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Perché preferiamo la birra o il caffè?

Tutte le persone hanno delle preferenze per determinati tipi di alimenti o bevande, in fondo chi non ha la sua bevanda preferita, senza la quale non riuscirebbe ad iniziare bene la giornata? Il caffè per esempio..

 

Alcuni ricercatori, però, non si sono limitati ad osservare o descrivere le preferenze degli individui per alcune bevande specifiche, ma hanno cercato di scoprire quali potessero essere le cause per cui alcune persone amano determinate bevande che altri invece odiano.

Questo è quello che una recente ricerca (Zhong et al., 2019) ha tentato di fare.

Lo studio

Gli autori dello studio in questione hanno ipotizzato che fossero delle variazioni nei geni relativi al gusto ad influenzare le nostre preferenze per determinate bevande (in particolar modo caffè, birra e coca-cola). I risultati della ricerca non vanno però a confermare l’ipotesi posta da Zhong e collaboratori: sembra piuttosto che sia il gene relativo alla sensibilità a determinate sostanze psicoattive (come la caffeina o l’alcol) a determinare le preferenze per tali bevande.

Secondo i ricercatori statunitensi, dunque, non è tanto il sapore di tali bevande che attrae le persone e le spinge a consumare, ma piuttosto l’effetto che tali bevande hanno sulla psiche.

Lo studio è stato effettuato utilizzando due gruppi sperimentali:

  • Gruppo sostanze amare (caffè, tè, birra, vino rosso, liquore)
  • Gruppo sostanze dolci (bevande artificialmente zuccherate, succhi zuccherati)

Il campione oggetto di studio contava 336,000 soggetti reclutati attraverso una banca dati inglese: UK Biobank. Dopo aver studiato le preferenze e la prevalenza relativa alla consumazione di tali bevande in questi soggetti, sono stati incrociati i dati associandoli a determinati geni del loro genoma (i dati relativi al genoma erano anch’essi contenuti nella banca dati).

I risultati ottenuti sembrano dimostrare che le preferenze per alcuni tipi di bevande siano influenzate dal sistema di comportamento-ricompensa di coloro che le bevono.

Pertanto, secondo gli autori, essere riusciti ad isolare i geni che determinano tali preferenze, permette di individuare quali siano gli individui più a “rischio”. Isolando gli individui più a “rischio” di preferire bevande contenenti alcune sostanze psicoattive (zucchero, caffeina, alcol) sarebbe possibile intervenire sulla dieta di queste persone per poter promuovere comportamenti più salutari evitando tali bevande.

Comportamento sessuale, microbiota e rischio di infezione da HIV

Un gruppo di ricercatori dell’Anvirus University del Colorado Medical Campus ha indagato se le abitudini sessuali di una persona possono influenzare il microbiota ed il sistema immunitario, aumentando potenzialmente il rischio di infezione da HIV.

 

Il gruppo di ricerca è composto da Brent Palmer, professore associato di medicina nel dipartimento di immunologia clinica della CU School of Medicine, e da Sam X. Li e Chaterine Lozupone dottori di ricerca presso l’Università del Colorado Anschutz Medical Campus.

Microbiota intestinale e comportamenti sessuali: il ruolo nel rischio di trasmissione dell’HIV

Il microbiota rappresenta l’insieme dei microbi presenti nel tratto gastrointestinale, capace di influire sul cervello svolgendo un ruolo particolare nell’insorgenza di diversi sintomi psichiatrici.

Negli ultimi anni è stato riconosciuto l’importante ruolo ricoperto dal microbiota nel guidare e modellare il sistema immunitario. Recenti studi hanno indagato le differenze di microbiomi presenti in gruppi di uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM) piuttosto che i microbiomi di uomini che hanno rapporti sessuali con donne (MSW) (Noguera-Julian, 2016; Armstrong et al., 2018).

Nel presente studio viene però indagato il ruolo del microbiota come mediatore tra i differenti comportamenti sessuali e l’attivazione delle cellule T associate al rischio di trasmissione dell’HIV.

I partecipanti del presente studio sono 35 uomini sani (divisi in gruppo di uomini che hanno rapporti sessuali con uomini ed in uomini che hanno rapporti sessuali con donne). Campioni di feci dei partecipanti sono stati trapiantati in soggetti animali (topi). I topi che hanno ricevuto i campioni di feci degli uomini che hanno rapporti con uomini hanno mostrato una maggiore evidenza di attivazione delle cellule T CD4 +, le quali, qualora essi fossero soggetti umani, li metterebbero effettivamente a rischio più elevato di infezione da HIV.

Microbiota e rischio trasmissione HIV: i risultati dello studio

Tali risultati forniscono evidenza del diretto collegamento tra composizione del microbiota e attivazione immunitaria rispetto all’HIV degli uomini che hanno rapporti con altri uomini. Tali risultati forniscono inoltre una base per indagare il microbioma intestinale come fattore di rischio per la trasmissione e infezione da HIVsostiene l’autore senior dello studio, Brent Palmer.

Comprendere meglio la strutturazione del microbiota si riscopre passaggio importante, in quanto, potendo influenzare direttamente il sistema immunitario, esso favorisce un maggiore rischio di infezione, ma ulteriori studi dovrebbero comprendere le modalità di funzionamento del processo.

Inoltre, gli autori ipotizzano che una serie di altri comportamenti, tra cui una particolare dieta, possano favorire l’infiammazione ed attivare le cellule T, ma il tutto risulta ancora da indagare in futuri studi.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

7 giorni di Mindfulness (2018) di M. B. Toro: come portare la mindfulness nella nostra vita quotidiana? – Recensione del libro

In 7 giorni di mindfulness l’autrice, Maria Beatrice Toro, sottolinea la necessità di tornare a vivere il momento presente, di essere consapevoli di ciò che ci accade e di allentare la presa degli automatismi della nostra mente che tende a proiettarci nel futuro o a riportarci nel passato.

 

Viviamo in un’epoca caratterizzata dalla velocità: dobbiamo rispondere subito ai messaggi, postare immediatamente quello che accade, siamo pieni di impegni che ci costringono a correre per far fronte a tutto. Questo atteggiamento apparentemente ci rende attivi e produttivi ma in realtà ci espone a molti rischi e soprattutto al rischio di agire al di fuori della nostra stessa consapevolezza.

Dovendo fare molte cose e spesso in contemporanea, la nostra mente deve necessariamente fare ricorso a modelli e schemi di risposta automatici che spesso si attivano anche quando sarebbe necessaria una valutazione più approfondita.

Ci capita così di mangiare senza concederci di ascoltare il sapore, il profumo, di guardare senza vedere realmente o di sentire qualcuno che ci sta parlando senza ascoltarlo.

In 7 giorni di mindfulness l’autrice, Maria Beatrice Toro, sottolinea la necessità di tornare a vivere il momento presente, di essere consapevoli di ciò che ci accade e di allentare la presa degli automatismi della nostra mente che tende a proiettarci nel futuro o a riportarci nel passato. La capacità di vivere il momento presente in una parola può essere definita come atteggiamento mindfulness i cui aspetti salienti sono l’attenzione al “qui e ora” e un atteggiamento non giudicante, di accettazione e gentilezza verso di sé e verso gli altri. La mindfulness non cambia gli eventi della vita ma cambia il modo con cui la affrontiamo con importanti effetti sul nostro benessere e sulla nostra salute come numerose ricerche hanno dimostrato.

Come fare per iniziare a praticare la mindfulness?

L’autrice di 7 giorni di mindfulness propone in modo molto chiaro e fruibile, riflessioni e proposte di semplici meditazioni giornaliere di pochi minuti che rappresentano un primo e valido approccio alla mindfulness.

Il percorso è suddiviso per giorni della settimana e, partendo dal respiro, consente di dedicare consapevolezza al gusto, alla vista, al movimento, al tatto, all’olfatto.

Ci sono poi indicazioni su come trasformare una maggiore consapevolezza personale in azioni concrete da mettere in atto tra cui l’importanza di “fare ordine” non solo tra gli oggetti ma anche nelle relazioni.

Talvolta è necessario imparare a dire di “no” per essere davvero rispettosi verso se stessi e per non consentire agli altri di mancarci di rispetto.

In questa valutazione un atteggiamento mindfulness è una guida estremamente preziosa.

Impariamo a conoscere la mente dell’altro osservandolo e simulandone le scelte

Lo studio ha rivelato come i primati siano in grado di apprendere il valore da attribuire ad uno stimolo, sia tramite esperienza diretta sia dall’osservazione sociale di un loro simile che compie tale attribuzione; inoltre lo studio ha rivelato che l’amigdala sarebbe la struttura chiave per tale apprendimento vicario..

 

Sappiamo che è possibile inferire e comprendere i processi di attribuzione mentre l’altro decide, ottenendo così un modello previsionale di quella che potrebbe essere la sua futura scelta, semplicemente osservandolo (Van de Waal, Borgeaud et al., 2013).

Apprendimento: quali reti neurali si attivano?

Questa capacità cognitiva di apprendere tramite l’osservazione dell’altro per predirne le scelte e i conseguenti comportamenti costituisce un elemento chiave e tra i più sofisticati in particolare per i comportamenti sociali.

Nonostante i numerosi progressi fatti in questo ambito di ricerca, tuttavia poco ancora si sa a proposito delle basi neurali che sottostanno a tali comportamenti sociali; non è ben chiaro infatti quali siano gli specifici meccanismi neurali che sono in grado di “tradurre” le attribuzioni di valore fatte da un altro nella rappresentazione mentale delle stesse per poter poi prevedere le sue decisioni.

Banalmente non conosciamo in profondità quei meccanismi che consentono di comprendere quale tipo di attribuzione di valore sta compiendo una persona durante un processo di scelta, tale per cui sarà possibile successivamente predirne la decisione in modo corretto.

Inoltre non è ancora chiaro se la comprensione dei processi di attribuzione di valore dell’altro avvenga tramite l’apprendimento per osservazione o se esista tra pattern neurali un codice condiviso che permette di derivare l’attribuzione di valore sia tramite apprendimento vicario e allo stesso tempo dalla propria esperienza diretta (Yates, 2019).

Apprendimento: teorie e conoscenze ad oggi

Alcune teorie cognitive, tra cui quella della simulazione di Shanton & Goldman (2010), ipotizzano che per la comprensione delle decisioni dell’altro sia necessaria la simulazione, cioè la riproposizione dei medesimi meccanismi di decision making che genererebbero i propri stati mentali.

Da un punto di vista di circuiti neurali, i processi di decision making coinvolgono una mutua competizione di tipo inibitorio tra network sottostanti la codifica della scelta, scelta che rappresenterà l’esito di una competizione derivante dal confronto e dalla computazione dinamica fatta dal sistema attraverso la valutazione dei suoi diversi pro e contro.

A seguito di questa computazione, il sistema attribuirà poi alla scelta un valore positivo o negativo e deciderà sulla base di questo se implementarla tramite comportamento oppure inibirla (Hunt, Kolling, Soltani et al., 2012).

Tuttavia le evidenze finora a disposizione non stabiliscono se tale descrizione neurale dei meccanismi di decision making e di computazione del valore di una scelta possa altrettanto rappresentare la medesima modalità attraverso la quale siamo anche in grado di simulare la scelta di un altro partner in interazione con noi all’interno di un contesto sociale (Yates, 2019).

Apprendimento attraverso la previsione del comportamento altrui: lo studio

A questo proposito, per identificare i meccanismi neurali sottostanti l’apprendimento vicario dell’attribuzione di valore e la capacità di prevedere le scelte dell’altro tramite esso, Grabenhorst, Báez-Mendoza, Genest, Schultz e colleghi del dipartimento di fisiologia e neuroscienze dell’Università di Cambridge in associazione con il Center of Brain and Cognition dell’ Universitat Pompeu Fabra di Barcellona e il Massachusetts General Hospital di Boston, si sono serviti di un gruppo di primati sottoposti rispettivamente a due compiti: uno di decision making basato sulla ricompensa e un secondo di apprendimento vicario in cui un primate osservava il suo simile mentre era intento nel primo compito.

Il tutto è stato compiuto registrando l’attività neurale dell’amigdala dei primati durante l’esecuzione del compito di decision making sulla base del fatto che l’amigdala è risultata essere la struttura sottocorticale principale coinvolta nell’attribuzione della salienza e del valore ad uno stimolo esterno neutro (Yates, 2019).

I compiti sperimentali hanno previsto la partecipazione di due primati posizionati uno di fronte all’altro: il primo, impegnato nel compito di decision making, è stato addestrato ad ottenere per ogni trial una ricompensa premendo solo il pulsante corrispondente al cue visivo che aveva la più alta probabilità di fargli ottenere del cibo.

I cue ai quali l’animale rispondeva erano presentati in modo sequenziale ed erano associati a probabilità diverse di ottenere una ricompensa.

La scelta dell’animale di premere il pulsante corrispondente al cue visivo che rilasciava la ricompensa di cibo, tralasciando l’altro, è ben descritta dai modelli di apprendimento per rinforzo che stimano i valori soggettivi che l’animale attribuisce agli stimoli presentati e anticipanti la ricompensa sulla base della scelta dell’animale stesso osservata.

Il secondo animale, definito “osservatore”, è stato invece istruito ad osservare semplicemente i comportamenti dell’altro (Grabenhorst, Báez-Mendoza, Genest, Schultz et al., 2019).

Nel trial successivo, per investigare come l’osservatore attribuiva valore ai cue visivi e per verificare se si fosse verificato in lui di conseguenza una simulazione delle scelte dell’altro per ottenere la ricompensa tramite osservazione, i ricercatori hanno successivamente invertito i due ruoli: l’osservatore ora diventava “decisore” nel primo compito e viceversa.

Apprendimento attraverso la previsione del comportamento altrui: i risultati

Lo studio di Grabenhorst e colleghi (2019) ha mostrato come l’animale che prima aveva solo osservato ha appreso a rispondere al valore di ricompensa associato ad uno specifico cue visivo in molto meno tempo rispetto all’altro animale durante il compito e che l’animale aveva osservato in modo prolungato sia il partner che il cue visivo che l’altro avrebbe poi scelto, indicando come questo avesse rapidamente imparato a scegliere il cue visivo con alta probabilità di ricompensa traendo le informazioni salienti sul valore di ricompensa del cue dall’altro animale.

Da tale apprendimento avvenuto per osservazione, l’osservatore ha poi riproposto la scelta compiuta dal simile per ottenere cibo.

In associazione a ciò, le analisi delle registrazioni dell’amigdala durante il compito di decision making hanno evidenziato un incremento nell’attivazione dei suoi pattern neurali sia nel momento in cui l’animale selezionava il cue con valore intrinseco maggiore – quello che anticipava con più probabilità la ricompensa – sia quando lo stesso animale poi osservava l’altro simile compiere la stessa scelta.

In quest’ultima condizione, i ricercatori hanno osservato come l’attività dei neuroni dell’amigdala si modificasse prima ancora che il partner osservato premesse il bottone e ottenesse la ricompensa, suggerendo che l’amigdala abbia “tracciato”, tramite osservazione della scelta dell’altro, il valore di ricompensa di quello specifico cue visivo come se ne avesse già avuto esperienza in precedenza e consentisse ora all’animale di utilizzare quelle informazioni ottenute dall’altro per simularne la scelta (Grabenhorst, Báez-Mendoza, Genest, Schultz et al., 2019).

In conclusione, lo studio ha rivelato in primo luogo come i primati siano in grado di apprendere il valore da attribuire ad uno stimolo sia tramite esperienza diretta sia dall’osservazione sociale di un loro simile che compie tale attribuzione; inoltre lo studio ha rivelato che l’amigdala sarebbe la struttura chiave per tale apprendimento vicario in quanto, contenendo diverse tipologie di neuroni, può “tracciare” la salienza di uno stimolo esterno – rispondendo alla domanda “che valore ha quello stimolo?” – può al contempo rilevare l’importanza sociale del partner osservato che sta compiendo la scelta, ed infine può convertire il valore attribuito dal partner all’oggetto per simularne e predirne così la scelta – “cosa sceglierà il mio partner?”

Dal momento che l’amigdala rende possibile sia l’apprendimento tramite esperienza diretta che tramite osservazione sociale vicaria, essa potrebbe fornire la base fisiologica che consente di integrare le proprie e le altrui esperienze (Yates, 2019).

Da questi dati gli autori dello studio hanno potuto generare un modello computazionale che descrive l’esistenza di due sistemi per la codifica del valore di uno stimolo all’interno dell’amigdala: uno più legato al Sé per compiere le proprie decisioni senza utilizzare le informazioni provenienti da un altro (cosa dovrei scegliere?) e un secondo sistema legato all’Altro che ne simula la scelta (cosa sceglierà il mio partner?).

Possiamo dire di essere di fronte ad un ulteriore passo verso la comprensione degli stati mentali dell’altro grazie alla scoperta dell’esistenza di neuroni amigdalici che ne simulano la scelta?

La rivincita dell’autocontrollo

Le nuvole non hanno sapore. Possono diventare conigli ed elefanti, golfi e dinosauri ma stesi sul prato occhi all’aria, le guardate quanto vi pare e non vi viene fame.

Articolo pubblicato su il Corriere della Sera il 14 aprile 2019

 

Mettete un bambino di fronte a dei dolci. Gli dite: puoi averne uno adesso o se mi chiami col campanello dopo che esco, ma se aspetti che io torni nella stanza, senza suonare, ne avrai due. Per il bambino lasciato nella stanza il compito può essere o impossibile: uno e subito, o una piacevole tortura, oppure la scoperta del potere della fantasia. Se i bambini, negli esperimenti dello psicologo Walter Mischel, si figuravano i dolci come soffici nuvolette, inodori, insapori, le desideravano meno e resistevano di più. Aumentava il loro autocontrollo.

Si chiama Test del Marshmallow. L’avessero sviluppato in Italia avrebbe avuto un altro nome, i nostri bambini non trovano desiderabili quelle palle gommose e morbosamente dolci. Al di là dei gusti americani, è un esperimento fondamentale. Misura l’autocontrollo, la capacità di aspettare, di frenare la dannata impulsività, l’antecedente di quella che il mio maestro Antonio Semerari chiama mastery metacognitiva.

È molto più che lo sfizio di uno psicologo giocherellone. Un gruppo di bambini di 4 anni fu testato a partire dal 1968 e seguito per 25 anni. Quelli che resistevano di più alla tentazione della gratificazione immediata hanno incontrato un futuro migliore: sono stati più capaci di raggiungere obiettivi a lungo termine, hanno assunto meno droghe e sono stati meno aggressivi. La capacità di controllarsi e ritardare la gratificazione li ha anche protetti da una tossina: la sensibilità al rifiuto. A fronte del timore di essere respinti hanno retto meglio.

L’ambiente ha un ruolo enorme nell’influenzare la capacità del bambino di rinunciare a un dolcetto subito per averne due dopo. Figli di madri ipercontrollanti – “Amore, fai questo e quello, ascolta mammina” – resistevano meno. Figli di madri che favorivano l’autonomia arrivavano più facilmente al secondo biscotto. È anche una questione culturale? Forse no. Mischel studiò due comunità in un villaggio di Trinidad. Convivevano pacificamente sui due lati della strada di un villaggio: indiani e africani. Un gruppo aveva visioni stereotipate dell’altro. Agli occhi degli indiani gli africani vivevano solo nel godimento del presente: cicale. Agli occhi degli africani gli indiani gioivano poco, troppo impegnati a lavorare in attesa di un piacere in un futuro lontano: formiche.

Mischel testò i loro bambini. I primi risultati sembravano coerenti con lo stereotipo. I bimbi indiani aspettavano meglio. Poi però scoprì che il problema era l’assenza dei padri. Nella comunità africana molti padri erano andati via. Il problema era lì: i ragazzi che sceglievano il premio subito erano quelli che avevano perso la fiducia nel futuro, un padre scomparso, una promessa di ritorno che nessuno manterrà. Non dipendeva dall’etnia.

È chiaro che l’impulsività non è solo una questione di genetica? E a regolare l’impazienza si impara. Con l’esercizio. Se i vostri bambini non resistono all’odore del primo biscotto, niente paura, potete insegnarglielo. E negli adulti? Coi miei colleghi diamo una mano a quelli che non hanno avuto le istruzioni corrette per capire che la gallina domani è meglio dell’uovo oggi. Il mio collega Paolo Ottavi fa così: chiede alla ragazza che è stata lasciata da poco di focalizzare sul momento in cui ha controllato il profilo Facebook dell’ex, cercando tracce della sua presunta relazione con la nuova protagonista. La ragazza evoca l’immagine: una serata in birreria, le sale una gelosia che neanche Otello, e insieme vengono struggimento, tristezza e brama di riaverlo lì subito. Come nota Mischel, bisogna lavorare sulle immagini calde. A quel punto Paolo la invita a dedicare una parte dell’attenzione ai rumori ambientali. Poi di riportare la mente alla scena del crimine. Poi ancora ai rumori. Le emozioni calano di intensità. Ancora una volta in birreria, risale la gelosia. Ora porta l’attenzione alle sensazioni fisiche e poi ancora ai rumori ambientali. L’esercizio non è risolutivo, ma la ragazza scopre di avere una dote stupenda: potere sulla propria mente, dominio sull’arroganza del desiderio.

Un giorno di giugno al paese i miei mi mandarono da zia Esterina: “Ti deve dare lu ‘ntartieni”. Chiesi cosa fosse, risposero che me lo avrebbe spiegato zia. Andai a casa sua. Sorrise, mi disse di aspettare. Dopo un po’ mi rimandò dai miei: “Ce l’hanno loro adesso”. Tornai fiducioso: “Zia Esterina mi ha detto che lu ‘ntartieni oggi è qui”. Mia madre e mia nonna deviarono il discorso. A fine giornata non avevo ricevuto né lu ‘ntartieni né spiegazioni sulla sua forma, contenuto e scopo. Non so come, me ne fu svelata la natura solo tempo dopo. Un maledetto trucco per sviare i bambini che cercano attenzione. Lo presi come un tradimento ma tenni la reazione per me in silenzio. Capii anni dopo. Era una strategia per insegnare l’attesa e, per quanto truffaldina, aveva funzionato. Quando mi sono dato alla scienza ho capito che la pazienza nel ricercare un concetto indefinito, sopportare il tempo che serve finché non si chiarisca, nasceva da quel gioco senza soluzione. Trattenersi dall’afferrare subito. Coltivare la fantasia nel doloroso tempo dell’astinenza. È il motivo per cui tra una nota e l’altra dei brani di Ludovico Einaudi passa tantissimo tempo?

Scrivo a Borges, gli suggerisco di includere lu ‘ntartieni nella prossima edizione della sua zoologia fantastica. Per oggi ho dilazionato a sufficienza la gratificazione. Stasera pizza e birra, Walter Mischel approverebbe.

 

Benessere: quando una difficoltà è “solo” una difficoltà!

Tendiamo a vedere la prevenzione o la promozione del benessere come qualcosa di astratto o come qualcosa che essendo distante dalla diagnosi, non merita attenzione. In realtà ignoriamo un nostro diritto: quello di poter “star meglio” anche quando non si sta “male”.

 

Non è solo un disturbo o una diagnosi clinica ad essere fonte di “problemi” o a richiedere l’intervento di uno psicologo. Comunemente ritieniamo che l’operato professionale dello psicologo sia circoscritto all’ambito clinico, in cui l’attività di diagnosi e trattamento diventano le azioni tecnico-professionali maggiormente attuate.

Quando una “difficoltà è solo una difficoltà” possiamo occuparcene in un’ottica professionale che vede nell’intervento psicologico la possibilità di promuovere benessere ed agire a scopo preventivo, come suggerito dall’articolo 1 della legge 56/89.

Cosa si intende per benessere e prevenzione?

Sviluppando la precedente dichiarazione del 1946, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la salute come:

… uno stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale, non mera assenza di malattia (1998).

In questa definizione possiamo cogliere molteplici ed importanti aspetti, ovvero:

  • le variabili coinvolte nel costrutto di benessere sono diverse ma integrate e definiscono uno stato dinamico, dunque “in continuo cambiamento”
  • la malattia non è l’unico parametro per definire la presenza o l’assenza di benessere
  • la promozione del benessere è al contempo una forma di prevenzione primaria

Tendiamo a vedere la prevenzione o la promozione del benessere come qualcosa di astratto o come qualcosa che essendo distante dalla diagnosi, non merita attenzione. In realtà ignoriamo un nostro diritto: quello di poter “star meglio” anche quando non si sta “male”.

“Siamo in difficoltà col nostro bambino!”

“Non posso allontanarmi dal mio bambino, piange continuamente!”
“Non riesce a dormire nel suo letto ed ogni notte si sveglia per dormire nel lettone!”
“Fa continuamente capricci e non rispetta alcuna regola!”

In assenza di una diagnosi, una difficoltà “resta una difficoltà”, ma non per questo non possiamo occuparcene. Molti sono gli interventi che seguono un modello comportamentale e psicoeducativo, ovvero interventi psicologici che rispondono non esclusivamente ad un’esigenza che nasce per la presenza di una specifica psicopatologia, ma anche dal desiderio di migliorare il rapporto genitore-figlio.

Il parent training ad esempio, intervento psicologico nato dall’ambito clinico, ma oggi non più circoscritto ad esso grazie ai recenti contributi, estende la sua applicazione anche ad aspetti di ordinaria quotidianeità, ad esempio: fare i compiti, definire delle regole, regolare le abitudini alimentari e del sonno.

Promuovere il benessere in queste situazioni ordinarie permette di prevenire forme di conflitto o disfunzioni relazionali che possono alterare l’intero assetto familiare ed in maniera differente i singoli componenti. L’intervento del parent training nello specifico porta con sé caratteristiche che rivoluzionano l’immaginario, spesso errato, dell’intervento psicologico:

  • chi usufruisce dell’intervento è al contempo responsabile e fautore del processo psico-educativo in cui i due assi familiari sono coinvolti (genitore-figlio, genitore-genitore);
  • chi usufruisce dell’intervento affina conoscenze specifiche che lo guidano nella risposta comportamentale più idonea a soddisfare il bisogno o la richiesta “implicita” del figlio, a seconda della sua specifica fase di sviluppo (infanzia o adolescenza);
  • chi usufruisce dell’intervento non è necessariamente portatore di una diagnosi, in questo caso il bambino o l’adolescente, ma è un nucleo familiare che porta alla luce una difficoltà di relazione e gestione di dinamiche emotivo-comportamentali che uniscono l’agire del bambino o dell’adolescente alla reazione del genitore;
  • l’intervento agisce su un piano comportamentale attraverso un intervento che è in fase iniziale di tipo psico-educativo, ovvero tiene conto di dinamiche: comportamentali, cognitive, psicologiche ed educative.

Questo approccio restituisce ai genitori la responsabilità di aiutare i figli nel loro sviluppo, con conseguenze positive quali la diminuzione dello stress, che essi sperimentano affrontando i piccoli drammi quotidiani, l’aumento dell’autostima e la fiducia nel trovare soluzioni… (Benedetto, 2017).

Dovendo la promozione del benessere diventare una forma preventiva del disagio conclamato, ma anche uno strumento di “vita quotidiana”, l’intervento si avvale di fasi psico-educative, homeworks ed osservazioni ecologiche portando tanto le osservazioni del professionista, quanto gli strumenti acquisiti dal genitore, ad essere presenti e “vissuti” non solo in un’ambiente controllato, ma anche in un contesto ecologico, ovvero di vita reale.

È un diritto di ciascuno potersi occupare dei “piccoli drammi quotidiani”, mantenendo vivo il desiderio di non porre esclusivamente rimedio all’ “errore educativo” ma di considerare le diverse dimensioni psicologiche in atto (autostima, affettività, funzionalità del gruppo familiare).

Oltre il rimedio educativo: fra regole e cognizioni

Sia durante l’infanzia che nel periodo adolescenziale la possibilità di definire delle regole per i propri figli, può diventare un compito complesso e difficoltoso. Spesso esiste una “polarizzazione” nel reputare la regola educativa come una limitazione allo sviluppo del bambino. Paradossalmente

vivono maggiori esperienze di libertà quei fanciulli che si muovono in un ambito delimitato da alcune regole di base – ragionevoli e condivise – piuttosto che quelli che dispongono di un’apparente libertà (…) (A.O. Ferraris, A. Oliverio 2002).

La ragionevolezza e la condivisione, affondano le proprie radici in aspetti specie-specifici di quel nucleo familiare, ovvero:

  • condizioni sociali
  • autostima del ruolo genitoriale
  • cognizioni alla base dello stile educativo

Le condizioni sociali di un nucleo familiare determinano la possibilità di conoscere quali reali risorse o difficoltà quel nucleo familiare deve affrontare quotidianamente. Spesso elementi che sembrano “distanti” dalla gestione del rapporto genitori-figli (ad esempio il burn out lavorativo, un problema di salute, difficoltà coniugali …) possono incidere in maniera indiretta sulla funzione genitoriale.

L’autostima del genitore benché non sia un’ “eredità diretta” dell’autostima del bambino, diventa, quando c’è un fattore protettivo nell’affrontare numerose difficoltà. La percezione di sé come autoefficace nel ruolo genitoriale determina delle cognizioni “positive” alla base di una scelta educativa, essenziale nei momenti di difficoltà.

La reazione del genitore nasce da un comportamento pratico agito (ad esempio: rimproverare, urlare, incoraggiare …) e da una quota di emozioni (positive o negative) connesse. Questa reazione non è esclusivamente legata al comportamento del figlio, ma resta in parte ancorata al proprio sistema cognitivo, alla “propria credenza.

Le convinzioni dei genitori rispetto alle proprie capacità educative hanno una grande influenza sui comportamenti concreti con i figli (Benedetto, 2017).

Benchè i bambini ed i ragazzi vadano incontro ad una graduale autonomia dal genitore, il loro non è mai un completo rapporto di “dipendenza”, il bambino anche nei primissimi mesi, a partire dalle teorie di Bowlby, viene descritto in una relazione di attaccamento

ciò significa che il bambino acquista un ruolo attivo nell’instaurarsi della relazione (…) (A. Lis, S. Stella, G.C. Zavattini 1999).

Questo ruolo attivo è capace di generare risposte nell’adulto che a sua volta è connesso non solo al bambino o all’adolescente, il figlio, ma al contempo alle proprie cognizioni, al proprio grado di autostima, al proprio senso di autoefficacia, alle proprie cognizioni nonché alle condizioni sociali di vita.

Il valore di un’interazione quotidiana determina dunque la qualità di un rapporto diadico (genitore–figlio) che si innesta all’interno di una relazione che è, al contempo, coniugale e genitoriale (co-genitorialità) e con variabili riconducibili al benessere dell’inidviduo.

Perciò..

Quando una difficoltà è “solo” una difficoltà, possiamo occuparcene in un’ottica di benessere e prevenzione, perché “stare meglio o saper agire meglio” è un diritto che viene prima che merita tutta la nostra attenzione.

Il Focusing. L’arte di ascoltare il corpo

Nell’ambito della Psicoterapia, il Focusing è un metodo di conoscenza introspettivo, fondato sull’integrazione mente-corpo, che insegna a prestare ascolto alle sensazioni che il corpo trasmette nel momento in cui si indirizza l’attenzione verso l’interno di se stessi e ci si concentra su tematiche rilevanti della propria vita.

 

In particolare il Focusing, dall’inglese “mettere a fuoco”, attraverso l’ascolto attento e consapevole delle proprie sensazioni corporee, può aiutare le persone ad affrontare situazioni problematiche o questioni irrisolte attraverso la naturale predisposizione del corpo ad attivarsi in un processo di autoguarigione e risoluzione.

La sensazione è la prima realtà autentica, non ancora verbalizzata, con cui entriamo in contatto e rappresenta il linguaggio comunicativo che il corpo utilizza al fine di dare risposte concrete a questioni rilevanti. Può accadere che alcuni problemi si manifestino attraverso blocchi interiori o atteggiamenti che fanno sentire in trappola e senza una via di uscita; in tali casi il corpo può rappresentare una risorsa preziosa nel momento in cui impariamo a riconoscere i segnali che ci trasmette con l’ausilio del Focusing.

La nascita del Focusing

Il Focusing è stato ideato negli anni ‘60 da Eugene Gendlin, filosofo e professore di Psicologia presso l’Università di Chicago, fu allievo e collaboratore di Carl Rogers, psicologo umanistico fondatore della “terapia non direttiva”.

Nel corso della sua esperienza clinica, Gendlin rilevò che i pazienti che traevano maggiore beneficio dalla psicoterapia erano quelli che mostravano un’abilità innata a percepire i segnali provenienti dal corpo. Tali pazienti vennero da lui definiti “natural focuser”.

Secondo Gendlin, la capacità di entrare in contatto con i propri segnali corporei era efficace a livello terapeutico, nella misura in cui innescava un processo di trasformazione dell’esperienza in cui si allentavano nodi e criticità; il paziente poteva trarne un beneficio attivando nuove risorse/strategie e intravedendo maggiori possibilità di risoluzione. Al contrario, i pazienti che non mostravano tale abilità innata di ascolto dei segnali corporei risultavano nel complesso trarre minore beneficio dalla psicoterapia.

Per Gendlin, la chiave intorno alla quale ruota l’intero processo di Focusing è il “felt-sense”, in italiano la “sensazione sentita”: una sensazione corporea ricca, complessa e significativa che è possibile sperimentare in relazione ad una tematica rilevante della propria vita. La sensazione sentita è un’esperienza fisica che si presenta inizialmente vaga, indefinita e difficile da decifrare ma attraverso il processo di Focusing può essere riconosciuta e acquisire un’identità.

Nel momento in cui la sensazione sentita viene riconosciuta e identificata, si verifica un’attivazione corporea che innesca una reazione, dando origine ad alcuni successivi cambiamenti che possono manifestarsi concretamente in sensazioni di sollievo, liberazione, calore, leggerezza e benessere interiore.

Imparare a riconoscere la “sensazione sentita”: le sei fasi del processo di Focusing

Gendlin riteneva che la capacità innata mostrata da alcuni individui di focalizzarsi sulla sensazione sentita potesse essere acquisita con l’apprendimento. A tale riguardo sviluppò una tecnica per insegnare il Focusing portandolo al di fuori del setting clinico e diffondendone la pratica in vari contesti. Nel 1978 Gendlin pubblicò il libro“Focusing” nel quale illustrava un metodo strutturato in sei fasi finalizzato a percepire le reazioni significative del proprio corpo e a riconoscere la sensazione sentita favorendo l’attivazione di un processo di sviluppo personale. Nel 1985 fondò l’istituto di Focusing, attualmente Istituto Internazionale di Focusing, con l’obiettivo di diffondere la conoscenza e l’uso di tale pratica presso le comunità accademiche e professionali.

Le sei fasi del processo di Focusing elaborate da Gendlin sono le seguenti:

  • Fase 1: Creare uno spazio

Durante la prima fase è importante creare una condizione di silenzio e rilassamento che favorisca un atteggiamento di ascolto indirizzato verso il proprio interno, prestando attenzione alle sensazioni trasmesse dal corpo. In tale fase si riflette sulla propria vita e ci si pongono degli interrogativi quali ad esempio: “Cosa è più importante per me in questo momento?”, “Cosa mi preoccupa?”, “Cosa provo in questo preciso istante?”

All’emergere di una preoccupazione è necessario non identificarsi con essa ma limitarsi ad individuarla, “sì, c’è qualcosa, posso sentirlo”, ponendosi in una condizione di ascolto dei segnali corporei percepiti. Riuscire a mettere uno spazio tra se stessi e il problema ovviamente non risolve il problema ma aiuta a non identificarsi con esso, quindi: “Io riconosco di avere un problema, ne sono consapevole, lo vedo e riesco a tenerlo a distanza”.

L’atteggiamento con cui ci si pone in ascolto delle proprie sensazioni corporee non deve essere giudicante ma di comprensione e accettazione.

  • Fase 2: La sensazione sentita (felt-sense)

Nel momento in cui ci si focalizza su una questione specifica tra le tante che arrivano alla coscienza, è fondamentale ascoltare la risposta che il corpo rimanda senza analizzarla, mantenendosi a distanza e ascoltando la sensazione che essa produce a livello corporeo.

La questione oggetto del nostro interesse sarà costituita da molti elementi che è possibile avvertire nella loro globalità. Focalizzandosi sul punto esatto del corpo in cui tali elementi si concentrano, si giunge a percepire il nucleo della questione e si impara a captare la sensazione sentita di tutto ciò. La sensazione inizialmente è vaga e indistinta e rappresenta il modo in cui l’organismo ha percepito l’esperienza nel suo insieme. La capacità di focalizzarsi sulla sensazione sentita consente di intervenire sull’esperienza stessa modificandola.

  • Fase 3: La simbolizzazione

In tale fase è importante rimanere concentrati sulla sensazione sentita in modo da lasciarsi guidare nell’individuazione della parola, frase o immagine che possa rappresentare il simbolo per descriverla nel modo più adeguato. Il simbolo potrebbe essere rappresentato ad esempio da un aggettivo quale spiacevole, pesante, teso, bloccante ecc..

  • Fase 4: La risonanza

Si dovrà successivamente ripercorrere il passaggio tra la sensazione sentita (fase 2) e il simbolo che si è scelto per descriverla (fase 3), al fine di verificarne la reciproca risonanza. Nel momento in cui si trova la perfetta rispondenza tra sensazione e simbolo si manifesta di solito un segnale fisico che può essere una forma di sollievo o di rilassamento. Bisogna lasciare che la sensazione sentita e il simbolo siano entrambi liberi di modificarsi fino a quando non si raggiunge una perfetta coincidenza con la qualità della sensazione stessa.

  • Fase 5: Porre domande

Nella quinta fase del Focusing si interroga direttamente la sensazione sentita, ponendo domande quali ad esempio: “Qual è il significato di questa sensazione?”, “Perché si presenta in questo modo?”, “Cosa c’è in questa sensazione?”.

È importante non forzare la risposta lasciando che sia il corpo a reagire dando origine ad un cambiamento che può essere avvertito come un leggero sollievo o rilassamento.

  • Fase 6: Accoglienza

La risposta prodotta dal corpo che dia origine ad un cambiamento deve essere accolta positivamente. È importante soffermarsi per qualche istante su tale cambiamento poiché ne seguiranno altri che aiuteranno la persona ad affrontare la questione, ponendosi in modo nuovo e attivando nuove strategie di fronteggiamento di cui in precedenza non era consapevole.

A questo punto il processo di Focusing può considerarsi avviato.

In sintesi

Le sei fasi descritte non si sviluppano secondo una successione rigida ma la descrizione dei passaggi è indicativa della dinamica con cui si svolge l’intero processo.

Il Focusing è una modalità gentile, accettante e non giudicante di porsi in ascolto delle sensazioni corporee al fine di attivare un processo indirizzato al superamento di determinate situazioni problematiche a partire dai segnali trasmessi dal corpo. A conclusione di una seduta positiva di Focusing otteniamo dunque una migliore comprensione di noi stessi unitamente ad una nuova visione delle tematiche rilevanti della nostra vita, accrescendo l’autoconsapevolezza e il benessere psicofisico. Il Focusing può fornire un efficace sostegno alla persona nel favorire il superamento di blocchi interni, nel promuovere il problem solving, il processo decisionale, la creatività e il cambiamento.

Praticare la via del Focusing significa essere in grado di sfruttare la saggezza del nostro corpo:

Il corpo sa in che modo guarire e vivere. Se avrete la pazienza di ascoltarlo per mezzo del Focusing vi indicherà la direzione giusta (E.T. Gendlin).

Rallentiamo… e scegliamo! Child training per l’ADHD (2018) – Recensione del libro

All’interno del contesto specialistico italiano il programma presentato in Rallentiamo… e scegliamo è il primo Child Training italiano per l’ ADHD fondato sui principi dell’ ACT, una terapia comportamentale basata sulla Relational Frame Theory (RFT, teoria scientifica del linguaggio e della cognizione umani).

 

Il Disturbo di Attenzione e Iperattività (DDAI o ADHD) è un disturbo cronico e pervasivo dell’età evolutiva caratterizzato da disattenzione, iperattività e impulsività e secondo le linee guida SINPIA del 2002 un intervento terapeutico adeguato deve basarsi su un approccio multimodale, che combini insieme interventi psicosociali e terapie mediche, e sulla definizione di un programma terapeutico individualizzato, che avvenga sempre attraverso il coinvolgimento, non solo del bambino, ma anche di genitori e insegnanti.

L’approccio psicoeducativo è costituito da interventi “accomunati dall’obiettivo di modificare l’ambiente fisico e sociale del bambino al fine di modificarne il comportamento” (SINPIA, 2002). All’interno del trattamento risultano quindi utili percorsi di Parent Training per i genitori e di Teacher Training per gli insegnanti, allo scopo di aumentare la comprensione delle caratteristiche del bambino con ADHD e di individuare le strategie più utili per una gestione funzionale delle difficoltà che tali caratteristiche comportano, e programmi di Child Training rivolti ai bambini con ADHD e finalizzati a potenziare le loro abilità sociali e la loro competenza emotiva.

In questa cornice trova posto il workbook Rallentiamo… e scegliamo a cura di Laura Vanzin e con il contributo di Valentina Mauri, Angela Valli e Margherita Fossati.

La matrice teorica alla base del libro Rallentiamo… e scegliamo

Rallentiamo… e scegliamo è un manuale che nasce con lo scopo di essere usato come libro di esercizi e nel quale viene proposto un metodo di auto-aiuto, perciò rivolto a professionisti e non, fondato scientificamente, offrendo un modello di terapia psicologica per bambini e ragazzi con le difficoltà collegate all’ ADHD.

All’interno del contesto specialistico italiano il programma presentato in Rallentiamo… e scegliamo è il primo Child Training italiano per l’ ADHD fondato sui principi dell’ACT, una terapia comportamentale basata sulla Relational Frame Theory (RFT, teoria scientifica del linguaggio e della cognizione umani).

Le autrici hanno scelto tale approccio in funzione delle caratteristiche che l’ ADHD presenta: una scarsa consapevolezza dell’ambiente e dei suoi elementi, a causa della tendenza a spostare frequentemente il proprio focus attentivo, e una forte reattività emotiva impulsiva indipendente dall’emozione sperimentata (rabbia, tristezza, gioia, etc.). Infatti in presenza di comportamenti impulsivi risulta fondamentale dilatare il tempo tra impulso e azione, creando uno spazio temporale che consenta al soggetto di poter individuare le alternative a disposizione e di scegliere cosa agire, riducendo così gli automatismi disfunzionali e aumentando la consapevolezza. L’ ACT con i suoi sei processi terapeutici fondamentali – quali: contatto con il momento presente (essere qui adesso), defusione (osservare il proprio pensiero), accettazione (aprirsi), sé come contesto (pura consapevolezza), valori (sapere quello che è importante) e azione impiegata (fare quello che serve) – favorisce la flessibilità psicologica, ossia l’abilità del soggetto di essere nel momento presente con piena consapevolezza e apertura alla propria esperienza e di intraprendere azioni guidate dai propri valori: “essere presente, aperto e fare ciò che conta” (Fare ACT, 2015).

Modalità di intervento e approccio terapeutico

I numeri dell’intervento di Vanzin e colleghe sono:

  • gruppi di massimo 4/5 soggetti di età compresa tra gli 8 e i 13 anni con diagnosi di ADHD
  • per ciascun gruppo 2 conduttori e se possibile un osservatore
  • 4 incontri individuali tra i conduttori e il bambino con i genitori, così organizzati: uno preliminare per presentare il programma e le sue caratteristiche; due durante il percorso per monitorarne l’andamento e uno finale di restituzione
  • 25 incontri di gruppo a cadenza settimanale

Ogni incontro ha la durata complessiva di un’ora e mezza suddivisa in 75 minuti per svolgere le attività descritte nel “Programma di child training”, descritto successivamente, e 15 minuti in cui i conduttori si dividono per spiegare ai genitori i contenuti della sessione svolta e gli eventuali “allenamenti” (attività da svolgere a casa per allenarsi su quanto appreso) previsti per la settimana, mentre i bambini conteggiano i punti guadagnati e svolgono un’attività di gioco.

In ogni incontro è prevista l’assegnazione di punti che servono per ottenere i premi, questa operazione è un efficace sistema di rinforzo che consente al bambino di cogliere il legame tra l’emissione di un comportamento e il rinforzo che ne consegue ed inoltre supporta il livello motivazionale.

Nel workbook Rallentiamo… e scegliamo vengono fornite anche chiare indicazioni relativamente a comportamenti negativi (es. un comportamento aggressivo o particolarmente provocatorio) che i bambini potrebbero manifestare all’interno del gruppo. Tale argomento conclude la parte introduttiva e di spiegazione generale del percorso, nel capitolo successivo “Programma di child training” si dà ampio spazio alle attività suddivise per incontro. Ogni attività è descritta dettagliatamente indicandone obiettivi specifici, materiali e modalità ed è interessante notare che è anche segnalato chiaramente il comportamento target che si vuole elicitare nel bambino con eventuali suggerimenti per effettuare un monitoraggio immediato, come ad esempio nell’incontro 2 all’attività n.3 il comportamento target è illustrato come: “ascolto in silenzio del racconto (fare delle pause durante il racconto per accertarsi che i bambini stiano ascoltando e abbiano compreso quanto letto)”. Il monitoraggio immediato rappresenta una verifica istantanea dell’apprendimento in itinere del bambino, in aggiunta a questo vi è una valutazione del percorso globale determinata dal confronto tra questionari clinici (es. CBCL 6-18 e le scale Conners’) da somministrare pre e post intervento.

Il manuale si chiude con il “Libretto della token economy” da consegnare a ciascun partecipante, poiché è esplicitato il sistema dei punti e l’elenco dei premi e contiene una tabella da compilare con i punti guadagnati e spesi ad ogni incontro.

In conclusione

L’intervento mostrato da Vanzin e colleghe in Rallentiamo… e scegliamo si pone come scopo il miglioramento della qualità di vita di bambini con ADHD attraverso attività volte a migliorare l’attenzione e la capacità di focalizzarsi su un’attività per volta, potenziare l’autocontrollo e la capacità di indirizzare efficacemente il proprio comportamento, ridurre le risposte impulsive e aumentare le scelte comportamentali consapevoli orientate verso i valori personali. Tutto ciò ha ricadute positive sul benessere psicologico del bambino e quindi sulle sue abilità sociali e sull’immagine di sé.

Il programma si presenta come esperienza di gruppo, ma le autrici suggeriscono anche l’alternativa di un setting individuale, infatti con gli opportuni accorgimenti può essere agevolmente adattato per terapie individuali e personalmente ritengo che alcune attività, eventualmente tutte se adeguatamente adattate alle caratteristiche del singolo bambino, possano inoltre rappresentare una valida alternativa all’interno di percorsi terapeutici per difficoltà differenti dall’ ADHD.

Ortoressia nervosa: quali i fattori di rischio?

Nel corso degli ultimi anni l’attenzione rispetto al tema dell’alimentazione è progressivamente aumentata, portando una parte più ampia della popolazione ad interrogarsi più frequentemente sulla qualità della propria dieta.

 

Il mantenimento di un’alimentazione sana ed equilibrata è infatti uno degli elementi fondamentali per il raggiungimento di uno stile di vita salutare. Questo tipo di preoccupazione può però portare in alcuni casi ad esiti dannosi sul piano fisico e sociale.

Ortoressia nervosa: disturbo dell’alimentazione o ossessivo-compulsivo?

L’ ortoressia nervosa (ON), descritta per la prima volta dal medico Steven Bratman (1997), è una condizione caratterizzata da un’ossessione patologica rispetto all’assunzione di solo cibo sano. Contrariamente alle persone affette da anoressia nervosa (AN), il pensiero prevalente non è la forte restrizione di apporto calorico in vista del mantenimento di un basso peso corporeo, ma la qualità e la preparazione del cibo assunto. L’obiettivo principale per coloro che riportano questa condizione è il raggiungimento di un senso di purezza e salute, che porta ad una restrizione progressiva degli alimenti considerati sani, arrivando in alcuni casi alla completa eliminazione di alcuni gruppi alimentari (es. carne, pesce, latticini, uova) o di alimenti considerati dannosi per la salute (es. farinacei contenenti glutine, alimenti non biologici).

Tale comportamento risulta causa frequente di perdita di peso e malnutrizione. Inoltre, coloro che riportano ortoressia nervosa impiegano una parte sempre maggiore del proprio tempo nell’acquistare, pianificare e preparare pasti equilibrati e sani, comportamento che può diventare interferente rispetto ad altre aree di funzionamento, impattando sulla loro qualità di vita. Queste persone arrivano inoltre ad evitare progressivamente situazioni che comportano il dover mangiare con gli altri, andando ad inficiare l’ambito relazionale. L’ ortoressia nervosa è una condizione emersa recentemente, di difficile definizione in termini clinici: è infatti in corso una discussione rispetto alla sua definizione come disturbo dell’alimentazione o come una specifica forma di disturbo ossessivo-compulsivo, e quindi non è stata ancora inclusa all’interno dei principali manuali diagnostici, come l’ICD-10 e il DSM-5.

Ortoressia nervosa: la review sui fattori di rischio

L’università di York ha recentemente effettuato una prima review esaustiva volta ad individuare quali possano essere i principali fattori psicosociali predisponenti allo sviluppo di ortoressia nervosa. L’obiettivo principale della ricerca è stato di esaminare criticamente i risultati emersi da ricerche che abbiano analizzato i fattori psicosociali associati positivamente all’ ortoressia nervosa, determinando la natura delle dinamiche psicopatologiche a essa sottostanti e offrendo spunti per future ricerche di approfondimento. La review è stata condotta analizzando tutti gli articoli pubblicati sull’ ortoressia nervosa fino al 31 dicembre del 2018 su due importanti database (PsycINFO e MEDLINE/Pubmed). I dati sono poi stati confrontati e amalgamati, evidenziando i fattori psicosociali predisponenti allo sviluppo di tale condizione emersi più frequentemente in studi considerati validi dal punto di vista metodologico.

La review di McComb e Mills ha messo in luce che i fattori psicosociali associati positivamente all’ ortoressia nervosa sono risultati la presenza di una storia pregressa di disturbi dell’alimentazione, di tratti ossessivo-compulsivi, di pensieri negativi e di preoccupazioni rispetto alla propria immagine corporea, di tendenza al perfezionismo, di un regime dietistico e di motivazione al raggiungimento di uno stato di magrezza. L’importanza di questo studio risiede nella possibilità di un migliore riconoscimento e di prevenzione di tale condizione, la gravità e la presenza della quale vengono spesso sottostimate da coloro che lavorano in ambito sanitario.

La differenza tra una pianificazione equilibrata della propria alimentazione e un’ossessione patologica rispetto all’assunzione di cibo sano può infatti non essere immediatamente evidente, portando alla mancata rilevazione di una condizione di disagio significativo. Risulta quindi importante sottolineare che il mantenimento di una dieta sana ed equilibrata può essere un comportamento che, se attuato con modalità rigide e portate all’estremo, può essere malsano.

 

Il ritiro scolastico come manifestazione del disagio giovanile – Report dal Convegno di Roma del 18 maggio 2019

Il disagio giovanile di oggi, richiede una risposta complessa, fatta dell’intergrazione di più professionalità presenti nell’ambiente scolastico e dalla cooperazione di tutti gli “attori” che ruotano attorno alla loro vita e che contribuiscono alla lora crescita.

Evento patrocinato dall’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini – Eticamente Onlus – Roma

 

Questo “disagio” o tutte quelle difficoltà che se trascurate possono condurre ad un disagio conclamato, richiedono dunque l’attiva collaborazione di operatori, insegnanti e famiglia.

Diverse sono oggi le “tipologie” di disagio giovanile, sicuramente ognuna di esse risente di fattori sociali e culturali, che contribuiscono all’evoluzione delle caratteristiche generali delle stesse. Fra queste tipologie rientrano: il bullismo, il cyberbullismo, il cutting, l’utilizzo di sostanze stupefacenti, la ludopatia sino allo sviluppo di eventi psicotici.

Il cervello adolescente…

I dati MIUR (2018) ci informano che 1 ragazzo su 4 abbandona la scuola e con essa “abbandona un’idea di futuro”. Questo abbandono rappresenta in moltissimi casi, l’inizio di un vissuto di emarginazione.

Oggi è indispensabile conoscere il processo maturazionale del cervello di un “adolescente” proprio per comprendere in che modo lo “stimolo esterno” viene interpretato e vissuto. In linea generale, il termine della maturazione delle diverse aree cerebrali avviene attorno ai 25 anni con la maturazione precoce delle aree cerebrali profonde, legate a comportamenti impulsivi e di ricerca di gratificazione immediata, rispetto alla maturazione delle aree prefrontali dedite al comportamento adattivo ed al controllo degli impulsi. Associato ad un precoce sviluppo del cervello “emotivo” si assiste durante l’infanzia e per tutta l’adolescenza, al fenomeno del “rimaneggiamento” delle connessioni cerebrali che vengono regolate dal principio dell’ “use it or lose it”. La capacità di ricevere stimoli adeguati permette l’ “uso” del rimaneggiamento delle connessioni cerebrali, a dispetto della perdita dello stesso. Tale rimaneggiamento viene osservato come fenomeno genetico estremamente influenzato dai fattori ambientali, che possono dunque agire nello sviluppo dei ragazzi, come fattori protettivi o come fattori di rischio nell’insorgergenza di disturbi psicopatologici. L’utilizzo di differenti “meccanismi cerebrali” è dunque parte di quella difficoltà “comunicativa” che l’adulto, genitore ed insegnante, ritrova nella dinamica col giovane adolescente. Questa comunicazione avviene attraverso lo scontro di due sistemi totalmente differenti fra loro, uno appartenente al cervello adolescente, l’altro al cervello adulto.

Gli eventi citati sono portatori di stress e capaci dunque di attivare quel sistema agonistico tale da indurre una reazione di “attacco \ fuga” da parte dell’adolescente, sostenuto dall’incapacità di trovare un adulto (insegnante, operatore, familiare), capace di “decodificare” per lui e con lui, aspetti di vita complessi, offrendo loro un’ “antagonista” alla gratificazione “semplice ed immediata” (ad esempio l’uso delle droghe), con un’alternativa reale e concreta (ad esempio uno spazio di ascolto).

Cosa significa stare a scuola?

Stare a scuola comporta fare una scelta sul proprio futuro, ancor più nel passaggio dalla scuola secondaria di primo grado a quella di secondo grado. L’età in cui i ragazzi sono chiamati ad effettuare questa scelta per il loro “futuro” è all’incirca intorno ai 13 anni ed è spesso legata ad un contesto familiare, ovvero a tutte quelle risorse economiche, sociali ed educative che la famiglia offre al ragazzo per creare il suo percorso. Il contesto sociale a cui il ragazzo è chiamato ad inserirsi presenta oggi un nuovo aspetto che in passato era meno presente, ovvero una multiculturalità interna ai gruppi classe. I ragazzi vengono dunque a contatto con storie di vita, culture e religioni differenti dalle proprie in cui è richiesto un lavoro di “mediazione culturale” perché l’integrazione diventi un’esperienza arricchente degli uni con gli altri.

Dalle varie esperienze di docenti presenti, operativi in scuole del territorio romano, appaiono chiari dei bisogni specifici che la nostra scuola oggi porta con sé:

  • multidisciplinareità, che si traduce con una presenza stabile di uno psicologo scolastico negli istituti comprensivi per l’intera utenza scolastica, compresi dunque insegnanti e famiglie, unito a livello territoriale ai servizi (ASL);

  • richiesta di spazi stabili di ascolto presenti per la promozione del benessere e la prevenzione del born-out scolastico e professionale degli inseganti;

  • svecchiamento della didattica” mediante il superamento come unico strumento didattico della lezione frontale, a favore di strumenti digitali ed eventi esperenziali;

  • formazione degli insegnanti, di quegli aspetti emotivi, psicologici e relazionali che entrano in gioco nel processo di apprendimento e che possono, se opportunamente considerati, facilitare la didattica. Un docente riferisce che:

Noi sappiamo cosa dire, ma non conosciamo come dirlo. Per questo abbiamo bisogno di un supporto all’interno delle scuole e di una costante formazione su tutti quegli aspetti relazionali e psicologici!;

  • Orientamento e ri-orientamento, ovvero servizi che permettano al ragazzo di scegliere in maniera quanto più consapevole e personale il suo futuro, ma sopratutto di poter ri-orientarsi con lo stesso servizio, nel caso in cui il “primo percorso” si sia mostrato non gratificante o non rispondente alle sue reali aspirazioni e capacità.

Dal ritiro scolastico al completo abbandono della vita sociale: il fenomeno Hikikomori

La scuola non è solo luogo di apprendimento, ma lo è altrettanto per la crescita, lo sviluppo personale e dunque spazio per sperimentare la relazionalità. Benché esista un fenomeno di Hikikomori definito “primario”, dunque che nasce come scelta dell’individuo di allontarsi dalla società, rispetto ad uno “secondario” dove risulta più definito il fattore “scatenante” di questa scelta, il ministero della Salute Giapponese, dove il fenomeno nasce e ad oggi risulta ampiamente diffuso, definisce gli Hikikomori come fenomeno sociale e non come una malattia.

Il fenomeno ad oggi, ampiamente studiato anche in Italia, presenta un range di diffusione fra i 14 ed i 39 anni, con il manifestarsi dell’evento “iniziale”, o meglio dei diversi campanelli d’ “allarme” fra i 14 ed i 25 anni. Questa finestra temporale di vita non è del tutto causale se pensiamo alle diverse scelte che compiamo in quegli anni che ci proiettano, a medio ed a lungo termine, nella nostra vita da “adulti”.

Benché alla base dei comportamenti degli Hikikomori vi sia una scelta definita che è quella di ritirarsi dalla società, escludendola dalla propria vita, in realtà il processo avviene sempre in maniera graduale. I diversi “campanelli d’allarme” descrivono una traiettoria che parte da un “fenomeno sociale” e che può arrivare ad assumere i tratti di una reale “psicopatologia”.

Questa gradualità comprende:

Il mondo virtuale rappresenta un filtro relazionale di tipo emotivo che permette alla persona di sottrarsi alla pressione di realizzarsi, secondo canoni imposti e prestabiliti, nel mondo sociale. Benché ad oggi non esistano dati scientifici di una correlazione diretta fra causa ed inizio del processo graduale del fenomeno, di sicuro si riscontrano frequentemente, come idee alla base di questa “scelta” un rifiuto totale della società, di cui la scuola nella fase infanzia – adolescenza, risulta una parte molto importante. Essere vittima di bullismo, rifiutare la pressione sociale o esser “stati feriti ed umiliati” nella relazione con l’altro, sembrano essere dei dati molto frequenti che si ritrovano nella vita di questi ragazzi.

Dati presentati

A conclusione di questa importante giornata, riporto tre dati specifici che spero aprano una riflessione ed una azione imminente sulla mancanza in Italia di una legge che preveda l’inserimento dello Psicologo a Scuola come figura stabile dell’organico scolastico:

  1. il 46% degli abbandoni scolastici è attribuito a disturbi mentali quali ansia, depressione, abuso di sostanze. (…) I soggetti ad alto rischio clinico sono anche quelli che hanno il più alto rischio di abbandono scolastico;
  2. la causa principale potrebbe essere la demotivazione. Secondo M. Crepaldi, il nostro è un sistema standardizzato che tende a sopprimere le disposizioni personali (…);
  3. Spesso mi prendevano in giro e mi denigravano, favorendo il mio isolamento. Nessuno mi chiedeva mai come stessi.”

 

La Well-Being Therapy

La Well-Being Therapy pone enfasi sull’automonitoraggio degli episodi di benessere e tratta anche i pensieri o le credenze irrazionali che soggiacciono l’interruzione del benessere negli individui.

 

La Well-Being Therapy (WBT) è un tipo di terapia a breve termine, costituita da otto sessioni, ciascuna di durata approssimativa di 30/50 minuti (Ruini, 2014).

Questa strategia psicoterapeutica pone enfasi sull’automonitoraggio degli episodi di benessere e tratta anche i pensieri o le credenze irrazionali che soggiacciono l’interruzione del benessere negli individui (Belaise et al., 2006).

La Well-Being Therapy può essere applicata ai soggetti con disturbo d’ansia generalizzato (Belaise, et al., 2006), con disturbo da stress post-traumatico, nei casi di comportamenti suicidari (Johnson & Wood, 2016), ma anche nel disturbo ciclotimico o ad individui che si trovano nella fase residuale dei disturbi dell’umore (Ruini, 2014).

Well-Being Therapy e Disturbo Ciclotimico

Per quanto riguarda il disturbo ciclotimico viene considerato una forma lieve del disturbo bipolare in quanto è caratterizzato dall’alternanza di episodi di ipomania ed episodi depressivi che non soddisfano i criteri né del disturbo bipolare di tipo I né di tipo II (Akiskal, 2001; Akiskal, Djenderedjian, Rosenthal & Khan, 1977; DSM, 2014).

Studi recenti hanno dimostrato che l’unione della WBT e della terapia cognitivo comportamentale (CBT), nel trattamento del disturbo ciclotimico con la presenza di ansia, produce dei benefici che sono significativi e persistenti (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

Evidenze di trattamento: uno studio sperimentale

Nello specifico, uno studio condotto su 62 pazienti, suddivisi in due gruppi composti da 31 soggetti (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011) ha valutato l’efficacia di diverse modalità di trattamento del disturbo: al primo gruppo veniva applicata la CBT e la WBT, nell’altro invece un trattamento di gestione clinica. In entrambi i casi, la durata del trattamento è stata di 10 sessioni, ciascuna delle quali aveva una durata di circa 45 minuti.

Inoltre, ad entrambi i gruppi sono stati somministrati dei questionari sia subito dopo il trattamento sia a 1-2 anni dal trattamento. In particolare, sono stati somministrati: una versione modificata dell’Intervista Clinica per la Depressione (CID; versione modificata) (Paykel, 1985; Bech, Fava, Guidi & Paykel, 2011), che indaga 20 aree di sintomi e sono stati eliminati gli item relativi all’ostilità, al ritardo, all’agitazione e all’aspetto depresso; a ciascun item viene attribuito un punteggio che va da 1 (assenza di sintomi) a 7 (gravi sintomi invalidanti). Questa scala è adatta per valutare i sintomi subclinici dei disturbi dell’umore (Belluardo, Conti, Fava, Grandi & Rafanelli, 1998; Bech, Fava, Guidi & Paykel, 2011; Barocka et al., 1995), è anche in grado di misurare diversi aumenti o piccoli cambiamenti vicino alla fine normale dello spettro (Bech, Fava, Guidi, & Paykel, 2011; Bech, 2009).

Dalla versione completa del CID, è stato inoltre selezionato e valutato in modo separato l’elemento della reattività all’ambiente sociale (Bech, Fava, Guidi & Paykel, 2011), che si riferisce ai cambiamenti dell’umore e della sintomatologia, al miglioramento o al peggioramento della patologia in seguito a dei problemi ambientali (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011); in questo caso i punteggi vengono attribuiti su una scala a 7 punti e si possono disporre lungo un continuum. Agli estremi di questo continuum si individuano i cambiamenti che non sono dovuti all’ambiente, che corrispondono al punteggio 1, e la fonte della depressione dipende interamente da determinate situazioni specifiche, che corrisponde al punteggio 7. Infine, al centro di questo continuum si individuano tutti quei soggetti che presentano un punteggio 3, i quali possono avere dei miglioramenti limitati, determinati da fattori non specifici, come per esempio il supporto sociale (avere qualcuno con cui parlare) (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli, & Tomba, 2011). Questo strumento è stato utilizzato per misurare il cambiamento al momento del trattamento nel disturbo ciclotimico.

La Scala della Mania (MAS, Mania Scale) (Miklowitz, 2008), consta di 12 item i cui punteggi possono variare da 0 a 4 (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

Obiettivi e Risultati dello studio

Lo scopo di questo studio era quello di applicare la Well-Being Therapy con la CBT ad un campione di pazienti con disturbo ciclotimico e confrontare la sua efficacia con l’utilizzo di interventi clinici che non facessero ricorso alla CBT e alla WBT.

Attraverso la somministrazione delle scale sopra descritte, sono emerse differenze significative tra i due gruppi. In particolare, i pazienti che sono stati sottoposti alla Well-Being Therapy e alla CBT avevano maggiori miglioramenti rispetto a coloro i quali sono stati trattati con dei trattamenti di gestione clinica (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

Secondo gli autori dello studio, è dunque possibile affermare che la combinazione sequenziale di CBT e WBT ha avuto un effetto importante sul disturbo ciclotimico, infatti, sono stati osservati degli effetti significativi sui sintomi ciclotimici, attraverso la somministrazione del CID e del MAS, rispetto ai soggetti che sono stati sottoposti ad un trattamento di gestione clinica (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

Dagli studi follow-up di 1-2 anni dal trattamento è emerso che in più della metà dei casi trattati con la CBT e la Well-Being Therapy non era più presente una diagnosi di disturbo ciclotimico dopo il trattamento e si è verificata anche una riduzione della comorbilità ansiogena (in quanto i pazienti presi in esame presentavano delle comobilità ansiogene), al contrario, nell’altro gruppo i sintomi ciclotimici erano ancora presenti (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

Differenze nel trattamento tra primo gruppo e secondo gruppo

Per quanto riguarda i trattamenti applicati al primo gruppo della ricerca effettuata da Fava e collaboratori (2011) la Well-Being Therapy aveva come obiettivo quello di intervenire sulle dimensioni alterate del benessere psicologico di Ryff (Fava, 1999), invece, la CBT permetteva di individuare gli schemi mentali e i pensieri automatici disfunzionali (Beck & Emery, 1985) e ristrutturarli in modo più efficace (Belaise et al., 2006), nello studio precedentemente descritto è stata anche utilizzata per ridurre l’ansia.

L’obiettivo del trattamento era quello di ristrutturare i pensieri ed i comportamenti disadattativi ed aumentare i comportamenti adattativi (Fava, 1999), nello specifico: migliorare il benessere psicologico e sostituire le percezioni ipomaniche di breve durata con adeguati livelli di benessere (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011).

Per quanto riguarda il trattamento del disturbo ciclotimico, la combinazione CBT e WBT, consta di tre fasi: la fase iniziale, centrale e finale (Fava, Guidi, Grandi, Rafanelli & Tomba, 2011). Nella fase iniziale, che riguarda i primi due incontri, il terapeuta si concentra sulla sintomatologia del paziente e l’organizzazione del trattamento dipende dai sintomi e dai problemi che il paziente presenta. I pazienti svolgono un ruolo attivo, in quanto prima monitorano e successivamente annotano su un diario i loro episodi di sofferenza. I diari vengono utilizzati in tutta la durata del trattamento.

Nella fase centrale, che comprende tre incontri, se il paziente presenta degli episodi di ansia, come nello studio svolto da Fava e collaboratori (2011), vengono pianificate delle strategie di esposizione da svolgere a casa (Marks, 1987). Inoltre, durante questa fase il terapeuta valuta quali sono le aree del benessere che sono adeguate, quindi in cui non sono presenti i pensieri automatici e disfunzionali (Fava, 1999). Quando vengono individuati questi pensieri, il terapeuta può chiedere per esempio: “quali sono le prove a favore o contro questa idea?” oppure “stai pensando in termini tutto-o-niente?” (Beck, Rush, Shaw & Emery, 1979), quindi, utilizza delle strategie e delle tecniche per aiutare i pazienti a correggere i loro punti di vista distorti e le loro credenze disadattive, in particolare per quanto riguarda i sintomi depressivi, inadeguatezza, irritabilità (Ramirez Basco & Rush, 1996).

Infine, nell’ultima fase, composta da tre incontri, il paziente viene incoraggiato a svolgere l’automoniotoraggio dei momenti di benessere (Fava, 1999). In questa fase si agisce sulle dimensioni del benessere psicologico che sono alterate (Fava, 1999).

Conclusioni

Un aspetto che deve essere precisato, si riferisce al fatto che i pazienti non devono raggiungere elevati livelli di benessere in tutte le dimensioni, bensì devono raggiungere un livello di funzionamento equilibrato con l’ausilio della ristrutturazione cognitiva (Ruini, 2017).

Affrontare la morte di un caro amico: le variabili coinvolte nel processo di elaborazione del lutto

Nella maggior parte dei casi, il dolore è una risposta naturale al lutto, per questo di solito le persone si adattano alla loro perdita, ma il loro livello di adattamento e le corrispondenti risposte emotive, comportamentali, psicologiche e fisiche differiscono in base a molte variabili.

 

Ad esempio variano a seconda dell’età, dell’etnia, dei tratti di personalità, religiosità, resilienza, del supporto sociale e della relazione che avevano con il defunto. Gran parte della ricerca fatta finora sul lutto si è concentrata sulla morte di un parente di primo grado, spesso il coniuge.

Lutto: cosa accade quando perdiamo un caro amico

La letteratura mostra che le persone più giovani in lutto, di solito, presentano un dolore più pronunciato rispetto agli anziani, tuttavia gli anziani tendono a sperimentare una maggiore solitudine. Inoltre, la religione, generalmente, ha un impatto positivo sul dolore in quanto aiuta le persone a gestire gravi crisi come la morte, e di solito le comunità religiose forniscono spesso un supporto sociale per aiutare le persone a far fronte alla loro perdita.

I tratti della personalità svolgono un ruolo importante nel processo del lutto: chi ha un’autostima maggiore sarà capace di sopportare meglio lo stress, le emozioni positive aiutano gli individui a gestire l’ansia e la depressione derivanti dal lutto, chi ha un punteggio alto nel “nevroticismo” è solitamente più fragile e non si adatterà facilmente al lutto.

Per questo studio i ricercatori si sono voluti concentrare sulla morte degli amici, e non più sui famigliari, indagando le caratteristiche fisiche e psicologiche dei soggetti che avevano perso un amico, dal momento che si pensa che il trauma causato dalla morte di un amico intimo duri 4 volte di più. Lo studio, condotto dall’Australian National University (ANU), è stato pubblicato su Plos One.

Ogni qual volta si perde un caro amico è necessario riconoscere che vi è un tempo per poter piangere il proprio defunto, poiché questo è parte del processo del lutto.

La ricerca mostra come la morte di un amico intimo incida significativamente sul benessere fisico, psicologico e sociale di una persona, per un lasso di tempo fino a quattro anni. Al contrario studi precedenti, indicano come periodo circa 12 mesi.

Morte di un amico: uno studio longitudinale

Per lo studio si sono utilizzati i dati longitudinali di 26.515 australiani della Household, Income and Labour Dynamics in Australia Survey, di questi 9.586 avevano vissuto la morte di almeno un amico intimo.

I risultati mostrano che le persone che avevano subito un lutto di un amico e quelle non in lutto presentavano caratteristiche sociodemografiche molto diverse. Nello specifico le persone in lutto erano più anziane, meno istruite, più religiose, con risorse economiche precarie e livello di occupazione inferiore.

Emerge anche che chi era socialmente isolato, a seguito della perdita di un amico, soffriva di più provando un dolore maggiore che poteva durare anche per 4 anni.

Per quanto riguarda la differenza di genere le donne sono più predisposte a sviluppare sintomi depressivi in seguito a un lutto.

Concludendo il lutto porta spesso ad un disagio psicologico e le risposte degli amici al lutto sono influenzate dall’età della persona, dal genere, dalla religione, da fattori intrapersonali come la personalità e la salute mentale, nonostante fino ad oggi vi è stata una mancanza di dati solidi che dimostrano l’impatto della morte di un caro amico.

Lo studio presenta anche dei limiti, in particolare i risultati, basati su questionari autocompilati, potrebbero essere non del tutto veritieri, non si sa se la perdita subita sia semplice o complicata ed infine i dati non forniscono informazioni dettagliate sulla natura e le cause della morte che possono essere fattori di rischio importanti che guidano l’intensità del dolore.

Empatia: nuovi modelli

Perché di fronte ad una persona che si commuove alcuni di noi tendono a commuoversi allo stesso modo? E perché gli sbadigli sono contagiosi?

 

Una nuovissima ricerca del Max Planck Institute di Berlino e del Sante Fe Institute (Mafessoni & Lachmann, 2019) ha tentato di dare una risposta a questi interrogativi.

Empatia: i processi cognitivi sottostanti

Due autori, in particolar modo, hanno tentato di spiegare quali siano i processi cognitivi che sottostanno ad una grande varietà di risposte empatiche negli individui, specificatamente si sono concentrati su:

  • Contagio emozionale;
  • Sbadigli contagiosi;
  • Patologie psichiche come la ecoprassia (ovvero la ripetizione compulsiva dei movimenti che un dato individui osserva negli altri) e la ecolalia (ripetizione compulsiva dei discorsi sentiti).

Secondo Fabrizio Mafessoni, ricercatore post-dottorato presso l’Istituto Max Planck per l’antropologia evolutiva, infatti, i modelli teorici standard delle origini dell’empatia tendono a focalizzarsi su scenari basati sulla cooperazione tra simili.

Mafessoni, e il suo co-autore Michael Lachmann, un biologo teorico e professore all’Istituto Santa Fe, hanno esplorato la possibilità che i processi cognitivi sottostanti un’ampia gamma di risposte empatiche – tra cui i tre processi soprammenzionati – potrebbe evolversi anche in assenza di meccanismi che mirano a favorire la cooperazione tra individui.

Secondo i due autori gli esseri umani, e più in generale tutti gli animali, possono mettere in atto dei comportamenti volti a stimolare le menti dei propri simili, il che non vuol dire che riescano ad entrare all’interno della mente degli altri, le quali restano impenetrabili come delle scatole nere. Più semplicemente i due ricercatori affermano che alcuni comportamenti vadano a stimolare a livello cognitivo le menti degli altri individui. Tali atti stimolativi non sarebbero quindi volti a un qualche tipo di cooperazione tra individui.

Empatia: i vantaggi

Tali comportamenti sono vantaggiosi per gli umani, in quanto permettono ai soggetti che osservano un individuo agire un dato comportamento (ad esempio ridere o sbadigliare) di poter inferire quale sia il suo stato mentale.

È proprio questo il motivo individuato da Mafessoni e Lachmann per spiegare come e perché evolva il sistema empatico in questione: l’origine dell’empatia non risiederebbe nella semplice spinta a cooperare ma andrebbe ricercata nel bisogno degli individui di comprendere gli altri esseri umani.

Il loro modello suggerisce che i sistemi empatici non si evolvono solo perché gli individui sono disposti a cooperare. Si evolvono anche perché gli animali simulano gli altri per immaginare le loro azioni. Secondo Mafessoni:

L’origine stessa dell’ empatia può risiedere nella necessità di comprendere gli altri individui.

Secondo i due autori il loro studio potrebbe cambiare completamente il modo di pensare l’essere umano e gli animali. Effettivamente il loro modello riesce nell’intento di unificare in un singolo meccanismo cognitivo una grande varietà di fenomeni empatici. Certo è che, però, saranno necessari ulteriori studi ed approfondimenti per poter validare maggiormente tale modello.

Il Disturbo selettivo dell’alimentazione

La rilevanza clinica dell’ alimentazione selettiva riguarda soprattutto le conseguenze di tale condotta alimentare sul funzionamento psicosociale del bambino e sul suo sviluppo.

 

Disturbo selettivo dell’alimentazione e DSM 5

Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID) è stato introdotto nel 2013 nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5), dove i disturbi della nutrizione dell’infanzia e i disturbi dell’alimentazione sono stati unificati nella stessa categoria diagnostica: i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (ossia ARFID, il disturbo di ruminazione e la pica).
 Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID) si sostituisce al Disturbo della nutrizione nell’infanzia o prima giovinezza (FD) descritto nel DSM-IV TR. A differenza di quest’ultimo, l’ARFID non fa riferimento a un periodo dello sviluppo limitato, con il vantaggio di poter essere diagnosticato durante tutto l’arco di vita.

Inoltre, nel DSM 5 la compromissione del funzionamento non si limita a parametri di peso e sviluppo fisico, ma si estende anche a valutare eventuali carenze nutrizionali dovute ad un’ alimentazione selettiva esagerata. I Criteri diagnostici sono:

A – Un’anomalia dell’alimentazione e della nutrizione (ad es. assenza di interesse per l’alimentazione o per il cibo; evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo) che si manifesta attraverso una persistente incapacità di assumere un adeguato apporto nutrizionale e/o energetico associata con una o più delle seguenti:

  1. Significativa perdita di peso o nei bambini incapacità a raggiungere il peso relativo alla
 crescita
  2. Significativa carenza nutrizionale
  3. Dipendenza dalla nutrizione enterale o da supplementi nutrizionali orali
  4. Marcata interferenza col funzionamento psicosociale

B – Il disturbo non è connesso con la mancanza di cibo o associato a pratiche culturali.
C – Il disturbo non si manifesta esclusivamente nel corso di anoressia o bulimia nervosa e non vi è evidenza di anomalia nel modo in cui è percepito il peso e la forma del proprio corpo.
D – L’anomalia non è meglio attribuibile a una condizione medica o ad un altro disturbo mentale. Se il disturbo alimentare si manifesta nel corso di un altro disturbo, la sua importanza supera quella del disturbo di base e richiede attenzione clinica.

Ovviamente per poter diagnosticare il Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo è necessario escludere che l’ alimentazione selettiva non sia dovuta ad altre cause: la mancata disponibilità di cibo, fattori culturali, una malattia medica concomitante o un altro disturbo mentale che possano meglio spiegarlo (ad es. anoressia e bulimia nervosa), inoltre si deve poter escludere che l’evitamento del cibo abbia a che fare con il timore di ingrassare e con un eccessiva attenzione al corpo (peso e forma).

L’ARFID può esprimersi con motivazioni differenti e questo ha permesso di identificare tre diversi sottotipi: nel primo sottotipo il cibo viene evitato per un’apparente mancanza d’interesse per il mangiare o il cibo, si tratta di un disturbo emotivo di evitamento del cibo; nel secondo sottotipo l’evitamento del cibo è sensoriale, cioè l’evitamento del cibo è legato alle sue proprietà sensoriali: l’aspetto, il colore, l’odore, la consistenza, il gusto, la temperatura; nel terzo sottotipo l’evitamento del cibo è dovuto alla paura che mangiare possa avere conseguenze negative: come il non riuscire a deglutire e soffocarsi, il vomitare, dolori addominali e diarrea, reazioni allergiche. Anche nausea, reflusso e dolore addominale possono presentarsi in concomitanza del disturbo.
Questo tipo di suddivisione in sottotipi non è ancora stata validata, sebbene abbia un’utilità clinica.

Disturbo selettivo dell’alimentazione nell’infanzia

Con l’espressione alimentazione selettiva si descrive il comportamento di bambini che limitano la loro alimentazione ad una gamma ristretta di cibi preferiti, rifiutandosi di mangiare altri cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi. Mangiano cinque o sei cibi differenti, spesso carboidrati come pane, patate fritte o biscotti. Quando il genitore tenta di ampliare la gamma di cibi il bambino reagisce con ansia e disgusto e può manifestare sforzi di vomito.

Molti bambini possono rifiutare il cibo in base a caratteristiche sensoriali come il gusto, l’odore, il colore o la consistenza, e la richiesta d’aiuto è solitamente motivata dall’impatto che il fenomeno ha sul funzionamento sociale del ragazzino, come feste di compleanno, gite scolastiche o cene di classe. Generalmente, questi bambini presentano un peso ed un’altezza adeguati all’età e non manifestano preoccupazioni per il peso o la forma del corpo. Nella maggior parte dei casi il bisogno di adeguarsi al gruppo in adolescenza porta a una risoluzione spontanea del problema.

Secondo McCormick e Markowitz indicatori utili a identificare bambini con alimentazione selettiva potrebbero essere i seguenti comportamenti tipici:

  • il bambino mangia solo i cibi preferiti
  • si distrae mentre mangia, manifesta scarso interesse per il cibo
  • assume alcuni alimenti solamente se “nascosti” all’interno di cibi o bevande preferiti
  • consuma il pasto con lentezza e raggiunge velocemente la sazietà

Tali aspetti dell’ alimentazione selettiva emergono con evidenza nelle diverse definizioni fornite dalla letteratura:

  • Consumo di una varietà inadeguata di alimenti come conseguenza del rifiuto di un’ampia gamma di cibi familiari, così come di quelli sconosciuti. Tale selettività può comportare una forma di neofobia per il cibo, oltre al rifiuto per cibi con specifiche caratteristiche sensoriali.
  • Ridotto apporto di cibo, soprattutto di verdura, e rigide preferenze alimentari, che portano i genitori a preparare il pasto del bambino separatamente rispetto a quello del resto della famiglia.
  • Rifiuto di assumere cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi, abbastanza grave da compromettere il funzionamento e la routine quotidiana ad un livello che può risultare problematico per il bambino, i genitori o la loro relazione.
  • Consumo di un’insufficiente quantità o varietà di cibo come conseguenza del rifiuto di alcuni alimenti.
  • Numero limitato di alimenti nella dieta, rifiuto di assaggiare cibi non conosciuti, scarso apporto di verdura o di altre categorie alimentari, rigide preferenze alimentari e richiesta di una modalità particolare di preparazione dei cibi.

La rilevanza clinica dell’ alimentazione selettiva sembra dunque riguardare soprattutto le conseguenze di tale condotta alimentare. Mentre infatti un atteggiamento sospettoso e selettivo nella scelta dei cibi può avere avuto, a livello evolutivo, una funzione adattiva nella prima infanzia nel ridurre il rischio di assumere tossine, successivamente può rappresentare invece un limite ad una dieta variata, con conseguenti carenze a livello nutritivo.

Nonostante alcuni studi riportino una maggiore assunzione di alimenti altamente energetici, come dolci o snack, tra i bambini con alimentazione selettiva, la maggior parte delle ricerche evidenzia però una globale riduzione dell’apporto alimentare e un’alterazione della composizione nutrizionale della dieta, sottoforma di mancanza di varietà, ridotto apporto energetico, scarsa assunzione di frutta e verdura, carenza di vitamine e minerali, minore assunzione di fibre vegetali e cereali integrali. A ciò sembrerebbe associato un maggiore rischio di sottopeso e di ritardo nella crescita, così come di sovrappeso o di sviluppo di un vero e proprio disturbo della condotta alimentare (Bachmeyer, 2009).

Alimentazione selettiva nell’infanzia e interazione con i caregiver

L’alimentazione rappresenta un aspetto fondamentale dello sviluppo infantile, tanto da poter essere considerata una linea evolutiva verso l’affermazione dell’autonomia. È proprio all’interno dell’interazione madre-bambino durante l’allattamento, lo svezzamento e la transizione verso l’alimentazione autonoma che si colloca, infatti, l’acquisizione di abilità di auto-regolazione e di interazione sociale. Grazie all’interazione con il caregiver durante il momento dei pasti, in parallelo con lo sviluppo di capacità cognitive e motorie e la sempre maggiore differenziazione della vita affettiva, il bambino inizia a sperimentare la propria autonomia anche in campo alimentare.

È proprio all’interno di tale percorso evolutivo che si osservano le prime forme di difficoltà alimentari. Nella maggior parte dei casi esse sono transitorie, in quanto rappresentano l’espressione di difficoltà evolutive temporanee, di lieve entità e tendono a risolversi spontaneamente in tempi rapidi (Sameroff, Emde, 1989). In altri casi, le anomalie che si osservano possono persistere nel tempo e assumere un carattere di disfunzionalità, tale da configurarsi come veri e propri disturbi del comportamento alimentare o dei loro potenziali precursori.

Un ruolo di primaria importanza nell’origine e mantenimento di pattern alimentari anomali sembrano svolgere alcuni comportamenti errati e maladattivi da parte dei genitori. Diversi studi, infatti, hanno messo in luce alcuni aspetti disfunzionali della relazione genitori-figlio che possono rendere difficili i processi di mutua regolazione e di autonomizzazione del bambino durante l’esperienza dell’alimentazione (Ammaniti et al., 2004, Chatoor et al., 1997). Tra i vari aspetti che concorrono all’eziopatogenesi delle difficoltà alimentari in età evolutiva, la letteratura evidenzia inoltre anche il ruolo dell’imitazione di pattern alimentari disfunzionali in famiglia o nel gruppo dei pari, oltre a fattori di natura genetica come una specifica ipersensibilità sensoriale (Scaglioni et al., 2011).

Il ruolo del fattore percettivo nello sviluppo di un fenomeno come l’ alimentazione selettiva si evince dalle diverse fasi dello sviluppo alimentare normale: durante il primo anno di vita, dopo lo svezzamento, i bambini imparano ad apprezzare i cibi ai quali vengono esposti frequentemente, sulla base di informazioni di tipo visivo, gustativo e di consistenza. L’informazione sensoriale non è ancora integrata in una visione unitaria, per cui la familiarità di un alimento si basa sui dettagli sensoriali, senza capacità di integrazione o generalizzazione (es. il “biscotto” è solo quello fatto in un certo modo). Intorno ai 18-20 mesi di vita, con lo sviluppo della tendenza esplorativa, si colloca la fase nota come neofobia, durante la quale i cibi che non vengono considerati come sicuri, ovvero quelli non riconosciuti come familiari, perché nuovi oppure perché presentati in una modalità non riconosciuta come nota, possono elicitare una risposta di disgusto. Tale reazione assume un valore adattivo, proteggendo il bambino dall’assunzione di cibi tossici durante l’esplorazione. Generalmente, la fase della neofobia termina entro il terzo anno di età e solo raramente dura fino ai 5 anni. Progressivamente, i bambini iniziano a imitare il comportamento dei coetanei e ad avere una visione più integrata del cibo, cosi come degli oggetti in generale (es. includono nella categoria ‘biscotto’ diverse forme, colori, consistenze). Tuttavia alcuni bambini manifestano atteggiamenti neofobici ad un livello eccessivo e persistente durante lo sviluppo. Tali reazioni sembrano ritrovarsi con maggiore frequenza in bambini che presentano ipersensibilità agli stimoli sensoriali, principalmente quello visivo e olfattivo, e che presentano un pattern alimentare che può essere assimilato a quello dell’ alimentazione selettiva (Harris, 2012).

Secondo Davies e colleghi anche se fattori infantili come il temperamento, le condizioni organiche, le anomalie strutturali e i problemi e le sindromi dello sviluppo sono stati collegati alla patogenesi dei disturbi alimentari infantili, l’ambiente e i fattori genitoriali possono anche interagire per influenzare e mantenere tali problematiche. La ricerca che si è concentrata sulle influenze materne e del caregiver ha riscontrato che le madri di bambini con disturbi alimentari tendono ad essere più imprevedibili, coercitive, controllanti, insensibili, intrusive ed eccessivamente stimolanti; tendono ad essere meno flessibili e affettuose; hanno maggiori probabilità di usare punizioni fisiche o l’alimentazione forzata; presentano difficoltà nel cogliere i segnali del bambino; infine mostrano più rabbia e ostilità durante l’interazione con i loro figli. Gli studi clinici condotti su bambini con disturbi alimentari hanno mostrato alti livelli di depressione materna, ansia, disturbi alimentari, umore e disturbi della personalità. Quindi, piuttosto che concentrarsi sul bambino o sulla figura genitoriale, Davies e colleghi suggeriscono di definire il disturbo alimentare come un disturbo relazionale.

A sostegno di questo concetto, è stato dimostrato che le caratteristiche del bambino e del suo caregiver interagiscono in molti modi sullo sviluppo e sul mantenimento del disturbo: il comportamento eccessivamente rigido dei genitori in relazione alla crescita e al tipo di alimentazione del bambino, il mancato riconoscimento degli indizi di fame e sazietà, il comportamento caotico dei genitori, l’incapacità di esporre il bambino a una gamma di alimenti, l’incapacità di fornirgli un contesto alimentare appropriato, sono tutti fattori che influenzano lo sviluppo di non adeguati modelli di alimentazione.

Uno studio longitudinale del 2014 (Tharner et al.) su più di 2000 bambini americani si è proposto di individuare un profilo comportamentale dei bambini con alimentazione selettiva. I risultati hanno mostrato che i bambini che rientrano in questa categoria consumano meno quantità di alimenti come vegetali, carne, pesce, poco popolari anche tra i bambini che non hanno questo problema. Tuttavia si nutrono in modo simile agli altri bambini di alimenti quali prodotti raffinati e derivati dal grano, come cornflakes, panini, così come di latticini come lo yogurt e frutta. Dato interessante emerso da questo studio è inoltre il fatto che i bambini con alimentazione selettiva consumano maggiormente, rispetto agli altri, prodotti confezionati come biscotti, snacks o patatine.

I ricercatori si sono spiegati questo fenomeno ipotizzando che le madri di questi bambini siano maggiormente permissive nel lasciarli consumare cibi appetibili ma poco sani, per compensare il basso introito di altri alimenti. Questo potrebbe spiegare anche la scoperta che i bambini di 14 mesi che mostrano un’ alimentazione selettiva non hanno un BMI alterato rispetto ai bambini di pari età. Tuttavia, come notato in diversi studi (Dubois et al., 2007; Ekstein et al., 2010) quando raggiungono l’età di 4 anni, questi bambini hanno un BMI più basso e risultano spesso in sottopeso. Questa ricerca ha mostrato anche differenze nel comportamento materno di nutrimento: le madri dei bambini più esigenti esercitano una maggiore pressione a mangiare. L’insistenza genitoriale però, oltre ad essere una reazione normale e comprensibile al rifiuto del bambino a mangiare, può avere anche un effetto controproducente sul bambino, abbassando il livello di divertimento e piacere associato al pasto; oltre a ciò la pressione da parte dei genitori a mangiare può generare ulteriore resistenza, portando i bambini a detestare proprio quei cibi (Birch et al., 1982). Le associazioni tra il modo di comportarsi dei genitori e i problemi alimentari del figlio potrebbero dunque rappresentare effetti bidirezionali di pattern comportamentali che sono stati sviluppati nel corso della prima infanzia (Kreipe et al., 2012).

Non è inusuale inoltre ritrovare che l’ alimentazione selettiva o il comportamento alimentare schizzinoso corrano nelle famiglie, in parte perché questa condizione è biologicamente e geneticamente determinata, in parte perché questa condizione può essere esacerbata da triggers ambientali riguardo al comportamento alimentare. Uno studio recente (Finestrella, 2012) ha riscontrato infatti una forte associazione tra le abitudini alimentari della madre e del figlio e tra la neofobia della madre e del figlio. Comunque l’esposizione, il modellamento e l’imitazione possono derivare anche dai pari ed essere facilitati dalla frequenza all’asilo nido o della scuola dell’infanzia (Heim et al.2009). Gli effetti del peer modelling possono essere negativi se viene osservato rifiuto per la frutta e i vegetali (Hendy et al., 2000) e questi effetti possono essere difficili da invertire (Greenhalgh, 2009).

Un’altra importante indagine sull’ alimentazione selettiva dei bambini, anche per quanto riguarda le varianti non patologiche, ha portato a concludere che i bambini tendono a richiedere circa 15 esposizioni ad un cibo prima che si fidino ad assaggiarlo (Wardle, Cornell & Cooke, 2005) ed un’altra decina di esposizioni per sviluppare una vera e propria preferenza (Wardle et al. 2003). Una ragione di ciò è legata all’espressione della neofobia, che, come già detto, è una una risposta evolutiva normale che tutti i bambini presentano intorno ai 2 anni, sviluppata per assicurare l’evitamento di cibi potenzialmente pericolosi o tossici (Dowey et al., 2008). Perciò offrendo ripetutamente un cibo inizialmente rifiutato, i genitori giocano un ruolo cruciale nel trasformare un cibo non usuale in uno familiare, diminuendo quindi questa risposta innata. Sfortunatamente molte famiglie non sono consapevoli di questo fenomeno e non associano il rifiuto alimentare a una fase normale dello sviluppo. Diverse ricerche su neonati di 6-9 mesi (Maier, Chabanet, Schaal, Leathwood, & Issanchou, 2007) e bambini di 2- 5 anni (Carruth & Skinner, 2000; Carruth, Ziegler, Gordon, & Barr, 2004) hanno mostrato che i genitori tipicamente rinunciano ad offrire un cibo rifiutato dopo 5 tentativi, quindi troppo presto affinché un bambino possa abituarsi.

Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione durante l’infanzia e successive problematiche

Molti autori hanno evidenziato una correlazione tra l’insorgenza infantile dei disturbi dell’alimentazione e successive difficoltà in età più avanzata. A tale proposito, Marchi e Cohen (1990) sottolineano la correlazione tra alimentazione selettiva nella prima infanzia e anoressia nervosa in adolescenza, mentre pica e difficoltà connesse ai pasti costituirebbero significativi fattori di rischio per lo sviluppo della bulimia nervosa. Sulla stessa linea, Kloter et al. (2001) associano comportamenti di rifiuto o avversione verso il cibo con lo sviluppo di disordini alimentari in età adulta. Inoltre, secondo Chatoor (2009) i disturbi alimentari con insorgenza infantile sono connessi anche a deficit nello sviluppo cognitivo, a problemi comportamentali e di ansia, oltre che a disturbi alimentari di varia natura in età più avanzate. Infine Whelan e Coopers, hanno dimostrato che le madri di bambini con problemi di alimentazione selettiva avevano un tasso marcatamente aumentato di disturbi alimentari attuali e pregressi.

Sembrerebbe, inoltre, che bambini con alimentazione selettiva presentino frequentemente un’ipersensibilità tattile e gustativa e siano maggiormente a rischio di sviluppare sintomi psichiatrici (ansia generalizzata, ansia sociale, sintomi depressivi) sia come co-diagnosi, sia durante tutto l’arco di vita. A ciò si aggiungerebbe un maggiore rischio di stress nel caregiver e di effetti negativi sulle relazioni familiari e sociali (Zucker et al., 2015).

Sulla base di tali evidenze risulta fondamentale, per prevenire i disturbi dell’alimentazione nelle prime fasi della vita, che operatori pediatrici e medici in generale divengano consapevoli dei bambini a rischio e prestino attenzione non solo a quei bambini che “cadono dalla curva di crescita” ma anche a quelli con genitori affetti da disturbi alimentari o quelli i cui genitori mostrano una persistente difficoltà a dar loro da mangiare.

L’ alimentazione selettiva: come intervenire

Innanzi tutto è importante interrogarsi e porre un occhio attento verso le manifestazioni del disagio del bambino, su due livelli diversi, uno più relazionale e uno più comportamentale. Il comportamento alimentare del bambino, non può infatti essere inteso solo come qualcosa da educare o omologare, ma anche come qualcosa da comprendere.

L’ alimentazione selettiva, come la neofobia, potrebbero essere l’espressione di una possibile disarmonia della sfera affettiva del bambino, di una fatica, di un malessere o di una difficoltà evolutiva e hanno il valore di messaggio. È quindi importante che i genitori possano osservare, valutare lo stato emotivo del bambino e capire da quanto tempo è presente il comportamento che li preoccupa. Genitori attenti possono comprendere se si tratta di un comportamento transitorio legato a un momento di particolare stanchezza o fatica del figlio (ad esempio l’ingresso del bambino all’asilo nido, la nascita di un fratellino, il rientro della mamma al lavoro…).

Poichè l’alimentazione e il momento del pasto sono sempre inseriti in una cornice relazionale, è importante evitare usi impropri del cibo da parte degli adulti, che rischiano di fare dell’atto nutritivo uno strumento di potere. Vengono quindi sconsigliati interventi intimidatori da parte dei genitori (“Se non mangi tutto chiamo il vigile che ti porta via”), ricattatori (“Se non finisci la pasta dopo non potrai giocare”) oppure mescolare il piano educativo con quello affettivo (“La mamma piange se tu non mangi”, “Sei un bambino cattivo perché non mangi e fai arrabbiare mamma e papà” oppure “Se non lo mangi dopo non ti leggo la storia”).

È utile invece includere una terza persona nell’offerta dei cibi ai bambini piccoli, rendendo possibile ai padri o ad altre persone della famiglia di entrare nel menage alimentare, introducendo modalità e dinamiche relazionali diverse. Questo accorgimento permette anche di valorizzare il pasto come momento conviviale, in cui ci si siede tutti insieme e si rispettano le regole della tavola; questo aiuta a far sì che il pasto non diventi uno scodellamento di alimenti, degradando il valore dell’atto alimentare.

All’interno di questo approccio all’ alimentazione selettiva possiamo inserire diverse ricerche che indagano come alcuni pensieri e di conseguenza comportamenti dei genitori, possono influenzare le condotte alimentari del bambino. Uno studio del 2013 (Russell et al.) ha mostrato che i genitori dei bambini più riluttanti a mangiare e più selettivi, preferivano spiegazioni legate a preferenze di gusto, che venivano considerate stabili, innate e immodificabili; questo spiegava anche la bassa autoefficacia percepita da questi genitori rispetto alla possibilità di cambiare le preferenze alimentari dei figli. Gli autori ipotizzano che se queste famiglie credessero di avere il potere di cambiare la selettività dei loro bambini, si potrebbero creare nuove abitudini alimentari. Suggeriscono perciò di iniziare a diversificare le pietanze proposte nei colori, odori e consistenza, utilizzando gli alimenti che il bambino già mangia e rispettando le spontanee inclinazioni mostrate dai figli.

Un altro suggerimento fornito dagli autori è eliminare la pressione a mangiare, sia alta che bassa; passare dunque dall’affermazione “Assaggialo e se non ti piace non devi mangiarlo”, che però i bambini selettivi percepiscono come: “Se ti piace, lo devi mangiare” a una proposta come: “Assaggia questo minuscolo chicco e dimmi cosa ne pensi”.

L’ultimo consiglio dato da Russell e Worseley è di focalizzarsi sull’educazione alimentare più che sul mangiare; esplorare il cibo è infatti più facile quando è completamente slegato dall’alimentarsi. È importante parlare del cibo in termini di gusto, aroma, apparenza, consistenza, temperatura, suono, origine, prima che i bambini ne mettano un boccone in bocca. Più informazioni sanno, più coraggiosi saranno. Anche il cucinare insieme può essere un’attività utile; se infatti l’obiettivo non è solo quello di far mangiare al bambino ciò che è stato preparato, può aiutare i figli a prendere maggiore confidenza e familiarità con gli alimenti. Questa attività inoltre soddisfa le esigenze affettive, la spontanea curiosità del bambino, il desiderio di sentirsi grandi e importanti, l’imitazione dei genitori e anche l’appetito.

Alimentazione selettiva e ortoressia

Ortoressia è un termine comparso per la prima volta nel 1997 e utilizzato negli ultimi anni dagli esperti dell’alimentazione per segnalare un’attenzione eccessiva rispetto al consumo di cibi sani e naturali. A rendere problematico tale atteggiamento sono le caratteristiche ossessive di ruminazione mentale sul cibo e di ricerca, selezione e consumo degli alimenti. È una patologia inclusa nel DSM 5 nel Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo e rimanda ad uno stile di vita che ruota completamente e persistentemente intorno ad una corretta alimentazione, tanto da influenzare la quotidianità dell’individuo. La focalizzazione è sulla qualità del cibo, sulle norme di controllo, con conseguente evitamento di tutte quelle situazioni sociali che non lo consentono. Così accade che una pratica alimentare salutista finisca per avere esiti problematici come l’isolamento sociale o la carenza nutrizionale.

Dunque, come è possibile discriminare una filosofia di vita da un disturbo del comportamento alimentare, quale l’ortoressia? A rendere difficile questa distinzione è la sovrapposizione, parziale o totale, degli aspetti fenomenici e direttamente osservabili, poiché una scelta accurata e selettiva degli alimenti può avere a che fare con l’adesione ad alcune pratiche culturali, ma può anche riguardare un rapporto di dipendenza dal cibo.

Esistono indicatori per cogliere la differenza? L’utilizzo dell’etichetta ortoressia, adatto più che altro nella comunicazione tra professionisti, non deve indurre a credere che sia possibile fare generalizzazioni. Infatti, la complessità di ciascun individuo non può essere ricondotta a criteri standardizzati né ridotta alla descrizione di un sintomo. È comunque possibile fare riferimento a criteri psicologici che consentano di cogliere i campanelli d’allarme di uno stile alimentare patologico. Nel caso specifico, alla base dell’ortoressia può esserci la paura di ingrassare o di non essere in perfetta salute, talvolta connesse ad una percezione distorta della propria immagine corporea: la paura assume le caratteristiche di un’ossessione per il cibo, il quale perde spesso la sua funzione di appagamento e diventa un veicolo per esercitare controllo e alleviare la tensione.

A ciò si associa un allontanamento dalla dimensione del piacere che viene sostituita da quella del sollievo, possibile grazie alla rigidità delle regole e all’accuratezza della pianificazione alimentare. Comportamenti di questo tipo necessitano di una particolare attenzione agli ingredienti di ciascun cibo, di un’ispezione dettagliata delle etichette. Interviene inoltre una componente psicologica importante: entro una simbolizzazione del contesto del tipo “buono-cattivo”, gli alimenti non conosciuti o non accettati vengono vissuti come cattivi e in quanto tali minacciosi. Così, chi soffre di ortoressia arriva a privarsi di qualsiasi situazione sociale che possa ostacolare la conoscenza dei cibi e la ricerca di un’alimentazione sana e, sostanzialmente, quella che sembrerebbe una scelta finisce per diventare una gabbia, una torre di controllo e di rinuncia al confronto e allo scambio, a garanzia della propria sicurezza.

È bene evidenziare che non soltanto l’attenzione al cibo sano può avere alla base un disturbo del comportamento alimentare. Esistono infatti altre pratiche, sempre più condivise, che possono nascondere un disturbo pur non avendo nulla a che fare con una dimensione patologica. È il caso, ad esempio, del breatharianismo (o respirarianesimo), una pratica collegata all’ascetismo orientale e secondo la quale è possibile nutrirsi di solo “prana”, una specie di nettare prodotto dalla respirazione che consente di apportare al corpo le necessarie energie senza bisogno di mangiare e, in alcuni casi, di bere. Ancora, chi pratica sungazing (o HRM) riferisce la possibilità di nutrirsi esclusivamente di “sole”, attraverso l’osservazione diretta di quest’ultimo. Entrambe le pratiche prevedono il digiuno o una forte limitazione nell’assunzione di cibo e liquidi. Le conseguenze fisiche correlate possono essere la disidratazione, la perdita di peso e, nelle donne, l’amenorrea, condizioni riscontrabili anche nell’anoressia nervosa.

In generale, è possibile distinguere una scelta alimentare sana da una invece patologica? Quando uno stile alimentare può essere considerato “normale”? Se si pensa alla patologia secondo un modello dimensionale è impossibile parlare di normalità, dunque è impossibile discriminare in modo dicotomico sanità e patologia. È però possibile cogliere la problematicità e la disfunzionalità di alcune situazioni in base al grado di flessibilità che propongono e, in altre parole, un comportamento alimentare può essere considerato patologico quanto più assume caratteristiche di rigidità. Ecco allora che la stessa pratica alimentare può essere sana o patologica: la differenza starà nella modalità con cui viene messa in atto, nel significato che le si attribuisce, nei simboli che il cibo veicola. È importante quindi interrogarsi sulla funzione specifica che il cibo ricopre e porre attenzione a quei comportamenti che, seppure comuni o condivisi, possono essere importanti segnali se colti in tempo.

Nei disturbi del comportamento alimentare il cibo viene infatti utilizzato per comunicare un disagio difficile da esprimere altrimenti e in questo senso la riflessione proposta non ha il fine di demonizzare alcune pratiche alimentari piuttosto che altre, ma quello di accendere una luce sulla possibilità che alcuni disagi possano trovare nascondiglio e rifugio dietro un’appartenenza culturale legittimante e al tempo stesso rassicurante.

Equilibrio emozionale, affetti e cognizioni

L’ equilibrio emozionale è stato oggetto di studio e di interesse da parte di diversi autori (Wong, 2010); i quali hanno preso in considerazione gli affetti e le cognizioni (Schwartz, 1993). 

 

Questi due concetti si influenzano reciprocamente (Halgin & Whitbourne, 2008) e gli studiosi, per studiare l’ equilibrio emozionale, li hanno sovrapposti (Schwartz, 1993).

Nonostante tale sovrapposizione, è importante saperli distinguere:

  • gli affetti, si riferiscono ad emozioni, umori e sentimenti;
  • le cognizioni, corrispondono alle credenze, aspettative e ai pensieri (Schwartz, 1993).

Secondo il modello dell’equilibrio cognitivo, il benessere è dato da un equilibrio delle cognizioni positive e negative (Wong, 2010).

Equilibrio emozionale: gli studi

Dagli studi di Johnson e Wood (2016) è stato riscontrato che la condizione di salute è data dalla presenza di un equilibrio complesso tra le caratteristiche psicologiche positive e quelle negative.

La Fredrikson e Losanda ritengono che per la condizione di flourishing (prosperità/floridezza) e per superare la tossicità degli affetti negativi, dev’esserci un rapporto di 2.9:1 di emozioni positive a negative (Ruini, 2017).

Quindi, le esperienze di emozioni positive dovrebbero superare quelle negative con un rapporto di circa 3 (Ruini, 2017).

Tuttavia, le autrici hanno calcolato che un rapporto di 11.6 a 1 andrebbe a caratterizzare un’eccessiva elevazione dell’umore, che la trasforma in patologica, nonostante ciò questo modello è stato fortemente criticato e risulta essere empiricamente inconsistente (Ruini, 2017).

Equilibrio emozionale: come viene studiato

Gli approcci che studiano questo argomento hanno in genere misurato la frequenza, o in alcuni casi l’intensità, delle cognizioni e degli affetti, utilizzando delle strategie di assessment cognitivo-comportamentale (Merluzzi, Glass, & Genest, 1981), che comprendono: una lista di controllo di cognizioni / affetti positivi e negativi, su quali soggetti indicano (su scala Likert) la misura in cui hanno vissuto varie cognizioni e affetti dopo una specifica situazione stressante (Schwartz, 1993); un elenco dei pensieri, in cui i soggetti scrivono i loro pensieri e sentimenti in risposta a situazioni precedentemente sperimentate (Schwartz, 1993); ed infine esporre ad alta voce i loro dialoghi mentali, in modo tale che si possano registrare durante la situazione comportamentale (Schwartz, 1993).

Il rapporto o il saldo viene calcolato dalla somma degli elementi positivi e negativi approvati nelle liste di controllo o nella frequenza dei conteggi, che derivano dall’elenco dei pensieri o dai protocolli parlanti ad alta voce (Schwartz, 1993).

Una ricerca cognitivo-comportamentale, che ha utilizzato le suddette tecniche, ha valutato le cognizioni e gli affetti positivi e negativi, gli individui privi di patologia mantenevano approssimativamente un rapporto 1,7 a 1 tra cognizioni e affetti positivi e negativi e che le deviazioni da questo equilibrio erano associate alla psicopatologia (Schwartz, 1986).

Equilibrio emozionale e modello degli Stati della Mente (SOM)

Secondo il modello degli stati della mente (SOM, States of Mind) il benessere è dato anche in questo caso da un equilibrio tra le emozioni positive e negative; in percentuali la condizione di equilibrio emozionale, quindi anche di funzionamento psicologico (Wong, 2010), è data dal 62% di cognizioni o affetti positivi (Ruini, 2017).

Inoltre, il modello SOM propone cinque categorie di self-talk (Garamoni & Schwartz, 1989).

Il dialogo positivo SOM è considerato ottimale per l’adattamento psicologico ed è definito da un rapporto in cui i pensieri positivi sono rappresentati a .62 ± .06 (Treadwell & Kendall, 1996). La categoria del dialogo negativo è caratterizzata da rapporto positivo / negativo di .38 ± 0,06. Caratteristiche cliniche associate del Dialogo Negativo includono ansia moderata o depressione. La categoria Dialogo Interno di Conflitto (un rapporto pari a 0,5 ± 0,05) è associata a insicurezza, preoccupazione e mitezza, ansia o depressione (Treadwell & Kendall, 1996).

Il soggetto può inoltre presentare dei punteggi SOM o eccessivamente alti o eccessivamente bassi.

I soggetti che presentano punteggi eccessivamente alti (SOM ≥.69), rientrano nella categoria di monologo positivo; caratterizzato da affermazioni positive (Treadwell & Kendall, 1996). In questi casi possono essere presenti mania, grandiosità e impulsività (Treadwell & Kendall, 1996) e se protratto nel tempo potrebbe esitare nella negazione patologica (Schwartz, 1993).

I soggetti che, invece, presentano punteggi eccessivamente bassi (SOM ≤.31), rientrano nella categoria di Monologo negativo; caratterizzato da auto-affermazioni negative. In questi casi possono essere presenti sintomi di depressione grave o acuta (Treadwell & Kendall, 1996) e panico (Schwartz, 1993).

Gli esseri umani vengono percepiti come individui che si adattano e lo fanno per mezzo di complessi processi di feedback per risolvere le polarità in conflitto per mantenere un ottimale equilibrio tra stati estremi (Schwartz, 1993).

Il modello SOM considera la persona come un sistema che è in grado di autoregolarsi autonomamente, infatti, cerca di integrare le polarità positive e negative che sono in conflitto, per creare una condizione di equilibrio emozionale (Schwartz, 1993).

Una coscienza perfettamente equilibrata può concentrarsi principalmente sul presente, con proporzioni minori di consapevolezza distribuita tra passato e futuro (Schwartz, 1993). Le persone depresse possono proiettarsi eccessivamente (oltre che negativamente) nel passato, mentre le persone ansiose possono proiettarsi nel futuro (Schwartz, 1993).

Equilibrio emozionale: quando è positivo?

Gli approcci di equilibrio sono convertibili indipendentemente dal risultato ottenuto, tuttavia gli individui normali mantengono un preciso equilibrio tra positività e negatività (Schwartz, 1993).

Per affrontare eventi di vita stressanti in modo adeguato è opportuno che l’individuo presenti il 62% di emozioni e cognizioni positive (Schwartz, 1993).

Pertanto, si presume che in caso di patologia il valore può andare al di sotto o al di sopra del 62%; infatti sia negativo (valori minori del 62%) che eccessivamente positivo (valori maggiori del 62%) (Schwartz, 1993).

Questo modello riflette la teoria della mente di Lefebvre; la quale ritiene che gli esseri umani possiedono un computer interno che permette loro di regolare il rapporto delle proprie emozioni e dei propri pensieri positivi e negativi nei vari contesti in cui si trovano (Ruini, 2017).

I processi di regolazione emotiva sia positiva che negativa possono essere descritti funzionalmente utilizzando l’algebra di Bolean, in quanto si vuole dimostrare che la mente ha un “meccanismo algebrico interno” per modellare giudizi dicotomici come auto-altro e positivo-negativo che, in circostanze particolari, genera il valore teorico del 62% (Ruini, 2017).

Il bilancio tra affettività o cognitività positiva e negativa si ottiene con il rapporto di pensieri positivi con la somma di pensieri positivi e negativi (Wong, 2010), ottenendo la seguente formula: p/ [p + n] (Ruini, 2017).

Nello specifico, si può osservare che il rapporto da 1,7 a 1 delle cognizioni positive a negative osservate nella letteratura cognitivo-comportamentale (descritta all’inizio), se calcolato come rapporto tra cognizione positiva e cognizione positiva e negativa, si avvicina molto al valore 62% (Positivo / Positivo + Negativo = 1.7 / [1.7 + 1.0] = 1.7 / 2.7 = 0.629.., quindi 63%) (Schwartz et all., 1993).

Questi valori rappresentano l’esito probabile della risposta positiva individuale all’ambiente (Ruini, 2017).

Per poter calcolare i valori, che dipendono sia dalle situazioni sia dalle risposte personali, si utilizza 1, che riguarda gli stati mentali positivi e 0, invece, riguarda gli stati mentali negativi (Ruini, 2017).

Un certo numero di studi ha rilevato che le persone che presentano un valore di bilancio di .62 può rappresentare uno stato mentale anormale associato ad un affronto con successo di situazioni negative e stressanti (Fasiczka, et al., 2002).

Equilibrio emozionale: il Modello degli Stati Mentali Bilanciati

In risposta ai risultati precedentemente esposti, Schwartz (2002) ha sostituito il modello SOM originale con un modello degli stati mentali bilanciati (BSOM) riformulato e basato sul modello matematico di coscienza (Lefebvre, 1985, 1990), precedentemente descritto.

Un importante cambiamento nel modello riformulato è che l’insieme originale del dialogo positivo (.62) non viene più considerato un valore corrispondente al benessere dell’individuo (Wong, 2010).

Il nuovo modello distingue, infatti, dei valori che partono da strategie di un umore severamente negativo e basso (SOM= .50) a strategie con stress (SOM= .62), ad un normale funzionamento (SOM= .72), funzionamento ottimale (SOM= .81), umore fortemente positivo (SOM= .87), quest’ultimo caso è legato all’eccesso di positività che è associato con rifiuto, grandiosità e stati maniacali (Ruini, 2017).

Un crescente numero di ricerche ha confermato che l’eccesso di emozioni negative è problematico e caratterizza i pazienti che presentano depressione e ansia, tuttavia ci sono pochi studi in letteratura che indagano il ruolo tossico che ricopre un eccesso di emozioni positive e la mancanza di una relazione equilibriata con una negatività appropriata e funzionale (Ruini, 2017).

Nonostante la mancanza di ricerche su questo ambito un’adeguata presenza di emozioni positive sono degli elementi importanti per la condizione di flourishing (Ruini, 2017).

Il ruolo dell’olfatto nella relazione affettiva

Quale ruolo gioca l’ olfatto nel mantenimento di una relazione sentimentale? Gli esseri umani, cosi come le altre specie che abitano il pianeta, hanno avuto necessità di dispositivi endogeni in grado di fornire informazioni utili a decifrare l’ambiente circostante, per interagire con questo in funzione delle sue caratteristiche peculiari e per svolgere tutte quelle attività che ne assicurano la sopravvivenza.

 

Così, la conformazione dell’occhio di un’aquila le consente di percepire la variazione cromatica ed il movimento di una preda a più di 3,5 km di distanza; l’ecolocalizzazione consentita dal radar dei pipistrelli permette loro di muoversi e cacciare nel buio totale; l’udito sopraffino della tarma della cera (dai 30 ai 300kHz) si è evoluto per consentirle di sfuggire al suo predatore più temibile, captando frequenze inconcepibili per l’orecchio umano (che si assesta sui 30 kHz).

Per lungo tempo si è guardato alla nostra specie come svantaggiata dal punto di vista sensoriale, se messa a confronto con l’arsenale altamente performante di altri animali: è questo il caso per quanto riguarda la nostra capacità olfattiva.

Olfatto: quanto è sviluppato il nostro rispetto a quello degli animali?

Le dimensioni del nostro bulbo olfattivo sono notevolmente ridotte se confrontate con quelle delle altre specie, motivo che ha spinto il neurologo Paul Broca nell’Ottocento, ad ipotizzare un’atrofizzazione di tale area in favore dei lobi frontali, sedi del linguaggio e del pensiero, evolutivamente più recenti e pivotali nell’evoluzione della nostra specie. Studi di genomica dei primi anni duemila sembrarono ulteriormente supportare tale concezione, riscontrando come su 1000 geni che codificano recettori olfattivi, solo 390 diventassero realmente attivi, rimanendo tutti gli altri degli “pseudogeni” non trascritti. Contrariamente a tali premesse, oggi riconosciamo all’Uomo una capacità osmica che è stimata sul triliardo di tracce olfattive, ampliando non solo la gamma di odori riconosciuti, ma anche le informazioni che tali tracce veicolano e da ultimo, il ruolo che l’ olfatto possa giocare nella nostra esistenza.

Olfatto: quanto incide nella scelta del partner

Una recente review a opera di Mahmut & Croy (2019) ha avuto il merito di raccogliere le conclusioni di innumerevoli studi che si sono proposti di indagare il ruolo degli odori corporei nelle varie fasi di una relazione sentimentale, sia in soggetti dall’ olfatto inalterato che in individui anosmici o iposmici (condizioni congenite o acquisite). Il primo stadio, quello della selezione del partner, favorisce l’utilizzo delle informazioni veicolate dagli odori corporei, grazie anche alla vicinanza fisica ricercata attivamente dai membri della coppia in questa fase. Lübke, Hoenen & Pause nel 2012 hanno riscontrato come individui dal differente orientamento sessuale mostrassero pattern di attivazione cerebrale maggiori nell’annusare una maglietta impregnata del sudore di un individuo compatibile con le proprie preferenze, discriminando con successo un potenziale match; oltre al sesso del potenziale partner, il sudore contiene altre informazioni rilevanti nella scelta di un compagno, come il suo profilo immunologico, ovvero la capacità di combattere i patogeni inscritta nel suo DNA: in natura viene generalmente favorito l’accoppiamento tra esemplari con un Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC) dissimile.

Wedekind, Seebeck, Bettens e Paepke (1995), così come Havlíček, Roberts e Flegr (2005) hanno confermato la capacità delle donne umane di discriminare tale caratteristica basandosi su tracce olfattive; inoltre, diversi studi (Wedekind et al., 1995; Roberts, Gosling, Carter & Petrie, 2008; Sorokowska, Pertowski, Schafer, Kromer, Schmidt, Sauter…et Croy, 2018) hanno scoperto come tale capacità risulti mediata nella popolazione femminile dall’assunzione di contraccettivi orali ormonali. Sebbene sia ancora dibattuto il ruolo del testosterone maschile nell’influenzare la preferenza osmica nella donna, sembrerebbe chiara una netta tendenza nello scegliere gli odori corporei di uomini dall’aspetto “dominante”, preferenza che fluttua in funzione dello stato coniugale della donna in questione e dalla fase dell’estro in cui essa si trova. Conversamente, Singh & Bronstad (2004), Havlíček, Dvořáková, Bartoš & Flegr (2006), Gildersleeve, Haselton, Larson & Pillsworth (2012), hanno riscontrato come l’uomo abbia una netta preferenza per l’odore delle donne che si trovino in fase ovulatoria rispetto a qualsiasi altra fase del ciclo mestruale.

Olfatto: ci aiuterebbe a scegliere un partner sano

Ancora, il sudore contiene informazioni sullo stato di salute dell’individuo, così come riscontrato da Olsson, Lundström, Kimball, Gordon, Karshikoff, Hosseini, Sorjonen, Olgart Höglund,Solares & Soop (2014), che hanno iniettato endotossina (composto che segnala la presenza di un infezione) in soggetti altrimenti sani, ottenendo quella che può essere vista come una “risposta immunitaria comportamentale”, ossia una risposta di evitamento dei presunti malati da parte dei soggetti sperimentali. In soggetti con anosmia e iposmia sia congenita che non, sono stati riscontrati tassi di depressione e di disagio sociale maggiore rispetto ai soggetti normodotati, così come un ridotto desiderio sessuale (Gudziol, Wolff‐Stephan, Aschenbrenner, Joraschky & Hummel, 2009; Schäfer, Mehler, Hähner, Walliczek, Hummel & Croy, 2019). Questo è in linea con la letteratura, che vede gli incontri sessuali valutati più positivamente da parte di quei partecipanti con un’acuità olfattiva maggiore (Bendas, Hummel, Croy, 2018).

La fase di mantenimento ha invece un focus differente, incentrato sulla costruzione dell’intimità emotiva, investimento relazionale sul lungo termine e senso di sicurezza: gli studi riportati da Mahmut e Croy decretano come la maggioranza degli individui (77%) abbia in questa fase valutato l’odore del proprio partner come gradevole o molto gradevole (Croy, Frackowiak, Hummel & Sorokowska, 2017), preferendolo inoltre all’odore di estranei (Sorokowska, Pietrowski, Schäfer, Kromer, Schmidt, Sauter,… & Croy, 2018), tanto da avere un effetto calmante e rassicurante, se usato in modo consolatorio, ad esempio annusando indumenti o cuscino del partner in sua assenza (McBurney, Shoup & Streeter, 2006). Un ulteriore ruolo degli odori potrebbe essere quello di mediare la sintonizzazione emotiva tra gli individui: Prehn-Kristensen, Wiesner, Bergmann, Wolff, Jansen, Mehdorn, Ferstl & Pause (2009) hanno riscontrato come essere esposti a del sudore prodotto durante uno stato ansioso elicitasse nei soggetti sperimentali un’attivazione di quelle regioni che modulano una risposta empatica (e.g. insula, corteccia cingolata), contrariamente a quanto avvenisse in presenza di sudore da sforzo; o come dimostrato da Gelstein, Yeshurun, Rozenkrantz, Shushan, Frumin, Roth & Sobel (2011), l’esposizione al solo odore di lacrime di soggetti femminili pare essere in grado di deflettere l’arousal, abbassare il livello di testosterone e in generale di ridurre l’attivazione delle aree che modulano l’attivazione sessuale nell’uomo.

Olfatto: quando finisce una relazione sentimentale, anche l’odore ha il suo peso

Sebbene ancora non vi siano stati studi specifici sul ruolo degli odori corporei nella fase di interruzione di un rapporto, l’expertise di terapeuti di coppia e psichiatri riporta aneddoticamente di come sul termine della relazione sentimentale sia estremamente comune che un partner non tolleri più l’ odore del (ex)compagno: potrebbe in questo caso trattarsi di un “effetto alone negativo”, laddove caratteristiche temperamentali e personologiche che risultano insostenibili rendono intollerabile anche l’ odore della persona stessa. Basandoci sulla letteratura fin qui citata, la gradevolezza di un odore può essere influenzata da oscillazioni ormonali (ad esempio un contraccettivo orale), indizi di malattia ed altri fattori, ma è facile intuire come l’esperienza soggettiva di disgusto, seppure non computato razionalmente, possa da ultimo spingere all’evitamento del contatto fisico e dell’intimità sessuale (Andrews, Crone, Cholka, Cooper & Bridges, 2015), con prevedibili ripercussioni nefaste sul rapporto, incrementando inoltre la possibilità di ingaggiare in relazioni extra-diadiche.

Il mondo Occidentale sembra aver ingaggiato una guerra contro gli odori, che vengono quotidianamente neutralizzati e coperti da fragranze artificiali per il corpo, per gli indumenti, per gli ambienti: i risultati raccolti da Mahmut e Croy (2019), svelano invece, con le dovute limitazioni dovute ai rispettivi disegni sperimentali, come l’ olfatto giochi un ruolo cruciale nella nostra vita sociale ed interpersonale, che resta ancora ampliamente da svelare in ricerche future.

I mille volti del drop out

I pazienti se ne vanno. Succede. Non possiamo fingere che nessuno ci abbia mai lasciati così all’improvviso, magari in malo modo e soprattutto che la cosa sia passata sottecchi.

 

Il drop out è, infatti, il fenomeno secondo il quale il paziente abbandona la terapia prima che essa si concluda o comunque prima che si raggiungano gli obiettivi prefissati e può succedere tanto in terza seduta tanto alla 101esima.

Interruzione prematura della terapia: come si sente il terapeuta?

Quello che possiamo chiederci, però, è come ci sentiamo noi terapeuti quando questo si verifica. Abbandonati? Arrabbiati? In colpa? Intimoriti? Beh, ognuna di queste emozioni la dice lunga, su di noi ovviamente. Se, infatti, riuscissimo ad identificare l’emozione che ne segue e ci lasciamo guidare da essa verremmo a capo di cose interessanti. Ma fermiamoci e ragioniamo un attimo: il drop out è un evento che riguarda tutti e due gli elementi della relazione terapeutica. Quando il fidanzato ci molla, è davvero sempre e solo colpa sua? Quando il coinquilino se ne va perché non gli piace più condividere l’appartamento con noi, siamo davvero certi che non abbiamo contribuito a questo addio oppure era davvero solo una sua esigenza di spostarsi in una casa più grande?

Al di là di come l’addio in questione risuoni dentro noi, e delle modalità con sui esso si è esplicato, l’aspetto più importante riguarda la sua gestione. Nella mia pratica clinica ho provato ad identificare diversi tipi di drop out: ci sono pazienti che spariscono e non rispondono più al telefono (a volte tornano dopo mesi ma altre volte no); ci sono quelli che riferiscono che non vogliono più proseguire con le sedute e poi ci sono quei pazienti che richiedono la pausa di riflessione.

Drop out in terapia: alcune esperienze

G. era una mia paziente con Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP). Nella concettualizzazione del caso, come spesso accade, avevamo notato due schemi, uno sovra e uno sotto ordinato. G. aveva lavorato molto sul suo bisogno di sentirsi apprezzata ma nel comprendere che dietro quel bisogno ve ne era un altro che viaggiava sul sistema motivazionale dell’attaccamento, la terapia ha preso una piega diversa e G. ha cominciato a vacillare per il troppo dolore e mi ha chiesto una pausa. Mi sono chiesta, in primis, se fosse un problema relazionale, ovviamente. Ma sinceratami che non ci fosse alcuna rottura non ho potuto fare altro che validarla. Mi sono assicurata che avesse compreso e consolidato gli obiettivi raggiunti fino a quel momento e che fosse consapevole di cosa ci fosse dietro quella decisione. Ho sentito G. alcune volte tramite messaggio dopo l’interruzione, ma la terapia ad oggi è sospesa. Con M. è successo più o meno lo stesso: nel mezzo del lavoro sulle memorie traumatiche di una infanzia basata su abusi e violenza, mi dice che vuole fermarsi. Con lui, però, abbiamo ripreso dopo un mese. Meglio di prima, direi. T., invece, dice che non vuole più continuare la terapia, che si sente devitalizzato in questo periodo e non tollera il percepirsi così anche nelle nostre sedute. A quel punto lo invito per una seduta, eventualmente conclusiva per capire insieme a lui il motivo di quella scelta; non era importante che riprendesse davvero la terapia ma che fossimo coscienti di quello che era successo. Ed infine, considerato che la terapia è pur sempre una relazione di aiuto che si muove sul registro della responsabilità della cura, sentivo che era mio dovere dire cosa ne pensavo io, se fossi d’accordo o meno. Ovviamente se il terapeuta è in grado ed ha la possibilità di ricondurre tutto questo materiale allo schema del paziente (Dimaggio et al, 2013) restituirebbe un’ultima seduta davvero importante perché tradurrebbe l’intenzione di lasciare la terapia in base ad aspetti di un funzionamento interno. Ricordo che una volta, con una comunicazione del genere, un paziente mi disse che non si era mai sentito compreso come in quel momento e decise di non andarsene più: notare che quel voler mollare era legato ai suoi coping e lo aiutò a rivedere la procedura.

Drop out: può essere questione di motivazione

Poi ci sono i pazienti che puf…non vengono alla seduta concordata, non avvisano e non c’è più modo di sentirli dopo l’interruzione. Lì restiamo con mille dubbi su mille aspetti e le pensiamo un po’ tutte: problema relazionale? errore tecnico? studio brutto? poltroncina scomoda? altro terapeuta? problemi a lavoro o economici? Beh, possiamo rifletterci un po’, provare ad escludere almeno le prime due opzioni ma non ne avremo mai la certezza così come non sapremo mai perché il paziente in questione non ha condiviso con noi quello che aveva maturato nella sua mente prima ed agito in terapia poi. Anche rispetto a questo ci potrebbero essere mille spiegazioni: vergogna? Paura? Paura di cosa? Del giudizio? Di ferirci? Di deluderci? Oppure semplicemente scarsa motivazione (questo lo si vede bene nei pazienti inviati da terze persone) o sintomatologia troppo attiva? Questi ultimi fattori, e gli studi lo dimostrano bene, impattano notevolmente sulla compliance al trattamento quindi, a quel punto, potremmo farci ben poco.

Infine, ci sono i pazienti che ammettono, apertamente, che la terapia non gli piace, che non si sentono a loro agio, che non vedono miglioramenti. Possono addirittura dirci che siamo noi a non piacergli. Anche lì, in primis, se abbiamo abbastanza elementi, proviamo a riportare la questione sul funzionamento. Se ce la giochiamo bene e siamo bravi ad esplorare insieme al paziente, forse alla fine non se ne va davvero. Un’ultima situazione che a volte ho vissuto è quella con il paziente che vuol cambiare terapeuta: dopo averne esplorato le motivazioni, consigliare un eventuale collega, ha sempre avuto un notevole impatto nel paziente che sente che non ci mettiamo a difendere la nostra posizione a denti stretti.

Drop out: quando l’errore è del terapeuta

Per finire, c’è lui, il drop out da errore terapeutico. Come dimenticare quel mio paziente con cui, presa dalla mia necessità di dare prova della mia bravura, gli mostrai il suo ruolo nei cicli interpersonali senza avergli neppure ancora parlato di schema. Eppure so bene che i cicli interpersonali sono un argomento da tenere in riserva per fasi avanzate di terapia!!! Lì me lo potevo aspettare. Il paziente spostò per tre volte appuntamento e poi mi disse che sarebbe partito per lavoro per un tempo indeterminato. In quel caso, però mi ha ricontattato e l’ho rivisto dopo 10 mesi. Ripartimmo da lì, dal mio errore. Dalla sua depressione dopo aver creduto che fosse colpa sua se gli altri lo allontanavano e dal mio spiegargli cosa fosse successo nella mia mente in quella seduta. Ripartimmo da quell’evento, incorso 10 mesi prima ma ancora vivo come se fosse accaduto la settimana precedente. È in casi come questo che mi viene in mente Gazzillo che ci rincuora quando dice che siamo comunque esseri umani e non macchine perfette e nell’incontro con l’altro possono succedere tante cose tra le quali anche la mancata sintonizzazione (Gazzillo, 2016).

Questo è il mondo degli abbandoni terapeutici. Un unico fenomeno, mille chiavi di lettura. Il fascino della psicoterapia mi stupisce ancora. Quello che sento molto forte è la necessità di provare a tollerare frustrazioni ed incertezze, di mettersi sempre in gioco e di essere davvero aperti mentalmente. Tanta supervisione, in questi casi, aiuta e non poco per sviluppare una buona capacità di disciplina interiore. Unitamente a questo aspetto, credo che la riflessione principale debba soffermarsi sugli aspetti del funzionamento del terapeuta e su quello del paziente che a volte si incastrano meravigliosamente ed altre volte, invece, in modo problematico. Questione di cicli interpersonali, direi! A questo punto potremmo chiederci addirittura se esistono delle classi di pazienti con cui abbiamo più difficoltà a lavorare. Se ad esempio tutti i pazienti evitanti droppano, forse ci sarà un qualche fattore che non riusciamo a tenere sotto controllo. Individuarlo è il primo step, cercare di risolverlo e di non incapparci potrebbero essere i successivi.

Relazione tra Disturbo Schizotipico di Personalità e schizofrenia: dati di neurobiologia e neuropsicologia

Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (2014) vengono classificati all’interno dei disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici tutti quei disturbi che presentano anomalie psicopatologiche in almeno uno dei seguenti ambiti: allucinazioni, deliri, pensiero disorganizzato (eloquio), comportamento motorio grossolanamente disorganizzato o anormale e sintomi negativi.

Marcuzzo Cinzia, Prezza Chiara, Tresso Nicole

 

Schizofrenia: le caratteristiche del disturbo

La schizofrenia è definita dai seguenti criteri diagnostici:

A. Due (o più) dei seguenti sintomi, ciascuno presente per una parte di tempo significativa durante un periodo di 1 mese. Almeno uno di questi sintomi deve essere 1), 2) o 3)

  1. Deliri
  2. Allucinazioni
  3. Eloquio disorganizzato
  4. Comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico
  5. Sintomi negativi

B. Per una significativa parte di tempo dall’esordio del disturbo, il livello del funzionamento in una o più delle aree principali è marcatamente al di sotto del livello raggiunto prima dell’esordio

C. Segni continuativi del disturbo persistono per almeno 6 mesi. Questo periodo deve comprendere almeno 1 mese di sintomi che soddisfano il criterio A e può comprendere periodi di sintomi prodromici o residui. Durante questi ultimi periodi, i segni del disturbo possono essere evidenziati soltanto da sintomi negativi o da due o più sintomi elencati nel criterio A presenti in forma attenuata

D. Il disturbo schizoaffettivo e il disturbo depressivo o il disturbo bipolare con caratteristiche psicotiche sono state esclusi

E. Il disturbo non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o a un’altra condizione medica

Le persone con diagnosi di schizofrenia possono presentare affettività inadeguata, un umore disforico, un ritmo sonno-veglia disturbato e mancanza di interesse per l’alimentazione o rifiuto del cibo. Comune è anche la presenza di deficit cognitivi che possono interessare la memoria dichiarativa, la memoria di lavoro, il linguaggio e le funzioni esecutive. Tali deficit possono comportare importanti compromissioni funzionali e professionali. L’esordio del disturbo generalmente avviene tra la tarda adolescenza e i 45 anni.

Disturbo Schizotipico di Personalità: le caratteristiche

Pur rientrando tra i disturbi dello spettro della schizofrenia, il disturbo schizotipico di personalità si distingue dalla schizofrenia per i sintomi sottosoglia che sono associati a caratteristiche di personalità persistenti. Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (2014), un disturbo di personalità può essere definito come un pattern costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, è pervasivo e inflessibile, esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio o menomazione. Il disturbo schizotipico di personalità è definito dai seguenti criteri diagnostici:

A. Un pattern pervasivo di deficit sociali e interpersonali caratterizzato da disagio acuto e ridotta capacità riguardanti le relazioni affettive, da distorsioni cognitive e percettive ed eccentricità di comportamento, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:

  1. Idee di riferimento
  2. Convinzioni strane o pensiero magico che influenzano il comportamento e sono in contrasto con le norme culturali
  3. Esperienze percettive insolite, incluse illusioni corporee
  4. Pensiero ed eloquio strani
  5. Sospettosità o ideazione paranoide
  6. Affettività inappropriata o limitata
  7. Comportamento o aspetto strani, eccentrici o peculiari
  8. Nessun amico stretto o confidente
  9. Eccessiva ansia sociale

B. Non si manifesta esclusivamente durante il decorso della schizofrenia, di un disturbo bipolare o depressivo con caratteristiche psicotiche, di un altro disturbo psicotico o di un disturbo dello spettro dell’autismo.

Il disturbo schizotipico di personalità può manifestarsi per la prima volta nell’infanzia e nell’adolescenza attraverso solitudine, scarse relazioni con i coetanei, ansia sociale, rendimento scolastico inadeguato, ipersensibilità, pensieri e linguaggio peculiari e fantasia bizzarre.

Schizofrenia e disturbo schizotipico: aspetti in comune e differenze

La relazione tra disturbo schizotipico di personalità e schizofrenia è stata oggetto di molti studi: studi di familiarità genetico-epidemiologici, studi fattoriali e dimensionali, studi neurobiologici e neuropsicologici (Bellino, Rinaldi, Brunetti, Cremasco & Bogetto, 2013). Ad esempio lo studio di Moreno Samaniego (et al., 2011) ha rilevato nei familiari di pazienti psicotici elevati livelli di caratteristiche schizotipiche, ciò ha permesso di ipotizzare l’esistenza di una familiarità per il disturbo.

Considerando l’importanza della correlazione genetica tra disturbo schizotipico di personalità e schizofrenia e quindi la presenza di una presumibile condivisione di alterazioni biologiche, sono stati svolti numerosi studi per ottenere evidenze di tipo neurobiologico. Attraverso l’uso di tecniche di brain-imaging si è cercato quindi di evidenziare elementi comuni fra i due disturbi. Diversi studi hanno riportato anomalie cerebrali simili, ma attenuate, confrontando soggetti con disturbo schizotipico di personalità e soggetti con schizofrenia: differenze nella forma del corpo calloso (Downhill et al., 2000) anomalie talamiche (Byne et al., 2001).

Il gruppo di lavoro composto da Dickey e collaboratori (1999) ha rilevato un minor volume della materia grigia nel giro temporale superiore sinistro in pazienti con disturbo di personalità schizotipico e in pazienti schizofrenici, un’area importante per l’elaborazione del linguaggio. Nel 2002 hanno deciso di indagare due componenti del giro temporale superiore: il giro di Heschl e il Planum temporale (Dickey et al., 2002).

Hanno acquisito le scansioni MRI di 21 soggetti con disturbo di personalità schizotipico (diagnosi effettuata sulla base dei criteri del DSM-IV) che non usavano farmaci neurolettici e di 22 soggetti di controllo simili per età.

Tutti i soggetti erano destrorsi, di età compresa tra i 18 e i 55 anni, non avevano una storia di malattia neurologica né una dipendenza da alcol o droghe, non presentavano una storia di disturbo psicotico o disturbo bipolare. Inoltre, i soggetti di controllo non dovevano presentare una storia di malattia mentale né difficoltà di apprendimento. Ai partecipanti è stata somministrata una batteria di test che includeva: Il California Verbal Learning Test, il Test di Memoria Logica della Wechsler Memory Scale Revised (utilizzati come test verbali per le correlazioni con le rilevazioni effettuate sull’area di interesse) e il Il Thought Disorder Index, una misura della gravità del disturbo del pensiero.

Il volume della materia grigia del giro di Heschl di sinistra era inferiore del 21% nei soggetti con disturbo schizotipico della personalità rispetto ai soggetti di confronto. Non c’erano differenze di volume tra i due gruppi nel giro di Heschl di destra o nel Planum temporale bilaterale.

Sono state eseguite correlazioni tra le rilevazioni effettuate sulle regioni cerebrali di interesse e i risultati dei test neuropsicologici dei due gruppi. Per quanto riguarda il Test di Memoria Logica è stata identificata una correlazione significativa tra la scarsa performance nella prova di memoria differita e il ridotto volume del giro di Heschl sinistro, nei soggetti con disturbo di personalità schizotipico. Non è emersa, invece, alcuna correlazione tra il Thought Disorder Index, il California Verbal Learning Test e le rilevazioni neuroanatomiche.

Questo risultato è simile ad una precedente scoperta degli autori che avevano individuato un minor volume della materia grigia del giro di Heschl di sinistra e del Planum temporale sinistro in pazienti con un primo episodio di schizofrenia. Nei pazienti con schizofrenia cronica invece era il Planum temporale sinistro, e non il giro di Heschl, ad essere ridotto.

Schizofrenia e disturbo schizotipico: funzionamenti e neuroanatomia

In accordo con studi precedenti, gli autori concludono sottolineando come il volume ridotto di materia grigia nel giro di Heschl possa essere un marker di vulnerabilità per i disturbi dello spettro della schizofrenia.

Anche studi di tipo neuropsicologico hanno messo in evidenza che soggetti con disturbo schizotipico di personalità ottengono ai test punteggi intermedi tra soggetti normali e soggetti schizofrenici. Diversi studi hanno cercato di determinare quali fossero i deficit cognitivi e hanno individuato deficit di working memory, difficoltà di apprendimento verbale e di attenzione e anche deficit di memoria episodica (Siever et al. 2002).

Mitropoulou e colleghi (2005) rilevano come il deficit di working memory sia un deficit centrale nei disturbi dello spettro della schizofrenia. Nel loro studio il campione di soggetti è stato suddiviso in tre gruppi: 1) soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per il disturbo schizotipico di personalità; 2) soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo di personalità non correlato alla schizofrenia (ossia un disturbo diverso da quello schizoide, schizotipico e paranoide); 3) soggetti sani. Tutti i partecipanti sono stati sottoposti alla medesima valutazione neuropsicologica che includeva 10 prove in grado di indagare diverse funzioni cognitive quali la working memory sia verbale che visuo-spaziale, la memoria a breve termine, la memoria a lungo termine e le capacità attentive. Inoltre, è stato somministrata la WAIS-R per ottenere un punteggio circa il funzionamento cognitivo globale. Complessivamente, i pazienti con disturbo schizotipico di personalità hanno ottenuto delle prestazioni peggiori rispetto ai pazienti con disturbo di personalità non correlato alla schizofrenia. Nello specifico, i pazienti con disturbo schizotipico di personalità hanno ottenuto prestazioni scadenti nei test che indagano la working memory e la memoria sia a breve che a lungo termine.

In conclusione, i pazienti con disturbo schizotipico di personalità hanno mostrato una compromissione cognitiva di grado moderato rispetto ai soggetti sani (con prestazioni scadenti in 7 prove su 11). Tali differenze si sono rivelate statisticamente significative per le prove di working memory. Questo studio sembra quindi dimostrare come il deficit di working memory sia un deficit centrale dei disturbi dello spettro della schizofrenia.

Dall’analisi della letteratura emerge quindi che il disturbo schizotipico di personalità potrebbe condividere una comune vulnerabilità con disturbi psicotici cronici quali la schizofrenia.

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