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Internet addiction: la rassegna teatrale Corti da Legare racconta la dipendenza da Internet

L’ultimo incontro, per la stagione 2018-2019 del Nuovo Teatro Orione di Roma, della rassegna Corti da legare, ideata dall’omonima associazione con lo scopo di promuovere conoscenza e informazione in merito a temi di natura psicologica grazie all’utilizzo del teatro, si è incentrato sulla dipendenza da Internet. 

 

Dopo avere analizzato, negli incontri precedenti, le dinamiche psichiche che caratterizzano la dipendenza sessuale, l’ansia e il panico, la psicologia oncologica e il disturbo dissociativo dell’identità, l’evento conclusivo dello scorso 18 aprile ha focalizzato l’attenzione su un malessere quanto mai attuale, profondamente calato nel contesto socio-culturale odierno: la dipendenza da Internet.

Seguendo il consolidato format dello spettacolo accompagnato da uno spazio di confronto tra esperti e pubblico, è andato in scena il corto teatrale “Il cavaliere alla terra inesplorata”, scritto da Claudio Romano Politi e diretto da Igor Petrotto.

Dipendenza da internet: il racconto teatrale dei Corti da LegareImm. 1 – Immagine dallo spettacolo “Il cavaliere alla terra inesplorata”

La dipendenza da Internet raccontata nello spettacolo dei Corti da legare

Sul palco gli attori Igor Petrotto, nella duplice veste di regista ed interprete, e Roberta Azzarone hanno messo in scena la vicenda di una studentessa, alle prese con la stesura della propria tesi di laurea incentrata proprio sul tema della dipendenza da Internet, la quale conosce in chat un ragazzo che ha reso il gioco di ruolo on line l’occupazione principale delle proprie giornate.

La ragazza, dapprima animata da un interesse puramente “accademico” finisce per maturare, rispetto al proprio “oggetto di studio”, un reale coinvolgimento; ciò la porta a cercare il modo di portare il ragazzo fuori dallo spazio virtuale, proponendogli un incontro di persona, non più mediato dalla chat.

Il dibattito successivo, moderato dalla dottoressa Federica Sorino e dall’autore Claudio Romano Politi, ha rappresentato uno spazio di confronto con il pubblico ricco di spunti; la proiezione di un breve video esplicativo che sintetizzava alcune delle modalità attraverso cui la dipendenza da internet può manifestarsi ha offerto al pubblico una cornice teorica di riferimento, per meglio comprendere il fenomeno in esame.

Lo spettacolo ha rappresentato, inoltre, occasione di dibattito rispetto a quanto la dimensione del virtuale sia protagonista attiva delle nostre vite, facendo da contraltare alla vita “reale”.

La rassegna Corti da Legare ricomincerà in autunno con nuovi incontri.

Quanto è veloce il tempo?

Usando variabili sufficientemente sincronizzate fra loro, come il passare dei giorni o i meccanismi degli orologi, è possibile concepire il concetto di quando. Il fisico Carlo Rovelli (2017) interpreta questo fatto spiegando che possiamo integrare alcune informazioni dentro di noi come tracce del passato o come indizi premonitori del futuro, ma che la consapevolezza dello scorrere del tempo è una produzione interna mentale.

 

Anche se la differenza è esigua, con orologi molto precisi è possibile verificare che il tempo scorre più velocemente in montagna che in pianura. Il fenomeno non è dovuto ad un rallentamento dell’orologio e nei laboratori, può essere misurato anche con pochi centimetri di dislivello. Si dice, in questi casi, che ogni orologio ha un tempo proprio. Le scoperte della fisica moderna non descrivono come le cose evolvono nel tempo, bensì come interagiscono nei loro tempi. Alcune interazioni le vediamo cambiare con regolarità, le une rispetto alle altre. Usando variabili sufficientemente sincronizzate fra loro, come il passare dei giorni o i meccanismi degli orologi, è possibile concepire il concetto di quando. Il fisico Carlo Rovelli (2017) interpreta questo fatto spiegando che possiamo integrare alcune informazioni dentro di noi come tracce del passato o come indizi premonitori del futuro, ma che la consapevolezza dello scorrere del tempo è una produzione interna mentale.

La rappresentazione cognitiva del tempo

Attualmente non esiste un unico modello teorico che spieghi come il cervello possa creare la rappresentazione cognitiva del tempo. Marc Wittmann è uno psicologo tedesco con anni di esperienza in questo settore. Nelle sue pubblicazioni descrive il fenomeno come inestricabilmente legato alle fluttuazioni dello stato della coscienza (Wittmann, Giersch, & Berkovich-Ohana, 2019). Il focus della nostra attenzione può influire sulla percezione del tempo, che, a differenza degli altri sensi, non è legata ad un oggetto nel mondo esterno. Gli intervalli temporali vengono infatti considerati più lunghi quando poniamo la nostra attenzione sullo scorrere del tempo e quando la variabilità delle esperienze immagazzinate nella memoria di lavoro è maggiore. Inoltre, diversi meccanismi nel nostro sistema percettivo funzionano su diverse scale temporali, questo può essere spiegato con il fatto che differenti aree cerebrali entrano in gioco in base alle caratteristiche del tempo considerato, nonostante non facciano propriamente parte del sistema percettivo temporale. La valutazione di quanto tempo è passato coinvolge aree diverse in base alla durata del processo in esame.

Tempo ed emozioni

Anche le emozioni giocano un ruolo importante, in quanto un maggiore arousal fisiologico è legato a una sovrastima della durata di un evento. Nei lavori di Wittmann si evince come l’insula anteriore, che integra le rappresentazioni corporee con lo stato cognitivo, creerebbe una serie di momenti emotivi, che rappresentano l’esperienza di un dato momento. L’integrazione in serie di questi momenti si traduce in un’attivazione crescente della corteccia insulare posteriore. L’attività così accumulata sottende la percezione della durata temporale, una continua collezione di evidenze corporee. Il limite naturale della frequenza di scarica dei neuroni spiega la necessità di imporre un tetto alla rappresentazione della durata, e quindi all’integrazione temporale, la quale sembra avvenire attraverso unità stocastiche di 2-3 secondi. Più varie saranno le esperienze accumulate durante un certo span di tempo, maggiore sarà la durata percepita di quel periodo e viceversa. La salienza di queste deriverebbe dal nostro stato fisiologico-emotivo, da quello della memoria e da quello cognitivo.

Spesso sentiamo le persone lamentarsi del fatto di come il tempo passi più velocemente ora rispetto a quanto non succedesse in gioventù. I bias nell’identificare la durata degli eventi derivano dalle funzioni mnestiche, per cui è importante il concetto di metaplasticità, e della velocità di processamento delle informazioni, quindi dalla memoria di lavoro, che diminuiscono con l’invecchiamento. Inoltre, vari fattori, quali stress, eventi di vita e avanzamento tecnologico e sociale, possono influenzare la velocità percepita dello scorrere del tempo. Gli studi di Wittmann ci ricordano ancora una volta come interazioni non cognitive provenienti dall’intero organismo, come la registrazione cumulativa insulare del nostro stato psicofisiologico, siano essenziali per il funzionamento del nostro sistema percettivo e quindi per la nostra capacità di interfacciarci con l’ambiente che ci circonda.

Terapia metacognitiva per il Disturbo da Uso di Alcool: una serie di casi – Lectio Magistralis del Dott. Gabriele Caselli

Prosegue il Forum di Psicoterapia di Riccione, la seconda giornata inizia con la Lectio Magistralis di Gabriele Caselli, altro importante pilastro di Studi Cognitivi, dal titolo Terapia metacognitiva per il Disturbo da Uso di Alcool: una serie di casi.

 

A presentare il relatore è il Dott. Framba, responsabile della sede Studi Cognitivi di Bolzano, che non esita a fare di Caselli un modello da seguire per i numerosi partecipanti al forum, in quanto giovane terapeuta che ha ricercato “la perfetta sintesi tra attività clinica e ricerca ad alto profilo scientifico”. E le parole del Dott. Framba si fanno sempre più inconfutabili mentre Gabriele Caselli espone il suo lavoro.

Prima di dare avvio alla sua presentazione, il Dott. Caselli chiede agli uditori di osservare in ogni slide il numero riportato nell’angolo in basso a destra e di fare un cenno quando la somma dei numeri osservati arriva a 20. Il pubblico, incuriosito, accetta.

Disturbo da uso di alcol: tra problemi e limiti

L’ uso eccessivo di alcool rappresenta ormai un problema non solo di natura medica, ma anche psicologica e sociale che ha allertato diverse istituzioni cliniche e la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.

Nel trattamento del disturbo da uso di alcool, la CBT si è mostrata moderatamente efficace e con alti tassi di ricadute. Ma le carenze non sono solo di natura pratica, anche a livello teorico vi sono dei limiti riguardanti l’uso problematico di alcool: perché solo una parte di coloro che usa alcolici sviluppa un problema? Le convinzioni disfunzionali sono causa o epifenomeno della dipendeza?

Disregolazione, craving e credenze metacognitive

E’ da qui che la ricerca di Caselli parte e lo studio oggi presentato è un primo punto d’arrivo. Dall’analisi della bibliografia due aspetti hanno catturato l’attenzione del ricercatore: se le convinzioni positive sull’uso di alcool non sono solo diffuse nella popolazione clinica, cosa determina la disregolazione e cosa sostiene il craving?

Ma ecco che la somma dei numeri delle slide finora proiettate arriva a 20! Alcuni partecipanti alzano la mano: ecco la prova del fatto che possiamo regolare il nostro comportamento.

L’essere impegnati in alcuni compiti (come sommare i numeri riportati sulle slides) infatti non ci vieta di proseguire parallelemente in altre attività (ascoltare la presentazione e leggere il testo delle diapositive presentate), stopparle quando necessario e riprenderle nuovamente. Tutti gli individui, pazienti compresi, sono in grado di poter regolare il proprio comportamento in diversi modi.

A questo punto è necessario parlare di automonitoraggio maladattivo, primo sintomo di chi ha un disturbo da uso di alcool, che si manifesta quando c’è una ridotta attenzione a quelle informazioni, provenienti dell’ambiente, rilevanti per raggiungere i propri scopi; quando non si presta attenzione, mentre si beve, ai segnali di “obiettivo raggiunto” e quando le informazioni sul cambiamento cognitivo-affettivo non sono elaborate.

Il secondo sintomo è la propensione al rimuginio desiderante. Quando il desiderio viene avvertito sottoforma di impulsi, sensazioni corporee o immagini mentali, gli individui con disturbo da dipendenza psicologica si ingaggiano in un’attività mentale volontaria focalizzata sul desiderio, che alimenta stress e craving.

Questo si lega a un terzo elemento problematico, le cinque credenze metacognitive tipiche di coloro che presentano un Disturbo da uso di alcool: quando inizio non smetto; quando ho voglia non riesco a smettere; i pensieri mi portano lì; il mio cervello è danneggiato; l’alcool unica strategia per controllare la mia mente.

Il protocollo MCT per il Disturbo da uso di alcool

Sulla base di queste premesse, il lavoro di ricerca di Caselli ha consentito di creare un modello metacognitivo trifasico del disturbo da uso di alcool, che ha reso a sua volta possibile la creazione del protocollo metacognitivo per il trattamento del disturbo.

Il protocollo prevede 12 sessioni di un’ora ciascuna, i cui obiettivi sono: ridurre l’attivazione di strategie disfunzionali; modificare le credenze metacognitive; sviluppare nuove modalità di elaborazione.

Importante è sottolineare come il protocollo miri al consumo moderato di alcool e non all’astinenza: il consumo moderato aumenta la motivazione al trattamento, riducendo la frustrazione nel paziente che di fatto riesce difficilmente a raggiungere l’astinenza. Ancora, l’astinenza resta comunque un processo di evitamento, poco funzionale per il paziente.

Col protocollo si lavora su quattro aree: concettualizzazione e familiarizzazione del problema del paziente; modifica credenze metacognitive negative; modifica credenze metacognitive positive; prevenzione delle ricadute.

Protocollo MCT e disturbo da uso di alcool: lo studio

Lo studio presentato oggi da Caselli ha avuto l’obiettivo di testare l’applicabilità e la replicabiltà del protocollo MCT per il disturbo da uso di alcool in diversi pazienti e dunque l’efficacia in generela della Terapia Metacognitiva nel suo trattamento. Rigorosi criteri di inclusione hanno portato al reclutamento di cinque partecipanti a cui è stato applicato il protocollo e a cui sono stati sottoposti diversi questionari per monitorare i risultati ottenuti.

I dati mostrano una riduzione delle unità alcoliche settimanali consumate dai pazienti e del grado di convinzione nelle metacredenze disfunzionali. Con i pazienti del campione, il trattamento si è dimostrato efficace e stabile nella riduzione del consumo di alcool e nella modifica delle credenze metacognitive e con essa si è assistito anche al diminuire della sintomatologia riportata. Non solo una migliore autoregolazione nel consumo di alcool dunque..

Lo studio presenta comunque dei limiti, a partire dal numero esiguo dei partecipanti. I risultati tuttavia sono incoraggianti. Il pubblico ascolta, pone domande e conclude con un fragoroso applauso, consapevole che la ricerca in questa direzione continuerà ad arricchire il panorama della futura psicoterapia.

 

TERAPIA METACOGNITIVA PER IL DISTURBO DA USO DI ALCOOL: UNA SERIE DI CASI
LE SLIDES DAL CONVEGNO

 

Processi e relazioni in terapia cognitiva: sviluppo storico e scenari futuri – Lectio Magistralis di Giovanni Maria Ruggiero

Ha avuto inizio stamattina il tanto atteso Forum di Studi Cognitivi a Riccione. Perché tanto atteso? Perché come ogni due anni gli studenti di tutte le sedi del circuito Studi Cognitivi si incontrano per presentare le loro ricerche e discuterne i risultati con i colleghi. E cosa c’è di meglio di formarsi e aggiornarsi in un clima di vivace convivialità?

 

Ad aprire le danze non poteva non essere uno dei pilastri del mondo di Studi Cognitivi, il dott. Giovanni Maria Ruggiero, che conduce la sua lectio magistralis dal titolo Processi e relazioni in terapia cognitiva: sviluppo storico e scenari futuri.

Le primissime battute in realtà sono quelle di Sandra Sassaroli, direttrice di Studi Cognitivi, che, al grido di “E che i giochi comincino” ha ringraziato i partecipanti e ha presentato Giovanni Maria Ruggiero, suo collaboratore da anni, definito dalla stessa “la persona con più sapienza che conosco”.

La Lectio Magistralis di Ruggiero è un entrare nel vivo di un percorso bibliografico e interpretativo dei mutamenti della psicoterapia, in modo particolare della Terapia Cognitiva.

Terapia cognitiva: un quadro frammentato

Perché se parlando di Terapia Cognitiva si crede di parlare di un ambito terapeutico unanime, ci si sbaglia e non poco. Il quadro è frammentato più di quel che si pensi: fin dai primi anni ’90 erano già evidenti i primi disaccordi. Anche i contributi degli stessi pionieri della terapia cognitiva ci mostrano un quadro variegato: Albert Ellis con la Rebt, Aaron Beck con la terapia cognitiva standard e infine George Kelly col costruttivismo.

Comprendere la frammentazione è l’unica strada per trovare una soluzione condivisa. E così, sulla scia di tanto cognitivismo, il Dott. Ruggiero si pone e pone una domanda: cosa si pensava di sapere sulla terapia cognitiva? Si può distinguere ciò che pensavamo di sapere ma non avevamo capito (the unknown known) e ciò che si pensa di aver capito ma non sapevamo (the known unknown). L’effetto dell’ unknown known è stato quello di evidenziare tante correnti ma compatibili; il risultato del known unknown invece è l’accorgersi, dopo aver a lungo studiato, che le differenze all’interno della terapia cognitiva diventano troppe, come ad esempio la stessa discontinuità clinica e teorica tra psicoterapia cognitiva e comportamentismo o tra le diverse procedure (differenti e non compatibili) delle varie terapie cognitive.

CBT, Hogwarts e Grifondoro

Chi conosce Giovanni Maria Ruggiero sa che le sue presentazioni hanno sempre un tocco di ironia e anche oggi non si è smentisce con il suo rimando a Harry Potter (con tanto di immagini della sala grande di Hogwarts sulla slide proiettata) fatto per illustrare come una certa posizione di riguardo, la “grifondoro” della terapia cognitiva, inizialmente è spettata alla CBT standard di Beck che, insieme a Clark, Fairburn e Salkoviskis è stata considerata, con ottime ragioni, uno strumento più efficiente di altre terapie per trattare almeno alcuni disturbi. Quasi una bacchetta magica. Una bacchetta che era magica davvero, sia chiaro, anche se però qualche dubbio si nutriva sui limiti di applicabilità clinica in pazienti non selezionati per la ricerca.

Diversi ricercatori e clinici sono ripartiti da qui e i loro contributi sono diventati storia. Buona parte di questa storia è merito di clinici italiani, tra cui Guidano, Liotti, Sassaroli, Lorenzini e Semerari che con i loro contributi hanno avuto un impatto sul pensiero di Judith Beck e sullo stesso Salkovskis.

La terapia cognitiva e quella tentazione neoromantica

Per aggirare tale difficoltà ci si è lasciati trasportare da una tentazione neoromantica secondo cui tale terapia non potesse sottoporsi a prova scientifica. Una successiva corrente aggira questa tentazione tentando di concettualizzare aree della mente non razionalizzabili e l’incontrollabilità degli stati emotivi “caldi” non padroneggiabili attraverso un approccio pragmatico e razionale. Questa operazione fu effettuata riscoprendo un concetto ambiguo, naif e poco scientifico: l’esperienza emozionale correttiva (già evidenziato da Alexander nel 1946) che può avvenire in seduta. Uno degli argomenti di questa visione era la supposta esistenza di pazienti gravi o difficili, su cui la CBT standard è stata definita come non efficace. Ci si è quindi posti l’obiettivo di affrontare questo nodo cercando di integrare nella terapia cognitiva le storie di vita e gli interventi non razionalistici di tipo relazionale ed esperienziale.

Relazione e verdetto del Dodo

Giustificando la vicinanza agli interventi relazionali, continua Giovanni Maria Ruggiero, ci siamo fatti influenzare dalla teoria dei fattori comuni che sostiene come tutte le psicoterapie funzionano sulla base di fattori comuni di tipo tendenzialmente relazionale. Una sorta di verdetto del Dodo: hanno vinto tutti. La vittima di tale verdetto? La CBT!

Si è assistito dunque a un iniziale periodo in cui la CBT si mostra “vincente” per proseguire con la parità sancita dal verdetto del Dodo, il quale però sposta la CBT alla posizione di perdente. E come è possibile perdere se si pareggia?

Sebbene il verdetto del Dodo abbia negato la superiorità della CBT, non ne ha mai dimostrato l’inefficacia con i pazienti difficili. Eppure la visione della CBT come terapia inefficace per i disturbi più gravi si diffonde e non tramite riviste scientifiche di un certo spessore. E, il dott. Ruggiero ci avverte, sappiamo benissimo quali possono essere (e sono state) le conseguenze delle “chiacchiere da bar”

CBT e relazione

Si dice che la CBT sia meno efficace perché trascura relazione. Ciò che però si ignora è il fatto che la CBT prende in considerazione la relazione nei termini di formulazione condivisa del caso e socializzazione. Anche nella procedura REBT ci sono aspetti relazionali da non trascurare, in due fasi ben precise: nella connessione tra B e C e nella negoziazione della F. Quindi, sebbene l’enfasi alla relazione sia minore, non possiamo scambiare la minore quantità con la trascuratezza: la relazione in CBT ha un senso strategico e scientifico. E’ anenfatica, è signiticativa ma non risolutiva. Al contrario il rischio sarebbe quello di un eclettismo che causa confusione teorica e procedurale.

Verso nuovi sviluppi

Cosa proporre dunque? Innanzi tutto bisogna dare centralità alla formulazione del caso come tratto principale delle psicoterapie cognitive. Le psicoterapie cognitive, in particolare la CBT classica, hanno denominato e trattato gli aspetti relazionali secondo terminologie, procedure e concettualizzazioni peculiari che è bene studiare nella loro specificità intrinseca e coerente con la concezione cognitiva: formulazione condivisa del caso e del razionale degli interventi, socializzazione e apprendimento biografico del problema. La LIBET ha come obiettivo proprio questo: formalizzare e protocollare questi interventi secondo procedure replicabili. Dare centralità alla formulazione del caso evita inoltre di farci scivolare in un eclettismo teorico che ci fa dimenticare le peculiarità strategiche del paradigma clinico cognitivo e in un eclettismo clinico che assembla tecniche estranee e incompatibili tra loro, rinunciando così alla sfida dell’incremento dell’efficacia.

Ed è in questo modo che la lezione di Giovanni Maria Ruggiero si conclude: con questi suggerimenti per la ricerca e la pratica clinica future rivolte a una platea di ricercatori e clinici futuri. “E che i giochi abbiano inizio”… a Riccione, tra gli allievi di Studi Cognitivi e negli sviluppi della psicoterapia che verrano..

 

PROCESSI E RELAZIONI IN TERAPIA COGNITIVA: SVILUPPO STORICO E SCENARI FUTURI
LE SLIDES DAL CONVEGNO

 

La sindrome di Cushing: quando la patologia endocrinologica impatta anche sulla sfera emotiva e cognitiva

Nonostante le complicanze mediche della sindrome di Cushing vadano incontro a remissione tipicamente completa in seguito a un trattamento chirurgico-farmacologico, i disturbi psicopatologici associati tendono a persistere nonostante la guarigione, ciò mette in luce la necessità della presa in carico da parte di uno psicologo

 

La sindrome di Cushing è una patologia causata da un’eccessiva esposizione nel corso del tempo ai glucocorticoidi (Lombardo & Lenzi, 2017).

Sindrome di Cushing: cos’è e perché può generare sofferenza psicologica

La causa più frequente di questa patologia consiste in un’elevata secrezione di ACTH dovuta ad un adenoma ipofisario ACTH-secernente o ad una secrezione ectopica di ACTH. Il classico quadro clinico della sindrome di Cushing è caratterizzato da: obesità tronculare, ipotrofia della muscolatura degli arti, accumulo del grasso sulle guance (facies lunaris), presenza del “gibbo di bufalo” in sede dorso-cervicale e sovraclaveare, presenza delle striae rubrae (smagliature caratterizzate da un colore violaceo a livello dell’addome).

Non dobbiamo però fermarci all’apparenza, questa patologia che sembra puramente medica in realtà è intimamente legata anche alla sfera emotiva e cognitiva.

Sindrome di Cushing patologia endocrinologica e sofferenza psicologica foto

Come mai occorre la presa in carico da parte di uno psicologo in una patologia endocrinologica come questa? Sostanzialmente il suo ruolo verte su due grandi aree, da una parte abbiamo tutta una serie di disturbi psicologici e disfunzioni cognitive, dall’altra parte abbiamo la percezione negativa dell’immagine corporea e le reazioni emotive e comportamentali ad essa correlate.

Sindrome di Cushing: disturbi psicologici e disfunzioni cognitive

Le conseguenze della malattia sulla qualità della vita e le alterazioni che il cervello subisce a causa dell’aumento dei glucocorticoidi portano a squilibri a lungo termine, a questo proposito emergono una serie di dati interessanti in letteratura. La sindrome di Cushing si associa a tutta una serie di disturbi e alterazioni del sistema nervoso centrale che perdurano anche nella fase di guarigione, in particolare troviamo:

  • Depressione maggiore: disturbo più associato alla sindrome di Cushing. In uno studio di Haskett (1985) sono stati studiati longitudinalmente 30 pazienti, è emerso che 24 di loro (circa l’80%) soddisfacevano i criteri diagnostici della depressione maggiore (Haskett et al., 1985). I pazienti con depressione risultano più gravi, in termini di malattia endocrina, rispetto ai pazienti che non risultano depressi (Sonino et al., 2001)
  • Disturbo bipolare: circa il 30% dei pazienti valutati da Haskett (1985) ha riportato episodi di mania o ipomania durante il corso della patologia
  • Disturbi d’ansia: attualmente sono pochi e non del tutto chiari gli studi a riguardo, alcuni mettono in evidenza la presenza del disturbo d’ansia generalizzato nel 79% e del disturbo di panico nel 53% dei pazienti (Loosen et al., 1992)
  • Disfunzioni cognitive: il disturbo di memoria risulta una delle conseguenze più importanti, circa l’83% dei pazienti mostra difficoltà di apprendimento e di memoria (Starkman et al., 1981). Una review di Andela (2015) ha mostrando una diminuzione del volume ippocampale, un allargamento dei ventricoli e un’atrofia corticale

Sindrome di Cushing: la percezione negativa dell’immagine corporea

È ovvio a questo punto quanto sia importante la presa in carico da parte di uno psicologo, ma non è ancora tutto, dobbiamo considerare un aspetto ulteriore e di pari importanza alla sintomatologia psicopatologica. La sindrome di Cushing è associata anche a importanti alterazioni fenotipiche: vedendo mutare il proprio aspetto fisico, i pazienti sviluppano disgusto verso la loro immagine corporea e di conseguenza, la loro autostima diminuisce. Tutto ciò induce a comportamenti di evitamento che impattano nella vita sociale. Questi cambiamenti corporei perdurano anche nel periodo successivo alla fase di remissione: i pazienti, nonostante le cure, non riescono a migliorare il loro aspetto (Tiemensma et al., 2012).

Sindorme di Cushing: perché serve supporto psicologico

La vita dei pazienti con la sindrome di Cushing subisce importanti cambiamenti: ai sintomi prettamente medici si aggiungono debolezza, dolore, cambiamento dell’immagine corporea, deficit cognitivi, disturbi psichiatrici e disturbi del sonno. Tutto ciò impatta negativamente sulla qualità della vita: gli effetti si riscontrano in ambito familiare, lavorativo e relazionale (Gotch et al., 1994). Per questi motivi la sindrome di Cushing necessita anche di una presa in carico da parte di uno psicologo. Le alterazioni della sfera emotiva sono talmente importanti e durevoli che non dovrebbero essere trascurate in nessuna fase del processo di cura: anzi, tale percorso dovrebbe continuare anche una volta terminato il trattamento dei sintomi prettamente medici.

L’importanza della famiglia transgenerazionale nella vita psichica

Il condizionamento transgenerazionale incide sia all’interno del sistema famiglia sia sulla vita del singolo individuo, influenzando il suo funzionamento mentale e il suo modo di agire nelle relazioni.

 

Bert Hellinger, Gregory Bateson, Murray Bowen, Anne Shutzenberger sono solo alcuni degli studiosi che nel tempo hanno compreso e verificato quanto incida il condizionamento intergenerazionale nel sistema famiglia prima e nella vita del singolo individuo poi.

Questo condizionamento avviene nello sviluppo della vita psichica, nella creazione di un funzionamento mentale sano, nelle relazioni con il mondo e gli altri e infine in quello che possiamo definire più comunemente “destino”.

Hellinger e Bateson: gli studi delle popolazioni tribali

In particolare proprio Hellinger e Bateson ebbero due esperienze alquanto similari nel loro incontro con popolazioni di tipo tribale animista. Infatti Hellinger studiò e soggiornò per 16 anni tra gli Zulù in Africa come volontario e partecipò a molti dei loro rituali. Mentre Bateson soggiornò in Nuova Guinea presso gli Iatmul, rimanendo particolarmente affascinato dal rituale di Naven, al quale ha dedicato infatti un intero libro.

Bert Hellinger viene considerato il padre delle costellazioni familiari sistemiche, poiché aveva ben compreso l’importanza del ruolo della transgenerazionalità nella trasmissione di modelli e di ruoli sia funzionali che disfunzionali quando si trovò immerso nei rituali degli animisti.

Gregory Bateson, l’autore del famoso testo Un’ecologia della mente, anch’egli al pari di Hellinger aveva compreso come la mente funzionante che dà il via a sane relazioni, non potesse essere oggetto del solo individuo ma fosse qualcosa di più vasto. Infatti tra i rituali degli Iatmul, Bateson comprende come vi sia la creazione indotta di una mente gruppale, la quale permette relazioni più sane e un’identificazione collettiva di quella specifica popolazione.

Murray Bowen: pionere della terapia familiare

Murray Bowen, pioniere della terapia familiare, ugualmente ai primi due autori, orientò i risultati delle sue ricerche verso una teoria che considerava laboratorio di ogni relazione la propria famiglia di origine. Difatti risaliva sempre fino alla terza generazione della coppia che aveva preso in terapia (teoria trigenerazionale).

Dunque i miti presenti negli avi che rimangono comunque psicologiamente attivi anche dopo la loro morte, possono essere tramandati come materiale indigesto tra una generazione e l’altra. Questi infatti devono essere affrontati correttamente, ovvero tramite l’analisi e il ragionamento.

Come per Hellinger e l’ordine dell’amore, come per Bateson e il rituale di passaggio degli Iatmul, anche per Bowen le persone sono agite e non agiscono se si trovano sotto l’influenza di questo condizionamento transgenerazionale.

La psicogenealogia di Anne Schuztenberger

Per darci un approfondimento statistico e sopratutto più specifico delle corrispondenze tra antenati e viventi ci viene in aiuto Anne Schuztenberger, con la sua psicogenealogia e la sindrome degli antenati. Anche in questo caso vi è una sorprendente analogia con gli studiosi prima citati nel confermare come l’influenza delle generazioni precedenti possa determinare i destini attuali.

In particolare Anne Schuztemberger tramite il genosociogramma, uno strumento che serve a ricostrire e commentare gli alberi genealogici, studio di migliaia di casi sino ad elaborare la così detta “sindrome da anniversario”, ovvero il ripetersi e trasmettersi nelle varie generazioni di un trauma, malattia o evento sconvolgente ad una precisa data condivisa.

In un recente studio di epigenetica è stato confermato come nel dna e più precisamente nelle molecole dei micro Rna vengano trasmessi ai nipoti i traumi dei nonni.

In conclusione

Abbiamo voluto comparare in questa sintesi come studiosi, alcuni ideologicamente molto distanti tra loro, siano pervenuti ad un comune denominatore che è quello dell’incidenza e del condizionamento delle generazioni precedenti sulle nostre vite, appunto il condizionamento transgenerazionale.

Fattore 1%. Piccole abitudini per grandi risultati (2019) di Luca Mazzucchelli – Recensione del libro

Fattore 1%, di Luca Mazzucchelli, non è soltanto un libro di tendenza ma anche di sostanza.

 

Tra cinque anni saremo il risultato delle abitudini che decidiamo di intraprendere a partire da oggi. Ogni cosa che ora scegli di fare o non fare è un voto a favore o a sfavore della persona che vorrai diventare: sono i piccoli passi che sommati uno all’altro portano al risultato finale.

 

Fattore 1% è la pubblicazione di Luca Mazzucchelli, psicologo e psicoterapeuta, Vicepresente l’Ordine dei Psicologi della Lombardia e Direttore della rivista Psicologia Contemporanea. Molto famoso sul web attraverso video e interviste a personaggi illustri nell’ambito della psicologia e non solo, il suo testo ha riscontrato grande gradimento da parte dei lettori rappresentando un valido contributo nell’ambito della crescita personale.

Il testo pone l’accento sull’importanza ed il vantaggio per noi tutti di puntare più sull’instaurarsi di sane e funzionali abitudini piuttosto che su di un aspetto che da anni, in materia di crescita personale si è fatto riferimento, ossia la motivazione. A partire da tale considerazione l’autore ci spiega come sia più vantaggioso puntare sulla costruzione di piccole sane abitudini, piccoli gesti, operazioni ripetute con costanza che consentono l’instaurarsi di abitudini che a lungo termine si riveleranno utili strumenti per il raggiungimento dei nostri obiettivi. In questo lavoro, Fattore 1% ci suggerisce come fare. Riprendendo il pensiero dell’autore:

quello che facciamo attraverso la logica 1% è introdurre in un sistema un nuovo apprendimento. Tale apprendimento, attraverso l’esercizio e la ripetizione, diverrà poi acquisizione. Le acquisizioni mantenute nel tempo diventano abitudini. Un’abitudine così acquisita tenderà ad essere resistente al cambiamento, cioè a mantenersi nel tempo.

Ma anche il cambiamento diventa argomento di riflessione e approfondimento all’interno del testo, in quanto Luca Mazzucchelli ci spiega come l’essere umano, alla pari di ogni altro organismo vivente, tende a resistere al cambiamento e pertanto cambiare non è facile.

Ma come cambiare? Cosa cambiare?

Sull’onda di tali interrogativi l’autore guida il lettore su come trovare le proprie mete, propri obiettivi, come riconoscerli e sceglierli per ordine di priorità ed importanza che attribuiamo agli stessi, come inserire e strutturare comportamenti che ci possono aiutare in queste operazioni, come rendere quest’ultime delle abitudini, per poter ottenere minore sforzo e massima resa!

Ricco di esempi che consentono al lettore di entrare nel vivo degli argomenti trattati, non mancano anche i riferimenti personali che rendono tutto più accattivante. Dunque cambiare, migliorare, porsi degli obiettivi richiedono piccole scelte e gesti, operazioni, abitudini che vanno portati avanti nel tempo. Tra le tante strategie che ci suggerisce l’autore troviamo quella di minimizzare il cambiamento, che consiste nello scomporre un’operazione in compiti più piccoli e partire dalla più piccola cosa che appartiene alla stessa in modo che sia quasi impossibile dire no a procrastinare.

In conclusione

Fattore 1% è un libro di sostanza che ci guida con concreti contributi alla crescita personale, attraverso una serie di esercizi (diario dei valori, individua il tuo 20%, semplifica e rendi più complesso, la tua abitudine in versione breve, misura per ottenere un feedback…)

Per finire, il testo nella sua ultima parte contiene l’elenco argomentato delle personali abitudini dello stesso Luca Mazzucchelli (obiettivi giornalieri, orario di sveglia, lista delle attività giornaliere, come frenare le cattive abitudini, investire sulla formazione…)

Un accattivante invito dunque a mettersi in gioco con un mindset nuovo, creativo, flessibile e coraggioso in quanto riprendendo le parole dell’autore:

per far fiorire splendidamente un giardino dobbiamo anche avere il coraggio di credere in quello che oggi non vediamo.

Stiamo realmente raggiungendo la parità di genere?

Esiste davvero la parità di genere? Se pensiamo al mondo lavorativo, quasi la metà della forza lavoro è composta da donne ma nelle gerarchie delle organizzazioni (accademiche, mediche, aziendali e governative, etc) i livelli più alti sono occupati prevalentemente dagli uomini.

 

Alcuni ricercatori dell’Università dell’Illinois hanno sviluppato un modello matematico che simula l’ascesa gerarchica delle donne in varie professioni, utilizzando come fattori principali le componenti che hanno un ruolo attivo come il pregiudizio e l’omofilia, intesa come la tendenza a preferire persone simili a se stessi. Questo lavoro rispetto agli altri, ha riscontrato come la parità di genere non possa essere raggiunta senza un intervento deliberato in determinati campi, per raggiungere questo obiettivo è necessario dunque fare delle scelte nette e ben indirizzate.

Lo studio

Questo modello è stato convalidato attraverso l’analisi di un database frazionato per il genere considerando lo scorrere del tempo come variabile per 16 gerarchie professionali. Sono stati individuati due tasselli importanti nei processi decisionali per l’ascesa gerarchica: coloro che chiedono le promozioni e chi le concede.

Molti studi prima di questo hanno analizzato il pregiudizio nell’ambito della parità di genere in chi ha il potere di influenzare coloro che possono concedere promozioni, anche se non hanno considerato il processo per cui molte volte le persone si auto-segregano in base al genere (per esempio nella ricerca di un lavoro si potrebbe tendere per un’organizzazione che ha un comitato di selezione misto poichè dei valutatori appartenenti ad un unico genere potrebbero causare disagio nel processo di selezione).

Dalla ricerca appare che nei campi con un’omofilia forte, per esempio l’ingegneria, i livelli più alti delle gerarchie dovrebbero risultare dominati da soli uomini oppure da sole donne. Inoltre nei campi con pregiudizi particolarmente marcati contro le donne come il mondo accademico nelle aree della chimica, della matematica o dell’informatica, senza espliciti interventi esterni la parità di genere non può essere raggiunta nei livelli più alti di leadership. Invece in campi come la medicina e la giurisprudenza, non si assiste ad un influenza di queste componenti sulla parità di genere, ma il modello matematico prevede che la parità di genere sarà pian piano raggiunta in relazione alle tempistiche del turnover.

In conclusione

I ricercatori con questa simulazione matematica hanno individuato le aree su cui si potrebbe lavorare maggiormente per contrastare l’assenza di parità di genere, finanziando ad esempio dei progetti per arginare i pregiudizi di genere, per esempio formando e sensibilizzando chi si occupa del reclutamento lavorativo, ma anche attraverso delle politiche che impongano un numero di promozioni alle donne che corrisponda al pool di candidati. Similmente, nei campi con forte omofilia, nei comitati posti alle assunzioni potrebbero essere inserite attivamente donne o rendere più visibile la sotto rappresentazione del genere femminile in quel determinato campo.

Il test MMPI: dalla sua prima versione agli ultimi aggiornamenti

Il test MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory) risulta in grado di intercettare molteplici dimensioni di tratto dell’organizzazione intrapsichica e interpersonale dell’individuo.

 

Il test MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory), nonostante sia stato pubblicato per la prima volta nel 1942 ad opera dello psicologo Hathaway e del neuropsichiatra McKinley, è ancora uno dei questionari di personalità self-report più diffusi in ambito di screening psicopatologico e giuridico-peritale poiché risulta in grado di intercettare molteplici dimensioni di tratto dell’organizzazione intrapsichica e interpersonale dell’individuo. L’attualità di tale strumento è dovuta ai continui aggiornamenti dello stesso.

Contesto d’origine del MMPI e alcune criticità delle inziali versioni dello strumento

Il test MMPI è nato dall’esigenza di valutare l’idoneità del personale militare a prestare servizio durante la Prima Guerra Mondiale. I due autori, al fine di migliorare l’attendibilità e la validità dello strumento, nella costruzione del questionario hanno seguito un criterio di validazione empirica: Hathaway e McKinley estrassero 504 affermazioni, ritenute in grado di indagare le molteplici aree di sviluppo dell’individuo, da un range inziale di più di 1000 (tratte da precedenti scale su atteggiamenti personali e sociali, casi clinici, ecc.). Tali affermazioni furono poi proposte a due gruppi di persone, uno costituto da individui che lamentavo uno o più disagi psichici e l’altro da individui che non presentavano alcun disagio di natura psicologica.

Nonostante il complesso e lungo processo attuato dagli autori, parzialmente descritto sopra, lo strumento nella sua prima versione non è apparso in grado di discriminare adeguatamente i diversi quadri sindromici e dimensionali della personalità. Tale criticità e i cambiamenti sociali e culturali hanno spinto i ricercatori ad affinare lo strumento: viene pubblicato il test MMPI – 2, composto da 567 item, nel 1989 (Butcher & Williams, 1996).

La seconda versione, il test MMPI – 2, seppur abbia mostrato un livello di stabilità temporale tendenzialmente superiore a quella del test MMPI originario – a causa della metodologia di costruzione del test prettamente empirica – non ha raggiunto elevati livelli di consistenza interna delle scale (la consistenza interna riflette quanto i diversi item o quesiti che compongono un test siano omogenei tra di loro e con il punteggio totale): gli item della seconda versione rimasero sostanzialmente equivalenti agli item originali e le correlazioni tra i punteggi delle scale cliniche originali del test MMPI e quelle del MMPI – 2 rimasero tutte superiori a .98 (Sirigatti & Stefanile, 2011).

MMPI – 2 – RF: una versione dello strumento più accurata e maggiormente affidabile rispetto alle precedenti

La pubblicazione del MMPI – 2 – Restrucuted Form è avvenuta nel 2008 dopo una revisione sostanziale e formale del test a opera di Ben Porath e Tellegen. Quest’ultima versione è composta da 338 item (229 item in meno rispetto alla precedente versione) organizzati in 51 scale, di cui 9 di validità e 42 sostanziali, ossia legate al disagio psichico.

In merito alle proprietà psicometriche, la ricerca ha messo evidenziato un effettivo incremento della validità e attendibilità dello strumento: è stato individuando e isolato un fattore che influenzava il punteggio di tutte le scale di rilevanza clinica, riducendo la consistenza interna del test. Tale fattore, nel MMPI – 2 – RF, è rappresentato dalla scala Demoralizzazione, la quale riflette una forma d’ansia vissuta da coloro che sperimentano un disagio psicologico. In particolare, Tellegen e colleghi (2013) hanno svolto numerose analisi sulle nuove scale ristrutturate, isolando anche la Scala Demoralizzazione, e hanno verificato come le scale cliniche rimango strettamente connesse alla dimensione sottostante misurata, nonostante il test sia costituto da meno item rispetto alle sue precedenti versioni.

L’Interpretazione step by step del MMPI – 2 – RF

Il passo preliminare per l’interpretazione di un protocollo MMPI – 2 – RF è valutare la validità dello stesso attraverso la considerazione del numero di item omessi e l’analisi delle scale di validità, aventi lo scopo di evidenziare possibili tentativi del soggetto di falsificare il test, adottando uno stile di risposta tendente a esagerare i propri sintomi o disturbi (over-reporting), a negarli o mascherarli (under-reporting), o a rispondere in modo casuale. L’attendibilità del protocollo è più che mai necessaria in ambito forense.

La successiva ipotesi interpretativa è determinata dall’elevazione delle scale sostanziali, ossia quelle legate ai quadri sindromici e dimensionali della personalità. Più precisamente, le scale sostanziali sono strutturate gerarchicamente su tre livelli, i quali vanno interpretati secondo l’ordine presentato:

  • un livello superiore costituto da tre Scale Sovraordinate (Scala Emozionale/Internalizzante, Scala Disfunzione del Pensiero, Scala Disfunzione Comportamentale/Esternalizzante) che valutano la disfunzione psicologica ad ampio spettro;
  • un livello intermedio rappresentato dalle nove scale cliniche ristrutturate (Scala Demoralizzazione, Scala Lamentele Somatiche, Scala Bassa Emotività Positiva, Scala Cinismo, Scala Comportamento Antisociale, Scala Idee di Persecuzione, Scala Emozioni Negative Disfunzionali, Scala Esperienze Aberranti, Scala Attivazione Ipomaniacale);
  • un terzo livello, organizzato in 23 scale relative a problemi specifici (Scala Malessere, Scala Lamentele Gastrointestinali, Scala Mal di Testa, Scala Lamentele Neurologiche, Scala Lamentele Cognitive, Scala Ideazione Suicidaria/di Morte, Scala Impotenza/Disperazione, Scala Dubbio sul Sè, Scala Inefficacia, Scala Stress/Preoccupazione, Scala Ansia, Scala Propensione alla rabbia, Scala Paure che Inibiscono il Comportamento, Scala Molteplici Paure Specifiche, Scala Problemi Giovanili di Comportamento, Scala Abuso di Sostanze, Scala Aggressione, Scala Attivazione, Scala Problemi Familiari, Scala Passività interpersonale, Scala Evitamento Sociale, Scala Timidezza, Scala Isolamento), a due scale di interessi (Scala Interessi Estetico-Letterari, Scala Interessi Meccanico-Fisici) e a le scale PSY – 5 – r (Le scale Psy – 5 – r, anche se consentono rilevanti collegamenti teorici con modelli di personalità e di psicopatologia attuali, sono valutabili solo qualora le scale cliniche non ottengono un punteggio che supera il valore che rende possibile l’interpretazione della stessa. Tali scale sono: Scala Aggressività Rivista, Scala Psicoticisimo Rivista, Scala Alterazione dell’Autocontrollo Rivista, Scala Emozionalità Negativa/Nevroticismo Rivista, Scala Introversione/Bassa Emozionalità Positiva Rivista).

La retribuzione emotiva: un modo per fidelizzare i talenti in azienda

Il Primo Maggio si celebra, come ogni anno, i lavoratori, ricordando le battaglie operaie per uno dei diritti fondamentali: l’orario di lavoro. Ma, nell’attuale contesto lavorativo flessibile, legato anche ai grandi progressi tecnologici, il lavoratore si trova a dover combattere una nuova battaglia, ovvero la ricerca e il mantenimento di un impiego.

 

In questo clima di “liquidità” (Bauman, 2002) professionale, il lavoratore diventa unico responsabile della propria carriera, investendo, quindi, su cambiamenti e transizioni geografiche e di mansioni, che lo porterebbero ad abbandonare il contesto organizzativo per cui lavora.

Retribuzione emotiva ed economica: cosa serve alle persone al lavoro

Qual è l’esito inevitabile per le aziende in queste situazioni? La possibilità di perdere un “talento”. Il talento non è sempre qualcosa di misurabile o oggettivo, ma può essere definito come

un modello ricorrente di pensiero e atteggiamento che può essere messo in pratica in modo produttivo (Bellandi, 2006).

In base a questa logica, quindi, risulta difficile pensare che la retribuzione economica rimanga la privilegiata forma di fidelizzazione del lavoratore talentuoso del Terzo Millennio.

Nella letteratura scientifica in psicologia del lavoro e delle organizzazioni, infatti, si stanno sempre più diffondendo filoni di ricerca che si basano su nuovi costrutti di gestione delle risorse umane, tra cui quello dell’intelligenza emotiva-EI (Salovey & Mayer, 1990; Goleman, 1994) a lavoro. Gli autori definiscono l’EI come quella capacità di (ri)conoscere i sentimenti e le emozioni proprie ed altrui, di distinguere tra di esse e di utilizzare queste informazioni per pensare e agire. Daniel Goleman (1994) individua le componenti fondamentali dell’intelligenza emotiva, distinguendo:

  1. La consapevolezza di sé, cioè la capacità di raggiungere obiettivi partendo dalle proprie emozioni;
  2. Il dominio di sé, ovvero la capacità di utilizzare le proprie emozioni per uno scopo;
  3. La motivazione, vale a dire la capacità di comprendere il motivo reale che spinge all’azione;
  4. L’empatia, quella capacità di comprendere gli stati emotivi e le azioni altrui;
  5. Le abilità sociali, cioè la capacità dello stare insieme agli altri comprendendoli.

Retribuzione emotiva: come fidalizzare le persone in azienda

Invero, sulla base di questo costrutto e delle sue componenti sta emergendo una nuova concezione di fidelizzazione dei talenti, che mira a porre l’attenzione sul lavoratore in quanto persona e non più come risorsa produttiva, generando ciò che è stata definita retribuzione emotiva (Poelmans, 2005). Con la retribuzione emotiva si va oltre quella che è una mera ricompensa economica, garantendo al lavoratore:

  1. Un ambiente di lavoro accogliente e stimolante;
  2. Un contesto in cui si investa in formazione e acquisizione della competenze tecniche e trasversali;
  3. Un luogo dove poter coltivare relazioni tra pari e tra colleghi di status differente;
  4. Orari compatibili con la vita privata;
  5. Sviluppare il proprio talento.

Infine, le potenzialità di questa prospettiva risiedono non solo nel fornire alle aziende delle strategie per fidelizzare un lavoratore, ma anche nel restituire a quest’ultimo un certo grado di dignità, che in molte occasioni, come la svalutazione professionale o il precariato, poiché si tede a dimenticare il lato Umano della risorsa.

Corpo, immaginazione e cambiamento (2019) di G. Dimaggio, P. Ottavi, R. Popolo e G. Salvatore – Recensione del libro

Aprile 2019. Nel bel mezzo della trepidante attesa dell’ultima stagione di Trono di Spade c’è un altro evento che scuote gli animi di noi giovani (e si spera anche meno giovani) terapeuti. Un testo, un manuale. Se ne sentiva il bisogno in giro.

 

Quindi lo abbiamo prima desiderato e poi atteso. Infine, eccolo qui. Corpo, immaginazione e cambiamento, per mano di Giancarlo Dimaggio, Paolo Ottavi, Raffaele Popolo e Giampaolo Salvatore: siamo in casa TMI.

Corpo, immaginazione e cambiamento: cosa offre il testo

L’introduzione è elegante, fine, stimolante. Cover arancione con due frecce gialle che in alcune condizioni di luce appaiono quasi fluorescenti. Sembrano, però, stare molto bene e fare pendant con il primo libro del 2013, completamente giallo. Appena mi addentro nelle prime righe già so cosa mi aspetta: pagine intense e fitte di informazioni. Un aggettivo che rende l’idea è: corposo. Chi ha studiato Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità (Dimaggio et al., 2013) sa bene a cosa mi riferisco. L’abbiamo letto più e più volte perché ad ogni nuova lettura emergeva un dettaglio in più.

Personalmente, credo di averlo studiato, per intero, almeno 5 volte. Corpo, immaginazione e cambiamento (Dimaggio et al., 2019) conferma questo stile e questa caratteristica, anzi, credo che superi il primo volume per densità di informazioni ma la quantità di casi clinici citati rende la lettura scorrevole e concreta perché ci catapulta immediatamente nel vivo delle situazioni che viviamo a studio. Si conferma un indice ordinato e schematico che aiuta non poco nell’organizzare mentalmente le informazioni.

Tornando all’osservazione iniziale cerchiamo di rispondere alla domanda: perché ne sentivamo il bisogno? Beh, probabilmente perché molte delle cose che si studiano, semplicemente, non funzionano nel 100% dei casi. Molti interventi evidence based sono utili in determinate condizioni ma possono perdere di efficacia con quei pazienti che hanno di base degli assetti di personalità problematici. Il punto di partenza di questo nuovo manuale è che gli schemi hanno una rappresentazione somatica, viscerale, corporea, oltre che cognitiva ed emotiva, che deve essere vista e considerata in quanto permette di accedere ad aspetti a volte rimossi della nostra storia di vita e di regolarli con un lavoro bottom-up. Vi è notevole accordo sul fatto che lavorare soltanto sugli aspetti semantici e cognitivi risulta limitante se non unito al lavoro sull’assetto emotivo e sui correlati somatici, sensoriali, automatici.

Corpo, immaginazione e cambiamento: si parte dalle basi TMI

Già la prima versione dell’albero decisionale ci aveva guidato in una concettualizzazione di sintomi e difficoltà relazionali che altri quadri teorici facevano in modo meno rigoroso. Ma l’aspetto più importante è che, ad oggi, la TMI diventa sì più sofisticata ed integrata con altri approcci però resta sempre profondamente attenta alla relazione terapeutica. Nessun aggiornamento snatura questo trattamento. In modo raffinato incorpora le tecniche immaginative, drammaturgiche e corporee e restituisce a noi terapeuti un patrimonio ricco di riflessioni, certamente, ma soprattutto di mezzi utili e sfruttabili in ogni secondo delle nostre sedute. La procedura decisionale, nelle sue due macro componenti (la formulazione condivisa del funzionamento e la promozione del cambiamento) abbraccia le tecniche precedentemente citate in ogni fase della terapia a seconda degli scopi, sia se ad esempio siamo nel pieno dell’assessment che, proprio per questo lo chiameremo “dinamico”, sia se vogliamo favorire la metacognizione del paziente piuttosto che prepararlo alle attivazioni ed esposizioni comportamentali. Inoltre, ci vengono in aiuto le tecniche attentive o di mindfulness per un lavoro specifico sulla regolazione emotiva e del pensiero ripetitivo interpersonale.

Nella primissima parte del testo vengono ripresi i temi centrali del precedente manuale ma possiamo ritrovare un approfondimento ad esempio sugli schemi di coping (quelli con sostituzione del wish o con il mantenimento di quest’ultimo ma con la modifica della procedura “se…allora”), che molto spesso vengono confusi con quelli primari, compiendo un errore di non poco conto, sottolineando che i coping hanno una componente procedurale, somatica, incarnata che li rende, spesso, attivabili senza averne consapevolezza. Sono, infatti, egosintonici. Vedremo, inoltre, come coping e autoregolazione emotiva, per certi versi, possono essere considerati sinonimi. Giungiamo quindi ad un modello del disturbo di personalità che comprende il ruolo degli aspetti procedurali/automatici degli schemi e del pensiero ripetitivo che, insieme ai cicli interpersonali e alle disfunzioni metacognitive, creano e alimentano continuamente sofferenza e sintomatologia. È proprio a causa delle scarse competenze metacognitive che spesso i pazienti vivono l’arousal, l’attivazione fisiologica e corporea, come indifferenziata e non riescono a gestirla se non attivando coping schema correlati e cicli disfunzionali. Questa volta, però, a fare da sfondo, compare l’immagine positiva e sana dell’individuo che viene vista e sollecitata quanto prima, magari già nelle primissime sedute se vi sono le condizioni.

Corpo, immaginazione e cambiamento: le tecniche per la psicoterapia

Mi sono chiesta come avrei potuto ridurre in due pagine quello che ho letto in 400. Ci ho provato, focalizzandomi soprattutto sulla ricaduta pratica dei contenuti. Molto spesso leggiamo di teoria, di cosa si potrebbe fare mentre in Corpo, immaginazione e cambiamento è tutto contestualizzato, incorniciato nelle rispettive caselle teoriche (le referenze sono aggiornatissime) così da comprendere la ratio alla base di questo tipo di interventi. Nella seconda parte del testo, veniamo letteralmente accompagnati per mano nella procedura, con tanto di attenzione ad eventuali intoppi, rischi o difficoltà. Come ci potevamo aspettare, vi è sempre una marcata attenzione alla posizione interna del terapeuta e alla relazione terapeutica. Ogni tecnica è descritta minuziosamente. Prima quelle immaginative. Poi quelle drammaturgiche (gioco delle due sedie, role play ed enactment). Infine quelle corporee. Trasversalmente, si può capire come strutturare un rescripting, come favorire la regolazione con tecniche attentive (rimodulazione dell’attenzione, scomposizione dello spazio attentivo per la ruminazione e regolazione dinamica per il rimuginio) e come sviluppare l’esplorazione e l’attivazione comportamentale. Infine è descritto il Metacognitive Interpersonal Mindfulness-Based Training (MIMBT) e la Terapia metacognitiva interpersonale di gruppo (TMI-G).

Si potrà poi capire quando è più utile applicare una tecnica piuttosto che un’altra ed in che modo, in base agli scopi, alle fasi della terapia ed alle capacità metacognitive del paziente. Vedremo come raggirare eventuali ostacoli e come verificare le condizioni preliminari. Non per ultimo, come capire se hanno sortito effetto o meno. Nel fare questo incontreremo vari casi clinici, storie, età, sintomi diversi che evolvono verso la consapevolezza ed il cambiamento. Mi piace riassumere questo concetto utilizzando la prima e l’ultima frase del testo:

la vita scrive segni sul corpo oltre che nella psiche…

…sperimentare stati del corpo in cui si lascia la sofferenza alle spalle.

Siamo psicoterapeuti immersi in una generazione in cui la psicoterapia evolve e prende forme nuove molto rapidamente. Io sono orgogliosa di appartenere alla categoria di psicologi che si interroga e si chiede il perché continuamente; in quanto tali, coltiviamo gli aspetti più intellettuali del nostro lavoro, leggiamo, scriviamo, sperimentiamo e ci mettiamo in discussione. Corpo, immaginazione e cambiamento rispecchia a pieno quest’epoca ed è stimolante per davvero. È quel libro da tenere sempre a portata di mano e da trasformare rapidamente in risorse pratiche. È un mix di innovazione e studio, di anni di ricerca sulla relazione mente-corpo. In parallelo a quello che la ricerca ci offre, la psicoterapia non poteva non tenerne conto e per forza di cose, si rimodella continuamente. Noi dovremmo farlo insieme ad essa. Ora il bello sarà ricordaci di inserire la referenza aggiornata nelle cose che scriviamo: Dimaggio et al., 2019.

Neuroni e sinapsi artificiali, il futuro dell’elettronica?

L’imitazione artificiale della dinamica fra sinapsi e neuroni nei sistemi cerebrali biologici è un tema che viene trattato da tempo nella filosofia e nella scienza, ma siamo lontani dai futuri ipertecnologici ai quali ci hanno abituato i film avveniristici.

 

L’avanzamento delle capacità informatiche si basa in particolare sulla riduzione delle dimensioni dei dispositivi, aumentando così costi, potenza e velocità. Vi sono però limiti fisici fondamentali, ed il solo “device scaling” non è sufficiente per ottenere il livello di performance necessario.

Neuroni e sinapsi artificiali: i primi sistemi

Per i ricercatori che si occupano di informatica neuromorfica, la sfida maggiore è rappresentata dall’alta energia usata per spostare i dati dal processore alla memoria e viceversa, un processo di memorizzazione generalmente definito come collo di bottiglia di von Neumann. Inoltre, il cervello usa potenziali d’azione discreti, le cui caratteristiche dipendono dal pattern e dalla forza delle connessioni, ad una velocità di codifica basata sui tempi locali delle sue varie parti, caratteristiche difficili da riprodurre nei modelli neurali informatici.

Un recente studio (Kurenkov, et al., 2019) ha sviluppato per la prima volta un sistema neuro-sinaptico artificiale con diverse caratteristiche fondamentali della sua controparte biologica. I ricercatori hanno sopperito ai limiti delle apparecchiature tradizionali, che risentono unicamente del campo elettrico, utilizzando substrati spintronici, ovvero in cui può influire anche un campo magnetico, modificando quello elettrico. Il supporto artificiale, se in grado di magnetizzarsi, può “ricordare” lo stato elettrico attraverso quello magnetico, istantaneamente nello spazio adiacente, evitando così il collo di bottiglia di von Neumann. La capacità di memorizzare ed elaborare dati in queste reti, note come memristori, è nettamente superiore a quella dei sistemi digitali, in grado di rappresentare solo due stati, come gli 0 ed 1 del codice binario nei computer.

Neuroni e sinapsi artificiali: i risultati della ricerca

I piccolissimi dispositivi costruiti da Kurencov e colleghi hanno una struttura unica che, in base alle sue dimensioni, può generare un campo magnetico in modo binario, come nelle fasi di “scarica” e “integrazione” dei neuroni, o in modo analogico, come per la forza di connessione delle sinapsi. In più, la temperatura può essere usata come indice per l’integrazione dei tempi locali: quando arriva un impulso essa aumenta, per via della resistenza dei conduttori e diminuisce fra un impulso e l’altro. Più impulsi arrivano in un tempo breve e più i dispositivi diventano caldi.

Ciò conduce ad una più alta probabilità di switching (fra le due modalità dei neuroni artificiali e gradualmente nelle sinapsi artificiali). La rete neurale spiking così costruita è in grado di riflettere le proprietà dei potenziali di membrana (attraverso dinamiche termiche) e della plasticità attività-dipendente (attraverso lo stato magnetico) esistente fra connessioni cerebrali reali. La dipendenza osservata fra la probabilità di rilasciare potenziali d’azione e l’intensità degli stimoli in entrata dei dispositivi riproduce fedelmente quella di diverse registrazioni effettuate in vivo sul modello animale, ma con una velocità mille volte superiore.

Questa sorprendente ricerca mostra una possibile soluzione alla mancanza di hardware per la costruzione di reti cerebrali artificiali di grosse dimensioni, implementando notevolmente i vari filoni di ricerca nell’ambito delle neuroscienze, dell’interazione uomo-macchina e dell’intelligenza artificiale.

Esiste un legame tra attaccamento insicuro e finzione dell’orgasmo?

Il 90% delle donne durante i rapporti sessuali con un partner non raggiunge l’ orgasmo regolarmente e circa il 10% non lo sperimenta affatto; inoltre, quasi due terzi delle donne sostengono di aver simulato un orgasmo con un partner (Muehlenhard & Shippee, 2010).

Vittoria Omodeo e Greta Riboli

 

Precedenti studi hanno riscontrato diverse motivazioni che soggiacciono dietro questa finzione: per proteggere l’autostima dell’altro, per evitare pensieri ansiogeni, per terminare rapidamente il rapporto o migliorare la propria esperienza sessuale e perché le donne sembrano essere più preoccupate del proprio orgasmo per il bene del partner piuttosto che per un benessere personale (Cooper et al. 2014).

Attaccamento insicuro e simulazione dell’orgasmo

Nel presente articolo, i ricercatori Láng e Meskó dell’University of Pécs e Cooper del Westside Behavioral Health di Westlake (Ohio) si propongono di rispondere alla medesima domanda (“Come mai si finge l’orgasmo?”) trovando una relazione tra decisione di fingere l’orgasmo e l’ attaccamento adulto instauratosi.

L’ attaccamento è il primo sistema sociale-comportamentale e quindi le primissime esperienze relazionali potrebbero successivamente influenzare lo sviluppo del comportamento sessuale.

In uno studio del 2012 (Shaver & Mikulincer) hanno riscontrato come individui adulti con un attaccamento sicuro riescono a mantenere un’equilibrata interdipendenza tra sessualità e attaccamento e tendono a preferire una vita sessuale sperimentata all’interno di relazioni stabili entro le quali vivono intimità, soddisfazione e gratificazione reciproca (Barnes et al., 2017).

Nel presente studio vengono invece prese in considerazione dimensioni, quali l’ attaccamento ambivalente, accompagnato dalla paura della separazione dagli altri e dalla corrispondente valutazione di sé, e l’ attaccamento evitante, descritto dagli autori come accompagnato da disagio che porta all’evitamento dell’intimità, disattivando il sistema comportamentale dell’attaccamento allo scopo di prevenire frustrazioni dovute alla ricerca di conforto da parte di una figura respingente.

Le persone con questi stili d’attaccamento (ambivalente ed evitante) vivono le relazioni affettive e la sessualità in modo diverso dalle persone con attaccamento sicuro: le persone con attaccamento evitante durante le relazioni stabili con un partner non hanno frequenti rapporti sessuali e tendono ad averne quasi unicamente per motivi legati alla pressione da parte del partner o per questioni legate all’autostima (Dunkley et al., 2016).

I soggetti con attaccamento ansioso-ambivalente, invece, riportano fantasie sessuali legate ad un ideale romantico e vedono il sesso come mezzo per sentirsi apprezzati e desiderabili, tanto da dedicarsi molto al sesso come strumento per evitare un possibile abbandono (Jones & Curtis, 2017).

Attaccamento insicuro e simulazione dell’orgasmo: lo studio

Nel presente studio i partecipanti sono 348 donne di età compresa tra i 18 ed i 59 anni, reclutate su blog ungheresi sulla salute della donna.

Il 4.3% dei partecipanti ha riferito di non avere alcuna relazione attuale, il 6.3% ha riportato di frequentare qualcuno, il 10.3% ha riportato un altro stato relazionale (tra cui, relazione a distanza o amicizie con benefici), il 16.1% ha rapporti occasionali con più partner, il 23.9% è sposato e il 39.1% convive con un partner.

Le partecipanti hanno compilato una batteria di questionari online, contenente i seguenti strumenti: FOS e l’ECR-S.

Il Faking Orgasm Scale (FOS) (Cooper et al., 2014) è una misura self-report di 61 item che serve ad osservare la motivazione che sta alla base della simulazione dell’orgasmo durante rapporti sessuali e rapporti orali. L’Experiences in Close Relationships Scale, Short Form (ECR-S) è, invece, uno strumento a 12 item relativo all’attaccamento adulto ed è diviso in due parti: una riguardante l’evitamento dell’attaccamento (evitamento dell’intimità con i partner) e l’altra l’ansia da attaccamento (ansia provocata da una separazione reale o immaginaria con il partner).

I risultati emersi confermano le ipotesi dei ricercatori:

  • Uno stile d’attaccamento evitante è più diffuso tra le donne che hanno dichiarato di aver simulato un orgasmo rispetto a coloro che sostenevano di non averlo mai fatto;
  • Sia l’attaccamento ambivalente sia l’attaccamento evitante sono associati ad un comportamento di simulazione dell’orgasmo per evitare e sopprimere sentimenti negativi e di vergogna associati alla sessualità;
  • Le persone con stile d’attaccamento evitante fingono l’orgasmo allo scopo di far durare meno il rapporto sessuale;
  • Le persone con stile d’attaccamento ambivalente fingono l’orgasmo allo scopo di far aumentare la vicinanza e l’investimento emotivo del partner. Questa strategia potrebbe strutturarsi in due aspetti: l’apparire più attraenti sessualmente e il garantire che il rapporto sia il più piacevole possibile per l’altro. Questi permetterebbero al partner, oltre al piacere fisico, un aumento di autostima per essere in grado di soddisfare sessualmente una donna e questo, da parte dei soggetti con attaccamento ambivalente, viene vissuto come un altro mezzo per tenersi partner.

Tale studio non ha indagato l’orientamento sessuale delle partecipanti e questo non ha permesso di indagare se ciò potesse avere un effetto sulla relazione tra le dimensioni dell’attaccamento e le motivazioni che stanno alla base della simulazione dell’orgasmo.

Ulteriori studi potrebbero dunque includere più informazioni demografiche e informazioni più complete, tra le quali la frequenza dell’orgasmo ed i pensieri rispetto alla frequenza dell’orgasmo e dei rapporti sessuali allo scopo di aumentare la conoscenza a supporto della pratica clinica.

Shinrin Yoku (2018): arriva dal Giappone la nuova tecnica per ritrovare il benessere all’insegna della natura – Recensione del libro

Arriva dal Giappone una tecnica per ritrovare il benessere e la salute, si chiama Shinrin Yoku o “bagno nella foresta” e letteralmente significa: immergersi e rilassarsi all’interno di boschi, foreste, spazi o aree di verde. L’ente forestale giapponese ha introdotto questo concetto fin dagli anni ’80 per invogliare gli abitanti di grandi città come Tokyo, Osaka e Kyoto a trovare un contatto con la natura e a staccare la spina dai ritmi incalzanti della città.

 

Tutti noi ogni giorno corriamo e ci affanniamo per spostarci dalla nostra abitazione verso l’ufficio o il luogo di lavoro, la palestra, il bar e la maggior parte del tempo che trascorriamo della nostra giornata avviene in spazi chiusi e sempre più a contatto con strumenti tecnologici; lo schermo di un computer, il telefono o altri dispositivi. Anche quando pratichiamo sport, siamo soliti farlo con il telefonino in mano, così come al cinema o a cena di amici, facciamo molta fatica a staccarci dall’enorme quantità di stimoli che riceviamo continuamente. Il contatto con la natura sembra quindi essersi perso e quando ci rendiamo conto di aver bisogno di calma e tranquillità, spesso è perché abbiamo raggiunto un livello molto alto di stress.

Lo scrittore americano Richard Louv nel suo libro L’ultimo bambino nei boschi, dopo aver condotto diverse ricerche che coinvolgevano genitori e bambini americani, definisce la sindrome di questa era con il termine “nature deficit disorder” ( disturbo da deficit di natura) esponendo il fatto che allontanarsi dalla natura può portare i bambini di oggi, che lui stesso definisce come le “generazioni da iPad”, ad essere maggiormente esposti ai disturbi legati allo stress e ai deficit di attenzione e iperattività (ADHD).

Che il distacco con la natura possa avere dei correlati con i problemi di attenzione e con quelli legati allo stress rimane ancora da provare, ma ciò che si riscontra per certo dalle ultime ricerche, è che il contatto con la natura può promuovere il benessere psicofisico degli individui.

Shinrin Yoku: un libro per riscoprire i benefici del contatto con la natura

Annette Lavrijsen, autrice del libro Shinrin Yoku (ed. Giunti), ci accompagna in un’avvincente itinerario alla scoperta del magico mondo di boschi e foreste, e ci suggerisce anche tanti interessanti esercizi da mettere in pratica per scoprire i benefici dello stare a contatto con la natura. Lo Shinrin Yoku o “bagno nella foresta” è quindi un “bagno dei sensi”. Entrando in contatto con la natura, possiamo accedere a quella quiete che ci permette di godere di una maggiore consapevolezza dei nostri sensi e quindi ci induce naturalmente ad uno stato di consapevolezza (Mindfulness) che a sua volta permette di cogliere tutto ciò che proviene dalla natura e dall’ambiente.

Già il filosofo greco Aristotele (384- 322 a.C.) aveva codificato i nostri sensi in vista, udito, gusto, tatto e olfatto. Se pensiamo alla vista, quello che oggi sappiamo dagli studi sull’ergonomia, è che alcune immagini rassicurano il nostro sistema cognitivo ed è per questo motivo che gli ospedali sono arredati con colori tenui come l’azzurro, che rilassa e rassicura la nostra percezione visiva. Allo stesso modo, osservare degli alberi e superfici verdi intorno a noi, promuove un senso di benessere e pace. Oltre alla vista, anche l’olfatto trae beneficio dalla natura. In un bosco gli odori della terra si diffondono e diventano più intensi quando l’acqua entra in contatto con il terreno e con le foglie. Questo stimola il nostro sistema limbico, che lo elabora e lo registra nel cervello. Il sistema olfattivo è collegato alla parte emotiva del cervello quindi quando un odore arriva al naso, viene indirizzato dal bulbo olfattivo a questo sistema e grazie all’amigdala, riesce a combinare una varietà di informazioni sensoriali mettendole in collegamento con le emozioni. Ma anche i suoni calmano e addolciscono e nel fare l’esperienza del bagno di foresta è coinvolto anche il nostro udito. Ascoltare il cinguettio degli uccelli, il rumore di una cascata o di un fiume che scorre, i versi di alcuni animali, il fruscio del vento e delle foglie, sono in grado di rilassarci. Il tatto, con il suo potere “regressivo” ci riporta al livello delle nostre prime esperienze sensoriali. Il bambino infatti acquisisce la conoscenza degli oggetti toccandoli e portandoli successivamente alla bocca. All’interno di un bosco possiamo provare diverse esperienze tattili.

Camminare a piedi nudi sulla spiaggia è qualcosa che tutti noi conosciamo e apprezziamo. Quindi perché non farlo anche in mezzo al verde? In un parco all’aria aperta, camminando e attraversando i sassi in un torrente di montagna, o in un terreno erboso, sono esperienze sensoriali di tatto che varrebbe il piacere di provare. Ma anche toccare gli alberi, abbracciarli, costruire degli oggetti che ci permettano di muoverci all’interno del bosco come ad esempio un bastoncino per scacciare via le vipere da terra, sono tutti esempi di quante innumerevoli azioni tattili possiamo fare nella natura. Ed infine attraverso il gusto possiamo provare il piacere di assaporare le bacche di un albero o semplicemente assaggiare la pioggia che cade stando con la bocca aperta in ascolto verso la natura; sono tutte esperienze di sensi che ci riportano in connessione con lo stato naturale delle cose e maggiormente in contatto con la nostra natura più profonda.

Nel libro Shinrin Yoku vengono suggeriti alcuni esercizi per meditare all’insegna degli elementi che compongono il nostro organismo. Ad esempio con l’acqua, fonte vitale per il nostro organismo di cui la sua composizione ne è in grande parte costituita. L’autrice ci invita a scegliere un posto tranquillo vicino ad un fiume e ad osservare la corrente. Questo tipo di attività ci riporta a contatto con l’ambiente e allo stesso tempo ci aiuta a prendere consapevolezza del momento presente. Osservando l’acqua che scorre, possiamo permetterci di lasciare andare e nostri pensieri, le tensioni e l’ansia al ritmo della corrente. Non mancano inoltre all’interno del testo i riferimenti ai diversi studi e alle ricerche che hanno dimostrato l’efficacia e i benefici di questa attività sulla salute. Ad esempio la ricerca di Ulrich su persone che hanno subito una Colecistectomia riporta che i pazienti sistemati in una stanza dove la finestra era affacciata su un bosco (e permetteva quindi la vista di un paesaggio), mostravano di guarire più in fretta, di avere un atteggiamento più positivo e di necessitare minore farmaci rispetto a quelli la cui finestra era affacciata su un vicolo cieco.

Lo spazio sul fronte della ricerca è ancora aperto a nuove scoperte, Shinrin Yoku è un testo che tuttavia ci suggerisce come nel frattempo può essere entusiasmante per tutti provare ad abbandonare lo stress quotidiano per ritrovare il benessere e la quiete che può offrirci un bosco con i suoi colori, i profumi e i frutti da raccogliere, in un’esperienza che coinvolge tutti i nostri sensi. Non rimane quindi che decidere di dedicare un po’ di tempo alla scoperta di ciò che i boschi e tutte le aree di verde possono regalarci immergendoci in un meraviglioso e avvolgente “bagno nella foresta”.

La mente strategica. Come sfruttare al massimo il nostro potenziale mentale per godere a pieno la vita – Recensione del libro

La mente strategica è un libro positivo, concreto, serio ma di facile lettura, adatto a chiunque voglia dare una nuova possibilità alla sua mente per vivere al meglio.

 

«Poiché tutto è un riflesso della nostra mente, tutto può essere cambiato dalla nostra mente»: il significato di questo libro è tutto racchiuso in queste semplici parole, con le quali si apre il primo capitolo de La mente strategica. Un saggio ‘strategico’ sull’importanza dello sfruttare a pieno la nostra mente per raggiungere quello stato di benessere e soddisfazione personale a cui tutti aspiriamo. L’autrice è Francesca Luzzi, psicologa, psicoterapeuta, allieva del prof. Nardone e collaboratrice ufficiale del Centro di Terapia Strategica di Arezzo.

Cos’è la mente strategica?

Facciamo una premessa. Cosa si intende quando parliamo di Terapia Strategica Breve? Si tratta di un modello clinico di psicoterapia, formulato da Paul Watzlawick ed evoluto da Giorgio Nardone, il cui costrutto operativo centrale sostiene che sono le strategie messe in atte per gestire un problema ad alimentare le difficoltà, conducendo alla strutturazione di un vero e proprio disturbo. Questi tentativi di soluzione dei problemi, inizialmente funzionali alla loro risoluzione, si trasformano in disadattivi, a causa del loro utilizzo in modo rigido ed esasperato, fino a diventare il fulcro della sofferenza personale. Per questo motivo, la psicoterapia mira a potenziare una logica strategica caratterizzate da una serie di tattiche e stratagemmi per risolvere tutta la rigidità patologica del disturbo e portare al raggiungimento del benessere. L’individuo è così parte attiva nel processo di cambiamento che può avvenire solamente attraverso esperienze emozionali correttive in cui sperimentare la capacità di poter gestire le difficoltà con le proprie capacità, senza essere schiavi di comportamenti rigidi e controproducenti. La mente strategica può quindi essere definita come l’assetto mentale che permette questo cambio di rotta in virtù di atteggiamenti ed abitudini più elastici ed orientati strategicamente alla risoluzione di un problema.

Presupposto per questo viraggio è la considerazione che la realtà oggettiva si differenzia largamente dalla realtà soggettiva, che rappresenta il significato personale che ciascuno dà agli oggetti e agli eventi che ha intorno. Questa scoperta rivoluzionò profondamente gli studi sulla relazione dell’uomo con se stesso, gli altri e l’ambiente, già a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. L’uomo è guidato da logiche, credenze ed autoinganni che utilizza per spiegare ciò che ha attorno, per dare significato alle sue scelte, alla sua esistenza. Ci comportiamo in base a ciò che crediamo e crediamo in ciò che ci dà più sicurezza, che conosciamo. Così preferiamo avere conferme al nostro modo di pensare che provare a cambiarlo. Questo circolo vizioso nel quale spesso si trova la nostra mente rappresenta il processo alla base della sofferenza mentale che si nutre di autoinganni e credenze disfunzionali per guidare le nostre scelte.

Che fare allora? Bisognerebbe coltivare il coraggio di osservare gli eventi in termini pragmatici per capire ciò che funziona e ciò che non funziona e quindi ciò che ci occorre per stare bene e ciò che non ci aiuta. L’autrice di La mente strategica introduce allora due concetti chiave per spiegare alcuni processi della mente umana: il primo è quello di resistenza personale al cambiamento, che comprende sia il nostro modo ingannevole di leggere la realtà che i nostri tentativi di soluzione ai problemi, il secondo è quello di problem solving strategico che è la capacità di trovare soluzioni a problemi apparentemente impossibili. Comprendere che la nostra sofferenza deriva in larga parte da un assetto mentale disfunzionale, e non utile al raggiungimento del benessere, e che tale assetto può essere cambiato, con pazienza ed impegno, è il punto di partenza per trovare un nuovo modo di essere nel mondo.

Trasformare il controllo in una risorsa

Quando parliamo di controllo ci riferiamo ad un costrutto psicologico che è stato largamente studiato in ambito psicologico e approfondito trasversalmente ai numerosi orientamenti clinici. Il controllo si riferisce al bisogno di controllo assoluto – sulla realtà, sull’emotività, sugli altri – che spinge la persona a mettere in atto una serie di strategie rigide e ripetitive al fine di controllare il più possibile il proprio mondo interiore ma anche, talvolta, quello degli altri. Il controllo rappresenta così la soluzione ad un problema, ovvero la percezione ansiosa di mancanza di controllo ed è sorretto da credenze disfunzionali. La persona distorce la realtà considerandola pericolosa e considera se stessa come incapace a fronteggiarla: queste credenze alimentano una sensazione di mancanza di controllo, necessario ed imprescindibile, che sostiene a sua volta pattern comportamentali rigidi.

Assodate le conseguenze negative del bisogno di controllo, tra cui l’incapacità assoluta di gestire anche la minima mancanza di esso, l’autrice introduce una risorsa chiave della mente strategica, ovvero il controllo strategico. Il rovescio positivo della medaglia. Il lato strategico del controllo fa riferimento alla nostra percezione di controllo, in base alla quale il controllo vero, effettivo, conta ben poco, è la percezione soggettiva di averlo che fa la differenza. Quello che serve per una mente strategica è coltivare la sensazione di poter agire sulla realtà, credendo fermamente di potercela fare: è questo il controllo strategico, che parte dalla capacità di ascoltare i propri bisogni per comportarsi in modo funzionale, adattivo, flessibile.

L’arte della ristrutturazione

Osservare, dubitare delle nostre certezze, rivedere, mettere in discussione i nostri pensieri: è questa l’arte della ristrutturazione, quella capacità di osservare le cose con occhi nuovi e individuare nuove prospettive. Ciò non significa negare che possono accadere eventi spiacevoli ma trovare qualcosa di positivo nei momenti sfavorevoli, come una luce che fa strada nell’oscurità. Non è facile, ma possibile. Una tra le forme più potenti di ristrutturazione è il senso dell’umorismo, ovvero la capacità di saper ridere di una cosa in modo da vederla sotto una nuova ottica. E, ancora una volta, non si tratta di negare l’evento negativo ma di osservarlo e trasformarlo in qualcosa di nuovo.

L’uomo interagisce continuamente con l’ambiente e fa nuove esperienze alle quali dà ogni volta un significato sulla base del proprio modo di pensare. Questa creazione di senso, che noi effettuiamo continuamente nei confronti della realtà, rappresenta così la nostra possibilità per scegliere chi vogliamo essere, attraverso sbagli, cadute, prove ed errori fino a trovare la nostra strada, ciò che ci appassiona veramente. La mente umana può essere curiosa, avventurosa e perseverante, basta volerlo.

Strategie concrete per la mente strategica

Nel corso del sesto capitolo l’autrice passa ad analizzare una serie di strategie concrete per allenare la mente nella vita di tutti giorni. Si tratta di piccoli e concreti obiettivi quotidiani che ci porteranno a grandi cambiamenti di vita. Parti dal fare piccoli passi giornalieri e questi diventeranno le tue abitudini. Alcuni esempi? Evitare la rigidità mentale, accettare emozioni e pensieri negativi, mantenere un dialogo positivo con se stessi ed il mondo, evitare di evitare. Tanti piccoli, e fondamentali, allenamenti quotidiani molto utili per apprendere nuovi modi di stare nel mondo perché il nostro benessere dipende proprio dal modo di interagire con la realtà circostante, con noi stessi e con gli altri. E questo modo può essere acquisito ogni giorno, con pazienza e coraggio. Perché essere felici è una scelta.

La mente strategica è un libro positivo, concreto, serio ma di facile lettura, adatto a chiunque voglia dare una nuova possibilità alla sua mente per vivere al meglio. Attraverso osservazioni cliniche, esempi pratici e strategie concrete aiuta a comprendere la teoria esposta e a stimolare un approccio mentale nuovo, libero da rigidi condizionamenti e finalmente più flessibile.

I nostri giudizi egocentrici sull’ordine temporale degli eventi

La comprensione dei meccanismi che rendono possibile la formulazione di giudizi riguardo gli esatti ordini e la gerarchia temporale di eventi è particolarmente importante in quanto spiegherebbe come le persone percepiscono soggettivamente il flusso temporale degli eventi andando così a costituire l’ esperienza consapevole degli stessi..

 

 Ma chi ha colpito la palla? Questa è probabilmente la domanda che, tra le tante, scatena le più lunghe, interminabili e a volte animatissime discussioni. Queste discussioni coinvolgono commentatori sportivi, amici e familiari riuniti davanti al televisore o al bar durante la fatidica e decisiva partita di calcio, basket o pallavolo della propria squadra del cuore, tra tifoserie avversarie veementi che si trovano a dover stabilire la correttezza dei giudizi su quale giocatore abbia compiuto l’ “ultimo tocco” sulla palla.

Percezione della sequenza temporale: come funziona

La comprensione dei meccanismi che rendono possibile la formulazione di giudizi riguardo gli esatti ordini e le gerarchie temporali di eventi – come nell’esempio “chi ha colpito la palla?” – è particolarmente importante in quanto non solo consentirebbe di chiarire le ragioni delle diatribe sportive ma soprattutto spiegherebbe come le persone percepiscono soggettivamente il flusso temporale degli eventi andando così a costituire l’esperienza consapevole degli stessi (Tang & McBeath, 2019).

Partendo dall’esempio sportivo appena illustrato, affinché sia possibile formulare un giudizio su chi abbia dato l’ultimo tocco alla palla, è necessario che la persona compia un’integrazione temporale tra la rappresentazione interna di un’azione motoria appena implementata e l’informazione sensoriale esterna circa i suoi effetti sull’ambiente (Arstila & Lloyd, 2014).

Quando si verifica una discrepanza nella percezione della sequenza temporale di un medesimo evento da parte di due o più soggetti, nasce la diatriba.

Ma com’è possibile che uno stesso evento verificatosi in un momento temporale specifico e preciso venga percepito in modo differente in termini temporali dalle persone?

Bias nella percezione della sequenza temporale degli eventi

Per la risoluzione di tale problema è centrale investigare la relazione tra azione e percezione temporale, in special modo per comprendere se possano esistere dei bias nei giudizi temporali degli eventi a partire da come le persone percepiscono il verificarsi delle azioni motorie sia auto che etero generate.

Gli studi che si sono focalizzati sulla relazione tra percezione temporale e azione motoria hanno indagato per prima l’esperienza della percezione in associazione alle azioni motorie intenzionali, autogenerate.

In quest’ambito, lo studio di Haggard e colleghi (2002) dell’Institute of Cognitive Neuroscience dell’ University College di Londra si è concentrato su come le persone diventino consapevoli delle proprie azioni, cioè come queste “sentano” e riconoscano come propria un’azione motoria.

Secondo lo studio, affinché una persona possa riconoscere un’azione motoria come autogenerata e intenzionale, è cruciale che osservi nello stesso momento gli effetti di cambiamento sull’ambiente di quella stessa azione.

I risultati dello studio hanno mostrato infatti come la consapevolezza di un’azione sia l’esito del legame tra tempo percepito per l’implementazione dell’azione motoria e le sue conseguenze sensoriali osservabili nell’ambiente e come le persone possiedano in aggiunta una percezione temporale “tardiva” delle azioni motorie autogenerate e una precoce dei suoi effetti sull’ambiente: le persone tendevano a percepire temporalmente i loro movimenti intenzionali come verificatisi dopo rispetto a quando realmente accaduti e i loro effetti sull’ambiente come accaduti prima (Haggard et al., 2002).

Percezione della sequenza temporale: gli studi

Queste due rappresentazioni temporali “disorte” sono inoltre risultate strettamente associate tra di loro nel dar luogo a quella che gli autori hanno chiamato “legame intenzionale” che sta alla base di un’esperienza consapevole dell’azione, intesa come un evento in cui azione e percezione dei suoi effetti avvengono in contiguità temporale determinando la causalità dell’una sull’altra.

In seconda battuta, a fianco allo studio di Haggard e colleghi (2002), lo studio di Capozzi e colleghi dell’Università di Torino (2016) ha approfondito l’effetto di tale legame intenzionale per la costruzione della consapevolezza delle azioni autogenerate inserendo però anche la percezione delle azioni eterogenerate durante compiti di interazione cooperativa o competitiva.

I ricercatori italiani hanno osservato come i partecipanti abbiano percepito temporalmente eventi autogenerati come avvenuti prima ed abbiano quindi avuto un bias anticipatorio nel giudizio temporale riguardo azioni autogenerate; al contempo i partecipanti hanno stimato successivi nell’ordine temporale eventi eterogenerati indipendentemente dal compito di interazione.

Entrambe queste evidenze sulla presenza di bias nei giudizi temporali degli eventi e sugli effetti del legame intenzionale nella costruzione della consapevolezza dell’andamento temporale dell’esperienza sensoriale (Haggard et al., 2002; Capozzi et al., 2016) sono state ottenute tramite paradigmi sperimentali in cui è stato artificialmente inserito un intervallo temporale di pochissimi decimi di secondi tra l’effettiva azione motoria compiuta dai soggetti e l’ “evento azione” cioè il momento in cui questi avrebbero poi percepito l’effetto di tale azione.

Questo intervallo tuttavia non è presente quando le persone si trovano a dover interagire realmente con altri nel mondo esterno dove le azioni volontarie e i suoi effetti nell’ambiente sono pressoché simultanei.

Bias nei giudizi di attribuzione

Al fine di investigare l’eventuale presenza di tali bias nei giudizi temporali in situazioni reali, congiunte e simultanee, Tang & McBeath (2019) del dipartimento di Psicologia dell’Arizona State University hanno condotto tre esperimenti in cui veniva chiesto a circa 20 studenti universitari, tra i 18 e i 23 anni, in coppia e separati da un divisorio che non permetteva la visione l’uno dell’altro, di toccare il dorso della mano del partner tramite un sensore capacitivo attivato da un bottone, dopo essere stati istruiti a somministrare il tocco solo alla comparsa di un flash di luce.

Il sensore azionato dal bottone avrebbe dato all’altro partecipante la sensazione del tocco dell’altro, il tutto senza avere consapevolezza del momento esatto in cui il partner avrebbe temporalmente compiuto il gesto.

A seguito di ciò, ai partecipanti è stato chiesto di formulare dei giudizi temporali sulla sequenza temporale dei “tocchi” ricevuti.

Lo studio, recentemente pubblicato su Science Advances ha rilevato significativi bias in tali giudizi: la maggioranza degli studenti ha infatti pensato di aver toccato l’altro per prima rispetto alla sequenza temporale oggettiva dettata dal flash di luce.

Tale bias nella rappresentazione dell’ordine temporale dell’azione congiunta simultanea è stato definito “egocentrico”, in quanto i partecipanti hanno stimato di aver toccato con un’alta probabilità per prima il loro partner quando in realtà l’evento del toccare è stato simultaneo.

Questa tendenza egocentrica a ritenere di aver toccato prima l’altro ha corrisposto inoltre un effettivo ritardo temporale di circa 50 secondi per il quale entrambi i partner della coppia hanno stimato molto probabile l’essersi toccati nello stesso momento.

Infatti tutti i partecipanti, in media, hanno percepito come simultaneo un tocco somministrato dall’altro 50 secondi dopo e di aver invece toccato l’altro per prima (Tang & McBath, 2019).

Bias nella percezione dell’esperienza soggettiva del soggetto

Lo stesso effetto si è mantenuto sia sostituendo uno dei partner della coppia con un solenoide che somministrava lo stimolo tattile (questo per evitare eventuali influenze sociali dovute all’interazione con l’altro) sia nella condizione finale in cui i giudizi dei soggetti riguardavano l’associazione temporale tra il proprio tocco e un suono preceduto da un flash di luce.

In conclusione, lo studio di Tang & McBath (2019) ha confermato la presenza di un significativo bias nei giudizi temporali circa la sequenza temporale di un’azione autogenerata, percepita come verificatasi circa 50 secondi prima rispetto al suo reale accadimento .

Tale bias secondo gli autori modula la percezione dell’evento e l’associazione tra azione e suoi effetti nell’ambiente generando il punto di vista temporale e consapevole dell’evento.

Pertanto quando due giocatori toccano simultaneamente la stessa palla, le due tifoserie avranno pareri discordanti a riguardo, a seguito di una differente, “distorta” esperienza soggettiva dell’evento.

Chi l’avrebbe mai detto che dietro una banale discussione sportiva vi fosse tutto questo?

La comunicazione non verbale nei bambini con disturbo dello spettro autistico

Numerosi studi hanno riconosciuto la natura multimodale della comunicazione umana e in particolare l’importanza dei gesti nello sviluppo comunicativo del bambino. Come cambia il comportamento gestuale nei bambini con disturbo dello spettro autistico?

 

Numerosi studi hanno riconosciuto la natura multimodale della comunicazione umana e in particolare l’importanza dei gesti nello sviluppo comunicativo del bambino.

Tutti i bambini prima ancora di produrre etichette verbali si riferiscono agli oggetti usando i gesti. A 10 mesi i bambini sono già in grado di percepire la direzione dello sguardo e il gesto di indicazione prodotti dall’adulto come segnali diretti a sottolineare l’importanza di un oggetto o un evento.

Comunicazione non verbale prima dei 12 mesi

Prima dei 12 mesi di età i bambini partecipano attivamente agli scambi comunicativi, attraverso comportamenti che precedono la comparsa delle prime parole, quali l’utilizzo di gesti deittici e performativi. Questi gesti svolgono un’importante funzione pragmatica in quanto permettono ai bambini preverbali di comunicare intenzioni, di avviare episodi di attenzione congiunta, di regolare il comportamento del proprio interlocutore e di impegnarsi in interazioni sociali.

Inizialmente sono gesti deittici (point, give, show): dichiarativi (per mostrare e condividere un oggetto di interesse) o richiestivi (per richiedere un oggetto). Tra i 12 e i 18 mesi i gesti deittici lasciano il posto ai gesti referenziali (o rappresentativi), gesti non più riferiti a eventi/cose presenti nel contesto immediato. I gesti rappresentativi includono sia gesti convenzionali (ad esempio CIAO) sia gesti iconicamente collegati alle azioni abitualmente svolte dal bambino con il referente (ad esempio portare il pugno all’orecchio per telefono). L’enorme vantaggio offerto dai gesti rappresentativi è costituito dalla capacità di rappresentare anche oggetti ed eventi assenti. I gesti rappresentativi assolvono per il bambino la stessa funzione delle parole e vengono usati, così come le parole, per nominare, raccontare o chiedere qualcosa.

Autismo: come influisce sulla comunicazione

Se questa è l’importanza del gesto nei bambini con sviluppo tipico, lo scenario è totalmente diverso per quanto riguarda i bambini con disturbo dello spettro autistico. Per loro, comunicare tramite gesti o parole, rappresenta una vera e propria conquista. In base ai criteri diagnostici del DSM V il disturbo dello spettro autistico è caratterizzato da una diade sintomatologica: deficit socio-comunicativo e interessi ristretti e comportamenti ripetitivi. Rispetto al DSM IV le difficoltà o i ritardi di linguaggio non sono più considerati un criterio fondamentale nella diagnosi di autismo. Nonostante questa modifica strutturale, la comunicazione non verbale rimane una componente fondamentale. In particolare, i gesti sono importanti predittori delle competenze linguistiche future del bambino autistico. Anche se la diagnosi di autismo non viene solitamente formulata prima dei 3 anni, è stato evidenziato come l’assenza del pointing a 15-18 mesi sia predittiva della successiva comparsa del disturbo.

Disturbi dello spettro autistico: le atipie nella comunicazione

Inoltre, studi retrospettivi hanno documentato la presenza di atipie nella comunicazione non verbale tra i 12 e i 24 mesi: scarsa capacità di rispondere alle iniziative dell’altro e di attivarne l’attenzione verso un oggetto/evento, scarsa frequenza nell’uso di gesti e scarsa integrazione gesto-sguardo.

In particolar modo, un primo filone di studi ha sottolineato l’utilizzo dei gesti deittici unicamente con funzione richiestiva, in linea con le ricerche di Baron-Choen, S., Leslie, A., Frith, U. (1986) sulla teoria della mente. Un secondo filone di studi ha sottolineato una riduzione della frequenza dei gesti deittici sia in funzione richiestiva che dichiarativa. Per quanto riguarda i gesti rappresentativi, diversi studi hanno riscontrato una minor frequenza di gesti rappresentativi nei bambini autistici rispetto ai bambini con sviluppo tipico, facendo riferimento ad una mancanza di abilità di decontesualizzazione e astrazione. Tutto ciò ha importanti effetti a cascata sullo sviluppo comunicativo, cognitivo e linguistico ma anche sociale e relazionale. Per questo, esistono oggi strumenti diagnostici che dedicano ampie sezioni all’osservazione del comportamento gestuale. Ad esempio, l’ADOS 2 (C.Lord, M. Rutter, P. C. DiLavore, S. Risi, R. J. Luyster, K. Gotham, S. L. Bishop, W. Guthrie), progettato per suscitare comportamenti identificati come essenziali nella diagnosi di autismo, prevede, nell’80% delle prove, l’osservazione del comportamento gestuale e del modo in cui questo sia integrato con altre capacità verbali e comunicativo-sociali. Anche il questionario per il genitore ADI-R, chiede di valutare la presenza/assenza di comportamenti comunicativi non verbali.

 

Il potere della scrittura – Recensione del libro di James Pennebaker e intervista a Massimo Priviero

Il sociologo James Pennebaker nel libro Il potere della scrittura illustra l’enorme potere della scrittura espressiva (intesa come il dare espressione scritta dei propri pensieri ed emozioni rispetto a situazioni dolorose o traumatiche) nel garantire uno stato di benessere nell’individuo. È d’accordo Massimo Priviero, compositore e cantautore italiano, felicemente approdato dalle canzoni d’autore al libro Amore e rabbia, che nella scrittura di questo testo vive lui stesso i vantaggi della scrittura espressiva grazie ad un percorso di introspezione e di presa di coscienza di sé.

 

Qualcosa ci tormenta, un dubbio che non riusciamo a risolvere, un’esperienza che ci ha segnato, una delusione da cui non riusciamo a riprenderci. Come affrontarlo?

Per trovare una risposta abbiamo letto Il potere della scrittura. Come mettere nero su bianco le proprie emozioni per migliorare l’equilibrio psico-fisico, scritto del professor James Pennebaker, sociologo considerato il fondatore della scrittura espressiva e da Joshua Smith, professore di salute e comportamento, che ha effettuato numerose ricerca sull’argomento.

Gli autori ci spiegano come, per sua natura, la mente umana cerchi costantemente di comprendere il mondo che la circonda. Uno dei motivi per cui siamo ossessionati da una data esperienza negativa è proprio il costante tentativo di comprenderla. Un sistema efficace per trovare una risposta è parlarne, tradurlo in parole. Decidere di non parlarne, al contrario, significherà probabilmente continuare a pensarci con la conseguenza di avere meno energie mentali da impiegare altrimenti.

Ma perché confrontarsi su una situazione che ci angoscia aiuta ad elaborare la situazione stessa? Perché ci da la possibilità di venire a patti con quell’esperienza dandoci vantaggi quali consigli, attenzione da parte di chi viene coinvolto nella condivisione dei nostri pensieri, partecipazione nonché deroga di eventuali responsabilità. L’atto di parlare può modificare il modo in cui ci sentiamo e il nostro stesso pensiero riguardo ad eventi traumatici così come riguardo a noi stessi.

Il dubbio che possiamo incontrare è se sia giusto parlarne con qualcuno e divulgare così i pensieri e i sentimenti più profondi o, al contrario, se possa risultare nocivo far entrare altri nella sfera più privata della nostra vita.

La risposta che ci arriva dagli autori è che i pensieri importanti possono rivelarsi stressanti, gestirli in autonomia può influire sulla nostra salute, al contrario, confrontare i problemi con altre persone può risultare di grande aiuto.

A volte parlare con gli estranei può risultare più facile che aprirsi con degli amici perché non si ha il timore di essere giudicati in modo negativo e di compromettere il rapporto di stima esistente.

Anziché parlare si può decidere di scrivere.

Un foglio e una penna possono venire in nostro aiuto. È dimostrato come scrivere aiuti a fare chiarezza in noi. Tradurre i pensieri in parole richiede un processo di elaborazione che ci obbliga a razionalizzarli.

Il libro Il potere della scrittura si concentra sui benefici derivanti dalla scrittura espressiva e ci illustra molteplici esperimenti dai quali emerge come i gruppi coinvolti abbiano riscontrato una migliorata comprensione di se stessi e delle ripercussioni positive sul loro stato di salute generale.

La scrittura espressiva è una tecnica che consiste nell’impiegare da 15 a 20 minuti al giorno per 3 o 4 giorni scrivendo a proposito di un’esperienza traumatica. Il presupposto è che scrivendo più volte di un evento si possa realizzare un graduale cambio di prospettiva e si riesca a raggiungere un maggiore distacco dal problema stesso. Scrivere contribuisce a definire una linea temporanea e ad esaminare i possibili motivi ed effetti dell’evento.

Dagli esperimenti citati nel libro, è emerso come questo esercizio abbia migliorato la salute fisica e mentale dei partecipanti per settimane, mesi, a volte anche per anni ed è risultato molto più efficace che non scrivere di argomenti neutrali. In particolare, si è rilevato come la scrittura espressiva aiuti a comprendere e gestire i disordini emotivi e i risultati più consistenti sono stati ottenuti nel caso di problemi psicologici quali ansia, depressione, disturbi post-traumatici da stress.

Va detto anche che molto spesso i benefici della scrittura non sono immediati ma differiti nel tempo e che, anzi, lo sforzo di rivivere situazioni difficili ed elaborare sentimenti complessi dà luogo ad uno stato di tristezza e sofferenza che è però solo transitorio.

Dalle teorie alla pratica: intervista a Massimo Priviero

Abbiamo rivolto qualche domanda a Massimo Priviero, 30 anni di carriera artistica in cui la scrittura ha avuto un ruolo dominante, felicemente approdato dalle canzoni d’autore ad un libro, Amore e rabbia, il cui titolo è evocativo di questo percorso di introspezione e di presa di coscienza di sé.

Intervistatore (I): Massimo, partendo dalla tua esperienza di scrittura, dai testi delle tue canzoni al libro appena uscito, ritieni che scrivere un testo autobiografico abbia avuto per te un valore terapeutico?

Massimo Priviero (MP): Scrivere un libro e scrivere canzoni sono due cose del tutto diverse. Scrivere canzoni, testi e comporre sono attività che hanno una parte istintiva molto forte, cosa che a me piace molto tra l’altro. Scrivere un libro, intendo per esempio un romanzo o un saggio, prevede una quotidianità e pure una razionalità che certo non mi è mai stata molto propria. Ma se mi chiedi se il valore autobiografico di quel che uno scrive può diventare “terapeutico” certo che sì. Se chiami terapeutico qualcosa che parte dal “conosci meglio te stesso” certo che lo è. Tuttavia, non necessariamente questo tipo di percorso diventa salvifico. Aprire fino in fondo te stesso può anche essere un bel guaio in cui decidi di metterti, mi spiego? Ora, nel mio caso la musica e i testi delle canzoni che ho scritto e che scrivo hanno spesso per me diciamo un incanto immediato. Come se tu ad un certo punto ti aprissi senza alcuna remora e traducessi questa apertura magari in qualche minuto di una canzone che poi ti ritrovi a fissare. Poi, una volta che l’hai fatto, respiri forte e magari passi ad altro. È talvolta anche un atto in qualche modo “violento”, non so se mi spiego. Scrivere tot pagine ogni giorno è tutta un’altra cosa e probabilmente ti permette una quota di razionalità in quel che fai parecchio maggiore. Poi, se vuoi che ti dica che scrivere 360 pagine di Amore e Rabbia è stato anche un atto terapeutico chiaro che è stato così. Nel complesso è stata un’esperienza del tutto nuova per me. Complessivamente vissuta molto bene.

I: Nel tuo libro ci sono dei passaggi che raccontano esperienze di vita molto sofferte, dolorose, e cui non avevi mai accennato prima, come hai vissuto la scrittura di queste pagine?

MP: Con molta emozione. A volte anche con vera commozione ma poi divertendomi a fermare anche la parte leggera della mia esistenza. Si sorride e si piange, si prova a vivere fino in fondo. Questo è sempre stato il mio destino e quel che ritenevo fosse giusto per me. Scrivere anche di passaggi molto dolorosi, talvolta drammatici, fa semplicemente parte della vita di un uomo. È un destino che ti si srotola davanti e che cerchi di assecondare al meglio. Dipende da te per tante cose. La fortuna non esiste. La fortuna riguarda chi gioca numeri al lotto. Ci sono situazioni, occasioni, condizioni, scelte e c’è un habitat col quale puoi avere un rapporto ostile e che magari ti condiziona. E ci sono prima di tutto le tue scelte. Ma è un discorso lungo. Tornando al libro, questo ha dentro molti ribaltamenti emotivi se così puoi chiamarli ed era giusto che così fosse. Aggiungi che le scelte che ho fatto nella mia vita spesso non prevedevano vie di fuga né piani B. Ho vissuto per quel che davvero contava per me, la mia finestra era aperta e dunque entrava qualunque tipo di vento, quel che soffiava a favore e quello che soffiava contrario.

I: Spesso ricevi messaggi di persone che si riconoscono in quello che scrivi e ti confidano episodi della loro vita, perché pensi che possa risultare più facile scrivere dei nostri sentimenti più profondi piuttosto che parlarne, anche con le persone che ci sono più vicine?

MP: Non penso che sia più facile. Anzi, spesso penso che sia un modo per non guardarsi fino in fondo negli occhi. Come sai non amo leggere per esempio lunghe mail che provano a comunicare uno stato d’animo anche se mi rendo conto che ognuno di noi si sceglie la modalità che sente più sua per comunicare dei pensieri o dei sentimenti. Poi, se mi dici di tanta gente che mi scrive raccontandomi frammenti di un’esistenza che magari una mia canzone ha acceso un poco di più non posso che essere onorato di questa cosa. E spero sempre di essere all’altezza di chi decide di avvicinarsi a me un po’ di più. In fondo, questo accade perché io stesso sono molto quello che scrivo, suono e canto. Ecco, magari questo si avverte in modo particolare. C’è poco filtro nelle mie canzoni e pure, parlando di oggi, c’è n’è poco anche in Amore e Rabbia. In fondo poi, quel che desidero più di ogni altra cosa è che chi si avvicina a quel che faccio si prenda quel che pensa possa servirgli anche solo per un attimo. Questa idea spesso mi rende felice e dà un senso maggiore a tutto.

I: Come vivi l’idea che persone sconosciute entrino in una sfera così intima della tua vita?

MP: Come un regalo. Non temo questa eventualità ed anzi è il processo che riguarda qualunque persona che mette a disposizione del mondo la propria creatività o la propria arte, chiamala come preferisci. La mia vita è questo. Se come ti dicevo io stesso sono soprattutto quel che scrivo, suono e canto è naturale e giusto che questo avvenga. Sono forte e sono fragile. Tanto io quanto loro.

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