale tra cui: a) stile genitoriale incoerente e instabile: le regole sono scarse, instabili, il genitore non fornisce in modo stabile, coerente, significativo e contingente un feedback per regolare il comportamento aggressivo del bambino (spesso gestito in modo coercitivo); b) stile genitoriale autoritario ed eccessivamente severo e coercitivo; c) trascuratezza e scarso monitoraggio; insufficiente condivisione ed espressione affettiva; elevata emotività espressa. Dalla storia evolutiva di attaccamento, emergono e si mantengono schemi e credenze su sé e gli altri che predispongono alla modalità di funzionamento della psicopatia, come la percezione degli altri come ostili e rifiutanti e la tendenza alla dominanza, coercizione e manipolazione dell’altro.

Psicopatia e processi di decisione

Van Honk, Hermans, Putnam, Montagne e Schutter (2002) hanno esaminato, in partecipanti con alti e bassi tratti di psicopatia, le performances in un famoso task sperimentale, l’Iowa Gambling Task. I risultati hanno dimostrato come i partecipanti con alta psicopatia non imparassero dai feedback negativi (perdita di denaro) che ricevevano durante il compito e manifestassero quindi comportamenti maladattivi, confrontati con i non psicopatici.

Newman, Patterson e Kosson (1987) hanno chiesto a psicopatici e non psicopatici incarcerati di eseguire un compito monetario del tutto analogo all’Iowa con l’obiettivo di esaminare le loro risposte perseverative. Anche in questo caso gli psicopatici compivano scelte non vantaggiose e perdevano maggiori somme di denaro durante il compito. Blair, Morton, Leonard e Blair (2006) hanno studiato la capacità di decision making in persone con psicopatia usando il Differential Reward/Punishment learning task, nel quale i partecipanti dovevano scegliere tra due oggetti che erano associati a differenti livelli di premio o punizione. I dati, anche in questo caso, hanno rivelato una significativa difficoltà, negli psicopatici, nello scegliere tra oggetti con diversi livelli di premio o punizione.

Altri ricercatori recentemente hanno somministrato l’Ultimatum Game ed il Dictator Game ad un gruppo di psicopatici e ad un gruppo di controllo. Nell’Ultimatum Game un primo giocatore decide come dividere una somma di denaro tra sé e un secondo giocatore, mentre quest’ultimo può decidere se accettare o meno la divisione proposta. Nel caso in cui egli rifiuti l’offerta, entrambi i giocatori non riceveranno la somma di denaro. Nel Dictator Game, invece, il primo giocatore decide come dividere la somma di denaro, mentre il secondo giocatore semplicemente riceve la parte di denaro decisa dal primo. I risultati hanno mostrato come gli psicopatici accettassero in minor misura le offerte valutate come ingiuste e non eque in questi due giochi, ottenendo di fatto a fine gioco una minore somma di denaro rispetto ai non psicopatici. In uno studio più datato Blanchard, Bassett e Koshland (1977) hanno indagato la sensibilità a premi e ricompense in un gruppo di psicopatici incarcerati, rispetto ad un gruppo di controllo, ai quali veniva chiesto di effettuare una scelta tra ricevere un premio nell’immediato, seppur piccolo, oppure ricevere un premio tre volte maggiore ma con un ritardo di qualche ora o qualche giorno. Gli psicopatici mostravano una minore capacità di ritardare la gratificazione rispetto al gruppo di controllo.

I dati riscontrati in questi diversi studi permettono di trarre alcune osservazioni e riflessioni su un disturbo così complesso e ricco di sfaccettature. I comportamenti impulsivi, irresponsabili, privi di pianificazione potrebbero essere in parte spiegati dalla sostanziale incapacità dello psicopatico di frenare la necessità di ricompensa e gratificazione immediate, di resistere alla tentazione di provare emozioni ed esperienze forti, e dalla sua insensibilità di fronte a feedback negativi o punizioni, come si è potuto rilevare nei diversi studi con compiti di decision-making. Le conseguenze negative, nel breve e lungo periodo, che la messa in atto di questi comportamenti può portare sono di notevole impatto non solo nella vita dello psicopatico, ma anche delle persone che gli stanno attorno e nella società in cui vive.

Psicopatia e moralità

Kohlberg (1958) per primo trovò che ragazzi aventi storie di antisocialità usavano in modo consistente ragionamenti morali di tipo preconvenzionale, suggerendo quindi l’idea che fattori esperienziali e ambientali negativi potessero contribuire a determinare un arresto dello sviluppo morale a livelli più immaturi della norma.

L’ipotesi che l’arresto a forme di giudizio morale preconvenzionali sia correlato alla manifestazione di condotte devianti ha trovato evidenza clinica anche in relazione alla personalità psicopatica.

Una spiegazione che è stata avanzata per giustificare le differenze di ragionamento morale riscontrate tra soggetti psicopatici e non è quella che i due gruppi funzionino secondo diversi livelli di sviluppo cognitivo ed in particolare secondo forme più immature nel primo caso rispetto al secondo.

L’approccio di Kohlberg allo studio dello sviluppo morale prevede infatti una considerazione centrale dei processi di tipo cognitivo, proponendo un parallelismo fondamentale fra gli stadi dello sviluppo intellettivo e quelli dello sviluppo del pensiero morale. In questa prospettiva, la maturazione di strutture cognitive sempre più complesse viene considerata una condizione necessaria per l’emergere di livelli morali sempre più avanzati: così un individuo che ad esempio non abbia superato lo stadio delle operazioni concrete potrà raggiungere solo le prime fasi del giudizio morale.

A conferma dell’esistenza di una relazione tra le scarse capacità morali rilevate nei soggetti psicopatici ed una corrispettiva immaturità cognitiva, nello studio di Campagna e Harter (1975) sono stati testati i partecipanti con la Wechsler Intelligence Scale for Children, con il risultato che, all’interno di ciascuno dei due gruppi, i ragazzi con migliori punteggi di intelligenza cognitiva manifestavano anche più elevati livelli di ragionamento morale e viceversa. In particolare, i soggetti psicopatici risultavano avere punteggi significativamente più bassi dei controlli a tutti e sei i subtest verbali della scala, riflettendo una generale carenza nelle abilità di concetto, di astrazione e di simbolizzazione.

Il fatto quindi che i ragazzi risultati meno intelligenti ad una valutazione cognitiva fossero anche quelli con maggiori difficoltà di natura morale ha supportato l’idea di un fattore di tipo cognitivo alla base dello sviluppo morale e di una carenza in entrambe le funzioni negli individui con psicopatia.

In generale, le ricerche sulle capacità di ragionamento morale in individui con psicopatia che hanno utilizzato sia il paradigma di Kohlberg sia quello di altri studiosi (ad esempio, Turiel) delineano un’immagine dell’individuo con psicopatia come essenzialmente mancante di un’adeguata moralità e perciò insensibile ed inosservante dei principi dell’etica comune. In particolare in una prospettiva cognitivo-evolutiva, si ritiene il soggetto psicopatico carente nelle funzioni meramente intellettive che dovrebbero consentirne lo sviluppo sul piano della socializzazione morale, suggerendone un arresto ad un’organizzazione cognitiva al secondo livello epistemologico di Kohlberg, ossia basata su un orientamento individualistico di tipo premio-punizione: si può dunque considerare che lo psicopatico sia guidato da valutazioni meramente egoistiche rispetto alle conseguenze dei propri comportamenti, senza saper invece tenere in debito conto quei principi interiori che normalmente impediscono l’attuazione di gravi condotte etero-lesive.

Caratteristiche neurobiologiche del Disturbo Psicopatico di Personalità

Diversi studi in letteratura hanno evidenziato caratteristiche neurobiologiche specifiche del Disturbo Psicopatico di Personalità riguardanti l’attivazione di aree e strutture implicate nella regolazione emotiva e delle relazioni interpersonali, come l’amigdala, le strutture limbiche e la corteccia prefrontale ventromediale (vm PFC).

In particolare, alcuni studi di neuroimaging dimostrano l’associazione tra disfunzioni a carico dell’amigdala e psicopatia, sia in termini di attivazione funzionale che di caratteristiche struttuali anatomico-morofologiche.

Anche disfunzioni a carico della corteccia prefrontale ventromediale (vm PFC)  correlano con la psicopatia, come evidenziato da studi su pazienti neurologici con lesioni focali e da studi sperimentali sul decision making. Infatti la rilevanza di tale correlazione fa riferimento all’interazione della corteccia prefrontale ventromediale con altre regioni cerebrali corticali e sottocorticali coinvolte nella cognizione sociale e nei processi decisionali, nella regolazione emotiva e dell’aggressività.

La disfunzione dell’amigdala in relazione alla psicopatia, si può leggere attraverso due ipotesi interpretative: la prima che evidenzia la correlazione tra deficit empatico del soggetto psicopatico con l’anomalia nel funzionamento dell’amigdala (Blair, 1995); la seconda che evidenzia come la disfunzione dell’amigdala si manifesta nella bassa reattività agli stimoli minacciosi e dannosi ( e di conseguenza con bassa sensibilità alle punizioni e alle norme morali).

Parla con tuo figlio (2019) di Violetta Colonna: il linguaggio dei segni per comunicare con i neonati – Recensione del libro

Secondo l’autrice del libro Parla con tuo figlio il linguaggio dei segni e quello parlato potrebbero diventare complementari e aiutare i bambini nell’esprimere i propri bisogni tramite i gesti, imparare cose sul mondo e instaurare legami fatti di comprensione reciproca. I bambini hanno infatti un bisogno innato di sentirsi ascoltati e quindi sono felici di avere più mezzi che permettano loro di farlo.

 

Avete mai pensato a quanto può essere frustrante per un bambino che ancora non parla riuscire a comunicare con gli adulti?

Alla nascita i bambini possono utilizzare solo il pianto come modalità per trasmettere agli altri le loro necessità, segnale non sempre di facile comprensione da parte dell’adulto. Crescendo il bambino acquista la capacità di utilizzare prima i gesti, come l’indicare, e più tardi il linguaggio, esito finale di un complesso processo di apprendimento.

L’abilità di parlare è frutto di un percorso lungo e graduale, che lascia tuttavia il bambino nei primi mesi di vita senza lo strumento efficace della parola per poter comunicare con il mondo circostante. Il libro Parla con tuo figlio può offrire un valido aiuto in questo periodo di tempo, offrendo un nuovo modo di “parlare” con il proprio figlio, proprio quando il bambino non ha ancora acquisito questa abilità.

I bambini sono fortemente motivati a trasmettere messaggi alle persone che li circondano, ma nel periodo preverbale i genitori sono spesso costretti a provare ad indovinare cosa passa per la mente dei loro figli.

“Tutti siamo stati bambini, ma pochi di essi se ne ricordano” diceva Antoine De Saint Exupery nel suo Piccolo Principe. E questo vale anche per la fatica e gli sforzi che fanno i bambini nell’imparare nuove capacità come camminare e parlare. Quando un bambino pronuncia una parola, ha imparato a mettere la lingua in una certa posizione, le labbra in un’altra, controllare le corde vocali, regolare la respirazione, mettere insieme i suoni, associare a un oggetto un suono. Ci vuole tempo fino ai 3 anni prima che il bambino padroneggi la lingua in modo comprensibile e chiaro per tutti gli adulti.

Eppure tutti i bambini imparano a fare ciao-ciao con la mano, scuotere la testa per dire no e fare su e giù con la testa per dire sì. Questi sono esempi di segni semplici e facili che i bambini imparano ed usano per parlare del mondo in assenza di linguaggio verbale. Non poter esprimere i propri pensieri sul mondo fa sentire isolati e frustrati, motivo per cui spesso i bambini utilizzano capricci, urla, pianti, per trasmettere un messaggio, che spesso agli adulti risulta di difficile comprensione. Tra i 9 e i 12 mesi i bambini sono pieni di cose da dire, ma generalmente devono aspettare tra i 18 mesi e i 2 anni per possedere le parole che gli adulti capiscono.

Parla con tuo figlio.. dalle parole ai gesti

E dato che comunicare con successo con gli altri migliora la vita, perché non utilizzare il linguaggio dei segni quando il bambino non padroneggia ancora il linguaggio delle parole?

Come spiega il libro Parla con tuo figlio, diverse ricerche condotte in America, dove questo linguaggio è ampiamente utilizzato, hanno mostrato diversi benefici di questo approccio. Uno studio su 103 famiglie, di cui un terzo aveva utilizzato questo linguaggio, ha mostrato che i bambini che avevano potuto sfruttare questa possibilità di comunicare perché usata dai genitori, avevano 2 anni dopo migliori performance nei test di intelligenza, un vocabolario linguistico recettivo ed espressivo più ampio e una modalità di gioco più strutturata e simbolica.

Un beneficio riportato dell’utilizzo del linguaggio dei segni è permettere al bambino l’esperienza di essere capito con rapidità e precisione, favorendo la comprensione e la fiducia reciproca, diminuendo il senso di frustrazione e di conseguenza lacrime e capricci. Quando riusciamo a comunicare con gli altri ci sentiamo meno soli; l’autostima e il benessere nascono infatti dal sentirsi in grado di esprimersi, capiti e ascoltati.

È stato inoltre dimostrato che i bambini a cui sono stati insegnati i segni imparano a parlare prima e hanno un vocabolario più ricco a 2 anni. Come affermato nel libro, questo accade perché così come i bambini smettono di gattonare quando iniziano a camminare, dato che questo gli concede più libertà, smettono di usare i segni per parlare perché il linguaggio permette maggiore completezza, rapidità, complessità. Il linguaggio dei segni è considerato semplicemente un ponte che aiuta la transizione dall’assenza di linguaggio al linguaggio parlato.

È stato considerato anche un vantaggio a lungo termine sullo sviluppo cerebrale. Da una ricerca è infatti emerso che bambini che avevano utilizzato questo linguaggio in fase preverbale a 8 anni presentavano punteggi al test intellettivo WISC-III in media più alti di 12 punti rispetto ai coetanei. Probabilmente questo risultato è da attribuirsi a uno sviluppo più precoce delle capacità simboliche e delle abilità di astrazione, così come della memoria di lavoro, che permette di fare collegamenti tra concetti ed elementi. Sembra inoltre che questi bambini avessero una maggiore passione verso i libri, mantenuta anche nel tempo.

La premessa di questo approccio è che comunque i due linguaggi, gestuale e parlato, non si devono sostituire uno all’altro, ma aggiungere e diventare complementari. Aggiungendo i segni alle parole ogni volta che si parla di un argomento si aiutano i figli ad esprimere i bisogni tramite i gesti, imparare cose sul mondo e instaurare legami fatti di comprensione reciproca. I bambini hanno un bisogno innato di sentirsi ascoltati e quindi sono felici di avere mezzi che permettano loro di farlo.

Come utilizzare il linguaggio dei segni nella comunicazione con i propri figli

Nel libro Parla con tuo figlio si accenna a due possibilità di utilizzo del linguaggio dei segni: utilizzare il LIS (Lingua dei Segni in senso stretto), strada consigliata solo se si ha la possibilità di sfruttare questa lingua anche in altre situazioni, se si conosce già o se si vuole insegnarla come seconda lingua al proprio bambino, oppure secondo un approccio più flessibile, basato sui segni semplici o spontanei.

La seconda modalità prevede di utilizzare i segni che i bambini creano da soli, spesso più riproducibili e semplici dei segni LIS a livello motorio. L’approccio flessibile non tiene conto dei segni LIS, ma propone gesti con una stretta relazione con le esperienze quotidiane del bambino. Inoltre per comunicare spesso i bambini reclutano movimenti fisici che sono associati a caratteristiche dell’oggetto di cui sono impazienti di parlare (es. sniffare per “fiore” o allontanare le mani per “grande”). Per questo nel libro vengono illustrate figure dei segni per i concetti che si suppone il bambino voglia esprimere (es. muovere la mano avanti e indietro verso la bocca tenendo le dita chiuse per “mangiare”, oppure far ruotare in senso orario la mano con l’indice disteso davanti per “ancora”).

Quando iniziare ad usare il linguaggio dei segni?

Dopo i 6 mesi, in particolare quando il bambino inizia ad indicare le cose, interessarsi ai libri con le figure, scuotere la testa per il no, fare ciao-ciao. Vengono tuttavia poste alcune raccomandazioni dall’autrice: usare sempre il segno assieme alla parola e ripeterlo, così che il bambino ne capisca l’equivalenza, iniziare con pochi segni per allenarvi ad usarli, coinvolgere anche gli altri familiari, guidare con delicatezza le mani del bambino se non riesce a fare il segno da solo, inserire i segni nelle abitudini quotidiane (cambio pannolino, pasti, bagnetto), essere flessibili e accettare anche approssimazioni dei gesti, essere pazienti ed entusiasti rispetto all’uso dei segni. Guardare insieme un libro di figure, cantare canzoncine/filastrocche e fare giochi che includono i segni sono tutte attività divertenti da poter fare con il bambino.

Se verranno utilizzate queste indicazioni il bambino sarà portato progressivamente a guardare le mani dei genitori mentre fanno gesti, comprenderne il significato, imitarli, usare i segni per rispondere, usare i segni spontaneamente. Bisogna sempre concentrarsi sui segni che possono risultare utili per i bambini, proprio per questo alla fine del libro Parla con tuo figlio sono illustrati tutti i segni che potrebbero essere utilizzati nella vita quotidiana, suddivisi per sezioni: azioni, igiene e corpo, segni base, la famiglia, gli oggetti, gli animali, i colori, le emozioni, l’abbigliamento. Si scoprirà allora che per dire che si è stanchi basta mettere le mani piegate con i palmi rivolti verso le spalle e farle ruotare avanti e in basso, o per dire che si è arrabbiati si può far scivolare le mani dalle spalle verso il petto.

Comunicare le proprie emozioni è un passo fondamentale per la competenza emotiva e utilizzare questi gesti fin dai primi mesi mette sicuramente le basi per un adeguato sviluppo mentale ed emotivo.

L’autrice inoltre nella parte finale di Parla con tuo figlio dà importanti spunti basati sull’esperienza clinica rispetto alla cura dei bambini per quanto riguarda lo sviluppo fisico, il tempo libero, il gioco, lo sviluppo mentale, lo sviluppo verbale e sociale e la nanna.

In conclusione

Sappiamo bene che le basi dell’attaccamento si fondano proprio sui primi mesi di vita, e in particolare sulla capacità del genitore di comprendere gli stati mentali del proprio figlio. Se il bambino può trasmettere attraverso i gesti i suoi stati mentali, il compito del genitore di decodificarli sarà sicuramente più facile. E dato che, come sosteneva il filosofo Zygmunt Bauman “Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione”, dare ai figli altri strumenti per comunicare in modo efficace oltre al linguaggio parlato, e quindi leggere questo libro, dà certamente spunti fondamentali per la costruzione di questo legame.

Parla con tuo figlio è un libro utile per tutti i genitori interessati a comunicare con il proprio figlio prima dell’avvento delle parole, quindi per tutti i genitori.

Disturbo dell’interesse sessuale: la funzione della sexual concordance

Un nuovo studio indaga la relazione tra il funzionamento sessuale e la sexual concordance: le implicazioni potrebbero essere particolarmente rilevanti per la terapia del disturbo dell’interesse sessuale/arousal (SIAD – DSM 5).

 

Lo studio della sessualità umana è stato guidato per lungo tempo da un principio funzionalistico, volto cioè solo alla comprensione e trattamento di quelle condizioni che impediscano all’atto sessuale di essere generativo, non curandosi dei numerosi altri aspetti che interessano la vita intima della nostra specie e che ne determinano da ultimo il benessere sessuale.

Disturbo del’interesse sessuale: da Master e Johnson alla sexual concordance

Furono gli studi pionieristici di W. Masters e V. Johnson (Human Sexual Response, 1966), ad ampliare questa visione, individuando grazie ai dati raccolti da centinaia di pazienti, le fasi ricorrenti in ogni risposta sessuale umana, seppure con variabilità individuale. Così all’eccitazione segue una fase di plateau, culmina in orgasmo e si risolve gradualmente per riportare il corpo alla condizione pre-stimolazione. In seguito, Helen Kaplan (1974) suggerì l’importanza di una quinta fase, il desiderio sessuale o “drive”, che predisponesse l’individuo all’attività erotica agendo come facilitatore della stessa, in assenza della quale il soggetto avrebbe esperito un disagio.

Fin dai primi studi di Masters e Johnson, le tecniche sperimentali utilizzate non sono state limitate alle misure riportate dai soggetti in forma narrativa circa l’esperienza sessuale appena vissuta, ma si sono servite di strumenti tecnologicamente all’avanguardia per rilevare i cambiamenti fisiologici che accompagnano l’arousal nell’uomo. Diversi ricercatori contemporanei si sono proposti di indagare come la sexual concordance, ovvero la sincronia tra la risposta sessuale fisiologica e quella soggettivamente riferita, cambi tra i diversi individui e modulata da quali fattori.

Disturbo del’interesse sessuale: il nuovo studio sull’autopercezione dell’eccitazione

Tra questi, una nuova pubblicazione sul Journal of Sex and Marital Therapy, da parte di Suschinsky, Huberman, Maunder, Brotto, Hollenstein e Chivers (2019) riporta i dati ottenuti da uno studio condotto su 64 donne, proprio in relazione alla propria sexual concordance. L’importanza di questo costrutto apparirà più chiara se guardiamo all’importante riconcettualizzazione avvenuta nel campo clinico circa le difficoltà sessuali: infatti nel DSM 5 (APA, 2013) viene introdotto il Sexual Interest/Arousal Disorder (SIAD) i cui criteri diagnostici supportano un nuovo paradigma, secondo il quale la capacità di riconoscere i segnali di resposività all’attività erotica del proprio corpo giocherebbe un ruolo cruciale. Conseguentemente, è stato possibile ipotizzare come questo, in donne che avessero difficoltà nel riconoscere tali segnali somatici riconoscendoli come sessuali, potesse risultare in uno scarso desiderio sessuale. Nello studio di Suschinsky et Al. (2019), la misura della risposta fisiologica dell’attivazione sessuale è stata ottenuta mediante due indici di vasocongestione dei tessuti vaginali e clitoridei (Vaginal Photoplethysmography, VPP e Clitoral Photoplethismography, CPP) durante una proiezione audiovisiva di contenuto esplicito alla quale le partecipanti stavano assistendo. Al contempo, una misura dell’autopercezione dell’eccitazione raggiunta veniva espressa dalle partecipanti su di una scala da 0 a 100.

Disturbo del’interesse sessuale: i risultati

I risultati ottenuti, suggeriscono che a prescindere dal funzionamento sessuale più o meno buono del soggetto, le risposte genitali registrate predicevano con successo la percezione riportata dell’eccitazione sessuale (size effect medio-grande per la CPP e medio-piccolo per la VPP, in linea con la precedente letteratura). La concordanza sessuale maggiore è poi stata riscontrata in quelle donne che riportavano difficoltà sessuali, nello specifico quando modifiche nell’eccitazione percepita divenivano precursori della risposta fisiologica registrata. In futuro quindi, approcci terapeutici volti all’aumento dell’esperienza soggettiva ed emozionale dell’arousal sessuale potrebbero risultare efficaci nel migliorare il funzionamento sessuale dei soggetti in senso più globale.

Il ruolo chiave dell’autostima nella percezione del supporto sociale

Un recente studio ha mostrato che ricevere supporto sociale, da parte di amici e familiari, porta benefici per la salute fisica in soggetti che possiedono un’alta autostima.

 

In particolare, sembrerebbe che il supporto sociale vada a ridurre i segni di infiammazione cronica nei soggetti che hanno una buona visione di sé stessi. Al contrario, nei soggetti con una bassa autostima, il supporto sociale non sembrerebbe portare gli stessi benefici per la salute.

Autostima: influisce su quanto ci sentiamo supportati?

I partecipanti (N= 949), adulti sani, sono stati chiamati a compilare questionari self report per valutare l’autostima, il supporto sociale percepito ed alcune informazioni sociodemografiche che potevano influenzare i livelli di infiammazione corporea. È bene ricordare che l’infiammazione cronica è associata ad un maggior rischio per lo sviluppo di malattie come il cancro o il diabete (Ershler & Keller, 2000; Ridker, 2009); nel presente studio i livelli di infiammazione sono stati misurati attraverso il prelievo di un campione di sangue, per monitorare la presenza della proteina CRP, marker di infiammazione, e studiarne la relazione con il supporto sociale e l’autostima.

Autostima e percezione di supporto: i risultati dello studio

Dai risultati dello studio è emerso che nei soggetti aventi un’alta autostima, il supporto sociale percepito si correla con bassi livelli del marker di infiammazione (CRP). Al contrario, nei soggetti aventi una bassa autostima, la ricezione del supporto sociale è associata alla presenza di alti livelli della proteina CRP.

Questi risultati possono essere letti alla luce di studi precedenti (Murray, Rose, Bellavia, Holmes e Kusche, 2002; Marigold et al., 2007) che hanno mostrato come l’autostima è in grado di influenzare la percezione delle esperienze fatte dal soggetto. A tal proposito, è plausibile che un’alta autostima permetta di apprezzare maggiormente gli aiuti da parte di terzi che diventano una risorsa per il soggetto; mentre, una bassa autostima può predisporre l’individuo a percepire come più stressanti gli aiuti, poiché è possibile che l’individuo non si senta degno di ricevere supporto sociale o perché si ha la sensazione di chiedere troppo agli altri, in tal modo quella che dovrebbe rappresentare una risorsa per il soggetto si tramuta in uno stressor.

La Mindfulness nel trattamento dell’ADHD: recenti ricerche e adattamenti italiani

Negli ultimi anni sono state introdotte pratiche di meditazione mindfulness nel trattamento dei bambini con ADHD. La meditazione facilita la riduzione di comportamenti aggressivi, aumenta le capacità di riconoscimento delle emozioni, favorendo una funzionale attivazione emotiva, al fine di ridurre la vulnerabilità verso sintomi psichiatrici

Angela Dassisti

 

La psicologia ha spesso incontrato, tratto e adottato concetti della filosofia e delle arti orientali; la meditazione, in particolare, rappresenta una delle pratiche principali utilizzata in modo trasversale, impiegata in ambiti differenti e molteplici. La pratica mindfulness favorisce le capacità di osservazione dell’individuo, perché possa vivere “un maggior senso di chiarezza e di padronanza sulla sua vita” (Kabat – Zinn, 1990), promuovendo l’abilità di prestare attenzione alle sensazioni del proprio corpo, alle emozioni e ai pensieri nel “qui ed ora”, attraverso l’esercizio sistematico dell’auto-osservazione, con una sospensione intenzionale dell’impulso a definire, valutare e giudicare l’esperienza (Segal, Williams, & Teasdale, 2013).

Tale capacità ridimensiona il naturale “vagabondare della mente” e il rimuginio (Mrazek, Smallwood e Schooler, 2012; Mrazek, 2013; Schooler 2014), attraverso il riorientamento gentile dell’attenzione sull’oggetto di osservazione: il respiro e il proprio corpo. La meditazione sembra agire da fattore protettivo nei confronti di problematiche psicopatologiche (Cloniger, Svrakic e Przybeck, 1993; anche Crescentini et al, 2018), predisponendo la persona ad una maggiore autoregolazione del comportamento, estesa a diversi tipi di trattamenti psicoterapici (Baer, 2003; Segal, Williams, & Teasdale, 2002) e negli ultimi anni anche al disturbo da deficit dell’attenzione e dell’iperattività (ADHD).

Mindfulness: l’uso nel trattamento dell’ADHD

Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione e dell’Iperattività (ADHD) è caratterizzato dalla difficoltà di focalizzare l’attenzione in modo volontario e costante, dalla tendenza all’iperattività motoria e cognitiva e dalla difficoltà nella gestione emotiva. Le persone che soffrono di questo disturbo, mostrano incostanti o scarsi livelli motivazionali e tendono alla disregolazione emotiva, per cui spesso si presentano comorbilità con disturbi del comportamento, d’ansia o di personalità.

La meditazione può rappresentare uno strumento di integrazione terapeutica efficace (Bishop et al., 2004; Brown & Ryan, 2003; Davidson et al., 2003; Lazar et al., 2005; Schwartz & Begley, 2002; Segal et al., 2002) per regolare gli stati di attivazione cognitiva ed emotiva.

Il sistema attentivo, organizzato in diversi network che si attivano ed interagiscono nel corso dell’attività cognitiva, effettua un controllo esecutivo più o meno automatico a seconda del tipo di attività richiesta, della motivazione ad eseguirla e dell’emozione ad essa associata. Le difficoltà attentive presenti nell’ADHD sono variabili e differenti; per cui si osserva una difficoltà nella preparazione del compito (scarsa allerta fasico e bassa motivazione), estrema fatica a mantenere e orientare l’attenzione volontariamente (allerta tonico e attenzione sostenuta di tipo endogeno), aggravata dalle distrazioni esterne (focalizzazione automatica di tipo esogeno) e dalla tendenza a vagare con la mente (distrazione), soprattutto nel corso di un compito automatico o poco interessante (Default Mode Network, DMN).

Mindfulness e meditazione per l’ADHD: su cosa agiscono

Considerando tali caratteristiche (Posner  e Petersen, 1990; 2012; Tang e Posner, 2009, Malinowski, 2013) la meditazione faciliterebbe l’allenamento delle funzioni di focalizzazione, osservazione e consapevolezza della propria distrazione, influendo positivamente sulle abilità di riorientamento e disancoraggio dallo stimolo e sul funzionamento attentivo e cognitivo generale. L’allenamento a riportare la concentrazione in modo gentile e non giudicante su stimoli neutri, come il respiro o i movimenti lenti, infatti, aumenterebbe la consapevolezza di sé, il senso di efficacia e di padroneggiamento della propria mente, riducendo l’impatto di stati mentali particolarmente dolorosi e intensi, oltre che la frequenza di risposte disfunzionali. L’esercizio costante di osservare che la distrazione sopraggiunge ed è possibile riorientare l’attenzione su qualcosa di concreto come il respiro, infatti, aiuta l’individuo a prendere coscienza del funzionamento della propria mente (Klingberg et al. 2005) e distanza critica dai propri pensieri. Questo potrebbe contrastare efficacemente l’abituale deficit di auto-regolazione cognitiva ed emotiva, tipico dell’ADHD e dei disturbi ad esso associati (Biederman, 2004; Kessler et al., 2006).

In un recente studio di neuroimmagine (Tomasino, Campanella e Fabbro, 2016) è stato possibile apprezzare, in seguito ad un training orientato alla mindfulness, una maggiore attivazione del giro orbitale mediale dell’emisfero destro. Tale risultato sembra in linea con i cambiamenti osservati in numerosi studi longitudinali sull’uso della meditazione nell’adulto, che sembrerebbe facilitare modificazioni nell’attivazione della corteccia cingolata, prefrontale e parietale, dell’insula, dello striato e nell’attivazione dell’amigdala (Tang, Holzel e Posner, 2015), strutture coinvolte nell’autoregolazione dell’attenzione, delle emozioni e del rimuginio.

Mindfulness in età evolutiva: evidenze di efficcacia

L’interesse ed i risultati evidenziati dalle varie ricerche hanno esteso l’uso delle pratiche di meditazione agli interventi che riguardano adolescenti e bambini. Protocolli basati sulla mindfulness sono stati adattati ed utilizzati per bambini o per adolescenti con disturbi psicologici e disturbi del comportamento (Burke 2010; Zoogman et al 2015; Kallapiran et al 2015), soprattutto per la riduzione dell’aggressività, dei comportamenti autolesivi (in caso di autismo) e la ruminazione mentale (MYmind, De Bruin et al, 2015; Ridderinkhof e colleghi, 2017), estendendoli anche alla famiglia e agli operatori (Mindfulness-Based Positive Behavior Support, MBPBS, Singh et al, 2014).

Training basati sulla mindfulness della durata di circa 8 settimane, proposti ad adulti (Zylowska e colleghi, 2008), bambini (Van der Oord e colleghi, 2012), adolescenti, estesi anche alla famiglia (Van de Weijer-Bergsma e colleghi 2012; Haydicky et al 2015) convergono verso una comune riduzione della sintomatologia disattentiva ed un miglioramento nel controllo degli impulsi, in favore della qualità delle relazioni.

Meditazione Orientata alla Mindfulness (MOM) nei bambini con ADHD

Negli ultimi anni sono state introdotte pratiche di meditazione mindfulness anche nel trattamento dei bambini con ADHD (M. Thompson and J. Gauntlett-Gilbert del 2008). La meditazione facilita la riduzione di comportamenti aggressivi, aumenta le capacità di riconoscimento delle emozioni, favorendo una funzionale attivazione emotiva, al fine di ridurre la vulnerabilità verso sintomi psichiatrici (Singh et al., 2007). L’impiego di pratiche mindfulness nel lavoro con i bambini di età scolare, inoltre, sembra modificare in modo funzionale i processi di accuratezza ed inibizione della risposta, favorendo lo sviluppo di maggiori competenze di funzioni esecutive (Eva Oberle, 2012).

Uno studio ha coinvolto 47 studenti tra i 9 e i 14 anni  in un training di Mindfulness- Based Stress Reduction (MBSR), per la durata di 8 settimane con esercizi adattati all’età del campione (Van der Oord,  Bögels, and  Peijnenburg 2012). Tutti i partecipanti avevano eseguito prima e dopo il training test sull’attenzione. Ogni settimana seguivano un’ora di training in gruppo ed eseguivano esercizi a casa. Nel follow-up al termine del training tutti i partecipanti avevano ottenuto buoni risultati ed i bambini con ADHD raggiungevano migliori risultati nei test attentivi rispetto ai test iniziali.

Un ultimo protocollo di Meditazione Orientato alla Mindfulness (MOM, Fabbro, Crescentini, 2016), adattato ai bambini, è stato presentato in modo dettagliato nel libro di recente pubblicazione sull’applicazione clinica della Meditazione Orientata alla Mindfulness, (a cura di Crescentini C. e Menghini D., 2019), che comprende anche note ricerche internazionali sull’utilizzo della meditazione. Il protocollo è stato manualizzato per la popolazione in età evolutiva ed utilizzato in due ricerche italiane su campione clinico, con campione di controllo. La prima effettuata in collaborazione con l’Università degli studi di Udine (Fabbro e Crescentini, 2016; Crescentini C,, Capurso V., Furlan S, e Fabbro F. 2016), l’altra presso l’Ospedale Bambino Gesù di Roma (Santonstaso et al, in preparazione).

Al termine delle 8 settimane previste di training i bambini sono stati valutati in un follow up con gli stessi strumenti iniziali per verificare i cambiamenti. In tutte le aree indagate sono stati osservati apprezzabili miglioramenti nel gruppo di bambini che aveva seguito il training orientato alla mindfulness (MOM), ma nessuna variazione significativa nel gruppo di controllo, che aveva seguito un training sulle emozioni (lettura del libro “Sei folletti nel mio cuore”).

Come per i protocolli orientati alla mindfulness presentati ed utilizzati a livello internazionale anche la MOM adattata ai bambini (Fabbro, Crescentini, 2016, Crescentini 2017, Santonastaso et al, in preparazione) sembra fornire incoraggianti risultati, per una futura applicazione affiancata alle terapie cognitive classiche, all’interno di un intervento multimodale per la terapia dell’ADHD.

Mindufulness e meditazione: prospettive future per il trattamento ADHD

La peculiarità e variabilità dei profili ADHD, tuttavia, impongono una selezione sulla base del funzionamento del sistema attentivo e delle criticità caratteristiche del disturbo, con gruppi più numerosi, disponendo di maggiori misurazioni. Suggeriamo per la composizione del campione una valutazione delle singole capacità attentive (focalizzazione, allerta, attenzione sostenuta), delle abilità di inibizione, monitoraggio e pianificazione (funzioni esecutive), oltre a valutazioni dirette su aspetti psicoaffettivi e motivazionali, anche con l’ausilio di questionari proposti a genitori ed insegnanti. Sulla base di misurazioni più specifiche, infatti, si potrebbero creare gruppi con partecipanti con sintomatologia disattentiva e iperattiva/impulsiva prevalenti, con disregolazione emotiva o temperamento provocatorio, in modo da ottenere nei follow up indicazioni più chiare e puntuali. Disporre, inoltre, dei tempi di reazione (test computerizzati), delle misure dell’allerta e dell’attività di focalizzazione sostenuta, prima e dopo il training fornirebbe maggiori informazioni sui network e processi cognitivi in cui la meditazione interviene.

Un altro aspetto da non sottovalutare sarebbe l’organizzazione di training adatti a partecipanti disattenti, iperattivi ed impulsivi. Potrebbero essere, ad esempio più  brevi nella durata, ma con una frequenza maggiore, soprattutto nelle fasi iniziali del lavoro, per offrire subito la possibilità di raggiungere una maggiore esperienza nella meditazione e aumentare l’interesse e la motivazione nei partecipanti ADHD, che tendono ad abbandonare il training e a non eseguire gli homeworks.

Un altro aspetto rilevante, a nostro avviso, sarebbe il coinvolgimento della famiglia negli incontri di meditazione, sia come elemento determinante alla continuità del lavoro per tutta la durata del training, sia come parte integrante dell’intervento terapeutico stesso, a modificazione dell’ambiente di riferimento, per un cambiamento generalizzato e duraturo nel tempo.

Legami generazionali. Strumenti di assessment clinico (2018) di Vittorio Cigoli, Eugenia Scabini, Marialuisa Gennari, Giancarlo Tamanza – Recensione del libro

Legami generazionali illustra alcuni strumenti e tecniche volti a far luce su carattere e qualità dei legami familiari. Ciascuno di essi ha già una lunga storia e una consolidata tradizione di ricerca alle spalle.

 

Si tratta di: il Disegno Congiunto; il Family Life Space; l’Intervista Clinica Generazionale. Il filo rosso che precisa e distingue il volume consiste in una rivisitazione e in un ulteriore perfezionamento degli strumenti proposti, che trovano il loro principale utilizzo nel contesto dell’assessment clinico.

Accanto a questo aspetto, per così dire “obiettivo”, balza all’occhio un elemento di natura maggiormente soggettiva, emotiva e implicante, che è l’instancabile passione che gli autori testimoniano attraverso la loro costante riflessione. Una riflessione, o meglio un pensare per andirivieni, come raccomandava Edgar Morin, che ha attraversato interi decenni: del Disegno congiunto Vittorio Cigoli, allora con Umberto Galimberti e Marina Mombelli aveva già scritto nel 1988; del Family Life Space Giancarlo Tamanza con Carlo Gozzoli aveva scritto nel 1998; all’intervista Clinica Generazionale Cigoli e Tamanza avevano dedicato nel 2009, dopo anni di lavoro, un’ampia pubblicazione.

Legami Generazionali è dunque il frutto maturo di un lungo percorso di riflessione e di ricerca clinica, la cui matrice di pensiero è costituita dal Modello Relazionale Simbolico.

Legami generazionali: il modello di riferimento

Il libro si apre con un denso capitolo in cui Vittorio Cigoli e Eugenia Scabini illustrano il Modello Relazionale Simbolico, nelle sue origini e nelle sue specificità.

Il modello risale ai primi anni novanta del secolo scorso, ed ha alla sua base sia la ricerca sociale sulla famiglia sia l’interesse clinico per i legami familiari.

A proposito della famiglia e dei legami, il modello evidenzia che le azioni e i sentimenti di un membro familiare influenzano gli altri membri, e che i parenti partecipano gli uni alla vita degli altri e sono parte di un insieme a cui viene dato il nome di corpo familiare (Cigoli, 1992). Aspetto principale e distintivo del familiare consiste nel suo carattere generativo e generazionale e di rete di parentela. Le sfide a cui la relazione familiare espone la persona sono di conseguenza viste dagli autori: nell’essere generati; nell’essere in trasformazione; nell’essere di passaggio tra le generazioni. Il familiare è così all’origine della persona quale “essere in relazione” e la visione clinica sottesa al modello relazionale simbolico è certamente relazionale.

Si tratta tuttavia di una visione complessa, attenta all’interazione e all’azione ma nondimeno ai sentimenti e alle intenzioni soggettive, che attinge sia ad autori di ambito sistemico, sia di ambito psicoanalitico. Il modello relazionale simbolico si discosta però dagli aspetti riduzionisti presenti in entrambi gli ambiti: non si accontenta del come ma indaga anche il perché (a differenza di un certo purismo sistemico), né teme di cimentarsi con aspetti tipicamente etici della vita umana, quali il carattere donativo dello scambio, e l’esigenza di fiducia, speranza e giustizia nelle relazioni (a differenza della psicoanalisi tradizionale e del pensiero freudiano).

La matrice simbolica infatti rivendica a chiare lettere alla propria base le qualità sia affettive che etiche che caratterizzano le relazioni familiari. L’affetto è per sua natura relazionale, qualifica la relazione, la provoca; mentre l’ethos la regola.

Sono le qualità etico-affettive che costituiscono la struttura portante della relazione di coppia (il coniugale); della relazione genitori-figli (il genitoriale); della relazione tra le stirpi (il generazionale).

Erik Erikson (1982) definiva la cura come l’interessamento per ciò che è stato generato per amore, per necessità o per caso e che supera l’ambivalenza in nome di un obbligo irrevocabile.

E’ questo particolare impegno a dar conto dell’umano, a prendersene cura, a rispettarne la particolare complessità, che è fatta di progetti, valori, responsabilità, eticità dello scambio, oltre che di sentimenti e di azioni, che orienta gli strumenti di assessment descritti nel volume.

Legami generazionali: gli strumenti

Gli strumenti proposti sono tecniche di assessment terapeutico, e rappresentano uno spazio-tempo intermedio tra l’esaminatore e l’esaminato, che li coinvolge entrambi. Costituiscono forme creative di manipolazione del contesto interattivo interpersonale che permette di considerare sia l’azione di ciascun componente la famiglia, sia quella di diadi, di triangoli, come pure dell’insieme complessivo.

Costante in tutte le tecniche descritte è l’attenzione a dar conto sia del livello individuale specifico sia del livello familiare congiunto e a illuminarne le connessioni e le influenze reciproche.

Comune è anche una lettura multidimensionale dei dati, come pure l’integrazione di analisi tipicamente cliniche e qualitative con metodi quantitativi. In particolare.

Per il Disegno Congiunto della Famiglia viene proposta una nuova griglia di analisi con due livelli di osservazione. Una riferisce al prodotto, ovvero al disegno fatto in quanto tale, e a ciò che ciascun membro ha fatto. L’altra riguarda il processo, ossia ciò che accade durante la realizzazione del disegno, e l’attenzione nei confronti dell’interazione (diadi, triadi, insieme complessivo). Le istruzioni, la consegna, l’analisi sono corredate da esempi clinici concreti, che rendono la descrizione dello strumento particolarmente puntuale e ne evidenziano la ricchezza delle implicazioni.

Da sottolineare oltre alla dimensione diagnostica e valutativa è anche l’aspetto terapeutico e prognostico del disegno congiunto.

Il clinico può infatti disporre all’esito dell’ incontro con la famiglia di una rappresentazione chiara e fondata delle relazioni familiari e della loro funzionalità o problematicità. Può anche ipotizzare rischi evolutivi diversi, e scelte di lavoro terapeutico diversamente orientate. La famiglia da parte sua è aiutata a comprendere oltre agli aspetti disfunzionali gli elementi di risorsa di cui dispone, e gli obiettivi di cambiamento da perseguire.

Per il Family Life Space, strumento grafico-simbolico particolarmente efficace in vista di un assessment relazionale della famiglia, viene proposta una nuova procedura di analisi metrica. Si tratta di un’integrazione che non intende sostituire l’analisi qualitativa tipica di questa tecnica, ma cercare di renderne più ricco e più controllabile l’utilizzo. Le informazioni grafiche e simboliche date dal FLS sono infatti tradotte anche in valori metrici, consentendo così di applicare ai dati raccolti algoritmi geometrici e statistici.

La spiegazione delle modalità di somministrazione e di analisi anche in questo caso è seguita da esempi clinici, che permettono di chiarire l’utilizzo e di comprendere le potenzialità dello strumento.

Appare di particolare interesse, e soprattutto di rilevante novità rispetto ad altri strumenti, la possibilità di applicare il FLS grazie alla nuova procedura di analisi metrica in studi estensivi sulle relazioni familiari, rispettando la natura specifica dell’oggetto indagato. Il FLS viene infatti a integrare in modo coerente elementi qualitativi e quantitativi offrendo tuttavia una produzione di informazioni originariamente relazionali, il che è assai raro in altre procedure, dove la misura complessiva di insieme viene ricostruita a posteriori attraverso manipolazioni statistiche.

L’Intervista Clinica Generazionale (ICG) è un’intervista strutturata e prevede un sistema preciso di codifica. Viene utilizzata sia nella ricerca clinica sulle relazioni familiari sia nelle situazioni di assessment relazionale-generazionale. Anche in questo caso dunque il suo utilizzo non è quello di un test, bensì di uno strumento di assessment terapeutico, volto a costruire un legame tra la coppia genitoriale e il clinico che la somministra e a favorire un percorso di comprensione e di cambiamento. La variante proposta in Legami generazionali comporta alcune modifiche rispetto al testo uscito nel 2009 ed è corredata di nuovi esempi clinici. La costruzione della ICG ha richiesto anni di lavoro ed ha visto impegnate numerose équipes cliniche e di ricerca psicosociale. In confronto ad altre interviste familiari la ICG è l’unica a valersi di una unità di codifica sia individuale che di coppia ed è l’unica a disporre di un sistema di misurazione combinato, sia qualitativo che quantitativo. Prevede inoltre un atteggiamento dell’intervistatore volto a favorire apertura e coinvolgimento nella coppia a cui viene somministrata e di conseguenza una produzione discorsiva ricca, non meccanicamente segnata da una sequenza rigida di domande e risposte.

Nella sua completezza l’ICG si compone di 23 aperture dialogiche e di due serie di stimoli grafico- pittorici (quadri d’autore), suddivisi in tre sezioni: la relazione con le origini, la relazione di coppia, il passaggio generazionale. La prima parte dell’intervista (quella relativa alle origini) è rivolta a ciascun partner sempre in presenza dell’altro; la seconda e la terza parte (coppia e passaggio) sono rivolte congiuntamente alla coppia. Il sistema di codifica consente di evidenziare forme diverse dei legami familiari (fecondo, critico, fallimentare) rispetto a ciascuno dei tre assi considerati, ovvero origini, coppia e generatività.

Anche le modalità interattive con cui la coppia affronta il compito costituiscono un’informazione importante sia in termini diagnostici che prognostici.

L’esempio clinico riportato nel testo riferisce a una situazione di consulenza tecnica di ufficio e mostra l’utilità dello strumento anche in un contesto tradizionalmente valutativo. La ICG permette infatti alla coppia di comprendere come la propria crisi sia un problema della relazione e non solo delle singole persone, favorendo uno sguardo relazionale inedito, che aiuta i partners a contenere la contrapposizione e le proiezioni reciproche.

Legami generazionali: molteplici usi del testo

Tutti gli strumenti proposti in Legami Generazionali mostrano quindi, in coerenza con il Modello Relazionale Simbolico che li ispira, come sia possibile declinare in senso collaborativo l’assessment clinico e la stessa valutazione peritale disposta dal giudice, che viene tipicamente vissuta come coatta. Il clinico, da parte sua, può godere del supporto di strumenti rigorosi, e tuttavia profondamenti etici, che fanno della condivisione, della partecipazione alla conoscenza e della presa di decisione responsabile inerente i legami, le basi dell’intervento clinico.

Si tratta di un libro ricco e senz’altro utile, che potrà essere un riferimento per gli studenti ma potrà piacere anche ai clinici esperti che lavorano con le famiglie e soprattutto agli psicologi che si occupano di valutazione della genitorialità, nell’ambito della consulenza tecnica o nel contesto dei servizi.

Al tema della valutazione, spesso vissuto male dai clinici a seguito della mancanza di domanda spontanea che lo caratterizza, Legami generazionali offre strumenti tecnici rigorosi e utili, ma offre a mio avviso anche una consapevolezza  fondamentale: l’intervento valutativo costituisce un fattore di cambiamento; l’intervento valutativo ha rilevanza terapeutica; l’intervento valutativo implica profondamente chi lo attua, e lo impegna a prendersi cura eticamente, oltre che professionalmente, della famiglia che incontra.

Storytelling e disagio mentale, la rappresentazione della follia nell’arte e nella letteratura – Podcast

È partito il 2 maggio il corso Storytelling e disagio mentale presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino. Il corso, che si concluderà il 7 giugno,  è tenuto da Alvise Sforza Tarabochia, docente e ricercatore in studi culturali italiani e direttore del dipartimento di lingue moderne alla University of Kent (Canterbury, GB), visiting professor presso l’ateneo torinese.

Il corso, aperto a tutti gli studenti, presenta la storia della rappresentazione dei disturbi mentali nelle arti visive, in letteratura, nelle scienze e nella cultura popolare. Si concentra in particolare sui principali topoi letterari e visivi che hanno governato la rappresentazione della follia, per esempio la fisiognomica, l’estrazione della pietra della follia, la marotte del buffone, ecc. Le lezioni si concentreranno inoltre su casi paradigmatici, come il rapporto fra psicoanalisi e letteratura, la rappresentazione del manicomio come luogo di segregazione e cura, i movimenti dell’’antipsichiatria’ e infine l’emergere di un discorso in prima persona della follia, attraverso testimonianze dirette e l’uso terapeutico dello storytelling.

Il corso nasce da una semplice considerazione: dai suoi albori l’umanità ha sempre parlato e rappresentato la follia, in tutte le sue forme e declinazioni. Questo ha prodotto dei grandi costrutti narrativi che sono sopravvissuti fino ai giorni nostri, la cui comprensione ci permette di chiarire i pregiudizi e gli stereotipi che ancora oggi affliggono la percezione del disturbo mentale.


Corpo, Immaginazione e Cambiamento. Terapia Metacognitiva Interpersonale (2019): quella nota, incomprensibile idea dell’integrazione mente-corpo – Recensione del libro

Il libro Corpo, Immaginazione e Cambiamento descrive il razionale e le modalità di utilizzo delle tecniche immaginative, corporee e drammaturgiche nel corso di una psicoterapia condotta secondo l’approccio della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI).

 

Per chi, come chi scrive, è nato professionalmente nuotando tra le rive del Costruttivismo Radicale e della Terza Onda della CBT, quel costrutto apparentemente univoco ed ostinatamente ripetuto di mente-corpo è parte del lessico quotidiano. Se ad un congresso di Costruttivismo Radicale, Cibernetica (o di altri ambiti con nomi esotici quali Enactivism, Autopoiesis, etc.) si rischia un vero e proprio linciaggio nell’utilizzare termini dualistici, la Terza Onda mostra una maggiore indulgenza che fa coesistere nei medesimi rendez-vous posizioni che spaziano da un comportamentismo duro e puro in cui relazione è una parolaccia a monaci zen invitati a simposi sul ruolo del silenzio in psicoterapia.

La cosa che lascia spesso basito chi cammina tra questi variopinti raduni è la ricorrente assenza di un trait d’union tra rigorose dissertazioni sullo sviluppo di un’epistemologia monistica seppur in assenza di alcuna tecnica coerente e l’affollarsi di pratiche corporee, immaginative ed esperienziali senza il ben che minimo razionale teorico sul funzionamento del paziente!

Tutto questa lunga digressione per introdurre la mia decisione di recensire il nuovo libro di Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore (2019): Corpo, Immaginazione e Cambiamento. Il primo e più rilevante giudizio che posso formulare su questo testo è infatti l’offrire al lettore italiano (e prossimamente anglofono) un tentativo coerente, rigoroso e dettagliatissimo di come il cambiamento terapeutico non possa non procedere lungo la via dell’integrazione mente-corpo. Che detta così sembra un’ovvia banalità, ma che poi quanto uno si cimenta… le cose sfuggono sempre di mano! Perché è facile parlare di mente-corpo, altra cosa è avere una concettualizzazione psicopatologica adeguata e delle tecniche con questa coerenti. L’escamotage che va per la maggiore negli ultimi anni è quello di una dimensione transdiagnostica che venga appunto basata sull’integrazione mente-corpo e chiuderla lì. E se consideriamo come il gruppo del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma avesse sin dalla sua fondazione già pronto un fattore generale di psicopatologia (i.e. metacognizione; Dimaggio & Lysaker, 2010), appare ancora più apprezzabile lo sforzo di andar oltre e dar seguito a quel presupposto di integrazione di cui sopra.

Cosa ci racconta il libro Corpo, Immaginazione e Cambiamento

Ma procediamo con ordine. Rispetto alla prima formulazione manualizzata della TMI (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013) possiamo intuire un lungo ed accurato lavoro di affinamento che è proceduto in parallelo alla pubblicazione di studi su casi singoli e randomizzati (Gordon-King, Schweitzer & Dimaggio, 2018; Popolo et al., 2019). Probabilmente alla incrementata chiarezza e rigore espositivo ha contribuito anche il lavoro di strutturazione della formazione alla TMI ed i molti corsi condotti.

La TMI 2.0 guida infatti il lettore a capire come lo schema interpersonale maladattivo porti allo sviluppo di schemi di coping e quindi al mantenimento dei sintomi. Al contempo la descrizione della procedura decisionale per le due macro-sezioni della formulazione condivisa del caso e della promozione del cambiamento non solo è stata approfondita, ma soprattutto viene declinata in oltre 450 pagine di tecniche, interventi e concettualizzazioni basate su una costante integrazione mente-corpo.

Per la gioia dei futuri lettori anglosassoni (e non solo) il libro Corpo, Immaginazione e Cambiamento include anche un capitolo introduttivo sulla descrizione del razionale e delle modalità di conduzione delle tecniche immaginative, corporee e drammaturgiche ed uno conclusivo sulle sequenze di tecniche da usare nel corso di una psicoterapia.

In molti libri di psicoterapia troviamo le pratiche esperienziali o come una sorta di addenda che gli autori concedono alle mode contemporanee o come una procedura di extrema ratio quando tutto il resto non ha portato ai risultati attesi. Ed al contempo molti approcci primariamente esperienziali si chiudono spesso in se stessi credendosi la panacea di ogni male. Ecco il libro scritto da Dimaggio e colleghi presume o meglio incarna pienamente l’idea di un’integrazione tra mente e corpo. Per cui se il monitoraggio del paziente già in prima seduta appare limitato e limitante per quell’esperienza condivisa chiamata terapia, il corpo e l’immaginazione possono dar subito un valido contributo.

Leggendo ed ascoltando gli autori di Corpo, Immaginazione e Cambiamento emerge come la TMI 2.0 sia nata da continui tentativi, prove ed errori discussi e condivisi all’interno dell’équipe, con esperti di altri approcci ed orientamenti e con i pazienti stessi. Appare chiaro come la revisione della procedura sia il risultato di un processo bottom-up (simile a quello proposto ai pazienti) in cui l’ispirazione sta nell’esperienza terapeutica vissuta piuttosto che nella riflessione teorica elucubrata.

Verrebbe da dire che l’ideale di paziente a conclusione di una terapia come descritto dagli autori sia anche l’ideale di psicoterapeuta:

una persona che preferisce incuriosirsi all’esperienza vissuta invece che rimanere intrappolata in scenari mentali; che si rassicura il giusto e lascia ampio spazio all’esplorazione (Dimaggio et al., 2019, p. 442).

Pertanto, da lettore, mi auguro che questo non sia il manuale definitivo, quanto piuttosto un ottimo punto di partenza per future esperienze.

Paura e rabbia ridurrebbero il senso di agency

La minore percezione di responsabilità e di controllo delle proprie azioni, quando si sperimentano emozioni a valenza negativa, è una questione chiave nel diritto penale.

 

Ad esempio, in casi particolari, alcuni sistemi legislativi possono considerare la perdita dell’autocontrollo come un attenuante per le accuse di omicidio colposo.

A tal proposito, il presente studio ha dimostrato che stati emotivi a valenza negativa (rabbia, paura) diminuiscono effettivamente il senso di agency nei soggetti. Il senso di agency si riferisce alla sensazione soggettiva di controllare le proprie azioni. Dunque, la sua riduzione, oltre ad essere legata ad una minore percezione di controllo, è connessa ad una minor percezione del senso di responsabilità per l’agito commesso.

Paura e rabbia nel paradigma del legame intenzionale

Lo studio si è avvalso del paradigma del legame intenzionale per poter misurare il senso di agency dei partecipanti. Questo paradigma è in grado di rilevare il senso di controllo posseduto sulle proprie azioni, valutando la percezione della vicinanza temporale che si ha fra un’azione commessa e le sue conseguenze. Maggiore è la percezione della vicinanza temporale tra azione e conseguenza, minore è il controllo che si percepisce sulle proprie azioni. Al contrario, maggiore è la percezione della lontananza temporale fra azione e conseguenza, maggiore è il controllo percepito sulle proprie azioni.

Nella procedura standard che mostra questo effetto, ai partecipanti viene chiesto di pigiare un pulsante della tastiera, mentre si sta fissando un orologio avente una lancetta ruotante. Successivamente, viene chiesto il tempo indicato dalla lancetta dell’orologio nel momento in cui è stato premuto il pulsante.

In alcuni casi, uno stimolo uditivo si verifica dopo la pressione del tasto, in altri casi non si verifica alcun tipo di suono. I risultati mostrano che nelle prove dove alla pressione del pulsante segue uno stimolo rumoroso, i partecipanti tendono a percepire la pressione del tasto più tardi di quanto non facessero realmente e più tardi delle prove silenziose. Dunque, registrando un avvicinamento nel tempo dell’azione compiuta al rumore avvertito, indicativo di un minor controllo percepito.

Paura e rabbia: lo studio sulle ripercussioni in ambito legale

Nello studio qui presentato, al paradigma del legame intenzionale è stata applicata una variante. Sono stati eseguiti tre esperimenti in laboratorio, nei primi due al compito del legame intenzionale veniva associata una procedura di induzione della paura (stimolo doloroso dopo la pressione del pulsante) e nel terzo veniva associata una procedura di induzione della rabbia (perdita di denaro e frustrazione dopo la pressione del pulsante). I ricercatori hanno scoperto che nel momento in cui veniva indotto uno stimolo emotivo di paura o di rabbia, il legame intenzionale fra azione e conseguenza risultava ridotto, a conferma del minor controllo percepito sulle proprie azioni quando si è in preda a stati emotivi a valenza negativa.

In conclusione, se in alcuni sistemi legislativi la perdita di autocontrollo può fungere da attenuante della pena e la ricerca scientifica sembra sostenere tale tesi, d’altra parte non si può esulare da alcune questione etiche e legali più ampie. Difatti, la riduzione del senso di agency non è l’equivalente di una totale mancanza di responsabilità nella messa in atto delle proprie azioni.

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