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Come si curano paura e pregiudizio

La conflittualità fondata sul pregiudizio e la stereotipizzazione dell’altro del gruppo estraneo è difficilmente affrontabile ed educabile con il semplice contatto o frequentazione tra gruppi, ma occorre che in qualche modo i gruppi conflittuali siano aiutati a collaborare su finalità sovraordinate. Perché un pregiudizio si sgonfi ci vuole molto tempo e soprattutto sono necessari tolleranza e integrazione.

 

Ci sono novità nelle nostre culture che, impensabili e irricevibili solo pochi anni fa, diventano non solo compatibili, ma anche auspicate, nei nostri stili di vita. E questo accade in ogni direzione: civile e costruttiva come incivile e disumanizzante.

Una sequenza di mutamenti socio-culturali è stata formalizzata in quella che viene definita “Finestra di Overton”, dal nome del suo inventore: un’idea, una consuetudine, in partenza socialmente ritenuta inaccettabile, impensabile, nel giro di pochi anni diventa prima un’idea radicale, poi accettabile e sensata, poi diffusa, infine legale e auspicata. Se pensiamo alla direzione civile-costruttiva di questa sequenza, basta guardare al mutato atteggiamento verso diritti sociali e civili che a noi appaiono oggi come scontati e acquisiti come il suffragio universale, il diritto allo studio delle donne, le leggi su divorzio e aborto, le relative giurisdizioni sull’affido condiviso, e così via. Tutte idee assolutamente impensabili e inaccettabili solo pochi anni fa.

Oppure possiamo osservare il cambiamento del clima culturale verso gruppi etnici o religiosi o connotati da orientamento o identità sessuale, e quindi osservare nell’arco di alcuni decenni ridursi i relativi fenomeni di apartheid o sentimenti xenofobi verso comunità straniere e il relativo cambiamento legislativo per la parità di diritti. Oppure verso l’omosessualità o la transessualità e i diritti di queste comunità. C’è dunque da essere orgogliosi se ad esempio oggi, in Italia, un ragazzino gay di 15 anni può essere perfettamente in grado di fare coming out sentendosi più che sereno (come ho potuto personalmente constatare in diverse occasioni).

Se pensiamo invece alla direzione opposta, quella incivile-disumanizzante, degli stessi mutamenti, purtroppo assistiamo nella storia, ma anche oggi, a tendenze regressive di inaudita portata. Basta ricordare il noto fenomeno storico della nazificazione della Germania, dove in capo a soli 10 anni, negli anni ’30, un intero popolo riuscì a disumanizzare vasti gruppi sociali fino alla follia della pulizia etnica. O quanto accaduto in Cambogia, in ancora meno tempo, tra il 1975 e il 1979, con il genocidio di una parte enorme della stessa popolazione cambogiana per ragioni politiche. Se invece vogliamo fare un altro esempio di mutamento di mentalità e opinione più vicino alla nostra epoca, pensiamo allo sdoganamento delle varie nuove dipendenze e ludopatie, socialmente accettate e impensabili solo pochissimi anni fa. Insomma spostare il manubrio della storia da una parte o dall’altra non è un caso, ma una precisa scelta educativa, politica e culturale.

Superare il pregiudizio è possibile!

Vi racconto ora un divertente siparietto che ha a che fare con quanto sto dicendo. Sabato scorso, mi ero dato un improbabile appuntamento con una persona amica durante il 25° Gay Pride. Decine di migliaia di persone festanti, musica, balli, slogan, striscioni, paillettes, colori. Una bellissima festa.

Al margine del corteo, che attraversava il quartiere multietnico dell’Esquilino, molte persone di etnie asiatiche o africane che osservavano interdette, qualcuno riprendeva divertito con il telefonino quel fiume carnevalesco ed eccessivo. Mi sono chiesto chissà come vivono questo shock culturale rispetto alle loro tradizioni. Magari nei loro paesi dichiararsi gay potrebbe essere punito con la galera o addirittura con la pena di morte, ed invece qui da noi tutto appare consentito. Chissà quale potrebbe essere la loro reazione a questo gap apparentemente incolmabile: forse qualcuno penserà che l’occidente è irrimediabilmente corrotto e in preda alle forze del male, forse qualcun altro, magari quelli che tra di loro sorridevano di più, penseranno che tutta questa libertà è un valore aggiunto al quale non rinunciano neanche loro. Chissà poi quale potrebbe essere la scena tra 2-3 generazioni e se anche i loro figli o nipoti un bel giorno potrebbero partecipare al gay pride.

Ma mentre ero assorto in questi pensieri e contemporaneamente scandagliavo nella folla alla ricerca della persona con la quale avevo il mio improbabile appuntamento, mi sento chiamare con tono enfatico: “professore!”. Mi giro e riconosco una persona conosciuta da poco sul lavoro. Lui vestito con coroncina e sciarpa arcobaleno, mi saluta con calore e affetto. Io ricambio il saluto con cordialità, ma con minore entusiasmo.

Immediatamente penso: solo 20 anni fa un fatto del genere mi avrebbe generato un po’ di ansie: partecipare al gay pride non è scelta neutrale ed essere riconosciuti ancor meno! Specie poi se non sei gay. Oggi un episodio del genere mi lascia del tutto indifferente e tollerare l’equivoco e l’eventuale gossip alle mie spalle circa un mio indefinibile orientamento sessuale non solo non mi genera alcuna ansia, ma al contrario mi diverte molto. Come è cambiata in me e nella società la percezione dell’omosessualità e il mio rapporto con essa. E questo anche grazie a manifestazioni come il gay pride. 25 anni di gay pride e 60 anni di movimenti gay sono la vera causa dell’assenza della mia ansia omofoba. Ma vediamo perché.

In psicologia sociale numerosi studi sulla natura del pregiudizio e della discriminazione dimostrano che alcune tendenze elementari a categorizzare l’estraneo della prima infanzia si consolidano in vero e proprio pregiudizio verso gruppi sociali estranei al proprio solo dopo i 10 anni (in Hogg e Vaughan, Psicologia Sociale, 2016, pagg. 215-18 riportano numerose ricerche a riguardo). Come a dire che il ruolo giocato dall’educazione, dalla cultura, dall’esempio familiare e dei propri ambienti più prossimi, e persino dalle proprie fantasie, è decisivo nella creazione del pregiudizio sociale. Ma ciò che la cultura aggroviglia, la cultura può sbrogliare, ma a determinate condizioni.

Infatti, molte ricerche confermano che la conflittualità fondata sul pregiudizio e la stereotipizzazione dell’altro del gruppo estraneo è difficilmente affrontabile ed educabile con il semplice contatto o frequentazione tra gruppi, ma occorre che in qualche modo i gruppi conflittuali siano aiutati a collaborare su finalità sovraordinate (in Hogg e Vaughan, Psicologia Sociale, 2016, pag. 234. In particolare le ricerche di Stephan e Stephan; Pettigrew; Sherif; e lo stesso Gordon Allport). Perché un pregiudizio si sgonfi ci vuole molto tempo e soprattutto ci vogliono perciò alcune precise condizioni di partenza senza le quali ogni tolleranza e integrazione appare impossibile: l’interazione tra gruppi rivali deve essere non casuale, prolungata, cooperativa, finalizzata a scopi comuni, dentro una cornice di senso istituzionalizzata, tra gruppi sociali omogenei, gli obiettivi sovraordinati comuni devono avere successo e non fallire.

In una ricerca del 2005, Gabriele Oettingen e collaboratori (Turning Fantasies About Positive and Negative Futures into Self-Improvement Goals, in Motivation And Emotion 29/4 236-266) dimostra come sia anche possibile modificare le fantasie negative xenofobe sui gruppi di immigrati aumentando tolleranza e integrazione purché ci si ponga obiettivi che siano percepiti come realistici e calibrati. Insomma, il ruolo dell’educazione e dell’ambiente culturale e politico pragmaticamente operativo nelle classi scolastiche, nei condomini, nei comitati di quartiere e in tutti gli spazi pubblici è ritenuto assolutamente centrale nel portare una naturale tendenza a rispondere emotivamente con paure e diffidenze all’estraneo, all’alterità minacciosa, verso una più realistica ed empatica convivenza tra esseri umani.

Mi domando cosa porti nelle nostre culture questa volontà all’integrazione, scientificamente supportata, seppure di difficile realizzazione, a convertirsi nel suo opposto. Chi specula sulle nostre paure e perché? Questa è la vera domanda.

Che cosa comporta crescere in un ambiente ostile o vivere condizioni stressanti e traumatiche in infanzia?

Fare esperienza di un ambiente invalidante, come crescere in condizioni di povertà, vivere episodi traumatici, un brutto incidente o una violenza sessuale, etc. può avere un impatto notevole sia sullo sviluppo del cervello sia sul comportamento del bambino o del giovane adulto.

 

Condizioni socioeconomiche precarie ed esperienze di eventi stressanti o traumatiche fanno parte di un ambiente invalidante. Numerosi studi hanno inoltre dimostrato come questi fattori ambientali siano implicati nello sviluppo di deficit comportamentali, anormalità nello sviluppo del cervello ed infine di una maturità accelerata. Tuttavia, il contributo relativo a questi fattori rimane ancora poco studiato.

Un recente studio, condotto dalla Perelman School of Medicine presso la University of Pennsylvania e il Children’s Hospital of Philadelphia (CHOP) through the Lifespan Brain Institute (LiBI), e pubblicato su JAMA Psychiatry, ha cercato dunque di indagare l’associazione tra un ambiente invalidante, come ad esempio una condizione socioeconomica precaria, eventi stressanti o traumatici, e la psicopatologia, i disturbi neurocognitivi e i parametri del cervello durante la pubertà.

Lo studio

Il lasso temporale, considerato in questa ricerca, è stato quello tra l’infanzia e la prima età adulta. I partecipanti allo studio sono stati reclutati dai registri pediatrici del Children’s Hospital di Philadelphia, avevano un’età compresa tra 8-21 anni, presentavano una salute stabile e un buon livello nella fluidità dell’inglese. Il campione era composto da 9498 partecipanti, di cui 5298 (55.8%) di origine europea, 3124 (32.9%) di origine africana ed infine i restanti 1076 (11.4%) di altra origine; inoltre i partecipanti appartenevano a condizioni socioeconomiche diverse tra di loro.

Si è deciso di selezionare dal campione originale, in maniera casuale, un gruppo (N=1601) che è stato sottoposto al neuroimaging multimodale (MRI). I dati sono stati raccolti da novembre 2009 fino a dicembre 2011, successivamente sono stati analizzati tra febbraio e novembre 2018.

I risultati hanno evidenziato una correlazione significativa tra le condizioni socioeconomiche precarie, le esperienze di eventi stressanti o traumatici e i sintomi psichiatrici, quali ansia, depressione, fobie, comportamenti esternalizzanti e legati a disturbi psicotici. I ricercatori hanno osservato come questa correlazione riguardasse di più la popolazione femminile rispetto a quella maschile.

È emerso anche che le due condizioni fossero legate a deficit cognitivi, quali astrazione, flessibilità mentale, attenzione e working memory.

Grazie alle immagini di neuroimaging, i ricercatori hanno inoltre riscontrato differenze significative nelle regioni limbiche e frontoparietali del cervello.

Infine, si è riscontrato che i bambini che vivevano in povertà o avevano vissuto esperienze traumatiche o stressanti maturavano più precocemente, sia a livello cerebrale che a livello fisico, poiché presentavano caratteristiche appartenenti ad un’età più adulta.

In conclusione

È dunque importante sottolineare come sia necessario identificare il prima possibile e prevenire quelle condizioni ambientali avverse che si associano al neurosviluppo.

Stop hating? Start dating! – Siti di incontri online, aumento dei matrimoni misti e possibili effetti sull’inclusione sociale

Se fino a pochi anni fa iniziare una storia con persone distanti anche migliaia di chilomentri era impensabile, oggi gli incontri online sono il secondo modo più comune per le coppie eterosessuali di incontrarsi. Per le coppie omosessuali, è di gran lunga il più popolare.

 

Il mito della metà di Aristofane che compare nel Simposio di Platone ci spiega da dove muove la nostra ricerca di un altro che ci completi:

Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà…

Fortunatamente oggi ci pensano siti e app come Meetic e Tinder a facilitare la vita di noi poveri esseri umani, imperfetti dopo la vendetta di Zeus.

Se fino a pochi anni fa iniziare una storia con persone distanti anche migliaia di chilomentri era impensabile, oggi gli incontri online sono il secondo modo più comune per le coppie eterosessuali di incontrarsi. Per le coppie omosessuali, è di gran lunga il più popolare.

Dall’apripista Match.com del 1995, fino ai più recenti Tinder e Meetic, il panorama dei siti d’incontro vanta un’ampia scelta. Oggi oltre un terzo dei matrimoni ha inizio con una storia nata online.

Siti di incontri online e cambiamenti sociali

Naturalmente, a livello più individuale, l’utilizzo di questi siti di incontri online ha modificato i comportamenti legati all’approccio con l’altro ed oggi emergono le prime prove a riguardo. Ma a livello sociale, cosa sta cambiando?

Un articolo apparso qualche tempo fa su MIT Technology Review “First Evidence That Online Dating Is Changing the Nature of Society”, che fa riferimento allo studio di Josue Ortega e Philipp Hergovich, ricercatori presso l’Università di Vienna, ce lo spiega.

Per più di 50 anni sono state studiate le reti che collegano le persone tra loro. Tali reti sono fatte di nodi più resistenti (legami forti) tra un gruppo relativamente piccolo di persone più vicine e nodi più deboli che legano tra loro persone più distanti. Questi ultimi hanno un’importante funzione sociale: creano un ponte tra il gruppo di nostri amici più intimi e altri gruppi di persone, permettendo così l’espandersi delle connessioni. In passato sono stati proprio questi legami a giocare un ruolo chiave nel conoscere e incontrare nuovi partner, il famoso “Ho un collega da presentarti” o “Una mia amica vorrebbe conoscerti”..

L’aumentare degli incontri online che ruolo gioca in tutto questo assetto? Le persone che si incontrano su internet sono tra loro completamente estranee e, conoscendosi in questo modo, creano reti e collegamenti sociali prima inesistenti.

Ortega e Hergovich a questo punto si chiedono come ciò impatti anche sulla diversità etnica della società, prendendo come riferimento il numero di matrimoni misti, oggi considerato uno dei maggiori indicatori di contatto/distanza sociale.

I ricercatori hanno così creato un modello per simulare cosa accade quando all’interno delle reti sociali vengono introdotti dei collegamenti extra. Il modello si compone di uomini e donne di etnie diverse distribuiti casualmente, ognuno dei quali intende sposare una persona dell’altro sesso, ma solo se ha con questa una connessione. Questo ovviamente porta a una società con un tasso bassissimo di matrimoni misti.

Ma, se al loro modello, i ricercatori aggiungono collegamenti casuali (come quelli che si creano attraverso i siti di incontri online) tra persone di diversi gruppi etnici, il livello dei matrimoni misti aumenta drasticamente.

Se tali risultati ad una prima lettura possono sembrar scontati, ad una riflessione più profonda ci spingono a chiederci quale sia il ruolo dei siti di incontri online nel favorire l’integrazione tra persone di differente etnia (non è affatto scontato, infatti, che gli individui interessati a fare nuove conoscenze online, inizino una relazione con una persona di etnia diversa).

Il modello suggerisce quindi come l’integrazione tra diverse etnie potrebbe diventare di fatto più realizzabile grazie al diffondersi dei siti di appuntamenti online.

E tale intuizione trova conferma nella realtà: la percentuale di matrimoni misti infatti è aumentata vertiginosamente nel 1995 (poco dopo la creazione di Match.com), negli anni 2000 (anni di diffusione dei siti di incontro) fino a un nuovo picco nel 2014 (poco dopo la nascita di Tinder).

Ovviamente, questi dati non provano che siano i siti di incontri online a causare l’aumento dei matrimoni misti, ma la correlazione statistica ottenuta è altamente significativa.

Che dire? I siti di incontri online dunque non solo sarebbero utili nel recuperare l’altra metà che ci renderebbe perfetti, ma potrebbero dar vita anche a una società multi-etnica, riducendo episodi di discriminazione e intolleranza. Un doppio scacco matto insomma: a Zeus e ai tanti xenofobi che, dividendo il mondo in perfetti e non, si credono ahimé simili a Zeus!

I mondi dei sordi

La sordità è una condizione che può essere un’importante fonte di arricchimento all’interno della nostra società, perché ciò avvenga è però necessario che sia le persone sorde sia le persone udenti stiano attenti ad evitare l’isolamento così che entrambe le culture possano favorirsi a vicenda e costituire una risorsa reciproca per tutti i loro componenti.

Debora Mauri

 

La perdita dell’udito colpisce più del 5% della popolazione mondiale (Oms, 2007). Nella nostra società, si guarda alla sordità in modi molto diversi. In alcune realtà geografiche, come ad esempio Martha’s Vineyard, Fremont e Rochester (USA), dove la popolazione sorda supera numericamente quella udente, la sordità non è vista come una patologia e la comunità è organizzata in relazione alle
determinate necessità delle persone sorde, che sono perfettamente integrate nel contesto e occupano importanti cariche sociali. In altre realtà, inclusa l’Italia, invece, la sordità diventa un handicap, nel senso che porta a serie limitazioni della vita sociale e relazionale, e l’approccio a tale condizione è principalmente sanitario, sebbene nel tempo si stia passando progressivamente verso una prospettiva di tipo educativo e pedagogico (Bacchini & Valerio, 2000; Maragna, 2008).

La sordità: un “handicap nascosto”

La sordità è un “handicap nascosto” perché non immediatamente visibile alla nascita, spesso scoperto tardivamente, nascosto dalla famiglia che deve accettare la diversità del figlio, spesso nascosto dalle stesse persone sorde divise fra la costruzione di una propria identità e l’adesione a modelli udenti, nascosto perché sconosciuto in tutte le sue implicazioni socio-psicologiche (Fabbretti, 2006).

Sono le implicazioni socio-culturali e psicologiche del deficit uditivo a fare della sordità un handicap: la percezione della sordità si realizza sempre in contrapposizione ad un modello udente dominante (Zuccalà, 1997).

È utile distinguere tra deficit ed handicap, laddove il primo implica la diminuzione di una prestazione (Mottez, 1979), mentre l’handicap rappresenta l’insieme dei limiti che la persona sorda incontra nella vita sociale, scolastica e lavorativa. Lo ribadiamo ancora una volta, sono le implicazioni socio-culturali e psicologiche del deficit uditivo a fare della sordità un handicap (Zuccalà, 1997). Nella realtà quotidiana le persone sorde vivono, a causa del loro deficit e della scarsa sensibilità alle loro esigenze, in una condizione di isolamento culturale. Nel nostro paese è comune la scarsa attenzione alle esigenze comunicative e conoscitive delle persone sorde: per esempio, è solo dal 1994 che gli studenti universitari sordi possono usufruire di servizi speciali per le proiezioni cinematografiche con sottotitoli (Zaghetto, 2012).

Oltre la disabilità, la sordità come tratto distintivo di una comunità

Quando si parla di sordità è opportuno conoscere e tenere conto diversi fattori (Schick, 2006). Gli individui con deficit uditivo rappresentano un gruppo eterogeneo, le cui differenze dipendono dal grado e tipo del deficit, dal momento dell’insorgenza, dalla personalità e temperamento dell’individuo, dalla storia famigliare e dal percorso riabilitativo scelto dai genitori (Rinaldi et al., 2015). Ciò che accomuna questi individui è l’assenza dell’udito, che porta a un sviluppo atipico del linguaggio. Ed è qui che le strade dei sordi prelinguali si dividono e imboccano due percorsi diversi poiché, come sottolinea Enrico Dolza nell’articolo Sordità: disabilità o identità” pubblicato sulla rivista Effeta del 2017 (Dolza, 2017), seguono due opposte visioni della sordità.

In un caso, la sordità è percepita come disabilità, quindi il focus è sul deficit dell’apparato uditivo, su cui bisogna intervenire con la riabilitazione, in modo da normalizzare il linguaggio e, quando possibile, con protesi, ausili e impianti, anche l’udito. Questa realtà rappresenta la visione della sordità dominante nella nostra società attuale, in cui è percepita, definita e trattata come una delle varie forme di disabilità (Dolza, 2017). È anche l’approccio più diffuso quantitativamente, poiché è la strada naturale che intraprendono i genitori udenti di bambini sordi, che sono la maggioranza, probabilmente oltre il 95% dei nati (Mitchell & Karchmer, 2004). Questo primo gruppo utilizza per definirsi molto spesso il termine “audioleso“, talvolta “non udente” o sordo con “s” minuscola.

Nel secondo caso, invece, il focus è sull’uso di una lingua alternativa, la Lingua dei Segni. La sordità tende a non essere più percepita come una disabilità, perde la sua accezione negativa e si definisce come un tratto distintivo di una comunità che deve essere riconosciuta e accettata come un esempio della grande variabilità presente negli esseri umani. In questa visione di sordità, l’attenzione è rivolta alla rivendicazione e difesa della propria specificità linguistica e identità culturale, che va protetta e preservata in quanto ricchezza dell’umanità. I sordi di questo gruppo chiedono di essere identificati con la parola sordo con la “S” maiuscola, proprio ad indicare la loro appartenenza ad un popolo, ad un gruppo linguistico minoritario (Dolza, 2017). Il senso forte di appartenenza alla comunità sorda è manifestato in modi diversi dai vari gruppi di sordi nel mondo; in Italia si è tenuta a Torino nel 2009 la Giornata Mondiale dei Sordi durante la quale due artiste sorde (Lucia Daniele e Laura Di Gioia) hanno “cantato” l’Inno alla Sordità che esprime l’essenza dell’essere sordi (in Italia):

Se i segni vivono/i Sordi sono felici./Se spieghi con i segni,/i Sordi capiscono./Se i segni aumentano,/i Sordi comunicano./Se i segni sussistono,/i Sordi esistono,/Se i segni ci sono,/i Sordi sono liberi/Se i segni si tramandano, i Sordi continuano ad esistere!

I sordi sono orgogliosi di esserlo. È questo che più colpisce. I sordi sono orgogliosi di appartenere ad una comunità. Infatti, il sordo non si percepisce come appartenente a un gruppo di disabili, ma ad un gruppo etnico (Lane, 2005) perché possiede un nome collettivo (il nome-segno, conosciuto nella comunità e che richiama caratteristiche fisiche, mentali, o di personalità dell’individuo sordo, e che può anche mutare nel tempo); ha un’eticità diversa da quella della comunità udente; i sordi hanno una cultura propria (la cultura sorda); possiedono propri costumi intesi anche nel modo di esprimersi caratteristici del mondo sordo; possiedono una loro struttura sociale (i sordi possono arrivare a ricoprire cariche importanti e riconosciute dagli altri membri della propria comunità sorda); hanno una propria lingua, creano e realizzano manifestazioni artistiche caratteristiche del gruppo (Poesia in lingua dei segni, narrazioni in Visual Vernacular, performance teatrali); possiedono una loro storia e una parentela/discendenza (Luberto, 1997; Zaghetto, 2012).

Tuttavia, questa autoaffermazione e difesa della propria sordità non sempre è compresa e conosciuta al mondo degli udenti. Infatti, come afferma Anna Folchi, ricercatrice sorda, i sordi sono una “minoranza organizzata”, con una propria lingua, propria tradizione e usi, ma, come troppo spesso accade a chi è bollato come “minoranza”, tutto ciò rimane un mondo sconosciuto agli “altri”, alla maggioranza (Folchi & Rossetti, 2007; Zaghetto, 2012). Ciò che ne consegue è una sorta di scissione tra i “due mondi”, quello dei sordi (orgogliosi di esserlo) che chiedono uguali diritti, e quello degli udenti che vedono i sordi solo come portatori di un handicap, persone da aiutare per eliminare il deficit uditivo.

Come avvicinare questi “due mondi”?

Un tentativo di avvicinamento tra i “due mondi” è rappresentato dal movimento di Sara Giada Gerini, “Facciamoci Sentire”. L’obiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della sordità e richiede i sottotitoli ovunque.

Sara è una ragazza sorda oralista che vuole far passare un messaggio preciso: la sordità non rappresenta un gruppo di disabili, ma un insieme di persone accomunate solo da un deficit sensoriale. Oltre a quello, sono tutti diversi, sono tutti dotati di una storia, di un’individualità, di una personalità e hanno vite diverse. Sara rappresenta un simbolo di orgoglio sordo, che desidera affermare la sua identità e i suoi diritti, sottolineando “le sfumature dei sordi.

Durante le mie ricerche ho scoperto e compreso che i sordi non sono tutti uguali: all’interno di questo mondo esiste grande eterogeneità: c’è chi difende l’uso della Lingua dei Segni e chi, invece, la rifiuta, optando per l’impianto cocleare. A questo proposito, non si dovrebbe parlare di “mondo” dei sordi, quanto piuttosto di “mondi dei sordi”. L’impianto cocleare è un argomento che divide: c’è chi è favorevole e lo ritiene “la soluzione”, e chi invece lo rifiuta a priori. Entrambe le posizioni sono estreme, dunque non funzionali al reale benessere della persona sorda. Infatti, se da una parte si cercasse di valutarne i possibili benefici e dall’altra si ammettessero le limitazioni, senza farla passare come l’unica soluzione, forse si potrebbe diminuire la distanza tra le due posizioni opposte e tutti ne potrebbero beneficiare.

L’obiettivo di chi cerca di “curare” il deficit con ausili tecnologici è quello di far integrare il sordo nella società, tuttavia ciò nasconde il tentativo di omologarlo alla cultura di riferimento. In altri termini, invece di valorizzare e prendere atto dell’esistenza di una cultura con tradizioni e storie proprie, rifiuta la diversità altrui. La reazione del sordo è, dunque, quella di allontanamento e chiusura, che si configura come un meccanismo di difesa per preservare la sua identità. Ne consegue una chiusura da entrambe le parti che può ostacolare la reale integrazione dell’individuo nella società. È quindi necessario che entrambi i gruppi siano aperti per evitare l’isolamento, poiché entrambe le culture possono favorirsi a vicenda e dovrebbero rappresentare una risorsa e un arricchimento per tutti i componenti.

L’età dello smarrimento. Senso e malinconia (2018) di Cristopher Bollas – Recensione del libro

L’età dello smarrimento. Senso e malinconia di Cristopher Bollas, psicoanalista della British Psychoanalytical Society, è un interessante contributo in cui la disciplina psicoanalitica s’interroga sulla situazione di crisi in Occidente e segnala una possibilità per invertire quello che sembrerebbe il suo inarrestabile decorso.

 

Sin dalle prime pagine, infatti, si coglie, forte e chiara, l’intenzione dell’autore di denunciare lo stato di disinteresse, o d’interesse mal riposto – nell’analisi dei fatti che riguardano il singolo e la collettività – sulla materia incandescente degli stati d’animo degli ultimi due secoli.

Bollas fa notare come:

Gli esperti del nostro tempo sembrerebbero – in modo opposto alla pioneristica attitudine di William Bradford a incuriosirsi verso il mondo interno – scarsamente stimolati dalla sua esplorazione, e quindi responsabili di perdersi la trasformazione del pensiero e del comportamento di una società, come il risultato di modi di sentire che perdurano nel tempo, fino a evolversi in assiomi inconsci.

L’età dello smarrimento: la rivoluzione industriale

Per renderci osservatori, a nostra volta, di ciò che ha condotto l’uomo ad una perdita di valori senza precedenti, fa partire la sua analisi dallo stato della mente maniaco-depressivo, seguito alle trasformazioni industriali e tecnologiche del XXVIII secolo. In quegli anni, in tutta l’Europa, poi anche in America, si respirò una ventata d’incredibile ottimismo che coinvolse tutte le discipline, l’economia, la politica, la società intera. Sull’onda di un’intensa euforia, si costruì quel “senso di grandiosità” che ci sarebbe costato caro.

Di fatto, una profonda rabbia seguì alle idealizzazioni distrutte dalla guerra, facendo vacillare il carico di fiducia sin lì costruito. Se quest’ultimo resse il colpo, in realtà, fu grazie all’intervento di uno stato mentale in grado di allontanare tutto ciò che diventava indesiderato. Più precisamente, la sua funzione fu quella di “sistemare” le parti depressive portate alla luce dalla guerra, proiettandole sull’altro; il costo richiesto si rivelò molto alto: l’altro doveva essere distrutto e il circolo instauratosi doveva proseguire. Crebbe, così, un vuoto di valori che fu compensato dalla ricerca di produttività.

In un tale clima, di profonde e radicali trasformazioni, una nuova forma di sé fece la sua comparsa. La sua parte positiva, le consentì di idealizzare il mondo, mentre quella negativa, di fare l’opposto, e non sussistendo nessuna possibilità di comunicazione tra queste due parti, si rivelò altamente funzionale per il periodo post-bellico, soprattutto in America.

Tuttavia, per l’uomo questa modalità divenne sempre più debilitante, e sotto l’effetto di un trauma cumulativo, come fa notare più avanti Bollas (2008)

La ricerca di un’esistenza quotidiana più sicura, meno inquietante, aveva spinto le persone a prendere le distanze dalla soggettività, ad abbandonare la propria mente (p.96).

L’età dello smarrimento: la reazione alle guerre

Di fronte al dolore, l’uomo del dopoguerra, riconobbe il sollievo che poteva ottenere allontanandosene. Fu proprio lo stabilizzarsi di questa soluzione a produrre un’anomala normalità che spazzò via l’orrore delle guerre e consentì il diffondersi di un preoccupante interesse nei confronti della vita materiale e un ritiro marcato dal mondo reale.

Questa mentalità, che Bollas chiama “normopatica”, riprendendo il termine da Joyce Mcdougall, intorno agli anni settanta si manifestò in netto aumento, soprattutto in America. Questi sé normopatici si organizzarono perfino in comunità e alcuni di loro, proprio perché isolati dal contatto con il mondo esterno, pur disponendo di tutte le risorse per poter condurre un’esistenza agiata, iniziarono a manifestare condizioni di sofferenza fino a un forte impoverimento dell’io; una vera e propria “sindrome da compound” che alimentava l’isolamento.

Questo preludio ci sollecita a cogliere la scomparsa del rapporto tra l’uomo e il mondo reale, e dunque tra il sé e l’altro da sé, che l’avvento della globalizzazione non poteva che acuire.

Non sorprende, infatti, come nel suo ambiente virtuale ovattato, quello globale appunto, in cui la velocità diventa assai più importante della riflessione, siano gli stessi sé, come i dispositivi cui ricorrono, a divenire trasmissivi, in altre parole smart, ripetitivi, superficiali.

Si diffondono così nuove forme di pensiero come “l’operazionismo”, “l’orizzontalismo”, “l’omogeneizzazione”, “il pensiero rifrattivo”, proprio per compensare il senso di smarrimento emergente.

L’età dello smarrimento: la gestione della complessità

Di fronte a una complessità che viene percepita però sempre più soverchiante, il ritiro paranoide si afferma come la soluzione migliore, veloce e unificante, capace di offrire una spiegazione semplice; una manovra evacuativa convincente e facile da applicare.

Se pensare a qualcosa faceva stare meglio, quella cosa doveva essere giusta; se qualche idea faceva stare peggio, sicuramente si trattava di un’idea cattiva, che andava eliminata (Bollas, 2018, p.146).

Percorrendo, dunque, i quindici capitoli del testo, l’analisi di Bollas sembra condurci a riconoscere che se ci troviamo di fronte ad un forte impoverimento del processo democratico, al deragliamento della politica verso posizioni estreme e reciprocamente accusatorie, alla perdita di umanità, a vantaggio della velocità e della semplicità, tutto questo va letto seguendone l’evoluzione nel corso delle generazioni. Non solo, e mi piace sottolineare questo aspetto, va letto riconoscendo la responsabilità di ciascuno in quella che sembrerebbe una navigazione inconsapevole in acque soggette a correnti sempre più imprevedibili.

Saltando dal micro al macro, dal singolo ai gruppi e viceversa, e proponendosi con un’ottica interdisciplinare, l’autore stimola il lettore a cogliere, confrontare, esplorare le possibili relazioni tra la vita mentale e la società, che rimangono il più delle volte inesplorate, sconosciute, o probabilmente taciute.

L’età dello smarrimento: serve ricostruire un senso

Se la vita mentale ha perso la capacità di integrare idee contrastanti, di comprenderne il senso, di riconoscerne il valore, è fondamentale assumersi la responsabilità di risvegliare un’attività di pensiero che sia capace di costruire nuovi significati e di interrompere questo “soggetticidio collettivo”.

In contrasto con quel trend autodistruttivo che rifiuta l’insight, Bollas evidenzia il valore della sua disciplina, suggerendone un’applicabilità che appare ancora impensabile, ma che è possibile e quanto mai necessaria. La finestra aperta sulla stanza d’analisi, rappresenta la possibilità offerta al lettore di comprendere in che modo sia possibile riconoscersi soggetti, restituire valore alla vita mentale, al linguaggio, alle emozioni, a quelle capacità riflessive che sono state deprivate e trasformate.

Per concludere, è nell’assistere all’incontro tra paziente e analista e al costituirsi della loro relazione che il lettore si avvicina con più consapevolezza al senso di quella che Bollas chiama coscienza dinamica,

[…] che valorizza, riceve e utilizza il pensiero inconscio con abilità creativa (Bollas, 2008, p.135).

È in questa intersoggettività che si respira un richiamo alla vitalità, all’umanità, che sembra, ma è qui che è richiesto tutto il nostro impegno affinché non lo diventi, come in Meursault, irrimediabilmente perduta.

Piacere femminile: un nuovo studio indaga come l’aderenza a degli imperativi fallocentrici possa influire sulla soddisfazione sessuale delle donne

Nella moderna concezione del benessere sessuale, si presume non solo l’assenza di disturbi organici che impediscano l’esperienza erotica, ma la possibilità per l’individuo di vivere la propria sessualità in assenza di coercizioni, discriminazioni e violenza (Who, 2006).

 

Sarebbe tuttavia semplicistico pensare che questi possano essere gli unici fattori a concorrere nel raggiungimento di una completa soddisfazione sessuale; un esempio di ciò sembra emergere dal crescente corpo di ricerche sull’attitudine al piacere nella specie umana, ed in particolare nella cultura occidentale, che sembra delineare una netta disparità tra l’esperienza erotica vissuta dagli uomini e quella riportata dalle donne.

Soddisfazione sessuale: gli studi sul piacere femminile

In termini di orgasmi raggiunti, gli uomini riportano un tasso nettamente superiore rispetto a quello delle donne, e nel 94,1% delle esperienze sessuali il rapporto aveva incluso una penetrazione vaginale (McClelland,2011; Richters, deVisser, Rissel, & Smith, 2006). Inoltre, le donne eterosessuali riportano una frequenza di orgasmo inferiore rispetto ai dati provenienti dalla popolazione delle donne che fanno sesso con le donne (Breyer, Smith, Eisenberg, Ando, Rowen & Shindel, 2010; Garcia, Lloyd, Wallen & Fisher, 2014). Sebbene l’esperienza dell’orgasmo non sia sinonimo di soddisfazione sessuale, le due cose risultano essere strettamente collegate, motivo per cui tale indice è ritenuto una misura concreta del successo di un incontro sessuale, così come la sua assenza può divenire motivo di ansie e preoccupazioni personali e di coppia.

La recente ricerca di Willis, Jozkowsky, Lo & Sanders (2018) parte dall’idea che gli script a cui i rapporti sessuali spesso si attengono, possano largamente influenzare questo aspetto della soddisfazione delle donne: gli autori hanno ipotizzato in particolare che vi possano essere due cosiddetti imperativi fallocentrici, quello dell’imperativo al coito e quello dell’orgasmo maschile, che creerebbero un focus maggiore sulla soddisfazione maschile rispetto a quella femminile; conversamente gli autori prevedono che la capacità di mantenere il focus attentivo sul proprio orgasmo, così come ricorrere ad una variabilità maggiore nei comportamenti sessuali, possano essere i mediatori che rendono conto delle differenze riportate in letteratura.

L’imperativo al coito si traduce nella preferenza riservata nei rapporti uomo/donna alla penetrazione vaginale (Braun, Gavey & McPhillips, 2003; Peterson & Muehlenhard, 2007), sebbene solo il 46% delle donne abbia riportato di raggiungere l’orgasmo in questo modo (Richters, deVisser, Rissel & Smith, 2006) ed al contempo una maggior varietà del repertorio della coppia, sia stata provata significativamente correlata ad un maggior numero di orgasmi; ancora una volta, le donne che hanno rapporti con le donne, si trovano a preferire questa modalità, essendo libere dall’imperativo al coito caldeggiata dalla controparte maschile. L’imperativo dell’orgasmo maschile si riflette nei dati riportati dalla letteratura, per cui nella maggioranza dei rapporti è l’orgasmo maschile che decreta la fine di un rapporto (Braun et al., 2003; Opperman, Braun, Clarke, & Rogers, 2014) e più sorprendentemente, è sempre l’orgasmo maschile che predice la soddisfazione sessuale per entrambi i partner, anche a discapito del climax raggiunto o meno dalla donna (McClelland, 2011).

Soddisfazione sessuale: la differenza tra rapporti omosessuali e rapporti eterosessuali

Nello studio di Willis et Al. (2018) è stato selezionato un campione di 2296 donne, originariamente reclutate tramite una survey online condotta dal Kinsey Institute for Reaserch on Sex, Gender and Reproduction, 1998 delle quali appartenevano alla popolazione normativa (Donne che fanno Sesso con Uomini, d’ora in avanti chiamate DSU) e 308 delle quali riportavano un partner principale di sesso femminile (Donne che fanno Sesso con Donne, o DSD). Per ottenere un indice del funzionamento sessuale delle partecipanti, è stato somministrato l’Interviewer Ratings for Sexual Function (Bancroft, Loftus & Long, 2003), composto di 66 items atti a comprendere la natura fattuale ed emozionale degli incontri sessuali intercorsi nelle 4 settimane precedenti. A conferma dei risultati anticipati dalla letteratura, le DSD riportavano di aver avuto rapporti culminati in un orgasmo più spesso delle DSU (Incidence Ratio Rate: 1,23), tuttavia controllando l’influenza delle variabili orientamento al proprio orgasmo e varietà delle attività sessuali intraprese, il divario tra i due gruppi diminuiva, ad indicare che le donne che rimanevano concentrate sul proprio piacere e sperimentavano nella coppia un repertorio erotico più diversificato riportavano più orgasmi a prescindere dal genere sessuale del proprio partner (sebbene le DSD rimangano favorite in questo).

I risultati della letteratura circa l’atteggiamento verso l’autoerotismo contribuiscono a chiarire come sia possibile che le donne stesse possano talvolta contribuire alla negligenza verso la propria soddisfazione sessuale: le donne impegnate in una relazione eterosessuale hanno riportato in uno studio qualitativo che la masturbazione fosse un’attività che minacciasse l’ego del proprio partner, che andasse praticata a beneficio del partner, che dovesse essere praticata solo dagli uomini (Fahs & Frank, 2014); in secondo luogo, sembra che la maggioranza delle donne siano convinte che la masturbazione femminile debba necessariamente includere l’autopenetrazione e considera sé stessa “strana” per preferire la stimolazione clitoridea (Fahs & Frank, 2014). In tal senso, sembra che anche gli atteggiamenti delle DSU nei confronti dell’attività masturbatoria porti i segni di un’interiorizzazione degli imperativi fallocentrici già esaminati in precedenza.

Soddisfazione sessuale femminile: sembra condizionata da quella maschile

Con le dovute limitazioni, appare chiaro dai risultati di questo studio come il condizionamento operato implicitamente dagli script incentrati sugli imperativi fallici rischi di precludere alle donne il piacere di un’appagante esperienza sessuale, non soltanto in un contesto di coppia, ma anche nella propria intimità. Le implicazioni di questo studio sono evidenti: tutte le donne, ed in particolare le DSU (Donne che fanno Sesso con Uomini), possono beneficiare da un repertorio erotico più diversificato, da un maggior orientamento verso il proprio appagamento ed in generale, dal distanziarsi dagli script che favoriscono unilateralmente il soddisfacimento del partner a proprio discapito.

Mi ancoro, dunque mi oriento

Uno degli ambiti in cui è coinvolto uno psicologo delle risorse umane è l’ orientamento professionale. Si tratta di una fase estremamente delicata che coinvolge sia il lavoratore, che ha perso la sua “bussola”, sia lo psicologo che deve essere bravo nel non sostituirsi alla risorsa umana, la quale deve prendere decisioni, ma svolgere una funzione di facilitatore del processo.

 

L’ orientamento professionale è, infatti, il processo di educazione ed evoluzione della competenza di scelta e progettazione del Sé professionale, degli sviluppi futuri e di una maggiore conoscenza di sé (Sarchielli, 2003). Il termine “orientare”, infatti, deriva dal latino ‘oriens’ che significa ‘rinato’. Ma cosa rinasce con un processo di orientamento? Rinasce la comprensione che l’essere umano, in quanto lavoratore, ha dell’Io professionale.

Orientamento professionale: il contributo di Edgar Schein

Invero, un processo di orientamento che si pone l’obiettivo di aumentare la conoscenza dell’identità professionale, non può non tener conto di quel costrutto che Edgar Schein (1990; 1993; 2006; 2013) ha definito “àncore di carriera”. Le àncore di carriera sono l’insieme di valori, motivazioni profonde, competenze e relative scelte di carriera. Si tratta di una immagine che si sviluppa e, come una nave getta l’àncora in un porto sicuro, così la nostra àncora di carriera ci aiuta nel compiere scelte in base al nostro interesse. L’ àncora di carriera è, perciò, quell’elemento del proprio sé professionale che non è possibile mettere in discussione e che orienta le scelte che la persona fa nel proprio percorso di carriera.

In base alla definizione di tale costrutto, gli studi sulle àncore di carriera hanno permesso di creare una tassonomia di, inizialmente, cinque àncore, che sono:

  • l’àncora tecnico-funzionale, consente di essere molto propensi all’apprendimento e all’acquisizione di competenze, al fine di svolgere ed essere motivati da lavori sfidanti;
  • l’àncora manageriale, tipica di coloro che sono predisposti a ricoprire mansioni con responsabilità e potere decisionale;
  • l’àncora della creatività imprenditoriale, tipica di coloro che si impegnano in mansioni creative e con alto livello di inventiva;
  • l’àncora della sicurezza, tipica di coloro che, nel lavoro, ricercano stabilità permanente e mansioni ben definite e organizzate;
  • l’àncora dell’autonomia, tipica di coloro che amano dimostrare di essere competenti a modo proprio, al proprio ritmo e con propri standard di riferimento.

Orientamento professionale: le àncore per la propria carriera

A queste cinque àncore, ne sono state aggiunte altre, ovvero:

  • l’àncora dello stile di vita, tipica di coloro che hanno necessità di coordinare gli orari lavorativi agli impegni familiari;
  • l’àncora di sfida pura, tipiche di coloro che cercano autonomia lavorativa al fine di perseguire valori personali;
  • l’àncora di servizio/dedizione alla causa, tipica di coloro che traggono motivazione e soddisfazione professionale nel risolvere problemi complessi o superare ostacoli.

In un clima di flessibilità lavorativa, precariato e incertezze, conoscere la propria àncora di carriera vuol dire, da un lato comprendersi come un “Io che lavora”, dall’altro significa essere in possesso di un potente strumento di orientamento che consente di non dedicarsi ad una occupazione qualunque.

I Legami e il dono – Il care giver materno

Freud, in Al di là del principio di piacere, attraverso il concetto di “coazione a ripetere” afferma che gli adulti ricreano nei rapporti interpersonali della propria vita le esperienze di relazioni della prima infanzia. Ciò implica l’esistenza negli individui della capacità d’interiorizzazione e perpetuare modelli di relazione.

 

Freud e il dono della madre

Le relazioni riguardanti la prima infanzia per Freud riguardano, seppure nelle varie fasi dello sviluppo, il soddisfacimento dei bisogni fisiologici. Il neonato vive in uno stato di “narcisismo primario” e sperimenta l’angoscia riguardo al bisogno di nutrimento. La madre che per il tramite del seno fornisce il cibo diventa oggetto di amore per la sua capacità di attenuare, con la sua presenza e disponibilità, l’angoscia.

Infatti, il dono per Freud è la presenza della madre che tramite il cibo soddisfa i bisogni del bambino. Da ciò si deduce che l’assenza di dono ovvero una madre che non soddisfa questi bisogni primari non stabilisce un legame rassicurante per il bambino.

In seguito Freud nel saggio Inibizione, sintomo e angoscia introduce il concetto di segnale di angoscia in cui il bambino si sente rassicurato dalla presenza della madre e sviluppa l’angoscia in caso di separazione o di assenza. In questo caso il dono per il bambino è la presenza della madre.

Harlow: attaccamento genera attaccamento

Harlow, in seguito, nei suoi studi sull’attaccamento, dimostrò che le scimmie rheus preferivano la mamma surrogata di peluche piuttosto che quella con il biberon ma solo di filo metallico. Ciò permise ai coniugi Harlow di dimostrare che i piccoli macao si sentivano protetti dalla presenza della madre, anche se surrogata da un peluche, piuttosto che dal soddisfacimento dei bisogni fisiologici.

Harlow con i suoi esperimenti andò oltre tenendo i piccoli macao in piccole gabbie in assoluto isolamento ma con grande disponibilità di acqua e cibo. Dopo un po’ di tempo i piccoli cominciarono a mostrare una serie di alterazioni comportamentali. Addirittura quelli che rimasero rinchiusi all’incirca un anno mostravano un comportamento catatonico, non manifestando nessun interesse per l’ambiente esterno. Le scimmie una volta raggiunta l’età adulta non riuscivano a relazionarsi in modo corretto non cercando e trovando un partner, non mostrando nessuna necessità di avere figli. Alcuni macachi, inoltre, si lasciavano morire smettendo di mangiare e bere. Le femmine non mostravano nessun interesse ad avere figli, Harlow li fece fecondare contro la loro volontà. I risultati furono terribili poiché non si curavano per niente dei figli, non gli davano da mangiare e addirittura arrivavano a mutilare i loro piccoli.

Gli studi di Harlow sembrano indicarci, da un lato, che la presenza della madre e il dono dell’affetto fanno nascere un debito positivo che genera nei figli il bisogno successivo alla cura, mentre l’assenza della madre non genera legame poiché crea un debito negativo che tende a mantenersi. La mamma è fonte di affetto e di sicurezza se dona la sua presenza al figlio. Inoltre, Harlow tende ad accennare a un concetto generativo dell’attaccamento per cui attaccamento genera attaccamento.

Melanie Klein e le relazioni oggettuali

Gli studi di Harlow nascono nell’ambito delle teorizzazioni sull’attaccamento infantile dovute agli studi di M. Klein che apporta alle teorie freudiane alcuni elementi di novità dovuti in particolar modo al suo lavoro con i bambini. Fermo restando il soddisfacimento dei bisogni fisiologici, introduce anche il concetto di relazioni oggettuali. Secondo questo modello il bambino non interiorizza più un oggetto o una persona ma l’intera situazione relazionale caratterizzata da un vissuto emotivo, un modo di sentire se stessi e un modo di sentire l’altro. Le interiorizzazioni possono essere connotate positivamente e, quindi, costituire un oggetto buono o, al contrario, negativamente e costituire un oggetto cattivo. La novità della teoria della Klein è costituita, inoltre, dalle influenze che il mondo interno del bambino ha sulla relazione. La nostra autrice ipotizza l’esistenza di un istinto di morte. E’ la presenza di questo istinto che fa si che la prima relazione con la madre è pervasa dall’invidia primitiva, da fantasie sadiche, da meccanismi di proiezione che possono provocare delle distorsioni percettive. L’istinto di morte è preesistente rispetto alla relazione oggettuale ed ha una forte influenza su quest’ultima. Ciò che s’inizia a ipotizzare con le teorie Kleiniane è il ruolo del sedimento culturale presente all’interno dell’inconscio che è sì la sede delle pulsioni ma anche di una trasmissione filogenetica che viene da lontano.

In sostanza con gli studi della Klein, prima, e di Bolbwy, Harlow, Winnicott, Bion, Stern e altri si passa da una concezione, tipicamente freudiana, di relazione madre-figlio totalmente simbiotica che può essere rotta solo dall’intervento del terzo (fase edipica), a una relazione diadica o oggettuale in cui i due attori – madre e figlio – interagiscono tra di loro essendo dotato il neonato da un patrimonio genetico efficace sin dalla nascita a promuovere vicinanza e contatto con la madre. La differenza non è di poco conto poiché il nucleo delle disfunzioni successive in Freud va ricercato nel legame simbiotico madre-bambino mentre, per i secondi, va trovato nelle relazioni tra il bambino e l’oggetto che nel primo periodo non può che essere la madre o parti di essa.

Margaret Mahler e il concetto di separazione-individuazione

La Mahler, attraverso lo sviluppo del concetto di separazione-individuazione e di distinzione fra sé e non sé, supera questa dicotomia descrivendo uno sviluppo in fasi che prevede la presenza sia delle fasi simbiotiche sia di quelle oggettuali in relazione allo sviluppo psicobiologico del bambino:

  • fase autistica: da 0 a 2 mesi in cui il bambino pensa alla sua sopravvivenza più ché alle relazioni oggettuali;
  • fase simbiotica: da 2 a 6 mesi riesce ad avere una vaga coscienza della mamma e si percepisce come totalmente in simbiosi e dipendenza con quest’ultima;
  • fase di separazione-individuazione: da 6 a 36 mesi in cui attraverso la differenziazione, la sperimentazione, il riavvicinamento e la costanza oggettuale, il bambino differenzia il sé dagli altri.

Se la differenziazione fra l’immagine del sé e quella degli oggetti fallisce, vi è un terreno fertile per lo sviluppo successivo delle psicosi. La Mahler sostiene che la fase simbiotica richiede che il bambino si comporti come se lui e la madre fossero una cosa sola e “un sistema onnipotente, un’unità duale racchiusa dentro gli stessi confini”. Nella psicosi simbiotica vi è fusione, dissolvimento e mancanza di differenziazione tra il sé e il non sé: una completa indefinizione dei confini. Questa ipotesi ci ha condotto allo studio della normale formazione di un’entità separata e di un’identità. Quando in certi casi il ritardo delle funzioni autonome dell’io è unito a un concomitante ritardo della prontezza emotiva a funzionare separatamente dalla madre, dà origine a un panico a livello di organismo. E’ questo panico che causa la frammentazione dell’io e genera così il quadro clinico della simbiosi psicotica infantile. Racamier, in Genio delle origini, afferma che la rottura della fase simbiotica sia il primo dei lutti che il bambino deve imparare a elaborare al fine di elaborare i vari lutti che nella vita è costretto a superare:

Il lutto originario è dunque la prima e prolungata prova che l’io deve affrontare per scoprire l’oggetto. In virtù di un paradosso fondatore, questo è perduto prima che trovato, allo stesso modo non si trova l’io se non accettando di perdersi.

Il legame madre-bambino e l’importanza dei confini

Da ciò deriva che il legame madre-bambino prevede una differenziazione tra i due nuclei con lo stabilizzarsi dei relativi confini senza che venga meno il processo di legame, cosi come descritto in precedenza.

Lo strutturarsi di fenomeni psicotici, in sostanza, è legato alla fusione dei due nuclei più che a un interscambio di elettroni. Se all’inizio (fase autistica e fase simbiotica), la fusione, in senso chimico e fisico, apporta calore alla relazione, in assenza di differenziazione si determina una deflagrazione.

Il calore, inoltre, come sostenuto in precedenza, costituisce l’energia di legame in grado di fare cambiare stato alla materia da solida in liquida o da liquida in gassosa. E’ attraverso il calore della relazione che il soggetto è in grado di differenziare il sé e conquistare una propria identità. Da notare, ancora una volta, che per acquistare (identità o consapevolezza di sé) si deve perdere la funzione protettrice della simbiosi. Ritorna la funzione del dono nel senso del perdere al fine d’acquistare nuovi legami.

Uscire dalla simbiosi, infatti, vuol dire acquistare consapevolezza di sé e in forza di questa nuova immagine d’identità potersi predisporre al legame con gli altri. Conquistare una nuova stabilità con confini chiari apre alla possibilità di potersi legare con altri soggetti esattamente come fanno i composti in chimica. Se ci trasformiamo in molecola, abbiamo la possibilità, attraverso i legami secondari, a unirci ad altre molecole in modo da formare altri composti. Essendo un processo che si perpetua all’infinito, non vi è dubbio che assuma forme antropologiche e simboliche.

Al contrario, i processi che impediscono, provenienti sia dalla madre sia dal bambino, come vedremo in seguito, il processo di differenziazione non danno la possibilità di formare nuovi legami. E’ quello che succede ai primati di Harlow alle quali, attraverso l’isolamento, non si da la possibilità di sperimentare la fase simbiotica e, di conseguenza, di potersi differenziare e conquistare una consapevolezza di sé e, quindi, di poter stabilire legami stabili nel momento in cui vengono liberate. E’ quello che succede alle relazioni in cui le madri trattengono i figli in simbiosi con loro e non permettono la perimetrazione del territorio attraverso la creazione di confini. Levy, a questo proposito parla di madri iperprotettive che, a loro volta, avevano avuto profonde carenze e che, in qualche modo, le spingono “a cercare di ottenere dai figli ciò che non avevano ottenuto dalle proprie madri“. Lidz , definisce queste madri come impenetrabili ai bisogni dei figli che continuamente propongono la mancanza di significato della loro vita .

Winnicott, afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo perché parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza a un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita. Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé. Da questo presupposto nasce la good enough mother che è quella madre che sa regredire, diventare piccola come il suo bambino, per sintonizzarsi meglio su di lui, sul suo mondo interno e su i suoi bisogni.

 

Disturbo della condotta femminile: attività ridotta della corteccia prefrontale dorsolaterale

Attraverso l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI) alcuni ricercatori dell’Università di Zurigo hanno indagato i pattern di regolazione delle emozioni nelle ragazze adolescenti con diagnosi di Disturbo della condotta.

 

L’adolescenza è un periodo della vita caratterizzato da profondi cambiamenti emotivi, per questo l’adolescente ha bisogno di acquisire nuove abilità sociocognitive, come ad esempio l’abilità di regolare in maniera efficace le emozioni.

È emerso da vari studi che carenze nella regolazione emotiva sono associate a diverse psicopatologie nell’infanzia, come ad esempio il Disturbo della condotta (CD).

Il Disturbo della condotta

Il Disturbo della condotta è un disturbo psicopatologico dell’infanzia e dell’adolescenza, caratterizzato da comportamenti ripetitivi sia aggressivi che non aggressivi, i quali violano i diritti fondamentali degli altri o le norme sociali. La prevalenza di questo disturbo nella popolazione è del 9,5% e differisce per quanto riguarda il genere, infatti colpisce per il 12% i maschi e per il 7,1% le femmine.

L’origine dei comportamenti caratteristici del Disturbo della condotta (ad es. irritabilità, scoppi di rabbia o intense risposte emotive) può essere sostenuta da variazioni della reattività emotiva e/o difficoltà nella regolazione delle emozioni.

Per molto tempo, tuttavia, non sono state studiate le correlazioni neurali nella regolazione emotiva negli adolescenti con Disturbo della condotta. Un recente studio, condotto presso l’Università di Zurigo e pubblicato su Journal Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, ha invece voluto approfondire proprio questo aspetto, utilizzando perciò la risonanza magnetica funzionale (fMRI) ha indagato i  pattern di regolazione delle emozioni nelle ragazze adolescenti con diagnosi di Disturbo della condotta.

Lo studio

I partecipanti sono stati reclutati dallo studio Neurobiology and Treatment of Female Adolescent Conduct Disorder (FemNAT-CD) e sono stati testati presso l’Università di Basel e l’Università di Francoforte.

Il campione era composto da 59 femmine adolescenti con età compresa tra i 15 e 18 anni, di queste 30 presentavano una diagnosi di Disturbo della condotta mentre le altre 29 non presentavano alcuna diagnosi clinica (queste ultime appartenevano al gruppo di controllo).

I risultati della fMRI hanno evidenziato una bassa attivazione nella corteccia prefrontale dorsolaterale e del giro angolare nelle adolescenti con Disturbo della condotta durante la regolazione emotiva, tuttavia non vi erano differenze per quanto riguardava la reattività emotiva nei due gruppi. Inoltre, durante la rivalutazione cognitiva, le connettività tra la corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra e il putamen bilaterale e quella tra la corteccia prefrontale destra e l’amigdala risultavano ridotte nelle adolescenti con Disturbo della condotta rispetto al gruppo di controllo.

Conclusioni e prospettive future

La ricerca evidenzia una ridotta attività cerebrale prefrontale e connessioni compromesse tra la corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra e il putamen bilaterale e quella tra la corteccia prefrontale destra e l’amigdala durante la regolazione delle emozioni nelle adolescenti con Disturbo della condotta.

Come prospettive future sarebbe interessante indagare se gli interventi cognitivi siano efficaci nel migliorare le capacità di regolazione emotiva e/o normalizzare l’attività prefrontale e temporoparietale nelle ragazze con Disturbo della condotta.

Essere genitori – Nasce il gruppo di sostegno milanese ai genitori di persone LGBTQ+

Essere genitori di persone LGBTQ+ può essere una sfida difficile da affrontare. Nasce il gruppo di sostegno milanese per intraprendere questo percorso con consapevolezza

Associazione Asterisco

 

Il coming out di una persona cara può essere accompagnato da una grande varietà di sentimenti e spesso i familiari di persone LGBTQ+ incontrano difficoltà nella gestione di questa situazione nella vita quotidiana, non riuscendo a fornire il sostegno desiderato.

L’ associazione milanese Asterisco – che si occupa di promozione del benessere psicologico e sessuale attraverso la riduzione degli stereotipi e la diffusione della cultura psicologica – ha deciso di fornire ai genitori in questa situazione un gruppo di sostegno, all’interno del quale confrontarsi con persone che stanno vivendo la stessa esperienza, sotto la guida della professionista Chiara de Bella, psicologa clinica e sessuologa.

La dottoressa, ideatrice del progetto, racconta:

L’idea nasce dall’esperienza di lavoro fatta con genitori di adolescenti transessuali, e dall’analisi degli studi che ci parlano di come il livello di disagio psicologico (ansia, depressione, ideazione suicidaria) delle persone LGBT+ diminuisce significativamente se da parte dei familiari è presente un atteggiamento di accettazione e sostegno. “Essere genitori” è un gruppo di confronto, scambio e supporto. Vorrei creare un ambiente accogliente e non giudicante, dove poter provare a guardare alla propria situazione da una diversa prospettiva.

Gli incontri si svolgono la sera di ogni primo lunedì del mese presso la sede dell’Associazione Asterisco a Cormano (MI) in via Verdi 14.

Per accedere al gruppo è necessario effettuare prima un colloquio conoscitivo.

Per informazioni e adesioni è possibile scrivere a [email protected]

Attività microcircuitale in diretta: una svolta per le Neuroscienze

Un recente studio basato sull’uso del processo di optogenetica parzialmente modificato, ha permesso per la prima volta di osservare “in diretta” l’attività dei neuroni. Le applicabilità sono enormi. Questa tecnologia apre una nuova finestra che potrebbe avere un effetto trasformativo nell’ambito delle neuroscienze.

 

Per anni gli scienziati hanno cercato un modo per osservare la sparsa ed intricata attività neurale in tempo reale, il pattern spazio-temporale dei potenziali d’azione che forma le basi della complessa rete di attività del nostro cervello.

Le modalità con cui questi eventi elettrici iniziano e sono propagati dipendono dalle sparse oscillazioni nei potenziali di membrana
dei neuroni, ovvero la differenza di potenziale fra l’interno e l’esterno della cellula derivante dall’integrazione dei segnali a livello dell’albero dendritico che, superando la soglia critica, permette la depolarizzazione.

Usando coloranti sensibili al potenziale è possibile ottenere un valore lineare dell’attività di ampie popolazioni di neuroni, ma la tecnica è limitata dal fatto di non poter selezionare specifiche categorie cellulari. Ciò rappresenta un ostacolo importante, poiché cellule adiacenti hanno spesso funzioni distinte. I metodi di misurazione diretti più usati rientrano nella categoria dei whole-cell patch clamp, in cui un elettrodo a vetro, contenente un fluido conduttivo e un filamento metallico, viene fissato sulla membrana, che viene poi aperta tramite aspirazione in modo da permettere l’accesso allo spazio intracellulare al sensore. Queste registrazioni, però, vengono effettuate su una cellula alla volta e non sono quindi un metodo efficacie per misurare l’attività correlata delle reti neurali.

Optogenetica: di cosa si tratta?

L’ optogenetica è considerata una tecnica promettente per sopperire a queste limitazioni in quanto consente lo studio di diversi tessuti, generalmente neuroni, modificati in modo da esprimere canali ionici sensibili alla luce.

Il processo è ottenuto inserendo il gene che codifica per i fotorecettori in un virus, il quale infetterà determinati neuroni dell’ospite in modo che esprimano le proteine di membrana fotosensibili. Il vettore virale può essere programmato in modo da riprodursi solo in cellule con determinate caratteristiche molecolari, in modo da poter studiare specifiche tipologie di neuroni. I geni così trasmessi codificheranno per indicatori di voltaggio e attuatori optogenetici. I primi sono in grado di produrre un segnale ottico misurabile, come l’emissione di fosforescenza, in risposta ai cambiamenti elettrici della cellula; i secondi possono modificare il potenziale di membrana in base allo spettro elettromagnetico e quindi al colore, della luce con cui vengono a contatto.

Comunque, le limitazioni di velocità e sensibilità degli indicatori di voltaggio geneticamente codificati e la sovrapposizione di spettro fra questi e gli attuatori optogenetici hanno impedito di costruire un sistema elettrofisiologico geneticamente codificato per la misurazione dell’attività di cellule specifiche, libero da interferenze, sul modello animale. Questo limite, però, potrebbe essere stato superato.

Oltre i limiti dell’ optogenetica: potenzialità e prospettive future

Il dottor Yoav Adam e colleghi (2019) hanno recentemente sviluppato un processo, basato su microscopia a fluorescenza ad alta velocità e su uno schema di espressione genica mirato di ultima generazione, che ha permesso una simultanea registrazione delle dinamiche del voltaggio transmembrana sotto e sopra soglia in diversi neuroni dell’ippocampo di topi svegli che camminavano su un tapis roulant.

I ricercatori hanno inserito nelle cellule dell’ippocampo delle cavie un’archeorodopsina, una proteina recettoriale fotosensibile trovata negli archeobatteri che è un indicatore di voltaggio, veloce e sensibile in vitro, chiamato QuasArs 3. Questo fotorecettore geneticamente codificato è, fra tutti, quello che risponde alla radiazione elettromagnetica con la lunghezza d’onda più alta. Viene eccitato dalla luce rossa ed emette una fluorescenza quasi infrarossa. Per controllare il potenziale di membrana hanno invece utilizzato il fotorecettore CheRiff, una rodopsina, ovvero una proteina fotosensibile in grado di cambiare il tasso di neurotrasmettitore rilasciato, che si attiva a contatto con la luce blu (che ha breve lunghezza d’onda).

I risultati mostrano dettagli subcellulari dei cambiamenti sottosoglia del potenziale di membrana in cellule multiple in tempo reale, riuscendo allo stesso tempo ad eccitare ed inibire optogeneticamente gli input sinaptici con un’interferenza minima. Il tutto per diversi giorni.

I ricercatori hanno visto per la prima volta neuroni lampeggiare in diretta in un animale sveglio ed attivo. Lo studio sembra dunque aver trovato uno strumento per trasformare la sparsa attività elettrica dei vari circuiti cerebrali in un “film” visibile attraverso un microscopio. Le applicabilità sono enormi. Questa tecnologia apre una nuova finestra che potrebbe avere un effetto trasformativo nell’ambito delle neuroscienze.

Aiuti concreti ed inclusivi per facilitare l’apprendimento della lettoscrittura (inglese come L2) per studenti italofoni

La lettoscrittura della lingua inglese è un problema realmente difficile per i soggetti con dislessia.

 

Ci sono vari ordini di difficoltà per le persone con dislessia che vanno a sommarsi:

  • Parliamo di inglese come L2, non come lingua madre. Ci sono quindi a valle le difficoltà di uno straniero che deve imparare a leggere e scrivere una lingua che non possiede profondamente a livello orale.
  • Parliamo di una lingua la cui fonetica è ricca e complessa: l’ inglese ha 44 fonemi (l’italiano solo 30) e ha regole ortografiche non facili, con una discreta quantità di omofoni e omografi.

In questo articolo cercheremo di dare dei suggerimenti concreti ai docenti di inglese che devono insegnare ai propri alunni a leggere e scrivere.

Particolarmente, insisteremo sulla necessità di un approccio strutturato all’insegnamento della fonetica inglese dalla scuola primaria (ovviamente con modalità adeguate all’età). Ad oggi, questo non viene fatto.

Dislessia: indicazioni per un training fonetico strutturato per imparare l’ inglese

Per quanto complesso possa essere fare un training fonetico strutturato in una L2 (è ovviamente necessario prendere una serie di misure e accorgimenti perché sia efficace ed adeguato alle competenze linguistiche degli alunni), è a nostro avviso necessario, soprattutto con i bambini e ragazzi con dislessia.

Dare delle procedure e delle regole per affrontare la lettura delle parole e dei fonemi è di grande aiuto per i soggetti in difficoltà: la sfida è svecchiare le modalità di questo training, che rischia di essere arido, astratto e demotivante su una lingua non profondamente conosciuta. Il gioco e la multisensorialità sono i necessari accorgimenti per introdurre da subito procedure che guidino i ragazzi.

Di seguito diamo quindi 5 consigli ai docenti, per introdurre ed insegnare la lettoscrittura in inglese in classi dove siano presenti anche soggetti con dislessia.

  1. Dedicare tempo ed energia a potenziare l’ascolto

I giochi di ascolto sono la prima attività per il riconoscimento della fonetica.

Nei training fonetici della scuola anglosassone c’è quella che viene comunemente chiamata “fase zero”. Che cosa è la fase zero? È la prima tappa del training fonetico, quella dedicata al potenziamento dell’ascolto.

Nel nostro mondo, nel quale grande importanza viene data alla comunicazione visiva, la capacità di ascoltare è peraltro una competenza da potenziare in molti bambini.

L’ascolto è diretto non solo ai suoni fonetici, ma anche ai suoni non fonetici. Il primo passo è infatti ascoltare e discriminare rumori non fonetici e suoni fonetici: riconoscere e discriminare lo sciabordio delle onde, il ronzio del frigorifero, il fischio del vento, il tonfo di un oggetto che cade.

Da questi esercizi si può passare alla fase fonetica, ovvero a riconoscere e discriminare il sibilo della /s/o la frizione della /th/.

2. Fare attività per sviluppare e consolidate la consapevolezza fonologica

La dislessia è un fenomeno complesso: i sintomi riferibili alla “difficoltà di leggere” si possono riferire a difficoltà di elaborazione di stimoli visivi o uditivi (o entrambi).

Tuttavia, a livello statistico, molti soggetti dislessici hanno problematiche nell’elaborazione dei suoni fonetici (discriminazione del suono fonetico dallo sfondo, discriminazione dei suoni fonetici tra loro, segmentazione e corretta sequenza dei suoni fonetici etc): per questo consigliamo a tutti i docenti di inglese di dedicare molte energie per sviluppare nei discenti la consapevolezza fonologica.

Che cosa è la consapevolezza fonologica?

  • È la conoscenza dei suoni fonetici dell’ inglese
  • È la competenza di discriminare e riconoscere questi suoni all’interno di parole e frasi
  • È la competenza di discriminare il singolo suono fonetico da altri suoni fonetici anche simili
  • È la competenza di articolare i suoni fonetici
  • È la competenza di manipolare la lingua, variando o sostituendo i suoni fonetici all’interno di sequenze, parole e frasi

È importante notare che possono essere presentati anche prima che i bambini imparino a scrivere, non è necessario procedere immediatamente alla rappresentazione grafica dei fonemi.

Nella scuola anglosassone, i training metafonologici iniziano sin dagli anni della scuola di infanzia, quindi prima di insegnare le lettere. I fonemi possono essere utilmente rappresentati con oggetti che iniziano con quel suono. Considerato il fatto che in inglese non c’è corrispondenza biunivoca suono-lettera, potrebbe essere anzi anche una buona misura nella scuola primaria, per evitare confusioni ai bambini con DSA.

Nell’ambito dello studio dell’ inglese come L2, bisogna anche segnalare una ulteriore specifica: i bambini non di madrelingua non saranno da subito in grado di discriminare tutti i suoni fonetici.

Ognuno di noi, entro il diciottesimo mese di vita, “si specializza” nella propria lingua madre, ovvero diventa abile nel riconoscerne i suoni. Questo è fondamentale per imparare a comunicare nella propria lingua, tuttavia significa anche che diminuisce la sensibilità nei confronti di suoni fonetici non rappresentati nella lingua madre.

Per questo, gli esercizi di ascolto sono cosi importanti. Si tratta di ripristinare, ampliare e potenziare la capacità di cogliere un ampio spettro di suoni. Questo momento aiuterà concretamente il momento successivo, ovvero il training strutturato sui suoni fonetici.

3. “Ascoltare” con gli occhi

Il bambino che impara la propria lingua non impara solo ad ascoltare ma anche ad articolare i suoni che percepisce. Il bambino osserva la bocca della madre quando parla e grazie ai neuroni a specchio lavora per imparare gli schemi articolatori sottesi dalla pronuncia dei suoni che sente.

Questo meccanismo per cui ascoltiamo per così dire contemporaneamente con le orecchie e con gli occhi, traendo in modo integrato l’informazione che ci aiuta a decifrare la lingua è ben presente durante tutte le fasi della vita. Abbiamo notato tutti che è più faticoso ascoltare e capire una lingua straniera al telefono: il “labiale” ci fornisce molte informazioni.

Per imparare i suoni è importante sia ascoltarli che vederli articolare, sia coglierli che riprodurli in prima persona: possiamo trasportare questa consapevolezza nella lezione di inglese, dando una grande importanza non solo all’ascolto con file audio o CD, ma anche alla visione di video dove si veda lo speaker che articola i suoni.

Nei vecchi libri di testo, c’erano le cassette o i cd con la sola traccia audio, mentre i nuovi libri di testo hanno introdotto i video, che oltre ad essere piu divertenti da vedere danno una serie di informazioni visive importanti per comprendere il messaggio e imparare la lingua. In questo senso, esiste quindi già un aiuto concreto disponibile in molti testi: il fatto che ci siano dei video oltre ai file audio è sicuramente uno dei criteri da curare per la scelta del libro di testo.

Ma non è tutto. Quando si impara la lingua materna, l’esposizione alla lingua è massima quindi il training non è strutturato. Ma se parliamo di poche lezioni alla settimana, strutturare un training articolatorio può davvero fare la differenza nell’insegnamento della fonetica.

Ciò che intendo dire è che possiamo utilmente affiancare all’ascolto un insegnamento sistematico di come si articolano i vari fonemi. Aiutiamo bambini e ragazzi a distinguere un suono sordo da un suono sonoro, a riconoscere l’articolazione labiale, palatale e gutturale. È abbastanza divertente e facile da fare, basta attirare la loro attenzione su alcuni fenomeni:

  • Se il suono è sonoro (come le vocali ed alcune consonanti), ponendo la mano sulla gola percepiamo la vibrazione. Se è sordo, non la percepiamo.
  • Le consonanti si distinguono a seconda del luogo della bocca dove avviene l’occlusione o la frizione, quindi se stringiamo le labbra sono consonanti labiali, se percepiamo l’occlusione o la frizione al centro della bocca sono palatali, se invece percepiamo il movimento in fondo alla bocca, visini alla gola, sono gutturali.

Questi esercizi possono essere fatti in modo ludico e con crescenti dettagli mano a mano che sale l’età e la competenza dei bambini e dei ragazzi, ma aiutarli a distinguere l’articolazione dei suoni sarà un grande aiuto per riconoscerli, oltre che per riprodurli.

4. Bilanciare ed intagrare l’approccio phonics vs approccio whole word (sight word)

Esistono due approcci contrapposti nell’insegnamento della lettoscrittura, ovvero l’approccio fonetico vs approccio globale. Fino agli anni ’80, nel mondo anglosassone (e non solo) era prevalente l’approccio globale (whole word), che potremmo sinteticamente definire così: i bambini erano addestrati a riconoscere “a vista” gruppi di parole. Sostanzialmente, si lasciava che la regola fonetica fosse in qualche modo dedotta, grazie alla presentazione strutturata di molti esempi.

La didattica globale della lettoscrittura annovera anche nomi illustri come Edward William Dolch, il professore cui si devono le famose “parole di Dolch”, ovvero le liste di parole ad alta frequenza, la cui memorizzazione “visiva” era indicata per facilitare la lettura in inglese.

Definiamo parole ad alta frequenza le parole che ricorrono molto spesso in ogni testo della lingua. Il riconoscimento immediato a vista (senza il tempo di decifrazione) delle parole ad alta frequenza può sveltire moltissimo la lettura, soprattutto nei soggetti che hanno delle difficoltà specifiche.

Le parole di Dolch sono state per decenni insegnate nelle scuole primarie americane, strutturate nelle classi successive a partire dai 5 anni in gruppi ordinati per difficoltà e frequenza. Nonostante una buona parte delle parole di Dolch potessero essere decifrate secondo le regole fonetiche, prevaleva in quei tempi l’approccio globale e le parole erano presentate in libri di lettura nei quali le parole frequenti ricorrevano continuamente per facilitare il riconoscimento a vista (“sight words”).

Successivamente, ha avuto un successo crescente il metodo fonetico, basato sull’istruzione diretta dei singoli suoni e delle regole che stanno alla base del “blending” dei suoni fonetici per formare le parole.

La formazione fonetica è stata strutturata in un percorso pluriennale (che abbraccia gli anni a cavallo tra la scuola di infanzia e la primaria), ed i metodi più diffusi danno grande importanza anche al lato multisensoriale, inclusivo e ludico del training fonologico (giochi di ascolto e discriminazione di fonemi, scrittura in aria  e su diversi materiali, grande importanza alla dimensione dello storyelling etc).

I test standardizzati, negli anni, hanno decretato la superiorità del metodo fonetico rispetto al metodo globale. Le performances sono state migliori non solo nella decifrazione della scrittura, ma anche in competenze correlate come la comprensione del testo.

L’irregolarità della lingua inglese, tuttavia, è tale da suggerire l’utilità di un approccio integrato, che viene conservato dai materiali in uso. Svariate parole ad alta frequenza sono infatti  foneticamente irregolari, e necessitano di essere insegnate a vista.

Insegnamento della fonetica inglese (inglese come L2)

Qui bisogna fare una doverosa parentesi per l’ inglese come L2.

I bambini italofoni a cui insegniamo l’ inglese non hanno una sicura competenza della lingua orale, spesso sono addirittura principianti assoluti. La domanda è quindi: ha senso insegnare la fonetica (con un approccio analitico, fonema per fonema) di una lingua che non si conosce?

La domanda ha naturalmente senso e sono diverse le sfumature da prendere in considerazione: se da una parte è vero e incontrovertibile che un approccio strutturato aiuta i principianti, è altrettanto vero che “iniziare dai fonemi” anziché dalle parole è un agire che va contro la direzione naturale dell’apprendimento, dal globale all’analitico. Ha senso riconoscere i fonemi, ove non conosciamo neppure le parole? Non è una forma di insegnamento astratto e demotivante?

Quindi, ciò che fa la differenza, è il modo in cui insegniamo la fonetica inglese ai bambini principianti:

  • È necessario mantenere un approccio ludico, in modo che le attività in se siano gratificanti e non arbitrarie e quindi motivanti.
  • È necessario strutturare la sequenza di presentazione dei fonemi e delle parole in modo che sia adeguata alle competenze  del bambino che studia inglese come L2.

Facciamo degli esempi concreti: uno dei piu celebri metodi multisensoriali e ludici dell’insegnamento fonetico, usato anche in Italia per insegnare la fonetica dell’ inglese a bambini italofoni, presenta tra le prime parole “snake” (serpente) e “castanets” (nacchere). Sono parole non presenti nel vocabolario di un principiante, sono parole lunghe e difficili da pronunciare e ricordare per un parlante non nativo. La sequenza stessa dei suoni, intuitiva per il bambino madrelingua, è invece innaturale per il bambino italofono che studia inglese come L2. Ciò che voglio dire è che gli studi dimostrano l’efficacia dei training fonetici e il mercato anglosassone offre ottimi materiali, ma che è necessario adattarli per venire incontro alle esigenze del bambino che studia l’ inglese.

Insegnamento delle sight words nello studio dell’inglese L2

Il training delle parole al alta frequenza (whole words) è molto importante  perché il bambino che non conosce la lingua avrà un vantaggio in tempi brevi dall’imparare le parole che ricorrono piu frequentemente. Normalmente, nei training anglosassoni, le parole che fanno eccezione foneticamente sono studiate dopo le parole regolari dal punto di vista fonetico. Tuttavia, può essere una buona indicazione anticipare tra le eccezioni fonetiche le parole ad alta frequenza.

5. Insegnare la segmentazione delle parole

Una delle difficoltà piuì comuni è la lettura di parole lunghe (bisillabe e trisillabe). Uno dei rimedi che ha senso insegnare, soprattutto a soggetti con DSA, è i pattern per scomporre le parole, e leggerle “a pezzi” e poi “rifonderle insieme “ (bending + segmenting), ad esempio:

  • Riconoscere i prefissi “IN”, “A”, “POST”…
  • Riconoscere i suffissi “NESS”, “LY”, “ER”…

Di solito la formazione delle parole è un argomento che viene trattato molto avanti nell’ insegnamento dell’ inglese, tuttavia ai fini della lettura delle parole insegnare a scomporre le parole in radicale + prefisso (suffisso aiuta concretamente ad affrontare monosillabi anziché bisillabi/trisillabi.

Come nota a margine, aggiungo che essenso molti prefissi di provenienza latina al parlante italofono oltre ad essere di facile lettura danno in modo immediato delle informazioni sul significato)

6. Leggere, leggere, leggere

I soggetti con difficoltà raramente leggono libri in inglese. Eppure, leggere è molto importante e sarebbe da fare con regolarità per imparare e consolidare la lingua. Per facilitare la lettura, consigliamo di:

  • Usare letture graduate per il livello dei bambini (controllate sul retro)
  • Proporre le Storie fonetiche, ovvero storie nelle quali ricorrono parole fonetiche con pattern riconoscibile (famiglia di parola)
  • Scegliere libri con CD e proporre ai bambini e ragazzi l’esperienza contemporanea di lettura + ascolto (audio-book)

Implementando nella classe, sin dalle scuole primarie, training strutturati di questo tipo, si dovrebbe essere in grado di costruire in modo più efficace le competenze di base di tutti i discenti, aiutando in particolare modo coloro che più di tutti possono avvantaggiarsi di una istruzione esplicita, ovvero i bambini e ragazzi con DSA.

Dalla teorizzazione all’episodio narrativo

In un precedente articolo avevo definito i terapeuti TMI come cacciatori di episodi, scene, momenti, cercando, poi, di descrivere la differenza tra la ricostruzione dell’episodio narrativo e quella dello schema interpersonale maladattivo. In quell’occasione avevo sottolineato l’importanza di raccogliere vari episodi narrativi prima di formulare e condividere un’ipotesi di schema che comprendesse la procedura del tipo “se…allora”.

 

Questa volta, però, vorrei portare l’attenzione sulla differenza tra generalizzazione, teorizzazione e un buon episodio narrativo. Noi tutti abbiamo una teoria del nostro modo di funzionare del mondo e, per carità, spesso e volentieri questa teoria è giusta. Banalmente potremmo dire, ad esempio, che siamo suscettibili a coloro che ci ignorano perché stiamo male. Oppure che vestirci in un certo modo ci fa sentire più sicuri. Queste semplici affermazioni che rappresentano, evidentemente, una regola, le definiamo generalizzazioni perché descrivono un nostro modo di reagire di fronte a determinati trigger oppure un nostro modo di comportarci in determinate situazioni ma, come è evidente, sono prive di ogni componente mentalistica utile.

Non vi è, infatti, descritto un pensiero, né un’emozione né un comportamento specifico. Ovviamente vi è solo un vago accenno alla relazione tra le variabili, molto semplicistica e limitativa. Non rappresentando una narrazione che favorisce una riflessione, resta un’esperienza che non è di aiuto nella concettualizzazione del caso e non permette l’accesso ad alcun contenuto mentale.

È nostro compito, a questo punto, aiutare il paziente ad identificare e descrivere un episodio nel quale la sua teoria si esplica, analizzando fotogramma per fotogramma tutta la sequenza di eventi incorsi nella sua mente ed intorno a lui. Lo scopo è di identificare le variabili necessarie alla ricostruzione di un eventuale schema e di determinare, nel modo più preciso possibile, questa teoria per far notare che essa rispecchia il modo con cui leggiamo gli eventi e che non ha niente a che vedere con la realtà stessa. Non a caso, si parla di rappresentazione.

Generalizzazione ed episodio narrativo – Facciamo subito un esempio:

Ogni volta che vado al mare, sto bene. Quando sono a lavoro, mi sento spesso a disagio.

Tralasciando la volontaria presenza di alessitimia, in quanto in queste due affermazioni non vi è neppure l’ombra di un’emozione specifica, potremmo dire che queste sono teorie. Generalizzazioni. Volutamente ho fatto un esempio al positivo ed una al negativo perché, sarà magari relativamente sorprendente, ma spesso tendiamo a generalizzare anche su eventi positivi.

L’avreste mai detto?

La teoria riflette uno specifico difetto metacognitivo dell’automonitoraggio ma questo non vuol dire che il paziente, se opportunamente guidato, non riesca a rintracciare tutti i dettagli dell’episodio narrativo, effettuando un’analisi ben più precisa, organizzando il materiale cognitivo, emotivo e magari anche corporeo/somatico. Il suo teorizzare ci indicherà quanto grave possa essere il deficit dell’automonitoraggio e ci indurrà a sollecitare un allenamento auto-osservativo che lo aiuti ad esaminare meglio quello che, per certi versi, sembra incalzare e pervadere la mente.

A questo punto il “se vado al mare sto bene” può diventare un “ieri, quando ero sulla spiaggia, con i piedi scalzi, sentivo la sabbia calda sotto di me, il sole che mi scaldava il viso e l’acqua che ogni tanto mi rinfrescava. Nell’osservare tutti questi elementi che mi circondavano, ho subito pensato quanto fosse complessa la natura nel suo insieme e come essa potesse regalarci degli spettacoli meravigliosi. Ero da sola, eppure mi sentivo interconnessa con tutto ciò che era intorno a me. Ho provato un’intensa sensazione di pace e tranquillità ed il mio corpo era profondamente rilassato ma presente”.

Il “quando sono a lavoro sto male” si può trasformare in uno scenario molto più complesso del tipo “settimana scorsa a lavoro un mio collega mi ha detto di aver notato che il progetto che avevo presentato al mio capo era ancora sulla scrivania. Ho, quindi, pensato che non l’avesse preso in considerazione, che non l’avesse neppure letto e questo mi ha catapultato in un’emozione di vergogna molto intensa perché ho pensato che effettivamente non ho i numeri in tasca per scrivere e presentare un progetto. Non valgo nulla. Merito quasi la loro non considerazione. Estremamente triste, sono andato a casa e non sono uscito per tutto il week-end”.

Cambia molto, vero? In questo caso sembra quasi di vedere il nostro attore della scena che si infila la giacca e lascia l’ufficio con capo chino e passo lento. È esattamente questo modo di lavorare sulla scena che favorisce la consapevolezza di quello che si muove nella mente, decisamente molto più complesso e sfaccettato di un semplice interruttore bene-male. Per fare questo lavoro minuzioso basta cogliere il paziente nella sua teorizzazione sugli eventi, seppur vaga e chiedergli di farci un esempio, di portarci con lui su una scena o un momento in cui quello di cui ci sta parlando si è verificato. Quando più episodi aiutano a far emergere sempre un determinato vissuto, come se dietro vi fosse una certa sistematicità, a quel punto possiamo immaginare che su quegli aspetti ci sia proprio uno schema e possiamo provare a formulare e condividere con il paziente una prima idea di schema interpersonale maladattivo.

Un episodio può non è essere sempre semplice da ottenere, il più delle volte se siamo fortunati dobbiamo allenare il paziente. Una modalità è quella di validare, in un clima relazionale collaborativo ed esplorativo, riportando l’dea che è una difficoltà comune e spiegare il razionale, cioè far capire al paziente perché questa analisi è così importante. Poi cerchiamo di accedere a delle scene ma se questo non dovesse succedere allora accompagniamo il paziente nella palestra mentalistica in cui si dovrà esercitare nell’automonitoraggio. Appena si accede ad un materiale anche vago il terapeuta ne approfitta per agganciarsi e porre una serie di domande di approfondimento senza risultare un investigatore ma un osservatore curioso. Un altro trucco è quello di agganciarsi a temi a carattere edonico positivo oppure a momenti che emergono nel vivo dell’interazione in seduta, anche di tipo relazionale. Tale spunto giunge dal lavoro coi pazienti gravi, con cui può essere davvero complesso il lavoro sulle narrazioni (Salvatore et al., 2017). Infine non dimentichiamo la possibilità di aiutarci con tecniche immaginative, drammaturgiche e corporee a scopo esplorativo (Dimaggio et al., 2019).

Nerve Transfers: utilizzata per la prima volta in Italia la tecnica per il recupero delle funzioni delle mani in pazienti tetraplegici

Utilizzata per la prima volta in Italia la tecnica del Nerve Transfers per il recupero delle funzioni delle mani in un paziente tetraplegico.

Marco Tanini, Ilaria Bagnulo, Alessandro Toccafondi, Vittoria Falchini, Anna Manfriani

 

Nuovo trattamento per il recupero della funzione delle mani in pazienti tetraplegici

Tetraplegico per un incidente d’auto, un 52enne recupererà la funzione delle mani grazie ad un innovativo intervento realizzato all’Ospedale Cto della Città della Salute di Torino.

La metodica, eseguita in pochi centri al mondo e – sottolinea l’ospedale – per la prima volta in Italia, bypassa la lesione del midollo spinale ricollegando, come fili elettrici, i nervi sani a nervi non più funzionanti. In questo modo, spiegano i sanitari, è possibile reinnervare distretti muscolari altrimenti non recuperabili (ANSA, 2019).

I danni al midollo spinale

Il midollo spinale è contenuto all’interno del forame vertebrale e consente il passaggio dei messaggi sensoriali e motori che interessano il movimento dei muscoli che sono trasmessi e ricevuti dal cervello attraverso il midollo spinale stesso.

Si definisce cervicale la porzione di midollo che è ospitata all’interno del forame vertebrale a partire dalla prima vertebra cervicale fino alla settima.

Danni al midollo possono essere originati da sezioni trasversali da distorsione del rachide o da compressione in seguito ad ematomi. Entrambi i traumatismi possono dare origine ad una paralisi che blocca la trasmissione nervosa. Se il trauma è a livello cervicale si ha la paralisi sia degli arti inferiori che di quelli superiori.

Ogni anno in Italia diventano para o tetraplegiche circa 2.500 persone, di cui il 45% a causa di incidenti stradali, il 20% a causa di incidenti sul lavoro, il 10% a causa di incidenti sportivi, il restante 25% per diverse cause tra cui le armi da fuoco. L’80% di queste persone ha un’età compresa tra i 10 e i 40 anni e quindi un’aspettativa di vita molto lunga, conseguentemente un costo sociale e personale, per sé e per le proprie famiglie, elevatissimo. Vivono in Italia circa 75.000 persone con esiti di lesione al midollo spinale (dati Federazione Associazioni Italiani Paraplegici).

Nerve Transfers in Italia: il caso

L’intervento è stato eseguito su un uomo di 52 anni che a seguito di un incidente stradale aveva riportato una lesione completa del midollo spinale cervicale e conseguente paralisi degli arti inferiori e superiori. Sei mesi dopo l’ incidente, è stato sottoposto ad un intervento chirurgico durante il quale sono state connesse terminazioni nervose sane direttamente al sistema nervoso dei distretti nervosi degli arti superiori.

Nerve Transfers: la tecnica

Tale intervento consente di bypassare la lesione midollare trasferendo e connettendo le strutture nervose, a monte della lesione, al tessuto nervoso dei distretti muscolari degli arti superiori.

In passato, per cercare di recuperare la capacità di apertura/chiusura della dita delle mani, si usava una tecnica detta “Trasferimento Tendineo”, questo intervento consiste nel prelevare un tendine fisiologicamente deputato ad una funzione diversa, che viene staccato dal suo punto di inserzione distale per essere poi opportunamente inserito in altra sede, questo allo scopo di fornire un nuovo motore al segmento che ha perso quello fisiologico. La tecnica del trasferimento tendineo è di largo impiego anche nelle lesioni nervose periferiche dell’arto superiore non altrimenti riparabili. In questi casi si sostituisce la funzione di un muscolo paralizzato per una lesione di un suo nervo motore con quella di un muscolo innervato da un nervo sano (Ortensi P. 1997).

Il vantaggio della metodica usata all’Ospedale Cto della Città della Salute di Torino ha il vantaggio di consentire un recupero sensoriale oltre che motorio.

La prima pubblicazione della tecnica di Nerve Transfers (Fox, Kristen, Novak et al. 2015) prendeva in esame gli esiti di nove nove pazienti tetraplegici con lesioni del midollo spinale alla base del collo dove ogni paziente aveva mostrato un miglioramento delle funzionalità delle mani e delle braccia (Fox, Kristen, Novak et al. 2015).

Questa tecnica di Nerve Transfers, sperimentata per la prima volta in Italia, fornisce miglioramenti nella funzionalità, motoria e sensitiva, delle mani in pazienti tetraplegici. Nonostante il recupero globale sia minimo, la riacquisizione del controllo funzionale degli arti superiori può contribuire al miglioramento della qualità della vita.

Prendersi cura della morte psichica

La morte è un evento difficile da metabolizzare, solitamente non fa parte delle possibilità che contempliamo nella nostra professione, perché rischia di minare le convinzioni teoriche ed etiche di noi “professionisti” della salute mentale; tali convinzioni costituiscono il fondamento più o meno solido su cui poggia la fiducia nella propria possibilità di essere d’aiuto nell’incontro con l’altro sofferente

 

Ma che dire della vita che subisce contrazioni successive, finché non rimane che un nodo strozzato? Una volontà che si serra su sé stessa come un pugno che non può aprirsi… e seguita a serrarsi, intrappolata dalla sua stessa densità, come un buco nero, sempre più denso e più buio col passare del tempo

M. Eigen, “Legami danneggiati”

 

Nei giorni scorsi si è molto parlato delle vicende umane di Noa Pothoven, giovane ragazza olandese che, dopo aver tentato invano di ottenere dallo stato l’autorizzazione per il suicidio assistito, si è lasciata morire a casa, accompagnata dai propri genitori, o almeno questo è quello che abbiamo potuto sapere dalla lettura dei giornali. La sua storia ha avuto un effetto dirompente nel discorso pubblico, per diversi motivi: innanzitutto, anche grazie alla grossolana disinformazione con cui la notizia è stata riportata all’inizio, si è riacceso il confronto – scontro sull’eutanasia, in senso generale e poi nello specifico quando questa sia correlata alla sofferenza psichica; successivamente ci si è interrogati sull’enormità di questioni che apre la vicenda umana di un’adolescente, vittima di violenze e di uno stupro, che dopo aver tentato di metabolizzare invano queste esperienze, anche attraverso la scrittura di un libro, sceglie di morire e conseguentemente si lascia morire.

In quanto psichiatra e psicoterapeuta, vorrei soffermarmi su quest’ultimo tema, perché è quello che mi ha colpito di più: la morte è un evento difficile da metabolizzare, solitamente non fa parte delle possibilità che contempliamo nella nostra professione, perché rischia di minare le convinzioni teoriche ed etiche di noi “professionisti” della salute mentale; tali convinzioni costituiscono il fondamento più o meno solido su cui poggia la fiducia nella propria possibilità di essere d’aiuto nell’incontro con l’altro sofferente, pertanto la loro crisi rischia di esitare nella messa in discussione dell’identità professionale del terapeuta. Il mio obiettivo è interrogarmi su quali possono essere gli strumenti clinici più adeguati ed efficaci in situazioni come questa, che mettono di fronte ai rischi della nostra professione e alla necessità che ognuno di noi ha di non essere una monade isolata in balìa degli eventi, ma piuttosto di far parte di una rete di supporto e sostegno tra pari e non solo.

La morte psichica nella relazione terapeutica

Quali sono i modi in cui la morte psichica può presentarsi nella relazione psicoterapeutica? Ne L’inchiostro della malinconia, Starobinski descrive la desertificazione a cui va incontro il mondo melanconico:

Agli occhi del depresso, capita sovente che il paesaggio circostante appaia come privo di consistenza e di realtà. Il mondo non è più all’altezza. E’ contaminato da qualcosa di falso e ingannevole. Le attività umane sembrano destituite di senso. Gli uomini attendono alle loro occupazioni, ma il loro andirivieni, per il malinconico, è solo un gesticolio inquietante e assurdo (Jean Starobinski, “L’inchiostro della malinconia” – Pag. 178)

Ovviamente non è solo nell’incontro con la grave depressione che il clinico viene a contatto con la morte psichica, ma questa è l’evenienza con più letteratura disponibile e pertanto può fungere da paradigma. Il soggetto sperimenta una progressiva presa di distanza dal mondo, che perde i suoi contorni, la sua consistenza, e finisce per condurre un’esistenza scarnificata, mettendo tra parentesi il leib (il corpo vivo, per Husserl) e rapportandosi ad un korpe altro da sé, ostile. Un’altra caratteristica del mondo psichico di questi individui è l’assenza o quasi di oggetti investiti riconoscibili, sia in positivo, come oggetti caldi e nutrienti, che in negativo, come origine di eventuali traumi: non dico che non esistano, ma sono irraggiungibili, non rappresentabili in parole né in immagini. Per parafrasare la famosa metafora di Tellenbach (in Binswanger, 2006), prima di occuparsi di chi lo ha appiccato, l’obiettivo terapeutico principale è spegnere l’incendio prima che bruci tutto, sapendo che l’ultimo combustibile a bruciare è la vita stessa. Non stupisce quindi che la qualità dell’angoscia in questi individui abbia a che vedere non tanto con la costruzione del “senso” dell’esistere, quanto piuttosto con la perdita della possibilità di “poter restare ancora in vita” (Binswanger, 2006).

In questo progressivo allontanamento dal mondo condiviso, il soggetto prende sempre più commiato dal mondo degli uomini:

Ai confini del silenzio, col più flebile dei soffi, la malinconia mormora: <<Tutto è vuoto! Tutto è vanità>>. Il mondo è inanimato, colpito a morte, aspirato dal nulla. Ciò che si possedeva un tempo è andato perduto. Ciò che si era sperato non è avvenuto. Lo spazio è disabitato. Ovunque regna il deserto infecondo. E se uno spirito aleggia al di sopra di questa distesa, è quello della constatazione desolata, la nuvola nera della sterilità, dalla quale mai scoccherà il lampo di un fiat lux. Di ciò che la coscienza aveva contenuto, cosa resta? Appena qualche ombra. E forse le vestigia dei limiti che facevano della coscienza un ricettacolo, un contenitore – come le mura rase al suolo di una città devastata. Ma, per il malinconico, la vastità, nata dalla devastazione, si oblitera a sua volta. E il vuoto si fa più esiguo della più angusta segreta (Jean Starobinski, “L’inchiostro della malinconia” – Pag. 463)

L’incontro terapeutico con un individuo segnato, avviluppato dalla “morte psichica” (Eigen, 1998) è un’esperienza limite, se non per certi versi paradossale, per entrambi i soggetti coinvolti: il paziente, come abbiamo visto, incontra qualcuno che è impossibilitato ad incontrare perché di fatto disabita il mondo in comune, il terapeuta invece si trova di fronte ad una presentificazione dell’abisso nietzschiano e deve fare ricorso a tutto il suo armamentario di tecniche e di esperienze per guardarvi senza sprofondarvi dentro. Qui si aprono questioni importanti, che attengono in parte alla psicoterapia in sé e in parte al modello di riferimento dei singoli terapeuti. Per chi, come me, è un terapeuta della Gestalt, l’incontro con questi pazienti presenta delle difficoltà peculiari: la terapia della Gestalt non ha una metapsicologia vera e propria, come sosteneva Barrie Simmons più che su una teoria psicologica è da intendersi come il “reparto operativo di una filosofia esistenziale. L’unico postulato, l’unica certezza a priori su cui tutto il modello poggia e che dà sostanza al nostro agire terapeutico è la fiducia nella saggezza organismica, l’idea che, liberato dalle briglie costruite nel corso degli anni in successive stratificazioni di conflitti rimossi, evitamenti del contatto, cristallizzazioni di polarità, abitudini caratteriali, l’individuo è abile a rispondere alle richieste dell’ambiente adattandovisi creativamente e perseguendo il proprio bene. Ora, è evidente che nell’incontro con la morte psichica, tutto questo subisce almeno apparentemente uno scacco, e tutti i tentativi di mobilizzare una vita che ha già smesso di essere viva possono essere frustrati e frustranti per il terapeuta oltre che poco utili per il paziente.

E’ possibile riportare qualcuno al di qua della morte psichica?

Con un paziente con queste caratteristiche, il primo passo da compiere è, per così dire, resuscitare l’altro, riportarlo in vita, riportarlo nello spazio relazionale, “recuperare l’integrità dell’essere uomini tramite il rapporto che c’è tra loro” (R.D. Laing, in P.M. Bromberg). Senza questo movimento, nessun percorso terapeutico è possibile, perché la psicoterapia è possibile tra due persone almeno parzialmente vive. E come è possibile riportare qualcuno al di qua della morte? Al di là dell’approccio terapeutico utilizzato, è centrale la disponibilità del terapeuta a guardare nell’abisso, controllando la propria vitalità perché non debordi difensivamente e allo stesso tempo non svapori nel nulla dell’altro, al fine di essere in qualche modo infettato dal vuoto dell’altro per trasformarlo faticosamente da vuoto mortifero a vuoto fertile:

Il paziente esperisce la possibilità che qualcuno metabolizzi ciò che gli era sembrato impossibile rielaborare. Egli apprende in tal modo che non è del tutto indigesto, anche se non è neppure interamente digeribile, e che, comunque, una parziale attività di trasformazione non gli è soltanto possibile, ma anche necessaria (Eigen, “La morte psichica”, 1998 – Pagg. 191 – 192)

In questo processo di guarigione che avviene per così dire per contagio, il terapeuta è esposto al vuoto mortifero dell’altro e necessita certamente di fiducia nelle proprie possibilità, ma non solo: è cruciale che sia disponibile ad “affondare” (ibidem) l’uno nell’altro e allo stesso tempo che mantenga un contatto con se stesso, in quella pratica della “Simpatia” che Perls ha così chiaramente consigliato (anche in opposizione ai pericoli che nasconde invece il concetto di empatia, soprattutto in condizioni simili). E’ altresì cruciale che il terapeuta non sia solo: non solo perché questi pazienti “difficili” richiedono tutto il sostegno possibile (intervisioni, supervisioni, eventi formativi ecc), ma anche per restituire all’altro nell’incontro il nostro essere moltitudini, affinché possa apprendere come l’esistenza trascenda il singolo e si dispieghi nella molteplicità.

Concludo queste riflessioni con un’esortazione che mi pare possa riassumere il senso di quanto ho scritto:

La funzione della terapia è in parte quella di durare, resistere, sopravvivere alla distruttività. Ma anche in terapia c’è distruttività. Che senso ha per la terapia sopravvivere a sé stessa? Autodistruggersi? Ritentare e continuare a tentare di nuovo? E questo tentare e ritentare riesce infine a filtrare nel legame danneggiato e a cambiare qualcosa? Aspettare e tentare; nella pazienza, una grande bellezza (Michael Eigen, Legami danneggiati – pag. 128)

You (2018) La lettera di Beck – La violenza di genere inizia prima di uno sguardo ammiccante

Attenzione: l’articolo contiene spoiler su tutta la stagione

You è una produzione Netflix del 2018, che fa parlare di sé, ma sopratutto di stalking e dipendenza relazionale.

 

Molti ne hanno scritto una disamina in chiave psicologica e psicopatologica, concentrandosi sull’interessante personaggio di Joe, bibliotecario affascinante e premuroso all’apparenza.

Altri si sono concentrati, a mio avviso in modo molto interessante, sul meccanismo perverso attraverso il quale lo spettatore, sconfinando in una voyeuristica “pornografia della morte”, sviluppa in modo del tutto imprevisto quello che Diego Castelli descrive come

l’ossessione seriale verso la prosecuzione di una storia, indipendentemente dalle vittime che essa porterà con sé

la serie deve continuare, dunque non solo è necessario che Beck muoia, ma che muoia anche Candice.

You: storia di una trentenne come tante

Guardo la serie d’un fiato. Lo chiamano Binge Watching.

E a me colpisce qualche altra cosa. A me colpisce Beck, la seducente protagonista femminile. Letteralmente, un pugno nello stomaco ben assestato.

Beck sei tu. Sono io. Siamo noi.

Eravamo lì, senza sentirci osservate. Nel labirinto di scaffali, alla ricerca di un titolo a cui affidarci. Mentre Joe, vestito della luce tenue della libreria appoggiava lo sguardo sui nostri gesti, leggendo traiettorie, ragioni, frammenti di identità. Appellandosi al suo romantico glossario narcisistico. Noi, belle come tutto ciò che è inconsapevole e sofisticato. Sottobraccio all’insaziabile amica di sempre: l’urgente, incommensurabile desiderio di piacere. Dunque esistere.

Beck è la trentenne che ciascuna di noi è, è stata, o ha conosciuto. Un lavoro che la appassiona ma la mette a contatto con la competizione, la frustrazione e l’inconcludenza. Beck scrive poesie. Non tutti la capiscono, non tutti condividono la sua scelta. In Beck rivedo ogni donna degli anni 2000, alle prese con il futuro più incerto e accessoriato che potessimo immaginare. Ci chiamano millennials. La realtà suona meno affascinante del nome: molti mezzi, pochi modelli a cui ispirarsi, nessuna certezza, molta, moltissima libertà.

E se fosse una trappola? L’assenza di solide impalcature attorno alle quali svilupparsi, avvilupparsi come edera affamata di sole? La nostra protagonista femminile vive il dramma di ogni donna che si chiede dove debba mettersi: in mostra con il rischio di essere fraintesa da un viscido professore di letteratura? Oppure nell’ombra, aspettando in eterno di mettere la firma a una pubblicazione soddisfacente? Oppure ancora rinunciare e seguire sogni più semplici? Bere un margarita? Beck non cerca un uomo. Beck cerca una direzione.

You: come cavarsela tra realizzazione personale e relazioni

Dilaniata dal dramma di una prolungata dipendenza economica dal padre, si presta alla recita che egli le impone. Lo raggiunge a un festival tematico dove si presenta stretta in un abito vittoriano ed è probabilmente la scena che mi turba di più in tutta la serie: non le violenze, gli omicidi, l’inquietante intuito di Joe, i pedinamenti e i flashback, no. Beck deliziosamente fasciata in un abito che non ha scelto e paga il suo prezzo, al padre, alla famiglia, al mondo intero.

Il pizzo estorto a chi ha sogni ingombranti?

Nello sguardo malinconico di Beck rivedo ciascuna di noi, nell’orribile parata della crescita, in un contesto socioculturale dalle pareti basse, un’Alice talvolta troppo grande, talvolta minuscola, mai adeguata alle richieste del mondo.

Rivedo me stessa a 8 anni. Triste e annoiata nell’abito da ninja quanto in quello da principessa, in una festa di carnevale dove ogni muscolo di plastica e ogni corona di fiori mi pareva più convincente di me.

Tutti i personaggi della serie appiccicano una maschera sul volto della nostra bellissima Beck. Il professore la vuole languida e disponibile, il fidanzato cerca invece un secchio dove svuotare le sue frustrazioni, i suoi dubbi, vuole parlare, non ascoltare. Vuole uno specchio d’acqua che ne rifletta l’ego. Vuole vedere se stesso, bonificato nei suoi occhi verdi.

Peach vuole che Beck sia la principessa del suo castello, inseparabile amica saffica, dolce bambola da possedere se non cannibalizzare.

Come in una giostra i personaggi si avvicendano e si affannano nell’imporre il loro copione. Nessuno chiede a Beck cosa voglia. E Beck impara presto a non domandarselo più e a lasciarsi scegliere, seduttiva per forza, nella giostra frenetica dei legami, accettando briciole di attenzione e credendole pane.

You: la violenza di genere

Joe è solo un burattinaio più scaltro. Ma di lui hanno scritto in tanti.

Mi limito a riconoscere nel suo attaccamento a Beck la disperata ricerca di un contenitore per il disprezzo che ha dentro. Joe deposita il suo male dentro Beck per poterlo governare, affinché non lo consumi (Fonagy, 2001).

In un magistrale tocco di regia, il protagonista chiude la donna proprio nel magazzino dove da piccolo veniva segregato per ore e giorni e settimane, ostaggio impotente del padre adottivo, a espiare l’”errore” dell’ignoranza, in una routine drammatica che Giovanni Liotti definirebbe trauma cumulativo complesso.

Come sei finita qui? Ti sei sempre avvolta nelle favole come in una coperta, ma era il freddo che amavi, i brividi quando scoprivi i cadaveri delle mogli di Barbablù, la dolce pelle d’oca quando il principe azzurro infilava i tuoi piedini nella scarpetta di cristallo, che calzava perfettamente. Nel cortile della scuola le vere principesse ti fluttuavano accanto nel vento autunnale, hai visto il divario tra te e le ragazze ricche e hai giurato di smettere di credere nelle favole, ma le storie erano dentro di te, profonde come un veleno. Se il principe azzurro era reale, se poteva salvarti, tu dovevi essere salvata da tutta quella ingiustizia. Quando sarebbe arrivato? La risposta era una crudele alzata di spalle in centinaia di momenti fugaci. il ghigno sulla faccia di Steve Smith quando ti chiamava Vacca grassa. La mano dello Zio Jeff che ti strizzava il c*** in cucina alla festa del Ringraziamento, lo sguardo di accusa di tuo padre quando gli raccontavi cos’era successo. Da ogni ragazzino mascherato da uomo che hai fatto entrare nel tuo corpo e nel tuo cuore hai imparato che non possedevi la magia che trasforma una bestia in un Principe. Ti sei circondata delle ragazze che avevi sempre detestato, sperando di condividere il loro potere. E odiavi te stessa, cosa che ti ha sminuito ancora di più. E poi? Proprio quando pensavi di poter semplicemente sparire, Lui ti ha visto. E da qualche parte dentro di te lo sapevi che era troppo bello per essere vero ma ti sei lasciata trascinare perché lui era il primo forte forte abbastanza da sollevarti. Ora, nel suo castello, hai capito che il principe azzurro e Barbablu sono lo stesso uomo e non ci sarà un lieto fine, a meno che tu non li ami entrambi. Non volevi questo, non volevi essere amata e che lui ti incoronasse. Non te la sei cercata, non te la sei cercata, non te la sei cercata? quindi ora di’ che vuoi vivere così, di’ che lo ami, di’ grazie, di’ qualunque cosa eccetto che la verità! E se non puoi ricambiare il suo amore?

Nella sua prigione Beck comprende. E scrive.

Come sei finita qui?

Beck lo realizza nella sua cella, con la drammatica lucidità di chi sa che non c’è via di uscita. E parla a noi, madri e padri di figlie a cui abbiamo il dovere di mostrare altri paesaggi.  E assumendosi la responsabilità di un amore che non avrà il tempo di conoscere, richiama tutti all’esercizio della medesima arte.

Insegniamoci l’amore per noi stesse in un mondo che ci vuole bambole tristi per l’altrui commedia. Facciamone assaggiare piccoli sorsi. Gustiamone il sapore per essere abili nel riconoscerlo. Per non confonderlo con il veleno.

Perché la violenza di genere, quella vera, inizia prima, molto prima che quello sguardo ammiccante ci giunga lieve, tra gli scaffali di una libreria.

Beck elenca i suoi carnefici in un macabro testamento.

Parla anche di noi?

Stress, supporto sociale e utilizzo dei social network

Secondo un recente studio, elevati livelli di stress quotidiano sono associati ad un maggior utilizzo di Facebook. In particolare, questa associazione sembrerebbe rafforzarsi per i soggetti aventi un basso livello di supporto sociale nella vita reale, che li porterebbe a ricercare virtualmente tale supporto.

 

Quando si è stressati ricevere conforto da parte di amici virtuali, presenti sui social network, può essere una vera e propria fonte di conforto. Tuttavia, se al supporto virtuale” viene a mancare un “supporto reale”, dato da relazioni face to face, il soggetto potrebbe addirittura sviluppare una dipendenza da social network. Questo è il risultato di uno studio condotto da un team di ricercatori tedeschi presso l’università della Ruhr.

Lo studio

Il campione dello studio era composto da 309 soggetti di età compresa tra i 18 e i 56 anni che, al momento dello studio, possedevano un account Facebook. Attraverso questo social network i soggetti hanno compilato un sondaggio online che ha permesso ai ricercatori di valutare il loro livello di stress e la percezione che essi avevano del supporto sociale sia virtuale (tramite i social network) sia reale (attraverso le relazioni face to face). Inoltre, è stata indagata l’intensità dell’utilizzo di Facebook (frequenza di utilizzo, durata dell’uso in minuti e interazione dell’uso di Facebook sulla vita reale) ed il livello di FAD (Facebook Addiction Disorder) attraverso l’utilizzo dello strumento BFAD (Bergen FAcebook Addiction Disorder; Andreassen et al., 2012) un questionario self report che indaga i criteri principali della dipendenza da Facebook (salienza, tolleranza, modifica dell’umore, recidiva, ritiro e conflitto).

I due risultati più significativi che emergono da questo studio sono:

  • Elevati livelli di stress quotidiano sono associati ad un maggior utilizzo di Facebook. In particolare, questa associazione sembrerebbe rafforzarsi per i soggetti aventi un basso livello di supporto sociale nella vita reale che li porterebbe a ricercare virtualmente tale supporto. Al contrario, l’associazione, tra stress e utilizzo di Facebook, sembrerebbe diminuire per quei soggetti che nella vita reale percepiscono maggior supporto.
  • Un intenso utilizzo di Facebook può predisporre maggiormente a sviluppare una dipendenza da esso, specialmente nel caso in cui il social si fa portatore di supporto sociale.

In conclusione

Stando ai criteri di dipendenza individuati da Andreassen e colleghi (2012), questi risultati potrebbero fornire delle linee guida per un’azione preventiva, oltre che terapeutica, nei casi di soggetti aventi problematiche di dipendenza da social network. Tuttavia, è bene ricordare che sebbene i criteri individuati da Andreassen e colleghi (2012) erano già stati usati in passato per descrivere altre tipologie di dipendenze comportamentali (Griffiths, 2005), il FAD non rientra nell’attuale DSM 5, quindi è opportuno leggere questi risultati con estrema cautela. Inoltre, considerando il minor utilizzo di Facebook da parte dei giovani negli ultimi anni, sarebbe interessante riproporre il medesimo studio sul social network Instagram che, ad oggi, sembrerebbe essere maggiormente popolare fra i giovani.

I malati di mente e la morte pubblica – Una riflessione a partire dal caso di Noa Pothoven

Di fronte al caso della morte di Noa Pothoven e all’effetto mediatico che ha avuto, come professionisti della salute mentale non possiamo tacere! Anzi, è importante che difendiamo un modello di intervento attivo a tutela della salute mentale.

 

La morte di Noa Pothoven, una ragazzina di 17 anni, suscita un’emozione intensa. È facile reagire in modo istintivo, identificare in modo un po’ paranoico avversari politici e sociali. Occorre invece contenere o comunque sospendere l’esperienza soggettiva di un confronto con le forze del male, l’impulso a dichiarare guerra alle forze politiche e sociali che propugnano e diffondono la morte come risposta ai drammi della vita umana. Per questo ci sono e ci saranno altri luoghi (politici e culturali) ed altri tempi (la lunga durata della storia, non certo l’istante della cronaca)

Voglio invece qui attenermi ad una riflessione per quanto possibile razionale e civile ispirata ai principi delle scienze umane (sociologia, antropologia culturale) e della branca della psicologia nel cui alveo mi sono formato, cioè la psicoanalisi.

Morte pubblica: una lettura psicoanalitica del caso di Noa Pothoven

La morte pubblica ha avuto sempre un ruolo centrale nell’organizzazione delle culture umane. Nel mondo Greco storico i sacrifici umani sono un ricordo. Come osserva René Girard (La violenza e il sacro) una vittima umana è al centro dei miti eziologici della maggior parte dei sacrifici animali a noi noti nel sistema rituale Greco. Dai romanzi arturiani sappiamo che il sangue di Merlino era destinato a risanare le sempre precarie fondamento della fortezza di re Vortigern. Il vate britannico seppe sottrarsi a questa prova. È invece l’Altissimo in persona a porre fine per sempre ai riti omicidi agli albori della storia ebraica.

Sacrificano ancora massivamente i celti di epoca storica. Cesare racconta come i galli riempissero di prigionieri enormi simulacri di figure divine per poi ardere spietatamente uomini e fantocci. Dai primi conquistadores della americhe (cfr. Bernal del Castillo, La verdadeae historia de la conquista de la Nueva España). Sappiamo che le piazze delle principali città dell’attuale Messico ospitavano immensi cumuli di teschi. Le macabre procedure sacrificali adottate dai popoli amerindi sono ben note al pubblico per note trasposizioni cinematografiche.

Gli europei inorridivano e tuttora inorridiscono di fronte a questi riti selvaggi. Ma le uccisioni pubbliche sono continuate fino ad una storia recente. Del resto i romani amavano le sanguinose lotte tra gladiatori. Un patibolo ornava ovunque le piazze di ogni città medievale. La laicissima Parigi rivoluzionaria appagava un pubblico curioso ed entusiasta con offerte di teste nobili e fiumi di sangue blu. Morte pubblica e ancor più sacralizzata attendeva eretici, musulmani ed ebrei al termine dell’auto da fe della Spagna controriformista.

In tutte le culture l’omicidio pubblico ha svolto un ruolo molto rilevante. Burkert (Homo Necans: Interpretationen Altgriechischer Opferriten und Mythen) parla di homo necans, di un bisogno umano di uccidere a cui la società trova una risposta ritualizzata. Il problema delle origini dell’aggressività umana è stato a lungo dibattuto in ambito psicoanalitico. L’antropologia freudiana è dominata inizialmente dal principio del piacere. La scoperta dell’intensità dei desideri aggressivi in concomitanza con il dramma della prima guerra mondiale lo porta ad ipotizzare un istinto specifico che giustifichi i comportamenti aggressivi (Al di là del principio di piacere). Questo modello avrà molta influenza sul modello kleiniano della mente inconscia.

Psicoanalisti più attenti alle problematiche sociali proporranno invece nel dopoguerra modelli in cui l’aggressività umana è interpretata come una reazione in qualche modo inevitabile alle tensioni e a conflitti sociali (Fromm, Anatomia della distruttività umana). Più modernamente possiamo oggi concettualizzare il sadismo come un modo per negare e proiettare nella vittima i sentimenti di impotenza e disagio che sono ampiamente diffusi nella società e negli individui. In sintesi, l’uomo medio è carico di frustrazione e rabbia e gode di situazioni sociali in cui altri sperimentano emozioni negative in cui può gradevolmente identificarsi.

Questi meccanismi sono naturalmente attivi oggi come ieri, in tutti i climi ed in tutte le latitudini. Perché allora la morte pubblica declina progressivamente? In effetti nel corso dell’800 compare una sorta di pudore. Nei paesi più illuminati si cercano nuove forme di supplizio. Le procedure assumono forme meno clamorose, compare un’esplicita preoccupazione per il dolore delle vittime. Le esecuzioni vengono via via sottratte alla curiosità diretta delle masse. Si svolgono in luoghi appartati. Nel ‘900 la pena di morte va rarefacendosi. Nel dopoguerra scompare del tutto in Europa occidentale.

Senza dubbio a questo processo ha contribuito in modo rilevante l’orrore per l’autorità. Il secolo scorso è stato segnato da un autentico orrore per qualsiasi manifestazione di un paternalismo fallico. La rappresentazione moderna dello stato castrato ed impotente è incompatibile con l’esecuzione di pene severe e inflessibili.

Eppure l’uomo ha ancora sete di morte. Nel passato recente vari governi tirannici hanno spento milioni di vite umane al di fuori di qualsiasi scontro civile o bellico. I nomi di Stalin, Hitler, Pol Pot fanno gelare il sangue a chiunque possieda un po di umanità.
Proprio nell’ambito del nazismo i progetti di sterminio si sono estesi a disabili e malati di mente. A quell’epoca l’eliminazione fisica di queste sottopopolazioni veniva propagandata ed attuata con prevalente finalità sociale. Occorreva liberare la società dai membri inadatti o pericolosi. Da qualche decennio l’uccisione dei soggetti con problemi psichiatrici viene proprio con finalità differenti. Si invoca l’analogia con i pazienti oncologici terminali. Ci si ammanta di desiderio filantropici. Ci si preoccupa di liberare i pazienti da inutili sofferenze.

Credo che in questo momento siamo tutti chiamati a difendere i diritti dei nostri malati. Non tutti i pazienti con impulsi suicidari possono essere salvati. il caso della povera Noa Pothoven era senza dubbio molto impegnativo. È davvero difficilissimo comunicare con certe gravi anoressiche. Ma qualsiasi psichiatra con una certa esperienza sa che un intervento in ambiente per acuti è quasi sempre in grado di sottrarre un paziente ad un immediato rischio suicidario. E che un prolungato inserimento in un ambiente comunitario, anche se in qualche forma coatto, riesce quasi sempre a spezzare o almeno ad allentare gli invischiamenti simbiotici che caratterizzano queste gravi forme di disturbi alimentari.

Come professionisti non possiamo tacere. Dobbiamo difendere un modello di intervento attivo a tutela della salute mentale.

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