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Il potere della scrittura – Recensione del libro di James Pennebaker e intervista a Massimo Priviero

Il sociologo James Pennebaker nel libro Il potere della scrittura illustra l’enorme potere della scrittura espressiva (intesa come il dare espressione scritta dei propri pensieri ed emozioni rispetto a situazioni dolorose o traumatiche) nel garantire uno stato di benessere nell’individuo. È d’accordo Massimo Priviero, compositore e cantautore italiano, felicemente approdato dalle canzoni d’autore al libro Amore e rabbia, che nella scrittura di questo testo vive lui stesso i vantaggi della scrittura espressiva grazie ad un percorso di introspezione e di presa di coscienza di sé.

 

Qualcosa ci tormenta, un dubbio che non riusciamo a risolvere, un’esperienza che ci ha segnato, una delusione da cui non riusciamo a riprenderci. Come affrontarlo?

Per trovare una risposta abbiamo letto Il potere della scrittura. Come mettere nero su bianco le proprie emozioni per migliorare l’equilibrio psico-fisico, scritto del professor James Pennebaker, sociologo considerato il fondatore della scrittura espressiva e da Joshua Smith, professore di salute e comportamento, che ha effettuato numerose ricerca sull’argomento.

Gli autori ci spiegano come, per sua natura, la mente umana cerchi costantemente di comprendere il mondo che la circonda. Uno dei motivi per cui siamo ossessionati da una data esperienza negativa è proprio il costante tentativo di comprenderla. Un sistema efficace per trovare una risposta è parlarne, tradurlo in parole. Decidere di non parlarne, al contrario, significherà probabilmente continuare a pensarci con la conseguenza di avere meno energie mentali da impiegare altrimenti.

Ma perché confrontarsi su una situazione che ci angoscia aiuta ad elaborare la situazione stessa? Perché ci da la possibilità di venire a patti con quell’esperienza dandoci vantaggi quali consigli, attenzione da parte di chi viene coinvolto nella condivisione dei nostri pensieri, partecipazione nonché deroga di eventuali responsabilità. L’atto di parlare può modificare il modo in cui ci sentiamo e il nostro stesso pensiero riguardo ad eventi traumatici così come riguardo a noi stessi.

Il dubbio che possiamo incontrare è se sia giusto parlarne con qualcuno e divulgare così i pensieri e i sentimenti più profondi o, al contrario, se possa risultare nocivo far entrare altri nella sfera più privata della nostra vita.

La risposta che ci arriva dagli autori è che i pensieri importanti possono rivelarsi stressanti, gestirli in autonomia può influire sulla nostra salute, al contrario, confrontare i problemi con altre persone può risultare di grande aiuto.

A volte parlare con gli estranei può risultare più facile che aprirsi con degli amici perché non si ha il timore di essere giudicati in modo negativo e di compromettere il rapporto di stima esistente.

Anziché parlare si può decidere di scrivere.

Un foglio e una penna possono venire in nostro aiuto. È dimostrato come scrivere aiuti a fare chiarezza in noi. Tradurre i pensieri in parole richiede un processo di elaborazione che ci obbliga a razionalizzarli.

Il libro Il potere della scrittura si concentra sui benefici derivanti dalla scrittura espressiva e ci illustra molteplici esperimenti dai quali emerge come i gruppi coinvolti abbiano riscontrato una migliorata comprensione di se stessi e delle ripercussioni positive sul loro stato di salute generale.

La scrittura espressiva è una tecnica che consiste nell’impiegare da 15 a 20 minuti al giorno per 3 o 4 giorni scrivendo a proposito di un’esperienza traumatica. Il presupposto è che scrivendo più volte di un evento si possa realizzare un graduale cambio di prospettiva e si riesca a raggiungere un maggiore distacco dal problema stesso. Scrivere contribuisce a definire una linea temporanea e ad esaminare i possibili motivi ed effetti dell’evento.

Dagli esperimenti citati nel libro, è emerso come questo esercizio abbia migliorato la salute fisica e mentale dei partecipanti per settimane, mesi, a volte anche per anni ed è risultato molto più efficace che non scrivere di argomenti neutrali. In particolare, si è rilevato come la scrittura espressiva aiuti a comprendere e gestire i disordini emotivi e i risultati più consistenti sono stati ottenuti nel caso di problemi psicologici quali ansia, depressione, disturbi post-traumatici da stress.

Va detto anche che molto spesso i benefici della scrittura non sono immediati ma differiti nel tempo e che, anzi, lo sforzo di rivivere situazioni difficili ed elaborare sentimenti complessi dà luogo ad uno stato di tristezza e sofferenza che è però solo transitorio.

Dalle teorie alla pratica: intervista a Massimo Priviero

Abbiamo rivolto qualche domanda a Massimo Priviero, 30 anni di carriera artistica in cui la scrittura ha avuto un ruolo dominante, felicemente approdato dalle canzoni d’autore ad un libro, Amore e rabbia, il cui titolo è evocativo di questo percorso di introspezione e di presa di coscienza di sé.

Intervistatore (I): Massimo, partendo dalla tua esperienza di scrittura, dai testi delle tue canzoni al libro appena uscito, ritieni che scrivere un testo autobiografico abbia avuto per te un valore terapeutico?

Massimo Priviero (MP): Scrivere un libro e scrivere canzoni sono due cose del tutto diverse. Scrivere canzoni, testi e comporre sono attività che hanno una parte istintiva molto forte, cosa che a me piace molto tra l’altro. Scrivere un libro, intendo per esempio un romanzo o un saggio, prevede una quotidianità e pure una razionalità che certo non mi è mai stata molto propria. Ma se mi chiedi se il valore autobiografico di quel che uno scrive può diventare “terapeutico” certo che sì. Se chiami terapeutico qualcosa che parte dal “conosci meglio te stesso” certo che lo è. Tuttavia, non necessariamente questo tipo di percorso diventa salvifico. Aprire fino in fondo te stesso può anche essere un bel guaio in cui decidi di metterti, mi spiego? Ora, nel mio caso la musica e i testi delle canzoni che ho scritto e che scrivo hanno spesso per me diciamo un incanto immediato. Come se tu ad un certo punto ti aprissi senza alcuna remora e traducessi questa apertura magari in qualche minuto di una canzone che poi ti ritrovi a fissare. Poi, una volta che l’hai fatto, respiri forte e magari passi ad altro. È talvolta anche un atto in qualche modo “violento”, non so se mi spiego. Scrivere tot pagine ogni giorno è tutta un’altra cosa e probabilmente ti permette una quota di razionalità in quel che fai parecchio maggiore. Poi, se vuoi che ti dica che scrivere 360 pagine di Amore e Rabbia è stato anche un atto terapeutico chiaro che è stato così. Nel complesso è stata un’esperienza del tutto nuova per me. Complessivamente vissuta molto bene.

I: Nel tuo libro ci sono dei passaggi che raccontano esperienze di vita molto sofferte, dolorose, e cui non avevi mai accennato prima, come hai vissuto la scrittura di queste pagine?

MP: Con molta emozione. A volte anche con vera commozione ma poi divertendomi a fermare anche la parte leggera della mia esistenza. Si sorride e si piange, si prova a vivere fino in fondo. Questo è sempre stato il mio destino e quel che ritenevo fosse giusto per me. Scrivere anche di passaggi molto dolorosi, talvolta drammatici, fa semplicemente parte della vita di un uomo. È un destino che ti si srotola davanti e che cerchi di assecondare al meglio. Dipende da te per tante cose. La fortuna non esiste. La fortuna riguarda chi gioca numeri al lotto. Ci sono situazioni, occasioni, condizioni, scelte e c’è un habitat col quale puoi avere un rapporto ostile e che magari ti condiziona. E ci sono prima di tutto le tue scelte. Ma è un discorso lungo. Tornando al libro, questo ha dentro molti ribaltamenti emotivi se così puoi chiamarli ed era giusto che così fosse. Aggiungi che le scelte che ho fatto nella mia vita spesso non prevedevano vie di fuga né piani B. Ho vissuto per quel che davvero contava per me, la mia finestra era aperta e dunque entrava qualunque tipo di vento, quel che soffiava a favore e quello che soffiava contrario.

I: Spesso ricevi messaggi di persone che si riconoscono in quello che scrivi e ti confidano episodi della loro vita, perché pensi che possa risultare più facile scrivere dei nostri sentimenti più profondi piuttosto che parlarne, anche con le persone che ci sono più vicine?

MP: Non penso che sia più facile. Anzi, spesso penso che sia un modo per non guardarsi fino in fondo negli occhi. Come sai non amo leggere per esempio lunghe mail che provano a comunicare uno stato d’animo anche se mi rendo conto che ognuno di noi si sceglie la modalità che sente più sua per comunicare dei pensieri o dei sentimenti. Poi, se mi dici di tanta gente che mi scrive raccontandomi frammenti di un’esistenza che magari una mia canzone ha acceso un poco di più non posso che essere onorato di questa cosa. E spero sempre di essere all’altezza di chi decide di avvicinarsi a me un po’ di più. In fondo, questo accade perché io stesso sono molto quello che scrivo, suono e canto. Ecco, magari questo si avverte in modo particolare. C’è poco filtro nelle mie canzoni e pure, parlando di oggi, c’è n’è poco anche in Amore e Rabbia. In fondo poi, quel che desidero più di ogni altra cosa è che chi si avvicina a quel che faccio si prenda quel che pensa possa servirgli anche solo per un attimo. Questa idea spesso mi rende felice e dà un senso maggiore a tutto.

I: Come vivi l’idea che persone sconosciute entrino in una sfera così intima della tua vita?

MP: Come un regalo. Non temo questa eventualità ed anzi è il processo che riguarda qualunque persona che mette a disposizione del mondo la propria creatività o la propria arte, chiamala come preferisci. La mia vita è questo. Se come ti dicevo io stesso sono soprattutto quel che scrivo, suono e canto è naturale e giusto che questo avvenga. Sono forte e sono fragile. Tanto io quanto loro.

L’Io criminale. La psichiatria forense nella prospettiva psicoanalitica (2018) a cura di M. De Mari – Recensione del libro

Alla fine del medioevo la lebbra sparisce dall’Europa. Si lascia alle spalle un capillare e ubiquitario sistema di accoglienza e assistenza che comunità laiche e religiose avevano faticosamente realizzato nel corso dei secoli.

 

Foucault ha genialmente dimostrato come nel XVI questo apparato si volga ad una nuova funzione. Costituisce il germe di un sistema di controllo e correzione dei devianti, che potrà assumere le forme delle workhouses (case di lavoro) o degli Hôpitaux Généraux (generici ospizi/ospedali).

Il grande sistema di internamento e correzione che con vari nomi si diffonde in tutta l’Europa occidentale all’inizio dell’età moderna accoglie senza particolari distinzioni ogni forma di devianti: folli, perversi, giocatori d’azzardo, accattoni, prostitute.

L’Io criminale. La psichiatria da Pinel a Basaglia

Negli anni della rivoluzione francese la psichiatria moderna nasce tramite un’operazione di delimitazione. Philippe Pinel seleziona all’interno dell’indefinito universo correzionale i pazienti portatori di uno specifico disturbo della mente. La psichiatria in quanto branca della medicina sceglie di dedicarsi al trattamento di questa sottopopolazione, rifiutando definitivamente di occuparsi della generica devianza sociale. Inizia così un processo che in qualche modo si compirà solo negli anni ‘70 con la riforma di Basaglia, quando rinnegando l’istituzione manicomiale la psichiatria si installerà negli ospedali generali, cuore del pensiero e della prassi medica.

Le varie famiglie ideologiche della psichiatria, l’ala sociale e a modo suo rivoluzionaria, la neurobiologia farmacologica, gli psicoanalisti con e senza divano trovarono così un generale consenso rispetto all’oggetto specifico della loro disciplina. In questo contesto il disturbo mentale veniva contrapposto sia al disturbo del comportamento su base organica o tossica sia ai comportamenti antisociali più o meno associati al consumo di sostanze.

Oggi tutto questo appartiene al passato. La famiglia, le istituzioni, i media non hanno mai gradito fino in fondo questa neutralità dei medici psichiatri rispetto al puro fatto comportamentale. Ma è stato il sistema giudiziario e la cultura criminologica e giuridica ad esso associata ad esercitare un’azione decisiva.

L’Io criminale: il contributo della psicanalisi in ambito peniteniziario oggi

L’evoluzione legislativa ha agitato slogan libertari e ha fatto della chiusura degli OPG il proprio fiore all’occhiello. Ma la prassi e la nuova realtà istituzionale sono sotto gli occhi di tutti. Oggi la legge chiede allo psichiatra di occuparsi a tutto tondo di pazienti autori di reato. Alle comunità psichiatriche sul territorio viene chiesto di accogliere pazienti sulla base di provvedimenti giuridici, emessi in forza di criteri di pericolosità sociale, indipendentemente da valutazioni clinico-terapeutiche.

La psichiatria è cambiata. La società ci chiede di intervenire, controllare, agevolare e supportare le decisioni dell’apparato giudiziario. Confesso che come psicoanalista ho accolto queste trasformazioni con grande perplessità. Che spazio ha la psicoanalisi in questo nuovo contesto? Che contributo potrà dare il clinico strappato coattivamente alla sua posizione di neutralità e calato in questo contesto punitivo o tutt’al più rieducativo?

 Freud (1906) sottolineava le distanze tra pensiero psicoanalitico e pensiero giuridico, soprattutto rispetto alla concezione della colpa, ma in Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico (1916) ipotizzava che la psicoanalisi potesse chiarire le motivazioni di alcuni comportamenti antigiuridici. Oggi non possiamo che porci una lunga serie di domande. Può lo psicoanalista dirsi neutrale rispetto ai reati contro la persona? La spiegazione genetica di un comportamento criminale può risolvere la responsabilità personale in termini di una mera catena eziologica? La personalità psicopatica può essere oggetto di un trattamento psicoanalitico? E, se sì, la cura può sostituire tout court l’espiazione della pena per i reati compiuti? E’ chiaro che questi interrogativi implicano un profondo ripensamento del contributo della psicoanalisi alla società contemporanea. Il lavoro teorico che ci attende appare estremamente impegnativo.

L’io criminale: il contributo del testo curato da De Mari

In questa situazione di disagio, direi quasi smarrimento personale, ho scoperto con grande piacere lo sforzo di Massimo De Mari. In L’io criminale lo psicoanalista padovano ha raccolto numerosi contributi di clinici italiani e stranieri impegnati a confrontarsi nel lavoro quotidiano con pazienti autori di reato. De Mari manifesta un certo ottimismo. Sostiene che:

Mano a mano che procede la conoscenza di queste dinamiche interne, queste personalità fortemente disturbate perdono la maschera di “mostri da prima pagina” capaci di comportamenti violenti, anche efferati, per ridiventare persone con una storia complessa, molto spesso caratterizzata da mancanze affettive, privazioni, violenza subita in epoca molto precoce dello sviluppo psico-affettivo, la cui paziente decifrazione può permettere di far emergere i motivi, spesso sconosciuti agli stessi autori di questi reati.

Franco De Masi ci offre un contributo estremamente originale. Sulla base di un caso clinico esemplare propone una interpretazione teorica originale dei comportamenti perversi. Dal suo punto di vista

l’attacco distruttivo si accompagna a una speciale forma di piacere, che rende il male preferibile e più potente del bene. … il male conduce a una forma di orgasmo mentale che consente di agire al di fuori di ogni consapevolezza e responsabilità.

Alfredo Verde ci aggiorna sulla criminologia narratologica, branca degli studi psicosociali, che sta raccogliendo ampi consensi in ambito anglosassone e che guarda con grande interesse ai potenziali contributi della psicoanalisi.

Nella seconda parte del volume De Mari dà spazio ad ampi resoconti clinici in una prospettiva internazionale. Carine Minne e Alaine Gibeault (Francia), Samrat Semgupta (Regno Unito) propongono ampi casi clinici in cui il trattamento di alcuni detenuti è stato associato ad interventi individuali più o meno strutturati, che hanno consentito di ricostruire la dinamica di gravi delitti e forse, di agevolare il processo rieducativo.

In conclusione il bel volume di Massimo De Mari raccoglie un’ampia sintesi dei contributi teorici e clinici, per la verità ancora poco sistematici, che la psicoanalisi ha offerto alla criminologia. Rispetto ai complessi interrogativi che abbiamo posto poc’anzi, il lettore non potrà certo attendersi risposte definitive, ma troverà ricchi stimoli per proseguire la propria faticosa ricerca personale.

Pornografia e soddisfazione sessuale maschile

Come influisce la pornografia e l’utilizzo di materiale pornografico sulla soddisfazione sessuale? Esiste una differenza tra uomini e donne? E ancora, l’uso di materiale pornografico ha effetti anche sulla soddisfazione relazionale?

 

L’utilizzo della pornografia è un’attività che ha accompagnato la storia dell’uomo dai suoi albori, evolvendosi al passo con il progresso tecnologico tanto da diventare oggetto di numerose ricerche, volte a comprendere gli effetti che la fruizione di materiale pornografico possa avere sulle nostre relazioni interpersonali ed in particolare su quelle di natura sessuale.

Una recente metanalisi di Wright, Tokunaga, Kraus & Klan (2017) ha confermato l’esistenza di una correlazione media negativa, sebbene minima, tra la l’utilizzo di materiale pornografico e la soddisfazione sessuale; similmente è stata riscontrata una correlazione negativa tra l’utilizzo della pornografia e la soddisfazione relazionale, sebbene entrambi questi valori risultino mediati dal genere con un effetto riscontrabile prevalentemente nella popolazione maschile.

Una discrepanza tra le aspettative ispirate dalle distorsioni della fiction pornografica e la realtà si porrebbe in questo senso come precursore di una minore soddisfazione, secondo un’ipotesi avanzata dai ricercatori. Alternativamente, un utilizzo maggiore di pornografia, che si presenta associato ad un maggior ricorso all’attività masturbatoria (a prescindere dalla direzionalità che si voglia attribuire a questo effetto), potrebbe avere come conseguenza una minore attrazione sessuale per il partner.

Un nuovo studio

Miller, McBain, Li & Raggat, della James Cook University hanno condotto uno studio con l’obiettivo di ampliare i risultati preliminari della metanalisi di Wright, Tokunaga, et Al. (2017) indagando le due possibili ipotesi che sono state avanzate per spiegare il fenomeno osservato.

Lo studio ha visto coinvolti in due sessioni differenti un totale di 661 uomini eterosessuali, che hanno partecipato ad una survey online autosomministrata. In linea con le ricerche precedenti, Miller et Al. (2019) hanno potuto confermare che ad una maggior quantità di pornografia ricercata, corrispondesse una minore soddisfazione sessuale. Contrariamente a quanto previsto sulla base della letteratura, non è stata riscontrata alcuna correlazione tra l’uso di materiale pornografico e la soddisfazione di coppia.

Anche se un’effettiva correlazione positiva tra uso di pornografia e predilezione per le pratiche in essa rappresentate è stata confermata, non ha trovato fondamento l’idea che questo potesse comportare una minore soddisfazione sessuale tanto quanto relazionale; al contrario, i partecipanti ad un secondo studio di Miller (Miller, Hald & Kidd, 2018) attribuivano alla pornografia un effetto positivo su tutti i campi esplorati dalla loro indagine (tra cui vita sessuale, atteggiamento verso il sesso, conoscenza sessuale). Di contro, il ricorrere maggiormente alla masturbazione è emerso in associazione ad una minore soddisfazione sessuale (ma non relazionale).

Rimane importante ricordare che una correlazione non dice nulla sulla direzionalità dell’effetto, risultando quindi plausibile pensare che una minor soddisfazione nella sfera sessuale possa aver indotto un maggior ricorso al materiale pornografico, tanto quanto presumere il suo esatto opposto.

Un’ultima considerazione, come possibile limite allo studio e allo stesso tempo come possibile tema di indagine futura, è il contesto in cui avveniva la fruizione del materiale pornografico. Studi recenti, come quello di Maddox, Rhoades & Markman (2011), riportano una sostanziale differenza tra l’effetto sulla coppia dell’utilizzo del materiale pornografico condiviso che non sembrerebbe altrettanto negativa come la fruizione individuale.

4th International Conference of Metacognitive Therapy – MCT: where are we now? La keynote del prof. Adrian Wells sullo stato dell’arte della Terapia Metacognitiva

Nel corso del 4th International Conference of Metacognitive Therapy, Adrian Wells, fondatore della Terapia Metacognitiva, introduce il suo intervento sottolineando gli attuali limiti della terapia cognitivo comportamentale: nonostante risulti il trattamento di elezione per molti disturbi, la letteratura afferma che solo il 50% dei pazienti riporta risultati significativi.

 

I tassi di ricaduta sono tendenzialmente piuttosto alti e i dati di efficacia sulla depressione mostrano un trend decrescente dal 1977 al 2014. Il motivo di questa perdita di efficacia va forse rintracciata a livello culturale: negli anni ‘70 la terapia cognitivo comportamentale (TCC) costituiva un approccio innovativo e basato sulla ricerca, probabilmente accolta con fiducia da clinici e pazienti. Ma se riflettiamo in modo più critico sugli sviluppi della TCC è inevitabile per Adrian Wells considerare l’eclettismo che si percepisce nel panorama attuale, dove la tendenza dei clinici può essere quella di utilizzare diverse tecniche, provenienti da matrici teoriche molto diverse tra loro, che si collocano all’interno di una prospettiva che non è veramente condivisa.

Il prof. Adrian Wells sottolinea l’importanza di tornare a un modo più rigoroso di fare scienza, analizzando quali meccanismi mantengono la psicopatologia e validando il modello del disturbo, prima di ipotizzare e testare processi di cambiamento: tutti hanno pensieri negativi, ma non tutti sviluppano un disturbo, occorre quindi capire cosa determina il passaggio dal pensiero negativo al disturbo.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Adrian Wells e lo stato dell arte della MCT - Report dal Congresso di Praga IMM 1Imm. 1 – Foto dal 4th International Conference of Metacognitive Therapy

 

Adrian Wells e lo stato dell arte della MCT - Report dal Congresso di Praga IMM 2Imm. 2 – Foto dal 4th International Conference of Metacognitive Therapy

 

Adrian Wells e lo stato dell arte della MCT - Report dal Congresso di Praga IMM 3Imm. 3 – Foto dal 4th International Conference of Metacognitive Therapy

 

Adrian Wells e lo stato dell arte della MCT - Report dal Congresso di Praga IMM 4Imm. 4 – Foto dal 4th International Conference of Metacognitive Therapy

 

Il modello della terapia metacognitiva

Il modello della terapia metacognitiva offre una spiegazione, identificando quali cognizioni (o meglio, metacognizioni) determinano il disturbo. Il modello metacognitivo concettualizza il sintomo come risultato di uno stile cognitivo ripetitivo (rimuginio, ruminazione, monitoraggio della minaccia) e comportamenti di coping paradossali che rendono il pensiero perseverante anziché interromperlo. I presupposti del modello si basano su conclusioni di studi condotti a partire dagli anni ‘90: la ruminazione incrementa outcomes negativi (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991), il rimuginio cristallizza i pensieri intrusivi (Wells & Papageorgiou, 1995), rivolgere l’attenzione su di sé aumenta l’ansia (Ingram, 1990), le differenze individuali nelle strategie metacognitive predicono l’insorgenza di un disturbo (Holeva, Tarrier & Wells, 2001), la Sindrome Cognitivo Attentiva è trasversale a differenti diagnosi (Fergus et al., 2013). Questi sono solo alcuni degli studi pubblicati in favore della validità del modello, molti altri non sono citati qui e i più recenti sono stati presentati in questo congresso.

Adrian Wells, il trattamento metacognitivo e la Detached Mindfulness

Il trattamento metacognitivo si focalizza su processi di causalità dimostrati dalla ricerca, utilizzando tecniche che agiscono su elementi del sistema metacognitivo. Una di queste è la Detached Mindfulness (DM), definita come uno stato di consapevolezza in cui i soggetti osservano i propri pensieri senza far seguire alcun processo cognitivo o strategia di coping (Wells, 2005) Diversi studi hanno mostrato la sua efficacia anche in confronto a altre tecniche, come l’esposizione o la ristrutturazione cognitiva per pazienti con fobia sociale. Gli stessi risultati sono stati rilevati inoltre per il disturbo ossessivo compulsivo, dove il passaggio da una prospettiva che discute i contenuti al lavoro sui processi mostra importanti implicazioni nel trattamento. Una recente review della letteratura (Normann & Morina, 2018) analizza 25 studi relativi all’applicazione del modello MCT a depressione, disturbo d’ansia generalizzato, PTSD e altro, mostrando l’efficacia dell’MCT rispetto ai controlli in waiting list e ai trattamenti cognitivo comportamentali.

Si tratta della prima volta che un approccio si mostra più efficace della terapia cognitivo comportamentale e i progressi effettuati – afferma Adrian Wells – sono stati possibili attraverso l’utilizzo di una metodologia rigorosa, in una cornice teorica precisa, che non permette la possibilità di integrazioni. Attualmente l’ approccio metacognitivo viene applicato nell’ambito delle psicosi, nel disturbo borderline di personalità, nel PTSD-complex, nei disturbi legati a patologie organiche, nelle dipendenze, in percorsi di prevenzione e recovery. Il modello tuttavia non è ancora completo, ad esempio non è del tutto chiaro come quali siano le componenti neurofisiologiche coinvolte nei processi metacognitivi o come normalmente gli individui si spostino da un livello metacognitivo alla percezione di non avere controllo sul proprio funzionamento cognitivo.

Per questo motivo assisteremo presto a un nuovo sviluppo, che tiene conto delle più recenti scoperte e che modifica il paradigma entro cui l’MCT si è finora sviluppata. Stay tuned!

Bambini ad alto potenziale (2018) di Roberta Renati e Steven Pfeiffer – Recensione del libro

Un quoziente intellettivo sopra la norma è l’unica condizione per definire l’alto potenziale cognitivo o esistono altri fattori? Nel libro Bambini ad alto potenziale si affronta il delicato tema, poco studiato nel nostro paese, della plusdotazione e viene presentato il progetto Sostenere i talenti per prevenire il disagio scolastico e sociale, la prima ricerca in ambito italiano dedicata a questi bambini.

 

Bambini ad alto potenziale: i pregiudizi nei loro confronti

Alto potenziale cognitivo, bambini gifted, plusdotazione intellettiva: tanti modi diversi per riferirsi a quei bambini che mostrano un’ intelligenza, declinabile nelle sue varie accezioni, sopra la media. Le ricerche condotte sul tema sono di fondamentale importanza, da un lato perché aiutano a capire meglio il complicato e delicato mondo della plusdotazione dall’altro perché il tema comporta un impatto a livello culturale, considerando che le giovani generazioni di oggi definiranno il mondo di domani.

É vero che gli studenti ad alto potenziale non hanno bisogno di supporto a scuola? E che presentano delle buone competenze emotive e sociali, provengono da famiglie stimolanti e sono perlopiù maschi? Esistono molti preconcetti, molte volte erronei, riguardanti la plusdotazione. Il libro Bambini ad alto potenziale accompagna il lettore in un percorso di conoscenza tanto generale quanto preciso sul tema dei bambini gifted, tematica che necessita di una sensibilizzazione chiara e forte sopratutto nel panorama italiano nel quale quest’ambito di ricerca appare relativamente nuovo e poco esplorato.

Bambini ad alto potenziale: struttura e contenuti del libro

Il libro è strutturato in 7 capitoli, con la prefazione di Steven Pfeiffer, uno dei massimi studiosi di plusdotazione ed offre una panorama sul tema dell’alto potenziale presentando in parallelo il progetto compiuto sul territorio milanese tra il 2016 e il 2017 da parte del centro Phronesis con il sostegno di diversi enti.

Come si identifica la plusdotazione?

Qualcuno potrebbe pensare semplicemente guardando il livello intellettivo; tuttavia il libro offre nuove vedute, presentando i diversi modelli teorici elaborati. In linea generale nel corso dei diversi anni si è abbandonato il concetto statico che identificava l’alto potenziale con il livello intellettivo (QI tot. >130) per indirizzarsi verso una direzione processuale che vede concorrere diversi fattori psicologi e sociali nonché genetici, il tutto inserito in un ambiente supportivo. Questo concetto di alto potenziale fa emergere anche altri aspetti relativi alla tematica, ad esempio l’eterogeneità tra i diversi soggetti: si identificano infatti diversi profili di plusdotazione ognuno diverso e con traiettorie di sviluppo diverse in cui l’espressione di questa intelligenza può manifestarsi in diversi ambiti (“schoolhouse giftedness” ovvero performance eccellenti in ambito scolastico VS “creative-productive giftedness” ossia una creatività spiccata in un determinato ambito).

In un quadro così complesso appare chiara la necessità di identificare precocemente i bambini gifted per due ragioni principali. La prima chiama in causa i rischi connessi alla mancata identificazione di talenti eccezionali, uno fra tutti il fenomeno dell’underachievement che si verifica quando si assiste a una discrepanza molto forte tra le potenzialità del bambino plusdotato e la performance scolastica che risulta ben al di sotto delle sue capacità. La seconda ragione che giustifica l’importanza dell’identificazione precoce riguarda l’asincronia dello sviluppo che questi bambini vivono. Alcune volte può capitare che le competenze emotive e relazionali di questi bambini appaiono ancora immature, il che porta a difficoltà di gestione emotiva a fronte invece di competenze cognitive nettamente superiori alle media che portano a interessi diversi rispetto ai pari comportando sentimenti di solitudine e isolamento sociale. All’interno di queste prospettive molto complesse, determinate da diversi fattori, l’identificazione precoce dell’alto potenziale appare un elemento protettivo.

Bambini ad alto potenziale: il progetto a loro dedicato

Considerati tutti questi aspetti appare chiaro quanto il progetto Sostenere i talenti rappresenti un contributo importante. Il proseguo del libro esplicita tutte le diversi fasi del progetto che ha avuto lo scopo di identificare e sostenere i bambini ad alto potenziale coinvolgendo e creando una rete costituita dal bambino e dal suo ambiente familiare e scolastico.

Preliminare a qualsiasi azione è stata una valutazione definita orizzontale ovvero un riconoscimento del potenziale in un’ottica dinamica e processuale, il che si è tradotto in un approfondimento a livello socio-emotivo. Qui il ruolo della famiglia è risultato fondamentale in quanto ha permesso un’indagine approfondita a livello anamnestico, familiare, sociale e comportamentale. A questo si è poi aggiunta la valutazione verticale con lo scopo di identificare le caratteristiche peculiari del profilo cognitivo di ogni partecipante.

Le attività di intervento previste dal progetto volgevano verso due direzioni: da un lato un supporto dedicato al singolo, alla famiglia e alla scuola e dall’altro la messa in atto di laboratori educativi per i bambini e genitori da parte dell’Associazione Step-net, Onlus di famiglie nata con lo scopo di sostenere il benessere dei bambini gifted e dei loro familiari.

In conclusione Bambini ad alto potenziale propone diversi punti di vista sulla plusdotazione, introducendo alla tematica chi non ne aveva mai sentito parlare e suggerendo un progetto d’intervento che consideri il bambino all’interno dei suoi ambienti di vita più significativi, non limitandosi all’identificazione del livello cognitivo straordinario ma considerando anche gli aspetti emotivi e sociali nell’ottica di un benessere complessivo.

 

Psicologia della violenza: quando la vittima è un operatore sanitario

A livello concettuale, il termine violenza designa tutte quelle condotte finalizzate a danneggiare l’alterità, sia fisicamente che psicologicamente. La violenza, a livello fenomenologico, può estrinsecarsi in differenti morfologie, ovvero sotto forma di insulti, minacce, abusi, molestie, intimidazioni e aggressioni fisiche (Valetto e Cappabianca, 2018).

 

A livello concettuale, il termine violenza designa tutte quelle condotte finalizzate a danneggiare l’alterità, sia fisicamente che psicologicamente.

La violenza, a livello fenomenologico, può estrinsecarsi in differenti morfologie, ovvero sotto forma di insulti, minacce, abusi, molestie, intimidazioni e aggressioni fisiche. Una valenza concettuale ed emotiva specifica ha la violenza che un lavoratore subisce sul posto di lavoro. Relativamente a ciò, una sfaccettatura particolare assume la violenza che gli operatori sanitari subiscono nel contesto lavorativo. Essa è molto diffusa ed è elicitata da una serie di condizioni, fra le quali risaltano la scarsa comunicazione fra operatori e utenti e i lunghi tempi di attesa. Le conseguenze della violenza sono molteplici e sembrano inficiare la relazionalità dell’operatore sanitario con il lavoro e con l’alterità.

Keywords: violenza, operatori sanitari, vittima, aggressore.

La violenza sul luogo di lavoro

Una valenza concettuale ed emotiva specifica ha la violenza che un lavoratore subisce sul posto di lavoro. Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (2002), la violenza sul luogo di lavoro può essere intesa come

incidenti in cui i lavoratori sono abusati, minacciati o aggrediti in situazioni correlate al lavoro […] e che comportano un rischio implicito o esplicito per la loro sicurezza, benessere o salute.

Relativamente a ciò, una sfaccettatura particolare assume la violenza che gli operatori sanitari subiscono nel contesto lavorativo. In base alle indicazioni del Ministero della Salute (2012), autori di questi agiti violenti possono essere differenti attori sociali. Infatti, la violenza può essere esercitata da un individuo completamente estraneo al contesto lavorativo, come avviene in una rapina; oppure può essere praticata da un paziente che usufruisce delle prestazioni terapeutiche erogate dalla struttura sanitaria; o, ancora, può essere perpetrata da un lavoratore nei confronti di un collega.

Dal punto di vista epidemiologico, il fenomeno della violenza sugli operatori sanitari assume proporzioni macroscopiche: infatti, stando alle stime dell’OMS (2002), il 50% degli operatori ha subito almeno un atto di violenza sul luogo di lavoro. Fra di essi, gli infermieri sono quelli più colpiti e fra i medici, a parere di una ricerca del 2018 (ANAOO – Assomed, 2018), ci sono quelli che lavorano nei Pronto Soccorso/118, nei reparti di Psichiatria e nei SERD.

Il Ministero della Salute (2012) ha individuato dei fattori di rischio, che, laddove presenti, elicitano più facilmente gli episodi di violenza. Fra di essi, si possono citare:

  • un organico insufficiente;
  • il lavorare in contesti che, dal punto di vista socio – culturale – economico, appaiono svantaggiati;
  • la disorganizzazione del servizio (lunghe attese, affollamenti, mancanza di comunicazione fra operatori e utenti);
  • difficoltà nelle relazioni interpersonali fra gli operatori;
  • presenza massiccia di personale non strutturato (precari, lavoratori che dipendono da cooperative ecc.).

Gli attori sociali dei comportamenti violenti (vittima e aggressore) hanno dei profili psicologici ben delineati. Solitamente la vittima ha un’esperienza lavorativa minima ed è, relativamente all’età, giovane. Inoltre, ha difficoltà nello stabilire delle buone relazioni interpersonali e dal lavoro, frequentemente, riceve emozioni negative, quali senso di fatica, distress e insoddisfazione (Zampieron e Galeazzo, 2010; Arnetz e al., 2015).

L’aggressore, secondo ricerche svolte (McPhaul e Lipscomb, 2004; Duncan e al., 2000; Lin e Liu, 2005), è un uomo con un basso livello socio – culturale, che presenta una storia di comportamenti violenti. In aggiunta, ha avuto un’infanzia particolarmente difficile, può avere un disturbo da uso di sostanze e presenta, sovente, una malattia psichiatrica terapeuticamente non controllata.

Abitualmente la causa che scatena i comportamenti violenti del paziente è rappresentata da un’aspettativa frustrata, come, ad esempio, dei tempi di attesa estremamente lunghi senza nessuna comunicazione relativa alla loro durata. Inoltre, incide il vissuto personale del paziente relativo alla sofferenza e alla malattia, di cui è portatore, e che lo pongono in una condizione di vulnerabilità (Valetto e Cappabianca, 2018).

Gli effetti della violenta prevaricazione subita vanno dalle lesioni fisiche fino ai riverberi psicologici cronici.

La violenza procura choc, incredulità, paura, umiliazione, sofferenza fino al senso di colpa e di sfiducia che può influire sull’autostima e sulla motivazione e incrementare la disaffezione al lavoro. Alcune vittime provano invece un senso di rabbia che le induce al pessimismo e a un atteggiamento negativo cinico. Tutto ciò predispone a disturbi d’ansia o depressione. L’aver subito violenza o aggressioni, inoltre, mina le relazioni personali e professionali con i colleghi e con gli assistiti. È descritta una tendenza all’uso di medicinali […] e il ricorso a sostanze d’abuso o a un consumo rischioso di alcol (Valetto e Cappabianca, 2018, pag. 17).

In conclusione, la violenza sugli operatori sanitari è molto diffusa ed è elicitata da una serie di condizioni, fra le quali risaltano la scarsa comunicazione fra operatori e utenti e i lunghi tempi di attesa. Le conseguenze della violenza sono molteplici e sembrano inficiare la relazionalità dell’operatore sanitario con il lavoro e con l’alterità.

Il dono come valore – Dai limiti dello sviluppo al ritorno al dono

La razionalità dell’homo oeconomicus la possiamo trovare ad esempio nella crisi demografica che ha colpito l’Europa negli ultimi decenni. Gli studi sul calo delle nascite hanno cercato molte cause e quindi, anche molti rimedi senza trovare risposte efficaci.

 

Spesso si è fatto riferimento alla mancanza di servizi che non permettono alle donne di poter conciliare il lavoro con le necessarie esigenze di accudimento dei figli. Rappresentativo a questo proposito è uno studio sull’Emilia-Romagna, una delle regioni più ricche d’Italia e che fino alla metà degli anni novanta aveva i migliori servizi dell’infanzia che attiravano gli esperti di tutta l’Europa.

Eppure in quel periodo il tasso di natalità era di 0,9 e, quindi, la crescita economica e l’organizzazione dei servizi per l’infanzia non sembrano essere i parametri con cui confrontarsi per la decrescita della popolazione. D’altronde la Germania, che è il paese europeo più prospero, da anni soffre una crisi di natalità. Il paradosso è che la crescita economica e dei servizi non è sinonimo di una maggiore fertilità. Basti citare, a questo proposito, quanto successo con la promulgazione delle leggi fasciste per il sostegno alla natalità: le classi proletarie e contadine hanno colto immediatamente l’occasione mentre le famiglie borghesi rimasero tiepide. Con la crescita economica, al contrario di quanto si possa pensare, i tassi di natalità si contraggono perché tendono a emergere altri interessi. Non vi è dubbio che oggi stiamo meglio che nell’ottocento o nel settecento eppure facciamo meno figli. Allora il problema della natalità investe problematiche di carattere antropologico.

Fare un figlio rientra all’interno delle categorie dell’individualismo, dell’utilitarismo e del calcolo razionale; caratteristiche che contraddistinguono i paradigmi culturali dell’homo oeconomicus.

Il dono nel libro della Fallaci

Oriana Fallaci in “Lettera a un bambino mai nato” in alcune pagine ci dà una bellissima immagine di una donna assalita da una serie di dubbi esistenziali e antropologici. Da un lato, una donna che deve confrontarsi con se stessa e con le sue esigenze di carattere razionale e produttivo e, dall’altro, il desiderio di maternità che s’impossessa di lei e che, addirittura, la porta ad allontanare il padre del bambino e a respingere tutti quelli che cercavano di farla abortire. Il primo è il padre del bambino che le chiede di quanto denaro abbia bisogno per potersi disfare del feto. Poi il medico che la visita, l’amica, il capo ufficio; solo i genitori sono d’accordo con la decisione di tenersi il bambino. Nella dedica iniziale La Fallaci ci pone immediatamente di fronte al problema esistenziale e antropologico: “A chi si pone il dilemma di dare la vita o negarla”. Non vi è dubbio che il dono dei doni dal punto di vista antropologico è dare la vita. In questo dialogo immaginario con il bambino, l’autrice lo descrive in maniera esemplare

…. Ti porterò avanti lo stesso, che ti piaccia o no. Te la imporrò lo stesso quella prepotenza che fu imposta anche a me, e ai miei genitori, ai miei nonni, ai nonni dei miei nonni: su fino al primo essere umano, che gli piacesse o no.

Tale prepotenza tentano in tutti i modi di annulargliela facendo leva proprio sulle caratteristiche che contraddistinguono l’homo oeconomicus: il padre del bambino per telefono le dice pensa alla tua carriera e al tuo lavoro (individualismo); il medico le chiede se è utile portare avanti la gravidanza (utilitarismo); il capo ufficio le chiede di tenere conto dei progetti che hanno fatto insieme che andrebbero sicuramente ridimensionati o annullati (calcolo razionale). A tutto ciò la protagonista risponde:

molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso, perché muoia ammazzato dalla guerra o da una malattia? E negano che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentare di cancellare le malattie e la guerra. Forse hanno ragione loro. Ma il niente è da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclamare che nascere è meglio di non nascere.

Ecco emergere l’antropologia rispetto alla razionalità della scelta.

Il dono presuppone passioni ed emozioni

Ciò che manca alle teorizzazioni sull’homo oeconomicus sono le passioni, le emozioni che, al contrario, costituiscono un fastidio che deve essere in qualche modo eliminato. Sono i principi classici dell’illuminismo che possiamo sintetizzare con Kant

L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.

Sapere aude significa intraprendere una battaglia contro il pregiudizio, il mito, la superstizione, e contro tutte le forze che hanno ostacolato il libero uso dell’intelletto e della crescita mentale dei vari individui. Tra gli elementi ostacolatori vi sono le emozioni che devono trovare una giusta sistemazione (razionalizzazione) all’interno della ragione. Esse devono essere controllate.

Il positivismo, con lo sviluppo industriale, pone le ulteriori basi su cui far crescere le caratteristiche che definiscono l’homo economicus. L’adeguarsi in maniera incontrollata alla razionalità tipica del metodo scientifico comporta che tutto deve essere calcolabile. Mentre un’emozione difficilmente risponde a esigenze di calcolo e, per definizione, alla razionalità, l’interesse, soprattutto quello di tipo economico, è facilmente misurabile.

Hirschman (1977) sostiene che

occorre “configurare i modelli delle azioni umane con metodi più efficaci delle esortazioni moralistiche o delle minacce di dannazione”. L’interesse, invece, si presenta come forza ordinata e calcolabile in grado di opporsi alle passioni sregolate. Quando un’azione è guidata dall’interesse, essa è prevedibile, perché ha un fine esplicito. La prevedibilità si traduce poi in costanza, per cui il ricorso all’interesse rappresenta un grande vantaggio epistemologico, giacché costituisce “una base realistica per dare alla società un ordine vivibile.

Questo vantaggio diventa ancora più evidente quando l’interesse è identificato con “l’amore per il denaro”.

L’omo oeconomicus ci è stato presentato come una normale evoluzione dall’homo sapiens. In effetti, ci è stato presentato un uomo non reale che tutto intriso del proprio interesse individuale e della ricerca dell’utilità, non risponde alle normali manifestazioni comportamentali umane. Infatti, accanto alla visione dell’homo economicus tutto rivolto alla ricerca del proprio interesse nel XX secolo, si sviluppano altre concezioni come quella psicoanalitica – di cui parleremo in seguito – che trovano le determinanti del comportamento umano nel legame con gli altri.

Il dono in ottica sistemica

Nascono altre correnti di pensiero come i sistemici che si rifanno alle teorie di Von Bertalanffy (1901 – 1972) che in “Teoria Generale dei Sistemi” (1967) scrive

Pensare in termini di sistemi gioca un ruolo dominante in un ampio intervallo di settori che va dalle imprese industriali e dagli armamenti sino ai temi più misteriosi della scienza pura.

L’attenzione dei sistemici è rivolta alle interazioni tra i vari componenti di un sistema, in sostanza ai legami che si creano tra i vari membri.

In effetti, la definizione di sistema si basa sul concetto matematico di funzione – relazione d’interdipendenza tra variabili diverse – in cui i vari elementi interagiscono tra di loro secondo un modello di circolarità in base al quale ogni elemento condiziona l’altro ed è da esso a sua volta condizionato. Il significato di ogni singolo elemento non va pertanto ricercato nell’elemento stesso, quanto nel sistema di relazioni in cui esso è inserito.

Sostanzialmente con la teoria dei sistemi, che più avanti svilupperemo, si torna a parlare di relazioni e, quindi, di legami essendo una teoria di tipo organicista che si contrappone alle teorie meccanicistiche che sottendono le concezioni sull’homo oeconomicus.

Il dono nel movimento MAUSS e nella post-modernità

Allo stesso modo, in reazione alla visione dell’homo oeconomicus e alle concezioni utilitaristiche negli anni ’80 nasce a Parigi un movimento denominato MAUSS (movimento antiutilitarista nelle scienze sociali) volto a dare corpo e visione a una società non più basta sull’egoismo dei singoli ma basata sulla condivisione così come viene a determinarsi nella circolarità del dono. I maggiori esponenti del MAUSS sono Caillè, Lautoche, Godbout, Godelier ed altri.

Ciò che è messo in crisi è l’approccio metodologico sia di tipo speculativo sia olistico poiché cambia il paradigma di studio: non più l’interesse individuale ma la relazione, il legame che può essere vivificato attraverso il dono. Per dirla con E. Fromm (17), l’oggetto di studio non è più l’avere ma l’essere.

Bisogna liberarsi, utilizzando un’espressione di Laoutuche, di quel “martello economico” che ci batte la testa che guarda solo al soddisfacimento dei bisogni materiali ed economici. Ciò che si propone è un cambiamento epistemologico profondo in cui devono essere valorizzate altre dimensioni dell’esistenza umana anche perché la concezione economica dominante entra in profonda crisi a partire dagli novanta. Ihab Hassan (18), scrive che bisogna chiudere con il

forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’ individuo, l’ intero territorio del dibattito occidentale (Verso un concetto del post modernismo).

La spinta al razionale, al conformismo, assomiglia alla costruzione della torre di babele: tutti devono essere rivolti a svolgere una funzione per raggiungere il cielo. All’improvviso come sulla torre iniziano le azioni centripete: ognuno comincia a parlare una propria lingua e non riconosce il lavoro degli altri. Ci si muove con l’individualismo spinto tipico delle teorizzazioni dell’homo oeconomicus e la torre crolla. Papa Francesco, in una delle sue omelie, ha illustrato in maniera impareggiabile la crisi che stiamo vivendo proprio facendo riferimento alla costruzione della torre di babele. Durante le fasi di lavorazione gli operai erano puniti pesantemente se facevano cadere un solo mattone mentre non succedeva la stessa cosa quando erano gli stessi operai a cadere. Dice Papa Francesco il mattone aveva un valore che gli uomini non avevano. Il capitale finanziario e gli interessi individuali hanno assunto una valenza maggiore della stessa vita umana.

Jay Forrester (1918 – 2016), in uno studio commissionato dal Club di Roma nel 1970, aveva già teorizzato quello che stava per accadere. Il libro “I Limiti dello Sviluppo” (1972) è il risultato di un lavoro commissionato dallo stesso club al MIT per l’elaborazione, attraverso modelli matematici ed informatici, di una simulazione su quello che poteva succedere al mondo proseguendo con i modelli economici e di sviluppo di allora. Gli autori non diedero delle previsioni certe ma presentano gli anni a venire come molto problematici se non s’interveniva con politiche nuove.

J. Randers, che faceva parte del gruppo di studio del MIT insieme ai coniugi Meadows e a William W. Behrens III, nel 2012 in “2052 Scenari Globali per i prossimi Quarant’anni” riprende le simulazioni del 1972 analizzandoli con i logici progressi informatici che si sono fatti in quest’anni e integrandoli con le problematiche legate alla gestione del clima.

Presupposto del lavoro è di poter definire la sostenibilità ambientale intesa come convivenza pacifica tra l’uomo e il pianeta in modo che le generazioni future possano goderne. Come vedremo in seguito l’eredità, intesa come trasmissione di beni materiali e immateriali alle generazioni future, costituisce uno degli assi portanti del dono generazionale. Ciò che interessa mettere in luce qui è che il concetto di sviluppo all’infinito è messo in crisi poiché, come sostiene Sanders, le risorse del pianeta non sono infinite e, quindi, l’individualismo e l’utilitarismo non offrono prospettive rosee.

Inoltre, in questo lavoro viene, senza essere sviluppato, messo l’accento e sulle relazioni tra l’ambiente e l’uomo, che spesso, soprattutto nella tradizione religiosa, costituisce uno scambio reciproco di doni.

 

La sintomatologia autistica potrebbe essere ridotta attraverso il trapianto del microbiota

Sono diverse le evidenze che mostrano che i disturbi dello spettro autistico sono spesso associati a problemi gastrointestinali e ad una flora intestinale peculiare.

 

La sintomatologia legata ai disturbi dello spettro autistico è ampiamente variabile, sia per tipologia che per impatto sulla vita di quegli individui che ne sono affetti. I tratti comportamentali tipici comprendono difficoltà nelle interazioni sociali, un ristretto campo di interessi e comportamenti ripetitivi. Viene definito un disturbo dello sviluppo, nonostante possa essere diagnosticato ad ogni età, poiché generalmente l’esordio viene collocato intorno ai due anni. Le terapie più efficaci sono quelle comportamentali e quelle basate sul miglioramento delle abilità comunicative, ma i sintomi principali rimangono spesso per tutta la vita. Inoltre, i disturbi dello spettro autistico sono spesso associati a problemi gastrointestinali e ad una flora intestinale peculiare.

In un recente articolo (Kang et al., 2019) è stata proposta una terapia innovativa, che sembrerebbe dimostrare una sorprendente efficacia a lungo termine. I risultati mostrano come 18 pazienti affetti da questo disturbo e da problemi gastrointestinali, due anni dopo un trapianto del microbiota, hanno ottenuto un dimezzamento dei sintomi comportamentali. L’efficacia di questo trattamento non emerge subito, ma la sintomatologia migliora progressivamente nei mesi e negli anni successivi all’operazione. Questo processo prende il nome di Microbial Transfer Therapy e prevede la riduzione dei batteri patogeni e dell’acidità gastrica ed il successivo innesto di batteri intestinali provenienti da donatori sani.

Il corpo umano ospita un’enorme quantità di microorganismi, i quali svolgono diverse funzioni essenziali. Negli ultimi anni sempre più ricerche si sono concentrate sull’interazione bidirezionale fra tratto gastrointestinale e cervello. Il comportamento può influenzare la composizione della flora intestinale, mentre le modifiche del microbiota possono influire sullo sviluppo neurale,portando in alcuni casi a disturbi cognitivi.

Questa ricerca sottolinea l’importanza delle ricerche longitudinali a lungo termine, rare in questa categoria psicopatologica. Vengono qui gettate le basi nell’abito di nuove prospettive cliniche per disturbi rilevanti come i disturbi dello spettro autistico.

 

4th International Conference of Metacognitive Therapy – Seconda giornata – Simposio sui processi metacognitivi nei disturbi alimentari

La seconda giornata del 4th International Conference of Metacognitive Therapy è organizzata in tre sessioni parallele di simposi, riguardanti principalmente l’applicazione della Terapia Metacognitiva a differenti aree psicopatologiche: dipendenze, psicosi, disturbo ossessivo compulsivo, depressione, disturbi alimentari. Vengono inoltre presentati gli interventi del dr. Bruce Fernie sull’applicazione della MCT nel Parkinson e del Prof. Hans Nordhal sul disturbo post-traumatico complesso.

 

Il ruolo del pensiero perseverante nei Disturbi Alimentari

Il simposio sui disturbi alimentari (DA) si apre con la presentazione della dr.ssa Sara Palmieri (Sigmund Freud University, Studi Cognitivi) sulla metanalisi relativa al ruolo del pensiero perseverante in questi disturbi. La ricerca è stata condotta sulle principali banche dati scientifiche e ha considerato tutti gli studi pubblicati fino ad aprile 2018, focalizzandosi in particolare sui possibili mediatori finora considerati in letteratura, quali i sottotipi di sintomi alimentari, la presenza o assenza di diagnosi di Disturbi Alimentari, la presenza o assenza di rimuginio e ruminazione e l’età dei partecipanti. I risultati mostrano che nei 29 studi analizzati il pensiero ripetitivo risulta associato (Effect Size: 0.79 – indicativo di una forte associazione) ai sintomi alimentari, in campioni clinici e non clinici. In particolare, emerge una maggiore presenza di stili cognitivi perseveranti in pazienti diagnosticati con Disturbi Alimentari. Sia il rimuginio che la ruminazione risultano correlati con i sintomi alimentari, ma solamente il rimuginio viene proposto come moderatore tra il pensiero perseverante e le manifestazioni psicopatologiche.

I dati suggeriscono quindi l’importanza della concettualizzazione di tali stili cognitivi nel trattamento dei disturbi: le metacredenze possono alimentare il pensiero perseverante e di conseguenza le emozioni negative, a cui i pazienti rispondono con strategie di coping maladattive che costituiscono i sintomi alimentari (come la restrizione alimentare o le abbuffate). Un intervento focalizzato sugli stili di pensiero potrebbe quindi essere cruciale nel trattamento dei sintomi ed è possibile ipotizzare l’applicazione di tale intervento anche tra soggetti con sintomi alimentari che non presentano tuttavia diagnosi di Disturbi Alimentari, allo scopo di prevenire l’eventuale insorgenza di un disturbo.

Disturbi Alimentari, controllo, perfezionismo e autostima

Il secondo lavoro, presentato dal dr. Walter Sapuppo (SFU, Studi Cognitivi), indaga il ruolo dei costrutti di bisogno di controllo, metacredenze negative di danno e incontrollabilità, perfezionismo, autostima e rimuginio nei disturbi alimentari. Nel trattamento dei DA, i clinici si trovano spesso a affrontare notevoli difficoltà che la letteratura ha spesso evidenziato e attribuito a scarsa motivazione e difficoltà dei pazienti con Disturbi Alimentari ad accettare il trattamento. I tratti di perfezionismo e bassa autostima sono storicamente citati dalla ricerca come fattori associati ai disturbi alimentari, mentre più recentemente sono stati considerati altri elementi, caratteristici del modello metacognitivo.

Per lo studio sono state reclutate 84 pazienti con diagnosi di DA e 38 soggetti sani hanno composto il gruppo di controllo. Gli strumenti utilizzati hanno misurato i livelli di rimuginio, autostima, perfezionismo, controllo e metacredenze. L’analisi discriminante ha mostrato un effetto significativo delle metacredenze negative, del bisogno di controllo, del perfezionismo e di bassi livelli di autostima nel distinguere tra campione clinico e non clinico. Una possibile spiegazione in merito al significato dei risultati è che pazienti affetti da Disturbi Alimentari interpretino il pensiero perseverante come un ulteriore dato a favore della loro mancanza di valore e di capacità di controllo, influenzando negativamente i livelli di autostima e incrementando l’aspetto perfezionistico.

Disturbi alimentari: i predittori cognitivi e metacognitivi

L’ultimo lavoro viene presentato dalla dr.ssa Gillian Todd (Cambridge University, UK) e analizza i predittori cognitivi e metacognitivi dei Disturbi Alimentari in un campione femminile di adolescenti. Partendo dal modello S-REF (Wells & Matthews, 1994), che postula il valore causale delle metacredenze nei disturbi psicologici, lo studio approfondisce il legame tra credenze metacognitive e schemi cognitivi, teorizzati da Beck (1976). In particolare, i ricercatori si sono chiesti se le metacredenze e le cognizioni tipiche dei Disturbi Alimentari fossero correlate tra loro e se ci fossero dati relativi a una predittività o sequenzialità specifica delle une sugli altri, o viceversa.

Per rispondere a questa domanda, è stato reclutato un campione di 162 ragazze, di età compresa tra i 16 e i 19 anni, seguite per un periodo di 12 mesi. Gli strumenti utilizzati indagavano le credenze metacognitive (MetaCognitions Questionnaire – 30, Wells & Cartwright-Hatton, 2004) e gli schemi cognitivi (Eating Disorder belief Questionnaire, Cooper et al., 1997). I risultati mostrano che le metacredenze predicono le credenze dei DA nel lungo termine, cosa che non avviene in direzione opposta. Viene quindi confermato l’effetto causale delle metacredenze sugli schemi cognitivi tipici dei Disturbi Alimentari, mentre il modello cognitivo sembra spiegare il mantenimento del disturbo, ma non la sua insorgenza. Anche in questo caso, i sintomi alimentari, come la restrizione, vengono concettualizzati come strategie di coping atte a regolare processi e credenze disfunzionali. Questo conduce a una concettualizzazione del disturbo e del trattamento transdiagnostica, basata sui processi. Come sostiene Wells in questi giorni: “I pensieri non contano, conta come gli rispondiamo e li regoliamo”.

4th INTERNATIONAL CONFERENCE OF METACOGNITIVE THERAPY – G. M. RUGGIERO CI PARLA DELLE NOVITA’ DEL CONGRESSO:

 

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Il Direttore Giovanni Maria Ruggiero commenta a caldo le novità del congresso internazionale di terapia metacognitiva di Praga.

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The importance of organizational culture within accidents: an insight about human factor and automation impact

Risk management is a process of planning, organizing, directing and controlling the human and material resources of the organizations. Nowdays is an aspect that is impossibile to not considerate!

 

The present article is based on the work of James Reason “Managing the Risks of Organizational Accidents and aims to describe the dynamics of accident events, taking into account the existing relationships between individual and organizational factors. The theme emphasizes the arrival of automation and its consequences in the performance of tasks in highly dangerous jobs. Then, the role of the organizational culture in the organizational failures will be analyzed and finally some considerations about the importance of the organizational culture in the appearance of the accidents will be proposed.

Introduction

Nowadays, security management is the bread that feeds the performance of high-risk jobs and allows those jobs to be developed. Risk management is a process of planning, organizing, directing and controlling the human and material resources of the organizations. The objective of security management reflects the fact of maximizing the effects of the risks that may occur in the productive process of goods or services. Currently, automation confers important help to improve security, but ultimately reveals some peculirities that must be studied correctly to mitigate their effects and prevent security levels from decreasing instead of increasing.

1. The impact of automation on highly hazardous jobs

The risk of an accident occurring during the performance of a productive activity is connected to the dangers existing in the work tasks, in our own environment or place of work. Today these tasks and these environments are very different from those that were performed ten or fifteen years ago. Highly dangerous jobs have gradually been integrated with technologies of increasing complexity, indeed.

The technologies that support highly dangerous work are always evolving as well as the characteristics of the work. The automation of tasks that require a lot of concentration and attention, in aviation (ie. the flight deck), has reached very complex levels. Although technology has not yet completely replaced the role of the human operator, most of the calculation and precision activities are automated. However, with the emergence of automation in organizations it is clear that some problems will be solved, but the operation of them becomes more and more intricate.

Thus, when we think about earning benefits such as increasing efficiency and reducing costs, we do not fear to forget that in any case the human factor has not disappeared, on the contrary, it has a very large impact on the functioning of those systems.
According to David Woods and Nadine Sarter (1992; 1993), automated systems can increase the demands on the memory of their operators, increasing workload, stress and anxiety. In fact, Mulder’s definition of workload (1980) reflects the number of stages of a process or the number of processes required, depending on the time required to correctly perform a task.

For the previous reason, it may also seem that the human being does not have such an active role in the performance of complex tasks, in which, through focused attention on precise machines at a precise moment, he performs those operations. We put a more practical example: in the flight deck, the mental load of horizontal navigation has decreased a lot thanks to computer control systems, but the one related to vertical navigation, which is more complex and dangerous, can increase significantly.

With this concept we introduce the ironies identified by Lisanne Bainbridge (1980) with respect to the automation of complex tasks. Many years of accumulated experience in particular in the world of aviation, nuclear energy and the chemical industry emphasize that high automation sometimes moves costs instead of cutting them radically. The ironic concepts discussed by Lisanne Bainbridge (1980) refer to the automation of some tasks and the disappearance of some errors, but at the same time we are witnessing the introduction of new types of errors.

Later on we will focus on how the perspective of the causes of accidents is diverting each day more in a direction that focuses on the weight of organizational rather than individual factors.

2. The “Swiss cheese” model by James Reason

The idea that errors and accidents are generated by a human error and/or a technical failure is based on the Newtonian-Cartesian dualism, which is inadequate when we talk about complex events that happen in organizations (Dekker, 2005). On the basis of this dualistic conception the mental world is separated from the material world (Descartes) and for each event there must be one and only one cause (Newton). However, empirical research has widely demonstrated that in these last decades, a conception based only on human error does not meet the complexity of the events it tries to explain and if the analysis is not adequate, the solutions will not be identified either.

On the motivations and causes of accidents and disasters in organizations different explanatory models have been developed. Each model has its frame of reference, its conception of error and accident and promotes a practice of safety consistent with those assumed implicit. The “systemic and organizational” model of James Reason (1997) promotes learning and is based on the principle that human error is inevitable and for this reason, although we cannot change human nature, we can change the conditions of the human being work environments. This issue considers operators as networks of system defects and proposes to increase the security and reliability conditions of organizations.

This conception of James Reason takes the shape of a model that explains accidents in organizations taking into account active failures, characterized by having a direct impact on the safety of the system. Active failures are actions or omissions, including errors and infractions, which have immediate adverse consequences. These failures are usually related to the personnel that are located in the human-system interface: the “frontline” personnel.

However, the human contribution is not only in those actions so close to the accidental event. Strategic decisions and high hierarchical levels, such as decisions made by public administrators, managers, manufacturers, designers, etc., are conceptualized as precursors of latent conditions present in all systems. These conditions, in contrast to active failures that are immediate, require a long time for a damaging result to be experienced.

When we analyze the genesis of an accident according to this model, we have to take into account that accidents are not caused by a single error, on the contrary, they are the result of a concatenation of “active failures” and “latent conditions”. From these considerations, the model of James Reason of defenses type “Swiss cheese”, assumes the existence of layers of defense in the different levels of action that separate the exhibition of the outcome. According to the representation, each stratum has holes whose position varies depending on local conditions; the accident occurs when those holes line up and leave an open window that leads directly to the accident.

The awareness of the specific errors in risk management is essential to develop risk analysis actions. According with the literature there are different theories about fault typologies, but the main tendency is to refer to James Reason and his theory of errors. Among the factors that allow defenses to fail, human beings contribute to the production of active failures and the generation of latent conditions. On the contrary, the latent conditions are related to strategic decisions and of high organizational level.

3. Individual factors

The conception of human error proposed by James Reason is complex and well-articulated. Following to his vision, not all dangerous acts are classified the same category; in fact, errors take different shapes and have different psychological origins and occur in different parts of the system. The life of human beings, according to a strictly psychological perspective, is based on decisions. This concept reflects the activities performed on a normal day: we get up and have to choose the clothes we are going to wear, thinking about the activities we are going to do (dressing more comfortable, more elegant etc.) or the temperature is going to be outside our home (clothes hotter for low temperatures). These decisions occur naturally, without pressure, because, basically, they do not carry great risks. In high-risk jobs, decisions do not address the criteria of comfort, but efficiency and security.

Making decisions for a pilot is a mental process that consists of choosing the most appropriate actions in certain situations, taking into account a very large number of input and information, which are taught by human beings or automated machines. Based on the model proposed by Rasmussen (1987), James Reson differentiates three execution errors and three acts performed according to the intentions, thus defining three different types of errors (Reason, 1990). Assuming that all conditions are encouraging the success of an operation, if an unfavorable event finally occurs, slips or lapses may have occurred. Slips refer to attention or perception-based failures in skills (it occurs in routine tasks, practiced in an automatic way, with occasional verification of their progress); on the other hand, slips are more internal events, which generally involve failures of memory.
At higher level there are mistakes which result in the mental processes involved in evaluating the available information.

In particular, the mistakes are usually based on the rules (when we need to modify our behavior because we have to take into account changes) or knowledge (when we have the time to think things carefully and meticulously).

In other words, the first class of errors refers to an incorrect application of the rules and the second to the lack of knowledge necessary to carry out an operation. In any case, all errors imply some kind of deviation: in the slips and lapses the deviation is about the current intention, while in the mistakes the deviation depends on taking the correct path to reach the goal. In these circumstances, the operator is intentionally rational, but despite this, is linked to limited cognitive abilities and incomplete information. Attention, memory, understanding and communication define the decisions, and what results is that the actions may not be rational, despite good intentions (March, 1994, Simon, 1947).

4. Difference between errors and infractions

The difference between errors and infractions is based on the concept of “intentionality”. Infractions are all the actions that involve the omission of rules (or codes of behavior shared in the organizations). Infractions are usually intentional, but they do not always cause negative events. However, it is necessary to keep in mind that human beings do not plan and execute actions in an isolated environment, on the contrary, in a well-defined context in which behavior is regulated by operational procedures, codes and rules. In this context, infractions are conceptualized as deviations from the procedures or violation of the appropriate rules to operate safely.

In this regard, James Reason, identifies three types of infractions that take into consideration the level of intentionality of the individual acting:

  1. Routine infractions
    Routine infractions imply a faster way of acting and are usually a routinary part of the behavioral pattern.
  2. Optimized infractions
    They are committed in relation to the advantage they bring and reflect the fact that human actions have a plurality of motivational purposes.
  3. The necessary infractions
    They are usually caused by organizational failures and the location of work; they presuppose violating the rules to carry out the work.

Analyzing the causes of these different types of infractions we can notice that the organizational factors are constantly present in the event of these. The necessary infractions are a very clear example of how the organization of work has a very important role in the success of accidents and can be a precursor of organizational accidents. Routine infractions also have a direct link with the organizational culture that does not punish (or wrongly punish) the infractions and feeds the frequency that those things happen.

5. Organizational level factors

People act in a specific work environment and the organizational level is linked to the context in which individuals act when an accident occurs. The organizational level focuses on human-machine interactions, crew and group work, communication processes and operational coordination. These factors refer to dimensions that are far away from the accident in time and space. This level does matter in the understanding of the organizational processes, the activity systems, the strategies, the specific culture in every organizations. More specifically, they are strictly related to the dimensions of the coordination and control system, the training, the weaknesses of the defense system, the management decisions, etc.

According to the sociologist Schein (1984) the organizational culture is a coherent set of basic issues that a group shares, develops to face the problems of external or internal adaptation. The culture continues to live in the organizations because during the time it has had positive outcomes, that were later considered successful. These procedures are “the way of doing things”, for example, the new members of an organization get to know them and put them into practice when a problem occurs.

In relation to the field of security in organizational cultures, Ron Westrum (1993) has classified organizational cultures according to the way in which they handle information related to security. These cultures are reflected in three concepts that define them:

  1. Pathological
    It refers to a culture that actively discourages suggestions of new ideas, where responsibilities are shirked and failure is punished.
  2. Bureaucratic
    This culture is based on the compartmentalization of responsibilities and power is usually distributed in a very hierarchical way in the organization. Faults respond with local repairs.
  3. Generative
    It generally receives new ideas openly and fails to respond with far-reaching reform.

As Reason points out to us (p.249), the culture of security show off the values ​​(what is important) and shared beliefs (how things work) and when interacting with the structures and control systems of the organizations, produce norms of behaviors (the way things are done) (Uttal, 1983). In an organization that respects safety, to estabilish a strong and informed safety culture is one of the primary objectives.

To understand why culture is so striking in the way of performing highly dangerous jobs, we refer to the concept of organizational culture described above. Culture, in fact, is something that tells us the direction we have to choose to get things done according to the rules (for example, safety laws) and according to the standards of the organizations (for example, the attention that the company gives the quality). In an organization, where the mutual and reliable communication is not allowed (e.g., pathological culture) some latent conditions that result from slips, lapses or mistakes (for example in maintenance operations), can lead to accidents, but if they are communicated suddenly it is possible that they can be solved.

So, more simply we can say that: in the organizations that presents a culture where the fear of punishment is stronger than the fear of an accident, even if an operator identifies the error, it is unlikely to notify properly. Clearly those aspects are connected to how the organizations handles guilt and punishment and to the assumption of responsibilities. For this reason, it is important for an organization to promote a generative culture is, with no doubts, more appropriate for spreading safety (Westrum, 1993).

Conclusions

The study of accidents in the transport industry, nuclear or chemical energy, allowed a greater understanding of the causes of accidents with a focus always more focused on the pre-existing organizational factors. In fact, the fallible decisions of the highest levels of management are transmitted through the different distributions and services of the organizations to the personnel in the “front line”, creating tasks and conditions of the context that can promote unsafe acts. These conditions include factors such as a high workload and mental fatigue, inadequate knowledge, skill and experience, abrupt changes in the organization of work, inadequate communication system etc.

These factors can influence the performance of operators and increase the possibilities that an accident will occur. Clearly, on the part of the managers and the leaders of the resources (human, technological, economic, etc.) it seems very difficult to foresee the consequences of their own actions on the security of the entire system and the impact they can have on the decisions of the “frontline” operators, especially because they are located far away in the hierarchy.

For this reason, we can say that talking about errors in work environments also means talking about tolerance of errors and that it is important to not forget that human actions can only be understood within a “human environment”; consequently this context represents one of the causes of human errors. However, an effective antidote to these misconducts is a strong and generative safety culture, which stresses the repercussions of one’s actions on other people.

In this perspective, which leaves behind the activity of the individual alone, not close to the places where active failures occur, and focuses more on the activity of all the members of the organization, it is important that the responsibility for safety is shared among all company personnel. In fact, effective error management is based on continuous verification of the system and the work environment that makes the error visible so that it can be corrected immediately.

Narciso in comunità: i riflessi del responsabile di comunità

Come psicologa di una comunità per minori, ho il privilegio di un punto di osservazione tale per cui posso leggere dinamiche e mettere in connessione elementi della quotidianità comunitaria apparentemente molto lontani fra loro.

 

Ovidio (Metamorfosi III, 420 e segg.):

Contempla gli occhi che sembrano stelle, contempla le chiome degne di Bacco e di Apollo, e le guance levigate, le labbra scarlatte, il collo d’avorio, il candore del volto soffuso di rossore… Ignorava cosa fosse quel che vedeva, ma ardeva per quell’immagine…

Psicologo in Comunità per minori: riflessioni sul ruolo

Mi sono spesso interrogata sul complesso e sfaccettato ruolo del Responsabile di Comunità.

I nodi del Responsabile, i suoi spettri possono entrare nella “stanza” degli educatori influenzandone il sentire e il comportamento? Possiamo accostare la posizione dei genitori a quella del responsabile di comunità che, sollecitato dalle scorie emerse dal prendersi cura di un sistema multiforme e sofferente, come è quello delle comunità, si trova a specchiarsi trasmettendo ciò che non ha ancora pensato, facendolo agire ed esperire al gruppo educativo?

Calpestando il territorio “comunitario” è possibile constatare quanto l’ombra (C. G. Jung), i fantasmi (S. Fraiberg), gli elementi indigeriti/indigeribili (W. Bion) del Responsabile vengano trasmessi all’equipe curante, orientando inconsciamente le scelte clinico-educative degli operatori, fino a determinare che essi stessi si facciano carico di una possibile espressione di questi fatti indigesti.

L’uso narcisistico dell’Altro (operatore e/o ospite), nel tentativo di riparazione di aspetti di Sé sentiti come feriti e fragili, non adeguati ed incapaci, può costituirsi come rischio in quei contesti in cui non è pensato un affiancamento/sostegno al ruolo del Responsabile.

Psicologo in Comunità: l’importanza delle supervisioni e del lavoro in equipe

Quando è presente lo Psicologo di Comunità, è possibile attivare uno spazio/tempo di pensabilità che consenta di porre in circolo e di contattare eventuali movimenti manipolatori. Il mettere in parola permette la trasformazione significante e quindi l’integrazione di aspetti non consapevoli del Sé del Responsabile che vengono proiettati sull’équipe curante. Le parti meno integrate degli operatori possono colludere fino ad attivare comportamenti non tutelanti nei confronti degli utenti.

La possibilità di rendere consapevoli tali dinamiche attraverso percorsi di supervisione, consente di recuperare quegli aspetti del proprio Sé scissi, di integrarli e di non agirli nel sistema comunitario.

La comunità in tal modo, diviene un ambiente terapeutico non solo per i piccoli ospiti, ma si struttura come luogo di crescita autentica e consapevole anche per gli educatori e per il Responsabile.

I luoghi mentali attivati all’interno del sistema, come le équipe clinico-educative, le supervisioni e le micro-équipe diventano i contenitori significanti e trasformativi di tutti quegli elementi protomentali e protoemotivi che rischiano di essere agiti da tutti i protagonisti della vita di comunità.

I bias nella percezione del dolore in soggetti affetti da Depressione

Il fatto che pazienti affetti da depressione tendano a percepire con maggiore intensità stimoli potenzialmente dolorosi sembrerebbe essere legato ad un’elaborazione preliminare degli aspetti emotivi del dolore da parte della corteccia, che influenzerebbe la percezione del dolore vissuto da questi pazienti.

 

Un recente studio ha messo in evidenza come la depressione possa influenzare la percezione soggettiva del dolore. In particolare, lo studio suggerisce che i pazienti affetti da disturbo depressivo maggiore tendono a valutare come più eccessiva l’intensità di uno stimolo doloroso rispetto ad un gruppo di controllo di soggetti sani. L’ipotesi dei ricercatori è che esista un profilo sensoriale e percettivo del dolore differente tra i pazienti con depressione e quelli di controllo.

Lo studio

Sono stati reclutati 25 pazienti affetti da un episodio depressivo maggiore da grave a moderato e 25 controlli sani che combaciavano per sesso ed età ai pazienti con depressione. I ricercatori hanno confrontato la sensibilità al dolore dei due gruppi attraverso l’utilizzo di dispositivi stimolanti la temperatura.

Le stimolazioni hanno rivelato che i pazienti affetti da depressione riportavano livelli più elevati di percezione del dolore rispetto al gruppo di controllo. Difatti, i pazienti depressi percepivano il dolore ad un livello di temperatura inferiore rispetto a quello dei controlli e in aggiunta riportavano una percezione più alta del dolore durante l’ultimo mese.

Risultati e discussioni

Generalmente la sensibilità a stimoli dolorosi è molto diffusa tra i pazienti depressi e spesso ciò è attribuito ad anomalie nella percezione e nella modulazione del dolore. Tuttavia, in questo studio non sono state riscontrate anomalie di percezione e modulazione fra i due gruppi. Dunque, una spiegazione teorica alla differenza nella percezione del dolore sembrerebbe essere data da un particolare pregiudizio negativo (cognitivo-emotivo) che influenzerebbe i pazienti affetti da depressione.

In particolare, un’elaborazione preliminare degli aspetti emotivi del dolore, da parte della corteccia, sembrerebbe influenzare la percezione del dolore vissuto dai pazienti depressi, esponendoli ad una maggiore sensibilità nella percezione degli stimoli dolorosi. Questo meccanismo è lo stesso alla base del “modello di elaborazione dell’espressione facciale” che suggerisce come le persone affette da depressione tendono a valutare le espressioni facciali positive, neutre ed ambigue rispettivamente come meno felici e tristi (Bourke et al; 2010).

In conclusione, l’ipotesi di partenza dello studio sembra essere confermata; dunque la presenza di un pregiudizio cognitivo negativo nella percezione degli stimoli dolorosi potrebbe fungere da mediatore nella relazione tra depressione e disturbi del dolore. Tuttavia, trattandosi di uno studio preliminare sono necessarie ulteriori ricerche a supporto di questa tesi.

4th International Conference of Metacognitive Therapy – Prima giornata – Keynote del prof. Costas Papageorgiou sull’intervento MCT di gruppo per il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Nel corso del quarto convegno internazionale di Terapia Metacognitiva, organizzato dall’MCT Institute a Praga, il Keynote del prof. Costas Papageorgiou sull’intervento MCT di gruppo per il Disturbo Ossessivo Compulsivo

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è un disturbo d’ansia che presuppone la presenza di pensieri intrusivi indesiderati, i quali provocano sensazioni estremamente negative e/o di rituali (comportamentali o mentali) volti a gestire le emozioni provate. I pensieri intrusivi e i rituali sono causa di forte disagio per il paziente e hanno un significativo impatto sul funzionamento psicosociale e sulla qualità della vita. Attualmente, le linee guida suggeriscono per il trattamento del DOC la terapia cognitivo comportamentale (TCC), con tecniche di ristrutturazione cognitiva e esposizione e prevenzione della risposta.

La letteratura identifica diversi temi nucleari dei pensieri disfunzionali tipici del DOC, quali un irrealistico senso di responsabilità, una forte intolleranza all’incertezza e la sovrastima del pericolo: sono questi difatti i costrutti target più discussi in terapia.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DALLA CONFERENZA:

Terapia Metacognitiva e l intervento di gruppo per il DOC - Report da Praga IMM 1Imm. 1 – Immagine dal 4th International Conference of Metacognitive Therapy di Praga

Terapia Metacognitiva e l intervento di gruppo per il DOC - Report da Praga IMM 5Imm. 2 – Immagine dal 4th International Conference of Metacognitive Therapy di Praga

Terapia Metacognitiva e l intervento di gruppo per il DOC - Report da Praga IMM4Imm. 3 – Immagine dal 4th International Conference of Metacognitive Therapy di Praga

 

Papageorgiou e l’intervento di gruppo per il DOC: il confronto tra TCC e MCT

Gli studi dimostrano che per il trattamento del DOC non ci sono differenze nei risultati tra setting individuale e gruppale, per questo motivo la clinica privata di Manchester, dove opera il Prof. Costas Papageorgiou, propone da oltre dieci anni percorsi di gruppo per il disturbo ossessivo compulsivo.

I criteri di inclusione sono relativi all’età e alla diagnosi primaria di DOC, senza escludere la presenza di altri disturbi gravi o di comorbilità, come spesso viene rilevata, con sintomi depressivi o ansia generalizzata. Allo stesso modo, sono inclusi anche pazienti con bassi livelli di motivazione o che non hanno ricevuto benefici dai trattamenti precedenti. L’assessment è composto da una batteria di questionari somministrati pre e post trattamento: Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (golden standard per la rilevazione dei sintomi ossessivo compulsivi), BDI (per i sintomi depressivi), Work and Social Adjust Scale (che misura il funzionamento sociale e lavorativo), Global Improvement Scale (solitamente usato per studi farmacologici e adattato, viene somministrato solo al termine del trattamento, in quanto misura il miglioramento percepito), e Likelihood to recommend treatment (su una scala da 0 a 100, misura la soddisfazione del trattamento ricevuto).

L’intervento basato sul modello della terapia cognitivo comportamentale

Dal 2008 al 2013, Costas Papageorgiou e colleghi hanno raccolto di dati di 125 pazienti, dei quali il 78,4% in cura anche con un trattamento farmacologico. L’intervento, basato sul modello della terapia cognitivo comportamentale era costituito da 12 incontri settimanali di 2 ore e venivano condotti da 2 facilitatori (un clinico e una ex paziente). Al termine del trattamento, i pazienti mostravano una diminuzione significativa dei punteggi alle scale sintomatologiche e un miglioramento del funzionamento globale, con un ampio effect size (2.38). Nell’indagine sul cambiamento percepito, il 20% del campione si descrive come migliorato moltissimo, il 52% come molto migliorato e il 28% minimamente migliorato. Tuttavia, la letteratura suggerisce la presenza di una porzione significativa di pazienti che non migliora con la TCC: in particolare, più di un terzo ha una risposta minima o nulla al trattamento cognitivo comportamentale (Wilhelm, 2000).

L’intervento basato sulla Terapia Metacognitiva

Per questo motivo è stato scelto di considerare un intervento alternativo, basato sulla Terapia Metacognitiva (Wells, 1997), già mostratasi efficace nei setting gruppali. A partire dal 2013, viene proposto dunque un trattamento metacognitivo, che prevede gli stessi criteri di inclusione. Dal 2013 al 2018 vengono coinvolti 95 pazienti, il 76,8% dei quali era sottoposto anche a un trattamento farmacologico. Gli stessi conduttori hanno quindi cambiato prospettiva, cornice teorica, tecniche di intervento, ma soprattutto modo di concettualizzare il disturbo e i fattori di mantenimento. Gli sforzi maggiori sono stati rivolti a mantenere durante gli incontri l’approccio metacognitivo adottato: diverse ricerche mostrano infatti gli effetti negativi sugli esiti dell’utilizzo di tecniche cognitivo comportamentali e metacognitive insieme.

Il trattamento metacognitivo prevede una puntuale concettualizzazione e familiarizzazione con il modello, l’introduzione della Detached Mindfulness, l’esposizione con concessione della risposta, la discussione di metacredenze di fusione (pensiero-azione, pensiero-evento). Anche in questo caso, i risultati mostrano un ampio effect size (2.89): il 25,3% dei pazienti si definisce migliorato moltissimo dopo il trattamento, il 65.3% migliorato molto e il 9,4% minimamente migliorato. Tra i due gruppi non è stata rilevata differenza significativa nei tassi di drop out (7.4% durante il trattamento metacognitivo, mentre in letteratura i dati si attestano solitamente intorno al 20-25%), nel numero medio di incontri, nel numero di partecipanti per gruppo e nella scala relativa alla soddisfazione del trattamento ricevuto. I dati rilevano inoltre un miglioramento significativamente maggiore nel gruppo che ha ricevuto il trattamento metacognitivo, anche considerando età, sesso, numero di diagnosi, depressione e farmaci.

Allo stesso modo, l’indice di funzionamento risulta significativamente più alto al termine del trattamento nel gruppo MCT, che vede anche una riduzione del numero di pazienti che non rispondono o rispondono solo parzialmente al trattamento.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DALLA CONFERENZA:

Terapia Metacognitiva e l intervento di gruppo per il DOC - Report da Praga IMM 3Imm. 4 – Il team di Studi Cognitivi al 4th International Conference of Metacognitive Therapy di Praga

Terapia Metacognitiva e l intervento di gruppo per il DOC - Report da Praga IMM2Imm. 5 – Il team di Studi Cognitivi al 4th International Conference of Metacognitive Therapy di Praga

 

MCT e Disturbo Ossessivo Compulsivo: i suggerimenti di Costas Papageorgiou

L’intervento di Papageorgiou si conclude con diversi suggerimenti volti massimizzare l’efficacia del gruppo:

  1. Chiarire e puntualizzare i problemi presentati e assicurarsi che le ossessioni siano egodistoniche (diversamente dal rimuginio che nella maggior parte dei casi risulta egosintonico).
  2. Lavorare con un team che condivide formazione, conoscenze e approcci sul trattamento del DOC.
  3. Mantenere un gruppo con una numerosità compresa tra i 4 e i 12 partecipanti.
  4. Seguire in modo puntuale il manuale per il trattamento e chiedere frequenti supervisioni; risulta essenziale assicurarsi a ogni incontro che i pazienti abbiano chiari tutti i punti della concettualizzazione e il razionale degli interventi proposti di volta in volta.
  5. Mantenere un livello metacognitivo nella conversazione (Es. evitare di riferirsi all’intrusione “Ho investito un ciclista?”, ma sottolineare: “Ho avuto il pensiero o l’immagine di aver investito un ciclista”): è importante scegliere un linguaggio appropriato e essere consapevoli di eventuali “cadute” nel livello oggetto, per tornare velocemente al livello metacognitivo.
  6. Condurre più esperimenti comportamentali possibili.
  7. Sfruttare il gruppo per condurre formulazioni e discussioni a livello metacognitivo.
  8. Proporre percorsi di terapia metacognitiva in setting individuale, se necessario, dopo l’intervento di gruppo.

 

Francine Shapiro e la nascita dell’EMDR- Introduzione alla Psicologia

Francine Shapiro è nata a New York, il 18 febbraio del 1948, ed è nota per aver sviluppato la terapia dell’ Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR), un approccio psicoterapeutico in grado di curare i sintomi nelle persone che hanno vissuto un evento traumatico.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Francine Shapiro è laureata in Letteratura inglese alla New York University, e ha conseguito il dottorato in psicologia clinica presso la Scuola professionale di studi psicologici a San Diego, in California.

EMDR: la scoperta di Francine Shapiro

Proprio durante gli anni di dottorato, osservò, mentre passeggiava in un parco, che il movimento degli occhi, da destra a sinistra, agevola la riduzione delle emozioni negative legate a ricordi traumatici. Quindi, muovere gli occhi da destra a sinistra significa, da un punto di vista neuoro-psicologico, agevolare lo scambio di informazioni tra i due emisferi facilitandone la comunicazione.

Partendo da questo presupposto Francine Shapiro sviluppò ulteriori ricerche in ambito neuropsicologico che si conclusero con la pubblicazione di un libro nel 1989. Inoltre, diede vita a un vero e proprio approccio terapeutico molto utilizzato in ambito clinico.

Francine Shapiro è una ricercatrice senior presso il Mental Research Institute di Palo Alto, in California, ed ha ricevuto il premio Distinguished Scientific Achievement in Psychology Award per lo sviluppo dell’ EMDR. Nel 2002 le sono stati riconosciuti i seguenti premio: L’International Sigmund Freud Award for Psychotherapy, il Distincished Scientific Achievement in Psychology Association della California Psychological Award e l’American Psychological Association Division Award per il prezioso contributo dato alla pratica clinica in materia di trauma.

È direttore esecutivo dell’ EMDR Institute di Watsonville, in California, ed è la fondatrice e presidente del programma di assistenza umanitaria EMDR, che offre assistenza e soccorso in caso di calamità e formazione EMDR gratuita ai professionisti di tutto il mondo. Francine Shapiro lavora nella California del Nord come psicologo clinico autorizzato.

L’ EMDR e le conseguenze di un trauma

Francine Shapiro sostiene che quando si subisce un trauma, i ricordi a esso legati non sono completamente elaborati e i ricordi dolorosi a esso collegati possono riemergere alla memoria tramite flashback intrusivi, incubi notturni e ansia, con conseguente messa in atto di evitamenti.

In questi casi entrerebbe in gioco l’ EMDR, che facilita il processo volto ad affrontare il trauma, riducendo il sovraccarico emotivo e consentendo di gestire correttamente i ricordi e i comportamenti che ne derivano.

L’ EMDR si basa da un punto di vista neuropsicologico sul modello di elaborazione adattiva dell’Informazione. Secondo questo paradigma, l’ evento traumatico vissuto dal soggetto è immagazzinato in memoria insieme alle emozioni, percezioni, cognizioni e sensazioni fisiche disturbanti caratterizzanti quel momento. Tutte queste informazioni immagazzinate in modo non adattivo, restano in superficie all’interno delle reti neurali e non si connettono ai ricordi già presenti in memoria. Tali informazioni essendo bloccate, non possono essere elaborate e di conseguenza continuano a provocare disagio nel soggetto, che si può manifestare con un sintomo d’ansia. Tali ricordi non spariscono facilmente, infatti ci sono persone che dopo molti anni dall’evento traumatico soffrono in relazioni a determinati ricordi, compromettendo il proprio benessere.

L’obiettivo dell’ EMDR, dunque, è riattivare il naturale processo di elaborazione delle informazioni presenti in memoria per giungere ad una risoluzione adattiva del trauma attraverso la creazione di nuove connessioni più funzionali. In questo caso, è possibile leggere l’evento disturbante secondo una diversa prospettiva.

L’ EMDR, nello specifico, si focalizza sul ricordo dell’ esperienza traumatica per facilitarne il normale processo di elaborazione. Durante questo percorso si utilizzano i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra per facilitare la comunicazione intra-emisferica volta a elaborare il trauma.

Dopo una o più sedute di EMDR, i ricordi traumatici desensibilizzati, perdono la loro carica emotiva negativa. Il cambiamento è rapido, indipendentemente dagli anni trascorsi dall’evento, i pensieri intrusivi tendono a regredire, le emozioni e sensazioni fisiche perdono intensità e significato.

L’elaborazione dell’ esperienza traumatica, attraverso la desensibilizzazione e la ristrutturazione cognitiva, consentono al paziente di cambiare punto di vista rispetto all’ evento traumatico, considerando nuove credenze relative a se stessi che consentono di formulare emozioni adeguate alla situazione. Tutto questo mira a mettere in atto comportamenti più adeguati al raggiungimento dello scopo.

L’ EMDR, dunque, porta a rievocare l’ evento traumatico senza provare l’emozione negativa, ma integrando il trauma in una prospettiva più adattiva. In questo modo, il paziente attua delle associazioni più adeguate e utili da usare in futuro.

L’EMDR come approccio evidence -based

Francine Shapiro, negli ultimi anni ha dato all’ EMDR diverse evidenze empiriche, al punto che ad oggi risulta un metodo evidence based per il trattamento dei disturbi post traumatici, approvato dall’American Psychological Association (1998-2002), dall’American Psychiatric Association (2004), dall’International Society for Traumatic Stress Studies (2010) e dal nostro Ministero della salute nel 2003. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’agosto del 2013, ha riconosciuto l’ EMDR come trattamento efficace per la cura del trauma e dei disturbi ad esso correlati.

L’efficacia dell‘ EMDR è stata dimostrata per diversi tipi di trauma, sia per il Disturbo da Stress Post Traumatico che per i traumi di minore entità. La ricerca riguardante l’ EMDR mostra la presenza di evidenti cambiamenti neurobiologici che si verificano durante ogni seduta di psicoterapia, rendendo questo approccio terapeutico uno dei percorsi che garantisce un’efficacia neurobiologica. Le scoperte in questo campo confermano l’associazione tra i risultati clinici di questa terapia e alcuni cambiamenti a livello delle strutture e del funzionamento cerebrale.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La guerra fredda tra tratti e schemi ed il futuro della psicopatologia (e dell’AMPD)

Una delle varie versioni sull’origine dell’espressione “guerra fredda” risale ad un articolo di George Orwell scritto dopo la Conferenza di Mosca del 1946 in cui si sanciva l’irreparabile scissione tra blocco americano e sovietico.

 

A fini di puro divertimento teorico, ci verrebbe da dire che l’uscita dell’ICD-11 (2018), dopo le polemiche successive all’uscita del DSM-5 (2013), ha sancito una sorta di guerra fredda tra sostenitori dei modelli sulla personalità basati sui tratti ed i loro avversari, ben rappresentati da coloro che parteggiano per modelli di funzionamento basati su schemi.

Il Dilemma della Diagnosi

Partiamo dal problema centrale. Per quanto la tiriamo per le lunghe con domande e questionari, si arriva al punto di capire se e in che termini formulare una diagnosi e condividerla col paziente. Da un lato infatti sembra impossibile, se non controproducente, abbandonare un linguaggio comune nel parlare di problematiche psicopatologiche (Craddock & Mynors-Wallis, 2014). Dall’altro, la categoria diagnostica è necessariamente vincolata ad un sistema culturale nel quale si definisce e quindi sancisce cosa sia patologico e cosa no (Laing, 1960). Dal nostro punto di vista, tutte le possibili alternative di assessment servono nella misura in cui aiutano il clinico ad una formulazione il più possibile accurata e sensatamente condivisa col paziente stesso del suo funzionamento (Dimaggio, Ottavi, Salvatore e Popolo, 2019).

Ed il funzionamento della personalità è tanto vasto quanto l’esperienza umana e pertanto difficilmente riconducibile a categorie stringenti ed univoche. E qui abbiamo un primo caveat sui tratti (e gli schemi, le dimensioni, i processi, etc.), laddove definiti come ingredienti immutabili e statici.

Le Grandi Sfide Irrisolte del DSM-5 e dell’ICD-11

Nel tentativo di superare il paradigma nosografico categoriale i due maggiori sistemi di classificazione hanno proposto modelli sicuramente non conclusivi. Il DSM-5 (APA, 2014; First, Williams, Benjamin & Spitzer, 2017; First, Skodol, Bender & Oldham, 2018) offre un insieme estremamente variegato di alternative, potendo spaziare dal categoriale classico (le 10 diagnosi di personalità nella sezione II del DSM-5), a tre modelli alternativi di diagnosi presenti nell’Alternative Model of Personality Disorders – AMPD (sezione III del DSM-5) basati rispettivamente sulla scala dimensionale di funzionamento (suddivisa in 1 dominio del sé ed 1 interpersonale), sul sistema dimensionale puro con 5 domini patologici e 25 tratti, ed infine sul categoriale rivisto che prevede solo 6 diagnosi categoriali (schizotipico, narcisista, borderline, antisociale, evitante, ossessivo-compulsivo) lette alla luce dei due precedenti modelli.

L’ICD-11 ha invece optato per un modello presentato come totalmente innovativo, dove però troviamo nelle specificazioni vecchi nomi solo in parte rivisti (l’ossessivo-compulsivo diviene anancastico), ma soprattutto nei pattern definiti per tratti resta in mezzo alle nuove formulazioni il disturbo borderline bellamente invariato (WHO, 2018). Nel caso dell’ICD-11 infatti la diagnosi offre una valutazione del funzionamento diviso in tre categorie di severità (lieve, moderata e severa) più un’immancabile “severity unspecified”. Si definiscono poi 6 tratti o pattern prominenti di personalità di cui 5 (negative affectivity, detachment, dissociality, disinibhition, anakastia) ambiscono a rappresentare dimensioni sovraordinate a diverse sintomatologie, 1 scientemente mantiene immutata (disturbo borderline di personalità).

I tratti per come formulati in particolare nell’ICD-11 sembrano declinati in termini astratti con indicazioni estremamente generaliste (Dimaggio & MacBeth, 2019). Si pensi come ad esempio la definizione di negative affectivity rimandi ad un range di emozioni negative, suscettibilità emotiva e attitudine negativistica. Rispetto alle concettualizzazioni cliniche di uno schema cognitivo-interpersonale (Dimaggio ete al., 2019; Safran & Muran, 2000) le descrizioni offerte lasciano il clinico sprovvisto di un supporto operativo. Quel che sembra evidente è uno scollamento tra un filone di ricerca su base epidemiologica e psicometrica focalizzato sui tratti ed uno su base clinica e descrittiva che converge su schemi cognitivo-interpersonali.

La Guerra Fredda tra Schemi e Tratti

E qui giungiamo alla guerra fredda. Da un lato abbiamo una nutrita schiera di clinici che vanno da Otto Kernberg a Ueli Kramer passando per molti autori nostrani che criticano fortemente le basi teoriche ed applicative del modello a tratti. Tali critiche sembrano corroborate dall’uso nell’ICD-11 di una sorta di labelling volutamente generico non dissimile dalle descrizioni presenti in un studio di analisi fattoriale e quindi ben lontano dalla pratica clinica. Dall’altro lato autori come Cristopher Hopwood e Robert Krueger dedicano da oltre 15 anni un’attenzione costante ad integrare i dati emersi dagli studi psicometrici con modelli clinici raffinati. Se pensiamo ad esempio al razionale dell’AMPD troviamo concettualizzazione ben lungi da riflessioni statistiche come il modello circomplesso di Pincus (2005) ed evolutivo di Blatt (2008).

Il reciproco posizionamento tra questi due opposti schieramenti ricalca un po’ le dinamiche di una guerra fredda e si sviluppa a partire dalla pubblicazione del DSM-5 e dell’ICD-11. Nel 2013, l’APA giunse ad una sorta di concordato tra opposte fazioni che da un lato volevano il mantenimento del vecchio sistema diagnostico, dall’altro propugnavano un nuovo sistema dimensionale, dall’altro ancora chiedevano un maggior peso di modelli clinici piuttosto che statistici. La presenza di fazioni in forte belligeranza portò alla definizione di un modello standard in cui le innovazioni erano minime (sezione II) ed uno innovativo (AMPD; sezione III). La guerra tra schieramenti nella World Health Organization (WHO) ha invece portato a rimandare di mese in mese e di anno in anno l’uscita del nuovo sistema diagnostico erroneamente presentato come risolutivo (ICD-11). La vittoria della fazione dei tratti-sti sugli schemi-sti ha richiesto un costo enorme in termini di chiarezza operativa e di scelte a dir poco politico-diplomatiche: dal mantenimento del disturbo borderline di personalità all’uso di descrittive così vaghe da esser assai poco utilizzabili da un clinico.

Presente e Futuro dell’AMPD

Confessiamo che anche tra le quattro mani che scrivono le idee non sono del tutto concordi! Lasciamo al lettore chi sia a favore dei tratti e chi contro! Su almeno tre punti però pensiamo si possa trovare una base comune per portare avanti la ricerca sulla personalità ed i suoi disturbi.

Studi psicometrici, epidemiologici, psicodinamici, cognitivisti, ‘terzondisti’ ed integrativi sembrano concordare su un punto: è necessario aver ben chiaro un livello di funzionamento globale della personalità da cui partire per effettuare una diagnosi. Non solo, se confrontiamo il modello I dell’AMPD basato sul funzionamento del sé ed interpersonale, con le origini teoriche a cui fa riferimento (Blatt, 2008; Pincus, 2005), con approcci clinici come le psicoterapie metacognitive (Dimaggio et al., 2009; Lysaker & Klion, 2019; Morritz et al., 2011) e con costrutti generali di psicopatologia presenti in tutta la Terza Onda della CBT (e.g. mindfulness; compassion; etc.) non possiamo non scorgere un trait d’union. Per formulare una diagnosi si deve comprendere come la persona si relaziona a se stessa ed agli altri senza troppi preconcetti o stereotipi.

Secondo, a prescindere dalle diverse fazioni e schieramenti, se sleghiamo la formulazione del caso dal vissuto del cliente e dal suo funzionamento, usando label astratti e considerati statici ed immutabili a ben poco servono tratti e schemi. Le componenti di una personalità sono elementi dinamici, in continuo mutamento, per natura transitivi e transitori. Pertanto la diagnosi non è un processo di scoperta di un dato oggettivo, quanto un’osservazione partecipe di un funzionamento al contempo personale ed interpersonale.

Terzo, il sistema diagnostico dell’AMPD offre una buona base di partenza che, per quanto complessa, può favorire sia una formulazione integrata del disturbo, sia l’avvio di ricerche finalizzate a interconnettere quanto già sappiamo con quanto ancora è ben lontano da esser compreso. La complessità di funzionamento della nostra personalità è tale da non poter essere indagata attraverso modelli o prospettive univoche, quanto piuttosto attraverso l’integrazione di paradigmi molteplici (Hopwood, Mulay & Wauhg, 2019). Se pensiamo ad esempio al criterio a, ovvero al modello I dell’AMPD, ne possiamo riconoscere subito la valenza transdiagnostica e transteoretica. Si ipotizza un continuum nel funzionamento di personalità che va da nessuna compromissione ad estrema compromissione (punteggi 0-4), apparentemente affine al modello dell’ICD-11. Diciamo apparentemente perché poi tale livello di gravità si declina lungo 4 domini, che mirano a comprendere se la persona manifesti un mondo psicologico sufficientemente complesso ed integrato. Da un lato il funzionamento del sé si articola nei domini dell’identità (ovvero del poter vivere un’esperienza unitaria di sé) e dell’autodirezionalità (ovvero quanto l’esperienza sia goal-oriented). Dall’altro il funzionamento interpersonale comprende l’empatia (definita come la capacità di comprendere l’altrui esperienza) e l’intimità (definita in termini di profondità e significatività dell’esperienza interpersonale). Possiamo quindi facilmente riconoscere come il criterio a sia originato e quindi facilmente declinabile nei più noti e moderni modelli dei disturbi di personalità (Hopwood, Mulay & Wauhg, 2019). Chiunque sia abituato a trattare con i disturbi di personalità sa che la comprensione del funzionamento passa necessariamente dalla comprensione degli schemi interpersonali, del proprio funzionamento interiore e della propria capacità di agency. E fattori generali ed ampiamente validati come la metacognizione e la mentalizzazione sono facilmente declinabili utilizzando i 4 domini del criterio a dell’AMPD.

Quando la curiosità non uccide il gatto ma riduce l’incertezza

Nonostante la curiosità costituisca un ottimo motore per la messa in atto di un comportamento, poco si sa a proposito di ciò che la determina e del suo rapporto con i processi cognitivi, decisionali e attentivi: cosa infatti ci porta ad essere desiderosi di conoscere qualcosa tralasciando altro?

 

Gli esseri umani così come gli animali, naturalmente e in modo attivo, esplorano l’ambiente e ne raccolgono le informazioni salienti con lo scopo non soltanto di raggiungere i propri obiettivi (seguendo regole e condotte sistematiche goal-directed) ma anche perché mossi e motivati intrinsecamente dalla curiosità, dal puro desiderio di conoscere, semplicemente per svelare e apprendere i meccanismi nascosti della realtà in cui vivono, senza che vi sia l’utilizzo di incentivi strumentali cioè di informazioni che possono essere sfruttate per massimizzare le ricompense (Gottlieb & Oudeyer, 2018).

Questo processo, per il quale la persona continua ad essere intrinsecamente motivata a imparare e a raccogliere informazioni non strumentali per raggiungere obiettivi autogenerati, attrattivi di per sé anche quando le ricompense sono rare, non conosciute o assenti, permette all’ “agente” di scoprire una serie di effetti che egli può produrre nell’ambiente fungendo da trampolino di lancio per ulteriori scoperte, costituendo il meccanismo del “del cosa nasce cosa” che è parte integrante dell’esplorazione motivata dalla curiosità (Kaplan & Oudeyer, 2007).

Nonostante la curiosità costituisca un ottimo motore per la messa in atto di un comportamento, tuttavia poco si sa a proposito di ciò che la determina e del suo rapporto con i processi cognitivi, decisionali e attentivi: cosa infatti ci porta ad essere desiderosi di conoscere qualcosa tralasciando altro?

Cosa guida la curiosità: uno studio sperimentale

Il recente studio di Kobayashi, Gottlieb, neuroricercatrice capo allo Zuckerman Institute della Columbia University e Woodford del dipartimento di economia della Columbia (2019), pubblicato su Nature Human Behaviour, mostra come la curiosità sia un fenomeno estremamente eterogeneo e che le persone curiose si distinguono tra di loro nella misura in cui richiedono le informazioni: alcuni per ridurre a priori l’incertezza, altri per conoscere a priori il valore di un premio individuale.

Combinando in modo interdisciplinare modelli economici e tecniche di brain-monitoring, lo studio suggerisce come all’origine della raccolta motivata da curiosità delle informazioni vi sia soprattutto il pregustare, l’anticipazione di un’eventuale ricompensa evitando al contempo conseguenze negative (Gottlieb, Woodford et al., 2019).

Nel dettaglio, per cercare di comprendere quale teoria, finora proposta per la curiosità umana, fosse in grado di descriverla nel modo migliore e comprendere quindi come un qualsiasi agente selezionasse le informazioni utili, tra l’enormità a disposizione nell’ambiente esterno e in continua competizione tra di loro, i ricercatori dello studio citato poc’anzi hanno ideato un compito sperimentale di tipo economico-decisionale in cui circa 260 soggetti si trovano ad operare una scelta tra due lotterie.

Le due lotterie, mostrate ai soggetti, differivano tra loro sia in termini di valore atteso (la somma che alla fine avrebbe guadagnato il soggetto) sia di incertezza circa l’eventuale guadagno (alcune lotterie erano ad alta, altre a bassa incertezza circa il guadagno finale): i soggetti sperimentali erano infatti all’oscuro del valore monetario preciso dei premi estratti tra le due lotterie. I partecipanti, che erano stati addestrati a selezionare una lotteria, erano unicamente al corrente del fatto che a seguito della loro scelta un computer avrebbe poi tratto in modo uniforme ma casuale un premio finale sommando i premi da ciascuna lotteria e l’avrebbe pagato loro. Gli sperimentatori hanno potuto così osservare come questi, sulla base delle informazioni a disposizione, andavano a selezionare quelle informazioni per loro utili al fine di risolvere l’incertezza circa il premio individuale della lotteria da loro scelta, senza però sapere quale sarebbe stato il valore preciso da aggiungere alla loro ricompensa proveniente dall’altra lotteria. Alla fine del trial, dunque ogni partecipante ha ricevuto una ricompensa determinata dalla sorte.

La manipolazione sperimentale del valore atteso e dell’incertezza circa il reward finale delle due lotterie ha consentito ai ricercatori di differenziare e isolare due potenziali motori per la scelta della persona: in primis il desiderio, la curiosità di ridurre l’incertezza circa il valore esatto del premio finale, e in secondo luogo il desiderio di conoscere solo il valore del loro premio individuale selezionando la lotteria con una ricompensa più alta prescindendo dal fine di ridurre la loro incertezza sul valore del guadagno totale delle due lotterie.

I risultati dello studio di Gottlieb, Woodford e colleghi (2019) hanno mostrato come le scelte delle persone e di conseguenza i loro comportamenti siano determinati sia dalla volontà di ridurre l’incertezza generando accurate predizioni circa l’outcome futuro sia dalla cosiddetta “utilità anticipatoria” osservata soprattutto in quei soggetti che privilegiavano le lotterie con alto reward ma maggiormente incerte, indipendentemente dalle loro previsioni sul guadagno che avrebbero potuto ricavare da esso (van Lieshout, Lange, Cools, 2019).

Questo studio corrobora una recente ricerca di Charpentier e colleghi (2018) che metteva in luce la tendenza dei partecipanti ad incuriosirsi per quelle informazioni più legate ad outcome futuri desiderabili, quali le ricompense, senza interessarsi e quindi a tralasciare quelle informazioni che avrebbero predetto una perdita, nel momento stesso in cui incominciavano a pregustare una vincita.

Conclusioni

Il punto di forza del presente studio risiede soprattutto nell’aver sottolineato, attraverso uno studio ben controllato e accurato dal punto di vista metodologico, la grande eterogeneità e variabilità individuale nel grado in cui le persone esibiscono specifici meccanismi di selezione delle informazioni rilevanti nell’ambito dei meccanismi determinanti la curiosità, dal momento che è apparso evidente come le persone tendano ad utilizzare una strategia piuttosto che un’altra o un mix delle due.

Tuttavia i ricercatori evidenziano come ancora non sia chiaro se la riduzione dell’incertezza costituisca attivamente il “motivatore” oltre che della curiosità anche della risoluzione di stati per noi avversivi: se così fosse infatti la nostra motivazione nel ridurre l’incertezza potrebbe essere una funzione, una credenza circa la probabilità che tale incertezza venga poi risolta (van Lieshout, Lange, Cools, 2019).

4th International Conference of Metacognitive Therapy – Prima giornata – La sessione Open Papers sulla Terapia Metacognitiva e le problematiche relazionali

La prima giornata del quarto convegno internazionale di Terapia Metacognitiva, organizzato dall’MCT Institute a Praga si apre con una sessione Open Papers dedicata all’applicazione della Terapia Metacognitiva ai problemi interpersonali, un tema non ancora approfondito dalla ricerca ed esposto per la prima volta in questo congresso.

Il primo lavoro viene presentato da Louise Horne, professionista dell’Ashworth High Secure Hospital, una delle tre strutture ospedaliere inglesi per pazienti che necessitano di cure e trattamenti in condizioni di specifica sicurezza. Nel suo lavoro, la dr.ssa Horne presenta il caso di un paziente con delirio somatico resistente al trattamento e a rischio elevato. Il delirio di tipo somatico, afferma la Horne, viene spesso difficilmente diagnosticato e confuso quindi con il disturbo schizoide, la dipendenza da sostanze, il disturbo antisociale (specie nel caso di specifiche condotte dei pazienti) o la dismorfofobia. Nel caso presentato (A.B.), il delirio riguardava la convinzione del paziente di avere un pene di dimensioni eccessivamente ridotte. A questa convinzione delirante, presente fin dall’adolescenza, si sono affiancati poi numerosi eventi di vita negativi, tra cui episodi di bullismo subito e diverse aggressioni negli anni, che hanno verosimilmente favorito l’insorgenza di comportamenti maladattivi e, di conseguenza, accuse a carico del paziente. Ricoverato a 55 anni, A.B. era stato sottoposto a diversi trattamenti farmacologici e psicoterapici, tra cui la terapia cognitivo comportamentale per psicosi, per dismorfofobia e Schema Therapy. La dr.ssa Horne ha proposto al paziente di intraprendere un trattamento metacognitivo utilizzando il modello per il Disturbo d’Ansia Generalizzata, dove il focus del trattamento è posto sul rimuginio, concettualizzato come strategia di coping disfunzionale in risposta a pensieri negativi. Dopo il trattamento, durato 10 sedute, A.B. mostrava una riduzione nelle misure di ansia e rimuginio, nelle preoccupazioni legate al delirio somatico e nella ruminazione, mentre si riscontrava un miglioramento del tono dell’umore. Parallelamente, A.B. ha ridotto i comportamenti di evitamento dei contesti sociali, abbandonando comportamenti di sicurezza (es. ipervigilanza nei confronti degli altri) che potevano creare criticità a livello interpersonale. I risultati risultano mantenuti a un anno di follow up, gettando una prima base per l’applicazione di trattamenti Terapia Metacognitiva per i disturbi deliranti.

La seconda relazione viene presentata dalla dr.ssa Pia Callesen, terapeuta MCT che opera in libera professione in un centro privato in Danimarca. Nel suo lavoro illustra tre casi singoli di pazienti con disturbo bipolare (episodio depressivo attuale) seguiti con un percorso di terapia metacognitiva. Nel presentare la letteratura sul tema, la dr.ssa Callesen evidenzia come già nel 2014, uno studio di Sarisoy e collaboratori ha evidenziato la presenza di credenze metacognitive maladattive in soggetti con disturbo depressivo maggiore e disturbo bipolare in modo significativamente maggiore rispetto al campione non clinico. Nei casi clinici presentati, viene proposto un trattamento di 7/9 sedute di 45 minuti, con follow up a sei mesi, a pazienti con diagnosi primaria di disturbo bipolare che non avessero ricevuto altri trattamenti per l’episodio attuale. Tutti i pazienti coinvolti erano ricorsi a diversi trattamenti – soprattutto di tipo farmacologico – per gli episodi precedenti. Il trattamento proposto si basava sull’intervento Terapia Metacognitiva per il Disturbo Depressivo Maggiore, ponendo tuttavia grande attenzione a quella che viene definita “ruminazione positiva” – definita come uno stile di pensiero perseverante che caratterizza gli stati maniacali e che viene utilizzato come strategia di evitamento rispetto agli stati depressivi. Tale “ruminazione positiva” sembra infatti sostenuta anch’essa da specifiche metacredenze e, nel tempo, risulta percepita come estremamente faticosa e stressante dai pazienti coinvolti. I risultati raggiunti, che mostrano un miglioramento significativo dei sintomi depressivi, nella ruminazione e nelle metacredenze, risultano mantenuti al follow up, che verrà ripetuto anche nei prossimi mesi.

L’ultima presentazione di questa sessione Open Paper è uno studio sul ruolo delle metacredenze nei problemi interpersonali, considerate al netto dei livelli di distress emotivo, stile di attaccamento e tratti di personalità del modello Big Five. I problemi interpersonali implicano infatti continue sfide nelle relazioni sociali e spesso determinano processi di ruminazione sui torti subiti, sugli errori commessi, sulla paura di essere rifiutati e sulla sensazione di essere umiliato o sopraffatto dagli altri. I fattori che determinanno i problemi interpersonali sono stati da sempre indagati nei tratti di personalità, che rappresentano elementi stabili e significativi dell’individuo. In particolare, alti livelli di nevroticismo e apertura, affiancati a bassi livelli di estroversione, gradevolezza e coscienziosità sono associati a distress emotivo. Un ulteriore fattore investigato nei problemi interpersonali è lo stile di attaccamento, che dalla letteratura risulta maggiormente predittivo di criticità relazionali rispetto ai tratti personologici (Noftle et al., 2006). La ricerca presentata utilizza un disegno cross sectional, che ha previsto la somministrazione di strumenti self report a 291 partecipanti. Le analisi dimostrano che anche le metacredenze, indagate con l’MCQ (Metacognitive Questionnaire), hanno un ruolo nel determinare criticità interpersonali, controllando per le variabili sopra esposte e già note in letteratura. L’unica metacredenza non significativa sembra essere il bisogno di controllo dei pensieri, che non spiegherebbe tali difficoltà. Questo primo studio apre le porte a un altro filone di ricerca, volto a approfondire come le metacredenze possano essere una fonte di cambiamento nei problemi relazionali.

DSA e adolescenza: le difficoltà scolastiche incidono sulla costruzione identitaria?

Cosa accade quando l’adolescente, messo di fronte alla possibilità di non sapere e di non poter controllare il proprio futuro, deve anche fare i conti con difficoltà scolastiche più o meno marcate che diventano parte di questa nuova identità ancora indefinita quanto necessaria?

Graziana Marra

 

La dislessia è parte della persona e il modo in cui la società contemporanea la considera ha una grande influenza su una persona dislessica. La diagnosi di dislessia può fornire una forma di identità, determinata dalla sua costruzione sociale. (Tassie, 2010; trad. it. In Tagliani, 2017)

Se è vero che la scuola rappresenta uno degli ambiti di vita più importanti per gli studenti, lo è forse a maggior ragione per gli adolescenti.

DSA..in adolescenza

La scuola secondaria di secondo grado costituisce un palcoscenico sul quale si richiede agli allievi di mettere in gioco non solo abilità e prestazioni, ma anche la propria personalità (Bertagna, 2007). Rispetto ai compiti evolutivi dell’adolescente, già chiamato ad attivarsi nella costruzione di una nuova immagine di sé mentale e corporeo, la scuola influisce sulla ridefinizione dell’identità di studente.

I contenuti disciplinari sono ora oggetto di operazioni mentali complesse (processi di astrazione, ragionamento deduttivo, problematizzazione, ecc…) diventando pertanto occasione di rielaborazione personale delle conoscenze. Lo studente è spinto a dire la sua, ad esporsi nel proporre il suo personale punto di vista, a porre quesiti e fare ipotesi, a confrontarsi con compagni e docenti. Le richieste della scuola spingono inevitabilmente lo studente a considerare obiettivi a lungo termine legati a scelte personali e professionali: la scuola superiore diventa luogo di aspettative per il futuro, costituisce un ponte che sollecita il passaggio dalla famiglia alla società. Cosa farò da grande? Per cosa sono portato? Cosa so fare? Andrò all’università? Che lavoro mi piacerebbe fare? Tra quali alternative posso scegliere? Posso davvero scegliere chi diventare?

Incognite che possono mettere in crisi, paradossalmente, quello stesso percorso di costruzione identitaria che la scuola cerca di sostenere, alimentare ed arricchire.

DSA: se la diagnosi arriva in adolescenza

Restringiamo ora questa riflessione su di un fenomeno in crescita negli ultimi anni, rappresentato dalla richiesta di valutazioni per una prima diagnosi di DSA (Disturbo Specifico dell’Apprendimento) durante la fase adolescenziale. Chiedendoci: cosa accade quando l’adolescente, messo di fronte alla possibilità di non sapere e di non poter controllare il proprio futuro, deve anche fare i conti con difficoltà scolastiche più o meno marcate che diventano parte di questa nuova identità ancora indefinita quanto necessaria?

Cosa accade quando

[…] la confusione che la mente dell’adolescente genera per realizzare la propria personale rivoluzione viene ulteriormente alimentata da un’obiettiva difficoltà a leggere e interpretare i fenomeni del mondo, e in particolare gli stimoli provenienti dall’ambiente scolastico? (Tagliani, 2017 – pag.117).

Diversi sono i clinici che negli ultimi tempi si occupano di comprendere i molteplici aspetti legati alla richiesta di un percorso valutativo per una possibile diagnosi di DSA alla scuola superiore. È importante chiedersi quale significato tale richiesta possa avere come parte del processo identitario dell’adolescente, tenendo conto che spesso certe difficoltà scolastiche (molto probabilmente pregresse o, in certi casi, negate) vengano in qualche modo compensate negli anni della scuola primaria e secondaria di primo grado ma che oggi, di fronte a maggiori richieste didattiche ed evolutive vadano completamente disvelandosi.

DSA: i numeri sulle diagnosi in Italia

Secondo i dati diffusi nell’aprile del 2018 dall’Ufficio Statistica e Studi del MIUR, nell’anno scolastico 2016/2017 le diagnosi di DSA nella scuola secondaria di II grado hanno raggiunto il 4% sul totale della popolazione studentesca frequentante. In due anni, ovvero fra A.S. 2014/15 e A.S. 2016/17, la percentuale di studenti con certificazione DSA nella scuola secondaria di II grado è cresciuta del 1.5%. “Effetto di accumulo” dovuto a una più lunga permanenza nella scuola superiore? Effetto della progressiva riduzione del fenomeno dell’abbandono scolastico rispetto al passato, senza dimenticare l’accresciuta capacità del personale docente di individuare correttamente i casi sospetti e avviarli all’iter di certificazione? (AID Italia).

Quali che siano i fattori che incidono più o meno sul fenomeno, è comunque significativo che il percorso psicodiagnostico per sospetto DSA alle superiori non soltanto è generalmente accettato di buon grado dai ragazzi, ma addirittura spesso sono loro stessi a richiederlo ai propri genitori. Non sempre l’iter valutativo conduce ad una diagnosi: molto spesso infatti ciò che viene rilevato ha a che fare con difficoltà aspecifiche, non inquadrabili all’interno di un disturbo. In ogni caso, la possibilità di dare un nome o di assegnare un’etichetta alle proprie fatiche potrebbe dare risposta a dubbi e domande sulle proprie capacità e sul proprio senso di autoefficacia.

L’adolescente vuole vederci chiaro e sapere chi veramente è (Pietropolli Charmet, 2010), provando a farsi largo nel caos delle sue contraddizioni. Confronta sé stesso, i propri limiti e le proprie risorse con i coetanei e con l’immagine di sé che essi gli rimandano. La diagnosi d’altra parte spiegherebbe i motivi delle proprie difficoltà e aiuterebbe a percepirsi al pari degli altri coetanei. Cosa vuol dire in questo caso essere dislessico? Essere diverso o svantaggiato? Oppure, paradossalmente, legittima questa diversità proteggendo la propria autostima? Il DSA colloca al di fuori di sé problemi e difficoltà, non chiama (apparentemente) in causa fatiche emotive e relazionali. Mette d’accordo tutti: lo studente, la famiglia, la scuola. I genitori sono spesso sollevati alla notizia che il/la figlio/a presenti un disturbo o una difficoltà dell’apprendimento, poiché rende meno difficile il confronto con le attuali problematiche che chiamano in causa le ansie e le preoccupazioni relative alla realizzazione e al successo dei figli. I professori dal canto loro possono sentirsi confortati dalla possibilità di ricorrere a modalità didattiche e valutative in grado di raggiungere anche quegli studenti più “difficili” e superare il senso di frustrazione derivante dalla preoccupazione di non saperli aiutare.

Sembra proprio che l’adolescenza dei figli costringa in una certa misura anche i genitori a fare i conti con il riconoscimento dei propri limiti, con l’elaborazione del fallimento generato da conflitti e tensioni e con l’accettazione della perdita di quel

bambino che [il proprio figlio] non potrà più essere (Tagliani, 2017).

I docenti a loro volta sono chiamati a confrontarsi quotidianamente con ragazzi e ragazze alla ricerca di un modello di riferimento che al contempo non li metta in discussione nella loro spinta verso il diventare grandi. Del resto, i cosiddetti strumenti compensativi e le misure dispensative, se non vengono usati difensivamente come scorciatoie, possono diventare occasione per trovare modi sempre nuovi di conoscere il mondo e sé stessi.

Genitori e docenti affrontano la sfida di provare a porsi come adulti autorevoli non giudicanti, svolgendo una duplice funzione: di presenza e di confronto. Nel tentativo di supportare il delicato e complesso passaggio di crescita che l’adolescente, a prescindere dalla presenza di difficoltà o disturbi, è comunque chiamato a percorrere. Non è la diagnosi a definire l’identità dell’adolescente: esperienze e relazioni significative possono fare la differenza.

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