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La costruzione del legame adottivo: l’importanza dell’attaccamento

La teoria dell’attaccamento ha rappresentato, negli ultimi anni, una tra le cornici teoriche di riferimento più significative tra i modelli di sviluppo psico-affettivo del bambino per comprendere i processi emotivi dell’adottato.

 

L’attaccamento può essere definito come una relazione o legame affettivo che si instaura con una figura specifica, principalmente la madre o più in generale con tutte quelle figure che interagiscono in modo precoce e continuativo con il bambino. Questo legame, frutto di una serie di interazioni, può influenzare le reazioni future che il bambino avrà non solo con la figura principale di accudimento ma anche con altre figure significative (Battacchi, 2004).

Attaccamento: il legame che lega il bambino ai genitori

Questa di Bowlby è una grande scoperta in quanto si afferma per la prima volta che non è, come sosteneva Freud, la pulsione a dirigere la vita del bambino ma è il bisogno primario di attaccamento e sicurezza (Bowlby, 1969). Quanto detto da Bowlby fu confermato poi anche da Fairbairn (1952) che nel corso dei suoi studi venne in contatto con bambini che avevano avuto rapporti molto dolorosi con i loro genitori ma che nonostante ciò quando si vedevano presentare altri adulti che gli avrebbero certamente garantito un futuro migliore e si sarebbero presi cura di loro, li rifiutavano mostrando grande devozione verso i loro genitori naturali.

Se la libido cerca prima di tutto il piacere, gli oggetti libidici dovrebbero essere intercambiabili (Fairbairn, trad. it. 1952, pag. 25-26).

In virtù di questo bisogno primario di vicinanza e sicurezza vediamo come il comportamento di attaccamento viene attivato dalla separazione o, dalla minaccia di essa dalla figura di attaccamento e si attenua, invece, quando il caregiver è vicino. Il bisogno di vicinanza può variare in base alla natura della minaccia. La relazione di attaccamento può essere definita, sostanzialmente, dalla presenza di tre caratteristiche: la ricerca di vicinanza ad una figura “preferita”; l’effetto “base sicura”, ovvero la capacità della figura di attaccamento di garantire al tempo stesso uno stato di rilassamento e di benessere ed un trampolino per la curiosità e l’esplorazione dell’ambiente; la protesta per la separazione, identificata come la risposta primaria provocata nei bambini dalla separazione dei genitori (Bowlby, 1969). Un concetto chiave e che non può essere trascurato della teoria dell’attaccamento è quello di modello operativo interno (Bowlby, 1973, 1980). Si tratta di rappresentazioni interne che ogni individuo ha del mondo, delle proprie figure di accudimento, di sé stesso e delle relazioni che intercorrono tra tutti questi elementi. Scrive Bowlby (trad. it. 1973, pag. 259-260):

È plausibile supporre che ogni individuo si costruisca dei “modelli operativi” del mondo e di sé stesso nel mondo, con l’aiuto dei quali percepisce gli eventi, prevede il futuro e costruisce i propri programmi. Nel modello operativo del mondo che ciascuno si costruisce, una caratteristica chiave è il concetto di chi siano le sue figure di attaccamento, di dove le si possa trovare, e del modo in cui si può aspettare che reagiscano.

Questi modelli operativi interni sono abbastanza stabili e persistenti e permettono che i pattern di attaccamento formatisi nell’infanzia vengano poi trasposti nella vita adulta e trasmessi alla nuova generazione (Holmes, 1994).

Attaccamento: i diversi tipi scoperti nella Strange Situation

La relazione di attaccamento bambino-caregiver può essere distinta in sicura ed insicura. Queste classificazioni si basano sullo studio di comportamenti di alcuni bambini tra i 12 e i 20 mesi di età osservati nel corso di una situazione sperimentale precisa, la Strange Situation, messa a punto da Mary Ainsworth (1978). Questa osservazione si propone di valutare il tipo di attaccamento che il bambino mostra di fronte a situazioni di stress moderato come l’assenza della figura significativa e la presenza dell’estraneo. La Strange Situation consiste in una sequenza di tre minuti in cui inizialmente madre e bambino giocano e vengono poi raggiunti da un estraneo. A quel punto la madre lascia la stanza e il bambino resta solo con la figura estranea. Trascorso qualche minuto, utile per esplorare le reazioni e il comportamento del bambino, la madre ritorna. In base al modo in cui i bambini reagiscono saranno classificati come bambini sicuri o insicuri. I bambini con attaccamento sicuro manifestano un chiaro desiderio di vicinanza, di contatto fisico e di interazione con la figura di accudimento; sono abbastanza autonomi nell’esplorazione dell’ambiente anche se  ricercano spesso la partecipazione attiva dell’adulto. Durante la separazione e di fronte alla presenza dell’estraneo possono mostrare segni di stress e disagio attribuibili all’assenza del caregiver. Quando la figura di accudimento fa il suo ritorno il bambino appare contento, la saluta con gioia e manifesta chiari segnali di voler interagire con lei. Il bambino sicuro promuove quindi in pieno quel concetto di base sicura di cui parlava Bowlby in cui il bambino, mosso dalla curiosità, si spinge nell’osservazione dell’ambiente circostante sapendo di avere però alle spalle un “porto sicuro” (il caregiver) qualora ne avesse bisogno.

Attaccamento insicuro: i tipi

Per quanto riguarda l’attaccamento insicuro questo viene distinto in evitante, ambivalente o resistente e disorganizzato/disorientato:

  • insicuro evitante: il bambino appare abbastanza autonomo nell’esplorazione dell’ambiente e concentrato più nelle attività che svolge che sulla presenza dell’adulto. Nelle separazioni mostra meno segni di disagio rispetto al bambino sicuro e il ritorno del caregiver viene accolto con evitamento a cui seguono spesso rimproveri. Si tratta di bambini che hanno sperimentato una relazione in cui le richieste di cura e protezione sono state solo parzialmente accolte dal genitore che ha preferito instaurare un rapporto basato sull’autonomizzazione e sulla distanza fisica;
  • insicuro ambivalente: è tipico di quei bambini che riescono a dedicarsi poco all’esplorazione dell’ambiente mostrando un notevole disagio di fronte alla separazione. Il ritorno del genitore non riesce comunque a consolarli mostrando una sorta di carenza nel poter disporre di una figura stabile di accudimento. I bambini alternano richieste di vicinanza e protezione a comportamenti estremamente passivi e resistenti. Questi bambini sperimentano un attaccamento mediamente protettivo caratterizzato dall’imprevedibilità del genitore;
  • insicuro disorganizzato: questo tipo di attaccamento è stato scoperto recentemente da Main (1991) e descrive un bambino che mostra dei comportamenti caratterizzati da una mancanza di coerenza logica nella relazione con il genitore. Generalmente questi bambini hanno sperimentato una relazione con un adulto disorganizzante che ha vissuto a sua volta esperienze traumatiche, di lutto o perdita che non è riuscito ad elaborare e che vengono quindi riattivate nella relazione con il figlio. Bowlby aveva notato che questi atteggiamenti contradditori evidenziavano in realtà sentimenti di rabbia, ansia e timore verso l’adulto che però non venivano manifestati liberamente per non alienarsi ulteriormente la figura di attaccamento. Tali atteggiamenti potrebbero essere interpretati anche come difese che il bambino attivava da un lato per evitare il dolore emozionale causato dall’allontanamento del caregiver e dall’altro per escludere rappresentazioni dolorose di sé e dell’oggetto (Solomon, George, 1999a).

Alla luce di quanto detto appare evidente come possa essere devastante e traumatico per un bambino l’abbandono, presupposto necessario per l’adozione. Vale la pena ribadire che se è vero che un attaccamento disorganizzato possa rappresentare una vulnerabilità per il soggetto è altrettanto vero che possono intervenire dei fattori riparativi e protettivi, come appunto l’adozione, che possono “cancellare” l’esperienza negativa precedente (Liotti, 1992b). In quest’ottica, l’adozione ha come obiettivo trasformare il bambino che è stato privato di un ambiente familiare in un figlio, garantendogli un legame. In questa accezione vediamo come l’adozione è essenzialmente un processo di separazione e di creazione di un nuovo legame con nuove figure di attaccamento che possono creare una “rete di salvataggio” per lo sviluppo futuro del bambino (Palacios, Román, Camacho, 2010).

Il ruolo dei genitori adottivi nella prospettiva dell’attaccamento

Howe (2001) ha descritto almeno tre differenti storie preadottive che questi bambini possono aver sperimentato:

  • good start/late-placed: si tratta di bambini che durante i loro primi due anni di vita hanno avuto delle relazioni positive con i loro caregiver che solo successivamente sono peggiorate portando il bambino a sperimentare vissuti di negligenza, abuso e maltrattamento. Queste esperienze possono influire sulla formazione di uno stile di attaccamento parzialmente sicuro con la presenza di aspetti ansiosi legati al timore di perdere il caregiver. Durante l’esperienza adottiva, proprio il timore di perdere la nuova figura di riferimento, può spingere il bambino a sviluppare sentimenti di dipendenza eccessiva verso il genitore;
  • poor start/late-placed: si tratta di bambini che fin dalla nascita hanno sperimentato relazioni qualitativamente scarse con assenza di cure e affetto; spesso hanno sperimentato abusi (anche sessuali), abbandono e trascuratezza. Tali esperienze li spingono a sviluppare una attaccamento insicuro sui tre versanti resistente, evitante e disorganizzato.
  • institutional care: in questo caso ci troviamo di fronte a bambini che sono stati istituzionalizzati fin dalla nascita e che non hanno mai avuto esperienze di relazioni affettive con un caregiver significativo. Come i poor start/late-placed possono sviluppare o assenza di legame verso i “nuovi” genitori o viceversa un bisogno incondizionato di affetto e cura. Proprio l’istituzionalizzazione sembra essere una delle esperienze più traumatiche e sfavorevoli che i bambini possono aver vissuto e sarà tanto più grave quanto più precocemente avviene. L’istituzionalizzazione potrebbe infatti causare il Disturbo Reattivo dell’Attaccamento che può creare o ritardo nello sviluppo cognitivo o gravi disordini relazionali (Balbernie, 2010).

Attaccamento in caso di adozione: i “requisiti” dei genitori

Alla luce delle debolezze psicologiche del bambino late-adopted, assume molta importanza la qualità del parenting. È fondamentale infatti che i genitori adottivi posseggano caratteristiche di personalità e capacità di comprensione molto più elevate rispetto a quelle dei genitori biologici. La qualità del parenting di bambini che vivono in famiglie adottive dovrebbe soddisfare almeno cinque caratteristiche chiave (E. D’Onofrio, C. Serena Pace, V. Guerriero, G. Zavattini, A. Santona):

  1. promuovere la fiducia nella disponibilità: i genitori devono essere consapevoli della dipendenza fisica ed emotiva del bambino; devono mantenere sempre viva nella loro mente la presenza stessa del bambino a prescindere dalla sua presenza fisica; devono mostrare preoccupazione e disponibilità (verbale e non verbale) per il futuro del bambino. Solo se i genitori si mostrano sufficientemente sensibili il bambino potrà riacquistare la fiducia precedentemente persa mostrando un aumento nella sua capacità di esplorazione;
  2. promuovere la Funzione Riflessiva: prima di descrivere questa seconda caratteristica mi sembra necessario spendere poche righe per spiegare cosa si intende con Funzione Riflessiva. La Funzione Riflessiva è stata definita da Fonagy e Target (2003) come quella capacità che permette all’individuo di vedere sé stesso e gli altri in termini di stati mentali (sentimenti, convinzioni, idee e sentimenti) e di ragionare sui propri e altrui comportamenti in termini di stati mentali. Questa funzione assume importanza dal punto di vista clinico in quanto quegli individui che presentano deficit nella Funzione Riflessiva, possono sperimentare la realtà come priva di significato, trattare sé e gli altri come oggetti e strutturare i rapporti in termini molto concreti. Questa Funzione permette inoltre al bambino di riuscire a prevedere il comportamento degli altri e di rispondere in maniera adattiva a una serie di esperienze interpersonali. Fondamentale è il ruolo della figura di riferimento: un caregiver capace di riflettere su sé stesso e sull’esperienza interna del proprio bambino è in grado di creare una rappresentazione intenzionale del bambino. Questa immagine intenzionale viene poi interiorizzata dal bambino e va a formare il nucleo del suo sé mentalizzante (Fonagy, Steele H., Steele M., 1996). La capacità di regolare gli affetti e sperimentarne una vasta gamma è un diretto risultato della capacità di Funzione Riflessiva. I bambini adottati sono bambini che, seppur in maniera diversa, hanno subito un trauma e quindi molto probabilmente sono state vittime di una madre che non è riuscita a rispondere adeguatamente ai loro bisogni o che non si è sintonizzata con i loro ritmi impedendogli quindi una buona regolazione. Ecco perché è fondamentale che, durante la costruzione della nuova relazione, i genitori svolgano due funzioni importanti: aiutare il bambino a esprimere i propri sentimenti e desideri contenendo quei pensieri e emozioni caotiche e aiutarli ad avere una visione più sistematica e gestibile sia del mondo che di loro stessi. Così facendo i bambini saranno maggiormente capaci di riflettere sulle loro esperienze, di esprimere le loro difficoltà, di regolare le loro emozioni acquisendo una maggiore competenza sociale e interpersonale (Kretchmar, Worscham, Swenson, 2005);
  3. promuovere l’autostima: i genitori devono imparare ad accettare completamente e totalmente i bambini per quelli che sono sia quando danno risposte positive e, a maggior ragione, quando ne danno di negative. Può essere utile parlare con il bambino anche dei minimi progressi che ha raggiunto mostrandosi orgogliosi e soddisfatti. Un tale atteggiamento contribuirà a formare nel bambino un’immagine più equilibrata di sé e lo spronerà, molto probabilmente, a fare sempre meglio.
  4. promuovere l’autonomia e la self-efficacy: l’autonomia deve essere promossa comunicando ai bambini che le loro idee e i loro pensieri sono presi in considerazione e che nessuna decisione è stata già presa. In tal modo il bambino mostrerà maggiore fiducia nei suoi pensieri e nelle sue abilità di negoziazione;
  5. promuovere la family membership: è importante che i genitori riescano a includere il bambino all’interno di una famiglia in cui non ci sono legami biologici mostrando però sempre grande attenzione alle “diversità” culturali del bambino (nel caso di adozioni internazionali) e riconoscendo quanto desiderio ha il bambino di sentirsi incluso nella nuova famiglia;

Attaccamento nell’adozione: le difficoltà di lasciarsi alle spalle un abbandono

Alcuni autori hanno evidenziato che quando il bambino mostra rabbia, rifiuto o li allontana, i genitori adottivi dovrebbero cercare di comprendere le ragioni che ci sono dietro tali atteggiamenti, prima fra tutte il timore di un nuovo abbandono. Dovrebbero mostrare affetto e presenza fisica ed emotiva costante affinché il bambino possa interiorizzare un nuovo modello relazionale con un genitore amorevole, sensibile e attento che si contrappone al genitore precedente, freddo e rifiutante (Dozier, Sepulveda, 2004). Un’altra caratteristica importante è quella di riuscire a bilanciare i comportamenti amorevoli con quelli autorevoli nell’educazione del bambino. In particolare è importante che il genitore trasmetta al bambino la capacità di gestire la frustrazione e godere di fronte a emozioni e affetti positivi (Pace, Zavattini, D’Alessio, 2012). Attraverso l’adozione quindi, il bambino potrebbe riuscire a modificare i Modelli Operativi Interni formatisi attraverso le esperienze negative e trasformarli possibilmente in “sicuri”. Studi recenti sembrano confermare questa ipotesi (Verissimo, Salvaterra, 2006); è emerso in particolare che madri “sicure” riusciranno ad infondere, con molta probabilità, nei propri bambini una maggiore coerenza e favoriranno una rappresentazione positiva di sé, degli altri e delle relazioni. Viceversa, madri “irrisolte” non faranno altro che rafforzare l’aggressività dei propri figli (Kaniuk, Steele, Hodges, 2004). Inoltre è stato evidenziato che una buona capacità riflessiva e un attaccamento sicuro nella madre possono rappresentare dei fattori predittivi sia di una buona capacità meta cogntiva sia di una sicurezza dell’attaccamento del bambino (Fonagy, Target, 2001).

Spiritual Bypassing: la scorciatoia della spiritualità per non andare dallo psicoterapeuta

Attraverso il Bypass Spirituale si sviluppa l’illusoria convinzione che svolgendo determinate pratiche oppure seguendo un guru o un maestro spirituale, sia possibile superare le proprie problematiche emotive senza doverle necessariamente affrontare in una psicoterapia.

 

Gli psicologi e gli psicoterapeuti italiani conoscono bene quali siano i meccanismi di difesa messi in atto dalle persone con un qualsivoglia disagio per non affrontarlo ed elaborarlo. Tra i molteplici meccanismi difensivi messi in atto da un soggetto si annovera il ricorso alla scorciatoia spirituale.

Questo atteggiamento probabilmente è sempre esistito, ma è aumentato a dismisura negli ultimi decenni grazie all’incontro che l’occidentale medio ha avuto con le dottrine spirituali d’Oriente e soprattutto con le tecniche ad esse connesse: yoga, meditazione, qi gong, taijiquan ed altre.

Questo non significa ovviamente che ogni persona che pratica queste discipline abbia necessariamente un disagio irrisolto, ma come ci spiega lo psicologo statunitense Robert Masters nel suo prezioso testo Spiritual Bypassing, molti occidentali rimangono illusi da questa scorciatoia invece che affrontare e risolvere con un terapeuta le proprie problematiche interiori e solo dopo intraprendere un reale percorso spirituale.

Cosa si intende per Bypass Spirituale

In realtà il concetto di Bypass Spirituale fu coniato nei primi anni ’80 da John Welwood, uno psicoterapeuta e insegnate buddhista. Welwood intendeva identificare la tendenza ad usare idee e pratiche spirituali per aggirare o evitare di affrontare problemi emotivi, ferite psicologiche irrisolte e compiti di sviluppo non completati. Questa trappola comporta attivamente la ricerca di sensazioni spirituali come mezzo per evitare di elaborare il sottostante dolore psicologico reale.

Quindi il testo di Masters espone chiaramente questa nuova “sindrome” oramai sempre più diffusa, di scavalcare i propri disagi o problemi di carattere psicologico e quindi relazionale/comportamentale, immergendosi senza riserve nella pratica spirituale e nelle tecniche che da essa derivano.

Un vero e proprio “bypass” che il soggetto costruisce con l’incontro spirituale, rilegando i suoi veri problemi di natura in un angolo, ma pronti a ripresentarsi una volta abbandonata la pratica.

Attraverso il Bypass Spirituale quindi si sviluppa l’illusoria convinzione che facendo certe pratiche o utilizzando determinate tecniche, oppure seguire un guru o un maestro spirituale, possa condurre ad uscire fuori dalle proprie problematiche emotive e non le si debba più affrontare con una terapia ordinaria e comprovata, come ad esempio la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Possiamo dire che in definitiva il Bypass Spirituale avviene tutte le volte che: la pratica spirituale, invece di aiutare ad integrare le limitazioni umane, diventa un sostituto compulsivo per evitare di affrontare le questioni psicologiche, relazionali o emotive irrisolte.

Atteggiamenti comuni del Bypass Spirituale

In particolare possiamo rintracciare gli atteggiamenti comuni che si manifestano in un Bypass Spirituale:

  • Il soggetto partecipa ad attività spirituali per sentirsi superiore agli altri che non vi partecipano: si tratta solo di una trappola per l’ego e dell’ego in quanto partecipare a queste attività non è garanzia di sviluppo, né è impossibile trovare una persona più avanzata di noi in campi del tutto differenti.
  • Il soggetto utilizza la spiritualità come giustificazione per le proprie azioni socialmente inaccettabili: alcune frasi come “tutto è perfetto così com’è” o “la realtà è un’illusione” possono diventare una scusante per non mettere in discussione i propri comportamenti e non assumersi la responsabilità delle proprie azioni.
  • Il soggetto ricerca la spiritualità perché “va di moda” o perché gli viene proposta da amici: l’esperienza spirituale autentica dovrebbe essere qualcosa di personale, che accade internamente al momento opportuno e non qualcosa che viene forzato dall’esterno frequentando raduni new age, lezioni di yoga o addirittura collezionando certificati e attestati di terapia alternative.
  • Il soggetto tende a criticare sempre le reazioni emotive e la rabbia altrui: tutte le emozioni e quindi anche la rabbia sono sentimenti naturali e risposte perfettamente giustificabili a molte situazioni specie nella cultura Occidentale. Si dovrebbe imparare a gestirle e non certo a sopprimerle. Entrare nell’ottica di una finta e recitata condizione di mitezza e puntando il dito contro chi reagisce agli impulsi emotivi è un altro sintomo del soggetto con affetto da Bypass Spirituale. In definitiva attraverso il Bypass Spirituale il soggetto tende a reprimere le emozioni spiacevoli con varie metodologie, invece che accoglierle e cercare di trasformarle. La conseguenza di questo atteggiamento è quella di provare avversione verso se stessi appena viene fuori il proprio lato d’ombra precedentemente ignorato.
  • Il soggetto è un fautore del pensiero positivo e tende a negare ogni possibile evento negativo reale. Ma gli aspetti negativi della vita non scompaiono solo perché vengono ignorati. Questo è un atteggiamento infantile. È necessario bilanciare l’ottimismo consapevole con la volontà di affrontare i problemi reali e non vivere in una condizione illusoria.
  • Il soggetto tende sistematicamente ad ignorare la scienza ufficiale: crede che tutti i problemi, anche gravi, possano essere risolti dalle discipline del benessere, con il pensiero positivo o la meditazione ed ignora la scienza ufficiale.
  • Il soggetto sviluppa una forte dipendenza da discipline come lo yoga, la meditazione e inizia a credere fortemente a riti effettuati in sistemi religiosi asiatici e ad idolatrare l’Oriente come unica via possibile di comprensione.
  • Il soggetto associa la ricchezza materiale ad un’esperienza estremamente negativa: ha dunque la tendenza a considerare il modello Occidentale capitalistico e consumistico come un sistema completamente negativo e privo di spiritualità.

La messa a fuoco e intervista motivazionale sembrano essere le tecniche psicoterapiche più adatte nell’affrontare la sindrome da Bypass Spirituale.

Traditi dal cuore (2015): come può il nostro cuore trarci in inganno? Comprendere la dipendenza affettiva per curare le ferite del cuore – Recensione del libro

Traditi dal cuore è un libro completo, ricco di contenuti ma anche di implicazioni cliniche per il trattamento della dipendenza affettiva. Rivolto ai professionisti, non lascerà delusi nemmeno quei lettori curiosi che sono alla ricerca di una prima risposta ai loro “tradimenti del cuore”.

 

Cosa si intende per dipendenza affettiva? Ce lo racconta sapientemente Luca Napoli, psicologo e psicoterapeuta toscano, che in Traditi dal cuore ci accompagna nella comprensione di questo disturbo e delle sue caratteristiche distintive partendo da un’attenta analisi dei dati presenti in letteratura sul tema della dipendenza affettiva.

Un compito non semplice quello dell’autore di Traditi dal cuore, ma oggi più che mai necessario in quanto la sofferenza e il dolore della dipendenza affettiva sempre più spesso sono protagonisti all’interno della stanza di terapia.

La scelta del titolo del libro non è casuale, è una premessa di ciò che troveremo al suo interno. Pagina dopo pagina il lettore è in grado di “sentire” parte di quel tradimento che, è vero, nasce nell’incontro con l’altro (che non a caso ha determinate caratteristiche) ma che in realtà è innanzitutto un tradimento del proprio cuore.

Chi è il dipendente affettivo?

Facendosi dunque aiutare da chi prima di lui ha parlato di amore e delle sue mancanze, Luca Napoli introduce ogni capitolo del suo libro Traditi dal cuore con frasi prese a prestito da poeti, filosofi o appassionati d’amore, che ci aiutano a tratteggiare chi può essere definito un dipendente affettivo.

Sembrerà scontato ma sono soprattutto le donne a soffrire di dipendenza affettiva, questo forse perché evolutivamente più portate a coltivare la dimensione della cura e dell’accudimento. Ma quando un amore diventa “malato”? L’amore si trasforma in dipendenza affettiva quando l’altra persona assume così tanta importanza da annullare se stesso, quando il benessere dell’altro è focus primario anche a scapito del proprio benessere. Così si smette di ascoltare i propri bisogni, desideri e necessità, si perde il contatto con quella che è la propria dimensione più intima e vera, per vivere unicamente in funzione dell’altro.

Questo meccanismo non è nuovo per il dipendente affettivo ma rappresenta un retaggio delle sue prime relazioni di attaccamento, nelle quali ha imparato che i suoi bisogni non sono importanti. Chi soffre di dipendenza affettiva è stato un bambino non visto nei suoi bisogni emotivi, per questo ha cominciato a percepirsi come una persona non degna di amore ed è nato in lui il germe di un profondo desiderio di essere visto e riconosciuto.

È qui che si viene traditi dal cuore. Nel tentativo di colmare questa ferita ancora aperta il dipendente affettivo cercherà un compagno che lo faccia sentire amato, al sicuro, finalmente visto.. in questo modo però la vicinanza dell’altro diviene una condizione necessaria alla propria sopravvivenza e per evitare la paura, o persino l’angoscia, dell’abbandono, ogni suo bisogno e desiderio passerà in secondo piano.

Come guarire le ferite del cuore

Sembra impossibile poter cambiare questi schemi di comportamento, copioni che agiscono indisturbati e operano ad un livello inconscio attraverso l’azione di quelli che Bowlby e gli altri studiosi dell’attaccamento hanno definito modelli operativi interni (MOI). Eppure non è impossibile! La seconda sezione del libro Traditi dal cuore è dedicata proprio alla descrizione della pratica clinica sviluppata da Luca Napoli e dal suo gruppo di lavoro nel trattamento di chi soffre di dipendenza affettiva.

Si tratta di un percorso di 8 tappe, che ha lo scopo di portare il dipendente affettivo a prendere contatto con se stesso, ritrovarsi innanzitutto, per poi comprendere il proprio modello di funzionamento (sopra descritto) e potersi dunque sperimentare in modalità relazionali differenti.

Attraverso un lavoro che si basa sul modello bioenergetico e che fa del corpo e delle emozioni i propri principali strumenti d’azione, il terapeuta aiuterà il dipendente affettivo a spostare il proprio baricentro dall’esterno (l’altro) all’interno (di sé). È così che il dipendente affettivo ha modo di riscoprirsi in ciò che lo rende unico, che gli piace, ma anche e soprattutto che vuole e di cui ha bisogno. Guardarsi dentro gli consente di prendere coscienza di quella ferita interiore che da lungo tempo porta con sé e di prendersene cura senza più chiedere aiuto all’altro. Libero finalmente da questa dipendenza, può sperimentare un nuovo modo di amare e una relazione che sa di autonomia e reciprocità.

La strada da percorrere sembra chiara, non dobbiamo tuttavia dimenticarci che la dipendenza affettiva rientra all’interno della categoria diagnostica delle nuove dipendenze, di cui condivide le caratteristiche peculiari, che la rendono a tutti gli effetti una dipendenza seppur senza sostanza. Lavorare con chi soffre di dipendenza affettiva comporta dunque un costante impegno nella motivazione al trattamento e nella presa di consapevolezza del proprio problema, solo successivamente potremo utilizzare le tecniche descritte con ricchezza di particolari ed esempi clinici presenti all’interno del libro Traditi dal cuore.

Linguistica senza parole

La linguistica e in particolare la semantica, ovvero quella branca che studia i significati dietro ai processi di comunicazione, generalmente spiega la nascita delle rappresentazioni linguistiche come frutto di un meccanismo specifico del linguaggio, codificate lessicalmente nel significato delle parole. Ma potrebbe essere che questi meccanismi non siano così specifici.

 

“The Martian language might not be so different from human language after all”
Avram Noam Chomsky

 

Qualsiasi tipologia di interazione presuppone una certa misura di “comunicazione”. Il linguaggio è una forma estremamente complessa di sistema comunicativo. Il suo scopo è il processamento dell’informazione. Ciò è oggetto di studio della linguistica e, in particolare, della branca che studia i significati dietro ai processi di comunicazione, la semantica, che riguarda quindi la relazione fra significanti, come le frasi, e cosa questi denotano. Generalmente queste modalità di funzionamento sono ritenute specifiche del linguaggio e codificate lessicalmente nel significato delle parole. Sono state elaborate diverse tipologie di inferenze linguistiche, caratterizzate dalla loro funzione all’interno del discorso e dal loro comportamento in frasi complesse.

Viene fatta un’importante distinzione fra lingue naturali, originate spontaneamente nelle varie culture, e lingue artificiali, costruite per uno scopo, come ad esempio la lingua logica, progettata per testare ipotesi sul funzionamento del linguaggio attraverso la costruzione di frasi inequivocabili. A differenza della logica, le lingue naturali non veicolano le informazioni in modo dipendente unicamente dal significato “da dizionario” dei lemmi, ma portano con sé un ampio repertorio di possibili tipologie inferenziali, come implicazioni, presupposizioni, supplementi e inferenze di omogeneità, considerate comunque di natura lessicale e fruibili attraverso l’apprendimento delle parole.

Apprendimento delle caratteristiche linguistiche: un nuovo studio

Un recente studio (Tieu, Schlenker, & Chemla, 2019) ha sfidato la concezione classica, illustrando come apprendimento e interpretazione delle parole potrebbero avere una natura non lessicale. I ricercatori hanno utilizzato espressioni composite, formate da frasi e da rappresentazioni non linguistiche e non familiari, sia gestuali che attraverso animazioni, allo scopo di verificare se l’apprendimento delle caratteristiche linguistiche possa verificarsi nello stesso modo usando stimoli iconici, per tutte e quattro le tipologie principali di inferenze linguistiche (implicazioni, presupposizioni, supplementi e omogeneità).

I risultati mostrano come questi stimoli non lessicali presentino lo stesso comportamento inferenziale delle parole. Poiché i gesti e le animazioni erano linguisticamente nuovi ai partecipanti, e quindi non potevano essere sostituiti da vocaboli precedentemente appresi. La complessa strutturazione di queste rappresentazioni suggerisce che, essendo dotate di un’architettura strutturale extralinguistica, le proprietà arbitrarie delle parole immagazzinate nella nostra memoria facciano parte un processo generale adattivo di produzione di significato, che non divide le informazioni su base semantica.

Ciò ha profonde implicazioni per la natura stessa del linguaggio.

It takes two to tango: i sistemi motivazionali interpersonali, in Milonga

sistemi motivazionali interpersonali sono tendenze universali, biologicamente determinate e selezionate su base evolutiva, che regolano la condotta in funzione di particolari mete e sono in stretta relazione con l’esperienza emotiva.

 

La magia dell’insight. Quel momento prezioso, unico, sorprendente in cui il cuore si dischiude a un’epifania su noi stessi. Dal punto di vista neurobiologico un gruppetto di sinapsi si elettrizza contattando un altro gruppetto di sinapsi, vicine o lontane. In quell’istante mistico i due emisferi cerebrali comunicano con innata armonia creando un’intuizione destinata a conservarsi nel tempo. Quel momento unico in cui corpo e mente sanno. Quella mattina in cui ti volti nel letto, la osservi dormire accanto a te sapendo che tra un momento aprirà gli occhi e pensi “la amo”. “Fran!” Per dirla alla Baricco. “Porca Paletta era così!” Per dirla come me.

Lo sanno le mani e la pelle. Prima ancora delle parole.

Parlo della differenza tra sapere e sentire. Il gap che incastra tante psicoterapie, quando diciamo o ci sentiamo dire: “Dottore, ho capito tante cose di me, ma allora perchè continuo a stare male?”.

La scoperta dei sistemi motivazionali attraverso il tango

Ho visto mio padre sapere. Sapere con il corpo. Il giorno in cui lo accompagnai in milonga. Luci soffuse e atmosfera retrò da balera bagnata di Fernet. Tavolini circolari a bordo pista e vestiti luccicanti. Papà toglie gli occhiali prima di avvicinarsi alla sua dama. Precede tutto questo il rito di mirada e cabeceo: uno sguardo con un 50% di possibilità si appoggia a un altro sguardo. Lo sguardo è ricambiato. Si balla. Maschilsta? Antico? Anacronistico? Forse. Ma è parte del gioco. Il rituale è parte del gioco e permette alla donna di rifiutare con eleganza partner non desiderati, sostiene il silenzio necessario a una pratica poetica come la seduzione. Nessun contatto se non quello visivo.

Dicevamo che mio padre toglie gli occhiali. Non ricordo quando ha iniziato a perdere diottrie. L’invecchiamento dei propri genitori è un tabù.

I due si incontrano a bordo pista, un punto invisibile che ogni coppia riconosce per uno strano codice non scritto. Ed è lì che avviene la trasformazione. Mio padre diventa un uomo. Non più papà, ex marito, colonnello, non più nonno, compagno, collega, pensionato, non più. Solo uomo. Nessun mal di schiena. Nessun referto del cardiologo. La lentezza dei movimenti è surreale, le mani si cercano, si modellano. I corpi si trovano. Sembrano sapersi già, quei corpi. Sembrano privi di imbarazzo nel trovarsi a contatto, le braccia, la fronte. Il petto. A quante persone avete ascoltato il respiro? A quante avete respirato nell’orecchio? Sono a bordo pista, tutti osservano le mie Dottor Martens mentre sorseggio vino rosso e a pochi metri da me mi sembra di non conoscere l’uomo che 20 anni fa mi raccontava la storia di un fagiolino sfuggito alla pentola. Carezze poche, in casa mia, abbracci anche meno. Eppure lui è lì, dondola sulla musica. E ha un corpo. Dio, mio padre ha un corpo. Il tempo di accorgermene e quel corpo ne sposa un altro. Per quattro canzoni non esisterà, se non tra le braccia di questa elegante sconosciuta.

La tanda è l’unità di misura temporale che scandisce la serata: ogni quattro pezzi un intermezzo in cui approfondire la conoscenza o cambiare partner.

Mi piace pensare alle quattro canzoni che compongono la tanda come alle quattro stagioni. Perchè è bello incontrarsi al sole di primavera, ma aspettiamo di vedere come sarà amarci in autunno, con il ghiaccio tra i capelli. Aspettiamo l’inverno. Non si cambia dama prima che siano trascorse tutte e quattro le stagioni. Dopo ogni tanda una cortina, un pezzo di altro genere che segna la fine di una storia, il preludio di ogni nuovo racconto.

Abbracciarsi in una città come Torino non è per niente banale. Ma questo abbraccio ha qualcosa di diverso. Privo di bramosia e malizia è un inno alla reciprocità e all’individualità. Perchè in questo abbraccio, in cui ho a che fare con un corpo che non conosco, dovrò ricordarmi di sostenere e rispettare me stesso e l’altro. È una promessa non detta che si scambiano le mani e si ricordano i respiri.

In poco più di un quarto d’ora i nostri sperimenteranno tutti i sistemi motivazionali interpersonali di cui l’evoluzione della specie ci ha dotato. In profondo equilibrio tra loro.

Attaccamento/Accudimento: concetto di base sicura, Bowlby (1969) fiumi di appunti, libri ed esami. Poi arriva questo abbraccio e ti è improvvisamente chiaro tutto il concetto di rendere sicura l’esplorazione. Perchè queste braccia mi sostengono e al tempo stesso mi permettono il movimento. In un gioco di impulsi dove qualcuno propone e qualcuno interpreta, l’abbraccio è mobile, dinamico, si adatta alle esigenze del corpo e della musica, del contesto. A volte è morbido, altre più saldo, forte. Per 15 minuti mi accompagnerai senza mai lasciarmi, lungo una pista gremita di gente: ti prometto che non urterai nessuno, ti prometto che avrò cura di te. Ti prometto di seguirti. Se saprai sostenermi.

Chiunque abbia mai indossato un tacco 10 sa che l’equilibrio è un concetto faticoso quanto effimero. Sospese da terra dobbiamo imparare di nuovo a camminare. Ma non parliamo di questo, parliamo di affidarsi. Che è vero che “una sana autonomia nasce da una sana dipendenza” l’ho imparato qui. E infine, ci si ascolta il respiro. E non c’è niente di più intimo di un respiro. Un bambino che sogna adagiato sul nostro petto. Avete presente? Andiamo avanti.

Sessualità: ci seduciamo. ci sospiriamo nelle orecchie, ascoltiamo una canzone divenendo un corpo solo. Ci scambiamo le mani, la pelle, l’odore, in silenzio. Stiamo facendo l’amore forse molto molto meglio della notte scorsa. Ma è solo un tango. Quattro minuscole stagioni musicali e saremo di nuovo due avventori di questo locale senza niente in comune. Senza niente da dirsi. A parte questo.

Cooperazione: ricerchiamo un piacere condiviso possibile solo passando da “io” e “tu” a un “noi”. Pesi. Il tango fonda il movimento sulla percezione del peso dell’altro nel suo spostarsi da una gamba all’altra. Soltanto pesi. Ancora trovo incredibile che un abbraccio dia così tante informazioni da permettere a colui che guida di sapere dove si trova il tuo peso, momento dopo momento. Una specie di mindfulness di coppia dove la consapevolezza di me si arricchisce della consapevolezza dell’altro. E viceversa. Lei chiude gli occhi, lui chiude gli occhi. Sembrano due adolescenti che si tuffano dalla scogliera, sicuri del loro abbraccio e della loro follia. Lei lascia andare il suo corpo tra le braccia di lui, ma resta presente, concentrata, integra. Sa cosa sta facendo. Saprebbe spiegarlo? no. Ma il suo corpo interpreta la melodia come se non esistesse altro.

Se balli per dimostrarmi la tua bravura. Non è tango.
Se balli per rimorchiarmi. Non è tango.
Se balli per qualcuno seduto pochi metri più in là. Non è tango.
Se balli e non mi ascolti. Non è tango.
Se balli e mi rimproveri. Non è tango.
Se non mi rispetti non è tango.
Nel tango la miscela per una relazione priva di violenza.
Eppure non ce lo insegnano a scuola.
It takes two to tango.

Agonismo: giocare. Solo con l’evoluzione del sistema limbico, la predazione, nei mammiferi, si apre alla possibilità di un agonismo rituale, per sancire ruoli, potere e appartenenenze. Non esiste nulla di più serio. Avete presente i bambini alle prese con trattori, tazzine, scettri lunari e inseguimenti? Non esiste nulla di più reale di quell’esplosione in lontananza, di quella sirena, di spari e robot. Persino l’acqua nella tazzina ha esattamente il gusto del tè. Provate a chiamarli per la cena. Provate a interromperli. Il gioco richiede una presenza che investe corpo e mente indissolubilmente. È il tipo di allenamento che con fatica recuperiamo nel tai-chi e attraverso il teatro. Ricreazione sensoriale. E dire che ci veniva così bene, a 8 anni.

Ci stiamo sfidando come se fosse vero, intrecciamo le gambe, vicini, lontani, poi di nuovo vicini.  Sfidiamo noi stessi, a ogni passo un po’ più uniti, un po’ più precisi, a ogni marca più sofisticati.

Ci sfidiamo a essere il meglio, per l’altro.

Appartenenza: in questa sala mio padre conosce tutti. Nessuna differenza tra il banchiere e l’assessore, tra l’operaio e la casalinga, tra l’avvocatessa e la parrucchiera. Tangueri. Si sono dati un nome, e si riconoscono in questo. Come tifosi, coscritti, amici del Fight Club. Ma a differenza di quest’ultimo ne parlano, perchè ne vanno fieri e nessuno si fa male, calli a parte.

C’è un segreto, dentro ogni tanda. Qualcosa che sappiamo solo noi due. E che per quindici minuti ci raccontiamo senza parlare, stiamo costruendo una storia, tra le pause e gli assoli del bandoneon. Parlerà di addii, di amori non corrisposti, di condivisione e speranza, di dolore. Di tutto e di niente. Riconnettendo l’innato bisogno rettiliano di calore e sicurezza all’esplorazione congiunta e a un linguaggio e un significato condivisi. I tre cervelli di MacLean fanno festa tra il fruscio delle gonne e il brusio dei tacchi sul linoleum.

Nella terapia sensomotoria riconnettiamo il corpo alle emozioni, ai bisogni e ai desideri, per sentire e sapere. Lo fa anche il tango, ma con molta più sfacciata eleganza. Riempendo pance vuote, come quella di mio padre, sulla soglia della pensione.

Lo penso seduta qui, al mio tavolo. Ho terminato il mio vino. Guardando mio padre e l’elegante signora ho sentito un moto di fiducia nuovi e autentici. Forse perchè sono abituata a vedere mio padre preoccupato (del quartiere in cui vivo, dei miei viaggi intercontinentali, del mio lavoro, delle placche alla gola) e invece qui lo riscopro privo di paure ed esitazioni. Mi sento affascinata e al contempo incoraggiata a danzare, seppure non conosca i passi e gli anfibi non permettano la cosa. E mi sento simile a lui, per la prima volta. Naturalmente, orgogliosa, non lo dico. Aggiungendo l’orgoglio agonistico alla lista dei sistemi motivazionali sperimentati, a bordo pista, nello spazio di una tanda. In perfetto equilibrio tra loro.

Penso ai miei maestri e sussurro senza parlare: ho capito. Eccola là, la mia epifania. Fran!

Nella nostra modernità liquida, per dirla alla Bauman, i social network ci hanno permesso di ricercare sensualità, competizione, amore, condivisione e appartenenza senza nemmeno toccarci. Senza necessariamente incrociare lo sguardo del nostro interlocutore. Per cui ti sfido, ti amo, ti cerco, costruisco insieme a te sfiorando la sola tastiera qwerty del mio telefonino. Senza incontrarsi. Alcune sostanze stupefacenti permettono la stessa cosa, sdoganando dosi semiperfette di neurotrasmettitori potentissimi.

Certo qui si suda di più.

Ma ne vale la pena.

Chiedetelo a mio padre.

Edward R. Watkins e La terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione (2018) – Recensione del libro

La ruminazione come forma di evitamento. Presupposto essenziale alla Rumination-Focused Cognitive-Behavioral Therapy (RFCBT) descritta nel volume di E.R. Watkins, La terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione. Ma cosa evitiamo?

 

La terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione: la ruminazione come processo disfunzionale

Dario, 28 anni, studia ingegneria. Ha dato tutti gli esami, è un ragazzo brillante. Sono due anni che non riesce a laurearsi perché la tesi è ancora soltanto nella sua testa. Procrastina e procrastina. Ha paura di crescere, di “fare il salto”. Teme di non farcela ad assumersi le responsabilità di una vita adulta. “E se poi non trovo lavoro? E se sarò soltanto un fallito con una laurea?”.

Micaela, 34 anni, in crisi con il marito da circa un anno. Non parlano. Nessuno dei due chiede cosa stia accadendo. Le sue giornate sono grigie perché pensa e ripensa a quanto si sente sola e non amata. “Se dovessi parlarne temo di scoprire che lui abbia un amante e non potrei sopportarlo, ne sarei devastata”.

O ruminiamo o agiamo. La ruminazione ostacola l’azione, ma limita i rischi. Il rischio di fallire, di sentirci umiliati, di sentirci persone che non vorremmo essere.

Un altro elemento essenziale per la Rumination-Focused Cognitive-Behavioral Therapy (RFCBT) è appunto considerare la ruminazione una modalità di pensiero astratto, in opposizione a forme concrete di problem solving. Il malessere deriva da pensieri ripetitivi che non hanno risposta. La terapia cambia le domande. Dal “perché non sono stato preso per quel lavoro? Sono un idiota” al “Come posso incrementare le mie possibilità di inserimento lavorativo? Dove posso fare domanda di lavoro? Questa volta non ce l’ho fatta ma non sarà sempre così”. Dal “perché mi ha lasciato? Nessuno mi amerà mai” al “cosa posso fare per stare meglio? Dove posso incontrare persone nuove? Questa relazione è andata male ma niente mi vieta di incontrare qualcuno più adatto a me”. Insomma il domandarsi “perché” rispecchia un tentativo di capire le situazioni e darne un senso, lavoro il più delle volte impossibile. Il “come” ci pone invece verso la risoluzione del problema.

Andare nel concreto, evitando l’astratto, la generalizzazione, è un punto importante che ormai diversi filoni terapeutici stanno affrontando. Nella mia formazione ritrovo questa modalità negli insegnamenti della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI, Dimaggio et al., 2013). “Dove stava? Con chi? Ah quindi era sabato? Mi può descrivere il posto? E lei come si sentiva fisicamente? Ha notato a cosa stava pensando? E che emozioni provava?”. Domande di questo tipo mi riportano nella scena momento per momento e mi aiutano a ricostruire gli schemi interpersonali patologici. Spesso mi aiuto con le tecniche di imagery come suggerisce anche il testo di Watkins.

La terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione: i contributi di mindfulness e Compassion Focus Therapy

Nella RFCBT domande simili sono essenziali per l’Analisi Funzionale attraverso la quale si identificano contesti e situazioni in cui si attivano comportamenti più o meno desiderati. Questo lavoro permette di capire cosa innesca la ruminazione e cosa può aiutare a bloccarla in modo da creare nuove associazioni contesto-risposta. Il trattamento lavora alla ricerca di azioni alternative alla ruminazione che coinvolgono molto il paziente in modo da portare tutta la sua attenzione sull’attività che sta svolgendo. Un ritornare al momento presente in accordo con i principi della Mindfulness (Kabat-Zinn, 1990). Il paziente non riflette più in termini di valutazione su di sé, ma vive l’esperienza corporea e sensoriale nella quale è inserito. La terapia intende trasferire quell’essere assorti nei pensieri (ruminazione) nell’essere coinvolti in un’attività in linea con i propri desideri e/o valori.

Un altro elemento presente nella RFCBT è la compassione, caratterizzata da assenza di giudizio, e per questo in totale contrapposizione alla ruminazione. Svilupparla verso se stessi è spesso un’impresa ardua. A differenza della Compassion Focus Therapy (CFT, Gilbert, 2010), precisa l’autore, nella RFCBT ci si focalizza sulle esperienze passate di compassione. Da lì si parte con gli esercizi immaginativi e la messa in atto di comportamenti compassionevoli (rispondendo a domande del tipo: “se mi prendessi più cura di me, quali attività incrementerei?”; “se mi prendessi più cura di me, quali attività ridurrei?”).

A mio avviso il testo è interessante anche perché trasversale. La ruminazione è un processo molto simile al rimuginio ed entrambe le modalità sono frequenti in diversi disturbi, da quelli d’ansia a quelli di personalità.

La RFCBT ha uno stampo decisamente pratico, strutturato e il testo descrive nel dettaglio tutte le fasi del trattamento. I numerosi casi clinici e la trascrizione dei dialoghi sono utilissimi a comprendere i diversi passaggi; le dispense a fine libro sono materiale prezioso che il clinico può utilizzare nel suo lavoro.

Un testo insomma molto concreto in linea con il trattamento suggerito!

Efficacia delle terapie orientate metacognitivamente nel disturbo schizotipico di personalità

L’attenzione degli psicoterapeuti non è mai andata davvero al cosiddetto Cluster A dei disturbi di personalità (DP). In particolare il disturbo schizotipico di personalità (DSP), nonostante tassi di prevalenza che oscillano tra il 3.9% ed il 4.6% (APA, 2014), appare un DP a cui prestare ben poca attenzione.

 

Eppure nel modello alternativo dei Disturbi di Personalità (AMPD; First, Skodol, Bender & Oldham, 2018) il Disturbo Schizotipico di personalità (DPS) è tra i sei disturbi rimasti.

In parallelo cresce l’interesse per la schizotipia, ovvero un’organizzazione di personalità (definita appunto organizzazione schizotipica di personalità – OSP) connessa a fattori di rischio genetici per l’insorgenza dei disturbi dello spettro schizofrenico e che quindi spazierebbe lungo un continuum tra normalità e manifestazioni psicopatologiche diverse (Lenzenweger, 2010). A fronte della prevalenza del Disturbo Schizotipico di personalità, del fatto che sia stato mantenuto nel modello alternativo dei Disturbi di Personalità del DSM-5 e della ricerca sui processi psicopatologici che ne sono alla base, cosa troviamo nel mondo della psicoterapia? Pochissimo. Una review sistematica pubblicata lo scorso anno riporta soli tre studi con poche e deboli evidenze: uno studio randomizzato, uno studio clinico con valutazione pre-post, uno studio su caso singolo (Kirchner, Roeh, Nolden & Hasan, 2018).

Lo studio randomizzato (Nordentoft et al., 2006) confrontava una psicoterapia multifamiliare integrata (prettamente un intervento psico-educativo) rispetto ad un trattamento standard (ovvero consulenze psichiatriche e terapia farmacologica). Lo studio non randomizzato testava l’efficacia di un intervento psicodinamico assieme ad uno psicoeducativo (Karterud et al. 1992). Lo studio su caso singolo valutava un intervento psicoeducativo su un paziente con disturbo ossessivo-compulsivo ed in comorbilità un Disturbo Schizotipico di personalità (McKay & Neziroglu, 1996). In tutti e tre i casi vi era una limitata riduzione dei sintomi psicopatologici, ma soprattutto alla fine dell’intervento la diagnosi di Disturbo Schizotipico di personalità sussisteva. Relativamente al trattamento nessuno degli studi riportati descriveva un’operazionalizzazione dello stesso specifica per il Disturbo Schizotipico di personalità, riportando interventi o esclusivamente psico-educativi (e quindi non psicoterapeutici) o integrazioni di diverse componenti difficili da distinguere nella valutazione dell’efficacia.

Metacognizione e Disturbo Schizotipico di Personalità

Il Disturbo Schizotipico di personalità (DSP) viene alternativamente riferito allo spettro schizofrenico o ai Disturbi di Personalità (DP). Caso unico all’interno del DSM-5 (APA, 2014), il DSP compare infatti sia come specifier dello spettro schizofrenico e di altri disturbi psicotici sia come DP specifico nella sezione II. Possiamo facilmente comprendere come rappresenti un’organizzazione di personalità che causa una compromissione personale, sociale e lavorativa rilevante e, in generale, un’alterazione del funzionamento metacognitivo. Numerosi studi riportano infatti come la metacognizione sia fortemente compromessa tanto nello spettro schizofrenico quanto nei PD (Dimaggio & Lysaker, 2011). E come interventi focalizzati sulle funzioni metacognitive siano efficaci sia nei disturbi psicotici (Lysaker & Klion, 2019) che nei DP (Dimaggio, Ottavi, Popolo, & Salvatore, 2019).

Dati Preliminari di Efficacia

Viste le evidenze raccolte nel corso degli anni sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio et al., 2019) e sulla Metacognitive Reflection and Insight Therapy (MERIT; Lysaker & Klion, 2019), abbiamo condotto una cases series sull’efficacia di questi due trattamenti. I pazienti elegibili che afferivano a Tages Onlus venivano sistemicamente valutati in base ai criteri di inclusione ed esclusione. Il progetto prevedeva che ai pazienti con diagnosi di Disturbo Schizotipico di personalità sarebbe stato offerto un trattamento di 6 mesi e sarebbero stati assegnati in modo random o a TMI o a MERIT. I primi due pazienti che hanno rispettato i criteri di inclusione ed hanno accettato di partecipare allo studio sono stati dunque randomizzati. Entrambi i pazienti sono stati trattati presso il Centro di Psicologia e Psicoterapia di Tages Onlus e la terapia è stata condotta dallo stesso terapeuta (Simone Cheli), a sua volta formato e supervisionato da Giancarlo Dimaggio e Paul Lysaker per gli interventi rispettivamente basati su TMI e MERIT. Il protocollo di ricerca prevedeva una valutazione di ingresso, una terapia di 6 mesi, una valutazione al termine dell’intervento e ad un mese di follow-up. Entrambi i pazienti hanno mostrato una riduzione significativa della sintomatologia generale, con un Reliable Change Index tra 10.10 e 5.85. Soprattutto hanno evidenziato come i criteri per la diagnosi di Disturbo Schizotipico di personalità non sussistessero più. Permanevano solo alcuni aspetti psicopatologici nella valutazione dimensionale alla SCID-5-PD (First, Williams, Benjamin & Spitzer, 2017). Inoltre, l’intervento ha mostrato elevatissimi tassi di aderenza (nessuna seduta è stata annullata, solo alcune sono state spostate nella stessa settimana) ed un miglioramento significativo della metacognizione. L’articolo è stato recentemente accettato da Personality and Mental Health (Cheli, Lysaker & Dimaggio, 2019).

Pur riconoscendo tutti i limiti inerenti al disegno di ricerca (una case series con solo 2 pazienti e quindi un campione limitatissimo e senza gruppo di controllo), si tratta del primo studio di psicoterapia disegnato specificamente per il Disturbo Schizotipico di personalità e che ha riportato successi significativi sui problemi centrali di tale disturbo.

Prospettive Future

Se consideriamo come le stime di prevalenza per quel variegato insieme di genotipi, fenotipi ed endofenotipi che corrispondono al costrutto di schizotipia si attestano attorno al 10%, forse la comprensione dell’organizzazione schizotipica di personalità – OSP ed i suoi sviluppi psicopatologici (Lenzenweger, 2006) dovrebbe ricevere maggiori attenzioni da parte dei clinici. Sino all’ormai prossima pubblicazione del nostro studio sull’uso della TMI e della MERIT (Cheli et al., 2019) esistevano solo 3 articoli su trattamenti rivolti a pazienti con Disturbo Schizotipico di personalità (Kirchner et al., 2018). Abbiamo pertanto avviato tre studi finalizzati ad estendere i dati preliminari raccolti fino ad oggi sull’efficacia di approcci basati sulla metacognizione per l’OSP:

  • Uno studio correlazionale finalizzato a testare un modello di funzionamento psicopatologico sull’insorgenza dell’OSP (Cheli, 2019) in giovani adulti sani. Un’estesa batteria di test psicometrici è in corso di somministrazione al fine di analizzare gli effetti di mediazione e moderazione tra le variabili indagate.
  • Una cases series rivolta a pazienti con DSP diagnosticato secondo il modello dell’AMPD (First et al., 2018). I pazienti (ad oggi 3 già reclutati) sono trattati con TMI nella versione manualizzata in Dimaggio et al., 2019, con specifici interventi rivolti ai sintomi psicotici come definiti in Salvatore et al. 2017.
  • Una cases series rivolta a due pazienti con recente esordio psicotico (Disturbo Psicotico Breve), uno dei quali è stato assegnato in maniera random ad un trattamento tramite TMI (Dimaggio et al., 2019), uno tramite MERIT (Lysaker & Klion, 2019).

Per la case series, oltre agli usuali indici sintomatologici verranno condotte specifiche interviste finalizzate alla diagnosi del funzionamento di personalità secondo il modello AMPD (First et al., 2018), del funzionamento metacognitivo (Lysaker et al., 2010) e del rischio di insorgenza di un disturbo psicotico (Schultze-Lutter, Addington & Rurhmann, 2016). Inoltre in un sottogruppo di soggetti dello studio correlazionale condurremo un’intervista sulla metacognizione per meglio indagare questo cruciale fattore. Quel che ci aspettiamo è di ampliare la nostra conoscenza dei meccanismi di insorgenza e mantenimento delle manifestazioni psicopatologiche dell’OSP. To be continued…

Bere durante la gravidanza è sicuro per il bambino?

La sindrome alcolica fetale (Fetal Alcohol Spectrum Disorder FADS) è stata riconosciuta come una delle principali cause di disabilità intellettiva, con conseguente deficit cognitivo significativo, nel 2-5% dei bambini.

 

Uno studio recente, condotto in USA, ha rilevato che il 10.2% delle donne in gravidanza consuma alcol.

Tipicamente, la maggioranza delle donne continua a bere ed espone il proprio feto all’alcol almeno nelle prime fasi della gravidanza, di solito durante le prime 4 settimane.

Gravidanza e alcool: le associazioni con le abilità cognitive del bambino

Nonostante recenti affermazioni suggeriscano che i rischi legati al consumo di alcol, durante la gravidanza, siano ritenuti esagerati, un recente studio di meta-analisi dimostra un’associazione dannosa tra l’esposizione all’alcol prenatale e le abilità cognitive del bambino.

Lo studio, pubblicato su Chaos: An Interdisciplinary Journal of Nonlinear Science, è stato condotto dalla University of New Mexico Health Sciences Center di Albuquerque, e ha cercato di indagare se gli adolescenti, esposti all’alcol nell’utero della madre, mostrassero alterazioni delle connessioni cerebrali, cui sono collegate prestazioni cognitive compromesse.

I partecipanti allo studio, tutti adolescenti, sono stati suddivisi in due gruppi: il primo comprendente 21 soggetti sani, mentre il secondo era composto da 19 soggetti esposti all’alcol in età prenatale.

Per misurare le connessioni cerebrali si è utilizzata una tecnica di imaging cerebrale, la magnetoencefalografia (MEG) in associazione a una tecnica computerizzata sofisticata, la Cortical Start Spatio-Temporal multidipole analysis.

Gravidanza e alcool: i risultati dello studio

I risultati dello studio evidenziano una compromissione dei circuiti cerebrali dei soggetti con sindrome alcolica fetale, nello specifico, nelle connessioni del corpo calloso, la parte del cervello che interconnette i due emisferi cerebrali.

Di solito, questo tipo di alterazioni nel corpo calloso si evidenziano nei soggetti con schizofrenia, sclerosi multipla, anomalie dell’elaborazione sensoriale come l’autismo, depressione e Alzheimer.

Per concludere, il consiglio di non bere durante la gravidanza è tuttora applicabile, infatti, come dimostrato dalla ricerca, l’esposizione prenatale all’alcool può portare sia ad alterazioni delle connessioni del corpo calloso sia ad un decadimento cognitivo, derivante dal consumo di alcool occasionale o costante.

Inoltre, lo studio rivela una forte correlazione tra connettività funzionale interemisferica e le prestazioni cognitive sia per i soggetti sani che quelli con sindrome alcolica fetale.

Per tanto è difficile stabilire una quantità “sicura” di consumo di alcool da parte delle madri in gravidanza.

Economia, etica e psicologia: comportamento economico e motivazionale delle scelte del consumatore

Se il rapporto tra Psicologia ed Economia è da sempre risultato difficile, in realtà sono stati svariati i tentativi di avvicinamento. L’ approccio comportamentale all’ Economia rappresenta oggi un ambito di notevole interesse e sviluppo, che potrebbe rappresentare il punto di contatto tra Economia, Etica e Psicologia.

Armando Biamonte

 

Il rapporto tra Economia e Psicologia è da sempre risultato difficile.

In realtà possiamo evidenziare svariati tentativi di contatto tra due le discipline.

Lo studio del comportamento offre la possibilità di fuggire dalla trappola dell’interpretazione: l’approccio comportamentale all’ Economia rappresenta oggi un ambito di notevole interesse e sviluppo, che potrebbe rappresentare il punto di contatto tra Economia, Etica e Psicologia.

La teoria della scelta razionale

La teoria della scelta razionale rappresenta, il primo passo verso l’approccio comportamentale all’ Economia, dove sarà l’essere umano a scegliere attraverso la propria razionalità.

Per rispondere a qualsiasi domanda sul processo decisionale di un individuo si è passati da un punto di vista in cui la razionalità la faceva da padrone, attraversando anche un punto di vista in cui l’utilità raccoglieva al suo interno preferenze e gusti del consumatore, fino a giungere alla necessità di un terreno d’unione tra diverse discipline, in grado di creare nuovi rapporti proprio tra Psicologia ed Economia.

Dietro al comportamento di scelta del consumatore si nascondono bisogni e motivazioni che nulla hanno a che fare con il prodotto ma con il bisogno emotivo che desidera essere soddisfatto.

La teoria della scelta razionale ha dimostrato i suoi punti di forza nell’analisi del comportamento dei piccoli gruppi fino ad assumere sempre maggiore consistenza nell’analisi del comportamento individuale delle persone all’interno di un panorama istituzionale. Sostiene Collins:

bisogna considerare il termine scelta razionale come essenzialmente una metafora e non come una descrizione dei processi mentali consci.

L’approccio dell’ Economia Comportamentale

L’ Economia Comportamentale ha il merito di partire dalle teorie classiche, accettandone la validità, ma, allo stesso tempo, le mette in discussione.

Il 1979 con la pubblicazione del lavoro di Daniel Kahneman, Psicologo (1934), premio Nobel per l’ Economia nel 2002  e di Amos Tversky, Psicologo (1937-1996), The Prospect Theory, rappresenta il momento storico fondamentale dell’ Economia Comportamentale.

La teoria del consumatore razionale tende a concentrarsi sulle situazioni nelle quali è possibile confrontare i diversi vantaggi determinati dalle alternative a disposizione.

Se gli approcci economici tradizionali hanno il merito di aver affrontato per primi l’analisi del comportamento del consumatore, gli approcci più moderni cercano di affrontare i temi tradizionali dell’ Economia attraverso le prospettive teoriche che appartengono ad altre discipline scientifiche.

L’approccio comportamentale all’ economia si muove su un doppio filone: da una parte ci si focalizza sui processi cognitivi legati al processo di scelta con un approccio che prende il nome di Economia Cognitiva, e dall’altro si muove su un percorso caratterizzato dalle scelte che per loro natura sono condizionate dall’ambiente sociale.

Per poter effettuare un’analisi del comportamento del consumatore e un’analisi su come le decisioni vengono prese dagli individui, sono state analizzate la teoria definita “discovered preference hypothesis” (inteso come ipotesi di costruzione delle preferenze) di Smith, Plott e Binmore, l’esperimento noto come il “dilemma della malattia asiatica” di Kahneman e Tversky, nonché i classici giochi del Dilemma del Prigioniero e del Bene Pubblico utilizzati come modelli di riferimento proprio nell’approccio allo studio comportamentale.

Il rapporto tra Economia e Psicologia è da sempre risultato difficile

Andando a curiosare nella storia delle due discipline emergono delle analogie e dei rapporti.

È interessante notare come lo sviluppo storico delle due discipline prosegue quasi su un binario parallelo: se la corrente classica dell’ Economia inizia attorno alla prima rivoluzione industriale del ‘700 e alla seconda rivoluzione industriale del 1870, anche la moderna Psicologia Scientifica nasce e si sviluppa tra il 1850 e il 1870.

L’economia ha da sempre dato importanza ai fenomeni sociali, spostandosi da una analisi economica “micro” ad una “macro”, muovendosi cioè dal comportamento individuale per arrivare ai fenomeni sociali.

Lo studio delle norme e delle convenzioni sociali costituisce quindi un ambito di studio dell’aspetto comportamentale dell’ economia che, sempre attraverso l’applicazione di disegni sperimentali, indaga la cooperazione, l’altruismo, l’equità sociale ed il rispetto di norme sociali: comportamenti che pervadono le attività umane e che si apre in questo modo all’interdisciplinarietà, trovando punti di contatto e di dialogo tra l’ economia e le altre scienze comportamentali.

Le norme sociali, così come sono definite dalla teoria economica, sono standard di comportamento taciti, non sanciti necessariamente da norme giuridiche, ma condivise nella società.

Se il rapporto tra Psicologia ed Economia è da sempre risultato difficile, in realtà svariati sono i tentativi di avvicinamento.

Nel 1902 lo psicologo Tarde scrive un libro dal titolo “Psicologia Economica” dove si occupa soprattutto del concetto di scelta razionale.

Successivamente al secondo conflitto mondiale, la Psicologia Economica riscuote notevoli interessi soprattutto grazie allo psicologo Katona che nel 1975 scrive il testo “Psychological Economics”.

J. M. Keynes sosteneva l’importanza di riportare l’ economia verso valori più giusti, diventando scienza morale. Secondo l’autore:

i governi di oggi devono operare per incentivare la circolazione delle informazioni e devono anche dare maggiore importanza all’incertezza dei mercati. Infatti l’incertezza è presente in tutti quei mercati che influenzano maggiormente la stabilità e la crescita di una economia. È proprio l’incertezza che causa stati di boom e di recessione. La conclusione di quest’opera rappresenta un augurio ed una raccomandazione dell’autore agli economisti futuri. Questi dovrebbero essere uomini di cultura generale, più attenti allo studio delle materie sociali che a quelle scientifiche.

La resurrezione cerebrale: il ripristino della circolazione cerebrale e delle funzioni cellulari ore dopo la morte; esperimento su 32 teste di maiale.

Il sottile confine tra vita e morte affascina da secoli l’uomo e le scienze. Le innovazioni in tema di rianimazione hanno consentito che condizioni estremamente critiche divenissero trattabili e reversibili rendendo ancora più labile la separazione tra il concetto di vita e morte (Gottardello A, Tanini M.2019).

Marco Tanini, Ilaria Bagnulo, Emanuele Ginori, Vittoria Falchini, Alessandro Pacini

 

Resurrezione cerebrale: il confine tra vita e morte

La morte è stata sempre identificata con la cessazione di funzioni quali il respiro e il battito del cuore, solo recentemente è stato introdotto il concetto di morte cerebrale.

La definizione “legale” di morte è data dalla L. 578/1993 che, all’art. 1, specifica che “La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”.

A livello biochimico è noto che i mitocondri dei neuroni restano funzionali fino a 10 ore dal decesso, questo ha fatto ipotizzare che una adeguata riperfusione del cervello, dopo la morte, potesse riattivare il metabolismo cellulare (Tatarkova Z 2016).

Resurrezione cerebrale: lo studio

Un recentissimo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature del 17/4/19: Restoration of brain circulation and cellular functions hours post-mortem (tradotto: Ripristino della circolazione cerebrale e delle funzioni cellulari ore dopo la morte). In questa ricerca alcuni scienziati della Yale School of Medicine, nel quadro della NIH Brain Initiative, hanno connesso i cervelli prelevati a dei maiali in un mattatoio, ad un sistema di perfusione esterna in grado di sostituire la circolazione sanguigna. Questa tecnica ha permesso di ripristinare alcune funzioni fondamentali delle cellule cerebrali, come la capacità di produrre energia consumando zuccheri e producendo anidride carbonica.

Nello specifico sono state prelevate da un mattatoio le teste di 32 maiali, da queste è stato estratto il cervello e sottoposto a perfusione artificiale connettendo i principali rami arteriosi ad una macchina chiamata BrainEx. È opportuno ricordare che tale connessione è avvenuta a ore di distanza dalla morte.

Con questo sistema, i ricercatori sono riusciti a ripristinare ex-vivo la circolazione sanguigna e mantenere in vita i neuroni del cervello di maiale, parecchie ore dopo la morte dell’animale.

Resurrezione cerebrale: il sistema BrainEX

Con un sistema di pompe viene artificialmente irrorato con sangue artificiale a 37°C l’intero cervello isolato di maiale. Il sangue artificiale – costituito da una soluzione acellulare a base di emoglobina – apporta ossigeno e nutrienti al parenchima cerebrale, sostenendo il metabolismo e le funzioni cellulari. Insieme all’ emoglobina vengono somministrati anche sostanze protettive, stabilizzanti e agenti di contrasto. Tale soluzione viene chiamata BEx perfusato.

Resurrezione cerebrale: i risultati

Il sistema BrainEx in 6 ore ha ripristinato la perfusione nei principali vasi arteriosi riducendo la morte cellulare e ripristinando alcune funzioni cellulari, compresa la formazione di connessioni tra i neuroni (sinapsi). L’esperimento non ha risvegliato l’attività elettrica dei neuroni, ma solo un attivo metabolismo cerebrale.

Sebbene i neuroni si siano dimostrati in grado di condurre uno stimolo elettrico trasmesso dall’esterno, il team di ricercatori non ha rilevato una coordinazione nella scarica dei potenziali d’azione: il tipo di attività elettrica organizzata associata a percezione e consapevolezza. I neuroni non hanno dunque mostrato nessun segno di coscienza.

I ricercatori hanno scelto di non utilizzare la perfusione artificiale per lunghi periodi e non hanno usato strumenti per cercare di ottenere una coordinazione degli impulsi elettrici per la scarica dei potenziali d’ azione come ad esempio l’ elettroshock.

Resurrezione cerebrale il primo esperimento su cervelli di maiale img

IMM. 1 – Immunofluorescenza di una sezione di cervello di maiale a 10 ore dalla morte in condizioni naturali (a sinistra) e in caso di perfusione con BrainEx (a destra) iniziata quattro ore dopo il decesso. I neuroni sono in verde, gli astrociti in rosso; i nuclei cellulari in blu. (Cortesia Stefano G. Daniele & Zvonimir Vrselja; Sestan Laboratory; Yale School of Medicine)

Resurrezione cerebrale: utilizzo clinico

Il lavoro dimostra che il cervello, in condizioni opportune, ha capacità di recupero metabolico e neurofisiologico dal danno ischemico e anossico maggiori di quanto comunemente supposto. Offre l’indubbio vantaggio di consentire lo studio di un cervello di grandi dimensioni in uno stato di minima funzionalità per valutare l’ efficacia di terapie per combattere il danno ipossico ischemico. In condizioni normali, lo studio di un cervello post mortem è ostacolato da processi coagulativi nel microcircolo, dalla morte cellulare e dalla liberazione di sostanze tossiche date dalla lisi cellulare. Per eliminare tali inconvenienti si utilizza il congelamento che consente esclusivamente analisi di tipo microscopico.

Questo tipo di perfusione offre, al contrario, la possibilità di studiare un cervello senza gli artefatti legati alla morte e con un metabolismo cellulare in atto; è bene specificare che non si tratta di un un cervello vivente, ma è un cervello attivo a livello cellulare.

Resurrezione cerebrale: problemi bioetici

È bene ricordare che questa metodica ha consentito un ripristino della funzionalità cellulare ma non dell’ attività cerebrale. Avere delle cellule vitali non corrisponde al recupero di una, anche minima, funzione cerebrale.

La metodica descritta prevede l’ estrazione del cervello e la connessione al sistema di perfusione, pertanto, se anche fosse ipotizzabile un trattamento terapeutico, ci dobbiamo chiedere se sarebbe giusto tentare di ripristinare la coscienza in un organo espiantato dal proprio corpo.

Molto utile, al contrario, è l’ utilizzo di tale metodica per lo studio del danno ipossico-ischemico a livello neuronale.

Amare uno stalker (2015): vittime e stalker manipolatori, prede e predatori – Recensione del libro

Ruben De Luca, con la collaborazione di Alisa Mari, nel libro Amare uno stalker, spiega come i manipolatori strutturano la loro realtà con l’obiettivo di sedurre e possedere la persona amata.

 

I personaggi del libro Amare uno stalker sono le vittime, o prede, e gli stalker manipolatori, o predatori. In genere le prime appartengono al genere femminile, i secondi sono uomini. La voce narrante ci accompagna nel viaggio della scoperta delle regole sottostanti tale predazione, delle fragilità, utilizzando un linguaggio semplice e contenuti di qualità, sviluppati con l’osservazione pluriennale dei casi, e che potremmo in parte riassumere così:

Credo che questo sia il nucleo del problema: amare troppo 

La psicologia del predatore

Il primo capitolo di Amare uno stalker illustra il funzionamento mentale del predatore, la sua psicologia, come essa viene influenzata fortemente dal condizionamento culturale attraverso i racconti e le storie condivise, ad esempio le favole.

Il femminicidio appare un fenomeno presente nei mass media; i giornalisti, riportando fatti di cronaca, tendono a fornire una sorta di giustificazione alla violenza perpetrata sulle donne per mano degli uomini, spesso ex-partner. L’utilizzo di parole come “perdita di controllo”, riferita all’assalitore, oppure facendo riferimento alla possibile distorsione della realtà, potrebbe formare l’idea scorretta che l’assassino possa non scegliere di agire.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito alle battaglie per l’emancipazione femminile; l’acquisizione della parità uomo-donna ha prodotto, e produce, forti cambiamenti sul senso e significato della convivenza nella coppia, nonché sulla ripartizione di diritti e doveri. Emergono nuove possibilità per le donne che le rendono meno deboli, acquisendo così forza nella società; la conseguenza diretta vede l’uomo diventare a sua volta meno forte, fino a perdere i privilegi sociali.

Agli uomini non piace la sensazione di perdere il controllo dopo la fine della relazione sentimentale; come tuttavia sottolinea l’autore, “fortunatamente la maggior parte degli uomini non diventa violenta […]”. I nemici sono il manipolatore, lo psicopatico e l’uomo violento.

Nel testo Amare uno stalker sono elencate le modalità comportamentali e comunicative (frasi tipiche) utilizzate dai predatori durante sia il corteggiamento e sia la relazione successiva.

Ma come fare per difendersi dal pericolo?

Con la fuga! La vittima potenziale è corteggiata amabilmente, vive emozioni definite romantiche, quasi uniche. Ci si sente veramente amate, senza accorgersi di entrare in dinamiche relazionali pericolose nel medio e lungo periodo. Scappare subito è difficile, ciò nonostante permette di evitare il dolore quando il partner ideale mostrerà il “lato oscuro”.

Di seguito sono elencati i mutamenti responsabili della crisi del maschio contemporaneo:

  • Costante processo di liberalizzazione nella sfera sessuale
  • Introduzione del divorzio e aumento della lunghezza della vita media
  • Tendenza a ruoli coniugali paritari all’interno della famiglia
  • Diffusione della contraccezione femminile e pratiche per il contenimento volontario contenimento della natalità
  • Sostituzione della famiglia
  • Scomparsa delle famiglie che seguono il modello patriarcale

L’uomo manipolatore

La mancanza di senso di colpa, di rimorso e di empatia sono caratteristiche dei partner psicopatici, soggetti oltremodo abili nel rintracciare nella folla persone fragili:

se lui non prova emozioni verso il prossimo e non gli importa del genere umano, siete sicure che proverà emozioni per voi e gli importerà qualcosa vedendovi soffrire?

Le persone non psicopatiche hanno paura di fronte al pensiero di subire dolore o punizione, meccanismo che le tutela dal compiere atti criminali; nello psicopatico tale emozione è superficiale, cognitiva e non rappresenta un freno inibitore funzionale.

Perchè “la donna non smette di essere vittima”

Come sostiene l’autore, per iniziare il cammino verso la libertà dalla relazione inappropriata e patologica la vittima necessita della presa di coscienza delle emozioni, della consapevolezza di come ama, i punti deboli e gli schemi mentali utilizzati in determinate situazioni.

In un’ottica dualista, vengono proposti i concetti base dell’amore femminile, confrontandoli successivamente con quelli tipici maschili. Spesso le paure che ostacolano la fuga dalla relazione tossica nascono da concetti culturali, i quali inducono modalità di pensiero programmate e finalizzate a resistere nella relazione stessa; non solo, ma ad esse si aggiungono e si intrecciano anche aspetti legati alla propria storia di vita personale.

Il complesso di Cenerentola e la ricerca del Principe Azzurro ne rappresentano due esempi, ben sviluppati nel testo.

[…] proprio perché si tratta di concetti che si annidano nell’inconscio e lavorano in modo silenzioso, la loro influenza è davvero potente nel condizionarvi a pensare che non potrete mai sentirvi veramente complete se non sarete dentro una relazione amorosa.

Analizzando la favola del Principe azzurro, i lettori sono condotti a riflettere su come “finalmente inizia a diffondersi il messaggio che anche un uomo con dei difetti può essere perfetto per una donna, in quanto autentico”.

La Sindrome della Crocerossina impedisce alle donne di emanciparsi dalla ricerca del “lato buono” nel partner manipolatore. Tale ricerca è il meccanismo di difesa dalle proprie fragilità ed insicurezze, rappresenta la trappola che agevola la prigionia all’interno della relazione tossica. La decisione di perseguire nella sofferenza potrebbe essere espressione del proprio fallimento; l’errore della valutazione del partner è un processo difficile da realizzare, la sensazione esperibile potrebbe essere molto negativa, forse insopportabile. Tuttavia è meno distruttiva dell’accettazione autolesionistica di abusi e violenze all’interno della coppia.

Quali sono le trappole che conducono a persistere in una relazione dove la manipolazione è il meccanismo principe?

L’autore di Amare uno stalker elenca le trappole sostenendo che molte possiedono similitudini e spesso ne entrano in gioco più di una contemporaneamente. Nel dettaglio, codeste sono la Paura e il Senso di colpa, Vivere la Fantasia e non la Realtà, la perdita del Punto di vista, l’Ambiguità, Spostare il limite del possibile e il Pensiero magico.

Nel testo si sottolinea che il femminicidio non è quasi mai un reato generato da un raptus improvviso, bensì comportamento violento di cui sono elencate le fasi specifiche. Insieme formano il modello generale di violenza maschile nei rapporti di coppia.
La seduzione come primo approccio e madre di tutti i dolori relazionali conduce alle problematiche discusse attraverso l’isolamento della preda, la tensione, l’attacco del predatore, le scuse e la riconciliazione. Ogni fase è ben descritta e accompagnata dalle affermazioni tipiche che il manipolatore propone per portare a fine il suo scopo.

Quando una persona ama troppo significa che ama non abbastanza se stessa, di conseguenza l’amore dell’altro deve essere meritato. Il bisogno di essere amati, il senso di inadeguatezza, il timore dell’abbandono, in concerto conducono all’annullamento di sé, la sensazione di morire che segue il rifiuto o la violenza pongono le basi per l’identificazione del rapporto, luogo in cui la necessità di contare qualcosa, nonostante il dolore, riduce l’angoscia.

Per concludere

Come sottolineato, non tutti gli uomini sono manipolatori e violenti, sebbene le donne che “amano troppo” abbiano maggiori probabilità di incontrarli.

In ultima analisi e come considerazione personale, non limiterei il problema e il dramma che ne può seguire, solo alle donne vittime di uomini, ma amplierei i concetti anche nei confronti di uomini che incontrano donne manipolatrici e alle coppie omosessuali.

Amare uno stalker è un bel libro, scritto con ardente volontà di aiutare, sostenuto da un’ottima preparazione ed esperienza dell’autore, la cui lettura credo possa essere di notevole aiuto alle vittime di tali dinamiche. Nell’accezione preventiva, inoltre potrebbe costituire la conoscenza necessaria a riconoscere il fenomeno, evitarlo e/o aiutare sia coloro maggiormente esposti e vulnerabili sia chi subisce violenza all’interno della trappola amorosa patologica.

Avere memoria di un’esperienza mai vissuta

Veniamo al mondo con una cassetta degli attrezzi tale che, dalla nascita, per tutta la nostra esistenza, possiamo apprendere e rispondere prontamente ed efficacemente agli stimoli ambientali esterni..

In stretta associazione all’apprendimento vi è un altro “attrezzo” che ci consente di sopravvivere: la memoria ovvero la capacità di codificare, immagazzinare e recuperare associazioni, precedentemente apprese, tra stimoli esterni ed eventi emotivamente salienti sia di natura appetitiva che avversiva.

Memoria: ci consente di sopravvivere

Per poter sopravvivere nell’ambiente infatti qualsiasi animale ed essere umano ha necessità di ricordare, cioè di recuperare informazioni preziose sulle esperienze passate simili o riconducibile a quella attuale e qual è stata la risposta adattiva e funzionale in quella circostanza; queste informazioni sono fondamentali a rispondere all’ambiente in modo adeguato (Josselyn, Köhler & Frankland, 2015).

In questa prospettiva, l’esperienza che facciamo del mondo esterno e che poi viene immagazzinata sembrerebbe essere costituita, nelle forme più semplici, da associazioni stimolo-risposta contigue temporalmente, nelle quali è presente uno stimolo condizionato (CS) legato ad uno stimolo incondizionato (US) che danno origine ad una “traccia”, conservata in memoria, che guida scelte e comportamenti futuri promuovendo rispettivamente evitamenti o ricerca degli stimoli (Johansen, Cain, LeDoux et al., 2011).

Gli studi sui processi mnestici, tramite innovative e recentissime metodologie di imaging, elettrofisiologia e optogenetica, hanno nel corso del tempo identificato con una sempre maggior precisione sia le componenti chiave delle tracce di memoria, i circuiti e le aree cerebrali sottostanti, sia quei pattern di attività neuronale che corrispondono e realizzano nel cervello una determinata esperienza (Tonegawa, Liu, Ramirez et al., 2015).

Pertanto, dato il livello attuale e dettagliato di comprensione circa la localizzazione, la formazione, la codifica delle memorie, potrebbe essere di conseguenza possibile modulare i processi mnestici e impiantare, ad esempio, in modo artificiale la memoria di un evento di cui non si è mai avuta esperienza diretta.

Memoria: è possibile crearne una su eventi mai successi?

Utilizzando il paradigma classico di condizionamento in associazione a tecniche di stimolazione elettrica intracranica e di optogenetica, Vetere, Josselyn, Frankland e colleghi del Program in Neurosciences and Mental Health all’Hospital Sick for Children e del dipartimento di fisiologia, psicologia e scienze mediche dell’Università di Toronto, nella loro ricerca recentemente apparsa su Nature Neuroscience, hanno stimolato precise zone del sistema olfattivo dei topi innestando un condizionamento artificiale a seguito del quale gli animali hanno messo in atto rispettivamente comportamenti di ricerca e di evitamento nei confronti di un odore neutro mai realmente annusato.

Al fine di innestare la memoria di un odore, è stato necessario adottare due criteri: il primo ha previsto che l’apprendimento dell’associazione tra odore (CS) e il rinforzo o la punizione (US) avvenisse interamente a livello intracranico, tramite cioè diretta stimolazione elettrica cerebrale; il secondo che fosse dimostrata la presenza della memoria innestata attraverso la successiva presentazione di un cue esterno “reale” legato all’associazione appresa artificialmente, in modo tale da osservare nel comportamento del topo il contenuto dell’informazione immagazzinata costituita dall’associazione stimolo risposta “appresa”.

La scelta di utilizzare come cue reale un odore è giustificata dal fatto che l’organizzazione anatomica del sistema olfattivo dei topi è stereotipata e semplice, tale da facilitare la somministrazione di stimolazioni elettriche in specifiche popolazioni di neuroni olfattivi.

Inoltre, nel sistema olfattivo dei topi esistono popolazioni di neuroni che sono selettivamente preposte alla codifica di odori neutri precisi come l’acetofene e il carvone.

Memoria: i risultati della ricerca

Innanzitutto i ricercatori hanno condizionato i topi per la formazione di una reale memoria olfattiva associando l’acetofene ad un moderato shock elettrico tramite addestramento: come atteso, durante la fase di test, i topi realmente condizionati hanno evitato la porzione della gabbia intrisa di acetofene e tendevano a spostarsi verso l’angolo in cui era presente l’altro odore neutro.

A questo punto, per investigare se fosse possibile sostituire la presentazione reale dell’acetofene con una diretta stimolazione elettrica, i ricercatori l’hanno somministrata nell’area neuronale olfattiva disposta nell’epitelio nasale, composta da popolazioni di neuroni che si attivano specificatamente per l’acetofene, trovando che, nonostante questi topi non fossero stati realmente condizionati ed esposti all’acetofene, hanno mostrato i medesimi comportamenti di evitamento nei confronti di quest’odore come osservato nel gruppo di topi precedente.

Per quanto riguarda l’innesto di una memoria appetitiva e la determinazione nei topi di un comportamento di approccio nei confronti dell’acetofene, è stata somministrata la medesima procedura sperimentale di condizionamento classico, nella quale però è stata modificata l’associazione tra odore e stimolo avversivo sostituito ora con una ricompensa di cibo.

Gli effetti della procedura si sono rivelati i medesimi: nel gruppo di topi che non aveva avuto esperienza reale dell’odore ma solo la stimolazione, si sono osservati comportamenti di approccio e di ricerca dell’acetofene.

Memoria: in futuro avremo quella artificiale?

Questo straordinario studio (Vetere, Josselyn, Frankland et al., 2019) ha evidenziato come sia possibile bypassare interamente l’esperienza sensoriale reale e impiantare nei topi una memoria artificiale attraverso una diretta stimolazione e modulazione elettriche di specifiche aree e circuiti cerebrali, in parte sovrapposti e che possono quindi produrre segnali neurali associati sia all’evitamento che alla ricerca, che controllano riflessi motori condizionati in popolazioni di roditori coscienti e attivi.

Tuttavia persistono delle questioni ancora aperte in particolare sulla natura stessa dell’ “esperienza” che costituisce la traccia di memoria: può infatti una mera stimolazione di neuroni olfattivi indurre una sensazione olfattiva per come la conosciamo, sia piacevole che spiacevole?

E ancora: se fosse possibile riproporre anche negli umani le medesime procedure, potremmo considerare la mera attivazione neurale come un’esperienza tout court in assenza della percezione consapevole di uno stimolo fisico esterno?

E se anche riuscissimo a fare questo, quali potrebbero essere le implicazioni del poter scegliere semplicemente di dimenticare ciò che è stato troppo doloroso e sostituirlo con qualcosa di più piacevole?

Nuove frontiere nella cura del trauma 2019. L’elaborazione dei ricordi traumatici nei disturbi dissociativi e traumatici complessi – Report dal convegno di Venezia

Non tradisce le aspettative dei suoi ormai affezionati partecipanti l’ VIII edizione del Corso Internazionale Nuove Frontiere nelle Cura del Trauma, svoltosi a Venezia dal 26 al 28 aprile 2019, anche quest’anno dedicato alla fase di elaborazione.

 

D’altra parte, con il contributo di ospiti come Dolores Mosquera e Kathy Steele, ormai “storiche” protagoniste di questo corso, era una scommessa destinata al successo.

Trauma complesso e dissocazione: i focus del convegno

Dal 2012, infatti, questo corso di alta formazione rappresenta un appuntamento prezioso e arricchente nel panorama della dissociazione e del trauma complesso, riunendo ogni anno terapeuti che lavorano con il trauma provenienti da tutta Italia (e non solo) sotto la guida di esperti di fama internazionale.

Seguito e completamento della scorsa edizione, il lavoro si è dunque concentrato sulla fase 2 del trattamento, dedicata all’elaborazione delle memorie traumatiche, secondo il Modello Trifasico già proposto da Janet (Janet, 1898) e poi sviluppato dalla recente psicotraumatologia, all’interno della cornice teorica della Dissociazione Strutturale (van der Hart et al., 2006).

Il valore aggiunto di questa edizione è stato l’intervento congiunto delle due relatrici principali, che hanno accompagnato i partecipanti attraverso le sfide del lavoro clinico dando un efficace esempio di integrazione di alto livello, mescolando con sensibilità, in uno splendido coro a due voci, l’energia di Dolores Mosquera e l’ironica delicatezza di Kathy Steele.

Il lavoro con i ricordi traumatici

Attingendo con generosità alla loro esperienza clinica, portando esempi e registrazioni video di sedute con i loro pazienti, Mosquera e Steele, hanno mostrato come condurre il delicato e importantissimo lavoro di elaborazione delle memorie traumatiche fino all’integrazione, in una continua co-costruzione con il paziente, sempre attente a valutare momento per momento “cosa funziona per questa persona in questo momento qui davanti a me” calibrando interventi tecnici all’interno di una cornice relazionale solida ma in continua evoluzione.

Iniziare il lavoro con i ricordi traumatici pone subito una questione delicata e fondamentale: quando deve essere affrontato? La grande (e assolutamente doverosa) attenzione alla necessità di stabilizzare il paziente prima di iniziare il lavoro sulle memorie traumatiche porta spesso i clinici ad un atteggiamento eccessivamente prudente, per cui possono passare molti anni prima che si decida di iniziare la fase 2. Tuttavia, sottolinea Mosquera, per alcuni pazienti non lavorare fin da subito su alcuni aspetti del trauma rappresenta un pericolo, a causa delle intrusioni che interferiscono pesantemente con la vita quotidiana.

Parlare dell’esperienza traumatica è importante perché creare una narrazione autobiografica aiuta a creare significato e a smettere di rivivere l’esperienza, ma l’intensità del richiamare il ricordo deve essere attentamente valutata rispetto ai punti di forza e ai limiti dei singoli pazienti. Punto di fondamentale importanza è mantenere sempre l’attenzione duale presente/passato, la connessione con il terapeuta, la connessione con il sé, rimanendo nella zona di resilienza, controllando sempre che tutto il sistema, tutte le parti, siano radicate nel presente e attivamente entro la “finestra di tolleranza” (Siegel, 1999).

In questo lavoro la relazione terapeutica è di primaria importanza e il terapeuta deve fare molta attenzione ai rischi controtransferali del lavoro con questo tipo di pazienti: evitamento/invischiamento, troppo/troppo poco, esperienza che rispecchia la dualità dell’esperienza dei pazienti stessi.

Il lavoro con i Disturbi Dissociativi e il PTSD complesso porta con sé delle sfide davvero impegnative e per procedere con l’elaborazione dei ricordi traumatici occorre avere un’idea abbastanza chiara del sistema interno del paziente, delle sue risorse, delle sua capacità integrative, di quanto siano intense la fobia per l’esperienza interna, la fobia per i ricordi traumatici, la fobia per l’attaccamento e la perdita dell’attaccamento, di quale sia e quanto sia forte il conflitto fra le parti.

Il lavoro con la resistenza è il lavoro con il trauma

 Mosquera e Steele insistono molto sull’importanza dell’incoraggiare i pazienti sempre rispettando i tempi di tutte le parti, senza forzare l’elaborazione, facendo frequenti verifiche su come il sistema interno stia reagendo al lavoro in quel momento, chiedendo il consenso e ponendo sempre molta attenzione all’equilibrio fra elaborazione e stabilizzazione.

Il lavoro sulle memorie traumatiche pone il clinico di fronte a resistenze e blocchi. Come sottolinea Kathy Steele, il lavoro con la resistenza è IL lavoro con il trauma, non qualcosa che intralcia il lavoro. La resistenza è, infatti, una protezione contro un’integrazione che il sistema del paziente, o una parte di esso, vive come pericolosa. Questi pazienti hanno sperimentato l’impotenza, temono la perdita di controllo e la violazione dei loro confini: per questo quanto più la resistenza è severa ed egosintonica, quanto più occorre dar loro controllo e potere nel processo terapeutico, procedendo sempre per piccoli passi, con estremo rispetto.

L’elaborazione dei ricordi traumatici con questi pazienti non è un processo “tutto o nulla”, ma un delicato svolgimento in cui il pacing, il ritmo, e il timing vanno attentamente calibrati sul singolo paziente, dosando attentamente quanta parte dell’esperienza traumatica possa tollerare quello specifico paziente in quello specifico momento. In caso di dissociazione strutturale è necessario adottare un approccio graduale a piccoli passi, utilizzando tecniche che aiutino i pazienti a rimanere nella finestra di tolleranza, come la titolazione (elaborare piccoli momenti di esperienza, una “goccia” alla volta), la gradualità (incrementare lentamente la quota di esperienza con cui lavorare) e il pendolamento (muoversi avanti e indietro tra un’esperienza positiva e una negativa allo scopo di allargare la finestra di tolleranza e favorire l’elaborazione) (Steele et al., 2018).

Mosquera parla dell’approccio progressivo con l’EMDR (Gonzalez e Mosquera, 2015), mentre Kathy Steele offre l’esempio di tecniche mutuate dalla tradizione ipnotica, ma, al di là della specifica tecnica, entrambe mostrano come lavorare in modo efficace con i Disturbi Dissociativi e il PTSD complesso sia un’arte delicata di continua sintonizzazione e cooperazione con il paziente, che poggia però le sue fondamenta su una solida base teorica che aiuta il clinico ad orientarsi e a scegliere il passo successivo.

A conclusione della fase di elaborazione, prendendo nettamente posizione rispetto al dibattito attuale su quanto sia davvero necessaria l’integrazione come obiettivo finale della terapia, Kathy Steele ha sostenuto con forza l’utilità di portare i pazienti all’integrazione: la dissociazione rappresenta sempre un elemento di fragilità, e quindi di rischio, per la persona. E’ dunque obiettivo della terapia quello di integrare tutte le parti portando verso un’organizzazione continuativa della personalità.

Il Maladaptive Daydreaming

Contributo innovativo di questa edizione è stato quello di Eli Somer, professore di Psicologia Clinica presso l’Università di Haifa (Israele) ed ex presidente della ISSTD (Società Internazionale per lo Studio del Trauma e della Dissociazione) e della ESTD (Società Europea per lo Studio del Trauma e della Dissociazione).

Somer ha presentato il suo nuovo costrutto diagnostico di Maladaptive Daydreaming (MD), ovvero un’attività fantastica, estensiva, elaborata ed intenzionale, accompagnata da movimenti ripetitivi, che viene messa in atto come una sorta di fuga dalla realtà e assorbe moltissimo tempo, interferendo nella vita quotidiana della persona e portando ad un disagio significativo, tanto che viene spesso vissuta come una compulsione o una dipendenza.

Il MD è un assorbimento dissociativo che sembra basato su di un tratto che queste persone si riconoscono fin dall’infanzia, ovvero la capacità di sognare ad occhi aperti, come una forma internalizzata di gioco molto gratificante. Ciò che distingue il MD da una non patologica tendenza a fantasticare è proprio il disagio che provoca e l’interferenza con le normali attività della vita quotidiana.

Lo stato della ricerca lascia ancora molte domande aperte ed il costrutto è ancora in fase di studio, ma dai primi risultati sembra avere una propria identità distinta, misurata e diagnosticata in maniera affidabile attraverso specifici strumenti. Emerge inoltre un’alta comorbilità con diversi disturbi psichiatrici e una certa correlazione con esperienze traumatiche infantili. Senz’altro interessanti saranno gli sviluppi futuri della ricerca, che andranno rivolti anche a chiarire il tipo di relazione con i Disturbi Dissociativi.

Ancora una volta l’appuntamento annuale in laguna si è rivelato ricco di spunti clinici e occasione di confronto preziosa con chi da anni si occupa ad altissimi livelli di dissociazione e sviluppo traumatico. Questa edizione, forse più di altre, ha accompagnato i partecipanti in direzione di una sempre maggiore integrazione: non solo nei contenuti, proseguendo verso la conclusione della fase 2 del trattamento, ma anche nella forma, grazie al continuo scambio fra le due relatrici principali, che, pur partendo da metodi e stili diversi, hanno saputo operare una sintesi organica e chiara, fondamentale per orientarsi nel complesso lavoro con questi disturbi.

Stop all’ansia sociale. Strategie per affrontare e gestire la timidezza (2018) di N. Marsigli – Recensione del libro

Provare ansia in situazioni sociali è normale, il libro Stop all’ansia sociale ci insegna però che non possiamo evitare il giudizio degli altri in quanto giudicare e avere opinioni sulle altre persone fa parte della natura umana.

 

Il disturbo d’ansia sociale è comune e diffuso: sembra infatti che ne soffra almeno il 6% della popolazione generale. Il disturbo affligge sia uomini che donne e tende a svilupparsi dalla prima adolescenza. Chi ne soffre teme il giudizio degli altri sia durante la messa in atto di una performance, come ad esempio parlare in pubblico, sia durante le normali azioni della quotidianità, come entrare in un negozio per fare acquisti. Una persona con un disturbo d’ansia sociale tende ad affrontare le situazioni temute con un carico di tensione molto elevato e arriva addirittura a evitarle completamente. Inoltre, non è raro che chi soffre di ansia sociale usi l’alcool o altre sostanze allo scopo di moderare l’ansia e diminuire la sofferenza.

Come è possibile spiegare tale disturbo? Per ragioni evoluzionistiche, il cervello identifica il rifiuto sociale come una grave minaccia: infatti all’epoca dei nostri antenati vivere in gruppo era essenziale per aiutarsi reciprocamente a cacciare, a procurarsi il cibo, a crescere i figli e a difendersi dai pericoli, ma al giorno d’oggi di solito il rifiuto è un normale evento sociale che non implica gravi conseguenze.

Il libro Stop all’ansia sociale. Strategie per affrontare e gestire la timidezza spiega che è normale continuare a provare ansia e non possiamo evitare il giudizio degli altri in quanto giudicare e avere opinioni sulle altre persone fa parte della natura umana.

I contenuti del libro

Chi soffre di ansia sociale tende a percepire e immaginare di essere costantemente al centro dell’attenzione nelle situazioni sociali e teme di essere giudicato negativamente. L’ansia non compare solo durante l’evento, ma è anche anticipatoria e relativa al post-evento, ossia una persona continua a provare sofferenza anche dopo aver affrontato la situazione temuta. Questo comporta una diminuzione della qualità di vita per queste persone, dato che si è portati a privarsi di varie attività piacevoli e/o importanti come, ad esempio, mangiare al bar con gli amici, andare a una cena e perseguire altri obiettivi che implicano l’esposizione in pubblico nonché la possibilità di essere giudicati.

Il libro Stop all’ansia sociale, oltre a fornire una descrizione esaustiva del funzionamento di una persona con il disturbo d’ansia sociale, spiega le tipiche distorsioni cognitive e i vari fattori di mantenimento del disturbo, espone inoltre diversi esercizi sia per il trattamento, sia per affrontare le ricadute.

L’utilizzo degli interventi sul corpo nella formulazione del caso in TMI

Gli interventi sul corpo in Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) rendono possibile una formulazione del funzionamento precisa, ricca di dettagli e condivisa con il paziente, presupposto basilare per iniziare un buon lavoro sul cambiamento.

Vittoria Galasso e Luisa Buonocore

 

La Terapia Metacognitiva Interpersonale assegna, come primo compito al terapeuta, la ricostruzione del funzionamento del paziente a partire dalla raccolta di episodi precisi, concreti, tangibili in cui emerga chiaramente il modo in cui egli si muove nell’ambito delle dinamiche relazionali.

Tuttavia, spesso ci troviamo davanti a pazienti che hanno difficoltà a raccontare la loro esperienza. Sono pazienti con bassa autoriflessività, incapaci di recuperare episodi narrativi o di descrivere con chiarezza l’esperienza interna che li accompagna. Con questi pazienti è facile che la seduta diventi improvvisamente ricca di silenzi.

È stato così con Elena, una ragazza di 21 anni, minuta e taciturna, molto taciturna. Faceva fatica a sostenere lo sguardo, sedeva sulla punta della sedia, con i polpacci tesi, come se fosse pronta a scappare. Le spalle erano chiuse e basse, le braccia rigide e tese. Vani sono stati gli sforzi di evocare episodi specifici o di riflettere su come si stava sentendo in seduta, sempre un’unica risposta: “non lo so, non so rispondere”.

Restava in seduta tanto tempo per osservare la ragazza. Il suo corpo mostrava la sua storia: Elena ha vissuto episodi ripetuti e molto gravi di umiliazione e presa in giro da parte di alcuni coetanei, durante gli anni delle scuola primaria e secondaria. Ha sviluppato un’aspettativa di umiliazione da parte degli altri e un’immagine di sé inadeguata in risposta al proprio desiderio di accettazione. Sul piano corporeo si notava un assetto motorio che rinforzava in modo implicito e procedurale l’idea di sé inadeguata.

Le esperienze relazionali problematiche condizionano in modo significativo il mondo interno del paziente e lasciano traccia nella mente e nel corpo. Sappiamo che la sofferenza dei pazienti è spiegata in gran parte da schemi maladattivi, rigidi e disfunzionali, attraverso cui il paziente interpreta le dinamiche interpersonali. Questi schemi rappresentano un sistema di previsione di aspettative, riguardano il modo in cui ci si aspetta che gli altri reagiranno ai nostri desideri e bisogni, e si sviluppano a partire dalle esperienze relazionali precoci. Gli schemi sono, quindi, copioni relazionali in cui sedimenta l’esperienza che un individuo ha avuto con figure significative nell’arco della propria vita. Tali schemi hanno una natura implicita e procedurale: sono fatti di pensieri, convinzioni, comportamenti interpersonali ma anche di abitudini corporee che si esplicitano in specifici profili di attivazione neurovegetativa, movimenti, tensioni muscolari, posture ed espressioni facciali. Le esperienze interpersonali vissute lasciano traccia anche nel modo in cui il corpo ha vissuto gli eventi.

L’essere stato esposto ripetutamente ad esperienze relazionali traumatiche impatta fortemente sulla costruzione di tali schemi: la sofferenza vissuta in tali esperienze lascia traccia nella mente, in termini di aspettative cognitive ed emotive su come le cose andranno, ma anche nel corpo (Ogden, Fisher, 2015; La Rosa, Onofri 2017; Liotti, Farina 2011; Porges, 2014; Van der Kolk, 2014). Si creano dei meccanismi procedurali automatici che si esprimono sia sotto forma di pensieri e comportamenti che attraverso abitudini corporee stabili. Queste manifestazioni corporee rivelano il processo di adattamento che la persona ha messo in atto per rispondere alle circostanze traumatiche. I contenuti cognitivi degli schemi ed i correlati somatici degli stessi, sono in relazione tra loro e si condizionano a vicenda. Attuare un intervento sul piano somatico equivale ad introdurre una variazione sull’assetto cognitivo che a sua volta inciderà su quello somatico, in un processo di reciproco condizionamento.

Terapia Metacognitiva Interpersonale: il corpo al centro dell’agire terapeutico

Alla luce di tale concettualizzazione, la Terapia Metacognitiva Interpersonale prevede uno specifico protocollo di lavoro, nel quale il corpo assume centralità rispetto all’agire terapeutico, come via di accesso al mondo interno del paziente e al tempo stesso risorsa per il lavoro sugli esiti maladattivi (Dimaggio et al., 2019). Le componenti fortemente dissociative e le difficoltà metacognitive associate che accompagnano i quadri clinici dei pazienti con storie relazionali problematiche portano ad avere scarsi livelli di consapevolezza e ciò contribuisce a rendere il corpo estremamente rilevante nel trattamento.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale trae ispirazione nella definizione degli interventi basati sul corpo da orientamenti teorici diversi, in particolare dalle tecniche bioenergetiche, dalla terapia sensomotoria, dalla tradizione Yoga e dalle arti marziali. Attraverso tali interventi, il paziente viene reso gradualmente consapevole del modo in cui il corpo manifesta i propri vissuti in modo da favorire una migliore consapevolezza che il soggetto ha di sé e degli altri alla luce delle esperienze fatte, favorendo l’autoriflessività. Pertanto, in fase di formulazione del funzionamento, in seduta si chiederà al paziente di porre attenzione allo stato corporeo osservato dal terapeuta, promuovendo una descrizione più dettagliata possibile di tali stati e chiedendogli se abbia sperimentato in altri momenti sensazioni analoghe.

In seduta con Elena, ad esempio, portare l’attenzione sulla postura attraverso interventi di mindfulness integrata relazionalmente (Ogden, Fisher, 2015) ha permesso di lasciar emergere la narrazione degli episodi in cui è stata vittima di bullismo permettendo la ricostruzione dello schema disfunzionale e alle memorie relazionali ad esso associate. Osservando e ricalcando con interventi di tracking la sua postura chiusa, difesa, ma allo stesso tempo tesa, pronta a scappare, Elena stessa ha notato come tale postura era tipica dei momenti successivi alle prese in giro dei suoi compagni di classe, momenti in cui si rifugiava nei corridoi della scuola, pronta a difendersi qualora fosse stato necessario. Tale intervento, ha quindi permesso di accedere a una serie di memorie associate attinenti agli episodi passati e a uno schema disfunzionale in cui il desiderio di accettazione aveva avuto continue risposte di umiliazione. Elena aveva imparato a contrastare la percezione di inadeguatezza che ne derivava con l’inibizione di tale desiderio e l’evitamento delle situazioni sociali. L’intervento sul corpo ha reso possibile una formulazione del funzionamento precisa, ricca di dettagli e condivisa con la paziente, presupposto basilare per iniziare un buon lavoro sul cambiamento.

Ketamina e Depressione: sperimentazione sui topi di laboratorio

La capacità della ketamina di diminuire i sintomi collegati alla depressione in modo rapido la rendono un importante oggetto di sperimentazione scientifica. Per questo motivo è importante capirne appieno gli effetti e le potenzialità per sviluppare nuovi e migliori trattamenti per la prevenzione, la diagnosi e la cura di questo disturbo.

 

Negli ultimi anni si è sentito parlare molto dei rapidi effetti antidepressivi della ketamina a basso dosaggio, che si possono apprezzare nel giro di ore anche nei casi più gravi e che in alcuni casi possono mantenersi per settimane. La capacità unica di questo anestetico di diminuire rapidamente la gravità dei sintomi permette di studiare il substrato cerebrale in modo approfondito durante la transizione fra depressione e remissione, cosa succeda però a livello circuitale non è del tutto chiaro.

Un recente studio sul modello animale (Moda-Sava, et al., 2019) potrebbe aver scoperto come questo farmaco influisca sulle dinamiche cerebrali coinvolte nella depressione.

Lo studio

Usando microscopia a due fotoni e recenti tecniche di optogenetica, i ricercatori hanno dimostrato come lo stress cronico associato a comportamenti depressivi possa causare una riduzione delle spine di specifici alberi dendritici dei neuroni piramidali nella corteccia prefrontale e che, mentre nei controlli molte funzioni coinvolgono diverse cellule attive simultaneamente, nei topi sottoposti a stress cronico la formazione di questi assemblamenti sincroni è meno probabile, e ciò si traduce in una minore connettività funzionale.

La somministrazione di ketamina nei topi ha ribaltato tali effetti, aumentando le spine dendritiche di determinati neuroni, generando nuove sinapsi e ripristinando l’attività coordinata dei cluster cellulari. I risultati mostrano come la riduzione dei sintomi comportamentali e l’aumento della sincronicità neuronale precedano la formazione delle spine, indicando come questa non sia necessaria per indurre gli effetti antidepressivi, sebbene sia cruciale per il mantenimento a lungo termine della remissione.

Comunque, la spinogenesi indotta dalla ketamina nella corteccia prefrontale non ripristina la stessa configurazione connettiva precedente all’induzione di stress cronico e, inoltre, circa il 55% delle sinapsi neoformate viene rapidamente perso. Queste dinamiche sembrano sottendere la spontanea ricorrenza degli episodi depressivi nel tempo, quindi per una riduzione duratura e mantenuta del disturbo potrebbero essere utili interventi farmacologici o neurostimolatori atti a recuperare e preservare le sinapsi eliminate.

In conclusione

La capacità della ketamina di diminuire i sintomi depressivi in modo rapido la rendono un importante oggetto di sperimentazione scientifica. Capirne appieno gli effetti e le potenzialità è un obiettivo fondamentale per sviluppare nuovi e migliori trattamenti per la prevenzione, la diagnosi e la cura dei disturbi dell’umore.

L’utilizzo della LIBET nello sviluppo personale degli allievi. Lectio Magistralis di Sandra Sassaroli al Forum di Riccione

Chiude il Forum di Psicoterapia di Riccione, la fondatrice del gruppo, Sandra Sassaroli. La sala è gremita di allievi, didatti e collaboratori: c’è chi forse assiste per la prima volta a una presentazione di Sassaroli, chi invece ascolta i suoi interventi da una vita. Tutti catturati dalle sue parole.

 

Già il titolo colpisce: “La LIBET nello sviluppo personale degli allievi”. Sandra Sassaroli usa il modello di formulazione del caso Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment (LIBET) per concettualizzare le eventuali difficoltà emotive degli allievi, difficoltà di cui essere consapevoli nel momento in cui si affronta questo difficile mestiere. Si cambia prospettiva, non sono più i futuri terapeuti a esporre i dati raccolti sul loro campione, adesso sono loro il campione.

La LIBET e i limiti della CBT

Si parte dai limiti della cognitive behavioral therapy (CBT), limiti nel delineare le modalità di funzionamento personologico che operano anche in condizioni di bassa minaccia e in modo pervasivo in diverse aree di vita, indipendentemente quindi dal verificarsi di situazioni attivanti. Come spiegare quindi l’interazione tra un livello di vulnerabilità personologica e un cambiamento che determina l’esordio di un sintomo?

La LIBET ci consente di integrare gli aspetti di ricostruzione evolutiva con un approccio CBT a partire da alcune premesse: molti pazienti con disturbi sintomatici mostrano tratti di vulnerabilità significativi nell’area della personalità. La LIBET, continua Sassaroli, permette di conoscere tali tratti di vulnerabilità riuscendo a giustificare l’interazione tra un livello di personalità (funzionamento a bassa minaccia) e un livello sintomatico acuto (funzionamento in situazioni di alta minaccia). Questo consente di muoversi nel corso di tutta la terapia con una concettualizzazione flessibile, costante e fondamentalmente transdiagnostica, e non attraverso una concettualizzazione differente per ogni sintomo. Il sintomo è visto come la rottura di un piano, prima funzionale a evitare la sofferenza.

Piani e temi nella LIBET

Piani e temi sono i due concetti cardine della LIBET. Il tema è una sensibilità che può essere appresa o condizionata evolutivamente in una condizione di frustrazione di bisogni. È un’esperienza con una componente cognitiva, fatta di pensieri automatici su di sé (autovalutativi) e sensazioni corporee. I piani invece sono strategie abituali per mantenere condizioni di sicurezza e prevenire minacce alle vulnerabilità apprese. Essi sono generalizzati, pervasivi e indipendenti dalle circostanze. Vengono attivati con scarsa consapevolezza e con aspetti di ego sintonia che li rendono focali nell’area patologica della personalità. Avendo uno scopo preventivo sono attivi anche in condizioni di bassa minaccia e indipendentemente dalle esigenze delle circostanze. I temi sono essenzialmente tre (minaccia, disamore e indegnità) così come i piani (prudenziale, prescrittivo e immunizzante).

L’intervento LIBET

La LIBET quindi ci aiuta a formulare ipotesi sul funzionamento dei nostri pazienti a condividere queste ipotesi con loro e a utilizzare questa condivisione nella progettazione e nella gestione della terapia. L’intervento LIBET ci aiuta a scegliere un progetto clinico, a costruire una relazione col paziente e a scegliere quali tra le tante tecniche siano quelle giuste per quel determinato paziente, nonché a monitorare l’andamento della terapia passo dopo passo.

La LIBET nello sviluppo personale degli allievi

Dopo l’indispensabile introduzione sulla LIBET ecco che Sassaroli torna agli allievi: cosa dirà di loro la LIBET? Con gli allievi sono stati condotti dei colloqui di sviluppo personale nati dalla necessità di una formazione individuale volta ad approfondire con un esperto il proprio funzionamento in seduta. Questo permette di verificare il benessere degli allievi nei gruppi formativi e con i formatori, di aumentare la consapevolezza del proprio funzionamento come futuri terapeuti e di individuare aree di vulnerabilità o risorse da sviluppare o limitare nel corso della formazione.

Gli allievi, nel corso dei colloqui, riportano a volte storie difficili. Il futuro terapeuta sta acquisendo consapevolezza di queste difficoltà o sta consolidando le intuizioni sulla propria storia evolutiva. Emergono temi dolorosi di cui si era scarsamente consapevoli. Come e quanto le sensibilità dolorose e i piani impattano sul lavoro di psicoterapia?

Risaltano alcuni temi dominanti e più frequenti: molte allieve ad esempio sono state spinte (ai limiti della critica) verso prestazioni eccellenti, queste ragazze accennano a storie di solitudine, di vicinanza legata al dover essere brave a tutti i costi. Il criticismo subìto porta spesso un senso malinconico della propria impossibilità a funzionare in modo da rendere soddisfatti gli altri del proprio lavoro.

Il condizionamento alla minaccia di deludere si sposta così sul timore di deludere i pazienti. Il piano dominante è il prescrittivo: si rimugina, si cerca di non sbagliare, si passano le sedute a controllare di fare bene. Questi ragazzi vivono la terapia (e la vita) come una dura prova di resistenza alle voci interne ed esterne di critica.

I risultati mostrano come per gli allievi questi colloqui siano stati un’esperienza altamente formativa. Molti di loro vorrebbero poter affrontare ancora individualmente i temi trattati durante l’incontro e altri ancora, dopo il colloquio di sviluppo personale, si dicono più attenti ai propri piani e all’influenza di questi sul proprio lavoro e sulle proprie vite.

Anche Sassaroli parla della sua esperienza da conduttrice di questi colloqui: “sono stati un’avventura esistenziale, a volte faticosa, frustrante, fulminante ma anche illuminante e commovente”. Come faticoso ma anche tanto illuminante e commovente è il percorso di specializzazione vissuto dagli allievi (e dai didatti) presenti lì nella platea.

Anche quest’anno il Forum di Ricerca in Psicoterapia del circuito Studi Cognitivi è riuscito pienamente nel suo intento di creare condivisione, non solamente formativa.


Lezione Magistrale – Dott.ssa Sandra Sassaroli LIBET nello sviluppo personale degli allievi – Le slides del convegno

La violenza: un trofeo da esibire su telefonini e social network?

Online e attraverso i social network è ormai possibile condividere praticamente qualsiasi tipo di contenuto e sono soprattutto gli adolescenti a fare uso di questa modalità di comunicazione attraverso l’esibizione del proprio corpo o di attività quotidiane, a volte però la rete viene usata anche per divulgare registrazioni di contenuti di violenza (sessuale o fisica), noncuranti delle possibili ripercussioni a livello legale e dei danni inflitti alla vittima.

Manuela Scarpantoni

 

Ostentare e farsi vedere… Ciò che non si vede non esiste…
(Baltasar Graciàn)

Attualmente, in una società dominata da incertezza, disoccupazione, precarietà economica, i media comunicano notizie (in numero crescente) su fenomeni di violenza (sessuale, fisica, psicologica) esercitata in particolare da gruppi di minori, adolescenti o “giovani adulti”. Quest’ultimi non si limitano a manifestare condotte aggressive o violente ma mostrano e diffondono tali comportamenti, come fossero trofei, mediante video o immagini sui telefonini o sui social network.

I video delle aggressioni e delle torture hanno consentito di attribuire responsabilità precise agli otto giovani sottoposti a fermo dalla Polizia (…) I giovani si sarebbero ripresi con i telefonini mentre sottoponevano la vittima a violenze e torture… per poi diffondere i video nelle chat di Whatsapp (Quotidiano.net; 30 aprile 2019).

I due, dice ancora il giudice, hanno commesso “reiterati abusi” sulla donna… Sono diversi gli spezzoni video ripresi con i cellulari, uno dei quali dura circa sette minuti, e iniziano con la ragazza ancora a terra… (Quotidiano.net; 30 aprile 2019).

La violenza è un’azione o un comportamento inflitto alla persona contro la sua volontà e che reca dei gravi danni (fisici e psicologici). Essa può essere definita come una tendenza all’uso della forza e aggressività.

Alcune condotte violente vengono tollerate in alcune società mentre in altre vengono disapprovate (Masala, Preti, Petretto, 2002).

Diversi autori hanno attribuito significati positivi e negativi all’aggressività. Galimberti (1994), ad esempio, la definisce come una propensione che può essere presente in una fantasia o un comportamento con l’obiettivo di auto o eterodistruzione oppure di autoaffermazione. L’approccio psicoanalitico ha definito l’aggressività sia come una pulsione legata all’istinto di morte (Freud, 1977) o come un elemento importante nel percorso evolutivo dell’individuo (Erikson, 1950; Fenichel, 1945; Klein, 1921).

L’approccio cognitivo-comportamentale ipotizza un collegamento tra cognizione (pensieri, giudizi e teorie) e aggressività (emozione, comportamento), quest’ultima intesa come elemento causato o generante i processi cognitivi. Le situazioni di conflitto con altre persone, ingiustizie ipotizzate o subite, competizione per una quantità di risorse limitata possono generare pensieri, emozioni e comportamenti legati all’aggressività. La Rabbia, più facilmente delle altre emozioni, può creare situazioni di allontanamento, irritazione o critica negli altri (Baldini, 2004).

Disturbi psicologici e aggressività

Secondo il DSM 5, il disturbo esplosivo intermittente e il disturbo della condotta (disturbi diagnosticati nell’infanzia, nella fanciullezza e nell’adolescenza) sono caratterizzati dalla presenza di rabbia e di comportamenti aggressivi impulsivi sproporzionati verso persone e cose (Reichenberg, 2014).

Ostilità e aggressività appartengono ad altre problematiche come il Disturbo Borderline di Personalità dove la disregolazione emotiva e l’impulsività determinano rabbia e comportamenti auto (abuso di sostanze, autolesionismo, suicidio …) ed eterodiretti (abusi, risse…) o il Disturbo Antisociale di Personalità dove la scarsa osservanza delle regole della società porta la persona a manifestare comportamenti violenti (Baldini, 2004). Anche la persona con Disturbo Narcisistico di Personalità, in particolare il narcisista maligno e manipolatore, può sperimentare sadismo ed eccessi di rabbia che in casi estremi possono sfociare in violenza fisica o omicidio. Oltre il Sé grandioso, la persona sperimenta una dimensione di onnipotenza dove le regole non contano, perdono valore. (Kernberg 1975, 1987).

Violenza di gruppo

Molti adolescenti replicano condotte aggressive che vivono costantemente nella loro vita quotidiana: in particolare, riproducono in un altro contesto le regole della vita sociale che sono state trasmesse con modalità dirette o indirette. Alcuni comportamenti violenti possono scaturire da uno stato di mancanza affettiva derivante da un disagio sperimentato in famiglia o nella società in cui il giovane si sente privo di un percorso gratificante di accompagnamento alla crescita e all’autonomia (Bourcet, Tyrode; 2002).

Quando viene emesso un comportamento violento è importante comprendere il collegamento tra la personalità dell’individuo, il tipo di condotta e l’ambiente circostante. Bandura (1986) sostiene che in questa relazione detta “determinismo reciproco e triadico”, ogni elemento influenza e viene condizionato dagli altri fattori della triade. Un ruolo fondamentale viene attribuito alla personalità del soggetto e all’ambiente, ma sono da considerare anche i meccanismi cognitivi impiegati per giustificare la violenza. La giustificazione morale, ad esempio, è un processo attraverso il quale i comportamenti violenti vengono tollerati personalmente e socialmente mediante una ristrutturazione cognitiva (Bandura, 1996). Nelle situazioni di vita quotidiana, tanti atti aggressivi vengono giustificati con l’obiettivo di mantenere l’onore e la nomea (Cohen, Nisbett, 1994). Un altro meccanismo usato può essere quello della diffusione della responsabilità, il quale permette di distribuire fra diversi individui la responsabilità derivante dall’attività violenta e illegale e di comportarsi in maniera crudele. Infine, la disumanizzazione della vittima consente di rappresentare la vittima con caratteristiche indegne e spregevoli, in modo da infliggere azioni spietate ed evitare l’insorgere di emozioni negative come l’angoscia alla vista della sofferenza impartita.

In gruppo, le persone agiscono in modo più disumano rispetto a quando si ritengono individualmente responsabili dei loro comportamenti (Zimbardo, 1969, 1995). Alcuni studi dimostrano che i membri di un gruppo compiono azioni aggressive quando quest’ultime sono interpretate come “ciò che è giusto fare” in una data situazione (Moghaddam, 2002).

Lo stupro compiuto dai giovani in gruppo permette di consolidare l’unione e le regole del gruppo e di svolgere un ruolo importante nella violenza esercitata (Wright e West, 1981). I componenti del branco impiegano maggiormente azioni “affettuose” come baciare o accarezzare la vittima (Holmstrom, Burgess, 1980; Amir, 1971) con lo scopo di motivare quest’ultima a “collaborare” e facilitare lo stupro.

Per un membro di un gruppo, esercitare una violenza significa da una parte favorire la perdita d’identità e di responsabilità personale, dall’altra valorizzare il senso d’identità sociale e l’anonimato (Goldstein, 2002; Krahe, 2001).

Il desiderio di esibirsi mediante cellulari o social network

Attualmente, nella nostra società si assiste ad un comportamento costante, quello di “mostrarsi” non solo in televisione ma anche su Facebook, su Youtube o sui telefonini. L’esibizione è in aumento perché un messaggio da comunicare al mondo è che “ciò che è davvero importante per me” viene trasmesso mediante lo schermo, il telefonino o i social network. Ciò potrebbe essere una strategia per definire il proprio Sé (Avenia, Pistuddi, 2012) e acquisire autostima.

Nel mondo digitale, le immagini trasmesse hanno il potere di comunicare pensieri ed emozioni e di sottolineare la presenza del Sé (Marinelli, 2005). L’identità può essere molteplice e il virtuale diventa uno spazio dove poter aumentare la disinibizione o emancipazione (Pravettoni, 2002).

Mediante l’esibizione di filmati o video, la persona oltre definire il proprio Sé, può soddisfare due bisogni: il bisogno di ammirazione e quello di appartenenza. Le immagini, i progetti e gli obiettivi raggiunti possono essere condivisi con un vasto pubblico in modo tale da ricevere “ammirazione”; in secondo luogo, il rapporto con conoscenti ed estranei attraverso messaggi o video permette di formare e consolidare interazioni sociali (Katz, Blumler, Gurevitch, 1974; Papacharissi, Mendelson, 2011).

Il bisogno di ammirazione e di appartenenza possono essere soddisfatti dalla dimensione dell’“amplificazione”. Sui social network o sul web, un messaggio aggressivo può essere letto da moltissime persone in tutto il mondo e dunque avere un impatto molto differente da quello ipotizzato (Wallace, 2015). Lo stesso si potrebbe dire della diffusione di video mediante cellulari.

Attualmente, l’esibizione non si limita al mostrare ad esempio il proprio corpo o attività quotidiane mediante immagini o video sui telefonini o sui social network, ma riguarda anche il divulgare registrazioni di azioni violente (sessuali o fisiche) essendo noncuranti delle possibili ripercussioni a livello legale e dei danni inflitti alla vittima.

È interessante approfondire se in una persona il desiderio di esibire comportamenti violenti mediante video sui cellulari o social network sia il fattore determinante o la conseguenza di una scarsa osservanza delle regole morali e indifferenza alle conseguenze legali.

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