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La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Parte I: le basi neurali della cognizione sociale nel Disturbo Bipolare

Studi di neuroimaging su pazienti con disturbo bipolare e campioni di controllo durante l’elaborazione delle emozioni facciali evidenziano, nel campione clinico, un’attivazione complessiva anomala in numerose aree cerebrali implicate nel riconoscimento delle emozioni, abilità alla base della cognizione sociale e implicata in molte delle difficoltà dei pazienti bipolari nell’interazione sociale.

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Le basi neurali della cognizione sociale nel Disturbo Bipolare (Nr. 1)

 

Il Disturbo Bipolare è caratterizzato da una fasica oscillazione del tono dell’umore che si può fissare nella fase depressiva o in quella ipo/maniacale, ma anche da instabilità timica, maggiore intensità e labilità affettiva, alterazioni della psicomotricità e del sistema neurovegetativo, nonché da difficoltà nel funzionamento a livello sociale ed interpersonale.

È un disturbo molto più diffuso (prevalenza lifetime di circa il 3%) di quello che sembra e spesso ha una difficile e tardiva identificazione diagnostica e di trattamento. Solo recentemente l’attenzione della ricerca si sta concentrando su più domini eziopatogenetici, ed in particolare sul ruolo giocato dalla comprensione emotiva che sembra di rilevante importanza.

Cognizione Sociale e Psicopatologia

Vi è ormai ampia letteratura che evidenzia come le difficoltà a livello interpersonale possano essere ricondotte ad una compromissione nel dominio della cognizione sociale, un complesso costrutto multidimensionale (Couture et al, 2006). La capacità di riconoscere le emozioni attraverso il volto dell’altro è infatti di fondamentale importanza nella dimensione interpersonale e difficoltà in questo senso sono state riscontrate in letteratura per quanto riguarda diverse psicopatologie: Disturbo Bipolare, Depressione, Disturbi d’ansia, Schizofrenia, Autismo, Disturbo borderline di personalità (Fusar-Poli et al., 2009).

Il substrato neurale sottostante tale capacità comprende l’interazione fra aree visive, limbiche, temporali, temporo-parietali, prefrontali, subcorticali e cervelletto, e la capacità di trasformare la percezione emotiva in comportamenti e stati affettivi riguarda il saper valutare ed identificare l’emozione, produrre uno stato affettivo in risposta a questo stimolo, regolare lo stesso ed il comportamento correlato. Alcuni recenti modelli ipotizzano la regolazione emotiva come frutto di una complessa interazione tra processi bottom-up, soprattutto limbico-subcorticali, di valutazione dello stimolo emotivo, e processi top-down, di controllo cognitivo a carico delle regioni corticali prefrontali dorsali e mediali (vds. Turchi et al. 2016).

Disturbo Bipolare e Cognizione Sociale

La ricerca di neuroimmagine che riguarda il confronto fra pazienti bipolari e campioni di controllo durante l’elaborazione delle emozioni facciali evidenzia, nel campione clinico, una complessiva e differenziata anomala attivazione nelle regioni sottocorticali, soprattutto limbiche e nel giro frontale inferiore, insieme ad una ridotta attivazione nella regione ventrale della corteccia prefrontale, deputata al controllo cognitivo, nel giro frontale e bilaterale, nell’insula destra, nel giro fusiforme destro e nel giro occipitale bilaterale, cuneo e precuneo, evidenziando la presenza di un deficit di controllo corticale sulle strutture limbiche, le quali appaiono invece iperattivate durante le interazioni sociali, e che sembrano essere il substrato neurobiologico sotteso alla compromissione nel riconoscimento delle emozioni.

L’aspetto più recente e interessante è che tale alterazione è presente non solo durante le fasi di malattia, dato che in qualche misura poteva essere atteso anche se non scontato, ma anche durante le fasi di eutimia (Turchi et al., 2016; Cusi et al.2012), in cui diremmo che il paziente è “guarito”, spostando l’interesse anche sul funzionamento e sui sintomi residui in questo tipo di disturbi.

Per quanto riguarda la fase depressiva gli studi mostrano un’iperattivazione delle strutture limbiche a stimoli emotivi espressi dai volti ed una minor attivazione delle principali aree sottese alle funzioni cognitive superiori di controllo emotivo, in senso mood congruent rispetto al tono dell’umore, la quale costituisce il substrato neurale della maggior risonanza emotiva osservata nelle fasi di malattia. Risultati sostanzialmente confermati anche da studi che hanno usato paradigmi comportamentali i quali evidenziano compromissioni, sempre nel campione clinico, nel riconoscere emozioni congrue con il tono dell’umore, le quali si riflettono in una tendenza ad interpretare volti emotivamente neutri come tristi e volti che esprimono felicità come arrabbiati, nonché in una maggior difficoltà nel riconoscere la gioia, la quale aumenta con l’aumentare della gravità dei sintomi depressivi.

Congruentemente agli studi sulla fase depressiva, anche quelli sulla fase maniacale mostrano anomalie funzionali nell’attivazione delle regioni neurali coinvolte nel riconoscimento delle emozioni e nella patofisiologia dei disturbi dell’umore durante task di elaborazione delle emozioni a valenza negativa, come tristezza e paura, con iperattivazione dell’attività subcorticale e limbica nelle regioni coinvolte nell’elaborazione emotiva ed ipoattivazione delle regioni corticali prefrontali che si occupano del loro controllo. In linea, da un punto di vista comportamentale, i pazienti bipolari in fase maniacale mostrano difficoltà nel riconoscimento delle espressioni facciali di disgusto, paura e tristezza, in quest’ultimo caso correlata alla gravità dei sintomi maniacali.

Tale meccanismo “mood congruity effect” è da tempo considerato un meccanismo di amplificazione e di mantenimento degli episodi di malattia nel Disturbo Bipolare: un paziente in fase depressiva tenderà ad identificare meglio ed entrerà maggiormente in risonanza emotiva con l’emozione di tristezza, la quale andrà verso l’intensificazione e non sarà adeguatamente modulata dai controlli cognitivi top-down, a causa dei deficit di attivazione corticale e di connettività cortico-limbica sopra esposti. A tal proposito Phillips et al. (2014) postulano come la disregolazione dell’amigdala in risposta alle emozioni espresse dai volti, in particolare felici, possa essere l’espressione di una distorsione attentiva nell’elaborare stimoli a valenza positiva che potrebbe influire nel viraggio ipo/maniacale.

Dal momento che complessivamente la letteratura sottolinea una deficitaria capacità di inibizione delle strutture corticali su quelle limbiche, iperresponsive, deputate all’elaborazione delle emozioni facciali, questa potrebbe giocare un ruolo nell’instabilità emotiva caratteristica del disturbo, costituire un potenziale biomarcatore di tratto della patologia anche in considerazione che tali caratteristiche sono presenti anche in fase eutimica e non risultano presenti nei pazienti con Depressione Maggiore. Un’ulteriore e importante prova è che le stesse alterazioni si ritrovano nei campioni costituiti da parenti sani di primo grado di pazienti bipolari (per una revisione della letteratura vds. Turchi et al., 2016 e Cusi et al., 2012) e sembrano sottendere al deficit nelle funzioni metacognitive (Semerari et al, 2003; Carcione et al, 2010) osservato.

In conclusione

In considerazione della concordanza della letteratura e del fatto che da un punto di vista dell’intervento psicoterapeutico tale aspetto non è stato ancora adeguatamente attenzionato, a differenza di altri disturbi comunque cronici, risulterebbe estremamente utile sviluppare un dibattito ed estendere i lavori di ricerca scientifica anche a questo aspetto, soprattutto in considerazione del fatto che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ed il trattamento psicofarmacologico esercitano effetti diversi sui circuiti neurali coinvolti nel riconoscimento delle emozioni, così come approfondire il ruolo di altre variabili della cognizione sociale.

Nello specifico, potrebbe risultare utile e stimolante per il nostro lavoro inserire nel trattamento psicologico del Disturbo Bipolare elementi e tecniche che considerino questi aspetti e studiarne l’impatto sulle fasi di malattia, sulla riduzione della sintomatologia residua e, in futuro, sulla prevenzione delle ricadute, senza tralasciare il miglioramento della qualità di vita grazie al lavoro sulle abilità sottostanti ad un adeguato funzionamento sociale.

 

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore:

Gli adolescenti si fanno male – La serie podcast che unisce narrazione e informazione scientifica

Gli adolescenti si fanno male è una delle prime serie podcast italiane a unire narrazione e informazione scientifica. La serie è condotta da Furio Ravera

 

Psichiatra e psicoterapeuta, Ravera è direttore sanitario della comunità terapeutica CREST di Milano e co-direttore presso la casa di cura Le Betulle nel reparto adibito all’osservazione e diagnosi delle patologie psichiatriche gravi e delle tossicomanie.

Gli adolescenti si fanno male: l’esperienza di Ravera

La ricerca di Ravera, concentrata soprattutto a cogliere la relazione tra disagi adolescenziali e dipendenze di natura diversa (droga, alcol, legami disfunzionali) lo ha ispirato nella scrittura de Gli Adolescenti si fanno male, un saggio presto disponibile in formato e-Book su Amazon Kindle.

Furio Ravera così riassume il suo lavoro:

È il racconto di tante vite. Dolori, gioie, abbandoni, ricongiungimenti, nascite, morti, successi, insuccessi formano, nel loro combinarsi, mosaici diversi che danno a queste vite il senso di una esperienza unica ed irripetibile. I racconti dei giovani sono brevi, perché è poco il tempo che hanno vissuto ma, ciononostante, sono molto coinvolgenti per le vicissitudini legate alla loro crescita e per le intense emozioni che le accompagnano.

Le storie racchiuse nel saggio, rintracciabili nell’esperienza professionale di Ravera, forniscono la “materia prima” per gli episodi del podcast: ogni puntata contrappone infatti la voce di un giovane paziente di Ravera, interpretato da un attore, ai commenti del dottore, che a distanza dalla conclusione del caso ripercorre le tappe salienti della storia.

Gli adolescenti si fanno male: storie diventate podcast

I pazienti, che vivono momenti di intensità e dolore all’interno dello studio del terapeuta, diventano personaggi grazie alle interpretazioni di attori e attrici che hanno studiato e studiano nelle migliori accademie di teatro italiane.

Gli Adolescenti si fanno male esce a cadenza settimanale ogni giovedì su GliAscoltabili.it . La serie è disponibile a questo link.

 

Gli Ascoltabili

Gli Ascoltabili è una piattaforma gratuita di podcast originali realizzata da un team guidato da Giacomo Zito, autore e produttore radiofonico, e da Simone Spoladori, esperto di cinema e new media. Zito è stato ideatore e conduttore di Destini Incrociati – uno dei programmi radio di narrazione più seguiti degli ultimi anni e vincitore del Premio Internazionale Ennio Flaiano come miglior programma culturale – e Spoladori uno degli autori di punta.

Gli adolescenti si fanno male - Podcast di storie raccolte da un terapeuta

I podcast oggi

Con oltre sessantasette milioni di utenti negli Stati Uniti oggi il podcast sta diventando il futuro della radiofonia e anche in Italia gli ascoltatori sono in continua crescita, il nostro paese è oggi il quinto nel mondo per ascolto di podcast con il 14% di fruitori (Fonte: Prima Comunicazione, novembre 2018) passando da 850.000 nel 2015 a 2.700.000 a fine 2018 con un aumento del 217%. Su queste basi per la fine del 2019 si stimano circa 5.000.000 di ascoltatori (Fonte: Dailyonline-Nielsen).

È utile qualsiasi tipo di supporto sociale?

Una nuova ricerca sulle neuroscienze dimostra l’effetto neurofisiologico di diverse tipologie di supporto sociale all’esperienza di esclusione sociale

Rosalba Morese

 

Il supporto sociale può cambiare il modo in cui percepiamo una situazione spiacevole, ma alcuni tipi di supporto sembrano più efficaci di altri.

Un team internazionale guidato da Giorgia Silani che ha coinvolto colleghi dell’Università di Vienna, l’Università della Svizzera italiana di Lugano e l’Università di Torino, ha dimostrato che i sentimenti negativi e le risposte cerebrali sono modulati dal tipo di sostegno sociale che riceviamo dopo essere stati socialmente esclusi. I risultati dello studio sono stati recentemente pubblicati sulla rivista scientifica Social Cognitive and Affective Neuroscience (SCAN).

Esclusione sociale: lo studio per capire cosa può farci stare meglio

L’ esclusione sociale minaccia il bisogno umano di appartenenza sociale, con conseguenze negative su cognizione, emozioni e comportamento. Le risposte a questo tipo di dolore sociale, come il sentirsi arrabbiati o evitare un gruppo dopo essere stati respinti, possono portare a una gestione meno efficace e ad un isolamento sociale a lungo termine. Comprendere i meccanismi che possono alleviare queste conseguenze negative è diventato un importante obiettivo di ricerca degli ultimi anni. A tale riguardo, il supporto sociale è stato identificato come un possibile meccanismo di coping che può migliorare le risposte individuali e il benessere generale. Rosalba Morese, primo autore della ricerca, ora all’Università Svizzera italiana di Lugano, sottolinea

il nostro studio è il primo ad indagare gli effetti dei diversi tipi di supporto sociale – come diverse tipologie possano modulare i correlati neurali dell’esperienza di esclusione sociale.

Lo studio recentemente pubblicato su SCAN mostra che, a seconda del tipo di sostegno sociale ricevuto, i partecipanti hanno sperimentato sia il sollievo, sia un peggioramento delle loro emozioni negative associate all’essere stati esclusi. Ciò è inoltre associato a specifiche risposte neurali.

Esclusione sociale: contatto fisico ed emotivo aiutano di più delle spiegazioni

Il team internazionale per condurre questo studio ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per capire in che modo il supporto sociale può alleviare le conseguenze negative dell’ esclusione sociale. 71 partecipanti di sesso femminile sono state sottoposte a due sessioni fMRI durante un gioco virtuale di lancio della palla (Cyberball) durante il quale sono state escluse da altri due giocatori virtuali. Tra le due sessioni di esclusione, le partecipanti sono state suddivise in due gruppi sperimentali che hanno ricevuto supporto sociale o sotto forma di un tocco gentile della mano (supporto emotivo), o sotto forma di messaggi di testo con contenuto informativo, utili per comprendere la situazione (supporto di valutazione). Entrambi i tipi di supporto sono stati forniti da un’amica.

Gli scienziati hanno scoperto che l’esperienza dell’ esclusione sociale è modulata dal tipo di supporto ricevuto. In particolare, il fatto di essere toccati delicatamente ha diminuito le emozioni negative, mentre essere informati sulla situazione ha aumentato la percezione di emozioni negative con la concomitante riduzione o aumento dell’attivazione di aree del cervello dedicate. Questi effetti divergenti del supporto sociale indicano che

è molto importante capire in quali condizioni (il contesto, la persona, la modalità, ecc.) il sostegno sociale può rappresentare una risorsa efficace e positiva per alleviare le conseguenze negative dell’ esclusione socialespiega Giorgia Silani, dell’Università di Vienna, leader del gruppo di ricerca – il nostro lavoro evidenzia che essere toccati fisicamente ed emotivamente da un altro vicino può essere un modo molto potente e diretto per aiutarci ad affrontare le nostre emozioni negative – molto più che fornire una spiegazione razionale della situazione in cui ci troviamo.

Inquinamento atmosferico: gli effetti sulla presenza di sintomi ansiosi nei preadolescenti

Negli ultimi anni è emerso come anche il sistema nervoso centrale risulti particolarmente sensibile ad elevati livelli di inquinamento atmosferico, il quale potrebbe avere un ruolo nell’eziologia di alcuni disturbi mentali, tra cui sintomi di ansia generalizzata.

 

L’ inquinamento atmosferico è stato riconosciuto da tempo come un problema sanitario globale in quanto ogni anno è causa di circa 3.3 milioni di decessi prematuri (Lelieveld et al., 2015). L’esposizione ad elevati livelli di inquinamento atmosferico ha infatti un impatto negativo su pazienti affetti da disturbi respiratori, come l’asma, e da problematiche cardiovascolari, in particolare a elevato rischio di ictus.

Negli ultimi anni è emerso come anche il sistema nervoso centrale risulti particolarmente sensibile a tale agente patogeno, il quale potrebbe avere un ruolo nell’eziologia di alcuni disturbi mentali. In particolare, un recente studio condotto dall’Università di Cincinnati e dal Children’s Hospital Medical Center di Cincinnati è andato ad approfondire nello specifico la relazione esistente tra inquinamento atmosferico dovuto al traffico (Traffic Related Air Pollution, TRAP) e ansia infantile tramite la valutazione di alterazioni metaboliche a livello cerebrale.

Lo studio

I ricercatori hanno sottoposto 145 ragazzi di età media di dodici anni a risonanza magnetica spettroscopica, una specifica tecnologia MRI, con l’obiettivo di valutare la presenza di variazioni nella concentrazione di mio-inositolo a livello della corteccia cingolata anteriore. Il mio-inositolo è un metabolita naturalmente presente in specifiche cellule cerebrali, definite cellule gliali. Un aumento dei livelli di mio-inositolo correla solitamente con un aumento nella popolazione delle cellule gliali, condizione che spesso si verifica durante gli stati di infiammazione cerebrale.

Brunst e colleghi hanno rilevato che i preadolescenti esposti a maggiori livelli di TRAP durante i 12 mesi precedenti alla visita presentavano livelli superiori di mio-inositolo a livello cerebrale rispetto a coloro che erano stati esposti nello stesso periodo a livelli inferiori di TRAP. Inoltre è stato messo in luce che a una maggiore concentrazione di mio-inositolo a livello cerebrale corrispondevano maggiori sintomi riportati di ansia generalizzata: infatti il gruppo che risultava essere stato esposto a maggiori livelli di TRAP presentava una aumento del 12% di sintomi di ansia generalizzata rispetto agli altri partecipanti.

In conclusione

L’aumento osservato dei sintomi ansiosi è stato di piccola entità, e risulta quindi improbabile che possa portare alla presenza di un effettivo quadro psicopatologico. Ciò nonostante lo studio condotto ha evidenziato che l’esposizione a elevati livelli di inquinamento atmosferico può avere un impatto significativo sulla salute della popolazione, in quanto in grado di causare stati di infiammazione a livello cerebrale, come evidenziato dall’aumento della concentrazione di mio-inositolo nella corteccia cingolata anteriore dei partecipanti.

Efficacia dell’Ipnosi di Gruppo per la Sindrome da Intestino Irritabile

L’uso dell’ ipnosi nel trattamento della Sindrome da Intestino Irritabile consente a chi soffre di questa condizione di ottenere non solo un maggior sollievo sul piano dei sintomi fisici, ma di vedere aumentare anche i propri spazi di libertà. In molti riferiscono miglioramenti sul piano dell’umore e, più in generale, del loro livello di benessere globale.

 

La Sindrome da Intestino Irritabile (IBS) è un disturbo funzionale gastrointestinale caratterizzato da ripetuti episodi di dolore o fastidi addominali, di alterazione della normale funzionalità intestinale in assenza di cause strutturali o biochimiche. Tale condizione può avere conseguenze rilevanti per la vita di chi ne soffre. Numerosi studi hanno infatti evidenziato come, oltre a produrre conseguenze invalidanti per la vita emotiva, sociale e professionale, la IBS implichi un costo notevole per i sistemi sanitari.

Se a questo aggiungiamo che i rimedi farmacologici raramente producono effetti soddisfacenti diventa chiaro il bisogno di trovare strategie di intervento che possano contribuire a migliorare la qualità di vita dei pazienti che ricevono tale diagnosi.

L’efficacia dell’ ipnosi nel trattamento della Sindrome da Intestino Irritabile: uno studio sperimentale

Nella mia esperienza di clinica sono stata testimone diretta dei benefici che l’ ipnosi può portare a chi soffre a causa della Sindrome da Intestino Irritabile. I pazienti riportano maggior sollievo sul piano dei sintomi e tali risultati tendono a mantenersi stabili a lungo termine. Insieme all’attenuarsi della sintomatologia fisica, le persone vedono aumentare i propri spazi di libertà, riportano miglioramenti sul piano dell’umore e, più in generale, del loro livello di benessere globale.

Uno studio recente (Flik et al., 2019), dopo aver passato in rassegna i dati prodotti dalla letteratura scientifica precedente, ha indagato gli effetti dell’ ipnoterapia (terapia condotta attraverso l’utilizzo dell’ ipnosi) in un protocollo di ricerca molto rigoroso.
Lo studio, apparso quest’anno su The Lancet, Gastroenterology & Hepatology, ha coinvolto più di 400 pazienti provenienti da 11 ospedali dislocati sul territorio Olandese. Nonostante l’interesse verso questo tipo di approccio fosse già presente a partire dagli anni ‘80 e nel corso del tempo si siano accumulate varie prove di efficacia, l’applicazione dell’ ipnosi nel trattamento dell’IBS non si è diffuso probabilmente a causa di alcuni limiti nei metodi di indagine insieme all’idea che il suo utilizzo complicherebbe le consolidate pratiche cliniche e porterebbe ad un aumento dei costi per le strutture sanitarie.

Lo studio di Flik e colleghi, oltre ad indagare l’efficacia della metodica attraverso un solido impianto sperimentale, ha puntato a verificare se gli stessi risultati potessero essere ottenuti in contesti di gruppo. In altre parole: c’è una differenza in termini di efficacia tra l’ ipnosi utilizzata in sedute individuali rispetto a quella utilizzata in sedute di gruppo?

Gli autori hanno suddiviso il campione – popolato da pazienti con diagnosi di IBS farmaco-resistente che non soffrissero di altre patologie fisiche o psichiatriche che avrebbero potuto confondere i risultati – in tre gruppi: a) ipnoterapia individuale; b) ipnoterapia di gruppo; c) gruppo di controllo.

Nel gruppo di ipnoterapia individuale i partecipanti hanno partecipato a 6 sessioni di ipnosi della durata di 45 minuti ad intervalli bisettimanali durante le quali venivano utilizzate suggestioni pensate per ridurre dolori e fastidi aumentando il senso di benessere generale.

I partecipanti assegnati al secondo gruppo hanno preso parte a 6 sessioni della durata di 60 minuti, sempre ad intervalli bisettimanali, rivolte ad un pubblico di 6 persone per volta. I contenuti delle induzioni ipnotiche erano identici a quelli utilizzati per le sessioni individuali.

Infine, al terzo gruppo di pazienti – il gruppo di controllo – sono state offerte 6 sessioni di gruppo della durata di 60 minuti nelle quali venivano fornite loro informazioni relative alla sindrome, ai comportamenti ed agli schemi mentali disfunzionali che tendono ad instaurarsi come conseguenza della diagnosi, alla dieta ideale da seguire, ai benefici dell’esercizio fisico ed ad altre aree di interesse clinico.

Nonostante i partecipanti di tutti e tre i gruppi abbiano mostrato miglioramenti su aree come il benessere emotivo e psicologico, al termine dei 3 mesi di trattamento i pazienti assegnati alla ipnoterapia, sia individuale che di gruppo, hanno riportato maggior sollievo dai sintomi tipici della Sindrome da Intestino Irritabile rispetto al gruppo di controllo.

Confrontando l’intervento ipnotico individuale con quello di gruppo, i ricercatori hanno osservato come non vi fossero differenze significative in termini di efficacia, dato importante dal punto di vista dell’ottimizzazione delle risorse disponibili per le strutture cliniche.

Lo studio descritto rappresenta, ad oggi, il trial randomizzato più ampio in questo campo e aggiunge un tassello al complesso quadro del trattamento della Sindrome da Intestino Irritabile che, secondo stime recenti, sta venendo diagnosticata sempre più spesso e che, in alcune nazioni, arriva a colpire una persona su 10 (Card, Canavan, & West, 2014).

Senescenza, attività motorio-sportiva e benessere: gli aspetti psicofisiologici e neurobiologici

È importante far capire agli anziani le ripercussioni positive che uno stile di vita attivo ha sulla qualità della vita e sul mantenimento dell’autonomia personale attraverso un programma di educazione alla salute che parte innanzitutto dal medico di base.

 

Il numero delle persone anziane sta aumentando in maniera consistente nelle società occidentali. La senescenza è un periodo della vita, nel quale, per una serie di ragioni di ordine fisico e psicologico, la sedentarietà prende il sopravvento su di uno stile di vita più attivo. A questo riguardo bisogna sollecitare gli anziani a cambiare il loro modo di condurre la vita, adottando dei comportamenti più salutari, come il seguire un programma motorio – sportivo adatto alla loro età. Di fatto, diverse evidenze empiriche suggeriscono che l’attività motorio – sportiva ha un ruolo fondamentale nel benessere durante la senescenza, apportando vantaggi sia fisici che psicologici.

Keywords: senescenza, attività motorio – sportiva, benessere

Perchè fare educazione alla salute agli anziani?

Il numero delle persone anziane sta aumentando in maniera consistente nelle società occidentali. La senescenza è un periodo della vita, nel quale, per una serie di ragioni di ordine fisico e psicologico, la sedentarietà prende il sopravvento su di uno stile di vita più attivo. A questo riguardo bisogna sollecitare gli anziani a cambiare il loro modo di condurre la vita, adottando dei comportamenti più salutari, come il seguire un programma motorio – sportivo adatto alla loro età.

Secondo le indicazioni riportate nelle Linee Guida per la lotta alla sedentarietà e promozione dell’attività fisica (Cipriani, Baldasseroni e Franchi, 2011), per i soggetti anziani bisognerebbe predisporre un programma motorio settimanale, che preveda 30 minuti di attività fisica moderata per almeno cinque volte alla settimana o, in alternativa, tre sedute settimanali di attività fisica più intensa per circa 20 minuti. Qualsiasi programma motorio approntato deve contenere due sedute dedicate a rinforzare i principali muscoli del corpo. Inoltre, in tale contesto devono essere inseriti degli esercizi finalizzati al miglioramento delle capacità di equilibrio e della mobilità articolare, abilità che con il passare del tempo tendono a peggiorare. È importante far capire agli anziani le ripercussioni positive che uno stile di vita attivo ha sulla qualità della vita e sul mantenimento dell’autonomia personale. Queste opere di counseling e di educazione alla salute devono essere svolte, in primo luogo, dal medico di base, che ha in cura il soggetto anziano.

Laddove l’ anziano è restio a cominciare un programma motorio – sportivo ben delineato, è opportuno convincerlo ad incrementare le attività motorie non strutturate, ovvero servirsi quotidianamente delle scale per raggiungere la propria abitazione, piuttosto che utilizzare l’ascensore; usare il meno possibile l’auto per gli spostamenti in città e, quindi, implementare le passeggiate a piedi; aumentare il tempo dedicato a differenti attività, quali, ad esempio, la cura delle piante sul proprio balcone e tutte le attività di bricolage.

I benefici dell’attività fisica negli anziani

L’attività fisica ha effetti positivi sulla salute globale dell’ anziano. Infatti, essa determina un’ipertrofia delle fibre muscolari, un potenziamento della capacità ossidativa dei mitocondri muscolari e un incremento della vascolarizzazione delle fibre muscolari. Inoltre, a carico del cuore, migliora la vascolarizzazione e aumenta i processi fibrinolitici, cosa che previene l’infarto del miocardio. In aggiunta, diminuisce i processi osteoporotici nelle ossa (Cristianini, 2013; Grezzana e Grezzana, 2013).

L’attività fisica svolge un ruolo importante anche dal punto di vista psicofisiologico e neurobiologico. Le ricerche di Larson e Bruce (1987) e di Hatziandreu e al. (1988) hanno dimostrato che la regolare attività fisica migliora le abilità cognitive dei soggetti anziani. In più, essa determina un incremento del volume cerebrale in toto (Colcombe e al., 2006) e della sostanza grigia nello specifico (Erickson e al., 2014). Ancora, la ricerca di Szabo e al. (2011) ha evidenziato che nei soggetti anziani l’attività motoria implementa il volume dell’ippocampo. Lo studio effettuato da Voss e al. (2010), utilizzando la risonanza magnetica funzionale, ha messo in evidenza, in soggetti anziani che praticavano da un anno un’attività fisica regolare, un potenziamento del funzionamento dei circuiti cerebrali frontali. La ricerca di Boraxbekk e al. (2016) ha dimostrato, negli anziani che seguivano da 10 anni un’attività fisica, un rafforzamento della connessione funzionale fra i nuclei della regione cingolata posteriore. Secondo Burzynska e al. (2015) il miglioramento della funzionalità cerebrale sarebbe imputabile ad una maggiore velocità nel trasporto dell’ossigeno. Un’ultima ricerca di McGregor e al. (2018) ha assodato, attraverso la risonanza magnetica funzionale, che basta seguire un programma motorio di tre mesi per migliorare nei soggetti anziani la connessione funzionale fra i differenti nuclei della corteccia motoria primaria.

In conclusione, l’attività motorio – sportiva ha un ruolo fondamentale nel benessere durante la senescenza, apportando vantaggi sia fisici che psicologici. In virtù di ciò, gli anziani devono essere sollecitati a cambiare il loro stile di vita, emancipandosi dalla sedentarietà che, sovente, caratterizza la loro quotidianità.

Attacchi di Panico. Come uscirne: La potenza della Terapia Cognitivo Comportamentale (2017) di Enrico Rolla – Recensione del libro

Il libro Attacchi di Panico, dello psicologo e psicoterapeuta Enrico Rolla, approfondisce l’argomento a partire da esperienze di vita personale usando la prospettiva di chi in prima persona ha lottato nel contrastare le trappole che possono facilitare l’instaurarsi di un disturbo di panico. Il libro, oltre a fornire informazioni circa il disturbo da attacchi di panico, è arricchito da casi clinici e da informazioni circa i protocolli di intervento.

 

“Perché mi succede?”
“È possibile uscire da questa situazione?”
“Riuscirò a liberarmi?”
“In quanto tempo riuscirò a superare i miei problemi?”

Il tentativo di dare risposte a domande come quelle sopra citate è un aspetto frequentemente riscontrabile in persone che a seguito di un episodio di attacchi di panico, ha cominciato a soffrire d’ansia. All’interno di Attacchi di Panico, il professor Enrico Rolla offre una ricca e dettagliata spiegazione sia delle caratteristiche del disturbo, che della potenza della terapia cognitivo comportamentale che, attraverso le sue strategie e tecniche, è in grado di aiutare la persona a risolvere il problema.

Attacchi di Panico, Agorafobia: perché?

Disturbo da attacchi di panico e/o Agorafobia, sono l’esempio caratteristico di come il disagio psichico possa generarsi, mantenersi, esprimersi e coinvolgere aspetti fisiologici, cognitivi, emotivi e comportamentali. Cercare di capire, controllare, evitare che l’accaduto possa verificarsi di nuovo, in termini di sensazioni fisiche, e cercare rassicurazioni sono le prime strategie disfunzionali che le persone mettono in atto nel tentativo di risolvere il loro problema.

All’interno di Attacchi di Panico, il professore Enrico Rolla, psicologo e psicoterapeuta ad indirizzo cognitivo comportamentale, direttore del Centro di Psicoterapia e Scuola di Specializzazione di Terapia Cognitivo Comportamentale, l’Istituto Watson di Torino dal 1979, e autore di diverse opere di matrice cognitivo comportamentale rivolte all’ampio pubblico, approfondisce l’argomento a partire da esperienze di vita personale usando la prospettiva di chi in prima persona ha lottato nel contrastare le trappole che possono facilitare l’instaurarsi di un disturbo di panico, facendo riferimento anche all’agorafobia del padre, per non mancare poi il suo prezioso contributo come terapista cognitivo comportamentale. Il libro, oltre a fornire informazioni circa il disturbo, è arricchito da casi clinici e da informazioni circa i protocolli di intervento.

Conoscere, comprendere, accettare il problema per poterlo affrontare sono passaggi importanti ma non esclusivi per potere risolvere un Disturbo da attacchi di panico.

Il Disturbo da attacchi di panico infatti, è caratterizzato da un corteo di sintomi fisici come ad esempio l’accelerazione del battito cardiaco, respiro affannato, vertigini, formicolio agli arti, sensazioni sostenute e mantenute dal circuito della paura. Ma mentre tale emozione primaria (la paura), di fronte ad un pericolo reale giustificherebbe la tipica risposta di attacco, fuga o freezing, in assenza di una reale minaccia la mente della persona processando la risposta come inadeguata, comincia per l’appunto ad avere paura della paura, procedendo con ciò che mantiene e peggiora il quadro ossia l’ansia anticipatoria, l’evitamento di tutte le situazioni e circostanze potenzialmente pericolose e la messa in atto di comportamenti protettivi.

Enrico Rolla spiega come la terapia cognitivo comportamentale aiuta la persona ad imparare a modificare i pensieri non funzionali cioè quelli che inducono alla fuga e all’evitamento, a gestire e non temere le risposte emozionali della paura e a modificare i comportamenti messi in atto fino a quel momento. Un lavoro articolato su pensieri, emozioni e comportamenti e da dove partire sarà la specifica situazione presentata dalla persona in studio che lo determinerà.

Ma cosa causa un attacco di panico?

I fattori possono essere molteplici ma ciò che si rivela con costanza è la tendenza ad interpretare anche lievi sensazioni fisiche come potenzialmente pericolose e catastrofiche. Anche se la ragione arriva a dare delle risposte la persona, spiega Enrico Rolla, al minimo percepire di una sensazione come ad esempio battito cardiaco accelerato, fa scattare il segnale di allarme che potrebbe sfociare fino ad un attacco di panico. La persona inoltre tenderà a vivere in uno stato di ansia esasperata e nel tentativo di tranquillizzarsi opterà per evitare tutte le situazioni considerate potenzialmente pericolose.

Non pensare all’elefante rosa.

“Sta per venirmi un infarto; devo controllare i miei battiti; non devo pensare a queste cose”, ma è impossibile non pensare! L’autore, ironicamente, con l’esercizio del “non pensare l’elefante rosa” dimostra ai suoi pazienti in studio, come il divieto automaticamente porta la mente a porre l’attenzione su ciò che non vorremmo.

Obiettivi terapeutici

All’interno del libro non mancano schede di valutazione e questionari su pensieri catastrofici, evitamenti, comportamenti di fuga e pensieri scoraggianti legati ad un senso di potenza e inadeguatezza rispetto a quelle sensazioni fisiche tanto temute, che consentono di mettere a fuoco, secondo l’autore, le variabili sulle quali intervenire e monitorare il viaggio terapeutico dalla partenza all’arrivo all’obiettivo finale.

In riferimento agli obiettivi terapeutici, l’autore utilizza l’acronimo SMART:

  • Specifico (ad esempio voglio riuscire a camminare per strada da sola);
  • Misurabile
  • Che porti all’Azione, riuscendo a visualizzare anche mentalmente l’intero percorso con gli obiettivi a breve, medio, lungo termine che lo compongono;
  • Realistico;
  • Definito nel Tempo.

La definizione chiara, realistica degli obiettivi da raggiungere in tutti i loro passaggi è una parte essenziale del lavoro terapeutico e una volta stabiliti questi si passa all’azione.

La Terapia Cognitivo Comportamentale in azione

L’ultima parte del libro è ricca di riferimenti a tecniche come ad esempio il rilassamento muscolare, la respirazione diaframmatica, l’ipnosi, come utili strumenti terapeutici ai quali si può fare ricorso, ed ancora l’aspettativa del peggio, caratterizzata dal fare ripetere al paziente più volte al giorno le proprie paure (pensando volontariamente al pensiero temuto) ed ancora l’esposizione enterocettiva, caratterizza dall’induzione del sintomo come ad esempio aumentare volontariamente il battito cardiaco, tecnica estremamente efficace per superare le paure.

Un’altra tecnica ampiamente descritta accompagnata da casi clinici è la tecnica della desensibilizzazione sistematica in vivo e/o in immaginazione. In questo caso, passaggi importanti diventano riuscire a raggiungere uno stato di rilassamento profondo, costruire una gerarchia di stimoli ansiogeni rispetto alla situazione temuta e partire dalla situazione che genera meno ansia, alternando, nel caso della desensibilizzazione sistematica in immaginazione, momenti in cui si immagina lo scenario temuto a momenti dove si applica la tecnica del rilassamento, al fine di ridurre la risposta ansiogena allo stimolo, per poi passare ad un nuovo livello della scala gerarchica realizzata insieme al paziente, di difficoltà crescendo ma solo dopo aver superato il precedente.

In conclusione

Attacchi di Panico è un valido libro per gli addetti ai lavori e non, dunque che rende l’idea sul modus operandi della Terapia Cognitivo Comportamentale, che attraverso la ricchezza di tecniche e strategie fornisce alla persona validi strumenti per vincere le sue paure, affrontandole e sfidandole e non evitandole.

Poliamore: one’s company, two’s a crowd, and three’s a party (Andy Warhol)

Nel poliamore, a differenza delle relazioni adulterine, tutte le parti coinvolte hanno consapevolezza del tipo di relazione che intercorre tra di loro ed acconsentono che i bisogni del proprio partner possano venire soddisfatti da una o più persone esterne alla coppia.

 

“The Dreamers” (2003), “Vicky, Cristina, Barcellona” (2008), “You, Me, Her” (2016) e la lista potrebbe continuare: la rappresentazione nei media della cultura poliamorosa ha conosciuto negli ultimi anni una fortuna senza precedenti. Tuttavia, il fenomeno del poliamore è tutt’altro che un nuovo trend, intrattenere relazioni parallele con altri individui, talvolta risultando nella nascita di figli e di intere nuove famiglie, è stata una pratica molto comune nelle società dell’Antica Roma e dell’Antica Grecia, così come nella cultura popolare e nella narrativa di ogni epoca storica sono riportate storie di individui che hanno scelto di condividere la propria vita con più di un compagno.

Storicamente, la virata collettiva verso un modello di relazione di tipo monogamico è stata fortemente influenzata dalla necessità di stabilire linee chiare di successione alla morte di un padre di famiglia; infatti la presenza di svariate mogli ed eventuali figli avrebbero potuto costituire un pretesto per creare contenziosi potenzialmente sanguinosi per motivi di eredità e rischiando di frammentare i possedimenti del defunto. Dal principio l’obbligo di monogamia vigeva come una legge imposta solo sulla donna, la quale doveva assicurare di partorire solo figli legittimi, mentre un atteggiamento più permissivo è stato riservato alla controparte maschile, che ha goduto nei secoli di maggiori gradi di libertà.

Nel poliamore, a differenza delle relazioni adulterine, tutte le parti coinvolte hanno consapevolezza del tipo di relazione che intercorre tra di loro ed acconsentono che i bisogni del proprio partner possano venire soddisfatti da una o più persone esterne alla coppia. Diversi studi si sono proposti di indagare le peculiarità della conformazione poliamorosa, tra questi una ricerca di Balzarini, Dharma & Kohut (2019) ha messo a confronto la popolazione poliamorosa e quella monogama rispetto a due bisogni fondamentali che le relazioni intime sono (in misura variabile) chiamate a soddisfare: il bisogno di erotismo e di cure amorevoli (Sexual Configuration Theory), come postulato da Van Anders (2005), secondo la quale gli individui ricercano la soddisfazione di tali bisogni congiuntamente o disgiuntamente in una o più relazioni intime.

Poliamore: tra bisogno di cure ed erotismo

Lo studio di Balzarini et al.(2019) si è dedicato ad ampliare le nostre conoscenze circa l’assetto interno delle relazioni poliamorose, nella fattispecie riguardo alla ripartizione dell’esperienza erotica e di cura all’interno delle diadi, confrontando tale esperienza con i dati provenienti dalla popolazione monogama.

Le varie fasi di una relazione intima poggiano su delle logiche premesse evoluzionistiche circa la nostra specie: inizialmente la formazione di un legame in età adulta richiede che venga speso del tempo in prossimità fisica reciproca, generalmente caratterizzata da desiderio sessuale e voglia di vicinanza. A questa fase, della durata stimata attorno ai due anni ± 6mesi (Tennov, 1979), seguirebbe una lenta e progressiva costruzione di un legame di cura (esordio tra 1,5 e 3 anni) , che richiederà lungo tempo per consolidarsi e maturare (Winston, 2004). Mitchell (2002) e Perel (2007) hanno suggerito che i limiti imposti dalle coppie stesse sulla propria libertà sessuale come individui (monogamia), possano avere come rovescio della medaglia a fronte di minore insicurezza, quello di scadere nella monotonia, disponibilità e familiarità, che rappresentano grossi ostacoli nel mantenimento dell’interesse e curiosità sessuali.

L’ipotesi su cui si poggia l’indagine di Balzarini et al. (2019) è che gli individui coinvolti nelle relazioni poliamorose possano ovviare a questo “effetto collaterale” della costruzione di un affettuoso e appagante rapporto intimo, ricercando di compensare la minor soddisfazione nel dominio erotico stringendo relazioni parallele con ennesimi partner(s). I 1168 partecipanti allo studio sono stati reclutati online tramite sottogruppi di Reddit e gruppi di discussione dedicati al poliamore, identificandosi come poliamorosi (“frequentando diversi individui su conoscenza e accettazione di tutte le parti coinvolte”) e dichiarandosi impegnati da almeno due anni, in almeno due relazioni nello stesso lasso di tempo. Conformemente alle aspettative dei ricercatori, la relazione definibile “primaria” nel contesto dell’assetto poliamoroso, caratterizzata generalmente anche da durata maggiore, era connotata da maggior cura amorevole rispetto alla relazione “secondaria”, la quale invece riportava un focus erotico maggiore della “primaria”. Compatibilmente, il fattore della durata della relazione, correlava sia per quanto riguarda le relazioni “primarie” che quelle “secondarie” con una maggiore cura. Se confrontati con la popolazione monogama, gli individui in una diade “primaria” di un assetto poliamoroso risultavano riservare al proprio partner maggiori cure amorevoli, ma riferivano anche livelli più bassi di erotismo. I “partner secondari” registravano livelli di cure amorevoli più basse rispetto alla popolazione monogama, compensando tuttavia con maggiori punteggi di erotismo nella relazione. Rispetto alla popolazione poligama, l’assetto monogamo sembra risentire maggiormente della variabile della durata della relazione, sia per quanto riguarda le cure amorevoli che per quanto riguarda l’erotismo.

L’assunzione che la monogamia sia l’unica forma di contratto relazionale su cui la nostra società debba essere fondata è largamente data per scontata, influenzando inoltre le teorizzazioni e la pratica clinica. Uno sguardo più aperto verso nuove forme di relazioni amorose potrebbe fornire una valida lezione: come i risultati di Balzarini et al. (2019) sembrano supportare, la monogamia potrebbe giovare dall’iniziare a fare outsourcing (“appaltare”,”prendere da fuori”) concedendo a qualcun altro, al di fuori della coppia, di sopperire all’inevitabile prevedibilità di una relazione di lunga data (Conely & Moors, 2014; Conely, Matsick, Moors & Ziegler, 2017).

Un’adolescente di 17 anni olandese si suicida

Al di là delle tradizioni libertarie in materia fine vita (che personalmente ed in linea generale condivido) è giusto o meno concedere la possibilità di scelta, e di questo genere di scelta, ad una persona con problematiche psicologiche severe e soprattutto minorenne? 

Luigi D’Elia

Ne abbiamo sentito parlare in questi giorni. Questa notizia, nella sua ordinaria drammaticità, assume un particolare e fastidioso clamore per una serie di ragioni incrociate:

1. Viene diffusa nella stampa italiana in modo impreciso lasciando passare l’idea di un’approvazione, mai avvenuta, dello Stato olandese.

2. Si suicida, a quanto pare, con il consenso della famiglia, annunciando e rendendo pubblico il proprio suicidio.

3. Si suicida, lasciandosi morire per inedia, perché sofferente di alcune psicopatologie che le rendono difficile, anzi impossibile, la vita: disturbo, post traumatico, anoressia in cima a tutte.

Come succede spesso, il rumore dovuto a questo clamore mediatico, con le prevedibili, chiassose e noiose polarizzazioni tra i pro-vita e i pro-eutanasia, offusca la questione eticamente (almeno a mio parere) centrale. E cioè: al di là delle tradizioni libertarie in materia fine vita (che personalmente ed in linea generale condivido) è giusto o meno concedere la possibilità di scelta, e di questo genere di scelta, ad una persona con problematiche psicologiche severe e soprattutto minorenne?

Perché la società non concede la stessa possibilità di decidere riguardo altre forme di responsabilità civile e sociale ad esempio riguardo al voto, oppure all’imputabilità di molti reati, e invece dovrebbe farlo per una decisione del genere? Essere minori è ancora un discrimine socialmente condiviso? E perché dovrebbe esserlo o non esserlo?

Ed ancora, una persona minorenne e parte di un sistema sofferente (visto che la famiglia ha rinunciato ad opporsi alla sua scelta, qualcuno sostiene che l’approva) è in grado di stabilire se la propria condizione non ha alcun futuro? Quale clinico in scienza e coscienza è oggi in grado di sostenere che a 17 anni (17 anni!) una persona, seppure gravemente sofferente, non ha alcun futuro? Quale scelta etica risiede dietro la decisione di rinunciare a tentare le strade della cura dopo solo pochi anni di tentativi?

Mi domando se il problema che questo terribile caso solleva non sia anche e soprattutto, ma in maniera del tutto inconscia, il costo sociale di questi tentativi. Fare ulteriori tentativi di cura è a volte estenuante e ingrato di risultati, richiede risorse economiche, umane, a volte immense. Forse dovremmo cominciare anche a pensare che il peso sociale è un’ulteriore variabile, neanche secondaria, da considerare in certe decisioni. Una sorta di autoeliminazione stile lemmings per ridurre l’impatto eco/logico/nomico sul proprio ambiente della propria difficile condizione.

Ma il punto ancor più rilevante che sia una minorenne a imporre una decisione sul proprio suicidio, facendolo assomigliare il più possibile ad una eutanasia, non è dettaglio secondario, anzi, pone a livello etico e sociale la questione come centrale.

Oltre a considerare la stessa scelta di un suicidio, e per di più esibito, un fatto totalmente spiazzante, ciò che più di ogni altra cosa questo episodio solleva è la saldatura, a mio parere impropria (almeno in questo caso) tra determinazione di una adolescente, avallo, attivo o passivo, della famiglia, e cultura del diritto alla morte.

Se un’adolescente è in grado di con-vincere tutti al proprio suicidio, dove possiamo collocare il confine tra mondo adulto e mondo adolescenziale? Dove risiede il concetto di tutela e protezione di un mondo sull’altro? Qual è il confine tra legittima autodeterminazione di una ragazzina a scegliere per sé e responsabilità del mondo adulto nel proteggerla da decisioni autolesive? Qual è il confine tra il rischio di scivolamento in prassi biopolitiche disciplinari e autoritarie di foucaultiana memoria e doverosa responsabilità vicaria verso un minore?

Sembrerebbe proprio che questa famiglia si sia dovuta rassegnare alla decisione della figlia dovendo riconoscersi implicitamente impotente, lei con tutti il mondo adulto, nell’offrire alternative credibili e altre possibili risposte. Il tutto dentro una cornice sociale, quella olandese, che tradizionalmente approva l’autodeterminazione al fine vita che, intendiamoci, in se stessa è una cosa sacrosanta, ma che in questo caso mostra il fianco ad una evidente falla ideologica.

La società e il mondo degli adulti hanno di fatto risposto a questa adolescente rinunciando ad assumersi la responsabilità vicaria, la responsabilità di un adulto verso una figlia che promette e mantiene la possibilità di una vita vivibile, mistificando un preteso diritto di autodeterminazione come foglia di fico di un’impotenza e un’irresponsabilità a garantire ad ella un futuro almeno decente.

Ma se i minori possono autodeterminarsi su tutto, ne consegue che gli adulti, come categoria della mente e del sociale, non solo non servono più a nulla, ma di fatto si dimettono da se stessi e rinunciano collusivamente a garantire alcunché ai loro figli.

Già qualche sentore di questa “dimissione” degli adulti dalle proprie funzioni lo avevamo avuto osservando le recenti difficoltà di transito nei passaggi dei cicli vitali delle ultime generazioni, ma anche osservando la diffusione su larga scala delle dinamiche di partnership emotiva tra le generazioni, con genitori sempre più fragili e emotivamente esposti e sempre più appiattiti sui registri affettivi dei figli e di fatto omologati ad essi per la maggior parte dei loro bisogni. Un miasmatico appiattimento intergenerazionale socialmente assistito.

La scena di questo suicidio socializzato diventa perciò una scena distopica e angosciante alla quale nessuno di noi, ancora residualmente e orgogliosamente adulto, può sottrarsi, e rischia di annunciare un preoccupante e peggiorativo cambiamento di rapporto tra mondi adulti e mondi infantili e adolescenti.

Il fenomeno del Bullismo: come riconoscerlo all’interno del nucleo familiare

Il fenomeno del bullismo, purtroppo, si sta diffondendo sempre di più e non solo nel nostro paese. Sono sempre più numerosi i genitori, sia delle piccole vittime che dei bulli, che si rivolgono agli specialisti dell’età evolutiva, quali gli psicologi, per poter chiedere consigli o addirittura come fare per poter capire se il minore è vittima o meno di questo tipo di fenomeno.

Alessia Micoli

 

Riuscire ad individuare le possibili cause, poi, è relativamente facile mentre più difficile è la terapia.

Bullismo: i campanelli d’allarme a cui fare attenzione

Spesso il minore che è vittima di comportamenti di bullismo da parte di coetanei ha difficoltà nel parlare con i propri genitori per svariati motivi, uno tra i tanti è la paura che questi possano aggravare la situazione, possano arrabbiarsi con i professori, possano andare dal dirigente scolastico, oppure semplicemente per evitare di far soffrire i genitori o per semplice vergogna.

Questi minori affrontano il tutto con la speranza che la situazione problematica si risolva presto e che tutto divenga un vecchio ricordo in modo tale da poter riprendere la propria vita in maniera tranquilla.

La qualità della relazione tra il genitore ed il figlio ha un ruolo fondamentale in quanto offre la possibilità di non sentirsi soli e riuscire ad affrontare il problema giungendo ad una soluzione effettiva.

Un genitore attento è in grado di rendersi conto, anche quando mancano le parole, che vi è qualcosa che turba il figlio poiché i campanelli di allarme che vengono trasmessi sono svariati: il figlio/a diviene agitato, preoccupato, cerca di ritardare l’orario dell’entrata a scuola; inizia a sviluppare una sintomatologia fisica cioè comincia con il soffrire di mal di testa o mal di pancia, dolori che scompaiono durante le vacanze; torna a casa con ematomi in diverse parti del corpo o con libri o quaderni stracciati, riceve delle telefonate o dei messaggi che lo rendono ansioso e si chiude in se stesso.

Possono esservi dimostrazioni di labilità emotiva come lo scoppiare in pianti improvvisi; oppure non viene mai invitato dai compagni ad uscire il pomeriggio o alle feste; mostra un calo nel rendimento scolastico; diviene evasivo circa le domande inerenti il proprio stato umorale; comincia a mettere in atto degli agiti di regressione, cioè inizia a comportarsi come un bambino più piccolo dell’età che ha e ciò per attirare l’attenzione delle figure di riferimento; a volte può far uso di alcol o di droga.

Una volta osservati è fondamentale fare in modo che il minore non si senta né solo nel vivere questa situazione né impotente, il genitore deve fare in modo di trovare la forma di comunicazione migliore per poi arrivare a condividere ogni azione assieme.

Bullismo: famiglia e scuola possono fare tanto

I figli hanno bisogno di essere ascoltati e di poter esprimersi per trovare la propria identità, è fondamentale l’educazione familiare.

A volte non basta parlare del bullismo per affrontarlo, occorre analizzare assieme tutte le forme di violenza e di trasgressione, riuscendo a discutere di violenza scolastica di cui vengono a conoscenza ed analizzare quegli episodi che portano a scoprire la causa e l’effetto.

I genitori dovrebbero ispirarsi all’approccio danese, in Danimarca il bullismo non è considerato come una responsabilità, oppure come una colpa individuale. E’ visto come una conseguenza di una minore tolleranza e quindi come effetto delle dinamiche gerarchiche del gruppo.

I genitori devono creare una forza attiva con la scuola, perché è all’interno della classe che il minore porterà il suo bagaglio educativo ed inizierà a maturare la sua personalità.

Inglese e DSA: 8 indicazioni pratiche per gli insegnanti

I bambini con DSA possono avere una serie di difficoltà durante lo studio dell’ inglese che sono riscontrabili anche in altre materie. Alcune difficoltà sono caratteristiche dei disturbi dell’apprendimento in generale (legate alla stanchezza, ai tempi di concentrazione, al sovraccarico sensoriale, alla memorizzazione), altre invece sono specifiche dello studio della lingua inglese ed è quindi importante promuovere interventi mirati.

 

I bambini e ragazzi con DSA presentano spesso problematiche importanti nell’apprendimento ed acquisizione delle lingue, e la lingua inglese a causa di alcune caratteristiche a livello fonetico, grammaticale e sintattico risulta particolarmente ostica per un discente italofono con DSA.

In questo articolo vorremmo analizzare alcune delle problematiche più frequenti e dare indicazioni concrete ai docenti per affrontarle. Particolarmente, il focus di questo articolo è sulla didattica inclusiva: come in altri contesti, una didattica strutturata, basata su un attento “scaffolding” ma anche su attività motivanti e coinvolgenti è di vantaggio non solo per gli studenti con disturbi di apprendimento, ma per tutti gli alunni.

Gli italiani e l’ inglese: i motivi di una difficoltà generalizzata

Gli italiani sono fanalini di coda per quanto riguarda le competenze in lingua straniera, assieme ad altri paesi dell’Europa meridionale. I motivi di questa difficoltà sono molteplici e riguardano molti bambini (non solo quelli che hanno difficoltà scolastiche):

  • Le lingue italiana ed inglese sono profondamente diverse. È vero che la lingua inglese ha circa un 20% di parole con origine latina, ma spesso queste parole appartengono al registro colto e non sono usate nella vita di tutti i giorni. Tuttavia, non è quella lessicale la differenza più marcata, bensì la differenza strutturale. L’italiano è una lingua flessiva, mentre l’ inglese ha una componente flessiva molto più ridotta.
    Questo spesso passa come uno dei motivi per cui l’ inglese “è facile” (meno regole da ricordare), ma in realtà ciò va a creare non pochi problemi di comprensione del testo (per esempio, in italiano ogni voce verbale ha una desinenza che marca la persona ed il numero, mentre in inglese solo la terza persona singolare del simple present ha il marcatore -s. Ciò significa che quando leggiamo o ascoltiamo l’ inglese abbiamo “meno indizi” per capire chi sta compiendo l’azione). Non esistono lingue piu o meno difficili in sé, ma noi facciamo tanta piu fatica ad imparare una lingua quanto piu distante e diversa è dalla nostra. Per un parlante italofono imparare l’ inglese vuole dire misurarsi con una lingua piuttosto diversa dalla propria, e questa è una difficoltà che hanno tutti.
  • Gli italiani non sono esposti all’ inglese con regolarità: in Italia esiste una solida tradizione di doppiaggio, per cui i nostri bambini non sono abituati ad ascoltare la TV in inglese. Al contrario, nei Paesi del Nord Europa o in ex colonie britanniche come Malta, la televisione proietta regolarmente film, cartoni e programmi in inglese (se l’ inglese è la lingua originale), eventualmente con sottotitoli nella lingua locale. I bambini italiani spesso hanno modo di ascoltare l’ inglese solo a scuola, e quindi non riescono ad apprendere ed automatizzare le forme della lingua. Al contrario, i bambini che crescono ascoltando l’ inglese su base regolare normalmente apprendono ed acquisiscono la lingua molto più facilmente.
  • Questa diversità non riguarda solo la generazione dei nostri figli, ma anche la nostra. Non solo i bambini non sono abituati ad ascoltare l’ inglese, ma anche i genitori sono cresciuti con il doppiaggio e quindi hanno poca dimestichezza con la lingua. Uno studio commissionato da EF ha rilevato che i bambini danesi (i migliori al mondo nella competenza in inglese come lingua straniera) vivono in un contesto familiare e sociale nel quale l’ inglese è normale. I genitori danesi fanno molte più ricerche in internet usando la lingua inglese rispetto ai genitori italiani o francesi. In casa i bambini danesi trovano piu facilmente riviste o romanzi in inglese, vedono i film in lingua originale con la famiglia. Ciò su cui voglio attirare l’attenzione qui non è solo il fatto linguistico, di esposizione allo stimolo in lingua, ma alla componente relazionale e affettiva, la normalità e la familiarità connesse con la fruizione dell’ inglese (ove, nella maggioranza dei casi, per gli italiani l’ inglese è esclusivamente connesso alla scuola o al lavoro).

Acquisizione e apprendimento

In linguistica, si distingue tra acquisizione e apprendimento di una lingua, come due meccanismi diversi per impararla. Naturalmente, i due fenomeni non sono “puri”, ma integrati insieme, tuttavia la suddivisione è molto importante per capire come creare situazioni virtuose di acquisizione e apprendimento con bambini e ragazzi in difficoltà:

Definiamo Acquisizione tutti quei fenomeni che ci portano ad imparare la lingua senza sforzo cosciente di studio o memorizzazione. Ciò che acquisiamo lo impariamo senza studiare e senza percepire consapevolmente che stiamo imparando: è il modo in cui imparano i bambini piccoli. Ciò che abbiamo acquisito viene immagazzinato nella memoria procedurale, e quindi non viene dimenticato. Tipicamente, vengono acquisite le regole sintattiche e grammaticali che ci permettono di comprendere le frasi e produrre frasi comprensibili (in lingua madre in una lingua nella quale siamo fluenti). Alla stessa maniera, vengono acquisiti gli schemi articolatori che ci permettono di recepire e produrre i fonemi (della lingua madre o una lingua in cui siamo fluenti).

Definiamo Apprendimento tutti quei fenomeni che ci portano ad imparare la lingua con uno sforzo cognitivo cosciente, di studio e memorizzazione. Quando studiamo una lista di parole, usando varie strategie, può restare impressa nella nostra memoria a lungo termine. Questi meccanismi sono utilizzati sia per la lingua madre che per la lingua straniera durante tutto il corso della vita (anche in tarda età apprendiamo parole nuove nella nostra lingua)

Una regola grammaticale è naturalmente appresa. Quando applichiamo consapevolmente una regola grammaticale per formare una frase corretta, stiamo “apprendendo” a formare la frase e usando la corteccia in uno sforzo cognitivo consapevole. Quando parliamo o scriviamo in una lingua in cui siamo fluenti, non pensiamo alla regola (che è una procedura automatica). Naturalmente il primo processo è più lento e passibile di errori rispetto al secondo. Con l’uso e il costante feedback da parte degli interlocutori (in linguistica si definisce “funzione di monitor”), le regole grammaticali apprese possono automatizzarsi: quindi ciò che è stato appreso può essere acquisito.

Acquisizione e apprendimento dell’inglese nei soggetti con DSA

Come per tutti gli apprendimenti scolastici, i bambini con DSA possono avere una serie di difficoltà durante lo studio dell’ inglese, legati alla stanchezza, ai tempi di concentrazione, al sovraccarico sensoriale, alla memorizzazione o a difficoltà specifiche legate alla letto-scrittura. Sono difficoltà che possono riscontrarsi nello studio di tutte le materie scolastiche. Qui però vorremmo soffermarci su difficoltà tipiche legate proprio allo studio della lingua inglese.

  • Difficoltà nella discriminazione dei fonemi: teniamo conto che i fonemi della lingua inglese sono 44, mentre quelli della lingua italiana sono 30. Ciò significa che quando siamo esposti all’ inglese abbiamo a che fare con ben 14 fonemi che non ci sono nella nostra lingua e che quindi non siamo addestrati a riconoscere, discriminare e riprodurre.
  • Difficoltà nell’apprendimento della nuove parole: i bambini con DSA potrebbero avere problematiche nell’apprendere le nuove parole, o nel richiamarle efficacemente alla memoria nel momento in cui ne hanno bisogno (disnomia).
  • Difficoltà nell’articolazione dei fonemi e delle parole: spesso accade che i bambini con DSA abbiano problematiche nella programmazione motoria, il che può ripercuotersi nell’articolazione dei fonemi della lingua straniera. Inoltre, la lingua inglese rispetto alla lingua italiana ha un ritmo molto piu veloce, poiché le vocali sono piu brevi, e questo può portare ulteriori difficoltà nell’articolazione.
  • Difficoltà nell’automatizzazione delle regole: i bambini con DSA potrebbero avere delle difficoltà nell’automatizzare le regole grammaticali e sintattiche. Questo potrebbe richiedere più esercizio o maggiore insegnamento esplicito.
  • Difficoltà nello spelling e nella lettura: la fonetica inglese è complessa, ha regole difficili, non c’è corrispondenza diretta tra il suono e la lettera (ad un suono possono corrispondere combinazioni di due o piuì lettere) e ci sono svariate eccezioni ed omofoni. Per questo decifrare da grafema a fonema può risultare laborioso e difficile (talvolta anche per i nativi!).
  • Difficoltà nella comprensione del testo: la lingua inglese è “semi-isolante” ovvero utilizza la posizione della parola nella frase per esprimere funzioni logiche e sintattiche che nella lingua italiana vengono espresse con le preposizioni. Facciamo un esempio “La copertina del libro” vs “The book cover”. La parola book tra articolo e sostantivo ha la funzione del complemento di specificazione, che in italiano è esplicitata dall’uso della preposizione “del”. Ciò non facilita affatto il compito di capire la frase ad una persona che non è un parlante nativo. Inoltre, in inglese la stessa parola può essere usata nella funzione di sostantivo o verbo (ad esempio: “This is my pencil” vs. “I pencil my name”): anche questo non aiuta. Sono molti gli usi “sintetici” della lingua che creano confusione nel lettore non nativo e non esperto.

8 regole pratiche per l’insegnamento inclusivo dell’ inglese

Date queste particolarità ed informazioni, vorremmo restare sul pratico e dare agli insegnanti 8 consigli concreti su come insegnare inglese in modo inclusivo. Le buone pratiche inclusive sono spesso favorevoli per tutta la classe. Al di là delle difficoltà e disturbi specifici, infatti, come abbiamo spiegato la situazione culturale in Italia comporta una scarsa dimestichezza di tutti i bambini con la lingua. E, in situazione di scarsa dimestichezza, un insegnamento strutturato ma coinvolgente (aggettivi che sono poi la cifra dell’inclusività) è davvero il più utile ed efficace per tutti:

  1. Curate il setting: le classi sono spesso rumorose e anche l’illuminazione raramente è curata. Eppure, sappiamo che lo stress sensoriale può fare molto male ai bambini con DSA, ma in generale disturba tutti, aggravando la stanchezza, l’iperattività e la distrazione. Si può evitare lo stridio dei tavoli e delle sedie con dei feltrini o infilando le palline da tennis sulle gambe dei tavoli e delle sedie, come fanno nelle scuole senza zaino. Anche la illuminazione va curata: verificate che tutti i bambini abbiano una buona luce naturale dalla loro posizione e che vedano la lavagna. Tenete d’occhio lo strane posture perché spesso sono indice di cattive abilità di visione. Impugnature contratte anche sono spie di allarme che vanno segnalate, perché segnali di qualche cosa che non va. Abituate i bambini a fare esercizi di rilassamento visivo (basta allontanare gli occhi da foglio e guardare lontano per alcuni secondi ogni 10-15 minuti), ma anche stretching almeno una volta nella mattinata.
  2. Cercare di creare situazioni di immersione linguistica: sappiamo che solo con una alta quantità di input si attivano i meccanismi dell’acquisizione, quindi può essere una buona idea concordare con i genitori un repository online (come un drop box) dove invierete canzoni e video. Consigliate ai genitori di esporre i bambini alle canzoni e video almeno 3 volte alla settimana, per 10-15 minuti, con regolarità. È importante creare in qualche modo delle routines per le quali l’ inglese entri nella vita dei bambini.
  3. Non traducete, piuttosto strutturate e semplificate. Se traducete, sarà naturale per i bambini ascoltare solo la frase e la parola in italiano. È chiaro che tenere la lezione completamente in inglese è difficile e può essere scoraggiante per alcuni alunni. Per questo può essere una buona idea semplificare e strutturare la situazione, in modo che i bambini abbiano un’altra chiave per capire ciò che non colgono verbalmente. Se siete alle primarie suddividete le lezioni in parti, organizzando una routine regolare, ad esempio sigla/circle times—review della lezione precedente–presentazione del nuovo materiale—gioco e attività—esercizio di rilassamento –circle time–saluti. Ogni parte della lezione deve avere una cornice comprensibile come una sorta di sigla o frasi o gesti rituali che permettano ai bambini di avere una sorta di mappa di ciò che sta succedendo. Potete anche fare visualizzare la routine della lezione creando un cartellone, in modo che i bambini sappiano sempre cosa si sta facendo e a che punto sono. Non abbiate paura di essere ripetitivi! I bambini imparano bene con format ripetuti, nei quali si riprendano spesso le stesse parti: il che permette loro di impossessarsi della materia e cominciare a manipolarla in modo autonomo.
  4. Date elementi testuali e contestuali ridondanti: per capire veramente un testo (orale o scritto) è necessario dare tanti elementi, alcuni testuali (significato delle parole, conoscenza delle forme sintattiche e grammaticali usate), altri contestuali (identità ed intenzione comunicativa dell’autore, informazioni sul contesto e sul destinatario del messaggio). Siate ridondanti, date agli scolari le informazioni che possono necessitare per capire. Quando noi parliamo la nostra lingua, abbiamo una serie di elementi culturali, oltre che linguistici, che ci aiutano ad anticipare il significato della frase. Dobbiamo offrire un set anche piu ricco di informazioni se stiamo parlando in una lingua straniera.
  5. Siate multisensoriali: se i bambini devono capire senza che voi traduciate, è necessario non affidare completamente il messaggio alla sola parola, ma usate tutti i canali sensoriali. Usate la vista: cartelloni, illustrazioni da libro o flashcards, video, mappe mentali… Usate l’udito: canzoni, rime, conte, ritmi, narrazioni. Usate il canale tattile e cinestesico: gesti, mimi, mimica facciale, azioni fisiche, manipolazione del materiale, scrittura alla lavagna… Usate spesso piu input sensoriali associati, in modo che i ragazzi possano avere l’informazione contiguamente su due canali sensoriali. Ad esempio, un audiobook è molto utile perché puoi leggere mentre ascolti, questo migliora sia la comprensione del testo che la consapevolezza metafonologica. Una action song è molto utile perché associ il mimo alla parola che stai cantando o ascoltando.
  6. Fate metacognizione: incoraggiate gli studenti a riflettere se stanno imparando e come imparano meglio: ad esempio, se hanno imparato meglio una parola perché ne ricordano la forma scritta, o se li aiuta scriverla su un quaderno o riascoltarla mentalmente. Spronateli ad esplorare varie strategie per ricordare e a trovare ciò che funziona meglio per loro.
  7. Fate fonetica: la fonetica inglese è difficile per questo va affrontata in modo esplicito. Fate esercizio per abituare i bambini all’ascolto dei suoni e dei suoni fonetici, fate giochi di competenza metafonologica per aiutarli a riconoscere, discernere e riprodurre i singoli suoni della lingua e poi fare “blending”. Non serve solo per pronunciare “come gli inglesi” ma anche e soprattutto per capire. È anche indispensabile per la lettoscrittura.
  8. Siate pratici: i bambini devono potere usare ciò che imparano. Vanno bene tutti gli esercizi (drammatizzazioni, role plays, presentazioni) che consentano loro di applicare ciò che stanno imparando, manipolare le informazioni che ricevono e vedere un lato concreto e utile in ciò che stanno facendo.

Percorso formativo per insegnare inglese ad alunni con DSA:

Per il mese di Giugno 2019 abbiamo creato un percorso formativo per insegnanti, dedicato ai docenti delle scuole primarie e secondarie di I grado, incentrato proprio sulle strategie da adottare per insegnare inglese agli alunni con DSA.

La formazione si articola in tre moduli:

  • Insegnare inglese agli alunni con DSA 1 livello
  • Insegnare inglese agli alunni con DSA 2 livello
  • Multisensory English

Il punto di questa formazione si può riassumere cosi:

  • La formazione ha una durata di 60 ore, di cui 24 in presenza, ed è completamente gratuita.
  • 18,19, 20 Giugno: S. Bonifacio (VR)

Per informazioni sulla formazione gratuita per docenti di scuola primaria e secondaria, potete contattare Open Minds.

Il dono nel legame di coppia

Se la coppia si forma come un riconoscimento reciproco, essa presuppone il donare ovvero un legame che obbliga donante e ricevente insito nell’atto stesso dello stare insieme del fare coppia come significato antropologico e culturale.

 

Ciò vuol dire cambiare oggetto di studio: la coppia non è più il frutto della “coazione a ripetere” che tende a replicare il rapporto figlio-genitore dell’altro sesso e, in particolare, della madre. Non è più il frutto della proiezione di contenuti interni sul partner. Per certi versi non è più neanche il frutto delle relazioni oggettuali ma del legame inteso come una struttura inconscia che lega due o più soggetti.

Coppia e famiglia secondo la psicoanalisi

Ciò che è messo in risalto, oltre al legame, è la reciprocità nel rapporto di coppia insieme ad un tema nuovo ovvero gli influssi intergenerazionali. Per la prima volta questi temi furono posti al I congresso internazionale di psicoterapia di coppia e della famiglia, tenuto a Napoli nel 2000, da un gruppo di psicoanalisti italiani tra cui Nicolò, Lucarelli, Torso e Tavazza. Essi misero in risalto, così come riportato dagli autori di “Famiglie in trasformazione” (2015), che bisogna curare il legame come “terzo neoformato”. La famiglia, in quest’ambito, è un “sistema interiorizzato di legami” , costituisce “la matrice dell’identità individuale” ed è “un sistema interattivo” dotata di un “sistema intergenerazionale”. Ecco la novità, la lettura e l’interpretazione dei legami familiari si spostano dall’interazione tra i membri alla loro storia generazionale:

il punto focale di tale approccio è lo studio del continuo reciproco intreccio tra il mondo intrapsichico del singolo membro e il funzionamento interpersonale della famiglia a cui il singolo appartiene (Nicolò 1998 ).

Kaes (2015), nel tentativo di spiegare la fusione di coppia e il mantenimento della stessa, rende evidente il lavoro psichico

richiesto dall’incontro con l’altro e più- di-un-altro perché la psiche, o parti di queste, si associno e si assemblino, perché si sperimentano nelle loro differenze e si mettano in tensione, si regolino.

Il suddetto lavoro deve rispondere a quattro esigenze riguardo al legame intersoggettivo:

  • “L’obbligo per il soggetto di investire il legame e gli altri con la propria libido narcisistica e oggettuale, al fine di ricevere in cambio da questi gli investimenti necessari per essere riconosciuto come soggetto membro del legame”. Il soggetto nell’atto dell’investimento libidico dona al fine di stabilire il legame e nello stesso tempo riconoscersi, in senso antropologico, nel legame;
  • “La messa in latenza, la rimozione, la rinuncia o l’abbandono di alcune formazioni psichiche proprie del soggetto”. Si tratta di abbandonare, modificare e , alcune volte, ampliare i nostri pensieri o il nostro sistema di credenze per aderire a un nuovo progetto condiviso. Ritorna ancora una volta il perdere, il rinunciare per acquisire, per trasformarsi in un nuovo aggregato;
  • “la necessità di mettere in opera operazioni di rimozione, di diniego o di rigetto, affinchè si formino le congiunzioni di soggettività e i legami si mantengano”. Il legame diventa una realtà psichica che ha una vita propria e che mette in atto i dispositivi metadifensivi necessari alla sua autoconservazione. Alcuni hanno parlato, a questo proposito, di alleanze inconsce difensive.
  • L’articolare “gli interdetti fondamentali nei loro rapporti con il lavoro di civilizzazione e i processi di simbolizzazione”. Le alleanze inconsce difensive sono una necessità non solo soggettiva o funzionale al mantenimento del legame, ma anche un’esigenza transgenerazionale.

L’esigenza transegnerazionale è la base del mantenimento dell’ordine e risponde a esigenze di giustizia e proprio per questi suoi principi può essere ascritta alle esigenze antropologiche dell’uomo. Tant’è che Kaes nelle sue teorizzazioni cliniche traccia una realtà psichica senza soggetto che trova i suoi spazi nell’intersoggettività e nell’intrasoggettività. Se lo spazio intersoggettivo, ammesso che si possano separare, trova la sua rappresentatività nel legame di coppia, l’intrassoggettività concerne i passaggi generazionali. Chiaramente inter e intra soggettività si sovrappongono nelle progressioni e trasformazioni culturali. Nicolò (2015), riferendosi alla clinica, individua la intrasoggettività nei miti che le varie generazioni si tramandano e che sono una fonte inesauribile da cui ricavare informazioni sulla forza e qualità dei legami. Rigamonti e Taccani ( 2015) in questi spazi psichici inseriscono il segreto facendo rilevare che a livello intrapsichico svolge una funzione protettiva per il legame di coppia, mentre a livello intrasoggettivo (segreto di famiglia) serve a ripararci da traumi psichici vissuti da generazioni precedenti che sono stati incapaci di elaborarli e simbolizzarli trasmettendoli come tracce che spesso disorientano e confondono. Abraham e Torock (1987), così come riportato da Nicolò e Trapanese in Quale Psicoanalisi per la famiglia?, individuano un “inconscio artificiale” che assume la forma di una cripta i cui contenuti sono costituiti da elementi traumatici, bizzarri e alieni appartenenti a generazioni precedenti. Sembrerebbe il luogo, dove si nasconde e nasce il dono avvelenato e negativo.

Sempre Kaes (op. cit) inserisce all’interno degli spazi inter e intra soggettivi una serie di alleanze che possono essere contraddistinte come di piacere condiviso, d’illusione e creatività e d’amore e di odio. Egli definisce queste alleanze come strutturanti primarie e secondarie. La prima alleanza strutturante primaria, riprendendo Introduzione al narcisismo (1914) di Freud, è quella narcisistica che

definisce un contratto di filiazione: è al servizio degli investimenti di autoconservazione del gruppo e del soggetto e del soggetto di questo gruppo e riconosce il bambino come membro di questo gruppo, esigendo da questi che riconosca il gruppo come ciò che lo precede e ciò che deve prolungare.

Ecco l’affacciarsi del dono della vita come esigenza antropologica e simbolica che si compone, ancora una volta, come perdita per acquistare.

Coppia e famiglia: legami negli spazi intersoggettivi

Il mantenimento dell’ordine e della giustizia è frutto delle alleanze strutturanti secondarie che fanno riferimento allo spazio intersoggettivo. Riprendendo Freud che nel 1929 sostenne che, affinché si realizzasse una società di diritto, il soggetto deve rinunciare alle esigenze pulsionali distruttive, Kaes sostiene che tale rinuncia garantisce uno spazio condiviso in cui l’Io si può realizzare:

sono i garanti dell’interdetto, dell’incesto e dell’assassinio e per questo assicurano la trasmissione della vita psichica tra le generazioni.

Lacan, nel seminario XX, indica il luogo dell’altro nell’intersoggettività e, assumendo l’idea hegeliana, afferma che il soggetto ha bisogno dell’altro per esistere. Il luogo dell’altro è quello materno e quello paterno, ma anche quello dell’altro sesso. La madre, attraverso le cure, è il luogo del linguaggio che permette di comunicare con gli altri. Il padre invece è il luogo della legge e dell’ordine essendo “un significante in relazione con i significanti”. Lacan da grande rilievo al “Nome del Padre” poiché se esso manca non ci può essere il luogo del “grande altro”. Addirittura, sul piano clinico, ritiene che se manchi il “Nome del Padre” non ha senso mettere uno psicotico sul lettino poiché quest’ultimo, relazionandosi con un mondo immaginario, sarà costretto a confrontarsi con un buco, con un cratere, con una voragine, insomma con l’assenza del luogo dell’altro.

Lo spazio intersoggettivo mi piace immaginarlo come il luogo dello scambio di elettroni tra atomi che permettono il formarsi del legame e la comparsa di una nuova sostanza: nell’acqua attraverso un legame covalente, nel sale attraverso un legame ionico. Lewis (op. cit.) attraverso la regola dell’ottetto ci informa che gli atomi sono particolarmente stabili nello stato di valenza quando hanno all’esterno otto coppie di elettroni come i gas nobili. La stessa regola presuppone che quando gli atomi si avvicinano per formare un legame solo gli elettroni più esterni partecipano all’operazione. Infatti, gli elettroni dello strato più esterno sono chiamati elettroni di valenza o di legame. Nel caso dell’acqua due atomi di idrogeno mettono due coppie di elettroni e un atomo di ossigeno sei coppie di elettroni. Il Cloruro di sodio (sale), attraverso il legame ionico, forma otto coppie di elettroni unendo l’unica coppia del sodio a carica positiva con i sette del cloro a carica negativa. Il legame, quindi, può esserci solo nella misura in cui l’atomo è disponibile o a cedere i suoi elettroni di valenza o a patto che essi siano caricati in maniera complementare. Infatti, gli atomi per formare un legame devono reinterpretare e mettere in comunione all’interno di regole certe (perdere, acquistare e mettere in comune) i propri elettroni di valenza, lasciando invariato il proprio nucleo. I chimici considerano gli spazi, dove si formano i legami, come spazi vuoti.

Coppia e famiglia nell’Antico Testamento

E’ nello spazio interpsichico che si formano i legami che possono essere covalenti e/o ionici ovvero che possono essere più o meno forti. La forza dei legami si misura in base all’energia necessaria alla rottura del legame. L’energia necessaria per la rottura del legame potrebbe essere ad esempio il calore. In base all’energia il legame covalente è più forte di quello ionico poiché in questo legame c’è una condivisione quasi con la stessa forza degli elettroni di legame, quindi nessuno dei due atomi della molecola tira di più. Nel legame ionico, data la differenza di elettronegatività e quindi della forza di uno dei due atomi a tirare gli elettroni di legame, l’atomo più elettronegativo ha gli elettroni di legame molto vicini al suo nucleo e basta una piccolissima forza per rompere il legame, che è labile.  Per fare un esempio, il sale (legame ionico) scioglie a 800 gradi circa, mentre il diamante (legame covalente) a 4000 gradi circa. Ciò significa che è più semplice subire attacchi al legame man mano che ci si avvicina al nucleo piuttosto che nello spazio interpsichico. Se ipotizziamo che il nucleo rappresenta la soggettività man mano che ci allontaniamo da essa, il legame diventa più forte come spazio della condivisione e della reciprocità. In sostanza, in questo spazio interpsichico senza soggetto ci riconosciamo in un nuovo soggetto che non necessariamente corrisponde alla soggettività, anzi, l’influsso di quest’ultima può attaccare il legame proiettando su di esso contenuti distruttivi. Inoltre, nei legami umani lo spazio interpsichico non occupato dai legami non è vuoto essendo riempito dalla cultura, dai contenuti antropologici, dal simbolismo e dal sacro.

Vorrei ricordare a questo proposito che nell’Antico Testamento ad Abramo per legarsi a Dio viene richiesta la rinuncia. Deve rinunciare alla sua casa e alla sua terra affinché possa avere in cambio:

  1. una numerosa discendenza;
  2. la benedizione, tramite lui, di tutti i popoli della Terra;
  3. un territorio per la sua discendenza.

Abramo rispose obbedisco: rinunciare per acquistare la discendenza e, nel frattempo, fare legame con Dio. Abramo, in effetti, si sposta ed ebbe la terra promessa così come il discendente Isacco. Ancora, una volta Dio lo chiama e gli chiede di rinunciare al suo unico figlio per offrirlo in sacrificio. Ancora una volta Abramo risponde obbedisco. Sappiamo tutti che il sacrificio di Isacco non fu necessario, ma Abramo era disponibile a rinunciare alla sua soggettività pur di fare legame con Dio. Tra l’altro e ne parleremo dopo, ciò è la dimostrazione che i figli non sono una nostra proprietà privata, ma appartengono alla comunità, alla cultura e al sacro.

Il dono come modalità di legame, ancora una volta, vuol dire rinunciare al fine di conquistare una nuova identità all’interno di una nuova relazione.

Dalla coppia alla famiglia: i legami con i figli

Kaes, come abbiamo detto in precedenza, nell’ambito delle alleanze strutturanti primarie indica la filiazione come sistema di autoconservazione per il gruppo e per il soggetto. Ricoeur (op. cit.) a proposito del riconoscimento del sé in seno alla scala genealogica arriva alla conclusione che “riconoscersi nella filiazione” vorrebbe dire “riconoscimento” come “luogo di un debito senza colpevolezza”.

La famiglia, infatti, non è solo la coppia ma sono presenti anche i figli. Per richiamarci alla formazione dei composti chimici, il legame è anche determinato dalla lunghezza. Da questo punto di vista è piuttosto semplice e ovvio osservare che i legami più forti sono nella rete parentale e, restringimento ancora di più il campo, anche all’interno della stessa cerchia dei familiari. Il rapporto madre-figlio è senza dubbio, almeno nei primi anni di vita del bambino, più forte del legame tra gli stessi genitori così come quello tra marito- moglie e maggiore di quello con le rispettive famiglie di origine. Allo stesso modo, gli individui investono e legano all’inizio della loro vita con i propri genitori e, solo durante l’adolescenza, tendono a investire e legare con i propri pari età. Il legame, infatti, in psicologia è stato studiato prevalentemente nell’ambito dei processi socializzativi ed evolutivi sia inter sia intragenerazionali. La psicologia e, in particolare, la psicoanalisi hanno prestato attenzione ai rapporti madre-figlio (caregiver materno) come elemento essenziale per lo sviluppo futuro.

La connessione mente-corpo nei pazienti psichiatrici

Un recente studio ha mostrato come l’utilizzo di un programma di educazione alimentare e di esercizi fisici strutturati migliorino il tono dell’umore e lo stato di benessere percepito in pazienti psichiatrici.

 

Dunque, questa ricerca ha voluto testare se lo svolgimento di esercizi fisici e la somministrazione di una dieta alimentare strutturata potessero fungere, unitamente alla psicoterapia, da strategie di coping per pazienti con patologie psichiatriche. In particolare, sembrerebbe che il programma fisico-alimentare somministrato abbia agito positivamente sull’umore e sul benessere percepito dai pazienti.

Lo studio

Il campione dello studio (N=100) è stato reclutato dal reparto di psichiatria del centro medico appartenente all’università del Vermont. Ai pazienti sonno state diagnosticate, da DSM 5, problematiche psichiatriche (depressione, disturbo bipolare, ansia generalizzata, disturbo schizoaffettivo, psicosi) e disturbi di personalità. Lo studio è durato 12 mesi e i partecipanti, volontariamente, hanno aderito ai programmi di allenamento e di educazione nutrizionale della durata di 60 minuti, che venivano svolti quattro volte alla settimana.

Per valutare l’efficienza del programma, ai pazienti sono stati somministrati questionari self report che valutassero l’autostima, l’umore e l’immagine di sé, prima e dopo ogni sessione di allenamento.

Risultati

Al termine dello studio, più del 90% dei pazienti ha riportato sia un miglioramento del tono dell’umore, sia feedback positivi rispetto alla percezione del proprio corpo. Inoltre, dall’analisi del questionario di soddisfazione è emerso che il 97,6% dei partecipanti si è mostrato interessato alla possibilità di poter proseguire il programma fisico-alimentare.

In conclusione, l’esercizio fisico e l’educazione nutrizionale potrebbero rappresentare una valida strategia di promozione del benessere psicofisico nei pazienti psichiatrici. Tuttavia, è bene sottolineare che tale approccio risulta essere funzionale se concomitante ad un percorso di psicoterapia e, qualora fosse necessario, ad una terapia farmacologica. Dunque, un approccio multidisciplinare che promuove la connessione mente-corpo sembrerebbe utile a stimolare sia lo sviluppo di strategie cognitive che somatosensoriali dinamiche ed adattive.

L’effetto delle esperienze avversive precoci sull’alterazione dell’espressione genica con conseguenze sulla salute mentale adulta: cronicità ed effetto recency quanto impattano? – FluIDsex

Secondo alcuni ricercatori, gli effetti di esperienze avversive precoci e ripetute aumentano in base al numero di esperienze avute, con un’ipotesi di recency, in cui si ipotizza che gli effetti delle avversità siano più forti quando gli eventi si sono verificati di recente.

 

Uno studio del Massachusetts General Hospital (MGH) ha indagato la vulnerabilità dei bambini minori di tre anni agli effetti delle avversità precoci. La vulnerabilità a tali esperienze avversive precoci è stata indagata nei profili epigenetici di questi bambini, ovvero nell’alterazione dell’espressione genica in seguito ad esperienze di povertà, abuso, instabilità familiare.

Il principale ricercatore dedicatosi allo studio è Erin Dunn, assistente professore di Psicologia presso il dipartimento di Psichiatria della Harvard Medical School.

Gli effetti delle esperienze avversive precoci sul DNA

Studi condotti sia su animali sia su esseri umani hanno svelato come esperienze avversive precoci possono avere effetti duraturi sull’epigenetica. Tali studi hanno riportato differenze nella metilazione del DNA di persone che hanno vissuto esperienze avversive stressanti precoci o meno.

In particolare, il presente studio è stato progettato con l’obiettivo di verificare l’ipotesi che ci siano periodi sensibili durante i quali le eventuali avversità di vita siano associate a cambiamenti significativi nella metilazione del DNA. Inoltre, i ricercatori dello studio hanno confrontato l’ipotesi di accumulo di esperienze avversive precoci, in cui gli effetti degli eventi stressanti aumentano in base al numero di esperienze, con un’ipotesi di recency, in cui si ipotizza, invece, che gli effetti delle avversità siano più forti quando gli eventi si sono verificati di recente.

I dati utilizzati nel seguente studio sono quelli raccolti per il Longitudinal Study of Parents and Children, uno studio inglese iniziato negli anni ’90. In questo studio, i partecipanti genitori hanno riportato regolarmente molti aspetti relativi alla salute e alle esperienze di vita dei propri figli, reclutati come partecipanti allo studio prima della propria stessa nascita. Attualmente i dati riguardano un sottogruppo di oltre 1000 coppie madre-bambino, selezionate casualmente, e da cui erano stati eseguiti profili di metilazione del DNA dei bambini alla nascita e all’età di 7 anni.

Nella selezione del campione oggetto di studio furono ritenute esperienze avversive precoci e dunque come tali vennero registrate, l’esposizione ripetuta nel tempo alle seguenti esperienze stressanti: abuso da parte di un genitore, di un altro caregiver o di chiunque altro; la malattia mentale di una madre; vivere in una famiglia monoparentale; l’instabilità familiare; lo stress finanziario familiare; svantaggio della zona o povertà.

È emerso che la maggior parte dei cambiamenti nella metilazione erano associati a quando l’esperienza stressante aveva avuto luogo. Inoltre, le avversità prima dei 3 anni hanno avuto un impatto significativamente maggiore sulla metilazione rispetto alle avversità nelle età da 3 a 5 o da 5 a 7.

Gli eventi più impattanti furono i seguenti: svantaggio della zona, seguito dallo stress finanziario della famiglia, dall’abuso sessuale o fisico e dal vivere in una famiglia monoparentale.

Sebbene le esperienze della prima infanzia avessero i maggiori effetti, le avversità in età avanzata non furono prive di impatto. I risultati più significativi riguardano alterazioni nel “periodo vulnerabile” (fino ai 3 anni), ma non vengono esclusi effetti correlati alla cronicità/accumulo delle esperienze e di recency, infatti dai risultati emerge che due dei siti in cui la metilazione risultava alterata erano associati alla frequenza delle esperienze avversive e al loro essere recenti.

In conclusione

I risultati del presente studio suggeriscono che i primi tre anni di vita possono essere un periodo particolarmente importante per plasmare i processi biologici che danno luogo a condizioni di salute mentale. Quando tali risultati vengono replicati, essi implicano che dedicare interventi a bambini che hanno sperimentato avversità nei primi tre anni, possono aiutare a ridurre il rischio a lungo termine di problemi, quali depressione.

Sostiene Dunn, sottolineando l’importanza del fatto che altri ricercatori possano replicare lo studio:

Sarebbe inoltre interessante esaminare l’interazione di effetti di accumulo e recency con i tempi di esposizione ed effettuare la raccolta e l’analisi dati su un numero più alto di partecipanti.

Indubbiamente un maggior numero di informazioni a riguardo potrà arricchire le conoscenze sull’argomento e guidare la progettazione di un più solido canale preventivo.


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Crisi adolescenziale, teorie e ricerca del proprio ruolo

Secondo Erikson il processo di costruzione dell’ identità non si esaurisce in un periodo circoscritto che può essere quello dell’ adolescenza, ma si protrae per tutta la vita e la crisi di identità può manifestarsi in modo più o meno violento anche in relazione al momento storico che ci si trova a vivere.

 

Il passaggio dall’infanzia all’età adulta è normalmente caratterizzato da quella fase definita come crisi adolescenziale. Giovanna Racchetti, psicologa, nel suo libro “Il genitore nascosto” ci descrive un’ adolescente che si sente intrappolato in un tempo da cui teme di non uscirne mai più, un adolescente che soffre la perdita di punti di riferimento e non è ancora in grado di godere delle sue nuove conquiste e della sua nuova identità. Deve elaborare il lutto verso gli oggetti di investimento infantili, in primo luogo verso le figure genitoriali, per potersi rendere autonomo da loro ma, allo stesso tempo, ha segretamente bisogno del riconoscimento dell’adulto per sentirsi veramente autonomo. Questa necessità dà luogo a comportamenti contraddittori che vanno da moti di indipendenza e ribellione all’autorità degli adulti, a richieste regressive di attenzione.

Adolescenza e costruzione dell’ identità: la voce degli autori

Winnicott parla dell’ adolescenza come di un atto aggressivo. Crescere significa prendere il posto dei genitori e questo implica che le figure genitoriali vengano idealmente “uccise” perché l’ adolescente possa subentrare al loro posto: “se il bambino deve diventare adulto, questo avviene sul cadavere di un adulto”.

Sul tema del lutto torna Erikson, che ci parla di un adolescente che si trova a dover riconsiderare le sue certezze infantili e quello in cui si identificava, per operare una selezione in base ai suoi bisogni e alle sue capacità in modo da poter creare una sua propria identità che gli permetta di trovare uno spazio nel contesto sociale. In questa ricerca l’ adolescente va alla ricerca di modelli in cui identificarsi e che gli indichino la strada da percorrere, ma la sua insicurezza lo porta spesso a cercare e sovrapporre modelli differenti creando una confusione di ruoli generatrice di ansie.

Interessante teoria su questo tema è quella esposta da Viktor Frankl, neurologo e psichiatra, che per primo introduce nel campo della psicologia il concetto di “senso delle vita” che era precedentemente esclusiva dell’ambito filosofico. Frankl è riconosciuto come il fondatore della logoterapia, che si pone come obiettivo primario la riscoperta del significato dell’esistenza dell’essere umano. Proprio la ricerca del senso della vita si troverebbe alla base del passaggio dall’infanzia all’età adulta; la faticosa ricerca di un significato diventa generatrice di quella frustrazione che viene percepita dai giovani nel tentativo di realizzarsi definendo il loro significato e il loro scopo. La motivazione al cambiamento è data dalla direzione che ci si è prefissata e dalla meta che si vuole raggiungere. Trovare il proprio significato vuol dire trovare il proprio posto nel mondo e indirizzare i propri sforzi a perseguire quell’obiettivo che dà un senso alla propria vita. In accordo con questa teoria è anche Erikson per il quale sapere “dove si va” fornisce l’intima sicurezza di avere un proprio posto nel mondo, accettato, riconosciuto, e quindi legittimato, dagli altri.

Così dice Allport a questo proposito:

Il senso dell’io raggiunge la sua completezza quando l’ adolescente comincia a fare dei progetti, a porsi delle finalità ad ampio raggio.

Sempre secondo Erikson, il processo di costruzione della propria identità non si esaurisce in un periodo circoscritto che può essere indicato dal termine adolescenza, ma si protrae per tutta la vita e la crisi di identità può manifestarsi in modo più o meno violento anche in relazione al momento storico in cui ci si trova a vivere.

Tornando alle teorie di Frankl, un ulteriore approfondimento ci arriva leggendo “Giovani, identità e senso di vita” della dottoressa Del Core, docente e psicologa, che mediante una ricerca sperimentale arriva a concludere che la costruzione di una propria identità si basa sull’elaborazione di una scelta di vita che determina l’indirizzo degli impegni e degli decisioni che si deciderà di assumersi. Alla costruzione del senso di sé contribuiscono anche la percezione delle proprie possibilità e l’esistenza di un modello di vita (anche qui ci ricolleghiamo ad Erikson) che fornisca punti di riferimento. Oggi la definizione di una propria identità risulta più difficile e, può sembrare un paradosso, ciò avviene proprio in relazione al numero crescente di opportunità professionali e personali che la società offre ma a fronte delle quali manca un’effettiva possibilità di realizzazione delle stesse (si pensi alle innumerevoli proposte formative tra cui i giovani si trovano a scegliere e alla difficoltà di reali sbocchi nel mondo lavorativo).

I due grandi problemi dell’ adolescenza sono: trovarsi un posto nella società e, allo stesso tempo, trovare se stessi. (Bruno Bettelheim)

Le ricerche esposte dalla professoressa Del Core, condotte mediante interviste, evidenziano come il “senso di identità” e il “senso della vita” tendano a sovrapporsi in questo periodo evolutivo in cui si affrontano cambiamenti generali riferibili sia alle relazioni con la famiglia e con tutto l’ambiente circostante, sia con l’immagine e l’idea che si ha di sé, sia ai propri progetti e ai propri valori. Il processo di rielaborazione dei valori è ancora limitato perché è ancora molto forte la dipendenza dalla famiglia e dai coetanei. Proprio in questi ultimi, gli adolescenti trovano un termine di confronto per sperimentare i cambiamenti in atto. L’educazione dovrebbe, secondo la Del Core, farsi carico di accompagnare gli adolescenti a realizzare una progettualità all’interno e nonostante la propria identità non ancora ben definita e un ambiente che non fornisce punti di riferimento certi.

L’isola dell’abbandono (2019) di Chiara Gamberale – Recensione del libro

L’isola dell’abbandono è l’ultimo libro della scrittrice Chiara Gamberale che, come già nel precedente Per dieci minuti, torna a parlare di quando gli eventi della vita irrompono e pongono di fronte a un bivio: restare fermi nelle proprie convinzioni, abitudini, zone di comfort, oppure aprirci alla possibilità di cambiare, sviluppando potenziali che non eravamo consapevoli di possedere.

 

L’importante è che adesso – proprio adesso – lei sappia che ci sono labirinti dove, per uscire, dobbiamo mollare il filo che avevamo in mano, invece di tenerlo stretto.

L’isola dell’abbandono: mito e abbandono

Il mito greco di Arianna e Teseo, sfondo del libro, offre un’interessante metafora dell’abbandono, uno degli eventi più dolorosi che possono capitare nella vita.

Narra il mito che Teseo, uscito dal labirinto di Creta grazie ad Arianna, non rispettò la promessa di portarla ad Atene per sposarla, bensì l’abbandonò sull’isola di Naxos, da cui origina l’espressione “essere piantati in asso”. Da lì, il mito si sviluppa in molteplici varianti, di cui due versioni appaiono particolarmente interessanti: in una variante, il dio Dioniso per consolarla dona ad Arianna una corona e la rende immortale trasformandola in una costellazione (la Corona Boreale), che diventa una sorta di simbolo perenne dell’abbandono subito; in un’altra versione invece Dioniso, giunto sull’isola e innamoratosi di Arianna, la sposa e la fa diventare una dea e il diadema d’oro ricevuto come dono di nozze, lanciato in cielo, diventa costellazione.

Queste due varianti del mito sembrano rappresentare i due possibili modi di reagire all’abbandono: rimanere congelati nel dolore dell’abbandono, facendo in modo che la paura di esso continui a condizionare le nostre scelte, oppure elaborare quel dolore e imparare a gestire quella paura, aprendoci così a nuove opportunità.

L’isola dell’abbandono e la paura dell’abbandono: le origini

La protagonista del libro della Gamberale si chiama proprio Arianna ed è un’illustratrice di favole e fumetti per bambini. La paura più grande di Arianna è quella di perdere le persone che ama, paura che potremmo definire normale, se non fosse che in lei assume proporzioni tali da crearle uno stato di ansia perenne, condizionandone le scelte di vita.

Dai pochi cenni al passato di Arianna, si deduce che il padre ha lasciato la madre venticinque anni prima e, da lì, la madre ha manifestato lo stesso stato patologico di ansia, trasmesso poi alla figlia.

E’ attraverso due suoi personaggi, “l’elefantino Naso” e “la bambina con gli occhi verde alieno” del suo fumetto “Naso torna sempre”, che Arianna ci permette di comprendere meglio questa sua paura: la “bambina con gli occhi verde alieno” è felicissima quando riceve in regalo dal suo papà l’elefantino peluche Naso, ma quest’ultimo finisce per sparire continuamente; ogni volta che questo accade, disperazione e febbre a quaranta assalgono la bambina. Il papà, per farla guarire, le compra ogni volta un peluche identico che di nuovo scompare, riattivando lo stesso susseguirsi di eventi in un interminabile ciclo di abbandono-ricongiungimento-abbandono.

La bambina è

talmente paralizzata dall’idea di venire abbandonata da scegliere un amico capace di fare solo quello (…) perché se avesse scelto un amico fidato, uno che non scappava mai, allora sì che l’abbandono avrebbe potuto essere davvero tremendo. Mentre così, alla fine, pareva un gioco.

L’isola dell’abbandono a Naxos

Arianna, come “la bambina con gli occhi verde alieno” col suo peluche, sceglie come suo primo grande amore Stefano, un uomo incapace di essere presente e dall’umore labile, a cui fa più da madre che da compagna.

Del resto Arianna, fin dai tempi in cui faceva la baby sitter, assorbiva dentro di sé le difficoltà dei bambini a cui badava –

si immergeva tutta in quella innocenza, per aiutarla a proteggersi dal mondo e da se stessa, …

– così come si rifugia oggi nei suoi disegni e nella relazione con Stefano, “il compagno di giochi ideale”.

Arianna e Stefano si incontrano in un reciproco bisogno, che li incastra in una disfunzionale dinamica relazionale: da una parte, Stefano ha bisogno di Arianna per uscire dal labirinto della sua mente, dall’altra Arianna ha bisogno di legarsi a qualcuno che è incapace di essere presente, cosa che, pur facendola soffrire, le è pur sempre familiare e confortevole. La relazione tra Arianna e Stefano si trascina così per sette anni tra continui alti e bassi, in un’alternanza di momenti sfavillanti e ripetuti abbandoni da parte di Stefano, fino all’ultimo, quello più straziante: sull’isola di Naxos, dove erano andati in vacanza, Stefano “la pianta in asso” e scappa a Londra con una ragazza inglese conosciuta sul posto.

L’isola dell’abbandono e oltre

L’abbandono di Stefano a Naxos, che produce una grande sofferenza in Arianna, si tramuta tuttavia in un’occasione di svolta allorché, proprio in quell’isola, incontra di lì a poco Di (il Dioniso del mito), un uomo che invece è disposto ad esserci e ad amarla in modo autentico (“Che cosa significa amare? Significa esserci …”)

Di, in un dialogo con Arianna, usando le metafore di “Papà Trauma” e “Mamma Ossessione”, le spiega come gli eventi dolorosi che ci capitano non debbano diventare giustificazione per chiuderci e proteggerci da ogni altro dolore perché, così facendo, si rischia di proteggersi anche da quello che di bello ci può capitare e che in fondo desideriamo.

Purtroppo il palesarsi improvviso, dopo pochi mesi, dell’evento maggiormente temuto da Arianna, la tragica morte di Stefano in un incidente, non le permettono di far proprie dentro di sé le parole di Di e di continuare a vivere con lui quel rapporto fatto di presenza.

Arianna lascia Naxos e, con essa, Di e rientra a Roma dove, sentendosi disgregata in pezzi, si fa ricoverare in una clinica dove viene presa in cura dallo psichiatra e psicoterapeuta di Stefano, Damiano. Quello che, all’inizio, è solo un rapporto terapeutico diventa qualche mese dopo una relazione a cui Arianna si aggrappa e da cui nascerà un bambino, Emanuele. Damiano è un uomo che può esserci solo a metà, invischiato nel rapporto con la moglie e che, inoltre, sembra usare le conoscenze della mente di Arianna per far leva sulle sue fragilità (non a caso, uno dei significati del nome Damiano è “colui che domina”).

L’isola dell’abbandono: ritorno a Naxos

La nascita del figlio Emanuele è un evento che Arianna all’inizio vive come totalizzante e che rischia di farla rifugiare e annullare nella cura di un altro, come era già successo con Stefano. Ma l’incontro con Lidia, mamma in attesa conosciuta ad una seduta di gruppo di genitori single (e protagonista del libro Adesso della Gamberale), le dà un’occasione di potente insight:

… se non trasformeremo i nostri figli nella scusa per perdere definitivamente il contatto con quello che davvero siamo, anche se è scomodo, soprattutto se è scomodo, io penso che quando un giorno loro ci chiederanno: che cosa è successo, mamma?, come mai qui, nella mia testa, è tutto per aria? (…), be’: almeno una risposta da noi ce l’avranno (…) E magari a loro volta, quando cresceranno, sapranno che cosa vogliono, lo sapranno chiedere, sapranno dire qui mi fa male, oppure scusa, saranno liberi di dire ti amo anch’io, non ti amo più, (…).

Le parole di Lidia la invitano a ricostruire la propria identità e a trovare da sola la strada per capire quello che davvero vuole. Arianna così decide di tornare dopo dieci anni a Naxos, dove tutto le sembra finito e, allo stesso tempo, iniziato.

Il nuovo incontro con Di, oltre ad essere un momento di bilancio di vita, è anche l’incontro con il processo di cambiamento che era iniziato e subito stroncato dalla notizia della morte di Stefano. È il momento di far ripartire quel cambiamento, iniziando dal recupero del ricordo di quell’esperienza positiva vissuta con Di, che Arianna non aveva nemmeno riportato nelle lettere scritte a suo figlio prima della nascita, come se quel pezzo di vita, in cui “le è sfuggito il filo di mano”, fosse rimasto blindato dentro di sé. La sfida per Arianna ora è imparare ad abbandonarsi alla vita con fiducia per

avere la sensazione di vivere, perchè, anche se ogni tanto è faticoso, comunque ne vale la pena,

insegnamento da trasmettere anche a suo figlio.

L’isola dell’abbandono è un romanzo sia sull’abbandono come evento doloroso, sia sull’importanza di abbandonarsi alle trasformazioni a cui i grandi eventi (come anche una nascita) ci chiamano, non congelandoci nella paura di perdere il controllo. Nessuno infatti può sfuggire all’abbandono nelle sue varie forme – dall’essere lasciati fino alla perdita di una persona cara – tuttavia, dal dolore dell’abbandono, se lo si accoglie e si decide di viverlo, può scaturire occasione di ripartenza, di rinnovata forza e consapevolezza di sé.

Dal meccanismo di attacco-fuga alla preoccupazione

Due studi recenti hanno cercato di mappare gli effetti dell’ ansia di tratto e dei diversi livelli di sofisticazione ed efficacia del processo decisionale sulla corteccia prefrontale umana per spiegare perché proviamo paura e ansia.

 

Gli studi sono rispettivamente di Fung e colleghi del California Institute of Technology di Pasadena e Korn & Bach del dipartimento di Psichiatria, Psicoterapia e Psicosomatica dell’Università di Zurigo, apparsi recentemente su Nature Human Behaviour. Integrano e aggiungono ai già preesistenti modelli animali di comprensione dei circuiti sottostanti la paura e l’ansia nuova linfa, mappando gli effetti dell’ ansia di tratto e dei diversi livelli di sofisticazione ed efficacia del processo decisionale sulla corteccia prefrontale umana generando un modello più complesso di spiegazione del come e perché abbiamo paura e proviamo ansia.

Ansia e paura: sono sovrapponibili?

La paura e l’ ansia sono la stessa cosa? Provengono dagli stessi circuiti come finora ipotizzato ed evidenziato dai modelli animali (McNaughton, 2019)? Quali sono le variabili che influenzano i processi di decision making per la selezione del comportamento più adatto alle circostanze ambientali minacciose?

Nel presente articolo verranno presi in considerazione due recenti studi che hanno svelato i meccanismi neurali gerarchici di controllo e gestione della minaccia, dando una nuova prospettiva alla comprensione della paura e dell’ ansia, tramite la manipolazione virtuale e a vari livelli della minaccia.

Solitamente, nell’ambito della psicologia comune, la paura e l’ ansia sono ritenute stati emotivi tra di loro sovrapponibili, dipendenti l’una dall’altra, determinati dagli stessi stimoli avversivi e aventi la stessa valenza e così i due termini vengono utilizzati spesso come sinonimi intercambiabili per descrivere e comunicare le medesime manifestazioni fisiologiche, cognitive e comportamentali.

Questa relazione tra paura e ansia non ben definita a livello teorico è ulteriormente complicata dal fatto che diversi modelli animali hanno evidenziato come esse e le loro risposte difensive siano associate all’attivazione di specifici network e sistemi neurali in parte sovrapposti (McNaughton, 2019).

Ansia e paura: lo studio per capire come nascono

Tuttavia nel panorama delle neuroscienze affettive, nuovi dati (Mobbs, Petrovic et al., 2007; Qi, Petrovic et al., 2018) stanno progressivamente problematizzando tale relazione evidenziando come la paura e l’ ansia siano stati emotivi simili ma non del tutto sovrapponibili o equivalenti e che lo spostamento dall’una all’altra dipenda dall’attivazione “sottile” di alcune aree cerebrali che rispondono a diverse caratteristiche ecologiche della minaccia presente nell’ambiente.

Il primo studio che approfondisce tale dato empirico è di Fung e colleghi (2019), i quali hanno realizzato un disegno sperimentale in grado di valutare selettivamente i contributi della paura cosiddetta “reattiva”, più semplice e istintiva, e di quella “cognitiva”, più gerarchicamente strutturata appartenente alla sfera dell’ ansia, nella presa di decisione per l’implementazione di comportamenti difensivi.

Nello specifico, il compito comportamentale, sottoposto a 28 studenti universitari, prevedeva un task al computer nel quale ciascuno avrebbe dovuto massimizzare il guadagno di una certa somma di denaro mentre al contempo si sarebbe trovato a fronteggiare l’incombenza e l’attacco di un predatore virtuale.

Lo scopo del compito pertanto è stato simultaneamente quello di guadagnare denaro evitando di essere catturati: nel caso in cui la persona fosse riuscita a sfuggire con successo all’attacco, avrebbe guadagnato l’intero ammontare della cifra di denaro, in caso contrario avrebbe ricevuto un leggero shock elettrico e avrebbero perso la somma di denaro.

Le diverse condizioni sperimentali erano caratterizzate da differenti tipologie di predatori, la cui incombenza veniva segnalata tramite un cue specifico con diversi gradi di intensità di attacco (lieve-moderato-forte) e di timing in cui il soggetto avrebbe ricevuto l’attacco del predatore: ad esempio il predatore ad attacco rapido ed anticipato, passava rapidamente dall’approccio di avvicinamento lento a quello veloce verso la persona e quindi richiedeva a quest’ultima di prendere rapidamente una decisione per fuggire.

Per completare il compito con successo, ciascun partecipante avrebbe dovuto ad ogni trial imparare le varie distribuzioni di distanza di attacco per ciascuna tipologia di predatore e rispondere il più prontamente possibile aumentando e raggiungendo la giusta distanza tra lui e il predatore (Fung et al., 2019).

I soggetti hanno completato il task mentre erano nello scanner della risonanza magnetica funzionale utilizzata per valutare in modo distinto e dissociato i diversi contribuiti della paura reattiva e della paura cognitiva sui comportamenti di fuga e la diversa attività cerebrale in funzione dei diversi livelli interindividuali di ansia di tratto.

Ansia e paura: il peso dell’ansia di tratto nelle nostre reazioni

I dati ottenuti, mettendo in relazione le diverse tipologie di predatore con diversa distanza di attacco (lento-medio-veloce) con i punteggi dei soggetti ottenuti al test STAY-T e la percentuale di fughe avvenute con successo, hanno suggerito che l’ ansia di tratto correlava positivamente con i successi nelle fughe, in particolare nella condizione di in cui l’incombenza del predatore era lenta, facendo quindi ipotizzare che le persone con un’alta ansia di tratto riuscivano a scappare con maggior successo; tuttavia questo loro successo nella fuga correlava negativamente con la quantità di denaro guadagnata.

In aggiunta, i ricercatori hanno osservato delle significative risposte di attivazione cerebrale nelle regioni dell’amigdala, dell’ippocampo, della regione ventrale mediale prefrontale e parte della corteccia cingolata; l’attivazione di questo macrocircuito infatti è risultata andare di pari passo con i punteggi alti o bassi del test STAY-T.

Di conseguenza è apparso evidente come l’ansia di tratto sia stata in grado selettivamente di influenzare le decisioni facilitando la messa in atto di un comportamento di fuga, ma solo nella condizione in cui viene chiesto alla persona di scegliere più “cognitivamente” a come rispondere alla minaccia reale presente nell’ambiente anziché alla sua incombenza immediata, tramite la distinzione tra quantità di tempo a disposizione (per la decisione di scappare) e la selezione di altre strategie cognitive.

Un’urgenza nella risposta dovuta ad un predatore veloce ingaggia invece i circuiti di sopravvivenza difensiva sottocorticali come la materia grigia periacquiduttale.

Ansia e paura secondo Blachard

Tutto ciò supporta ulteriormente la teoria basata sulla distanza difensiva di Blanchard (1990), secondo la quale le reazioni (di solito di paura) ad un pericolo immediato sono frutto di un circuito neurale più basso a livello gerarchico, mentre quei pericoli anticipati, più distanti sia fisicamente che psicologicamente (più legati all’ ansia) deriverebbero da aree ad alto livello gerarchico come la corteccia prefrontale.

La scelta del comportamento da adottare e il coinvolgimento delle aree si distingue tra di loro, in modo anche dissociabile, nel caso in cui la minaccia sia distale oppure prossimale e sono ulteriormente influenzate dal livello di ansia di tratto (Fung t al., 2019).

Sulla stessa linea delle evidenze ottenute da Fung e colleghi (2019), lo studio di Korn & Bach (2019) ha ulteriormente messo in evidenza questa specializzazione e differenza nel coinvolgimento e nell’attivazione dei network neurali sottostanti la paura e l’ ansia soprattutto nelle condizioni in cui la persona si trovava a dover stabilire quale linee di condotta (soluzione) ottimale selezionare e poi seguire tra tutte le possibili opzioni a disposizioni.

Ciò soprattutto in una condizione più ecologica in cui i processi di decision making sono resi ulteriormente difficoltosi dalla presenza nell’ambiente di una minaccia.

Tra gli esempi più rilevanti in questo ambito vi è la presa di decisione in un contesto più complesso in cui si presenta la possibilità di mettere in atto due comportamenti ugualmente rinforzati ma entrambi rischiosi e in conflitto tra di loro, come l’approcciarsi ad una fonte di cibo evitando al contempo un predatore minaccioso presente nei dintorni (Qui et al., 2019).

Ansia e paura: come incidono sul decision making

Gli autori dello studio si sono focalizzati sull’analisi delle strategie cognitive che permetterebbero alla persona di prendere una decisione risolvendo la problematicità e la conflittualità tra approccio vs evitamento e le relative rappresentazioni a livello neurale (Korn & Bach, 2019).

Anche in questo caso è stato utilizzato un compito virtuale di decision making, nel quale ai soggetti veniva presentata la possibilità di raggiungere un foraggiamento in una foresta in cui era altresì possibile morire a causa dell’attacco di un predatore o per inedia.

Lo scopo del videogioco era quello di resistere e sopravvivere nella foresta per quanti più giorni possibile cercando di mantenere tutte le “vite” a disposizione; per ogni giorno passato nella foresta, i soggetti avrebbero dovuto selezionare tra due diverse opzioni, quali “aspettare” perdendo gradualmente un punto di energia oppure l’opzione “nutrirsi”.

In aggiunta a ciò, in un ordine randomizzato, ciascun partecipante imparava ad aspettarsi, con diversi gradi di probabilità per ogni trial, l’attacco di un predatore.

È bene precisare che il compito sperimentale di decision making è stato strutturato a partire dal modello matematico di Markov che ha consentito di individuare e calcolare a priori la linea decisionale ottimale per selezionare l’azione che avrebbe permesso di massimizzare il guadagno e minimizzare la perdita delle “vite” a causa del predatore o dell’inedia, in modo da avere un criterio decisionale ottimale a monte per la successiva spiegazione delle scelte dei partecipanti.

A partire da questo criterio optimum sono state di conseguenza derivate delle euristiche, ciò delle strategie alternative al criterio di riferimento, “più imprecise” che avrebbero potuto impiegare i soggetti.

Lo scopo dei ricercatori è stato infatti quello di individuare tra le molteplici alternative, il predittore primario selezionato dai soggetti per la scelta dell’euristica che maggiormente avrebbe consentito di spiegare il processo di decision making: la probabilità della presenza di un predatore è risultata essere il criterio chiave per la scelta della strategia decisionale migliore congruente con lo scopo.

Le risposte dei soggetti, basate dunque sulla probabilità del predatore, sono altresì risultate associate ad un’alta attivazione delle aree dorso laterali prefrontali, corroborando così la descrizione del sistema neurale di controllo delle manifestazioni di paura e ansia di tipo gerarchico disegnato dallo studio di Fung e colleghi (2019).

Ansia e paura: derivano da diversi livelli gerarchici di decision making

In conclusione, da ambedue gli studi è emerso come le diverse tipologie di risposte sia di paura che ansia derivino da distinti livelli gerarchici presenti all’interno del processo di decision making.

Tale gerarchia ben precisa permetterebbe di modulare le reazioni e le risposte comportamentali sulla base dell’imminenza della minaccia o del diverso grado di incertezza relativa ad essa.

Ne deriva quindi che il processamento per la selezione della strategia ottimale di risposta ad una minaccia è influenzata da molteplici variabili e ci consente di volta in volta sulla base di esse di passare in rassegna un ampio ventaglio di opzioni, dalla reazione più immediata e semplice di paura, a quella più cognitiva, strategica e complessa della preoccupazioni in una condizione più incerta e meno prevedibile.

Il tutto grazie alla presenza di un’architettura neurale coerente e strategica che permette di shiftare da strutture sottocorticali più antiche per le reazioni di sopravvivenza, a sistemi corticali più alti per la selezione di euristiche finalizzate alla previsione della minaccia fino a strategie decisionali finalizzate all’ottimizzazione della risposta allo stimolo esterno minaccioso.

 

Timidezza: caratteristiche, differenze con la fobia sociale e strategie per diventare dei “timidi di successo”

Per superare la timidezza è importante innanzitutto non opporsi ad essa o contrastarla. Piuttosto è molto più efficace accettare il fatto di essere timidi, capire le dinamiche della propria timidezza e modificare ciò che si fa e non ciò che si è.

 

Introduzione e definzione

La timidezza è definita come l’incapacità di rispondere in modo adeguato alle situazioni sociali: in particolare, le persone timide hanno difficoltà ad incontrare altre persone ed avviare una conversazione con loro, a creare amicizie ed innamorarsi (Henderson, Zimbardo, Carducci, 2010).

La timidezza può creare un insieme di barriere personali, sociali, professionali e creare un disagio significativo per la persona. Tuttavia, nonostante la tendenza diffusa nell’opinione comune a medicalizzare la timidezza, essa non è né un disturbo, né un tratto di personalità, può essere invece intesa appunto come un fallimento nell’affrontare situazioni sociali, caratterizzata da componenti affettive, cognitive e comportamentali. Va sottolineato inoltre che la timidezza è un fenomeno comune e piuttosto diffuso. In una ricerca di Carducci (2000), il 50% del campione intervistato ammette di essere timido, l’89% delle persone timide dichiara di esserlo stato fin dall’inizio della propria vita, solo l’11% del campione dichiara di non essere mai stato timido nell’arco della vita. La timidezza colpisce in forma lieve circa il 60% degli italiani (Coles et al., 2001). Relativamente ad altri paesi e culture, secondo gli studi di Zimbardo (1977) la timidezza sarebbe più diffusa in Giappone e a Taiwan rispetto ad altre culture studiate, come ad esempio la cultura israeliana.

La timidezza non corrisponde con l’introversione, poichè nella timidezza si ha il timore del giudizio negativo da parte dell’altro, mentre nell’introversione è presente la preferenza per situazioni meno “sociali” senza necessariamente presentare timore del giudizio dell’altro. Inoltre, la timidezza è spesso accompagnata da intensa sofferenza mentale rispetto alla sensazione di inadeguatezza nelle situazioni sociali. La timidezza non va confusa una bassa autostima generalizzata: l’autostima invece può essere alta a livello globale nel timido (pensiamo alle numerose star o persone di potere che di fatto sono timide) ma risultare bassa solo in specifici domini, primo tra tutti il dominio delle competenze sociali.

Timidezza: eziologia e caratteristiche

La timidezza è caratterizzata da una componente cognitiva, da una componente affettiva e da una componente comportamentale.

Riguardo la componente cognitiva, le persone timide presentano spesso il timore del giudizio dell’altro e sensazioni di inadeguatezza. Uno dei tratti più caratteristici delle persone timide è quello di un’estrema coscienza di sé, con un’eccessiva tendenza a focalizzare l’attenzione sul proprio mondo interiore fatto di pensieri, emozioni e comportamenti e un’eccessiva precoccupazione del giudizio degli altri.

A livello emotivo possono essere presenti le emozioni di paura e imbarazzo con sintomi di attivazione fisiologica tipici di queste emozioni tra cui: aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, aumento della sudorazione, aumento della tensione muscolare, rossore del volto, balbettio, etc. Il rossore è l’indizio tipico dell’emozione dell’imbarazzo e della timidezza. L’imbarazzo è uno stato emozionale vissuto in seguito ad un’azione socialmente inaccettabile compiuta sotto gli occhi di terzi e ha la funzione di segnalare l’infrazione reale o temuta di norme sociali. L’imbarazzo è un’emozione esclusivamente sociale perché si manifesta soltanto in situazioni di interazione sociale. Mentre l’imbarazzo è uno stato emotivo temporaneo che spesso accompagna la timidezza, la timidezza è invece considerabile una caratteristica più stabile.

A livello comportamentale, similmente a quanto accade per l’ansia sociale, può esserci la tendenza all’evitamento di situazioni sociali che creano disagio, cosi come se esposte a certe situazioni sociali può esserci l’evitamento del contatto oculare.

Sebbene vi siano una serie di ricerche empiriche che evidenziano l’influenza dei fattori genetici, biologici e temperamentali nell’eziologia della timidezza, vi è comunque accordo in letteratura nel considerare i fattori genetico-biologici come fattori di rischio per lo sviluppo delle forme di timidezza, in cui giocherebbero un ruolo fondamentale invece i fattori ambientali. La timidezza dunque può essere appresa e mantenuta da specifiche credenze che la persona ha riguardo se stessa e gli altri. Similmente possiamo riscontrare casi di timidezza generalizzata diversi contesti oppure casi di timidezza specifica in termini situazionali e contestuali (sentirsi timidi soltanto in determinate e specifiche situazioni e/o in relazione a specifici interlocutori).

Le dinamiche della timidezza e le strategie di coping funzionali e disfunzionali

Bernardo J. Carducci fu professore di psicologia presso la Indiana University Southeast e fu uno dei massimi esperti in tema di timidezza e delle sue dinamiche. Riguardo al costrutto della timidezza mise a punto un modello cognitivo rigoroso e diffuso in un libro pubblicato nell’anno 2000 con Susan Golant. Nel 1997 fondò lo “Shyness Research Institute”, nella sede dell’Indiana University Southeast, per promuovere la comprensione psicologica della timidezza.

Secondo i suoi studi vi sarebbero tre dinamiche principali coinvolte nella timidezza:

  1. Conflitto tra avvicinamento-allontanamento: il timido vuole entrare in iterazione con gli altri, ma si blocca, preferisce aspettare che siano gli altri a fare la prima mossa. La motivazione è presente ma non sufficiente dunque.
  2. Lento meccanismo di riscaldamento: i timidi hanno bisogno di tempi più estesi per rapportarsi agli altri, ed è anche questo che li blocca, vorrebbero velocizzare le relazioni ma non ci riescono.
  3. Zona di comfort limitata: i timidi si lasciano coinvolgere nelle uscite, nel partecipare a situazioni sociali, ma tendono a ripetere sempre le stesse cose, mostrano un limitato repertorio di azioni che cercano di non modificare, perché per loro il cambiamento significherebbe minaccia e pericolo.

Inoltre i timidi sembrano presentare alcuni bias attentivi e cognitivi che si riscontrano anche nelle forme di disturbo d’ansia sociale. Ad esempio, l’eccessiva attenzione e automonitoraggio di se stessi durante le interazioni sociali e la tendenza all’autocriticismo e autovalutazione negativa di sé nei contesti sociali.

Come affrontare la timidezza

Molto spesso le persone timide utilizzano una serie di strategie per affrontare la loro timidezza. Le principali strategie utilizzate sono: estroversione forzata, estroversione mentale (parlare della timidezza), estroversione educativa (ricercare informazioni sulla timidezza), estroversione liquida (bere alcolici per rilassarsi ed eliminare l’ansia), estroversione assistita (ricercare un aiuto professionale di uno psicologo o psicoterapeuta) (Carducci, 1999). Spesso le strategie sopra descritte, ad eccezione dell’utima, si rivelano disfunzionali e agiscono contro la timidezza stessa.

Carducci (1999) affermava che la strategia migliore di cui ci si può appropriare è quelle dell’intelligenza colloquiale, ossia la capacità di coinvolgere gli altri in una conversazione al fine di sviluppare una relazione sociale. Ciò è utile in quanto ogni tipo di relazione inizia con una conversazione e quindi è importante imparare come connettersi con gli altri, capacità che è deficitaria nelle persone timide. Per l’appropriazione della strategia dell’intelligenza colloquiale e del deficit nell’iniziare una conversazione, ad esempio l’approccio di Carducci propone un approccio step-by-step utile ad iniziare e proseguire una conversazione e a connettersi con le altre persone (Carducci, 1999). Innanzitutto viene insegnato come iniziare una conversazione, come mantenerla, come coinvolgere altre persone in una conversazione avviata e infine come terminare con successo una conversazione creando opportunità future di contatto.

In generale, la visione di Bernardo J. Carducci prevede che sia importante lavorare con la timidezza anziché contro la timidezza. È importante accettare il fatto di essere timidi, capire le dinamiche della propria timidezza e modificare ciò che si fa e non ciò che si è. Il modello di Bernardo Carducci si muove nell’area della psicologia dell’accettazione – anche se la terminologia che lui usava era più tradizionale – e infatti il suo scopo era di aiutare i timidi a diventare “successful shy”, timidi di successo, ovvero senza negare la loro natura ma valorizzandola. Valorizzando quindi la tendenza all’introversione come sensibilità introspettiva e la difficoltà a relazionarsi come capacità di stabilire contatti intimi e profondi, sebbene meno abbondanti rispetto agli estroversi.

La differenza tra timidezza e ansia sociale/fobia sociale

È imporante tenere presente che, nonostante molte similarità, vi sono delle differenze rilevanti tra timidezza e ansia sociale o fobia sociale. Timidezza e ansia sociale (o fobia sociale) sono due condizioni di “discomfort sociale”, la prima frequente e non clinicamente rilevante, la seconda appartenente alla più ampia categoria dei disturbi d’ansia.
 Secondo molti autori entrambe le condizioni si collocano lungo un continuum a intensità crescente e sono connotate da emozioni di imbarazzo e vergogna che si manifestano in contesti interpersonali. Non sempre tali condizioni risultano immediatamente distinguibili.

Pensare alla timidezza necessariamente come un difetto o, ancor peggio come una malattia, è quindi profondamente errato. Il luogo comune non distingue infatti la timidezza dalla fobia sociale, disturbo ansioso caratterizzato da una costante e sproporzionata paura nelle relazioni sociali, uno stato di intenso malessere psicofisico che costringe l’individuo a evitare situazioni sociali per il timore di essere giudicato inadeguato dagli altri. Il più delle volte questo timore si autoalimenta dando vita a una sorta di circolo vizioso, in cui il soggetto fobico, per paura che gli altri scoprano le sue preoccupazioni, arriva al punto di avere paura della paura stessa, sviluppando un’ansia anticipatoria che lo costringe di conseguenza a perpetuare i suoi comportamenti di evitamento.

La fobia sociale, o ansia sociale, è quindi di fatto un disturbo d’ansia caratterizzato da ansia significativa indotta dall’esposizione a determinate situazioni interpersonali o prestazionali in pubblico (come parlare o mangiare insieme ad altre persone, firmare un documento davanti a degli osservatori, utilizzare un bagno pubblico, conoscere nuove persone, esprimere la propria opinione in gruppo, prendere la parola in una riunione), spesso associata ad evitamento di situazioni, comportamenti, luoghi, contesti, persone che possono elicitare le situazioni temute. La sua caratteristica principale è la paura di essere criticati dagli altri durante azioni o compiti di vario genere o essere soggetti alla valutazione di altre persone. Le persone con fobia sociale temono che le loro prestazioni o azioni appariranno agli occhi degli altri inadeguate e/o ridicole. Il concetto di paura del giudizio altrui è l’aspetto centrale della fobia sociale, oltre ad essere considerato fondamentale anche nell’eziologia e nel mantenimento del disturbo (Clark, Wells, 1995).

La fobia sociale, spesso, si accompagna ad altri disturbi come la depressione e la dipendenza da sostanze (Kessler, Stang, Wittchen, Stein, Walters, 1999). Le persone con fobia sociale tendono ad abusare di sostanze o di alcool per fini autoterapeutici: infatti, grazie alla loro azione “disinibente”, queste sostanze aiutano ad alleviare l’ansia che origina dal confronto con le situazioni temute. I soggetti che soffrono di fobia sociale presentano una significativa disfunzione sociale e professionale e scarsa qualità della vita (Fresco, Erwin, Heimberg, Turk, 2000).

I modelli cognitivi comportamentali che cercano di spiegare l’origine e il mantenimento della fobia sociale evidenziano il ruolo dell’ansia anticipatoria (generata da preoccupazioni, pensieri, ricordi, immagini, aspettative, conseguenze catastrofiche fantasticate prima di esporsi alla situazione temuta, come la possibilità di essere criticati dagli altri o giudicati negativamente in una determinata situazione sociale), dell’attenzione focalizzata e della valutazione a posteriori dell’evento (PEP) che riguarda sia la valutazione dei comportamenti tenuti al termine della performance, sia delle emozioni, dei pensieri, e dei ricordi esperiti, nonché il giudizio relativo alla propria performance e alle sue future conseguenze su di sé e sul proprio futuro (Clark e Wells, 1995; Rapee, Heimberg, 1997)
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Diversi contributi in letteratura evidenziano quindi che la timidezza e la fobia sociale, seppur presentando aspetti di similarità, sono di fatto costrutti diversi. In particolare, alcune evidenze empiriche dimostrano che la depressione giocherebbe un ruolo chiave per comprendere il rapporto tra timidezza e ansia sociale. Secondo questi studi il rapporto tra la timidezza e la fobia sociale sarebbe mediato dalla depressione, anche se non dal processo cognitivo della ruminazione. Questi risultati hanno implicazioni in ambito clinico in termini di screening per la depressione nelle persone timide e la gestione della depressione, attraverso la CBT, al fine di poter eventualmente prevenire l’insorgenza di fobia sociale.

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